Sei sulla pagina 1di 95

Empirismo e scienza: il crocevia del diritto

internazionale nella prima metà dell’Ottocento 1

1. Il paradosso dell’uguaglianza delle Nazioni


nella prima metà dell’Ottocento
Gli straordinari eventi politici succedutisi tra Rivoluzione americana e fran-
cese e tra affermazione e tramonto dell’Impero napoleonico avevano impresso
una considerevole accelerazione alla dottrina del diritto delle genti e, secondo
molti autori del tempo, messo in discussione principii giuridici tradizional-
mente consolidati e equilibri politici faticosamente costruiti nel corso dei
secoli.
Dal punto di vista precipuamente politico, come è ben noto, con il Con-
gresso di Vienna e la Santa Alleanza erano state poste le basi di un nuovo
ordine internazionale diretto di concerto dalla pentarchia degli Stati europei
decisi a sostenersi a vicenda nel controllo sui destini del mondo intero e sulla
stabilità dei rispettivi ordinamenti interni. 2 L’Europa egemone si sentiva
arbitra dei destini dei cinque continenti, che controllava più o meno diretta-
mente anche attraverso le colonie.
L’equilibrio raggiunto tra il 1815 e il 1818, tuttavia, fu subito messo in crisi
non soltanto dalla lotta per il primato tra quelle potenze, ma anche dal

1 Le ricerche per la pubblicazione di questo testo sono state svolte nel 2009 in
Berkeley presso la Robbins Collection, School of Law (Boalt Hall) University
of California, grazie all’invito del suo Direttore Laurent Mayali, Lloyd M.
Robbins Professor of Law, al quale desidero esprimere la mia gratitudine.
2 Come ricostruito con accenti fortemente critici dall’Heffter, l’atto finale del
congresso di Vienna, durato dal 1 novembre 1814 al 25 maggio 1815,
celebrato il 13 giugno dello stesso anno coinvolse Austria, Francia, Gran
Bretagna, Portogallo, Russia, Prussia e Svezia; l’atto fondativo della Santa
Alleanza e della Pentarchia risale al 26 settembre 1815 (Auguste G. Heffter,
Le droit international public de l’Europe, traduit sur la 3. ed. de l’original
allemand et augmentée d’un tableau politique de l’Europe, des nouveaux
traités et de la jurisprudence française par Jules Bergson, Berlin: Schroeder,
Paris: Cotillon 1857, pp. 474–475).

Claudia Storti 51
sorgere delle questioni “nazionali”, dall’inasprimento dei rapporti con
l’Impero ottomano, dalle ripercussioni provocate nei rapporti tra gli Stati
europei dall’insurrezione delle colonie spagnole e portoghesi nell’America
latina, mentre il problema della schiavitù diventava a sua volta un tema
cruciale di dibattito nell’ambito della dottrina giusinternazionalistica. 3
A quel tempo, inoltre, per studiosi, statisti e diplomatici, i principii del
diritto delle genti valevano soltanto per le questioni relative alle nazioni
cristiane e “civilizzate” dell’Europa alle quali si erano aggregati gli Stati Uniti
d’America. Tale opinione risaliva ai padri del diritto delle genti ed era stata,
per così dire, positivizzata nel trattato di Utrecht del 1713 tra Francia e
Inghilterra con la stipulazione di una pace che intendeva garantire «christiani
orbis justo potentiae equilibrio». Le altre nazioni, che cristiane e civili non
erano, o delle quali non si avevano se non cognizioni incerte – anche a causa
della loro resistenza ad uscire dall’isolamento, come era, ad esempio, il caso
della Cina – erano escluse non solo dalla produzione, ma anche, di norma,
dall’applicazione di tali regole ed erano eventualmente soggette – secondo
l’approfondita recente ricerca di Luigi Nuzzo alla quale per tali aspetti rinvio
– «ai principi universali di giustizia del vecchio diritto naturale». 4

3 Una sintesi efficace e “a caldo” dei problemi che agitarono l’Europa tra 1815 e
1861 si trova in Henry Wager Halleck (1815–1872), International Law or
Rules regulating the Intercourse of States in Peace and War, San Francisco: H.
H. Bancroft & Company 1861, che ho potuto consultare nella più tarda
edizione di Baker Sherston (1846–1923), Halleck’s International Law or
Rules regulating the Intercourse of States in Peace and War, fourth Edition
thoroughly revised and in many parts rewritten by Sir G. Sherston Baker,
judge of County Courts, recorder of Barnstaple and Bidefors, Associate of the
Institut de droit International, assisted by Maurice N. Drucquer Barstow,
Scholar, of the Middle Temple, Barrister at Law, vol. I, London: Kegan Paul,
Trench, Trübner & co. Ltd., 1908, pp. 28–35. Cfr. inoltre Andrea Rapisardi
Mirabelli, Storia dei trattati e delle relazioni internazionali, (Istituto per gli
Studi di Politica Internazionale, Manuali di politica internazionale 21), Milano
1940, pp. 178–193 e id., Le congrès de Westphalie. Ses negociations et ses
resultats au point de vue de l’histoire du droit des gens (ouvrage couronné par
la Faculté de Droit de l’Université de Leyde, Prix du Legatum Visserianum,
1926), in: Bibliotheca Visseriana Dissertationum Ius internationale illustran-
tium, t. VIII, XX, Lugduni Batavorum, apud E. J. Brill 1929, pp. 12–14. Per
quanto concerne le premesse fisiocratiche del dibattito ottocentesco sulla
schiavitù cfr. ora, anche per i riferimenti bibliografici, Pernille Røge, The
Question of Slavery in Physiocratic Political Economy, in: Governare il mondo.
L’economia come linguaggio della politica nell’Europa del Settecento, a cura di
Manuela Albertone, Milano: Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 2009,
pp. 149–169.
4 Luigi Nuzzo, Un mondo senza nemici. La costruzione del diritto inter-
nazionale e il controllo delle differenze, in: Quaderni fiorentini 38 (2009),

52 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Tali considerazioni, corrette se si guarda alle trattazioni dottrinali e alle
dichiarazioni di principio, appaiono, almeno in parte, smentite dal diritto
convenzionale e dalla prassi, nei quali, invece, di tempo in tempo, le
distinzioni non furono, forse, così nette. Per quanto concerne, in particolare,
l’Impero ottomano, segni di mutamento si erano manifestati da più di un
secolo. Dopo la sconfitta subita a Vienna del 1683, la crisi economica,
commerciale e militare e il suo arretramento dai territori dell’Europa cen-
tro-orientale avevano favorito la condivisione da parte della Sublime Porta di
regole del diritto delle genti comuni a quelle dei paesi del concerto europeo
nonché una certa distensione dei rapporti, anche attraverso una cospicua serie
di trattati e capitolazioni, che culminò, dopo la guerra di Crimea, con il
trattato di pace di Parigi del 1856. Come è stato rilevato da Giorgio Conetti
con riguardo a talune stipulazioni diplomatiche del Settecento, clausole,
sicuramente di stile, ma non per questo meno significative, contenenevano
richiami alla gloria, alla volontà, all’aiuto di Dio e la concezione di un Dio
comune ai diversi popoli fu probabilmente intesa come «superamento della
radicale differenziazione e contrapposizione tra gli Stati cristiani e Impero
ottomano su fondamenti religiosi, che portava alla esclusione di quest’ultimo
dalla comunità degli Stati europei e dal suo sistema di diritto delle genti». 5 In
ogni caso su questo punto la posizione degli Stati europei fu indubbiamente
molto discontinua tanto è vero che, secondo quanto sostenuto dal Bluntschli,
l’Impero ottomano sarebbe stato escluso dal tavolo delle trattative di Vienna
proprio per motivi di religione. 6 La Turchia ebbe, infine, una parte, dopo la
guerra di Crimea, nel trattato di Parigi del 1856. 7

pp. 1311–1381; il riferimento è a p. 1312. Base di discussione degli studi più


recenti rimane l’opera di Carl Schmitt, Il nomos della terra (1950), Milano:
Adelphi 42006, pp. 161–224 (III Jus publicum europaeum). Una sintesi efficace
dei problemi affrontati sul piano della determinazione delle regole nelle
relazioni tra Europa ed Estremo Oriente sulla fine del XIX secolo in Quincy
Wright, The legal Background in the Far East, in: Legal problems in the Far
Eastern Conflict, New York: International Secretariat. Institute of Pacific
relations 1941, pp. 1–125.
5 Rinvio per questo aspetto della storia dei rapporti tra Europa e Impero
ottomano a Giorgio Conetti, Il trattato di amicizia, commercio e naviga-
zione tra l’Impero Ottomano e il Regno delle Due Sicilie del 7 aprile 1740, in:
Studi in memoria di Giambattista Impallomeni, Milano: Giuffrè 1999,
pp. 123–132, il testo riportato nella citazione è alle pagine 129–130 e cfr.
anche oltre n. 169.
6 Johann Kaspar Bluntschli, Le droit international codifié, par Bluntschli
docteur en droit, professeur ordinaire à l’Université d’Heidelberg, membre de
la première chambre du grand Duché de Bade, député au parlement douanier
allemand, correspondant de l’Académie des sciences morales et politiques,
traduit de l’allemand par C[harles] Lardy docteur en droit, premier Secrétaire

Claudia Storti 53
Dal punto di vista della dottrina, invece, come già al tempo del-
l’“invenzione” del diritto delle genti quale ramo speciale del diritto tra Cinque
e Seicento, 8 si riproposero nell’Ottocento e in un mondo che già si sentiva, per
così dire, globalizzato, 9 i dibattiti che avevano connotato la formazione delle
teorie dei padri del ius gentium, sia con riguardo al metodo per la formazione
di tale diritto, sia con riguardo ai rapporti tra diritto naturale e diritto inter
nationes. 10 In particolare, la denuncia dei rischi insiti nella sottovalutazione

de la légation suisse à Paris et précédé d’une préface par Édouard Laboulaye,


Paris: Librairie de Guillaumin 1870, p. 17, che si può vedere anche nella II
edizione del 1874 e nella terza Le droit international codifié par M. Bluntschli
docteur en droit, professeur ordinaire à l’université d’Heidelberg, correspon-
dant de l’Académie des Sciences morales et politiques, traduit de l’allemand par
M. C. Lardy, docteur en droit, conseiller de la Légation de Suisse en France,
IIIème édition revue et très augmentée, Paris: Librairie Guillaumin et Cie 1881,
in part. p. 18.
7 Cfr. da ultimo, anche per i riferimenti bibliografici Eliana Augusti, La
Sublime Porta e il trattato di Parigi del 1856. Le ragioni di una parte-
cipazione, in: Le Carte e la Storia 14/I (2008), pp. 159–159.
8 Italo Birocchi, Il De iure belli e l’“invenzione” del diritto internazionale, in:
Ius gentium ius communicationis ius belli. Alberico Gentili e gli orizzonti della
modernità. Atti del Convegno di Macerata in occasione delle celebrazioni del
quarto centenario della morte di Alberico Gentili (1552–1608) Macerata 6–7
dicembre 2007, a cura di Luigi Lacché, (Centro Internazionale di Studi
Gentiliani), Milano: Giuffrè 2007, pp. 106–107; Diego Quaglioni,
Introduzione, in: Alberico Gentili, Il diritto di guerra (De iure belli libri
III, 1598), Introduzione di D. Quaglioni, Traduzione di P. Nencini, Apparato
critico a cura di G. Marchetto e Ch. Zendri, Milano: Giuffrè 2008, pp. IX–
XXXVI, in part. pp. XXX–XXXI. A questi testi rinvio per la citazione della
bibliografia anteriore. Per un’ampia revisione delle origini del diritto delle genti
in connessione con i principi della sovranità e con la specificazione delle
discipline connesse cfr. Michael Stolleis, Ius belli ac pacis und der früh-
moderne Staat, in: Ins Wasser geworfen und Ozeane durchquert, hrsg. M.
Ascheri, F. Ebel, M. Heckel, A. Padoa-Schioppa, W. Pöggeler, F. Ranieri
und W. Rütten, Köln: Böhlau 2003, pp. 993–1007. Sull’attualità del pensiero
di Alberico Gentili cfr. i saggi di Maria Rita Saulle, Giorgio Conetti,
Carlo Focarelli, Alexis Moulle, Giuseppe Palmisano, Serge Sur,
Alessandra Pietrobon in: La crisi del disarmo nel diritto internazionale.
Nel quarto centenario della morte di Alberico Gentili, XIII Convegno Roma
26–27 giugno 2008, a cura di Sergio Marchisio, (Società Italiana di Diritto
Internazionale), Napoli: Editoriale Scientifica 2009.
9 Così anche in Del diritto internazionale. Lezioni del professore Ludovico
Casanova ordinate dall’Avvocato Cesare Cabella, vol. I–II, Genova: Stabili-
mento Tipografico de Lodovico Lavagnino 1858, pp. 58 ss., in part. p. 61.
10 Come rilevò Alberico, senza un metodo «non si potrà istituire un altro diritto, e
meno che mai questo, che si ritiene debba essere naturale e certo», Alberico
Gentili, Il diritto di guerra (n. 8), lib. I, cap. I Del diritto delle genti bellico, (Il

54 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


del complesso di regole razionali universali, che avrebbero potuto e dovuto
improntare i rapporti tra i popoli e favorire la soluzione dei conflitti, riaffiorò
con forza rispetto all’eredità settecentesca di opere che, diversamente, aveva-
no riservato una considerevole centralità alla pratica delle diplomazie: tra le
più celebri, quella di Vattel. 11 Proprio a quest’ultimo, come ben noto, era
andata la palma del successo anche nei paesi di lingua inglese per la
tempestiva traduzione londinese del 1759–1760, seguita da ristampe e da
una lunga serie di edizioni statunitensi a partire da quella di New York del
1796. 12
Il contributo che qui si pubblica costituisce il risultato ancora provvisorio
di una ricerca che dovrebbe assumere un ben più ampio respiro. Si è cercato di
seguire, ove possibile, l’intreccio delle idee – e i percorsi della loro circolazione
– che ebbero successo, ora maggiore ora minore, nella riflessione politica e
scientifica del primo Ottocento, in parte ancora debitrice verso i grandi
sistemi delle “origini” del diritto delle genti, in parte alla ricerca di strumenti
nuovi per affrontare le sfide dell’attualità. Nelle loro incertezze e aspetti più
problematici, tra ansia di rinnovamento scientifico e insuperabili ostacoli di
natura politica, gli scritti di quel periodo sono forse meno noti rispetto a quelli
dell’epoca successiva in quanto oscurati dai grandi progressi che negli ultimi
trent’anni dell’Ottocento inaugurarono la vera e propria dimensione scienti-
fica del diritto internazionale con la fondazione dell’Institut de droit inter-
national di Gand.

diritto di guerra p. 5 [4], p. 5 = De iure belli by Th. E. Holland, e


typographeo Clarendoniano, Oxonii 1877), p. 1x.
11 Emer Vattel (1714–1767), Le droit des gens, ou principes de la loi naturelle,
appliqués à la conduite & aux affaires des nations & des souverains (del 1752),
nouvelle édition augmentée, Neuchatel: imprimerie de la société typographique
1773. Cfr. anche Henry Wheaton, Histoire des progrés du droit des gens en
Europe et en Amérique depuis la paix de Westphalie jusqu’à nos jours, 11841,
Leipzig: Brockhaus 21846 (dal quale si cita), vol. II, pp. 366–367 e Eugenio
Di Rienzo, Il ritorno della «guerra giusta». Da Vattel a Clausewitz: crisi e
catastrofe dello «ius publicum europaeum» (del 1950), Milano: Adelphi 1991,
pp. 179 ss.; Id., Guerra civile e “guerra giusta” dall’antico regime alla rivolu-
zione, in: Pace e guerra nella cultura italiana ed europea del Settecento, in:
Studi settecenteschi 22(2002), pp. 41–74.
12 Emerich de Vattel, The law of nations, or, Principles of the law of nature
applied to the conduct and affairs of nations and sovereigns, London: Printed
for J. Newbery, J. Richardson, S. Crowder, T. Caslon, T. Longman, B. Law, J.
Fuller, J. Coote, and G. Kearsly 1759–1760. id., 1st American ed., corr. and
rev. from the latest London ed., New York: printed and sold by Samuel
Campbell 1796; successivamente Northampton, (Mass.): printed by T. M.
Pomroy for S. & E. Butler 1805; Philadelphia: A. Small 1817; Northampton,
Mass.: S. Butler 1820; Philadelphia: P. H. Nicklin and T. Johnson 1829 ecc.

Claudia Storti 55
I diversi rivoli del dibattito sul diritto internazionale nella prima metà
dell’Ottocento danno l’impressione di trovarsi in una vera e propria palestra.
In questa palestra, docenti universitari e diplomatici, soprattutto, ma anche
alcuni giudici, ciascuno ispirato dalle esigenze dei rispettivi rami di attività –
l’insegnamento o la politica, e in certi casi l’uno e l’altra, oppure, infine, la
soluzione giudiziaria di casi concreti – non mancarono di esporre ciascuno
“il” proprio sistema per una “scienza” del diritto internazionale. Per quanto
universalmente utilizzato, il termine sistema ha assunto nei singoli autori
connotazioni differenti: da semplice somma di regole specificamente ap-
plicabili ai rapporti tra nazioni e priva di un effettivo tessuto connettivo, ad
enunciazione di una rete di principii fondanti dai quali si pretendeva di
ricavare tramite un procedimento “rigorosamente” deduttivo regole applica-
bili ai casi concreti. Del resto, anche il termine scienza ebbe una molteplicità di
significati: per lo più fu limitato ad indicare il complesso dei principii teorici
che avrebbero potuto venire in soccorso nell’interpretazione di prassi o
convenzioni dubbie; solo in pochi casi, fu riferito ad un organico complesso
di principii che avrebbe dovuto sostituire – o modificare, ove contrastanti – le
regole applicate per consuetudine e convenzionali.
Un ulteriore aspetto della produzione “scientifica” di quel periodo merita
di essere rilevato. Alcuni autori intervennero su questi temi con più opere e di
alcune di queste furono pubblicate successive edizioni con varianti o aggiunte,
in molti casi di non poco conto, da parte degli stessi autori: varianti dovute
talora al rapido succedersi degli eventi e alla necessità di aggiornamento,
tal’altra a veri e propri aggiustamenti delle rispettive teorie. Non sempre è
stato possibile, però, reperire nelle biblioteche tutte le successive edizioni di
una stessa opera e questo ha reso la ricerca ancor più complessa, senza che
purtroppo sia stato possibile colmare tutte le lacune.
Non si può, inoltre, negare che, nel pensiero di molti, l’orientamento
politico abbia prevalso su quello giuridico. Questo condizionò ovviamente
tutta la conseguente trattazione della vasta problematica giusinternazionali-
stica soprattutto con riguardo ai temi fondamentali dell’equilibrio politico e
dell’intervento che erano stati precipuo oggetto del concerto tra le cinque
potenze europee. Tali temi continuavano a costituire il punto centrale del
dibattito sul diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento – nono-
stante che, fin dal secolo precedente, il Rousseau avesse deplorato il mito
dell’equilibrio in quanto utile soltanto a mascherare «pretesti» 13 – ed ebbero
una gamma di soluzioni tanto variegata quanti furono gli autori che ne
trattarono.

13 Jean Jacques Rousseau, Extrait du projet de paix perpetuelle de l’abbé de


Saint-Pierre, in: Œuvres complètes, III, Du contrat social. Ecrits politiques,

56 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Questi brevi cenni possono forse servire a comprendere anche come ciascun
“sistema” sia apparso agli inventori dei successivi come parziale ed imperfetto
e come risultino tuttora tra loro contraddittorie le soluzioni offerte ai
principali problemi di fondo: quello consistente nella definizione, nella natura
e nelle fonti del diritto internazionale. Di conseguenza, nell’ambito della
relativa trattatistica si finì, in un certo senso, per riprodurre la litigiosità che
connotava i rapporti tra gli Stati, mentre, sul terreno magmatico dei caratteri
del diritto pubblico sia internazionale, sia interno, lasciarono impronte più
profonde e durature principalmente gli scritti, per così dire, monografici,
mirati all’inquadramento e alla soluzione di singoli aspetti della materia.
Per tutti questi motivi non stupisce che un osservatore intelligente e sottile
come Pellegrino Rossi, del quale si avrà occasione di riparlare nel prosieguo,
alle soglie degli anni Quaranta dell’Ottocento avesse rilevato che mancavano
al diritto internazionale i caratteri «d’une science régulièrement développée;
les principes n’en ont pas été démêlés ni les conséquences déduites avec cette
netteté et cette rigueur qui satisfait l’intelligence et commande la conviction.
On dirait que dans le droit de gens il faut se contenter de l’à peu près, qu’il n’y
a pas de principe qui puisse supporter toutes ses conséquences, pas de règle
qui ne se trouve étouffée sous de nombreuses exceptions …». 14

Ecrits sur l’abbé de Saint-Pierre, Textes établis et annotés par Sven Stelling-
Michaud, Paris: Gallimard 1964, pp. 563–589, in part. p. 570.
14 Pellegrino Rossi, Droit des gens intervention, in: Revue française giugno
1838 e in: Mélanges d’économie politique, d’histoire et de philosophie, publiés
par ses fils, vol. I, Paris: Guillaumin 1857 (dal quale si cita, che ho potuto vedere
grazie alla cortesia di Luigi Lacché), pp. 443–477, in part. p. 443. Cfr. a questo
proposito Augusto Pierantoni, Storia degli studi del diritto internazionale in
Italia dell’avvocato Augusto Pierantoni professore straordinario di diritto
internazionale e costituzionale nella R. Università di Modena, Modena: coi
tipi di Carlo Vincenzi 1869, pp. 96–101 e Stefano Mannoni, Potenza e
ragione. La scienza del diritto internazionale nella crisi dell’equilibrio europeo,
(Per la storia del pensiero giuridico moderno 54), Milano: Giuffrè 1999, p. 13.
Sulla figura di Pellegrino Rossi anche per i riferimenti bibliografici rinvio a
Luigi Lacchè, Un italiano a Ginevra, alla ricerca della patria comune,
introduzione a P. Rossi, Per la Patria comune. Rapporto della Commissione
della Dieta ai ventidue Cantoni sul progetto d’Atto federale da essa deliberato a
Lucerna, Mandria, Roma: Lacaita 1997; id., Tra politica e diritto, ovvero Rossi
e la Monarchia di Luglio, in: id. (a cura di), Un liberale europeo: Pellegrino
Rossi (1797–1848), Milano: Giuffrè 2001, pp. 70–108; id., La libertà che
guida il Popoli, Le Tre Gloriose Giornate del luglio 1830 e le “Chartes” nel
costituzionalismo francese, Bologna: il Mulino 2002, in part. pp. 164–173.
Sull’influenza dell’opera costituzionalistica di Pellegrino Rossi cfr. Guglielmo
Negri, Pellegrino Rossi e la scuola italiana di diritto costituzionale, in: Un
liberale europeo. Pellegrino Rossi, pp. 109–115, in part. p. 113.

Claudia Storti 57
A guardar bene fu proprio la continuità del principio indiscusso e indiscu-
tibile dell’uguaglianza ed indipendenza degli Stati 15 – perno del diritto inter-
nazionale dal momento in cui era divenuto un ramo specifico della scienza
giuridica – che, paradossalmente, nei primi decenni dell’Ottocento si frappose
sia alla possibilità di aggregare il consenso sulla definizione e sulla
“sistemazione” scientifica di diritto internazionale, sia alla possibilità di dare
attuazione ad altri principii fondamentali del diritto di natura e delle genti che
comunque i Paesi “civilizzati” riconoscevano in astratto come fondamentali.
Il primato “scientifico” del principio dell’uguaglianza ed indipendenza
degli Stati, sostenuto sia da diplomatici e statisti, sia da coloro che si
consideravano teorici puri della “scienza” internazionalistica, finiva per
impedire che fosse messo in discussione «le droit du plus fort». 16 Tra tanti
Stati teoricamente uguali tra loro, il potere “reale” garantiva a talune nazioni
il primato sulle altre. La possibilità di imporre i termini delle convenzioni e di
controllare il rispetto delle consuetudini riduceva le probabilità di affer-
mazione e attuazione di principii e diritti differenti quantunque essi, sia dal
punto di vista scientifico, sia da quello, per così dire, pratico o positivo delle
nazioni “civilizzate”, apparissero come superiori e meritevoli di tutela.
La combinazione del principio dell’uguaglianza e dell’indipendenza delle
nazioni con quello della natura convenzionale del diritto internazionale, quale
massima espressione della “libera” volontà delle nazioni, finiva per consoli-
dare il primato dei più forti in termini di potere reale. Il principio
dell’uguaglianza, sancito sia dal diritto scientifico sia da quello positivo e
convenzionale, prevaleva su qualsiasi altro principio fondamentale del diritto
naturale delle genti che fosse apparso con esso in rotta di collisione e, in
sostanza, escludeva la libertà di decidere se reagire alla violazione che ne fosse
stata attuata nei fatti o nei trattati.
La deriva politica, impressa al diritto delle genti dal congresso di Vienna e
dai trattati stipulati per porre rimedio allo squilibrio provocato dall’impresa

15 Cfr. tra gli altri: Travers Twiss (1809–1897), The Law of Nations considered
as Independent Political Communities, vol. I, On the Rights and Duties of
Nations in Time of Peace, Oxford: Clarendon Press 1884, p. 5 e Carl
Schmitt, Il nomos della terra (n. 4), pp. 163–178.
16 L’espressione in Bluntschli, Le droit international codifié (1870) (n. 3),
pp. 8–10 e, con alcune varianti (1881), pp. 9–11. Alla fine degli anni Sessanta,
alle soglie della guerra franco-prussiana, il Bluntschli, pur fiducioso che il
progresso avrebbe portato anche nel campo del diritto internazionale al
perfezionamento della “razza umana”, scriveva «Les obstacles que rencontre
le droit international sont encore grands, mais pas assez grands cependant pour
en empêcher l’existence», ibidem (1870), p. 10.

58 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


napoleonica, andava proprio in questa direzione e rendeva ardua la ripresa
del cammino di una scienza destinata a correggere le distorsioni e le ingiustizie
di tale sistema. Quale probabilità aveva di affermarsi tutto un complesso di
regole e principii di giustizia inter gentes, quand’anche razionalmente e
scientificamente impostato, se tale sistema aveva il suo punto debole proprio
nel principio – dell’uguaglianza – fondante e costitutivo dei rapporti tra gli
Stati?
Le conseguenze di questo paradosso teorico apparvero di tutta evidenza
nella trattazione di diversi temi. Lo rilevò, tra gli altri, con riguardo alla
mancata attuazione dei principii di natura, il giudice statunitense Joseph Story
in una celebre controversia sulla tratta degli schiavi del 1822: «Inalienable
rights has been the cornerstone of policies like those of the Holy Alliance and
of Lord Palmerston; instead of bringing to the world the benefit of mutual
understanding, they are to weak or less fortunate nations an unrestrained
menace». 17
Non diversamente, a proposito della disuguaglianza degli Stati, per defini-
zione uguali, si espresse il Romagnosi: «Egli è indubbio che l’indipendenza dei
piccoli stati di Europa non solo è precaria, ma, quel che è peggio, rimane in
balia, ed è per lo più manomessa dalle grandi potenze». 18 Di vera indipen-
denza si sarebbe potuto parlare solo a proposito di una nazione in grado di
garantire la propria esistenza «senza essere costretta a mantenerla coi sa-
grificii d’una troppo dispari alleanza». 19
Sotto questo punto di vista, il percorso della prima metà dell’Ottocento fu
irto di ostacoli pressoché insuperabili. Dal punto di vista ideologico e politico,
l’esigenza di costruire una vera e giusta scienza del diritto internazionale fu
generalmente rilevata, come appare comprensibile, da giuristi che intesero
sostenere le ragioni dei più deboli, di coloro che, già secondo Rousseau,

17 A selection of cases and other Readings on the law of Nations chiefly as it is


interpreted and applied by British and American Courts, by Edwin DeWitt
Dickinson, Professor of Law in the University of Michigan, New York: Ms
Graw-Hill Book Company 1929, The equality of the states in International
Law, p. 13, n. 9.
18 Gian Domenico Romagnosi, La scienza delle costituzioni, Opera postuma,
Firenze: a spese degli editori 1850, P. II Teoria costituzionale, Lib. I Teoria
costituzionale riguardante la politica esterna, cap. III, A quale potenza la
natura chiami le genti e quali siano i mezzi per conseguirla e conservarla, § 11
Principio fondamentale di politica esterna – Equilibrio, p. 394.
19 Ibidem, cap. I, Azione rispettiva delle genti europee. Questione sulla potenza
degli stati voluta dalla natura, § 4 Ricerca sulla potenza alla quale la natura
chiama le genti europee, p. 382.

Claudia Storti 59
godevano soltanto di un’apparenza di libertà, 20 secondo il Martens, avevano
minore dignité e puissance ed erano i diseguali di Heffter, 21 o i «popoli
mercanteggiati a guisa di greggi» per dirla ancora con il Romagnosi. 22 Tali
giuristi dovettero inventare un sistema rigorosamente diverso da quello dei
politici e dei diplomatici allo scopo di realizzare – nei fatti – il principio
dell’uguaglianza dei popoli, come aveva sostenuto a suo tempo l’abbé
Grégoire 23 e come sarà affermato nell’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite
con la locuzione uguaglianza sovrana.
Non infrequentemente i molti, soprattutto giuristi, che tentarono di
contrapporsi al pragmatismo dei diplomatici e degli statisti furono etichettati
con il termine di utopisti e le loro proposte connotate come “chimeriche”. Dal
punto di vista metodologico, inoltre, era ben difficile trovare un piano d’intesa
comune, come sarebbe stato indispensabile nel campo dei rapporti inter-
nazionali, sul concetto di scienza e di unità della scienza tra la cultura
giuridica anglosassone e statunitense – entrate con forza nel dibattito nono-
stante la tradizionale refrattarietà ad un inquadramento precipuamente
astratto delle questioni – e quella di civil law, innanzitutto germanica, che
sui grandi quadri teorici aveva fondato i suoi sistemi. 24
Le difficoltà di una costruzione scientifica del diritto internazionale deri-
varono anche dal consolidarsi di una concezione del sistema delle fonti
giuridiche che stentava, malgrado le rassicurazioni dei Bentham e degli
Austin, a riconoscere un diritto che non fosse fatto di leggi. Nell’età delle
codificazioni, solo alle norme scritte si tese a conferire un vero peso specifico
e, come osservò il Bluntschli, era inutile tentar di sostenere, al contrario, che il
diritto, in generale, e il diritto internazionale in particolare, non era fatto solo
di leggi e che, pur senza leggi, il medioevo era stato in grado di creare
costruzioni sapienti come quella del contratto! 25
Si è adottato il termine crocevia, sia in senso cronologico, sia dal punto di
vista della sostanza dei problemi affrontati dagli autori europei e statunitensi
della prima metà dell’Ottocento che considerarono come un rischio effettivo

20 Rousseau, Extrait du projet de paix perpetuelle de l’abbé de Saint-Pierre (n.


13), in part. p. 569.
21 Per i riferimenti a Martens e Heffter cfr. infra rispettivamente § 4 e § 7.
22 Romagnosi, Scienza delle costituzioni (n. 18), P. II, Teoria costituzionale, Lib.
I Teoria costituzionale riguardante la politica esterna, cap. I Azione rispettiva
delle genti europee. Questione sulla potenza degli Stati voluta dalla natura, § 1
Oggetto e metodo di questo capo, p. 381.
23 Per i riferimenti all’abbé Grégoire cfr. infra n. 223.
24 Cfr. con particolare riguardo alle riflessioni del Manning oltre, n. 147 ss.
25 Così ad esempio Bluntschli, Le droit international codifié (1870) (n. 3),
pp. 2–6 e con qualche variante (1881), pp. 2–7.

60 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


(e lo affrontarono) la possibilità che le potenze uscite trionfanti nel congresso
di Vienna (quali apparivano agli occhi dell’opinione … dei deboli) sbricio-
lassero per i loro interessi i principii razionali e universali di giustizia e
riducessero il diritto internazionale alla soluzione dei loro problemi di
primato (che trasudavano, ad esempio, dal manuale del Martens). Quantun-
que i risultati di questa ampia elaborazione delle problematiche giusinterna-
zionalistiche siano stati, alla verifica della prassi e nell’immediato, com-
plessivamente piuttosto modesti, è indubbio che essa abbia contribuito a
fissare alcuni punti fondamentali e a mantenere viva l’aspirazione ad un
sistema efficace di giustizia tra le nazioni. Come molti studiosi del tempo non
mancarono di pronosticare, in assenza di strumenti di carattere legislativo e
giurisdizionale vincolanti per i singoli membri della comunità internazionale,
la giuridicità e la coercitività di principii superiori di giustizia contrastanti con
l’interesse immediato delle Potenze avrebbero stentato ad ottenere attuazione
per vie diverse da quelle del diritto convenzionale.
Quanto ai principii e ai valori sostenuti dalle Potenze cristiane e civilizzate,
vi era taluno che li giudicava, comunque, insufficenti a corrispondere agli
interessi diffusi dell’umanità e ad impostare un giusto sistema mondiale delle
relazioni internazionali: molte erano le crepe dell’ingiustizia che potevano
indurre a dubitare di quei modelli. Il Chief Justice Joseph Story non si
trattenne dal rilevare, che quei paesi, in realtà, molto avevano ancora da
imparare e soprattutto da mettere in pratica in tema di civiltà. 26

2. Il corso di lezioni di Ludovico Casanova


Si è ritenuto che le lezioni di quel vorace lettore di opere giuridiche straniere
che fu Ludovico Casanova risalenti esattamente alla metà del XIX secolo
potessero offrire una prima traccia per iniziare questa ricerca che, tuttavia, per
taluni aspetti ha anche dovuto seguire vie differenti. Le matrici del suo
pensiero, come si avrà modo di rilevare, non sono sempre sufficientemente
identificabili, anche per la libertà con la quale egli elaborò, in alcuni punti, le
linee del suo pensiero. L’esame di alcune opere da lui certamente consultate,
come, prime tra tutte, quelle di James Mackintosh e di Henry Wheaton, ha,
inoltre, indotto a seguire percorsi che probabilmente furono almeno in parte
ignoti al giurista genovese o che egli conobbe solo indirettamente.
Gli intenti sottoscritti dalle potenze europee alla caduta dell’Impero
napoleonico ottennero, come è ben noto, una sorta di legittimazione teorica
nell’opera dell’autorevole professore di diritto internazionale Georg Friedrich

26 Cfr. oltre § 5 e testo corrispondente a n. 119 ss.

Claudia Storti 61
Martens, che costituì, anche a detta del Wheaton, per il trentennio successivo
alla rivoluzione francese, il perno di una manualistica giusinternazionalistica
fondata sulla concezione della natura convenzionale del diritto internazionale
e dominata da diplomatici e statisti invece che dalla “scienza”. 27
Fin dai primi anni dell’Ottocento venne, però, progressivamente ingros-
sando la schiera variegata di robusti oppositori sia – dal punto di vista teorico
del sistema delle fonti – della concezione convenzionale e consuetudinaria del
diritto internazionale, sia – da quello politico – del sistema del concerto
europeo e della bilancia politica che in quella concezione trovava il precipuo
fondamento e la ragione della propria giustizia e validità. In Inghilterra, negli
Stati Uniti, in Germania, per dire soltanto dei paesi dai quali provenivano
coloro che riuscirono a far sentire con più forza le loro opinioni, lo scopo di
tali oppositori fu, con accenti e sfumature differenti sul valore e sull’efficacia
delle possibili fonti del diritto internazionale e di singoli principii, quello di
proseguire nell’impresa di definire l’identità di un diritto fondato sulla ragione
e vincolante per tutti i Governi, superiore alla consuetudine e ai trattati e di
assicurarne la vigenza.
Nella costruzione di tali teorie troviamo, oltre alla continua rievocazione
delle fondamentali tendenze espresse dai tre distinti orientamenti di Grozio,
Hobbes – Pufendorf e Leibniz – Wolff, anche una rivalutazione di alcuni
scritti degli ultimi anni del Settecento che, in controtendenza rispetto alla
teoria – politicamente e teoricamente – dominante della natura convenzionale
e consuetudinaria del jus gentium, avevano rivendicato, nella disciplina dei
rapporti internazionali, il primato di regole razionali, universali e vincolanti
per tutti gli Stati.
Le suggestioni di questo movimento intellettuale furono vividamente e
sinteticamente rappresentate da un italiano minore quanto alla fama inter-
nazionale, Ludovico Casanova, avvocato e docente nell’Università pubblica di
Genova del corso di Diritto costituzionale ed internazionale. Di lui è
pervenuto un complesso di lezioni risalenti agli anni 1851–1853. 28 Tali
lezioni, a quanto sembra non concepite dal loro autore per la pubblicazione,

27 Wheaton, Histoire des progrés (n. 11), II, p. 366: «Les progrès qu’a faits le
droit des gens europèen depuis la rèvolution française de 1789, ont été
démontrés, plutôt par des discussions polémiques des hommes d’état et des
diplomates sur les diverses questions pratiques qui ont été soulevées depuis
cette époque, que par les travaux systématiques des publicistes sur le droit
international considéré comme science».
28 Si ricorderà come, nell’ambito del controllo ministeriale sui contenuti
dell’insegnamento universitario, i docenti universitari fossero tenuti ogni anno
a consegnare i testi delle lezioni che avrebbero tenuto al Ministero dell’Uni-
versità.

62 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


furono riordinate e preparate per la stampa in due opere distinte sul diritto
costituzionale e sul diritto internazionale dall’amico avvocato Cesare Cabella,
dopo la morte prematura del Casanova, nell’anno “critico” 1858 del collo-
quio di Plombières 29 e successivamente nel 1875. 30
A Cesare Cabella si deve la biografia di Ludovico Casanova nella quale
erano celebrate non solo le doti di avvocato, di studioso e di docente, ma
anche il coraggioso impegno politico. 31
Secondo il Cabella, l’avvocato genovese fin da giovanissima età si sarebbe
distinto per cultura giuridica, acribia, finezza e profondità del ragionamento
che sapeva esprimere con chiarezza e concisione. Nel 1835, era stato eletto
«non chiedente, e senza formalità di esami» dottore collegiato nella facoltà di
legge e nel 1837 nominato professore di istituzioni civili: «abbandonato
l’antico sistema d’insegnamento, e ponendo a profitto le recenti scoperte, e
gli stupendi lavori della scuola germanica, 32 iniziò i giovani ai misteri

29 Cfr. in proposito Rapisardi Mirabelli, Storia dei trattati (n. 3), pp. 193–194
e da ultimo, anche per i riferimenti bibliografici, Elisa Mongiano, Le principe
de nationalité et la formation du royaume d’Italie, in: Tra diritto e Storia. Studi
in onore di Luigi Berlinguer promossi dalle Università di Siena e di Sassari,
Soveria Mannelli: Rubbettino 2009, vol. II, pp. 253–272, in part. pp. 256–
257; ead., Il “voto della Nazione”. I plebisciti nella formazione del Regno
d’Italia (1848–60), Torino: Giappichelli 2010; Ead., Il princio di nazionalità e
l’unificazione italiana, in: Verso l’Unità Italiana. Contributi storico-giuridici, a
cura di Gian Savino Pene Vidari, Torino: Giappichelli 2010, pp. 57–79, in
part. pp. 63 ss.; Paola Casana, La prima fase dell’unificazione italiana:
trattati e trattative diplomatiche, ibidem, pp. 81–103; Enrico Genta, La
diplomazia europea e l’unificazione italiana tra 1859 e 1860, ibidem,
pp. 153–170.
30 Cfr. rispettivamente oltre alle lezioni Del diritto internazionale (n. 8), Del
diritto costituzionale. Lezioni del professore Ludovico Casanova ordinate
dall’Avvocato Cesare Cabella, vol. I–II, Genova: Stabilimento Tipografico de
Lodovico Lavagnino 1859–1860. Entrambi i testi furono ripubblicati nel 1869
(a Firenze: Eugenio e F. Cammelli editori-librai) e sucessivamente dallo stesso
Cabella con G. B. Cironi a Firenze (con introduzione e note di E. Brusa) nel
1876.
31 Cesare Cabella, Necrologia dell’autore, in: Del diritto internazionale. Le-
zioni del professore Ludovico Casanova, vol. I, pp. V–XIX, in part. pp. XIV–
XVI.
32 Da queste parole si potrebbe pensare innanzi tutto al System del Savigny che
circolò immediatamente in Italia e cfr. su questo aspetto e sulle fondazioni
giusnaturalistiche della scienza giuridica italiana Paolo Grossi, Scienza
giuridica italiana. Un profilo storico, Milano: Giuffrè 2000, in part. pp. 8–
12; da ultimo, anche per i riferimenti bibliografici, Angela Trombetta,
Savigny e il Sistema alla ricerca dell’ordine giuridico, Bari: Cacucci Editore
2008.

Claudia Storti 63
dell’antica sapienza romana. E si potè conoscere che le immense occupazioni
del foro non gli avevano impedito il seguitare i progressi della scienza». 33
«Animo altero ed indipendente» diede le dimissioni tra il 1843 e il 1844
perché offeso da un atto del Governo, del quale nulla è dato sapere se non che
egli fu denunciato al Ministro Mameli come «predicatore di ribellione». 34 Il
suo rientro nell’Università di Genova avvenne, dopo la trasformazione del
Regno di Sardegna in monarchia costituzionale, nel 1848 con l’introduzione
nella facoltà giuridica del corso di diritto costituzionale pubblico ed inter-
nazionale. 35
Il peso scientifico e il successo didattico di Ludovico Casanova furono
probabilmente superiori a quanto si sia di poi riconosciuto, sia nella formu-
lazione delle successive teorie del costituzionalismo liberale, 36 sia nella
divulgazione delle teorie europee e statunitensi del diritto internazionale
ancora scarsamente note al suo tempo in Italia.
La sua influenza sugli studi successivi non solo fu certamente adombrata
dalla lunga malattia che gli troncò prematuramente la vita, 37 ma fu anche
offuscata dalla crescente, pugnace e versatile figura di Pasquale Stanislao
Mancini al quale, come ben noto, fu attribuito il ruolo di fondatore della
scuola italiana del diritto internazionale. 38

33 Cabella, Necrologia (n. 31), in part. pp. IX–X.


34 Sia a favore dell’indipendenza italiana e di tutte le nazionalità conculcate da
dominazioni straniere, sia a favore di un’inversione liberale dell’ordinamento
costituzionale (ibidem, pp. X–XII e cfr. anche Alessandro Lattes,
L’Università e le sue vicende fino al 1860, in: L’Università di Genova, Genova
1923, p. 33; G. Rebuffa, voce Casanova, Ludovico, in: Dizionario Biografico
degli Italiani, vol. XXI, Roma: Enciclopedia Italiana 1978, pp. 170–171).
35 Cabella, Necrologia (n. 31), pp. XII–XIV.
36 Attilio Brunialti, Il Diritto costituzionale e la politica nella scienza e nelle
istituzioni, (Biblioteca di scienze politiche e amministrative: scelta collezione
delle piu importanti opere moderne italiane e straniere di scienze politiche e
amministrative. S. 2, Opere di diritto amministrativo e costituzionale 7), I,
Torino: Unione Tipografico Editrice 1896, pp. 318 ss. e cfr. in proposito Luigi
Lacchè, Il potere giudiziario come «potere politico», in: Storia Amministra-
zione Costituzione 7 (1999), pp. 25–45, in part. p. 35 e n. 42. Alcuni aspetti
del pensiero di Casanova anche in Caterina Bonzo, L’indifferenza dello
Statuto, in: Rivista di Storia del diritto italiano LXXVI (2003), pp. 189–251, in
part. p. 205.
37 Cabella, Necrologia (n. 31), pp. X–XII. In questo senso anche Enrico
Catellani, Les maîtres italiens de l’école italienne du droit international au
XIXe siècle, in: Académie de droit international, Recueil des Cours 46, IV
(1933), pp. 707–826, in part. p. 712.
38 Augusto Pierantoni, Il progresso del diritto pubblico e delle genti: introdu-
zione allo studio del diritto costituzionale ed internazionale, Modena: N.
Zanichelli e soci 1866; id., Storia (n. 14); id., Storia del diritto internazionale

64 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Le lezioni del Casanova, ciononostante, costituivano ancora nel 1869 il
libro di testo di diritto internazionale utilizzato nelle Università del Regno. Lo
riconobbe Augusto Pierantoni, a sua volta docente universitario, che, genero
del Mancini, rilevò le qualità dell’insegnamento del giurista genovese: «in
abbondantissimi luoghi del libro innalza la mente ad eletto ragionare e
trasfonde nel lettore rettissime convinzioni. Per ciò sinora in mancanza di
altri trattati, cotesta opera va per le mani della nostra gioventù che accura-
tamente la studia». 39 Non diversamente ebbe ad esprimersi, alcuni anni più
tardi, l’avvocato e senatore Brusa nell’introduzione alla ristampa del 1876
delle Lezioni, connotata da un’indiscutibile vena antimanciniana e dalla
preoccupazione per i possibili effetti destabilizzatori sul piano dei rapporti
internazionali della definizione di nazionalità sostenuta dal Mancini, che la
stessa dottrina italiana ridimensionò – riducendola a quella di Stato, nei primi
trent’anni dell’applicazione del codice del 1865. 40
Dopo il riconoscimento del lungo utilizzo di tali lezioni e dell’impegno
civile che le aveva ispirate, il Pierantoni non mancò, però, di rilevare che
l’opera dell’avvocato genovese sarebbe stata connotata dall’assenza di un vero
disegno sistematico. 41 Tale vizio fu ribadito da altri studiosi di diritto inter-
nazionale in più occasioni. 42 Nessun riferimento ad essa si trova, inoltre, nel

nel secolo 19., Napoli: G. Marghieri 1876; id., I progressi del diritto inter-
nazionale nel secolo XIX, Roma: Pallotta 1899.
39 Pierantoni, Storia (n. 14), p. 154.
40 Brusa, Introduzione (n. 30), p. CCCI ss., CCCLXVII ss. e CCCLXXIV–
CCCLXXVII e mi si consenta di rinviare a Storti Storchi, Il ritorno alla
reciprocità di trattamento. Profili storici dell’art.16, primo comma disp. prel.
del codice civile del 1942, in: I cinquant’anni del codice civile, Atti del
Convegno di Milano 4–6 giugno 1992, (Università degli Studi di Milano.
Facoltà di Giurisprudenza), vol. II Comunicazioni, Milano 1993, pp. 501–557,
in part. pp. 519–521; ead., Ludovico Casanova e le sue Lezioni di diritto
internazionale, in: Giuristi Liguri dell’Ottocento, Atti del Convegno organiz-
zato dall’Accademia Ligure di Scienze e Lettere in collaborazione con
l’Accademia delle Scienze di Torino e l’Istituto Lombardo Accademia di Scienze
e lettere, Genova, 8 aprile 2000, Genova 2001, pp. 53–94, in part. pp. 69 e
93–94.
41 Pierantoni, Storia (n. 14), p. 153.
42 G. Carnazza Amari, Trattato sul Diritto pubblico di pace, Milano: V.
Maisner e compagnia editori 21875, p. 11: «L’opera del Casanova rivela nel
suo autore un uomo perito nella pratica del foro; ma lungi di essere un lavoro
scientifico e metodico, sembra una compilazione di alcune parti della scienza,
priva di quell’intimo legame, che deve rannodarle nei principii fondamentali.
Perocchè si richiede nello stato attuale della scienza un libro, che sia nello
stesso tempo elementare ed approfondito, che abbia il carattere della certezza e
della evidenza, per la quale impone la convinzione, che richiama la fede, e che
senza arrestarsi alle generalità superficiali, ordini la scienza con nesso logico e

Claudia Storti 65
testo di del 1865 di Pasquale Fiore, che esordiva con un atto di omaggio al
Mancini, nel quale era altresì espresso il rimpianto che proprio lui non avesse
avuto ancora il tempo di scrivere un proprio manuale di diritto internazio-
nale. 43
Rintracciare tutte le matrici del pensiero di Ludovico Casanova non è cosa
sempre agevole. Questo è però ben comprensibile se si tiene conto del
precipuo scopo didattico al quale furono ispirati i suoi testi e della libertà
con la quale egli espose le linee del suo pensiero. L’eclettismo che connotò il
pensiero di molti giuristi italiani nei dintorni della metà del XIX secolo fu
certamente anche una caratteristica del giurista genovese. 44
Nella prima metà dell’Ottocento in Italia, i temi del diritto internazionale
pubblico non erano stati sviluppati in trattazioni di carattere generale.
Diversamente, le questioni di conflitto di leggi nello spazio erano state risolte
dalla giurisprudenza dei tribunali dei diversi Stati della penisola con riferi-
mento alla solida tradizione del diritto comune ed erano state sistemate, con
riguardo al Regno di Napoli, in un corposo trattato del 1837 di Nicola
Rocco 45 che fu oggetto anche di un’approfondita revisione della giurispru-
denza da parte dei tribunali genovesi. 46

razionale, la disponga in tutte le sue parti, rilevando con la forza del


ragionamento e della discussione le grandi verità, che interessano le nazioni».
Non diversamente E. L. Catellani, Il diritto internazionale privato e i suoi
recenti progressi, vol. II, Torino: Unione Tipografico Editrice 1902, pp. 127–
129 e 141.
43 Nuovo diritto internazionale pubblico secondo i bisogni della civiltà moderna
per Pasquale Fiore professore di detta scienza nella R. Università di Pisa,
Milano: Casa Editrice e Tipog. degli Autori-Editori 1865. Così anche Andrea
Ferrero Gola, Corso di diritto internazionale pubblico privato e marittimo
dell’avvocato Andrea Ferrero Gola, Professore Straordinario della medesima
Scienza ed incaricato dell’Insegnamento della Filosofia del Diritto nella R.
Università di Parma, vol. I–II, Parma: Tip. Editrice P. Graziali 1866. Solo un
cenno in Enrico Catellani, Les maitres de l’école italienne du droit inter-
national au XIXe siècle, in: Académie de droit international, Recueil des Cours
46 IV (1933), pp. 699–826, in part. p. 712.
44 Luigi Lacchè, Il canone eclettico. Alla ricerca di uno strato profondo della
cultura giuridica italiana dell’Ottocento, in: Quaderni fiorentini 39 (2010), pp.
153–228, al quale rinvio anche per i riferimenti bibliografici.
45 Nicola Rocco, Dell’uso e autorità delle leggi del regno delle Due Sicilie
considerate nelle relazioni con le persone e col territorio degli stranieri. Opera
di Nicola Rocco relatore presso la Consulta Generale del Regno, Napoli:
Tipografia del Guttemberg 1837 e 1843. La terza edizione risale al 1858 e vi fu
aggiunto il sottotitolo: ossia trattato di diritto civile internazionale del cavaliere
Nicola Rocco Procuratore Generale della G. Corte Civile di Napoli, socio
ordinario della reale Accademia delle Scienze di Napoli e socio residente
dell’Accademia pontaniana e di altre accademie straniere, III edizione riveduta

66 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Il Casanova scelse, pertanto, la via di costruire un nuovo «sistema» e di
ricorrere ai fondamenti offerti dagli studi di autorevoli pensatori europei che
si erano applicati al problema della “felicità” dei popoli; alle loro opere egli in
molti casi poté fare riferimento per conoscenza diretta, in altri solo indiret-
tamente.

3. L’insegnamento del diritto internazionale nel Regno di Sardegna:


dibattiti parlamentari per una riforma della Facoltà giuridica
Il dibattito del Parlamento Subalpino sulla riforma del cosiddetto regolamento
Alfieri del 5 agosto 1846 mise in evidenza quali fossero gli estremi della
questione relativa alla natura e ai fondamenti del diritto internazionale: da un
lato, la concezione di un diritto pubblico europeo fondato sui trattati e sulla
consuetudine; dall’altro, il complesso dei principi fondamentali del diritto
delle genti.
Tutto iniziò il 12 aprile 1850 con la proposta di introdurre un nuovo
insegnamento nel biennio «completivo» destinato, dopo la laurea quinquen-
nale, a coloro che avessero aspirato all’ammissione nel collegio dei dottori o
all’insegnamento universitario.
Dopo il 1848, l’insegnamento del diritto pubblico interno ed esterno o
internazionale era stato affidato all’emiliano Luigi Amedeo Melegari ed era
stato completamente assorbito, come comprensibile e come segnalato da una
nota del 30 marzo del 1850 del ministro degli affari esteri al ministro
dell’istruzione, dall’esposizione del nuovo diritto costituzionale. 47 Le conse-
guenti lacune nell’insegnamento del diritto internazionale rischiavano di
aggravarsi soprattutto con riguardo alla preparazione degli «aspiranti alla
carriera della regia segreteria di Stato per gli affari esteri». Destinati a
ricoprire «rappresentanze in tutte le vicine e remote contrade», che erano

e accresciuta dall’autore di un altro volume, Napoli: Giuseppe Giuliano editore


1858.
46 Giurisprudenza dell’ecc.mo Senato di Genova ossia Collezione delle sentenze
compilata da Niccolò Gervasoni, (1822), pp. 313–322 con particolare riguar-
do all’esecutività delle sentenze straniere. Mi si consenta di rinviare nel merito
al mio Ludovico Casanova (n. 40), pp. 84–87.
47 Gian Savino Pene Vidari, Considerazioni sul contributo degli esuli risorgi-
mentali al rinnovamento della Facoltà giuridica torinese, in: Rivista di storia
del diritto italiano LXXVI (2003), pp. 50, in part. pp. 5–12. Sul dibattito del
1848 in merito alla riforma dell’istruzione cfr. Romano Ferrari Zumbini, Tra
idealità e ideologia. Il rinnovamento costituzionale del Regno di Sardegna fra
la primavera 1847 e l’inverno 1848, Torino: Giappichelli Editore 2008,
pp. 467–470.

Claudia Storti 67
stati ammessi nella Facoltà giuridica per effetto del regolamento contenuto nel
decreto reale del 23 ottobre 1849.
Cristoforo Mameli, ministro della pubblica istruzione dal 27 marzo 1849
al 10 novembre 1850, vicino al Mancini che già a Napoli aveva tenuto corsi di
diritto internazionale, 48 si era pertanto risolto a presentare un progetto di
legge per l’istituzione di una nuova cattedra «d’insegnamento speciale della
scienza consolare e diplomatica» avente lo scopo di coordinare «coi principi
del diritto delle genti moderno d’Europa, la speciale esposizione del diritto
marittimo nei suoi rapporti col diritto pubblico, della storia dei trattati, e
specialmente di quelli riguardanti l’Italia, e la monarchia di Savoia in
particolare, degli usi e dello stile diplomatico, e delle attribuzioni consola-
ri». 49 Egli non negava che la “scienza” diplomatica fosse retta nella sua

48 Il Mancini aveva impostato sul criterio della nazionalità le lezioni di diritto


internazionale che egli tenne nella scuola privata napoletana del barone
Rodolfo Savarese anteriormente alla pubblicazione della costituzione napole-
tana del 1848 che li incorporò. Gli appunti manoscritti sono conservati nel
Archivio del Risorgimento in Roma e mi si consenta di rinviare, anche per i
riferimenti bibliografici, a C. Storti Storchi, Ricerche sulla condizione
giuridica dello straniero in Italia dal tardo diritto comune all’età preunitaria.
Aspetti civilistici, (Università degli Studi di Milano. Facoltà di Giurisprudenza.
Pubblicazioni dell’Istituto di Storia del diritto italiano 14), Milano 1989,
pp. 300–302. Tra le ricerche più recenti sul pensiero giusinternazionalistico
di Pasquale Stanislao Mancini con particolare riguardo al tema dei conflitti di
legge Erik Jaime, Pasquale Stanislao Mancini. Internationales Privatrechts
zwischen Risorgimento und praktischer Jurisprudenz, (Münchener Universi-
tätsschriften. Juristische Facultät. Abhandlungen zue Rechtswissenschaftlichen
Grundlagenforschung 45), Ebelsbach 1980, ora in trad. it. a cura di Antonio
Ruini, Pasquale Stanislao Mancini. Il diritto internazionale privato tra Risor-
gimento e attività forense, (Studi e Pubblicazioni della Rivista di diritto
internazionale privato e processuale), Padova 1988, pp. 43–53. Yuko
Nishitani, Mancini und die Parteiautonomie im Internationalen Privatrecht.
Eine Untersuchung auf der Grundlage der neu zutage gekommenen kollisions-
rechtlichen Vorlesungen Mancinis, Heidelberg: Universitätsverlag C. Winter
2000.
49 Istituzione di una cattedra di diritto pubblico esterno e internazionale privato.
Progetto di legge presentato al Senato il 12 aprile 1850 dal ministro
dell’istruzione pubblica (Mameli), in: Atti del Parlamento Subalpino sessione
del 1850 (IVa legislatura) dal 20 dicembre 1849 al 19 novembre 1850, raccolti
e corredati di note e di documenti inediti da Giuseppe Galletti e Paolo
Trompeo, Torino 1863, p. 533 (artt. 1 e 2 del Progetto), e Atti del Parlamento
Subalpino sessione del 1850 (IVa legislatura) dal 20 dicembre 1849 al 19
novembre 1850 raccolti e corredati di note e di documenti inediti da Giuseppe
Galletti e Paolo Trompeo, Discussioni del Senato del Regno, Torino 1865,
p. 220. Sui precedenti settecenteschi della diplomazia sabauda cfr. ora

68 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


«parte teoretica» dai principii del «diritto politico e delle genti». Tuttavia, con
sano pragmatismo e in conformità con le tesi prevalenti nella trattatistica,
considerava preponderante l’aspetto pratico ed applicativo di tali principii in
quanto, per così dire, subordinati «alle costituzioni dei paesi ed alle varie
circostanze dei tempi» e alla considerazione degli specifici e transitori
«interessi politici, commerciali e industriali».
La proposta ministeriale ebbe successo, ma i membri delle commissioni del
Senato e della Camera, tra i quali alcuni rifugiati in Piemonte dopo il
fallimento della prima guerra di indipendenza come Pietro Gioia e Sebastiano
Tecchio, vollero modificare l’impianto dell’iniziativa con l’affermare una
diversa concezione di diritto internazionale.
Federico Sclopis, presidente e relatore della commissione senatoria incari-
cata dell’esame del progetto governativo, aveva concordato sulla necessità di
istituire una nuova cattedra per «mantenere alto il livello della diplomazia
sabauda», ma aveva respinto la denominazione di scienza consolare e
diplomatica, in quanto la diplomazia non poteva essere considerata una
scienza. 50 Questa opinione fu ribadita dall’avvocato Pietro Gioia nella
discussione in aula, 51 quando fu ripresentata la proposta della commissione
senatoria di istituire un corso speciale di diritto pubblico esterno e inter-
nazionale privato: «altri fini più larghi io le propongo». 52
La discussione alla Camera fu ancora più vivace ed incisiva. La difficoltà di
insegnare le due «scienze» del diritto pubblico interno e dell’internazionale fu
sostenuta dall’avvocato Sebastiano Tecchio, in quanto le due materie erano
rette da «principi differenti». 53 Si doveva, inoltre, rilevare che non molte

l’approfondito studio di Enrico Genta, Principe e regole internazionali tra


forza e costume. Le relazioni anglo-sabaude nella prima metà del Settecento,
Napoli: Jovene 2004.
50 La Commissione presieduta dallo Sclopis era costituita da Di Bagnolo, Sauli,
Di San Marzano e Gioia (Atti del Parlamento Subalpino sessione del 1850 [IVa
legislatura], pp. 533–534).
51 Pietro Gioja (Piacenza 1795–Torino 1865) dopo essere stato segretario della
Camera di Commercio di Piacenza dal 1817 al 1848, membro del Consiglio di
Reggenza del Ducato di Parma nel 1848 e consigliere di Stato nel 1849, nel
marzo 1850 divenne Senatore del parlamento Subalpino.
52 Atti del Parlamento Subalpino sessione del 1850 (IVa legislatura) dal 20
dicembre 1849 al 19 novembre 1850 raccolti e corredati di note e di documenti
inediti da Giuseppe Galletti e Paolo Trompeo, Discussioni del Senato del
Regno, Torino 1865, pp. 332–335.
53 Sebastiano Tecchio (Vicenza 1807 – Venezia 1886) si laureò in giurisprudenza
a Padova e si avviò alla professione forense. Nel 1848 fece parte del governo
provvisorio di Vicenza e fu latore dei plebisciti per l’annessione del Veneto al
Regno di Sardegna. Successivamente eletto nel Parlamento Subalpino, tra il
1848 e il 1849 fu ministro dei lavori pubblici. Nel 1859 dopo l’armistizio di

Claudia Storti 69
erano le pubblicazioni nelle rispettive materie a disposizione dei docenti: «Né
sarebbe a credere che al professore di quelle abbondino libri e commentari,
sulla autorità de’ quali (siccome interviene in altre materie) ei sia licenziato a
poter adagiare le sue lezioni». Le monografie di diritto internazionale e
costituzionale erano bensì numerose; tuttavia, piene di insidie per il «catte-
dratico» che avesse voluto utilizzarle acriticamente senza «nervi di ingegno e
di studio». Si trattava, infatti, di testi elaborati con riguardo agli specifici
contesti e «ai prepotenti interessi, or sia del paese, o del principe, o del partito
che bisognava aiutare» e che presentavano, pertanto, «una meravigliosa
diversità nei principii e negli argomenti».
Si sarebbe dovuto, infine, prendere in considerazione l’opportunità di
elevare lo stipendio che era stato proposto per tale insegnamento, in consi-
derazione di diversi aspetti: il padre di questa scienza, Ugo Grozio, era stato
«allievo» dell’italiano Alberico Gentili e tra i principali artefici si potevano
annoverare i Saint-Pierre, i Rousseau, i Bentham, i Kant, i Cobden. Tale
insegnamento avrebbe avuto ad oggetto la «ricostituzione della nazionalità» e
la realizzazione di tale fine avrebbe assicurato «la pace del mondo civile». 54
Sulla base di tali considerazioni il Parlamento subalpino promulgò la legge
del 14 novembre 1850 sull’istituzione di una cattedra autonoma di diritto
pubblico esterno e internazionale privato nella facoltà giuridica di Torino. 55
Come ben noto, il corso fu inaugurato a Torino nel 1851 dal Mancini con la
“rivoluzionaria” prolusione sulla quale si diffuse ampiamente anche Augusto

Villafranca fu Commissario del Comitato Veneto di emigrazione. Presidente


della Camera tra il 1862 e il 1863, alla fine della terza guerra d’Indipendenza
divenne Presidente della Corte d’Appello di Venezia. Nel 1867 fu Ministro di
grazia e giustizia nel governo Rattazzi, dopodiché riassunse la presidenza della
Corte d’Appello di Venezia fino al 1882. Fu Presidente del Senato dal 1876 al
1884 quando si dimise a causa delle proteste dell’Austria per un suo discorso
sul tema dell’italianità del Trentino.
54 Atti del Parlamento Subalpino sessione del 1850 (IVa legislatura) dal 20
dicembre 1849 al 19 novembre 1850 raccolti e corredati di note e di documenti
inediti da Giuseppe Galletti e Paolo Trompeo, Torino 1859, Camera dei
Deputati, n° 433, p. 1574
55 La relazione della commissione della camera composta da Baino, Pateri,
Cavalli, Biancheri, Marco, Malinverni e Tecchio (relatore) è pubblicata in:
Atti del Parlamento Subalpino (n. 54), n° 436 (tornata del 21 giugno 1850),
p. 1584. Cfr. inoltre Storti Storchi, Ricerche (n. 48), pp. 302–306; Pene
Vidari, Considerazioni sul contributo degli esuli risorgimentali (n. 47), p. 12;
cfr. ora ampiamente sul dibattito parlamentare e anche per i riferimenti
bibliografici Pene Vidari, La prolusione di P. S. Mancini all’Università di
Torino sulla nazionalità (1851), in: Verso l’Unità Italiana (n. 29), 21–46, in
part. pp. 21–33.

70 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Pierantoni nella sua storia del diritto internazionale in Italia facendone lo
stendardo della «nuova era del diritto internazionale». 56
Nel dibattito del quale si è dato conto, sembrano condensati i termini del
dilemma che aveva agitato nel corso della prima metà dell’Ottocento la
scienza internazionalistica, tra empirismo o pragmatismo e affermazione di
regole universali per il riconoscimento di alcuni pochi presupposti che
avrebbero dovuto costituire la bussola dei rapporti internazionali, qualunque
fosse la costituzione interna degli Stati coinvolti. La relazione dell’avvocato
Sebastiano Tecchio esprime, inoltre, le aspettative “risorgimentali” nei con-
fronti della dottrina del diritto internazionale: quella di creare un sistema
razionale di principii e di regole idonei a sottrarre all’arbitrio e all’interesse dei
potenti il futuro dei popoli dell’Italia, privi delle prerogative di Stati sovrani e
liberi, che non avevano avuto alcuna parte nei trattati del concerto europeo.
Dopo l’approvazione della legge nel novembre del 1850, il Governo
consultò una commissione della Facoltà di Legge di Genova, composta da
Ludovico Casanova, appunto, da Maurizio Bensa e Antonio Caveri, sul
progetto di regolamento per gli studi legali. 57 Questa commissione non pose
obiezioni al controllo del Governo sull’Università e sulla nomina governativa
dei docenti, esprimendo la convinzione (o l’auspicio) che il Governo non
avrebbe mancato di far cadere le proprie scelte su personalità capaci e
“cosmopolite”. Richiese espressamente, in contraccambio, una garanzia
sull’indipendenza dei docenti, in modo che potessero autonomamente «svi-
luppare» il loro «sistema» e il loro «metodo». 58

56 Pierantoni, Storia (n. 14), pp. 127–150; id., I progressi del diritto inter-
nazionale (n. 38), pp. 60–63. Cfr. in proposito anche Storti Storchi,
Ricerche (n. 48), pp. 306–311; Jean-Louis Halpérin, Entre nationalisme
juridique et communauté de droit, Paris: Presses Universitaires de France 1999,
p. 69; Nishitani, Mancini und die Parteiautonomie (n. 48), p. 37.
57 Sui precedenti degli studi giuridici a Genova: L’archivio dell’Università di
Genova, a cura di Rodolfo Savelli, Atti della Società ligure di Storia Patria,
n. s. 33 (1994); Riccardo Ferrante, L’Académie di Genova attraverso i
rapports degli ispettori dell’Université impériale (1809): gli studi giuridici, in:
Le università minori in Europa (secoli XV–XIX). Convegno internazionale di
Studi. Alghero, 30 ottobre – 2 novembre 1996, a cura di Gan Paolo Brizzi e
Jacques Verger, (Università degli Studi di Sassari. Dipartimento di Storia.
Centro interdisciplinare dell’Università di Sassari. Commission Internationale
pour l’Histoire des Universités), Soveria Mannelli: Rubbettino 1998, pp. 509–
531.
58 Gazzetta dei Tribunali, Genova a. II(1850), n° 74–75. Parere emesso dalla
Commissione della Facoltà di Legge in Genova intorno a un progetto di
regolamento per gli studi legali, qualche cenno in Storti Storchi, Ludovico
Casanova (n. 40), pp. 57–59.

Claudia Storti 71
L’accento della commissione genovese sul «sistema» e sul «metodo» anti-
cipa la premessa al corso di diritto internazionale del Casanova da lui stesso
delineato come strumento fondamentale di emancipazione dei popoli: sotto
questo profilo, tale insistenza sembra riflettere il tentativo del giurista ge-
novese di elaborare una teoria per il Risorgimento e per l’indipendenza
politica dell’Italia fondata su solide basi razionali e scientifiche.
Per raggiungere gli scopi che lui, come altri patrioti italiani, si erano
prefissi, il Casanova scelse un trampolino di lancio forse meno originale,
rispetto alla teoria di un Mamiani 59 o alla costruzione ideata dal Mancini
della nazione come soggetto di diritto pubblico, ma probabilmente più sottile
in quanto più spendibile nel rapporto con gli Stati che dirigevano il concerto
europeo. Come è stato ben illustrato, le istanze nazionalistiche si dimostraro-
no poco utilizzabili sia nell’immediato sul piano della trattativa diplomatica,
sia nel lungo termine. 60
Nella seconda metà dell’Ottocento si manifestarono le crepe dell’adozione
del principio della nazionalità come criterio per la soluzione dei conflitti di
leggi nello spazio e della parificazione della condizione giuridica degli stranieri
introdotte per volontà dello stesso Mancini nel codice civile italiano del 1865.
Fallì anche il progetto di un codice internazionale di diritto internazionale
privato del giurista napoletano 61 ed ebbe, inoltre, una fortuna modesta e
tardiva il saggio di codificazione del diritto internazionale sia pubblico sia
privato elaborato e pubblicato a Torino da un esponente della dottrina
“umanitaria” del cosmopolitismo, Augusto Paroldo, nel fatidico 1851, anno
dell’inizio dell’insegnamento del Casanova e del Mancini nelle Università del

59 Terenzio Mamiani, D’un nuovo diritto europeo, Torino: Tipografia di Ge-


rolamo Marzorati 1859, in part. pp. 140 ss. sull’intervento; pp. 154 ss.
sull’equilibrio europeo.
60 Lo ha ben rilevato Elisa Mongiano con riferimento agli incontri diplomatici
avuti dal Cavour nel 1856 (Le principe de nationalité [n. 29], in part. pp. 256–
257 e cfr., oltre a questo, gli scritti di Elisa Mongiano, Paola Casana e
Enrico Genta cit. sopra a n. 29). A ben vedere, nel panorama degli studi
internazionalistici, il Risorgimento italiano, o meglio “la questione italiana”
costituì per i governi europei soltanto uno dei tanti casi di ribellione di una
nazionalità nei confronti dello Stato politico (cosa ben evidente, ad esempio,
negli scritti di Carlos Calvo, Derecho internacional teorico y pratico, t. I,
Paris 1868, p. 57; ma si veda anche la sintesi di queste vicende pubblicata da
Rapisardi Mirabelli, Storia dei trattati (n. 3), pp. 196–197), mentre altre
erano le questioni veramente impegnative per le corti e le diplomazie dei grandi
Stati europei (come, ad esempio, la questione degli Stretti).
61 Avevo svolto alcune considerazioni in proposito in Ricerche (n. 48), pp. 309 ss.
e cfr. ora Luigi Nuzzo, Disordine politico e ordine giuridico. Iniziative e
utopie nel diritto internazionale, in: Materiali per una storia della cultura
giuridica 2 (2011), pp. 319–338, testo corrispondente a n. 16 ss.

72 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Regno di Sardegna. 62 Altri tentativi, corrispondenti ai criteri ispiratori dell’In-
stitut de droit international di Gand, da quello del Dudley Field a quello del
Bluntschli, divennero celebri, pochi anni più tardi, per aver promosso, seppure
senza esito, la positivizzazione delle regole dei rapporti internazionali. 63

4. Il “sistema” del Ius Publicum Europaeum nell’opera


di Georg Friedrich von Martens
Georg Friedrich von Martens docente di Jus naturae et gentium nella Facoltà
giuridica dell’Università di Göttingen aveva pubblicato nel 1785 un primo
compendio di regole del diritto internazionale da lui stesso giudicato imper-
fetto. 64 Il suo Précis du droit des gens moderne de l’Europe fondé sur les
traités et l’usage fu edito per la prima volta tre anni più tardi alle soglie della
rivoluzione francese. 65 Di manuale si trattava in senso proprio tanto che il

62 Augusto Paroldo, Saggio di codificazione del diritto internazionale, Torino:


Tip. degli Artisti A. Pons e comp. 1851, ora consultabile anche on line e cfr. già
Storti Storchi, Ricerche (n. 48), pp. 294–300 e ead., Ludovico Casanova (n.
40), pp. 72–75. Riferimenti al progetto del Paroldo, preceduto da un’ampia
introduzione particolarmente incentrata sul conflitto di leggi, sull’esecuzione
delle sentenze e sul commercio internazionale sia in pace sia in guerra: Ernest
Nys, The Codification of International Law, in: The American Journal of
International Law 5 (1911), p. 885; Report di Carnegie Endowment for
International Peace (1923), p. 248.
63 Sulla formazione dell’istituto cfr. ora la precisa ricostruzione di Nuzzo,
Disordine politico e ordine giuridico (n. 61). David Dudley Field, Draft
outlines of an International Code, New York: Drossy & c. Law Publishers
1872; l’opera di Bluntschli è citata a n. 6.
64 Primae lineae iuris gentium Europaearum practici in usum auditorum adum-
bratae. Accedit praecipuorum quorundam foederum ab anno 1748 inde
percussorum index et repertorium, Gottingae: Jo. Christ. Dieterich 1785. Nella
premessa al prècis (cfr. nota successiva) egli stesso denunciò «l’imperfection de
cet ouvrage lorsque les circonstances m’empéchèrent de le retenir plus long-
temps chez moi pour le retoucher».
65 Georg Friedrich Martens (1756–1821), Précis du droit des gens moderne
de l’Europe fondé sur les traités et l’usage pour servir d’introduction à un cours
politique et diplomatique, 1788, Gottingue: Chés J. Chret 1789, (1801),
(1821) (1831 Paris: J. P. Aillaud Libraire, dalla quale si cita) fu completata
da una raccolta dei trattati posteriori al 1761 (Recueil des principaux traités
d’alliance, de paix, de trêve … Supplément au Recueil des principaux traités
d’alliance, de paix, de trêve, de neutralité, de commerce, de limites, d’échange
& conclus par les Puissances de l’Europe tant entre elles qu’avec les Puissances
et Etats dans d’autres parties du monde, depuis 1761 jusqu’à présent,
Gottingue: J. C. Dieterich 1791–1801) continuamente ristampata e ampliata
e da un Cours diplomatique, ou, Tableau des relations extérieures des
puissances de l’Europe tant entre elles qu’avec d’autres états dans les diverses

Claudia Storti 73
docente precisò nell’introduzione alla prima edizione che i numerosi casi
pratici esaminati nelle note erano destinati soprattutto agli studenti non
frequentanti. 66 Oggetto dell’insegnamento era non soltanto la teoria, ma
anche la pratica del droit des gens, trattata in esercitazioni settimanali tenute
in parte in lingua tedesca, in parte nella lingua francese che era ormai divenuta
presque universelle in Europa soprattutto nei rapporti internazionali. A
questo motivo si doveva appunto l’adozione del francese per l’intero manua-
le, 67 che fu tradotto nel 1795 negli Stati Uniti, prima ancora che in Inghilterra,
con una dedica dell’editore Thomas Bradford a George Washington. 68
Lo schema del trattato corrispondeva alla tripartizione di personae, res e
actiones e tale rimase nella sua struttura essenziale nelle due revisioni
successive. In quella tedesca del 1796, il Martens inserì una critica minuziosa
e in alcuni punti feroce al progetto di codice del diritto delle genti dell’abbé
Grégoire. L’accantonò a causa dell’idea “chimerica” di un diritto uniforme ed
universale, 69 con il pragmatismo del diplomatico abituato agli “incidenti” e
con il realismo di chi conosceva la differenza tra «les cabinets d’étude et ceux
des souverains». 70
I materiali del “sistema” del Martens consistevano nelle costituzioni e negli
usi dell’Europa, la cui specialità era ben stata evidenziata dai fondatori del

parties du globe, par Geo. Fred. de Martens, Berlin: A. Mylius 1801 nonché
Paris Strasbourg 1801. La raccolta di casi celebri di diritto internazionale
Erzählungen merkwüdiger Fälle des neueren Europäischen Völkerrechts, in
einer practischen Sammlung von Staatsschriften aller Art in teutscher und
französischer Sprache (Göttingen 1800 e 1802) fu ripubblicata con il titolo
Causes célèbres du droit des gens dal nipote Charles, dopo la sua morte
(Leipzig: chez F. A. Brockhaus 1827).
66 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, Introduction 1788, pp. 6–7.
67 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, Introduction 1788, pp. 7–9.
68 Summary of the law of nations, founded on the treaties and customs of the
modern nations of Europe with a list of the principal treaties, concluded since
the year 1748 down to the present time, indicating the works in which they are
to be found, by Mr. Martens, professor of law in the University of Göttingen,
translated from the French by William Cobbett, Philadelphia: Thomas Brad-
ford 1795. La prima edizione inglese del 1802 per iniziativa dello stesso
traduttore, il celebre William Cobbett (1763–1835), fu intitolata A compen-
dium of the law of nations, founded on the treaties and customs of the modern
nations of Europe: to which is added, a complete list of all the treaties,
conventions, compacts, declarations, &c. from the year 1731 to 1788, inclu-
sive, indicating the several works in which they are to be found, by G. F. von
Martens …, and the list of treaties, &c. brought down to June, 1802, by
William Cobbett, London: Cobbett and Morgan 1802.
69 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, Introduction 1796, e cfr. ad
es. in tema di présèance: p. 23 e sulla non ingerenza p. 14; cfr. anche oltre § 8.
70 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, Introduction 1796, p. 23.

74 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


diritto delle genti, 71 dal Montesquieu e dal Mably. Di Gabriel Bonnot de
Mably, annotatore dell’Esprit del Montesquieu, 72 oltre alla consistente serie
di pubblicazioni, tra le quali Le droit public de l’Europe fondé sur les traités
del 1748, 73 e allo scetticismo sulla natura dei rapporti convenzionali tra gli
Stati europei («Dans toute l’Europe, les traités ne sont depuis longtemps qu’un
jeu: on diroit que les peuples ne se rapprochent que pour se tendre des
pièges»), 74 merita ricordare, del 1783, una corrispondenza con lo statunitense
John Adams, più tardi secondo presidente degli Stati Uniti, sul tema del
governo e delle leggi del nuovo Stato. 75 Quest’ultimo nel 1779 aveva redatto
per il Congresso una relazione minuziosa sulla situazione politica ed econo-
mica delle singole nazioni europee. Proprio nel corso del 1783 fu, con John
Jay e Benjamin Franklin, membro della delegazione americana per la stipu-
lazione della pace con l’Inghilterra e tra gli artefici del trattato di Parigi. 76
Sul tema delle «persone morali», soggetti del droit des gens, «les puissances
de l’Europe» erano innanzitutto considerate dal Martens «comme un tout», in

71 Per riferimenti a Grozio e Bynkershoek, cfr. anche oltre n. 115, 140 ss, 215, 277.
72 Montesquieu, De l’esprit des loix, ou Du rapport que les loix doivent avoir
avec la constitution de chaque gouvernement, les mœurs, le climat, la religion,
le commerce, etc. A quoi l’auteur a ajoute des recherches nouvelles sur les loix
romaines touchant les successions, sur les loix françoises et sur les loix
feodales. – Derniere edition, revue, corrigée et considerablement augmentée
par l’auteur, Amsterdam: aux depens de la Compagnie 1749; id., Esprit des
lois par Montesquieu avec les notes de l’auteur et un choix des observations de
Dupin, Crevier, Voltaire, Mably, La Harpe, Servan, etc., Paris: Firmin Didot
1849.
73 Gabriel Bonnot de Mably (1709–1785), Le droit public de l’Europe fondé
sur les traités (Amsterdam 1748 ed. I), che ho visto nella terza edizione di
Genève, par la Compagnie des Libraires 1764 e in id., Œuvres complètes de
l’abbé de Mably, t. V, Paris: chez Bossange, Masson et Brisson Libraires 1797,
pp. 155–452. Nello stesso volume è pubblicato Principes des négociacions
pour servir d’introduction au droit public de l’Europe fondé sur les traités
(pp. 1–154), mentre nel volume XII delle Œuvres sotto il titolo Étude de
l’histoire et manière de l’écrire si trovano i trattati sulla storia del Mably: Des
différens genres d’histoire. Des études par lesquelles il faut se préparer à
l’écrire. Des histoires génèrales et universelles (pp. 245–308) e Des histoires
particulières; quel en doit etre l’objet. Observations ou règles communes à tous
les genres d’histoire (pp. 309–383).
74 Mably, Etude de l’histoire et manière de l’écrire (n. 73), p. 45.
75 Scritti politici di Gabriel Bonnot de Mably, a cura di Aldo Maffey, (Classici
politici), Torino: Utet 1965, pp. 31–38 e 589–672.
76 The Revolutionary Diplomatic Correspondence, vol. 3, pp. 278 ss. J. Adams to
the President of Congress, Briantree, 1779, august 4 Considerations on the
general state of affairs in Europe as far as they relate to the interests of the
United States, consultabile nel sito della Library of Congress http://memory.
loc.gov/cgi.

Claudia Storti 75
quanto distinte per la loro tradizione “dal resto del mondo”. 77 Dall’esame dei
caratteri delle diverse tipologie di ordinamento giuridico, 78 il giurista passava
all’analisi delle rispettive dignité e puissance, constitution e religion. 79 Dignité
e puissance, come vedremo tra breve, ebbero per il docente di Göttingen una
sorta di riconoscimento, per così dire, teorico in tema di intervento. Oggetto
della scienza erano sia le fonti del diritto “positivo” (i trattati, le convenzioni
tacite, l’uso, la prescrizione in merito alla quale si discuteva se fosse fonte del
diritto naturale oppure positivo); sia i diritti degli Stati (corrispondenti agli
interessi interni ed esterni delle nazioni); sia la perdita di tali diritti. 80 La terza
parte concerneva la trattazione dei mezzi utilizzati per negoziare e dirimere le
controversie, dai trattati, alla costituzione di ambasciate, a ritorsioni, rap-
presaglie e guerre. 81
Dopo che dal 1808 si era dedicato quasi esclusivamente agli affari di Stato,
nel 1820 il Martens ripubblicò con considerevoli ampliamenti il suo Précis.
Dichiarò che tale terza edizione era stata fortemente sollecitata a causa
dell’esaurimento della precedente e certamente fu un’occasione ch’egli non
si lasciò sfuggire sia per confermare, nonostante il succedersi vorticoso degli
eventi nel frattempo intervenuti, la propria fedeltà al “sistema” adottato fin
dalla prima edizione del 1788, 82 sia per contrastare talune opinioni del
Klüber con particolare riguardo, appunto, ai temi dell’intervento e dell’equi-
librio. 83
Sotto il primo profilo, ribadendo la convinzione che la costituzione interna
dei singoli Stati era decisiva nella conduzione degli affaires étrangers, 84 con il
titolo Les droits qui peuvent appartenir à une Nation sur la Constitution de
l’autre, pur riconoscendo il principio della libertà nella scelta della forma di
ordinamento, ammise il “diritto” di una potenza di intervenire sia per esigere
l’adempimento di obblighi contratti a tale riguardo da un’altra nazione a
seguito della stipulazione di eventuali trattati, sia allo scopo di adottare
misure difensive in caso che modifiche “costituzionali” mettessero a rischio
la sua sicurezza. 85

77 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, Introduction 1821, pp. 37–
38.
78 Ibidem, De la diversité des Constitutions des Etats de l’Europe, pp. 97–108.
79 Ibidem, vol. I, Introduction 1788, p. 4.
80 Ibidem, p. 5.
81 Ibidem, p. 6.
82 Ibidem, Introduction 1821, p. 32.
83 Cfr. § 7.
84 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, p. 75.
85 Ibidem, pp. 178–82.

76 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Si doveva anzi riconoscere che, mentre dal punto di vista teorico,
l’intervento non era che un’eccezione alla regola dell’indipendenza degli Stati,
di fatto tale “eccezione” costituiva la “regola’: una regola che era applicata
«sans croire s’écarter par là du droit des gens et du principe reconnu de
l’indépendence et du libre vœux des nations». 86 Nella pratica era, inoltre,
necessario distinguere tra l’intervento occasionato dalla successione negli Stati
monarchici, quello dovuto a cambiamenti parziali della costituzione e quello,
infine, relativo a rivoluzioni tendenti a modificare la persona del sovrano o la
complessiva forma di governo. 87 Quanto al caso delle rivoluzioni, quale
comportamento sarebbero state tenute ad osservare le nazioni straniere
secondo il diritto delle genti? L’incubo della storia recente era ben presente
al giurista tedesco che sosteneva, innanzitutto, che nulla avrebbe giustificato
la nazione che s’immischiava negli affari di un’altra per insinuare i germi della
rivoluzione totale, come aveva fatto la Francia della Convenzione nazionale
con il promettere soccorso a tutti i popoli «qui voudront lever l’étendard de la
révolte»: il diritto delle genti non giustificava mai il fanatismo politico, ancor
più temibile di quello religioso. 88 Per il resto, le soluzioni proposte da Martens
erano indubbiamente quelle di un diplomatico: cautela nel riconoscimento dei
vincitori e dell’indipendenza conquistata e attenta valutazione della giusta
causa nel caso della richiesta di aiuti da parte degli insorti. 89
Fu essenzialmente sul tema dell’equilibrio che, come si è avuto modo di
rilevare, si consumò la sfida tra i due colossi tedeschi del ius gentium, sul
punto in cui il Martens, nell’edizione del 1821, in aperto contrasto con
l’opinione del Klüber che lo aveva escluso, 90 confermò di voler rivendicare al
principio dell’equilibrio l’essenza di vero e proprio diritto naturale delle genti.
La discussione sul ruolo del principio dell’equilibrio rientrava
nell’esposizione del diritto di libertà e sicurezza degli Stati ed era preceduta
da un breve capitolo sulla storia del Système de l’equilibre en Europe. 91
Orbene la crescita sproporzionata di uno Stato avrebbe potuto mettere in
discussione la vera indipendenza (e non quella puramente formale) degli altri
«par l’abus d’une superiorité des forces, auquel il ne serait plus temps de
rémedier un jour en recourant au moyen incertain d’une ligue de plusieurs
états, dont aucun ne suffirait seul pour servir de contre poids». Al fine della
conservazione dell’equilibrio, la loi naturelle riconosceva agli Stati il diritto di

86 Ibidem, in part. p. 183.


87 Ibidem, in part. pp. 183–184.
88 Ibidem, in part. p. 191.
89 Ibidem, in part. pp. 192–196.
90 Cfr. infra testo corrispondente a n. 192.
91 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, in part. pp. 273–278.

Claudia Storti 77
prevenire, anche con il ricorso alle armi, l’eccessiva crescita di uno di loro o
l’eccessivo indebolimento dello Stato che aveva la funzione di contrappeso. Le
minacce all’equilibrio potevano essere di diversa natura. Potevano, ad esem-
pio, consistere nell’acquisizione del controllo su uno Stato che, da un punto di
vista esclusivamente formale, conservava la sua indipendenza; oppure nella
stipulazione di nuove alleanze; o ancora nell’indebolimento di uno Stato
“cuscinetto”. Gli strumenti per conservare l’equilibrio erano del pari di
diversa natura e tra questi avevano un ruolo essenziale, innanzitutto, le
alleanze. 92
L’equilibrio politico non aveva soltanto una valenza generale, ma poteva
riguardare anche aree più limitate come l’Italia piuttosto che la Germania, gli
Stati Uniti, ovvero il mare. Era comunque essenziale per l’Europa più che per
le altre parti del mondo e, nonostante le sue imperfezioni ed abusi, non poteva
essere tacciato «de chimère ou de charlatanerie politique, ni rejeté comme
superflu, condamné comme illégitime, ou rayé du droit des gens». 93
Il contrasto tra queste opinioni e quelle del Klüber, infine, era, a dire del
Martens, più apparente che reale, più di forma che di sostanza, dato che anche
il professore di Heidelberg aveva compreso nell’elenco dei diritti naturali delle
genti quello di mettere in atto azioni di difesa in caso di ingiusto e smisurato
accrescimento di una potenza straniera. 94 Dopo l’impresa di Napoleone che
aveva tentato di soggiogare tutte le nazioni «dont nominalement la souverai-
neté était encore conservée», i trattati conclusi tra il 1814 e il 1819 sem-
bravano al Martens aver assicurato le «repos de l’Europe». In aggiunta, in
considerazione del fatto che la maggior parte delle potenze aveva preso parte
alla loro stipulazione, ciascuna di loro doveva essere autorizzata a prendere
provvedimenti qualora la ripartizione dei territori e dei possessi stabilita da
quei trattati fosse stata messa a rischio. A questo punto, concludeva il
Martens, era irrilevante discutere se il sistema dell’equilibrio fosse fondato
sul diritto naturale delle genti oppure sui trattati. 95

5. James Kent e la Corte suprema degli Stati Uniti: la tratta degli


schiavi tra diritto naturale e diritto convenzionale
Una prima fortissima reazione contro tale tesi e più complessivamente contro
l’orientamento che identificava il droit des gens con il diritto convenzionale

92 Ibidem, pp. 278–282.


93 Ibidem, pp. 271–272.
94 Ibidem, n. a, pp. 273–274.
95 Ibidem, n. a, pp. 274–275.

78 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


sarebbe venuta, secondo l’Heffter, 96 dal portoghese Pinheiro-Ferreira nel
1831, nelle note all’edizione del Précis del Martens che anche il Casanova
ebbe sottomano ed utilizzò con particolare riguardo al conflitto tra il diritto di
conservazione degli Stati sovrani e quello dell’intervento. 97 Nell’opinione del
giurista portoghese, era imprescindibile ricorrere per l’interpretazione delle
“leggi positive” alla dottrina e alla scienza. 98
Mentre il primato del diritto convenzionale, politicamente sancito dal
Congresso di Vienna e dai successivi trattati che sembravano averne conso-
lidato il successo, sembrava dominare la riflessione internazionalistica del
continente europeo, la via intermedia tra prassi e ragione appare dominare la
dottrina e la giurisprudenza inglese e americana dei primi trent’anni
dell’Ottocento, dopo alcune lectures di James Mackintosh che nel 1799
avevano agitato le acque della teoria del diritto delle genti.
La considerevole evoluzione del pensiero che connotò l’opera di molti
giusinternazionalisti della prima metà dell’Ottocento trova riscontro anche
negli scritti di James Kent, uno degli artefici dell’indipendenza americana. 99

96 Heffter, Le droit international public de l’Europe (n. 2), pp. 24–25.


97 Cfr. ad esempio, Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, p. 83.
Sull’indipendenza degli Stati: «Niente vi è di più naturale e giusto osserva il
sig. Pinheiro-Ferreira, quanto il chiedere ad una Nazione, che arma, delle
spiegazioni che ci tranquillizzino a questo riguardo. Simile domanda non reca
offesa alla di lei indipendenza, né impedisce per nulla l’esecuzione dei suoi
progetti. Ci dà ella una risposta atta ad ispirare confidenza? Noi lasciamo che
prenda liberamente tutte quelle misure le quali estima meglio convenienti ai
suoi fini. Ma se ricusando di risponderci in modo preciso e categorico, e
porgendo così occasione a giusti timori, ci costringe a porci sulla difesa, ella si
costituisce per la sua mala fede inverso noi responsabile per tutte le spese che il
di lei silenzio ha rendute indispensabili».
98 Précis du droit des gens moderne de l’Europe fondé sur les traités et l’usage
pour servir d’introduction à un cours politique et diplomatique, nouvelle
édition avec des notes de M. S. Pinheiro Ferreira ancien ministre des affaires
étrangères en Portugal, Paris: J. P. Aillaud Libraire, Heideloff Libraire 1831,
pp. 365–372.
99 James Kent (1763–1847), amico di Washington e di John Jay, combatté per la
rivoluzione e l’indipendenza e fu profondo conoscitore del common law grazie
agli studi svolti alla Freshman Class of Yale College in New Haven e presso lo
studio di Egbert Benson, allora Attorney General of the State e, negli ultimi
anni della sua vita, membro del Bench della Supreme Court. Nel 1785 Kent fu
ammesso a sua volta al Bar come Attorney of the Supreme Court of the State e
divenne nel 1787 Counsellor della stessa Corte. Nel 1788 partecipò al dibattito
sulla Costituzione americana come federalista e seguace di Hamilton. Dopo
essere stato sconfitto nel 1793 nelle elezioni per il Congresso, nel 1794, con il
supporto di numerosi giudici, fu scelto come Professor of law nel Columbia
College. La lezione introduttiva e tre lezioni del 1794 furono pubblicate nel
1795 (James Kent, Dissertations, being the preliminary part of a Course of

Claudia Storti 79
Nel 1795 – anno di pubblicazione di due volumi sui fondamenti e sulla storia
del law of nations dell’inglese Robert Ward 100 – e in coincidenza (tra 1795 e
1796) con le edizioni statunitensi, come rilevato, delle opere del Martens e del

Law Lectures, New York, printed by G. Forman for the Author 1795 (rist.
Littleton Colo.: F.B. Rothman 1991), p. III On the law of nations). Nel 1798,
con l’appoggio di John Jay divenne Justice of the Supreme Court. Cfr. John
Duer (1782–1858), A discourse on the life, character, and public services of
James Kent, late chancellor of the state of New-York, delivered by request,
before the judiciary and bar of the city and state of New-York, April 12, 1848,
New-York: D. Appleton & Company; Philadelphia: G. S. Appleton 1848, in
part. pp. 10–33. Il suo contributo al miglioramento delle procedure e al
consolidamento del ruolo della Corte Suprema e delle sue decisioni dipese
non soltanto dalla sua fermezza e dedizione al lavoro, ma anche dallo studio
esteso, dopo gli anni della laurea, ai testi della scienza giuridica europea in
lingua francese (Domat Pothier ecc.) e alla cultura classica greca e latina, se-
condo gli insegnamenti di Selden, Hale, Holt e Mansfield (Duer, A discourse,
pp. 33–39). Curò soprattutto le questioni di diritto internazionale (in part.
p. 38) e si dedicò alla redazione dei reports delle decisioni dal 1803 (pp. 40ss).
Nel 1814 assunse l’incarico di Chancellor of the State, nella riformata Court of
Equity e lo mantenne fino al 1823 (pp. 52–57). Una ventina di reports di
decisioni di James Kent è compresa in United States reports: cases adjudged in
the Supreme Court, Washington: U.S. Govt. Print. Off. 1798, nonché in A
digest of the decisions of the Supreme Court of the United States from the
Establishment in 1789 to January term, 1829, New York: Banks, Gould
[1829]. Terminata l’attività giudicante, durante il secondo periodo di insegna-
mento al Columbia College, scrisse (Duer, A discourse, pp. 70–72) i Com-
mentaries on American Law, New York: Halsted 1826–1830, che sostituirono
negli Stati Uniti i Commentaries on the Laws of England del Blakstone (Duer,
A discourse, pp. 78–79) ed ebbero un numero ingente di ristampe e amplia-
menti, in parte da lui stessi curati per tutta la durata della sua vita (1832, 1836,
1840 e 1844), in parte postumi e resisi necessari anche per il fatto che le sue
opinioni erano continuamente citate nelle corti locali e federali (ibidem, p. 73).
Tra questi cfr. in particolare Kent’s Commentary on International Law, revised
with notes and cases brought down to the present time, ed. by J. T. Abdy, LL.
D., Barrister at Law, Regius Professor of Laws in the University of Cambridge
and Law Lecturer at Gresham College, Cambridge: Deighton, Bell, and co.,
London: Stevens and Sons 1866 (ripubblicato ancora nel 1878).
100 Robert Plumer Ward (1765–1846), An Enquiry into the Foundations and
History of the Law of Nations in Europe from the time of the Greeks and
Romans, to the age of Grotius, by Robert Ward of the Inner Temple. Esq.
Barrister at Law, in two volumes, London, printed by A. Strahan and W.
Woodfall, for J. Butterworth 1795, in part. vol. I, pp. 329–344 e vol. II,
pp. 231–250. Ward fu anche autore di un trattato sulla guerra per mare e sui
diritti degli stati neutrali A Treatise of the relative rights and duties of belli-
gerent and neutral powers, in maritime affairs: in which the principles of
armed neutralities, and the opinions of Hubner and Schlegel are fully discus-
sed; t. 2: An essay on contraband being a continuation of the treatise of the
relative rights and duties of belligerent and neutral nations, in Maritime affaire,

80 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Vattel 101 –, il giurista americano inaugurò una serie di lezioni rievocando
come i neonati Stati Uniti avessero aderito al sistema delle regole teoriche e
pratiche dell’Europa continentale: «continued by their acts and consent, to be
subject to that system of rules which reason and custom have established
among the civilised Nations of Europe». 102 Il diritto delle genti fissato nelle
opere dottrinali non aveva valore universale e non era, pertanto, «the Law of
all nations», ma soltanto quello di «such sets or classes of Nations as are
united by similar religion, systems of morals and principles of policy». 103 Il
riferimento era, ad evidenza, al primato del diritto elaborato dagli Stati
cristiani europei, ai quali gli Stati Uniti avevano aderito e che, come vedremo,
continuò a costituire per il Kent un elemento irrinunciabile. Era su questa base
e con precipuo riguardo ai casi discussi nelle isole britanniche e negli stessi
Stati Uniti, che i giudici delle corti statunitensi avevano di poi sviluppato il
loro sistema.
Pur continuando ad insistere sulla duplice natura (in quanto fondato su
«reason and custom») di questo ramo del diritto, nel 1795 James Kent
privilegiò senza dubbio l’aspetto convenzionale del diritto delle genti. Quan-
tunque fondato sui principi del diritto naturale, il diritto delle genti derivava
«its form, manner and application wholly from positive institutions founded
on consent». 104 La relatività nella concezione del diritto delle genti dipendeva,
inoltre, come già rilevato dal Montesquieu, 105 dal Vattel 106 e infine dal

London: printed for J. Butterworth by G. Woodfall 1801. Sulla vita e l’opera di


Ward cfr. Edmund Phipps (1808–1857), Memoirs of the political and literary
life of Robert Plumer Ward, Esq. author of “The Law of Nations”,
“Tremaine”, “De vere”, etc., etc. with selections from his correspondence,
diaries, and unpublished literary remains, London: J. Murray 1850.
101 Cfr. rispettivamente n. 65 e n. 11.
102 Kent, Dissertations (n. 99), in part. p. 51. Così anche in id., Commentaries on
American Law, by James Kent, vol. I, (1826), pp. 1–2 e New York: printed for
the Author 51844, pp. 1–2.
103 Kent, Dissertations (n. 99), p. 53. L’autore proseguiva insistendo «that there
may be and really is, a different Law of Nations among different sets of
nations; and that a class of nations under one law may be known from their
habit of making alliances and treaties together, sending and receiving ambas-
sadors, and of studying and following the same writers and codes of public
Jurisprudence».
104 Ibidem, pp. 51–52.
105 Esprit des loix (n. 72), Liv. I, ch. III Des loix positives, «Considérés comme
habitans d’un si grand Planète qu’il est nécessaire qu’il y ait différens Peuples,
ils ont des Loix dans le rapport que ces peuples ont entr’eux, et c’est le droit des
gens. […] le droit des gens est naturellement fondé sur ce principe, que les
diverses Nations doivent se faire dans la paix le plus de bien, et dans la Guerre
le moins de mal qu’il est possible, sans nuire à leurs véritables intérêts. L’objet

Claudia Storti 81
Martens, 107 dalla stretta connessione tra i caratteri del diritto pubblico
interno e il conseguente atteggiamento assunto dagli Stati nei rapporti inter-
nazionali. 108
Una trentina d’anni più tardi, nei primi Commentaries on American Law
ideati innanzitutto a scopo didattico e pubblicati tra il 1826 e il 1830,
nonostante ribadisse come l’adesione ai principi del diritto internazionale
europeo fosse stata espressa dal Congresso a suo tempo in piena auto-
nomia, 109 il Kent attenuò l’originaria connotazione relativistica del Law of
Nations e, malgrado la rinnovata adesione alle tesi di Montesquieu e Vattel, –
manifestò espressamente la necessità di integrare la teoria dei rapporti inter-
nazionali con il ricorso ai principi razionali e morali. 110

de la Guerre c’est la Victoire…, celui de la Victoire, la Conquête; celui de la


Conquête, la Conservation. De ce principe et du précédent doivent dériver
toutes les Loix qui forment le Droit des Gens. Toutes les Nations ont un Droit
des Gens, et les Iroquois mêmes, qui mangent leurs prisonniers, en ont un. Ils
envoient et reçoivent Ambassades; ils connoissent des Droits de la Guerre et de
la Paix; le mal est que ce Droit des Gens n’est pas fondé sur les vrais Principes»
(pp. 4–5); Vattel, Le droit des gens (n. 11) Preliminaires: «le droit des gens est
la science du droit qui a lieu entre les nations – ou états, et des obligations qui
répondent à ce droit. […] Il est donc nècessaire que chaque nation s’instruise de
ses obligations, non seulement pour éviter de pécher contre son devoir, mais
encore pour se mettre en état de connoître avec certitude ses droits, ou ce
qu’elle peut légitimement éxiger des autres. […] il faut donc appliquer aux
nations les regles du droit naturel, pour découvrir quelles sont leurs obligations
et quels sont leurs droits; par conséquent de droit des gens n’est originairement
autre chose que le droit de nature appliqué aux nations […]. Il est donc bien
des cas, dans lesquels la loi naturelle ne dècide point d’état à état comme elle
décideroit de particulier à particulier. Il faut savoir en faire une application
accomodée aux sujets; et c’est l’art de l’appliquer ainsi, avec une justesse fondée
sur la droite raison, qui fait du droit des gens une science particulière», in part.
pp. 25–28.
106 Kent, Commentaries (n. 99), vol. I, 1826, pp. 1–2 e 51844, p. 2.
107 Cfr. sopra n. 65 ss.
108 Kent, Dissertations, on the law of nations (n. 99), p. 52.
109 Kent, Commentaries (n. 99), vol. I, 1826, pp. 1 e 51844, p. 1: «During the war
of the American revolution, congress claimed cognizance of all matters arising
upon the law of nations, and they professed obedience to that law according to
the general usages of Europe».
110 «By this law we are to understand that code of public instructions, which
defines the rights and prescribes the duties of nations in their intercourse with
each other. The faithful observance of this law is essential to national character,
and to the happiness of mankind. According to the observation of Montes-
quieu, it is founded on the principle that different nations ought to do each
other as much good in peace, and as litte harm in war, as possibile without
injury to their true interests observation» (Ibidem, 1826, pp. 1–2 e 51844,
p. 2).

82 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Nell’esordio alla parte dei Commentaries dedicata al Law of Nations, il
giudice divenuto docente, dichiara la propria insoddisfazione sia nei confronti
delle opere teoriche di stampo giusnaturalistico fondate esclusivamente sulla
considerazione degli Stati (e dei loro obblighi) in quanto persone morali (ad
esempio quelle di Grozio e Pufendorf), sia nei confronti di quelle che, ispirate
ad una concezione meramente positiva – ad esempio, quella del Martens –
erano da considerarsi “parziali” perché avevano esclusivo riguardo alla
pratica ed erano limitate all’esposizione del «customary and conventional
law of the modern nations of Europe». 111
La complessità del sistema del law of nations era evidenziata dall’elenco
degli elementi che ne erano parte integrante: «The law of nations is a complex
system, composed of various ingredients. It consists of general principles of
right and justice, equally suitable to the government of individuals in a state of
natural equality, and to the relations and conduct of nations; of a collection of
usages, customs and opinions, the growth of civilisation and commerce; and
of a code of conventional or positive law. In the absence of these latter
regulations, the intercourse and conduct of nations are to be governed by
principles fairly to be deduced from the rights and duties of nations, and the
nature of moral obligation; and we have the authority of the lawyers of
antiquity, and of some of the first masters in the modern school of public law,
for placing the moral obligation of nations and individuals on similar grounds
and for considering individual and national morality as parts of one and the
same science». Il diritto internazionale naturale era vincolante in ogni età e
per tutti quantunque si dovesse constatare l’esistenza di una comunità degli
Stati cristiani europei e degli Stati Uniti fondata su caratteri comuni. 112
Oltre ai progressi di una riflessione giuridica più matura, con considerevoli
punti di contatto con la concezione espressa da Story in una sentenza che sarà
esaminata tra breve, vi furono forse contingenze di carattere politico che
suggerirono al Kent l’adozione di una diversa teoria. Non fu forse un caso,
infatti, che tali principi fossero enunciati nel torno d’anni in cui Inghilterra e
Stati Uniti si dissociarono dalla politica di intervento della Santa Alleanza. 113
Dal punto di vista razionale e teorico, dunque, le basi fondamentali del law
of nations erano costituite dai principi dell’uguaglianza e della libertà delle
nazioni («equality and indipendence of nations»), 114 dai quali dipendeva

111 Ibidem, 1826, p. 17 e 51844, p. 17.


112 Ibidem, 1826, pp. 2–3 e 51844, p. 3. Cfr. su questo punto anche Nuzzo, Un
mondo senza nemici (n. 4), p. 1329.
113 Cfr. per riferimenti bibliografici sopra n. 3.
114 Kent, Commentaries on American Law 1826 (n. 99), p. 21 e anche 51844,
p. 20

Claudia Storti 83
quello della non interferenza: «It is a necessary consequence of this equality
that each nation has a right to govern itself as it may think proper, and no one
nation is entitled to dictate a form of government, or religion, or a course of
internal policy to another». La necessità di giustificare la recente esperienza
dell’indipendenza statunitense era, ad evidenza, alla radice del pensiero del
Kent, che indicava tuttavia come autorità per lo svolgimento del proprio
pensiero Grozio, 115 Vattel 116 e Rutherforth. 117
Il rispetto dell’indipendenza altrui aveva un limite nel diritto di auconser-
vazione; la difesa dei propri diritti tramite la guerra, inoltre, era giustificabile
soltanto in caso di pericolo grave, certo ed imminente, come più di recente
avevano sostenuto, in dottrina, il Klüber e, nei fatti, il governo inglese con
riguardo alla crisi sudamericana. All’autorità di quest’ultimo e a quella di
Pinheiro – Ferreira il Kent riferiva le soluzioni, da adottarsi caso per caso, in
merito all’eventuale sostegno da offrirsi ai ribelli nei confronti del loro
governo e al riconoscimento di un nuovo Stato. 118

115 Hugo Grotius, De iure belli ac pacis libri tres in quibus ius naturae et
gentium, item iuris publici praecipua explicantur, ed. P. C. Molhuysen prae-
fatus est C. van Vollenhoven, Lugduni Batavorum: A. W. Sijthoff 1919, Lib. I,
cap. 3 Belli partitio, sec. 8 e cfr. in part. 2. «Sicut multa sunt vivendi genera,
alterum altero praestantius, et cuique liberum est ex toto generibus id eligere
quod ipsi placet; ita et populus eligere potest qualem vult gubernationis
formam: neque ex praestantia huius aut illius formae, qua de re diversa
diversorum sunt iudicia, sed ex voluntate ius metiendum est» (il corsivo è di
chi scrive). Kent forse citava Grozio da Vattel o da Rutherforth, data la tardiva
diffusione del testo di Grozio negli Stati Uniti sulla quale cfr. oltre n. 244 ss.
116 Vattel, Le droit des gens (n. 11), liv. II, chap. IV § 54: «C’est une conséquence
manifeste de la liberté et l’indépendance des nations, que toutes sont en droit de
se gouverner comme elles le jugent à propos, et qu’aucune n’a le droit de se
mêler du gouvernement d’une autre». Ne conseguiva che nessuno Stato
avrebbe potuto ergersi a giudice della politica interna di un altro Stato,
quantunque nel caso di esercizio del diritto di resistenza di un popolo contro
il sovrano tirannico, le potenze straniere, purché questo non desse adito a
«odieuses manœuvres contre la tranquillité des états», avrebbero potuto dare
sostegno ai ribelli, come già era avvenuto in diverse circostanze (§§ 55–56,
pp. 273–276).
117 Thomas Rutherforth (1712–1771), Institutes of natural law being the
substance of a course of lectures on Grotius De jure belli et pacis. Read in
S. Johns College, Cambridge, by T. Rutherforth, d. d. F. R. S. Archdeacon of
Essex and Chaplain to her Royal Highness The Princess Dowager of Wales,
vol. II, Cambridge [Eng.]: printed by J. Bentham 1756, in which are explaned
The rights and obligations of mankind considered as members of civil societies,
in part. vol. II, chap. IX–X.
118 Kent, Commentaries on American Law 1826 (n. 99), pp. 21–23 e anche
5
1844, p. 23. Oltre che a Grozio e a Vattel il riferimento era a Klüber e cfr.
sopra n. 98 et oltre n. 194.

84 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Il problema del delicato rapporto nell’ambito del law of nations tra reason
e diritto convenzionale e consuetudinario era esploso nel frattempo nei
tribunali statunitensi con particolare riguardo al trattamento delle navi stra-
niere adibite alla tratta degli schiavi. L’esame di due sentenze assolutamente
contrastanti, una pronunciata nel 1822 da Josepf Story, in qualità di presi-
dente della First Circuit Court, 119 l’altra del 1825 di Joseph Marshall Chief
Justice della Supreme Court, offre l’occasione per affrontare il discorso sulle
diverse definizioni della natura del diritto internazionale e sulle conseguenze
pratiche delle rispettive contrastanti teorie.
In entrambi i casi, si trattava della cattura da parte di vascelli statunitensi di
navi battenti bandiera straniera in acque extraterritoriali, che i comandanti
avevano giustificato considerando che la tratta degli schiavi integrava gli
estremi della violazione dei diritti umani.
Nel caso deciso nel 1822 da Joseph Story, una nave battente bandiera
francese era stata bloccata in prossimità delle coste africane e perquisita dal
luogotenente Stockton per il sospetto, poi confermato, che trasportasse
schiavi. I proprietari residenti nell’isola di Guadalupa richiedevano
l’annullamento della confisca e la restituzione nelle loro mani della nave. In
parziale appoggio alle pretese dei claimants, il console francese aveva

119 Joseph Story (1779–1845), giudice nella corte suprema dei neonati Stati Uniti
d’America, docente a Harvard, interprete della nuova costituzione americana e
della giurisprudenza di equity tra vecchio e nuovo mondo, “antenato”
statunitense del dritto comparato e dello stesso diritto “americano”, nonché
autore di un trattato di diritto internazionale privato, sul conflitto delle leggi
che esordisce con un’ampia rassegna della dottrina continentale sul diritto delle
genti a partire da Bartolo da Sassoferrato. Joseph Story, Commentaries on the
conflict of laws foreign and domestic in regard to contracts rights and remedies
and especially in regard to marriages, divorces, wits, successions, and judg-
ments, Boston 11835; Boston: Little, Brown, and company 1883 (dal quale
cito), in part. pp. 414–417 sul quale si può vedere, innanzitutto, un importante
capitolo di Max Gutzwiller, Le développement historique du droit inter-
national privé, in: Recueil des Cours 29, IV (1929), pp. 332–351. Tra le
raccolte di scritti dello Story: The miscellaneous writings of Joseph Story,
associate justice of the Supreme Court of the United States and Dane Professor
of law at Harvard University, edited by his son William W. Story (1852),
Union, N.J.: Lawbook Exchange, 2000; Joseph Story. A collection of writings
by and about an eminent American jurist. Selected and edited by Mortimer D.
Schwartz and John C. Hogan, New York: Oceana Publications 1959.
Nell’ambito dei numerosi studi sull’opera e sull’attività di Joseph Story mi
limito ad indicare: Roscoe Pound (1870–1964), The place of Judge Story in
the making of American law, Cambridge [Mass.]: University Press 1914;
Eduard Lambert, L’ancêtre américain du droit comparé; la doctrine du juge
Story, par Édouard Lambert et J. R. Xirau, Paris: Recueil Sirey 1947.

Claudia Storti 85
sostenuto l’assenza di giurisdizione degli Stati Uniti su un vascello francese, di
proprietà di Francesi, in acque extraterritoriali e la consegna del vascello
catturato non a questi ultimi bensì al governo francese. 120 Le incriminazioni
erano fondate sulla violazioni delle leggi francesi, degli slave trade acts degli
Stati Uniti e del law of nations.
Le premesse alla decisione erano molto articolate: innanzitutto, i titoli
prodotti dagli attori non erano sembrati sufficienti per confermare l’elemento
della nazionalità francese della nave; in secondo luogo, la corte non aveva
ritenuto di poter accondiscendere alle pressioni del procuratore distrettuale
(district attorney) affinché, accogliendo l’eccezione di giurisdizione presentata
dal governo francese, si astenesse dal giudizio sul merito e consegnasse la
nave, diversamente da quanto preteso dagli attori, al suo console in modo che
la decisione della causa fosse trasferita ai tribunali della Francia. Story
rilevava che, da parte sua, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a rimettersi
alle indicazioni così ricevute (indicazioni o auspici, beninteso, e non ordini,
poiché il governo non aveva il potere di dare direttive alla corte), dato che
questo gli avrebbe consentito di esimersi dalla grave responsabilità di decidere
un caso così complesso. Gli era stato tuttavia impossibile adeguarsi a tale
indicazione, poiché gli attori (non volendo evidentenemente sottostare nem-
meno alla giurisdizione francese) si erano opposti a tale procedura e avevano
insistito per ottenere personalmente dalla corte la restituzione del vascello.
Nonostante le richieste dei governi statunitense e francese, la corte aveva
dovuto pertanto sottostare al dovere imposto dalla legge di pronunciare
sentenza. 121

120 United States v. The Schooner La Jeune Eugenie, Raibaut and Labatut,
Claimants, United States. Circuit Court, First Circuit, 1822. Il testo integrale
è reperibile on line http://www.archive.org/details/areportcasejeun00circgoog.
Un ampio estratto è pubblicato in Dickinson, A selection of cases and other
Readings on the law of Nations (n. 17), pp. 13–20, in part. pp. 13–14.
121 Ibidem, in part. p. 19: «[…] But at a late period in this cause, by direction of
the president, a suggestion has been filed by the District Attorney, expressing a
willingness to yeld up the vessel to French government, or its consular agent,
for the purpose of remitting the case for ultimate adjudication to the domestic
forum of the sovereign of the owners. To a suggestion of this nature this court
is bound to listen with the most respectful attention. It is understood to be, not
a direction to the court, for that is beyond the reach of executive authority, but
an intimation of the wishes of the government, so far as its own rights are
concerned, to spare the court any farther investigation. If it had seemed fit to
all parties, whose interests are before the court, to agree to the course held out
by this suggestion, it would have relieved my mind from a weight of
responsibility, which has most haevily pressed upon it. But the French
claimants resist this course, and require, that the property should be delivered
over to their personal possession, and not to the possession of their souvereign.

86 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


La decisione, come si è sopra rilevato, affondava nell’esame delle questioni
fondamentali relative alle fonti del law of nation: rapporto tra diritto naturale
e diritto convenzionale, tra diritto internazionale e diritto interno, conflitto tra
principi ugualmente fondamentali del diritto naturale e delle genti, efficacia di
tali principi e sanzioni contro la loro violazione.
Il ragionamento del giudice è serrato. Si trattava, innanzitutto, di stabilire,
ai fini della conferma della confisca della nave, ossia della sanzione normal-
mente applicata in casi analoghi dal law of nations, se il commercio degli
schiavi (non la schiavitù) fosse vietato dal diritto delle genti. Mentre la
schiavitù era stata ed era tuttora legale in molti paesi, ivi compresi gli Stati
Uniti, dove era giustificato in base a ragioni di carattere economico e sociale,
il commercio degli schiavi, che implicava una ulteriore e diversa violazione di
molti precetti di natura morale, di massime di giustizia, dei principi di
misericordia e di umanità, sia nel momento della cattura, sia nel tempo del
trasporto sulle navi, era stato oggetto di condanna da parte di numerose
nazioni cristiane («which independent christian nations now hold sacred in
their intercourse with each other»). 122
Non si poteva ritenere, inoltre, che il commercio degli schiavi, ingiusto e
disumano oltre che non necessario, fosse tollerato dall’eterno diritto di natura
sul quale riposa il law of nations. Le fonti di tale diritto consistevano, infatti,
in primo luogo nei principi generali di diritto e di giustizia concernenti le
relazioni e i doveri reciproci sia tra individui, sia tra nazioni; in secondo
luogo, nella consuetudine delle nazioni civilizzate applicabile alle questioni
controverse o non regolate da quei principii; da ultimo, nelle convenzioni
ossia nel positive law. Il diritto delle genti non consisteva, pertanto, in
principii astratti, bensì nell’attuazione diretta o per via convenzionale di tali
principii e del loro continuo evolvere. Non si poteva, inoltre, escludere che un
principio allo stato meramente teorico non divenisse oggetto, in un momento
successivo, di positivizzazione nella prassi o nei trattati e parte del public code
of nations, né che fossero ascrivibili alla categoria di principii del diritto delle
genti principii non universalmente riconosciuti come tali da tutte le nazioni
civili e nemmeno dagli stati cristiani dell’Europa.

Under such circumstance this court must follow the duty prescribed to it by
law, independently of any wishes of our own government or of France».
122 Ibidem, p. 15. Il commercio degli schiavi comportava «corruption and plunder
and kidnapping. It creates and stimulates unholy wars for the purpose of
making captives. It desolates whole villages and provinces for the purpose of
seizing the young, the feeble, the defenceless, and the innocent. It breakes down
all the ties of parent, and children, and family, and country. It shuts up all
sympathy for human suffering and sorrows. […]».

Claudia Storti 87
Alcuni principii fondamentali (doctrines) che la Gran Bretagna e gli Stati
Uniti avevano di recente considerato elementi del law of nations e posti in atto
non erano ancora stati riconosciuti dalle altre nazioni: cionostante erano stati
sanzionati con la confisca dei beni, nella convinzione che essi corrispondes-
sero a diritti e doveri fondamentali delle nazioni tanto di quelle belligeranti
quanto di quelle neutrali. Altre regole del diritto delle prede, considerate come
fondamentali da Gran Bretagna e Stati Uniti, avevano provocato persino una
decisa ostilità negli illuminati e potenti Stati europei, come il diritto di
perquisizione e la regola secondo cui «free ships do not make free goods» e
nondimeno continuavano ad essere applicati da quesi due Paesi sulla base di
ragioni incontrastabili anche alle navi di altre nazioni. 123
In ogni caso, era inequivocabile, secondo lo Story, che qualsiasi regola
ragionevolmente e correttamente dedotta dai diritti, dai doveri e dagli
obblighi morali delle nazioni dovesse essere teoricamente considerata come
parte integrante del diritto delle nazioni: «But I think it may be unequivocally
affirmed, that every doctrine, that may be fairly deduced by correct reasoning
from the rights and duties of nations, and the nature of moral obligation, may
theoretically be said to exist in the law of nations». 124 Era ben vero che
l’effettività di queste regole avrebbe potuto subire attenuazioni o deroghe in
conseguenza dell’opinione contraria delle nazioni evidenziata dalla prassi e
dalle consuetudini, ma, come egli non esitava a replicare, nessun genere di
prassi aveva il potere di cancellare la distinzione tra il bene e il male.
L’esistenza di un principio fondamentale ed eterno era indipendente dal suo
riconoscimento e dalla pratica attuazione da parte degli Stati in particolari
momenti storici. In aggiunta, ogni nazione era libera di rendere esecutivo il
principio più giusto quando, come nel particolare caso in esame, entrambe
avessero convenuto sulla ingiustizia o sulla crudeltà dell’ atto posto in essere
da una di loro.
Nel caso specifico della tratta degli schiavi, infatti, che costituiva una
violazione sia dei principii fondamentali ed universali del law of nations, sia di
uno degli essenziali doveri cristiani, sia delle massime eterne di giustizia e della
morale, si doveva innanzitutto affermare che tale pratica era inaccettabile per
qualsiasi sistema giuridico fondato sull’autorità della ragione o della religio-
ne: «and it is sufficient to stamp any trade as interdicted by public law, when

123 A questo proposito, si può ritenere che lo Story facesse riferimento appunto ai
principi sottostanti allo Slave Trade Act britannico del 1807 che gli Stati Uniti
avevano sottoscritto nello stesso anno.
124 Ibidem, p. 17.

88 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


it can be justly affirmed, that it is repugnant to the general principles of justice
and humanity». 125
In aggiunta, tutte le nazioni marittime europee si erano già espresse contro
il commercio degli schiavi in occasione di atti o manifestazioni pubbliche; così
era avvenuto, secondo la sentenza, in particolare per la Francia, nel trattato
finale del Congresso di Vienna, Aix – la Chapelle e Londra, mentre tutti erano
a conoscenza dello slave trade act del Parlamento inglese risalente al 1807 che
aveva rubricato tale pratica nella categoria delle felonies e l’aveva sanzionata
con la confisca delle navi. Non diversamente si erano comportato gli Stati
Uniti, fin dal tempo della loro formazione e da ultimo avevano condannato il
commercio degli schiavi come public crime.
Per tutte queste considerazioni, Story riteneva di avere il potere di
giudicare, in un tribunale degli Stati Uniti, soggetti appartenenti ad uno Stato
straniero, che a sua volta aveva pubblicamente condannato la tratta degli
schiavi, per aver commesso un crimine contro il diritto universale della
società: «and I cannot but think, notwithstanding the assertion at the bar
to the contrary, that this doctrine is neither novel nor alarming. That it stands
on principles of sound sense and general policy, and, above all, of moral
justice».
In concreto e, nello specifico, Joseph Story non si nascondeva che la
soluzione da lui adottata avrebbe avuto conseguenze gravi sul piano dei
rapporti politici e diplomatici tra Francia e Stati Uniti, («there is an objection
urged against the doctrine, which is here asserted, that ought not to be passed
over in silence […]). Il principio secondo il quale nessuna nazione avrebbe
dovuto consentire ai propri soggetti di commettere crimini contro l’umanità si
scontrava con l’altro principio secondo il quale le violazioni del diritto delle
genti assumevano rilevanza giuridica soltanto nel momento in cui avessero
comportato una violazione dei diritti di altre nazioni, mentre erano irrilevanti
finché riguardavano i rapporti tra un governo e i propri cittadini.
Dal diritto di indipendenza delle nazioni («the indipendence of nations
guarantees to each the right of guarding its own honour and the morals and
interests of its own subjects») discendeva, infatti, l’antico principio
dell’uguaglianza degli Stati e dell’impossibilità per uno Stato di giudicare il
comportamento di un altro con la conseguenza che violazioni contro il law of
nations avrebbero potuto rimanere impunite.
Una ventina di anni più tardi il Wheaton offrì un’esposizione serrata delle
trattative inutilmente condotte fin dal tempo del congresso di Vienna per
giungere ad un accordo internazionale sulla repressione della tratta degli

125 Ibidem, pp. 17–18.

Claudia Storti 89
schiavi e rilevò tra l’altro, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice
Story, che, proprio al tempo della decisione della corte suprema appena
ricordata, in Francia, non solo non vi erano stati atti formali di abolizione
della tratta, ma anche che l’opinione pubblica era insensibile al problema. 126
La coraggiosa teoria di Story ebbe, come egli stesso aveva previsto, esiti
diplomatici disastrosi. Adams, allora segretario di Stato degli Stati Uniti, con
una nota al ministro francese, dovette rinunciare formalmente a svolgere
ispezioni su qualsiasi nave e non soltanto sulle navi battenti bandiera francese,
in alto mare e in tempo di pace, motivate dall’esigenza di sopprimere la tratta
degli schiavi e riconobbe un’indennità al governo francese per la cattura del
schooner La Jeune Eugenie oggetto appunto della controversia appena
esaminata. 127
Fu così che, proprio in nome dell’indipendenza e della libertà delle nazioni,
solo tre anni più tardi, la tesi sostenuta da Story fu completamente smentita
dal chief justice John Curtis Marshall in occasione del celebre caso Antelo-
pe. 128
Una nave di bandiera venezuelana, che aveva a bordo schiavi africani
catturati in successivi scali da trafficanti portoghesi, spagnoli e da un
americano, era stata trovata in acque territoriali statunitensi e catturata. La
proprietà dei circa duecento ottanta schiavi era stata rivendicata dai consoli
spagnolo e portoghese e dall’imprenditore statunitense John Smith che
sosteneva di averli catturati jure belli. Il governo degli Stati Uniti li rivendicava
a sua volta sia con riguardo al fatto del cittadino americano che aveva violato
le leggi statunitensi, sia perché si riteneva legittimato a concedere la libertà
agli schiavi in applicazione delle leggi statunitensi e del law of nations. 129

126 Henry Wheaton, Enquiry into the validity of the British claim to a right of
visitation and search of American vessels suspected to be engaged in the
African slave-trade, Philadelphia: Lea & Blanchard 1842, in part. p. 49.
127 Cfr. in proposito Dickinson, A Selection (n. 17), p. 25.
128 John Marshall nel 1782 fu eletto alla House of Delegates della Virginia e fu
sostenitore della ratifica della Costituzione americana; sotto la presidenza di
George Washington rifiutò diversi incarichi federali, eccettuato quello di
membro della commissione istituita per intensificare i rapporti con la Francia.
Fu successivamente eletto al Congresso, collaborò con il presidente John
Adams e nel 1801 fu nominato Chief Justice della Corte Suprema. Le sue
decisioni furono fondamentali per la fissazione di alcuni punti cardine del
sistema costituzionale statunitense e per il rafforzamento dell’autorità della
Corte Suprema come terzo potere dello Stato. Morì nel 1835 ed è celebrato tra
I Padri Fondatori degli Stati Uniti quantunque non avesse sottoscritto né la
dichiarazione di indipendenza, né la costituzione. Jeremiah Mason disse di lui
che era riuscito ad evitare il fallimento del nuovo Stato.
129 The Antelope, The Vice-Consuls of Spain and Portugal, libellants. United
States. Supreme Court. 1825, in: Dickinson, A Selection (n. 17), pp. 20–25, in

90 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


La corte respinse la richiesta del governo degli Stati Uniti e quella di John
Smith e accolse, invece, le pretese dei governi portoghese e spagnolo, dopo
aver deciso per la liberazione di un numero di schiavi proporzionalmente
corrispondente (dedotto il numero delle vittime) alla quota del carico cattu-
rato dal mercante americano.
Secondo la Corte, l’unico ruolo che gli Stati Uniti avrebbero potuto
rivendicare in questa vicenda sarebbe stato quello di difensori e best friends
degli Africani, ma nulla di più. Nel conflitto tra il diritto di libertà delle
persone ridotte in schiavitù e quello di proprietà degli Stati spagnolo e
portoghese sugli uomini acquistati da cittadini soggetti alla loro sovranità,
la corte si dichiarava costretta a reprimere i propri sentimenti e ad obbedire al
dovere giuridico di rispettare la sovranità di uno stato indipendente («this
court must not yield the feelings which might seduce it from the path of duty,
and must obey the mandate of the law»). La tratta degli schiavi non
contrastava con il law of nations, perché era autorizzata e protetta dal diritto
delle nazioni coloniali. 130
Solo Stati Uniti e Gran Bretagna avevano vietato con provvedimenti
legislativi tale commercio ed erano riuscite ad infondere nella maggioranza
della loro opinione pubblica sentimenti di ripugnanza verso tale attività. Non
ci si doveva pertanto stupire che alcune corti di giustizia avessero portato
l’applicazione del principio della repressione della tratta a conseguenze
eccessive rispetto a quelle che una più attenta considerazione dei casi concreti
avrebbe comportato. Il riferimento alla sentenza precedentemente esaminata e
ad altre che vi si dovevano essere conformate sembra evidente.
Una più attenta considerazione dei diversi aspetti di tale questione – e in
quanto tale Joseph Marshall vi si adeguò – si imponeva, infatti, alla corte
suprema che affrontava per la prima volta casi di questo genere. Che la
schiavitù fosse in contrasto con i principi del law of nature era innegabile, ma
era anche innegabile che le nazioni più illuminate dell’antichità l’avevano
applicata, che corrispondeva all’uso generale e che, dal punto di vista del
diritto internazionale, era una pratica legale: «a jurist must search for its legal
solution, in those principles af action which are sanctioned by the usages, the
national acts, and the general assent, of that portion of the world of which he
considers himself as a part, and the whose law the appeal is made». Se si
riteneva che questi indici fornissero la “consistenza” del diritto internazionale,

part. p. 20. (Il testo completo in Henry Wheaton, Reports of cases argued
and adjudged in the Supreme court of the United States. February term, 1816[
– January term, 1827), I–XII, New York: R. Donaldson 1825, vol. X, p. 66,
che non ho potuto consultare).
130 Dickinson, A Selection (n. 17), p. 21.

Claudia Storti 91
dunque, la tratta degli schiavi era legale e qualora una nazione vi avesse
rinunciato, questo era irrilevante per tutte le altre, dato che lo stesso diritto
internazionale, i cui contenuti erano appunto stabiliti dalla pratica generale,
era fondato sul principio della perfetta uguaglianza delle nazioni: «Russia and
Geneva have equal rights. It results from this equality, that no one can
rightfully impose a rule on another». 131
Nessuna nazione aveva il potere di imporre una regola alle altre, né di
prescrivere i principi del diritto delle nazioni: nel caso specifico, tale traffico
rimaneva legale per tutti gli Stati che non l’avevano proibito. Quanto alle
procedure di ispezione delle navi, gli Stati Uniti non potevano che limitarsi a
condannare le navi battenti bandiera americana che avevano catturato navi
straniere senza che queste avessero violato il diritto statunitense. 132
Il contrasto tra le due sentenze, dopo l’incidente diplomatico che la prima
aveva provocato, evidenzia, con un esempio concreto e più di qualsiasi
trattazione teorica, come l’efficacia del diritto internazionale potesse essere
messa in discussione, sia sotto il profilo del sistema delle fonti, sia sotto quello
dei contenuti. Il contrasto tra la libertà dell’individuo e la libertà delle nazioni,
evidente in tema di schiavitù e di tratta degli schiavi, metteva chiaramente in
luce come qualsiasi violazione di un principio fondamentale del diritto
naturale compiuta con atto interno o trattato o per prassi, in quanto derivante
dalla indiscussa e indiscutibile libertà e indipendenza degli stati medesimi,
rischiasse di togliere validità al complessivo sistema del law of nations. A
questo proposito, era già ben chiaro come solo un ridimensionamento del
principio dell’indipendenza e della libertà delle nazioni avrebbe consentito la
piena affermazione del diritto internazionale come tale.

6. James Mackintosh e i giusinternazionalisti britannici


tra giurisprudenza e dottrina
Nel frattempo, il dibattito sulla rivoluzione francese aveva aperto la via in
Inghilterra alle tesi di James Mackintosh sull’esigenza di una vera e propria
elaborazione scientifica del diritto delle genti che avrebbe dovuto riaffermare i
principi fondamentali del diritto anche nella materia, in quel momento per lo
più incentrata sul diritto convenzionale, delle relazioni internazionali.
Discendente da uno dei più antichi clans degli Highlands scozzesi, James
Mackintosh aveva composto nel 1791 la replica (Vindiciae Gallicae) 133 alla

131 Ibidem, p. 23.


132 Ibidem, p. 24.
133 Vindiciae Gallicae. Defence of the French Revolution and its English admirers,
against the accusations of the Right Hon. Edmund Burke; including some

92 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


celebri Reflections on the French Revolution di Edmund Burke. 134 Dopo
l’ammissione al bar nell 1795, nel 1799 vinse la riluttanza dei Benchers dei
Lincoln’s Inn di Londra e iniziò una serie di lezioni sul tema The law of
Nature and Nations, che si svolsero con grandissima affluenza di pubblico e
furono improntate, appunto, all’esigenza di rifondare la scienza giuridica inter
gentes sulla base di principi “superiori” alle esigenze dei singoli “potenti”
Stati europei. Tali lectures consolidarono la sua fama di avvocato e gli
procurarono dal 1803 incarichi ufficiali in India. La prima lezione, Discourse
on the Study of the Law of Nature and Nations, ebbe numerose edizioni in
Inghilterra e fu pubblicata per il pubblico statunitense nel 1843 su sollecita-
zione dei più eminenti membri del Senato e del Bench tra i quali il celeberrimo
giudice e internazionalista Joseph Story, del quale si è appena parlato. 135
Nell’esordio del suo discorso, James Mackintosh definiva il diritto delle
genti come la scienza che fa conoscere i diritti e doveri degli uomini e degli
Stati quantunque questi obblighi e diritti possano subire modifiche in
relazione a costumi, tradizioni e circostanze particolari. La finzione per la
quale gli Stati sono denominati persone morali («a bold metaphor») era stata
utilizzata proprio allo scopo di indicare che, quantunque non sottoposte ad
alcun superiore, le nazioni devono rispettare reciprocamente i doveri di onestà
e umanità. 136

strictures on the late production of Mons. de Colonne, 3rd. ed., with additions,
London: printed for G. G. J. and J. Robinson 1791 e cfr. sulla vita e l’opera di
James Mackintosh: J. G. Marvin, Sketch of the Life of Sir James Mackintosh,
in: James Mackintosh, Discourse on the study of the law of Nature and
Nations, together with a collected list of works upon International Law,
Boston: Pratt and Company 1843 (dal quale cito), pp. XV–XVII.
134 Edmund Burke (1729–1797), Reflections on the revolution in France and on
the proceeding in certain societies in London relative to that event in a letter
intended to have been sent to a gentleman in Paris, London: J. Dodsley in Pall-
Mall, 21790 e cfr. ora Edmund Burke, edited by Iain Hampsher Monk,
Farnham, Burlington: Ashgate 2009.
135 Il testo del discorso fu pubblicato con il titolo Discours de James Mackintosh
sur l’étude du droit naturel et du droit des gens, traduit par M. Royer Collard,
anche in Wheaton, Histoire des progrès (n. 11), t. II, pp. 449–455 e cfr. anche
pp. 59, 176–177 e 393 ss.
136 Mackintosh, Discourse (n. 133), in part. p. 46: «Hence the writers on
general jurisprudence have considered states as moral persons; a mode of
expression which has been called a fiction of law, but which may be regarded
with more propriety as a bold metaphor, used to convey the important truth,
that nations, though they acknoledge no common superior, and neither can nor
ought to be subjected to human punishment, are yet under the same obligations
to practise honesty and humanity, which would have bound individuals, if they
were no compelled to discharge their duty by the just authority of magistrates,
and if they could be conceived even to have ever subsisted without the
protecting restraints of government».

Claudia Storti 93
La definizione generale di law of nature indicava che tali regole e principi
dovevano essere adottati per promuovere la felicità dell’uomo (i Principles of
International Law e i Principles of Morals and Legislation del Bentham erano
stati pubblicati nel 1789). 137 La coscienza umana rendeva tali regole immu-
tabili: «in other words, as long as he continues to be man, in all the variety of
times, places, and circumstances, in which he has been known, or can be
imagined to exist». 138
Era indubbio che esistessero tra le nazioni europee più stretti legami, dovuti
alle più varie cause: dalla dominazione dei «Goti» che aveva loro impresso i
caratteri «of the rude but bold and noble outline of liberty», alla religione
comune, dall’analogia di comportamenti, istituzioni, linguaggio, religione e
civilizzazione, alle relazioni commerciali, dalla contesa per il potere, allo
studio delle scienze e soprattutto ad una comune sensibilità («and above all,
that general mildness of character and manners which arose from the
combined and progressive influence of chivalry, of commerce, of learning
and of religion»). La gestione di tali vincoli aveva reso essenziale la ricerca e la
formazione di «a precise and comprehensive code of the law of nations» che si
era realizzata a partire dal Seicento, quando la rinascita del sapere, tramite il
superamento della barbarous dottrina medievale e lo studio scientifico della
storia e della letteratura romana, era andata di pari passo con un assesta-
mento nella distribuzione del potere tra gli Stati europei: «after that regular
distribution of power and territory which has subsisted, with little variation,
until our times». 139
James Mackintosh si era dedicato ad una rilettura dell’opera di Grozio. Di
quest’ultimo celebrava, innanzitutto, oltre alle straordinarie doti di carattere,
la capacità di contemperare incarichi pubblici di altissimo livello e impegno
scientifico, 140 che lo avevano condotto, non solo a dare una nuova struttura

137 Su Bentham cfr. anche oltre testo corrispondente a n. 219.


138 Mackintosh, Discourse (n. 13), in part. p. 47.
139 Ibidem, in part. pp. 51–52.
140 In verità è ben noto come Grozio non avesse potuto ottenere l’incarico al quale
più teneva, cioè la partecipazione alle trattative per la pace di Westfalia. La
sfortuna di Grozio e il suo allontanamento dalle corti europee dovuto ai suoi
contrasti con Richelieu, proprio nell’imminenza delle consultazioni che prece-
dettero l’inizio dei lavori, è stato ben ricostruito da Antonio Droetto, La
tradizione groziana dai trattati di Westfalia all’organizzazione societaria delle
Nazioni (1648–1948), in: Rivista internazionale di filosofia del diritto XXVI
(1949), pp. 211–240, ora in id., Studi Groziani, prefazione di Norberto
Bobbio, Torino: Giappichelli 1968 e cfr. anche Cornelis van Vollenhoven
(1874–1933), Grotius and Geneva. Lectures delivered in Columbia University,
July 1925, (Bibliotheca Visseriana dissertationum Ius Internationale illustran-

94 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


al law of nations, ma anche, per così dire, a creare una vera e propria scienza
(create a science). Le critiche di astrattezza rivolte all’opera di Grozio, a suo
giudizio, erano state espresse da persone che nemmeno l’avevano letta.
Diversamente, si sarebbero accorte che, il suo ricorso ai modelli dell’antichità
costituiva soltanto un complemento all’elaborazione della nuova discipli-
na. 141 Le citazioni delle opere del passato, come egli stesso aveva affermato,
aveva l’unico scopo di dare prova dell’unanime e secolare accettazione dei
doveri e dei principii della morale. 142
In Grozio era, invece, assente un vero e proprio metodo scientifico: «his
method is inconvenient and unscientific. He has inverted the natural order».
L’ordine naturale esigeva, in primo luogo, che si individuassero i fondamenti
originari (original) della scienza nella natura umana; in secondo luogo, che
tali principii fossero applicati al comportamento degli individui; da ultimo,
che fossero utilizzati per la soluzione delle più complicate questioni nei
rapporti tra nazioni. Grozio aveva fatto il contrario. Aveva preso avvio dalla
considerazione dello stato di guerra ed aveva esaminato ed utilizzato i
principii fondamentali soltanto occasionalmente in digressioni sparse. 143
Spettava a Pufendorf il merito di aver corretto gli errori di Grozio.
Al di là delle discussioni sul metodo, quello che più interessava al
Mackintosh era, però, abbattere il dogma della esclusività e della superiorità
del diritto internazionale europeo e affermare l’universalità delle regole da

tium cura Facultatis Iuridicae Lugduno-Batave edita, t. VI, nr. XIII), Lugduni
Batavorum: E. J. Brill 1926, pp. 1–81, in part. pp. 34–36.
141 Mackintosh, Discourse on the study of the law of Nature and Nations
(n. 133), pp. 53–57.
142 Ibidem, in part. pp. 56–57: «He was not such a stupid and servile cast of mind,
as to quote the opinions of poets and orators, of historians and philosophers,
as if they were judges, from whose decision there were no appeal. He quotes
them as he tell us himself, as witnesses whose conspiring testimony, mightily
strengthened and confirmed by their discordance on almost every other
subject, is the conclusive proof of the unanimity of the whole human race on
the great rules of duty and the fundamental principles of morals. […] Surely no
system of moral philosophy can disregard the general feelings of human nature
and the according judgement of all ages and nations. But where are these
feelings and that judgement recorded and preserved? In those very writings
which Grotius is gravely blamed for having quoted. The usages and law of
nations, the events of history, the opinions of philosophers, the sentiments of
orators and poets, as well as the observation of common life are, in truth, the
materials out of which the science of morality is formed; and those who neglect
them are justly chargeable with a vain attempt to philosophize without regard
to fact and experience, the sole foundation of all true philosophy».
143 Ibidem, p. 58.

Claudia Storti 95
adottare nei rapporti internazionali senza riguardo alle attitudini e ai caratteri
nazionali.
Grazie al progresso delle conoscenze, derivato anche dall’approfondimento
dei contatti diretti con tutte i popoli della terra, uomini di cultura e filosofi
erano giunti alla conclusione che con poche, marginali eccezioni, pur nella
varietà dei governi e delle istituzioni e nonostante la spettacolare moltitudine
di usi e riti, le medesime verità e i medesimi principii, quasi «guardiani» della
società umana, erano riconosciuti e rispettati da tutte le nazioni e uni-
formemente insegnati. 144 L’opera di Montesquieu, doveva pertanto essere
apprezzata, nonostante alcuni difetti che lo scozzese non mancava di rilevare,
per la considerazione generale secondo la quale «the spirit of laws will still
remain, not only one of the most solid and durable monument of the power of
human mind, but a striking evidence of the inestimable advantages which
political philosophy may receive from a wide survey of the various conditions
of human society». 145
Fu questo scritto del Mackintosh, più che i suoi successivi interventi alla
Camera di Comuni sul tema del riconoscimento delle repubbliche
dell’America centrale e meridionale, che sembra aver avuto maggior influenza
sul Wheaton e dopo di lui su Ludovico Casanova. 146
Possiamo ben dire che le tesi scientifiche del Mackintosh tardarono, invece,
ad attecchire in Inghilterra. Un’acuta analisi dei caratteri della “scienza” del
Law of nations fu condotta dall’inglese William Oke Manning, un autore per
lo più dimenticato dagli storici di diritto internazionale, che nel 1839, tre anni
dopo la prima edizione degli Elements di Henry Wheaton, segnalò il para-
dosso della dottrina inglese e propose la propria opera come il primo
«systematic treatise on the Law of Nations by an english writer». 147
L’Inghilterra era stata la culla di questa disciplina giuridica, grazie all’opera
di un rifugiato straniero, Alberico Gentili, e quella di Richard Zouch, 148

144 Ibidem, in part. pp. 63–64.


145 Ibidem, in part. p. 65 e più ampiamente pp. 97 ss.
146 Cfr. ora a proposito del Mackintosh anche per i riferimenti bibliografici
Nuzzo, Un mondo senza nemici (n. 4), pp. 1346–1348.
147 William Oke Manning, Jun., Esq. (1809–1878), Commentaries on the law of
Nations, London: S. Sweet, Dublin: Milliken and Son, and Edimburgh: Clark
1839, Preface, p. V.
148 Oltre alla sua opera più celebre nel diritto internazionale (Richard Zouch
[1590–1661], Iuris et iudicii fecialis, sive, iuris inter gentes, et quaestionum de
eodem explicatio quae ad pacem & bellum inter diversos principes aut populos
spectant, ex praecipuis historico jure-peritis, Oxoniae: Excudebat H. Hall,
Impensis Tho. Robinson 1650) e a scritti sul diritto marittimo (Descriptio juris
& judicii maritimi quae navigationem et negotiationem maritimam respiciunt,
referuntur, Amstelodami [1652], Descriptio juris & judicii militaris ad quam

96 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


scritta subito dopo il De iure belli ac pacis di Grozio, ma aveva di poi
abbandonato lo studio scientifico della materia, che era stato coltivato
soltanto nell’Europa continentale e dagli americani, prima da James Kent,
in alcuni capitoli dei suoi Commentaries, e successivamente da Henry
Wheaton al quale andava il merito di aver scritto «certainly the best elementar
book on the topic that exists». 149
La ragione di questa anomalia stava nella stessa natura del law of nations e
nella scarsa attitudine scientifica degli Inglesi. Il metodo per la trattazione di

leges quae rem militarem, & ordinem personarum nec non juris & judicii
maritimi ad quam quae navigationem et negotiationem maritimam respiciunt,
referuntur, Oxoniae: Excudebat Leonardus Lichfield 1640; The jurisdiction of
the admiralty of England asserted, against Sr. Edward Coke’s Articuli admi-
ralitatis, in XXII chapter of his jurisdiction of courts, London: Printed for
Francis Tyton, and Thomas Dring 1663), ha lasciato opere di diritto civile e
feudale: Elementa iurisprudentiæ: definitionibus, regulis, et sententijs selectio-
ribus iuris civilis illustrata, Oxoniæ: Excudebat Iohannes Lichfield 1629; Cases
and questions resolved in the civil-law, collected by R. Zouche, Oxford:
Printed by Leon. Lichfield, for Tho. Robinson 1652; Descriptio iuris et iudicii
feudalis, secundum consuetudines Mediolani & Normanniæ pro introductione
ad studium iurisprudentiæ Anglicanae, Oxoniæ: Excudebat Iohannes Lichfield
1634. Un suo giudizio in materia di responsabilità penale degli ambasciatori e
di immunità delle sedi diplomatiche fu pubblicato in Solutio quæstionis veteris
et novæ, sive de legati delinquentis judice competente dissertatio, in quam Hug.
Grot. eadem de re sententia explicatur, expenditur, & adseritur, avctore
Richardo Zoucheo … cum notis & animadversionibus Christiani Henelii,
Coloniæ ad Sprevum: impensis R. Völckeri 1669; A Dissertation Concerning
the Punishment of Ambassadors, Who Transgress the Laws of the Countries
where they reside; founded upon the Judgment of the Celebrated Hugo Grotius
clear’d from many Objections, and exemplify’d with various Arguments and
Authorities, both Antient and Modern. Written Originally in Latin by the
Learned Dr. Richard Zouch, sometime Professor of the Civil Law in the
University of Oxford, done into English, with the Addition of a Preface
concerning the Occasion of Writing this Treatise, by D.J. Gent, London:
Printed by J. Darby, and Sold by S. Baker, at the Black-Boy and Anchor in
Pater-noster-Row, M.DCC.XVII. Sue decisioni e pareri divennero anche og-
getto di un’opera collettanea pubblicata a Boston Extracts from Godolphin,
Sea laws, Jenkins, Malyne, Zouch and Exton of all the parts of those treatises
which relate to the admiralty jurisdiction in cases of contracts: also, the
commission of George III to the Vice Admiralty Court in New Hampshire
in 1776, and an abstract of the records of the Vice Admiralty Court in
Massachusetts prior to the revolution, Boston: Howe & Norton 1826. Cfr.
sulla dottrina inglese di età moderna e su Richard Zouch: Peter Stein, English
Civil Law Literature, in: Ins Wasser geworfen (n. 8), pp. 979–992, in part.
pp. 986–989.
149 Manning, Commentaries on the law of Nations (n. 147), Preface, pp. V–VI.

Claudia Storti 97
questo diritto consisteva, infatti, nella fissazione di principi generali e nella
deduzione da tali principi astratti delle conseguenze pratiche. Era pertanto
estraneo al modo di ragionare degli Inglesi, notoriamente insofferenti alle
astrazioni, 150 e più consentaneo alla «jurisprudence of the continent», che
aveva sviluppato criteri metodologici di questo genere nello studio del diritto
romano, e alla Scozia, dove il genio di James Mackintosh aveva prodotto il
breve scritto sul law of nations, rimasto purtoppo incompiuto in quanto
l’autore non era mai riuscito a dare alle stampe tutti i frutti del suo lavoro. 151
Nelle trattazioni sul law of nations non si poteva prescindere da un
ragionamento sui principi generali e proprio a questo cercò di corrispondere
William Oke Manning. 152 L’indeterminatezza del diritto internazionale si
evidenziava persino nella difficoltà di trovare un’esatta denominazione per la
materia. Il termine inglese law, pur nell’indubbia molteplicità di significati
(come egli sosteneva nella critica ad Austin), 153 non era sinonimo di jus, ma
corrispondeva piuttosto sia a law, sia a right, sia ad obbligazione morale. La
traduzione più corretta di jus gentium, invece che law of nations, sarebbe
stata quella di rights of nations, simile al francese droit public e proprio in tal
senso James Mackintosh aveva utilizzato la locuzione law of nations.
Il problema del diritto internazionale (secondo la denominazione della
quale Bentham aveva rivendicato la paternità) non stava, naturalmente,
soltanto nella denominazione, ma anche nei contenuti. 154 La contrapposizio-
ne tra il metodo giuridico britannico (ad eccezione di quello del Mackintosh) e
la jurisprudence continentale derivava dalla refrattarietà degli Inglesi ad
utilizzare il diritto di natura come fondamento del diritto internazionale. A
suo giudizio, proprio per questo gli Inglesi avevano evitato uno studio
sistematico del law of nations. Principi quali the cultivation of the soil,
commerce, the care of the public ways, money, piety and religion, justice
and polity erano considerati soltanto come «tedious common-places to
politicians in this country» e del tutto irrilevanti rispetto al law of nations

150 Ibidem, p. VI: «a tendency to refer to general principles marks foreign


discussions of political questions, while an impatience of abstract propositions
characterizes English debating».
151 Ibidem, pp. VII–IX.
152 Sulla lenta diffusione e sull’edizione di trattati giuridici in Inghilterra nel XVIII
secolo cfr. Michael Lobban, The English legal Treatise and English Law in
the eighteenth Century, in: Auctoritates. Xenia R. C. van Caenegem oblata, ed.
Serge Dauchy, Jos Monballyu, Alain Wijffels, Brussel: WLSK 1997,
pp. 69–85.
153 Manning, Commentaries on the law of Nations (n. 147), pp. 4–5.
154 Ibidem, pp. 1–2.

98 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


quale complesso di regole relative ai rapporti tra gli Stati: «an inquirer,
wishing to learn any thing upon this topic, is presented with a vast quantity
of extraneous matter, of the very description which is least palatable to the
political taste of this country, and is disgusted by a string of general
propositions, on points which are never controverted in the present state of
political knowledge». 155
Il dibattito inglese sul rapporto tra dottrine scientifiche e giurisprudenza
proseguì dieci anni più tardi, nel 1849, con Richard Wildman. 156 Egli
sostenne che le decisioni delle corti presiedute da personalità dello spessore
di Story 157 Marshall e Stowell avevano supplito alle lacune della dottrina:
«The deficiencies of elementar writers are supplied by the decisions of
international tribunals». 158 Ridefinire a livello scientifico il diritto inter-
nazionale comportava non soltanto constatare le deficienze del metodo di
Grozio 159 e puntualizzare le differenze tra Grozio e Pufendorf, ma anche,
innanzitutto, entrare nel merito dei problemi che la pratica quotidiana dei
rapporti internazionali doveva affrontare e, tra questi, la necessità di ricon-
siderare la realtà della schiavitù tra diritto di natura e diritto delle genti. 160
Fin dal 1848, Robert Phillimore, nel tentativo di ricondurre «to a system
the principles and precedents of International Law», 161 aveva cercato di
minimizzare le differenze nell’impostazione del law of nations tra la tradizione
dottrinale continentale e quella inglese e di segnalare e approfondire aspetti
meno noti dell’evoluzione della giurisprudenza in Inghilterra. 162 Si sarebbe

155 Ibidem, p. 3.
156 Richard Wildman (1802–1881), Institutes of International Law, by Richard
Wildman, Esq., of the Inner Temple, Barrister at Law, Recorder of Not-
thingham, vol. I, International Rights in Time of Peace, London: William
Benning & co., Law Booksellers 1849, e Philadelphia: T. & J. W. Johnson
1850, p. 36.
157 Ibidem, pp. 23 ss.
158 Wildman, Institutes of International Law (n. 156), vol. I, p. 36–37: «To
ascertain the unwritten law of nations, says Chief Justice Marshall, we resort to
the great principles of reason and justice; but as these principles will be
differently understood by different nations under different circumstances, we
consider them as being in some degree fixed by a series of judicial decisions».
159 Ibidem, pp. 24 ss.
160 Ibidem, pp. 6 ss.
161 Robert Phillimore (1810–1885), Commentaries upon International Law by
Robert Phillimore M. P. of the College of Advocates and of the Middle Temple,
author of the Law of Domicil, vol. I–III, Philadelphia: T. & J. W. Iohnson, Law
Booksellers 1854, vol. I, p. XI n. o e p. XXIII.
162 Ibidem, History of International Jurisprudence in England, pp. XI–XXIII. Tali
considerazioni furono oggetto di una sua lettera a Gladstone e cfr. The practice
and courts of civil and ecclesiastical law, and the statements in Mr. Bouverie’s

Claudia Storti 99
dovuto, infatti, considerare che quantomeno dall’epoca dei Tudors, i maggiori
studiosi, docenti ed esperti, collaboratori della Corona per le questioni
relative ai rapporti internazionali, erano stati civilians. 163 Egli elencava, tra
i più celebri, Richard Zouch, successore di Alberico Gentili nella cattedra di
Oxford, Leoline Jenkins, 164 George Lee, 165 celebrato da Montesquieu e da
Vattel per la sua risposta al memoriale del re di Prussia, 166 secondo nella
storia della giurisprudenza inglese soltanto a Lord Mansfield, e, infine,
appunto, Lord William Scott Stowell. 167
A proposito di Stowell giudice della corte dell’Admiralty per l’intera durata
del periodo napoleonico e autore di un trattato sul diritto delle prede, già
celebrato da William Owe Manning e da James Kent per la sua imparzia-
lità, 168 Phillimore sostenne, inoltre, che le sue decisioni sarebbero state
improntate dalla concezione della superiorità del diritto delle genti sul diritto
consuetudinario e convenzionale inevitabilmente condizionato, invece, dalla
“forza” e dalla “convenienza”. 169 In realtà, come rilevato anche dal Kosters,

speech on the subject, examined, with observations on the value of the study of
civil and international law in this country, in a Letter to the Right Hon. W. E.
Gladstone, by Robert Phillimore, London: W. Benning 1848.
163 Phillimore, Commentaries upon International Law (n. 161), vol. I, pp. XVII
ss.
164 Ibidem, pp. XIX–XX con riferimenti a William Wynne (1649–1711), The life
of Sir Leoline Jenkins, ambassador and plenipotentiary for the general peace at
Cologne and Nimeguen and secretary of state to K. Charles II, and a compleat
series of letters from the beginning to the end of those two important treaties,
London: Printed for J. Downing 1724.
165 Reports of cases argued and determined in the Arches and Prerogative Courts
of Canterbury, and in the High Court of Delegates containing judgments of the
Right Hon. Sir George Lee, by Joseph Phillimore, London: Saunders and
Benning 1832–33; Frederic Thomas Pratt (1799–1868), Law of contra-
band of war: with a selection of cases from the papers of the Right Hon. Sir
Geo. Lee and an appendix, containing extracts from treaties, miscellaneous
papers, and forms of proceedings. With the cases to the present time, London:
W. G. Benning & co. 1856.
166 Phillimore, Commentaries upon International Law (n. 161), vol. I, pp. XX–
XXI.
167 Ibidem, vol. I, pp. XXI–XXII.
168 Manning, Commentaries on the law of Nations (n. 147), pp. 45–47.
169 Phillimore, Commentaries upon International Law (n. 161), vol. I, p. 59:
«Lord Stowell [1745–1836], in one of those judgments in the British High
Court of Admiralty which contain a masterly exposition of the principles of
International Jurisprudence, speaking of the Mahometan States in Africa,
observed “it is by the law of treaty only that these nations hold themselves
bound, conceiving (as some other people have foolishly imagined) that there is
no other law of nations, but which is derived for positive compact and
convention. The true principle is clearly stated in manifest of Great Britain

100 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


il frammento riportato dal Phillimore dà piuttosto l’impressione che il grande
giudice riservasse al ius gentium un carattere di sussidiarietà. 170
Nel tentativo di ridurre a «sistema» i principi e i precedenti del diritto
internazionale, il Phillimore era ben consapevole della difficoltà di realizzare
un tale intento a causa della natura dei suoi elementi costitutivi, che non
avrebbero mai potuto essere trattati con precisione matematica: «this is a task
which the very nature of the materials renders extremely hard: insomuch as it
is very difficult so to arrange them, as to avoid on the one hand a vague
unsatisfactory generality, and on the other an appearence of precise mathe-
matical accuracy, of which the subject is not susceptible». 171
Egli non si nascondeva nemmeno quanto la teoria del diritto internazionale
dipendesse dal sistema incerto delle fonti di diritto. 172 Tra i principi fonda-
mentali, il Phillimore individuava comunque la concezione dello Stato come
persona morale, dalla quale discendeva, con la prerogativa dell’indipendenza,
l’esclusione del diritto d’intervento da parte di altri Stati negli affari interni
relativi alle modifiche della costituzione e della forma di governo, nonché
l’appartenenza degli Stati alla comunità internazionale che presupponeva la
loro condizione di uguaglianza. 173

to Russia, in 1780: “His Majesty” it is said in that state paper, “has acted
towards friendly and mutual powers according to their own procedure
respecting Great Britain, and conformable to the clearest principles generally
acknowledged as the Law of Nations, being the only law between powers
where no treaties subsist, and agreeable to the tenor of his different engage-
ments with others; those engagements have altered this primitive law by
mutual stipulations proportioned to the will and convenience of the contrac-
ting parties”».
170 Jan Kosters (1874–1951), Les fondements du droit des gens: contribution à la
théorie générale du droit des gens, (Biblioteca Visseriana. Dissertationum Ius
Internationale Illustrantium, t. IV), Lugduni Batavorum: J. Brill 1925, in part.
pp. 83–84. Cfr. inoltre: Edward Stanley Roscoe (1849–1932), Lord Sto-
well: his life and the development of English prize law, London: Constable
1916 (con review di Reaburn Green in Harvard Law Review [1917],
pp. 660 ss.); Charles Spencer March Phillipps, Jurisprudence, London:
John Murray 1863, passim e in part. p. 3; Henry J. Bourguignon, Sir
William Scott, Lord Stowell, judge of the High Court of Admiralty, 1798–
1828, Cambridge, New York: Cambridge University Press 1987.
171 Phillimore, Commentaries upon International Law (n. 161), vol. I, p. XXIII.
172 Ibidem, vol. I, p. 64 ss.
173 Ibidem, vol. I, pp. 149–150. Sull’evoluzione successiva del suo pensiero
Nuzzo, Un mondo senza nemici (n. 4), pp. 1351–1354.

Claudia Storti 101


7. La “scienza” del diritto internazionale “vigente” e “libero”
negli autori di area germanica da Klüber a Heffter
Quanto all’Europa continentale, dopo il successo dell’opera del Martens e il
trionfo della politica decretato dagli atti del Congresso di Vienna, nessuno, e
tantomeno coloro che vi avevano avuto una qualche parte, poteva negare le
difficoltà insite nel tentativo di una ricostruzione scientifica del diritto inter-
nazionale che potesse imporsi come diritto vigente e mitigare, sulla base di
principi razionali di tutela degli interessi generali e della giustizia nei rapporti
tra tutti gli Stati, la … prepotenza delle Potenze europee.
Sotto questo profilo, il Congresso di Vienna aveva fallito, come sostenne
nel 1819, al termine dei lavori, Johann Ludwig Klüber, “primo professore” di
Heidelberg, 174 nella prima edizione di un manuale di diritto delle genti in
francese destinato alla formazione universitaria non solo dei futuri giuristi,
ma anche dei politici per i quali lo studio della disciplina non era, a suo
giudizio, meno fondamentale. 175 Nella sua classificazione dei saperi, il diritto
delle genti continuava a costituire un ramo della diplomazia quale insieme di

174 Johann Ludwig Klüber (1762–1836) prese parte al congresso di Vienna per
tutta la sua durata e ne curò la redazione degli atti in otto volumi, nonché una
sintesi in due volumi sulla fondazione della confederazione germanica: Johann
Ludwig Klüber, Acten des Wiener Congresses in den Jahren 1814 und 1815,
Erlangen: Johann Jakob Palm, J. J. Palm und Ernst Enke 1815–1818, 1835 e
id., Quellen-Sammlung zu dem öffentlichen Recht des Teutschen Bundes,
enthaltend die Schlußakte des Wiener Congresses, den Frankfurter Territorial-
receß, die Grundverträge des Teutschen Bundes und Beschlüsse der Bundes-
versammlung von allgemeinerem Interesse, 3., sehr verm. Aufl., Erlangen 1830
(anche on line http://books.google.it/books?id=C4ZBAAAAYAAJ&printsec=
frontcover&dq), e cfr., in proposito Eckhardt Treichel und Jürgen Mül-
ler, Quellen zur Geschichte des Deutschen Bundes. Ein Forschungsprojekt der
Historischen Kommission bei der Bayerischen Akademie der Wissenschaften,
http://www.ahf-muenchen.de/Forschungsberichte/Jahrbuch2000/Treichel.shtm
175 «Les agitations qu’ont éprouvées les Etats de l’Europe pendant vingt-cinq ans,
ne manqueront d’apporter quelques changemens ou modifications aux princi-
pes du droit des gens positif, qu’on a en vain espéré de voir déjà sanctionnés
par le Congrés de Vienne; mais il y a tout lieu de croire que ces changemens ne
seront ni assez nombreux ni assez prochains pour devoir retarder la publica-
tion de ce livre»: Johann Ludwig Klüber, Droit des gens moderne de
l’Europe par Jean Louis Klüber, Stuttgart: J. G. Cotta 1819, t. I, p. 6 e cfr. in
generale Préface, pp. 3 ss. Il testo di Klüber ebbe un’edizione tedesca nel 1821
con il titolo Europäisches Völkerrecht, e una nuova edizione accresciuta
francese nel 1831 (Droit des gens moderne de l’Europe par Jean Louis Klüber
avec un supplément contenant une bibliothèque choisie du droit des gens,
Paris: chez J.-P. Aillaud libraire, Rio de Janiero: chez Souza, Laemmert et c.ie
1831.

102 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


conoscenze e principi necessari per un corretto svolgimento delle relazioni
pubbliche tra Stati. 176
Il manuale di Johann Jacob Moser e la sistemazione delle fonti di Dietrich
Heinrich Ludwig Freiherr von Ompteda della fine del Settecento costituivano,
a suo giudizio, un punto di avvio imprescindibile per riprendere il filo di una
tradizione sconvolta dalle vicende belliche e diplomatiche del primo Otto-
cento. 177
Anche per corrispondere alle esigenze della didattica, che egli intendeva
innanzitutto affrontare, si imponeva una semplificazione del sistema del
diritto delle genti europeo («simplifier son système»). Semplificare significava
per il Klüber «embrasser autant que possibile l’ensemble de la science,
développer ses principes avec clairté et précision, l’éclaircir par des notices
tant historiques que littéraires, utiles surtout à ce qui désirent se livrer à une
étude plus profonde». 178
Tale operazione avrebbe comportato un deciso e sostanzioso ricorso ai
principi del diritto delle genti naturale al fine di costruire un sistema
sussidiario che servisse di base – nella struttura e come serbatoio di regole
fondamentali – per inquadrare le regole stabilite dalle convenzioni espresse o
tacite tra le nazioni e per colmare le eventuali lacune del diritto convenzionale
e consuetudinario. 179
Nel contempo non si poteva presumere che i principi di natura teorica
trovassero sempre applicazione nella pratica: «L’auteur d’un ouvrage pareil à

176 Così, in part. nell’edizione del 1831: Klüber, Droit des gens moderne, t. I,
pp. 10–11. Lo studio della «diplomazia» comprendeva, inoltre, l’apprendi-
mento di un gran numero di scienze «connesse»: la storia prima di tutto, la
statistica, l’economia politica e nazionale, l’arte militare, il diritto pubblico
naturale e positivo interno ed esterno, l’arte di negoziare, la pratica politica ivi
compresa la crittografia, nonché un gran numero di scienze sussidiarie tra le
quali la geografia, la diplomatica, la genealogia (pp. 13–14).
177 Johann Jacob Moser (1701–1785), Grundsätze des jetz üblichen europä-
ischen Völkerrechts in Friedenszeiten, auch anderer unter denen europäischen
Souverainen und Nationen zu solcher Zeit fürkommender willkürlicher Hand-
lungen, Franckfurt am Main: 1763; Dietrich Heinrich Ludwig Freiherr
von Ompteda (1746–1803), Litteratur des gesammten sowohl natürlichen als
positiven Völkerrechts. Nebst vorangeschickter Abhandlung von dem Um-
fange des gesammten sowohl natürlichen als positiven Völkerrechts, und
Ankündigung eines zu bearbeitenden vollständigen Systems desselben, Regens-
burg: J. L. Montags sel. Erben 1785. Il lavoro di Ompteda era stato proseguito
da Carl Albert von Kamptz (1769–1849), Neue Literatur des Völkerrechts
che non ho potuto consultare e cfr. in proposito Sherston, Halleck’s Inter-
national Law (n. 3), pp. 30–31.
178 Klüber, Droit des gens moderne de l’Europe (n. 175), 1819, t. I, pp. 3–4.
179 Ibidem, 1819, pp. 4.

Claudia Storti 103


celui – ci, est souvent obligé de s’en tenir uniquement à des abstractions que
peut lui fournir une considération attentive et impartiale du droit des gens
naturel et de quelques conventions et coutumes adoptées sinon par tous, du
moins par la plupart des états de l’Europe. La théorie générale qui est le
resultat d’une telle comparaison, ne peut donc être appliquée dans un cas
particulier qu’autant qu’elle se concilie avec les circostances particulières». 180
Alla flessibilità imposta dalle circostanze particolari, si aggiungeva che i
principi generali non avrebbero mai avuto l’efficacia di modificare conven-
zioni specifiche e particolari: qualsiasi evento imponeva allo statista di tener
conto, innanzitutto, delle «relations particulières qui subsistent entre les
puissances respectives». 181
Cionondimeno si doveva rilevare, in primo luogo, che i principi generali
costituivano i fondamenti del sistema ed avevano carattere giuridico. Il diritto
naturale delle genti aveva per oggetto esclusivamente diritti “perfetti” e
pertanto azionabili tramite la forza. Morale, convenienza, prudenza, usi
erano esclusi dall’ambito di tale diritto. 182
Se, dall’esame dei principii si passava ai fatti, occorreva riconoscere che in
talune occasioni si erano adottate delle soluzioni del tutto irragionevoli al
cospetto di tali principii. Tali ingiustizie non meritavano alcuna assoluzione:
coloro che avessero dato supporto, come purtroppo era avvenuto in tempi
recenti, a provvedimenti contrari ai principii fondamentali del diritto delle
genti, si sarebbero resi colpevoli «envers l’humanité». 183 Il riferimento era,
naturalmente, ai casi più recenti di oppressione dei popoli più deboli;
successivamente, lo studioso inserì tra questi anche il ripudio della schiavitù
dal quale dipendeva la necessità dell’abolizione della tratta dei negri. 184
L’esposizione dei principii avrebbe dovuto seguire uno schema semplice e
sistematico. Tuttavia, come egli rilevava, era piuttosto incerto stabilire da
quali fonti attingere “i” principii e il docente avrebbe dovuto destreggiarsi tra
regole di ragione e prassi convenzionale. In aggiunta, stava allo stesso docente
scegliere tra un metodo puramente dogmatico e uno storico-dogmatico. Solo
il buon senso, l’equilibrio, l’imparzialità e la concretezza avrebbero potuto
orientare correttamente tali scelte. 185

180 Ibidem, 1819, pp. 4–5.


181 Ibidem, 1819, p. 5.
182 Ibidem, 1819, p. 14.
183 Ibidem, 1819, pp. 5–6.
184 Ibidem, 1831, p. 117.
185 Ibidem, chap. I, § 9, 1819, pp. 23–24; 1831 pp. 14–15: «Pour bien exposer le
droit des gens de l’Europe, il en faut développer les principes d’une manière
claire et concise, en suivant un plan simple et systématique. Ces principes
doivent être puisés dans les conventions expresses et tacites, dans l’analogie, et

104 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Nel sistema delle fonti del diritto delineato dal Klüber, il diritto convenzio-
nale occupava, comunque, il primo posto, come già aveva sostenuto il
Martens, 186 del quale condivideva anche la distinzione tra un jus publicum
dell’Europa e quello degli altri paesi del mondo. Nonostante la proclamata
universalità delle regole relative ai rapporti tra gli Stati, 187 i popoli europei
presentavano tra loro molti aspetti di analogia, quantunque non costituissero
une république des gens, nella consuetudine o convenzione tacita, che diffe-
riva dai semplici usi. 188 Il secondo posto nelle fonti del diritto delle genti
spettava all’analogia tra disposizioni del diritto delle genti positivo; in terzo
luogo, il diritto naturale, considerato, come si è rilevato, quale fonte suss-
idiaria in caso di lacuna dei trattati, nonché «pour former une théorie du droit
des gens positif» destinata sia all’insegnamento sia alla pratica; in terzo luogo
alcuni istituti consolidati dalla dottrina giusinternazionalistica tra i quali la
prescrizione, di origine giusprivatistica e applicabile nei rapporti tra Stati
indipendenti soltanto se sancita da trattati, nonché il possesso.
A differenza del Martens, si dovevano, invece, escludere dall’elenco delle
fonti del diritto internazionale, in quanto esclusivamente appartenti all’ambi-
to della «politica», sia il principio dell’intérêt de l’Etat, designato anche con i
termini di droit de convenance e quello dell’equilibrio politico: «une pure idée
des diplomates ou politiques, très vague, simplement fondée dans un senti-
ment de convenance». 189
Su questo aspetto estremamente delicato, il Klüber insisteva nell’esame dei
diritti assoluti e perfetti riconosciuti dal diritto naturale delle genti agli Stati in
quanto persone morali e libere: 190 il diritto assoluto di conservazione

dans la nature des relations réciproques des états. Il faut les éclaircir, autant que
possible, par l’histoire, les traiter sans préjugé, avec discernement et impartia-
lité, sans donner dans les hypothèses, et sans abuser de formes rationales ou de
spéculations métaphysiques. La mèthode dogmatico-historique est préférable à
celles purement dogmatiques, historiques, ou raisonnantes. Le publiciste doit
être l’ami zélé de la vérité, de l’impartialité, et du bon sens. La discussion des
controverses, ainsi que les éclaircissemens par des exemples intéressans et
illustres, sont réservés à l’exposition verbale».
186 Cfr. sopra testo corrispondente a n. 80 ss.
187 Klüber, Droit des gens moderne de l’Europe (n. 175), 1819, t. I, p. 65 ss. e
1831, pp. 61 ss.
188 Ibidem, 1819, p. 6 e cfr. anche 1831, §§ 34–35, pp. 61–64 Usage des nations
ben distinti dal diritto delle genti positivo o naturale.
189 Ibidem, 1819, p. 19 e 1831, pp. 6–7: «c’est une pure idée des diplomates ou
politiques, très-vague, simplement fondée dans un sentiment de convenance, à
qui manque par conséquent le caractère essentiel d’une source du droit des
gens».
190 Ibidem, 1831, pp. 65–66.

Claudia Storti 105


riguardava gli Stati liberi e indipendenti 191 e consisteva nel potere legittimo di
esercitare correttamente il diritto di difesa, senza che questo si risolvesse in un
ostacolo alla crescita di un altro Stato rispettosa dei diritti generali, né
tantomeno nella pretesa attuazione dell’equilibrio politico («le système de
l’équilibre politique, balance du pouvoir, système de contre poids, bilanx
s[cilicet] trutina gentium»). Sull’opinione in proposito dell’altro colosso tede-
sco del diritto delle genti del tempo, ci si è già soffermati più sopra. Secondo il
Klüber l’equilibrio politico non corrispondeva affatto ad un principio di ius
gentium; derivava in modo precipuo dall”«idée de la puissance et de la
préponderance» 192 e il suo fondamento consisteva esclusivamente nel diritto
convenzionale.
Il diritto assoluto d’indipendenza comprendeva, oltre al diritto di estendere
legittimamente il proprio territorio, quello di accrescere il livello culturale,
morale e economico dei propri soggetti, 193 nonché il diritto di darsi una
costituzione conveniente e di cambiarla ed escludeva, pertanto, il diritto di
intervenire per evitare tali modifiche. 194
Pochi anni dopo l’edizione del 1831, nel 1844 August Wilhelm Heffter,
immediatamente recensito da Henry Wheaton, 195 ribadì l’esigenza di una
riqualificazione scientifica del diritto internazionale – con specifico riguardo,
di bel nuovo soprattutto agli Stati cristiani europei – e della sua applicazione
come diritto vigente nella soluzione delle vertenze tra gli Stati: «le droit alors
c’est l’ordre social», come ripeterà il Casanova, 196 o meglio ubi societas ibi jus
est. 197

191 Ibidem, 1831, p. 66.


192 Ibidem, 1831, pp. 71–75.
193 Ibidem, 1831, p. 78.
194 Ibidem, 1831, p. 85.
195 Henry Wheaton, De la Nature du droit des gens en général, in: Revue de
droit français et étranger 1 (1844), pp. 955–966.
196 Cfr. oltre, testo corrispondente § 11.
197 August Wilhelm Heffter (1796–1880), Das Europäische Völkerrecht der
Gegenwart, Berlin: E. H. Schroeder 1844. L’opera ebbe riedizioni con ampli-
amenti nel 1848, 1855, 1861, 1867 e 1873. Fu tradotta per la prima volta in
francese nel 1857 da Jules Bergson (cfr. sopra n. 2) e nel 1883 (Le droit
international de l’Europe par A. G. Heffter, professeur à l’Université de Berlin,
Syndic de la Couronne, Conseiller à la cour suprème de justice à Berlin, traduit
par Jules Bergson, quatrième édition française, augmentée et annotée par F.
Heinrich Geffcken, ancien ministre-résident et professeur de droit public,
Berlin, Paris: H. W. Müller, A. Cotillon 1883), in part. p. 5. Fu, inoltre,
pubblicata in Spagna nel 1875. Cfr. in proposito anche Wheaton, Histoire
des progrès du droit des gens, t. II (n. 11), pp. 366–371 e l’Avant-propos di F.
Heinrich Geffcken all’edizione francese del 1883 appena citata.

106 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Sotto questo profilo, ossia sul fondamento e sulla sanzione del diritto
internazionale, come egli rilevava nella terza edizione tradotta in francese da
Jules Bergson, Henry Wheaton, quantunque avesse avuto il merito di aver
contemperato l’interpretazione della prassi e dei trattati con il soccorso della
riflessione scientifica, l’aveva frainteso. 198 A suo parere, infatti, esisteva
diritto anche in assenza di sanzione: «à coté de ce droit obligatoire, il existe
un droit libre que les individus mêmes doivent protéger afin de le conserver
entre eux». 199 La giuridicità del diritto internazionale («la loi plus libre qui
existe») non poteva essere negata nemmeno in assenza di poteri legislativi e
giurisdizionali adibiti alla sua formazione ed applicazione, in quanto era
fondata sul generale consenso («convinction commune»), espresso o tacito o
presunto che esso fosse. L’organo regolatore di tale diritto è l’opinione
pubblica e le infrazioni al diritto sono giudicate dalla Storia in ultima istanza
«comme Némesis». In sintesi, senza diffondersi sulle contrastanti opinioni in
merito alla giuridicità del diritto internazionale, l’Heffter sosteneva che «La
verité [ …] est que les Etats n’admettent entre eux d’autres lois obligatoires
que celles résultant d’un consentement réciproque, lequel toutefois, pour être
valable, n’a besoin ni de la sanction formelle des traités, ni de l’homologation
de la coutume. Les traités comme la coutume constituent uniquement des
manifestations particulières du droit international». 200
I trattati e le convenzioni tacite non erano che applicazioni specifiche e
particolari di questo diritto non scritto e necessario, di natura “intellettuale”,
il cui misconoscimento avrebbe comportato l’annullamento del livello morale
degli Stati cristiani. 201
In Heffter ritornano principi ormai tradizionali e tra loro strettamente
dipendenti: la relatività del diritto internazionale e la differenza tra il diritto
internazionale dell’Europa e degli Stati da essa fondati e quello delle altre parti
del mondo; 202 la definizione di Stato come persona morale e di libertà della
persona morale come strumento per obbligare gli Stati al rispetto dei doveri

198 Le droit international de l’Europe (1857) (n. 2), p. 2 e (1883) (n. 197), n. 1,
p. 3 e p. 15. Il riferimento era a Wheaton, Eléments du droit international par
Henry Wheaton ex-ministre des Etats-Unis d’Amérique prés la cour de Prusse,
membre honoraire de l’Acadèmie royale des sciences de Berlin, membre
correspondant de l’acadèmie des Sciences morales et politiques dans l’Institut
de France, t. I–II, Leipzig: Brockhaus & Averarius Editeurs; Paris: A. Durand
Libraire 1848, t. I, p. 18.
199 Heffter, Le droit international de l’Europe (1857) (n. 2), p. 2.
200 Ibidem, (1857), p. 3; (1883), pp. 5–6.
201 Ibidem, (1857), p. 4; (1883), pp. 7–8.
202 Ibidem, (1857), pp. 1–2; (1883) p. 2 e cfr. anche § 6 Le droit public européen
(1857), pp. 8 ss.; 1883, p. 2 per il riferimento a «notre Europe chrétienne».

Claudia Storti 107


reciproci; il principio dell’uguaglianza degli Stati senza riguardo alle loro
condizioni di maggiore o minore debolezza o potenza; la reciprocità di diritti e
doveri che risultano dal «consenso» generale e che non necessitano né della
sanzione formale dei trattati, né dell’omologazione della consuetudine; 203 la
paura della guerra, come baluardo per il rispetto delle regole.
Dal principio dell’uguaglianza e della libertà degli Stati – persone morali
discendeva il corollario del divieto di interferenza negli affari di un altro Stato.
Questo non era in contrasto nella teoria dell’Heffter con l’affermazione
dell’equilibrio quale sistema di garanzia del diritto internazionale e, sotto
questo profilo, la teoria dell’equilibrio politico di Heffter era ben differente da
quella dell’equilibrio politico professata dal Martens, come ben si avverte dal
suo giudizio critico rispetto alla Santa Alleanza.
La garanzia “accidentale”, consistente nell’obbligazione di rispettare
l’equilibrio generale, avrebbe potuto essere legittimamente invocata soltanto
laddove una potenza avesse sconfinato “per ambizione” rispetto alle regole
fissate dai principi generalmente accolti dalla «conscience» delle nazioni. 204
La messa in atto di tale garanzia consisteva non soltanto nella reazione dello
Stato che aveva subito una violazione dei principi del diritto internazionale da
parte di un altro, ma anche in quella di tutti gli altri Stati non direttamente
provocati, ma ugualmente interessati alla conservazione del sistema esistente.
Il principii dell’equilibrio, come garanzia collettiva e morale, non riguardava,
inoltre, soltanto le “Potenze” in senso stretto, ma anche gli Stati “disegual-
mente” potenti o meno forti ed aveva lo scopo di opporre alla prepotenza di
uno la reazione di tutti. 205 Solo in tal senso, e non nelle applicazioni
fuorvianti che ne erano state date nel corso della storia, l’equililibrio politico,
lungi dall’essere une chimère, costituiva una garanzia naturale per l’appli-
cazione dei principi del diritto internazionale. 206
Tali considerazioni portarono l’Heffter ad una valutazione ottimistica
dellle relazioni future tra gli Stati. Egli stigmatizzava, bensì, che il monopolio
della politica sulle regole del diritto internazionale, manifestatosi nel corso del
XVIII secolo nonostante i tentativi dei giuristi che, soprattutto a partire da
Grozio, avevano tentato di appropriarsi della materia, stentasse ad allentarsi.
La politica si era servita del diritto semplicemente per argomentare, giustifi-
care ed avvalorare con veste giuridica, tutte le pretese contrastanti con i
principii generali del diritto. Stigmatizzava, altresì, che la coalizione generale

203 Cfr. in part. ibidem, Caractère des lois internationales (1857), pp. 4–5; (1883),
pp. 7–9.
204 Ibidem, (1857), p. 6; (1883), p. 10.
205 Ibidem, (1857), p. 7; (1883), p. 11.
206 Ibidem, (1857), p. 7; (1883), pp. 18–20.

108 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


dell’Europa contro il “torrente” della Rivoluzione francese, che aveva pro-
vocato il fallimento del diritto pubblico e dell’equilibrio anteriori, avesse
provocato, la costituzione di un “aeropago politico” di cinque Potenze
costituitesi come autorità dittatoriale e decise a statuer non solo sui propri
affari interni, ma anche su quelli relativi ad altri Stati. Valutava, tuttavia, con
favore l’evoluzione più recente, che dimostrava un miglioramento
dell’efficacia del diritto internazionale, come nuovo «diritto comune», nei
rapporti tra gli Stati dell’Europa e quelli oltre oceano da loro generati.
Era ben vero che, su alcuni punti, tale legge comune si trovava ancora al
livello di pura teoria e di dottrina di studiosi priva di una sufficiente
penetrazione nella coscienza generale delle nazioni («elle est privée d’une
certitude absolue d’application»). Si doveva constatare, tuttavia, il rafforza-
mento di tali principii, la loro «solidité croissante», sia per un maggior
equilibrio tra le forze materiali degli Stati («une pondération de leur forces
matérielles»), sia per l’intensificarsi dei rapporti di reciprocità. Le maggiori
criticità consistevano nelle questioni relative al diritto del mare, che era la
parte più debole del diritto internazionale e nell’esigenza, ormai improroga-
bile, di considerare che l’equilibrio europeo era ormai strettamente dipendente
da quello degli altri continenti. 207
Quanto alla situazione europea, la fine della Pentarchia era stata decretata
dalla catastrofe del 1848: «la catastrophe de 1848 et les événements ultérieurs
ont mis fin è la pentarchie. L’indépendence des nations est rètablie; c’est aux
congrès des puissances plus ou moins intéressées qu’on recourt parfois pour
vider des questions internationales». 208
Si può bene comprendere come fu proprio su questo punto, condiviso
anche dal Wheaton, 209 che il Casanova, in considerazione della situazione
dell’Italia, si dissociò dal pensiero di Heffter che, da tanti punti di vista
costituì, invece, una solida trama per la sua esposizione.
Quanto alla dottrina di area tedesca anteriore alle lezioni del Casanova, nel
1847 Carl Kaltenborn, al fine di superare l’empirismo cui erano improntate le
relazioni internazionali e la dottrina positiva, rinnovò le istanze della costru-
zione di una teoria generale del diritto internazionale come «scienza stori-
camente orientata», fondata su un «principio obiettivo» e su «una dimensione
oggettiva, necessitata, prestatuale» consistente nella «comunità internaziona-

207 Ibidem, (1857), pp. 14–15.


208 Ibidem, (1857), pp. 12–13; 1883, pp. 21–22 dove tale ottimismo era anche
confortato dai risultati della conferenza di Parigi del 1856 che mise fine alla
guerra di Crimea, risolse diverse questioni di diritto marittimo e aprì le porte
del concerto europeo alla Sublime Porta.
209 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), vol. I.

Claudia Storti 109


le. 210 La sua riorganizzazione sistematica della materia, come è stato di
recente rilevato, era quella giusprivatistico, «di un sistema di subordinazione
delle volontà statali (Subordinationsystem) segnato dalla cristianità e da
un’idea di ordine». 211

8. Le “utopie” sulla pace perpetua e la libertà delle nazioni


Le radici quacchere del pensiero di William Penn sull’abolizione della guerra
con la realizzazione della pace perpetua sono state oggetto di studio. 212 Nel
1713, nel bel mezzo delle trattative che tra 1712 e 1714 portarono alla
stipulazione della pace di Utrecht, Charles – Ironée Castel abbé di Saint Pierre,
segretario del plenipotenziario di Luigi XIV Melchior de Polignac, formulò un
articolato programma di pace perpetua 213 e sostenne – sulla base delle
Memorie di Sully – che l’ispirazione di tale progetto sarebbe risalito ad Enrico
IV. 214 Il re di Francia, del resto, era accompagnato dalla fama, attestata anche

210 Sull’opera di Carl Kaltenborn von Stachau (1817–1866), Kritik des Völker-
rechts, Leipzig: G. Mayer 1847, Zur Geschichte des Natur- und Völkerrechts
sowie der Politik, b. I. Das Reformationszeitalter vor Hugo Grotius, Leipzig:
G. Meyer 1848; Grundsätze des praktischen europäischen Seerechts: beson-
ders im Privatverkehre, mit Rücksicht auf alle wichtigeren Partikularrechte,
namentlich der Norddeutschen Seestaaten, besonders Preussens und der Han-
sestädte, sowie Hollands, Frankreichs, Spaniens, Englands, Nordamerikas,
Dänemarks, Schwedens, Russlands, etc., Berlin: C. Heymann 1851; cfr.
Mannoni, Potenza e ragione (n. 14), pp. 18–22.
211 Cfr. ora l’ampia disanima dell’opera del Kaltenborn di Nuzzo, Un mondo
senza nemici (n. 4), pp. 1337–1344.
212 William Penn, Essay towards the Present and Future Peace of Europe, by
Establishment of an European dyet, Parliament or Estate (1693–1694) e cfr. in
proposito George William Knowles, Quakers and peace with an introduc-
tion and notes by G. W. Knowles, of the Middle Temple, Barrister-at-Law, (The
Grotius Society Publications. Texts for students of international relations 4),
London: Sweet & Maxwell 1927, in part. pp. 4–5.
213 Charles-Irenée Castel (1658–1753), Abrégé du Projet de paix perpetuelle
inventé par le Roi Henri le Grand, aprouvé par la Reine Elisabeth, par le Roi
Jacques son successeur, par les Republiques & par divers autres Potentats,
aproprié a l’Etat présent des Affaires Générales de l’Europe, démontré infini-
ment avantageux pour tous les Hommes nés & à naitre, en générale et en
particulier pour tous les Souverains & pour les Maisons Souveraines, par Mr.
L’Abbé de Saint-Pierre de l’Académie Française, a Rotterdam: chez Jean
Spaniel Beman 1729 e cfr. in proposito anche Manning, Commentaries on
the law of Nations (n. 147), pp. 79–80.
214 Sully’s Grand Design of Henry IV from the Memoirs of Maximilien de Béthune
duc de Sully (1559–1641), with an Introduction by David Ogg, Fellow and
Tutor of New College, (The Grotius Society Publications, Texts for Students of

110 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


dal Binkershoek, di essere un grande esperto di ius gentium («Juris gentium
fuit peritissimus»). 215 Il testo dell’abate di Saint Pierre avrebbe costituito un
punto di riferimento anche per Jean Jacques Rousseau, 216 ma, a dire del
Martens, suscitò l’ironia di Federico il Grande. 217
I quattro scritti compresi nei Principles of International Law di Jeremy
Bentham, risalenti agli anni 1786–1789, 218 riguardavano l’applicazione del
principio di utilità generale, le relazioni tra Stati, i soggetti del diritto inter-
nazionale (personal Extent of the Dominion of the Laws), la guerra conside-
rata nelle sue cause e nelle sue conseguenze e, infine, il progetto «for an
Universal and Perpetual Peace» teso ad individuare i provvedimenti da
intraprendere per evitare la guerra. 219 Questi provvedimenti avrebbero

International Relations 2), Oxford, London: Sweet and Maxwell Limited


1921, in part. pp. 8–9.
215 Cornelis van Bynkershoek, De foro legatorum tam in causa civili, quam
criminali liber singularis, Lugduni Batavorum: Apud Joannem Vander Linden
1721, cap. XIX Rursus de exemplis, ex usu Gentium, & quae contra dici
possint, p. 149 col. B.
216 Sul progetto del Rousseau, Extrait du projet de paix perpetuelle de l’abbé de
Saint-Pierre (n. 13) cfr., tra gli altri, Casanova, Del diritto internazionale
(n. 9), I, p. 53.
217 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, p. 84 n. a.
218 Jeremy Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation
ed. by J. H. Burns and H. L. A. Hart, London and New York: Methuen 1970,
ch. XVII Limits of penal Jurisprudence, nrr. 25–26, pp. 296–297 e id., The
Works published under the superintendence of his executor John Bowring,
London 1838 e Edinburgh: William Tait, London: Simpkin, Marshall & co.
1843, rist. Bristol: Thoemmes press 1995, vol. I, Principles of moral and
legislation, ch. XIX Limits between Private Ethics and the Art of Legislation,
§ 2. Jurisprudence, its Branches: dopo aver rilevato che il termine Jurispru-
dence è fictitious e non ha significato se non è specificato da un aggettivo, che
un libro di giurisprudenza può riguardare o il diritto vigente o l’arte della
legislazione, che il termine law è un termine astratto e collettivo e che un libro
di jurisprudence può concernere il diritto di una nazione (local), oppure il
diritto universale (universal jurisprudence) di carattere meramente espositivo e
non vincolante se non dal punto di vista morale; che un diritto universale non è
rappresentabile dacché è persino impossibile che vi sia una completa coinci-
denza tra il diritto di due sole nazioni, Bentham riconosceva infine «some
leading points in respect of which the laws of all civilised nations might,
without inconvenience, be the same» (§ XXIV p. 149). Quanto alla «qualità
politica» delle persone la cui condotta è oggetto del diritto, occorre distinguere
tra i membri di uno stesso Stato e i membri di Stati differenti: «in the first case,
the law may be referred to the head of internal; in the second case, to that of
international jurisprudence» (§ XXV, p. 149).
219 I Principles of international law di Jeremy Bentham (1747–1832), tra i quali A
Plan for an universal and perpetual Peace risalgono agli anni 1786–1789. Il
testo del progetto per una pace perpetua si trova, oltre che in Bentham, The

Claudia Storti 111


dovuto consistere nella progressiva limitazione degli armamenti appartenenti
alle nazioni del concerto europeo fino al disarmo, nell’abolizione delle colonie
(fonte di conflitti tra nazioni e nel contempo di scarsa utilità per i governi), 220
nell’istituzione di un tribunale internazionale, la «Court of judicature» per la
soluzione arbitrale delle controversie, privo però di poteri coercitivi, 221 e di
un Congresso o Dieta per l’assunzione di risoluzioni sui rapporti tra gli Stati e
per il bando di coloro che non avessero voluto conformarvisi. Lo strumento
più efficace per sanzionare l’inottemperanza alle risoluzioni del Congresso
sarebbe stato costituito, secondo il Bentham, nella pubblica opinione infor-
mata tramite i mezzi di una libera stampa, nella pubblicazione delle decisioni
del Congresso, delle negoziazioni e dei trattati internazionali allo scopo di
eliminare con la segretezza un considerevole ostacolo agli interessi della
libertà e della pace. 222
Non meno noto è il progetto di déclaration du droit des gens presentato
alla Convenzione Nazionale dal vulcanico e talvolta contraddittorio Henry
Grégoire, vescovo di Blois, più celebre con il titolo di abbé, immortalato da
Jacques – Louis David nel celebre Serment du Jeu de Paume. 223 Con tale

Works (n. 218), vol. II, pp. 535–560 anche in Jeremy Bentham’s Plan for an
universal and perpetual peace with an Introduction by C. John Colombos of
University College and the London School of Economics and of the Middle
Temple, Barrister-at-Law, (The Grotius Society Publications. Texts for students
of international relations 6), London: Sweet and Maxwell 1927, in part.
pp. 11–44 (dal quale si cita).
220 Cfr. con particolare riguardo alla Gran Bretagna, Jeremy Bentham’s Plan for an
universal and perpetual peace (n. 219), proposition I, pp. 13–18. Cfr. ora sul
dibattito relativo alle colonie spagnole del sud-America tra Sette e Ottocento,
anche per i riferimenti bibliografici e con particolare riguardo all’opinione di
Bentham, Federica Morelli, Dall’Impero alla nazione: l’economia politica e
le origini del costituzionalismo nell’America spagnola, in: Governare il mondo
(n. 4), pp. 203–223, e in part. pp. 222–223.
221 Jeremy Bentham’s Plan for an universal and perpetual peace (n. 219), pro-
position XIII, pp. 26–27.
222 Ibidem, proposition XIV, p. 27.
223 Henry Grégoire (1750–1831) nel 1788 aveva scritto sull’uguaglianza degli
ebrei e di poi si pronunciò per la liberazione degli schiavi, ma non per
l’indipendenza delle colonie, e fu eletto deputato degli Stati Generali francesi
nel 1789. Il testo della Déclaration du droit des gens fu presentato alla
Convention Nationale il 18 giugno 1793 mentre erano in discussione i capitoli
della costituzione dell’anno I, Des rapports de la République française avec les
nations étrangères, concernenti la dichiarazione di amicizia e di alleanza a tutti
i popoli “liberi” e il principio del non intervento. Cfr. in proposito: L.
Chevalley, La déclaration du droit des gens de l’abbé Grégoire 1793–1795.
Etude sur le droit international public intermédiaire. Thèse pour le doctorat
présentée et soutenue par Mme L. Chevalley, Président M. G. de Lapradelle,

112 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


progetto l’abbé Grégoire mirava ad offrire una base di riflessione per la
contrattazione e l’accordo tra i popoli fondato su un code de droit des gens
positif, che si richiamava al precedente dell’abbé de Saint Pierre. 224 Tale testo
avrebbe dovuto servire come punto di riferimento per i Francesi nelle loro
relazioni internazionali e non pretendeva di delineare regole generali per tutti i
popoli dell’Europa. 225 Non ebbe comunque successo nel 1793 e, ripresentato
nel 1795, fu di nuovo respinto dal Comitato di Salute Pubblica che si espresse
con l’opposizione di Philippe – Antoine Merlin de Douai. 226 Condensava in
ventuno articoli i principi generali sulla base dei quali si sarebbe dovuto
procedere su basi razionali alla rifondazione del diritto delle genti, elaborato
dai diplomatici del passato ispirati da una concezione dei rapporti inter-
nazionali ormai superata dagli ideali rivoluzionari («l’ancienne diplomatie et
le droit public n’ètaient qu’un échafaudage ridicule et souvent monstrueux
que le souffle de la raison a renversé. Nous l’avons détruit, mais qu’avons-
nous mis à la place?»). 227
I temi del discorso di Henry Grégoire furono nel 1795 molteplici. Trovia-
mo, innanzitutto, la critica ai pubblicisti, come Burlamaqui e Mably, Wic-
quefort e Zouch, responsabili di asserzioni erronee e immorali per aver negato
l’uguaglianza naturale e politica dei popoli e per aver autorizzato la menzo-
gna. 228
Quanto alla natura del diritto delle genti, egli negò qualsiasi significato
all’assurda connessione, generalmente fissata dalle definizioni più comuni, tra
un diritto invariabile costituito da principi e regole di natura e uno arbitrario e
convenzionale, più propriamente definibile come diritto pubblico, fondato
sull’uso e sul consenso tacito o espresso dei popoli nei rapporti reciproci.

suffragants M. Leseur, M. Pillet, Le Caire: Imprimerie Paul Barbey 1912


(Université de Paris, Faculté de Droit), la pubblicazione del testo della
Déclaration alle pp. 4–5. Tra gli scritti sul pensiero e sull’opera di Henry
Grégoire: Joseph L. Sax, Heritage Preservation as a Public Duty. The Abbé
Grégoire and the Origins of an Idea, in: Michigan Law Review 88 (1990),
pp. 1142 ss.; Thomas Cassirer, Jean–François Brière, Henry Grégoire, On
the cultural Achievement of the Negroes, translated with notes and an
introduction, Amherst, MA: University of Massachusetts Press 1996; Tiziana
Goruppi, L’abbé Grégoire e la questione della lingua, in: L’Utile, il Bello e il
Vero. Il dibattito francese sulla funzione della letteratura tra Otto e Novecento,
Saggi raccolti a cura di T. Goruppi e L. Sozzi, Pisa: ETS, 2001, pp. 45–56.
224 Così nel discorso del 1795 in Chevalley, La déclaration du droit des gens de
l’abbé Grégoire (n. 223), p. 26.
225 Ibidem, pp. 39 e 42 ss.
226 Ibidem, pp. 28–29.
227 Ibidem, pp. 10 ss.
228 Ibidem, pp. 15–16. Su Mably cfr. sopra n. 73.

Claudia Storti 113


Il diritto arbitrario e convenzionale non poteva aver forza vincolante se
non a particolari condizioni: «il forme la jurisprudence des sociétés politiques,
et ne peut avoir force de loi que par la ratification espresse ou tacite des
parties contractantes, c’est-à-dire de tous les peuples, qui tous à cet égard
possèdent en commun la puissance législative». 229 In aggiunta, in molti casi
non era stato nemmeno fatto oggetto di una riflessione coerente e non era che
un assemblaggio incoerente di buoni o cattivi usi derivati dai Romani o dai
Germani: si rendeva, nel complesso, necessaria la rifondazione del diritto delle
genti, che poteva essere attuata soltanto su «un corps de doctrine émané de la
nature». 230
Una delle critiche più feroci era rivolta dal Grégoire alla teoria della
bilancia politica: «Rien de plus absurde que cette prétendue balance politique,
qui ne fut jamais en équilibre, car les grandes puissances ont souvent réalisé à
l’égard des petites la fable du loup et de l’agneau». 231
Occorreva innanzitutto realizzare nei fatti il principio dell’uguaglianza dei
popoli. 232 Ciascuna nazione avrebbe potuto e dovuto stabilire autonoma-
mente quali fossero le proprie aspirazioni di prosperità e felicità senza
intromissioni da parte delle altre. 233
Il solo mezzo per risolvere i conflitti tra popoli consisteva nella ragione,
dato che il ricorso alle armi aveva «effrayé l’Europe». 234 Anche la rivoluzione
avrebbe potuto essere strumento di liberazione dei popoli: «les tyrans ont
détroussé les nations; mais dans plusieurs contrées la liberté frappe à la porte
elle est sur le point d’entrer; les révolutions se mûrissent même dans certains
pays où la philosophie est ancore au berceau». I popoli prima o poi avrebbero
riconosciuto i propri diritti e li avrebbero fatti trionfare («quand la souverai-
neté sera retournée à sa source»). 235 Si trattava comunque di problemi interni
dato che, a suo giudizio, i Francesi avrebbero dovuto trattare, comunque, con

229 Ibidem, pp. 19 ss.


230 Ibidem, pp. 20 ss.
231 Ibidem, pp. 21–22.
232 Ibidem, p. 22: «Un nain est homme ainsi qu’un géant. La souveraineté n’est
pas susceptible de plus ou de moins; elle ne résulte ni de la force ni de la
richesse; elle appartient à Saint Marin dans un degré aussi éminent qu’à la
France. Les nations ont droit de s’organiser, de se lier, de s’incorporer, en
traitant d’égal à égal entre elles comme les hommes entre eux: s’il doit exister
des rangs c’est la vertu qui les donne. Voilà le principe: quand on l’a rencontré,
rien ne doit le fléchir».
233 Ibidem, p. 23.
234 Ibidem, p. 24.
235 Ibidem, p. 24. Come ha rilevato la Chevalley, questi principii di politica
internazionale corrispondevano a quelli di Robespierre, che pure non ebbe
successo (pp. 44–46).

114 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


qualsiasi specie di governo, senza tenere in considerazione problemi di natura
interna come quelli relativi alla scelta della forma di governo. 236
Era del pari il 1795, quando Emmanuel Kant, scrisse, nel suo celeberrimo
progetto di pace perpetua, che il fine del diritto internazionale è la pace, che la
pace avrebbe potuto essere garantita dalla federazione degli stati liberi riuniti
in assemblea permanente, idea ripresa tra i giusinternazionalisti anche da
Wheaton; che la condizione per essere membri della federazione consisteva in
un ordinamento di separazione dei poteri, repubblicano e rappresentativo, nel
quale solo al potere legislativo sarebbero spettate le decisioni sulla pace e sulla
guerra per evitare che decisioni foriere di tragedie e calamità per le popola-
zioni fossero prese alla leggera dai Governi. 237 Soltanto queste trasformazio-
ni, delle quali Kant non si nascondeva le difficoltà e la gradualità di
realizzazione, avrebbero potuto assicurare, con l’abbandono del sistema
attuale delle paci – che in realtà non erano che tregue tra una guerra e la
successiva – il trionfo del “regno del diritto pubblico” e la realizzazione di un
progetto di pace perpetua che non sarebbe più apparso come chimerico.
La “vecchia” diplomazia era però all’erta: il progetto di Henry Grégoire fu
messo immediatamente alla berlina, sotto il pretesto che si trattava di
un’utopia («un beau songe» e une «chimère»), dal massimo esponente della
diplomazia del tempo, da Friedrich Martens nella prefazione all’edizione del
suo précis del 1796. 238
La teoria della pace perpetua – con riguardo precipuo agli scritti Bentham e
di Kant – divenne, cionondimento, oggetto di un vero e proprio programma
politico. Gli Amici della Pace (Friends of Peace), sotto la guida dell’americano

236 Ibidem, pp. 24–26.


237 Kant’s Perpetual peace. A philosophical proposal, translated by Helen O’Brien,
with an introduction by Jessie H. Buckland (The Grotius Society Publications.
Texts for students of international relations 7), London: Sweet & Maxwell
1927, in part. pp. 19–59. Il Wheaton trasmise ai giusinternazionalisti questa
frase di Kant: «On peut prouver, dit-il, que l’idée d’une fédèration, qui
s’étendrait insensiblement à tous les états et qui les conduirait ainsi à une paix
perpetuelle, peut être réalisée. Car si le bonheur voulait qu’un peuple aussi
puissant qu’éclairé pût s’instituer en république (gouvernement qui pour sa
nature doit incliner à une paix perpetuelle), il y aurait dès lors un centre pour
cette association fédérative; d’autres états pourraient y adhérer, pour garantir
leur liberté d’après les principes du droit public, et cette alliance pourrait
s’ètendre insensiblement» (Wheaton, Histoire [n. 11], pp. 385–387 e in part.
p. 387). Cfr. Antonio Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal
medioevo all’età contemporanea, Bologna: Mulino 2008, pp. 408–409.
238 Martens, Précis du droit des gens (n. 65), vol. I, pp. 13–14 e cfr. in proposito
anche La déclaration du droit des gens de l’abbé Grégoire (n. 223), pp. 52–60.

Claudia Storti 115


Elihu Burrit, 239 organizzarono in Europa una serie di congressi, considerati
da taluni come precorritori dell’idea della Società delle Nazioni: a Bruxelles
nel 1848, a Parigi nel 1849 sotto la presidenza di Victor Hugo, a Francoforte
sul Meno nel 1850, a Londra nel 1851, a Manchester nel 1852, a Edimburgo
nel 1853. 240
Furono, in particolare, alcuni aspetti della proposta formulata a
Francoforte il 22 agosto 1850, che offrirono al Casanova (fortemente critico
verso le contestazioni di Hegel alla teoria della pace perpetua di Kant)
l’oggetto di una delle lezioni ai suoi studenti sul possibile assetto di un nuovo
ordine internazionale che avrebbe dovuto essere fondato sull’istituzione di
arbitrati per la soluzione delle controversie, sul disarmo generale,
sull’esclusione di aiuti all’estero destinati a forniture di armi, sul non inter-
vento. 241

9. Il sincretismo di Henry Wheaton tra i progressi del


diritto internazionale e gli interessi di potenti
Lo statunitense Henry Wheaton (1785–1848), ammesso al Bar nel 1805,
esercitò la professione di avvocato fino a che nel 1815 assunse la carica di
Chief Justice della Marine court di New York e pubblicò una raccolta di
questioni sul diritto del mare (on the Law of Captures and Prizes). 242 Con il

239 Elihu Burritt (December 8, 1810 – March 6, 1879) filantropo e attivista, lottò
contro la schiavitù e per la pace, Lincoln lo inviò come console degli Stati Uniti
a Birmingham. Il movimento The Friends of Peace, da lui promosso nel 1848
nella prima riunione di Brussels. (Davis Ozora Stearns, Elihu Burritt: an
Apostle of international Brotherhood, New Britain, Conn. 1907).
240 Si trova una cronaca di questa riunione in Deutsche Schnellpost, 23. Aug.
1850: «Friede ist besser dann Krieg, weil ungewiss ist der Sieg. Aus diesem
Grunde haben die Freunde des Friedens um jeden Preis schon lange an der
Herstellung eines allgemeinen Weltfriedens gearbeitet und für diesen Zweck
Friedenskongresse im Jahre 1848 zu Brüssel, 1849 zu Paris, 1850 zu Frankfurt
a. M. abgehalten. Eins der tätigsten Mitglieder dieser Friedensgesellschaft,
Elihu Burrit, hat als Mittel die Einsetzung eines Völkergerichtshofs vorge-
schlagen».
241 Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770–1781), Grundlinien des Rechts
oder Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse, Berlin: Nicolaische
Buchhandlung 1821. Hegel, che io «maledico» per le sue opinioni sull’utilità
della guerra (Casanova, Del diritto costituzionale [n. 40], I, p. 57). Di Hegel,
Casanova condivideva («che forse ha ragione») soltanto le osservazioni sul
tema della confederazione.
242 A digest of the law of maritime captures and prizes, New-York: R. M’Dermut
& D.D. Arden 1815.

116 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


supporto di Joseph Story, dal 1816 successe a William Cranch nell’incarico di
reporter delle decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti proprio negli
anni in cui si consolidavano il suo ruolo e prestigio. Ricoprì tale incarico fino
al 1827 contribuendo al perfezionamento dell’ufficio e redigendo dodici
corposi volumi di reports. 243
Studiò, oltre alle dottrine dei contemporanei, la letteratura europea sul jus
gentium e, nell’ambito di questa, il de iure belli ac pacis di Grozio. 244
Quest’ultimo non era del tutto sconosciuto negli Stati Uniti, ma scarsamente
utilizzato: il diplomatico David Bailie Warden, di origine irlandese, ma
naturalizzato e primo autore statunitense di una storia del diritto inter-
nazionale, non vi aveva nemmeno fatto cenno 245 e, a quanto risulterebbe
da alcuni manoscritti, lo stesso era avvenuto per Joseph Story. Henry

243 Wheaton, Reports (n. 129). Wheaton mosse causa per violazione dei diritti di
autore contro la sintesi dei suoi reports effettuata da Richard Peters, A full
and arranged digest of the decisions in common law, equity, and admiralty, of
the courts of the United States from the oganization of the government in 1789
to 1847, in the Supreme, Circuit, District and Admiralty courts reported in
Dallas, Cranch, Wheaton, Peters, and Howard’s Supreme Court Reports; in
Gallison, Mason, Paine, Peters, Washington, Wallace, Sumner, Story, Baldwin,
Brockenbrough, and M’Lean’s Circuit Court Reports; and in Bees, Ware,
Peters, and Gilpin’s District and Admiralty reports, with an appendix contai-
ning the Rules and orders of the Supreme Court of the United States, and the
Rules of the Circuit Court of the United States in proceedings in equity,
established by the Supreme Court, Philadelphia: Carey and Hart 1848.
244 Cornelis van Vollenhoven (1874–1933), The Growth of Grotius de iure
belli ac pacis as it appears from contemporary correspondence. Lectures
delivered in Columbia University, July 1925, (Bibliotheca Visseriana disserta-
tionum Ius Internationale illustrantium cura Facultatis Iuridicae Lugduno-
Batave edita, t. VI, nr. XVI), Lugduni Batavorum: E. J. Brill 1926, pp. 5–44,
in part. pp. 34–35.
245 David-Bailie Warden (1778–1845), On the origin, nature, progress and
influence of consular establishments, Paris: Smith, 1813, anche nella tradu-
zione francese, De l’origine, de la nature, des progrés, et de l’influence des
établissemens consulaires, par Bernard Barrère, Paris: J. G. Dentu 1815.
David Bailie Warden si laureò a New York al medical college. Dopo essere
stato segretario del generale John Armstrong ambasciatore a Parigi nel 1804,
fu per quarant’anni console a Parigi. Membro dell’Académie française costituì
due biblioteche che furono acquistate dall’Università di Harvard nel 1823 e
dalla biblioteca statale di New York nel 1840. Pubblicò: Inquiry concerning
the Intellectual and Moral Faculties and Literature of the Negroes (Paris 1810);
Description of the District of Columbia (1816); Statistical, Political, and
Historical Account of the United States of North America (3 vols., Edinburgh
1819); L’art de verifier les dates, chronologie de l’Amerique (10 vols., Paris
1826–1844); Bibliotheca Americana Septentrionalis, etc. (1820); Recherches
sur les antiquités de l’Amerique Septentrionale (1827); Bibliotheca Americana
(1831).

Claudia Storti 117


Wheaton contribuì, pertanto, ad un’approfondita riconsiderazione dei fonda-
menti del pensiero di Grozio in un discorso del 28 dicembre 1820 alla New
York Historical Society. Alcune copie del testo furono da lui inviate a Thomas
Jefferson, a James Kent e a John Marshall. Solo dopo questo evento l’opera di
Grozio fu acquistata per le biblioteche delle law schools di Harvard e di
Yale. 246
La sua carriera diplomatica iniziò nel 1827 come chargé d’affaires in
Danimarca e proseguì tra il 1836 e il 1848, prima come ministro residente,
poi plenipotenziario presso l’ambasciata statunitense in Prussia a Berlino. 247
Al 1836 risale il suo trattato di diritto internazionale con una sintesi storica
della “scienza”, pubblicato a Londra e a Filadelfia, recensito criticamente da
Pellegrino Rossi 248 e successivamente in parte modificato e accresciuto fino
all’edizione francese del 1848. 249 Tale trattato ottenne considerevole successo,

246 Vollenhoven, The Growth of Grotius (n. 244), pp. 35–36.


247 Elizabeth Feaster Baker, Henry Wheaton, 1785–1848, Philadelphia: Uni-
versity of Pennsylvania press 1937.
248 Cfr. oltre n. 263–264.
249 Elements of international law with a Sketch of the History of the Science, by
Henry Wheaton, LL.D. Resident Minister from the United States in America to
the Court of Berlin, Member of the American Philosophical Society, of the
Philadephia, of the Royal Asiatic Society of London and of the Scandinavian
Literary Society of Copenhagen, London: B. Fellowes 1836, nonché Philadel-
phia: Carey, Lea & Blanchard 1836 e 31846, ebbero traduzioni in francese nel
1848 (cfr. sopra n. 198) e nel 1852. L’edizione di Boston del 1855 fu l’ultima
aggiornata dallo stesso Wheaton: Elements of international law, 6th ed., with
the last corrections of the author, additional notes, and introductory remarks,
containing a notice of Mr. Wheaton’s diplomatic career, and of the antecedents
of his life, by William Beach Lawrence, Boston: Little, Brown and company
1855; ma la pubblicazione di questo testo, con continui aggiornamenti da parte
di diversi autori, proseguì fino all’inizio del Novecento (cfr. ad es. Elements of
international law, 4th English ed., bringing the work down to the present time,
by J. Beresford Atlay, London: Stevens and sons limited 1904; Elements of
international law, The literal reproduction of the edition of 1866 by Richard
Henry Dana jr., edited by George Grafton Wilson, with a Chronological
List of Editions and Translations of Wheaton’s Elements of international law
and a Sketch of the Life of Richard Henry Dana Jr., by George Grafton Wilson,
(Classics of International Law ed. by James Brown Scott), Oxford: Claren-
don Press, London: H. Milford 1936, ristampata in Washington: Carnegie
Endowment for international Peace, 1964 nella quale è inserito l’elenco
cronologico delle edizioni e delle traduzioni dell’opera. La traduzione messi-
cana dei due tomi (Elementos del derecho internacional. Traduccion hecha par
José Maria Barros, Mexico 1854–1855) fu completata con Colleciòn de
tratados con las naciones etranjeras, leyes, decretos y ordenes que forman el
derecho internacional mexicano. Apendice al Derecho Internacional par
Wheaton, Mexico 1854. Costantino Arlia ne curò la traduzione italiana

118 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


come testimoniò, qualche anno dopo la sua pubblicazione, il Phillimore e, in
un certo senso, prese il posto di quello del Martens nella manualistica per le
diplomazie. 250 Nel 1839 presentò al concorso bandito dall’Accadémie des
Sciences morales et politiques dell’Institut de France sul tema «Quels sont les
progrès qu’a faits le droit des gens en Europe depuis la paix de Westphalie?»
un testo che ottenne una menzione onorevole da parte della commissione
presieduta da Pellegrino Rossi. 251 Integrò tale testo con una parte sulla storia
del diritto delle genti fino a Westphalia e con un corposo capitolo sugli
interventi delle grandi potenze negli affari interni alle altre nazioni: la sua
Histoire des progrès du droit des gens en Europe et en Amérique depuis la
paix de Westphalie jusqu’à nos jours ebbe una prima edizione nel 1841 e una
seconda nel 1846. 252 Fu recensito da James Mackintosh sulla Edinburgh
Review e del pensiero di quest’ultimo fu a sua volta divulgatore. 253
Le sua considerazioni sui fondamenti e sulla natura del diritto inter-
nazionale – secondo la denominazione risalente a Zouch, a D’Aguesseau e
infine a Bentham 254 – divergono, però, profondamente da quelle dello

(Elementi di diritto internazionale di Enrico Wheaton, Napoli: Giuseppe


Marghieri 1860.
250 Phillimore, Commentaries upon International Law (n. 161), vol. I, p. V:
«The history of this progress has been written by Ompteda, Miruss, and
Wheaton in a manner which leaves the German, the English, and the French
readers but little to desire».
251 Préface de la première édition (Berlin, 15 juin 1841), in: Histoire des progrés
(n. 11) (1846), t. I, pp. V–VI.
252 Fu tradotto in inglese nel 1845 e pubblicato con il titolo di History of the law
of nations in Europe and America, from the earliest times to the Treaty of
Washington, 1842, New York: Gould, Banks 1845 e a Filadelfia: Lea and
Blanchard 1846 nonché in traduzione italiana a Napoli nel 1859 (Storia dei
progressi del diritto delle genti in Europa e in America dalla pace di Westfalia
fino ai nostri giorni con una introduzione sui progressi del diritto delle genti in
Europa prima della pace di Westfalia, prima versione italiana per Costantino
Arlia, Napoli: Giuseppe Marghieri 1859) con l’aggiunta di un capitolo
relativo alle vicende dal 1845 al 1859 (pp. 459–492).
253 Per i riferimenti bibliografici cfr. sopra n. 133.
254 Éléments (n. 198), p. 22 e cfr. Zouch, Iuris et iudicii fecialis, sive, Iuris inter
gentes (n. 148), pars I, De iure inter gentes et de iure pacis, sec. I, pp. 1–3;
Œuvres de M. le Chancelier D’aguesseau, t. IIème contenant les Mèditations
Philisophiques sur l’origine de la Justice, Paris: Chez les Libraires Associés
1779, Méditation VII, in part. p. 337; Bentham, The Works (n. 218), vol. I,
Principles of moral and legislation, ch. XIX Limits between Private Ethics and
the Art of Legislation, § 2. Jurisprudence, its Branches. Quanto alla “qualità
politica” delle persone la cui condotta è oggetto del diritto, occorre distinguere
tra i membri di uno stesso Stato e i membri di Stati differenti: «in the first case,
the law may be referred to the head of internal; in the second case, to that of
international jurisprudence» (§ XXV, p. 149). Lo stesso Bentham aveva

Claudia Storti 119


scrittore scozzese. La sua ricostruzione dei precedenti delle teorie contempo-
ranee mira, infatti, ad evidenziare, soprattutto, l’elemento convenzionale e
“storico” del diritto internazionale.
Nella prefazione alla prima edizione del 1836, Wheaton definì la sua opera
come una sorta di collezione delle norme e dei principi sottostanti ai rapporti
tra le nazioni. Suoi destinatari principali erano essenzialmente i diplomatici, i
funzionari e i politici («an elementar work for the use of persons engaged in
diplomatic and other forms of public life») senza pretendere, ma semmai
auspicando, che anche «mere technical lawyers» ne traessero utili elementi. 255
Nella considerazione che la parte principale del diritto internazionale era
desumibile dai precedenti degli usi e delle relazioni tra Stati, l’impresa gli era
stata suggerita dalla carenza di testi aggiornati. Il testo del Vattel, quantunque
ancora giustamente stimato («Vattel’s highly appreciated work»), risultava
ormai superato per tutta quella parte del diritto internazionale costituita
dall’uso e dalle convenzioni – che, nella prefazione all’edizione del 1848
denominerà droit des gens positif 256 – che si era evoluta e modificata per
effetto di grandi eventi, come la rivoluzione francese, che avevano provocato
gravissime violazioni delle diritto internazionale naturale. 257
Nei tempi più recenti, inoltre, un’approfondita riflessione sulla natura e
sull’estensione degli obblighi tra gli Stati indipendenti era stata svolta a livello
di governi, di tribunali e di assemblee legislative. 258 Lo sguardo del Wheaton
si estendeva oltre i limiti della “civile” Europa. Nel panorama mondiale
oggetto delle sue riflessioni, si segnalava, ad esempio, l’adozione di principii
generali del diritto delle genti anche nelle soluzioni, adottate dalla Corte
suprema degli Stati Uniti tra 1831 e 1832, delle controversie tra due soggetti
eterogenei, come gli Stati Uniti e le tribù indiane degli Cherokees residenti

rilevato che, come lui, già il D’Aguesseau aveva indicato la scorrettezza del
termine normalmente utilizzato di droit des gens, che come quello di law of
nations alla lettera corrispondeva piuttosto a quello di diritto interno e
proposto l’adozione del termine droit entre les gens.
255 Advertisement to the first edition January 1, 1836, che ho potuto vedere in
Elements of international law, The literal reproduction of the edition of 1866
by Richard Henry Dana (n. 249), p. XIX. Il frammento è citato anche da
Nuzzo, Un mondo senza nemici (n. 4), p. 1326.
256 Cfr. oltre testo a n. 264.
257 Advertisement to the first edition (n. 255): «a portion of human history
abounding in fearful transgressions of that Law of Nations which is supposed
to be founded on the higher sanction of the Natural Law (more properly called
the Law of God)».
258 Il riferimento era evidentemente all’espressione “persone morali’: «the nature
and the extent of the obligations between the indipendent societies of men
called States».

120 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


nello Stato della Georgia. La Corte Suprema aveva, infatti, riconosciuto alla
nazione indiana la condizione di soggetto indipendente, separato dallo Stato
entro il cui territorio risiedeva, con poteri autonomi di pace e di guerra e come
alleato debole di una potenza superiore: «Une puissance faible ne renonce pas
à sa souveraineté et à son droit de se gouverner elle-même, en se plaçant sous
la protection d’une puissance plus forte». La questione era antica, le soluzioni
al problema dell’alleanza tra Stati potenti e Stati deboli erano state ampia-
mente discusse nel Medioevo ed avevano ottenuto una soluzione in questo
senso anche nell’opera di Alberico Gentili. 259
Alle fonti prodotte anche da tali istituzioni il Wheaton si era rivolto per
«spigolare» principi generali che parevano ormai accolti dalle nazioni cri-
stiane e più civilizzate: non potevano essere considerati come vincolanti in
senso stretto, ma erano assistiti dalla presunzione che la violazione da parte di
uno Stato avrebbe provocato reazioni negli altri che si fossero sentiti lesi o
minacciati da tale violazione. A questo proposito il pensiero di Wheaton
rievocava forse quello di August Wilhelm Heffter, del quale, come si è rilevato,
era stato recensore. 260 Secondo il Wheaton tale concezione non aveva un
carattere meramente teorico: persino la prassi, e «even in the worst times»,
aveva dimostrato che tale meccanismo era efficace: «do really afford a
considerable security for the observance of justice between States». 261
A questo punto occorre rilevare alcune piccole, seppur molto significative,
varianti terminologiche nella prefazione all’edizione francese del 1848 degli
Elements, di una decina di anni successiva alla prima inglese, durante i quali il
Wheaton, come si è rilevato, aveva altresì preparato la sua Histoire des
progrès du droit des gens en Europe. Tali varianti sembrano indicare in
Wheaton un itinerario intellettuale analogo a quello del Kent verso una
definizione meno pragmatica e più razionale del diritto internazionale.
Non si può, innanzitutto, escludere che, sotto questo profilo, abbia avuto
qualche influenza lo scritto di James Mackintosh al quale, dopo la prima
edizione degli Elements, aveva dedicato uno spazio considerevole nell’Hi-
stoire. 262 Nelle modifiche apportate nel 1848 alla prefazione della prima

259 Wheaton, Eléments du droit international (n. 198), vol. I, pp. 50–52, in part.
p. 51. Cfr. per qualche cenno a tale questione al mio Foedus amicitia e societas:
Alberico Gentili fra tradizione e innovazione, in: Alberico Gentili (San Ginesio
1552 – Londra 1608). Atti dei Convegni nel quarto centenario della morte,
vol. II, San Ginesio 11–12–13 settembre 2008, Oxford e Londra, 5–6 giugno
2008, Napoli L’Orientale, 6 novembre 2007, Milano: Giuffrè Editore 2010,
pp. 333–376, in part. pp. 365–366.
260 Sulla critica di Heffter alla recensione di Wheaton cfr. sopra n. 195–200.
261 Advertisement to the first edition (n. 255).
262 Cfr. sopra n. 137.

Claudia Storti 121


edizione, il diplomatico statunitense accentua, infatti, il ruolo della morale
internazionale e del droit des gens naturel nella costruzione del diritto
internazionale o droit public esterne. 263 Le regole del diritto internazionale
in senso stretto, quale diritto delle genti positivo, appaiono desunte non più
soltanto dai comportamenti condivisi e applicati dalle nazioni “cristiane” e
più civilizzate, ma, più generalmente, dalle «nations civilisées» e dalla
«portion la plus éclairée du genre humain». 264
Trovano conferma, quanto alle fonti, oltre alle costanti desumibili dallo
studio dell’attività e delle decisioni dei governi, i pareri e le soluzioni
“imparziali” «des publicistes et des tribunaux internationaux»; 265 quanto
alle sanzioni, il ruolo dell’opinione pubblica internazionale quale titolare del
potere di deplorare ed eventualmente ‘sanzionare’ le violazioni alle regole
«morali» che disciplinano i rapporti tra nazioni.
Il Wheaton insiste, però, sulla critica nei confronti del disinteresse di Grozio
per il diritto positivo creato dalla comunità degli Stati. 266 Non al diritto
naturale spetta, a suo giudizio, il ruolo di disciplinare i rapporti tra le Nazioni,
bensì, come Bentham aveva sostenuto, al criterio della “felicità” dei popoli, 267
dopo che già Leibniz 268 e Cumberland, avevano tracciato le linee generali di
un tale principio. 269 Le differenze tra diritto naturale e diritto internazionale
continuano a rimanere sostanziali per Wheaton: il primo è obbligatorio per
sua natura, il secondo, per effetto del consenso generale e “tacito” delle
nazioni evidenziato dall’attitudine più o meno costante degli Stati a osservare
nei rapporti reciproci – considerevolmente differenti ai rapporti tra individui –
le regole della giustizia internazionale riconosciute dalla dottrina («par les

263 Préface, in: Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), Paris le 15
avril 1847, rispettivamente p. V e p. VI.
264 Sull’evoluzione del sintagma “civilized nations” cfr. n. 286–287 e Nuzzo, Un
mondo senza nemici (n. 4), pp. 1346–1354.
265 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), p. 5.
266 Ibidem, p. 2.
267 Ibidem, p. 6 con rinvio a Bentham, The Works (n. 218), vol. II, Principles of
international law, Essay I, Objects of International Law, p. 537: «If a citizen of
the world had to prepare an universal international code, what would he
propose to himself as his object? Il would be the common and equal utility of
all nations: this would be his inclination and his duty».
268 Nella prefazione a Codex juris gentium diplomaticus, Guelferbyti: J. Ch.
Meisnerum, 1747.
269 Richard Cumberland (1631–1718), De legibus Naturae Disquisitio Philo-
sophica in qua earum forma, summa Capita, Ordo, Promulgatio & Obligatio
e rerum natura investigantur quinetiam Elementa Philosophiae Hobbianae
cum moralis tum civilis considerentur et refutantur, Londini: Typis E. Flesher
1672, cap. V De lege naturae eiusque obligationis § 1.

122 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


publicistes»). 270 Per la distinzione tra il il diritto naturale relativo agli
individui e quello relativo alle nazioni – il ius gentium – occorre, secondo
l’autore statunitense, risalire a Hobbes 271 e a Pufendorf. 272 Pufendorf, in
particolare, aveva negato l’esistenza di un diritto delle genti volontario o
positivo in quanto nessuna nazione si riteneva sottoposta ad un potere
superiore che potesse obbligarla ad osservarlo. Egli riconosceva, invece, gli
usi introdotti dalle nazioni civili e fondati appunto sul loro consenso tacito,
dalla cui osservanza ogni nazione sarebbe stata libera di recedere nel
momento in cui avesse accettato di esporsi all’ostilità generale delle nazioni
civilizzate e al rischio di ritorsioni e rappresaglie. 273 Già la giurisprudenza
inglese con Lord Stowell aveva a sua volta segnalato le carenze, in termini
pratici, della teoria generale del diritto internazionale e l’efficacia sussidiaria
degli usi e delle consuetudini. 274 Si doveva al Bynkershoek la più chiara
enunciazione di tale teoria in numerosi frammenti delle sue opere sul diritto
delle genti: sia con speciale riguardo alla materia degli ambasciatori, 275 sia
con riferimento alla formula, citata alla lettera dal Wheaton, «jus gentium
nihil est nisi praesumptio secundum consuetudinem, nec quicquam valens
praesumptio ubi espressa est voluntas de quo agitur», sia, ancora, come
possiamo aggiungere: «nec ullum, ut dixi, jus gentium est nisi inter volentes ex
pacto tacito». 276 Come già per Pufendorf, la conseguenza del dissenso

270 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), pp. 4–6, con riguardo a
Grotius, Introduction.
271 Thomas Hobbes (1588–1679), De cive, the English version entitled in the first
edition Philosophicall rudiments concerning government and society, a critical
edition by Howard Warrender, Oxford: Clarendon, 1983, XIV, § 4.
272 Samuel Pufendorf (1632–1694), De iure naturae et gentium libri octo, cum
integris commentariis virorum clarissimorum Jo. Nicolai Hertii atque Joannis
Barbeyraci accedit eris scandica recensuit et animadversionibus illustravit
Gottfridus Mascovius, t. I, Francofurti & Lipsiae: Ex officina Knochiana
1744, lib. II, cap. III De lege naturali in genere, § 23 il riferimento era al
frammento «Nam nos positivum aliquod ius gentium, a superiore profectum,
negamus» (p. 221).
273 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), p. 7.
274 Ibidem, p. 8; ad esempio la teoria generale non stabilisce quali siano i mezzi di
distruzione consentiti in guerra, mentre la circoscrizione dei mezzi lecitamente
applicabili è definita dall’uso generale. Cfr. in proposito anche sopra testo
corrispondente a n. 168–170.
275 Cfr. ad esempio «omnes consentiunt legatis male habitus vel ob odium
Principis, qui misit, vel ob explicata eius mandata, quamvis acerbiora, violari
ius Societatis Humanae, quae ex pactis tacitis inducitur» Bynkershoek, De
foro legatorum (n. 215), cap. XVIII de moribus Gentium quod ad forum
legatorum in criminibus, p. 147 col. B.
276 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), p. 9 ss. con riguardo a
Bynkershoek, De foro legatorum, cap. XIX Rursus de exemplis, ex usu
Gentium, & quae contra dici possint, pp. 149–150.

Claudia Storti 123


sarebbe consistita nelle ritorsioni o nell’ostilità delle controparti. Dunque le
fonti del ius gentium consistevano nella ragione e nell’uso «ex ratione et
usu». 277 E tutto questo riportava il Wheaton alla definizione del suo
“maestro” Kent: «reason and custom». 278
Anche al Savigny, come ha indicato Lugi Nuzzo, il Wheaton approdò nella
terza edizione degli Elements non senza aver prima segnalato i caratteri della
dottrina di Austin, 279 che, proprio per la sua definizione di diritto inter-
nazionale aveva suscitato reazioni nel 1839 da parte del Manning. 280
Dall’Austin – ma, come si è rilevato, l’opinione di Heffter non era stata molto
dissimile –, il Wheaton riprendeva la negazione del carattere di diritto in senso
proprio e tecnico al law of nations, dato che il termine law era impiegato
soltanto per analogia con il diritto positivo, e la concezione che soltanto la
forza dell’opinione internazionale poteva costringere gli Stati a rispettarlo. 281

277 Cornelii van Bynkershoek, Quaestionum juris publici, Liber primus, De


rebus bellicis, in: id., Opera Omnia, edidit et praefatus est B. Philippus Vicat
juris in Accademia Lausannensi Professor, t. II, Coloniae Allobrogum: Marci-
Michaelis Bousquet & Chapuis 1761, cap. X De his, quae ad amicorum
nostrorum hostes non recte advehuntur, per la definizione di usus quale
perpetua consuetudo, p. 181, col. B. Il giurista precisava appunto che l’uso è
consuetudine costante o per meglio dire perpetua, che non si può considerare
interrotta da uno o due trattati contrari: «quia unum forte alterumve pactum,
quod a consuetudine recedit, Jus gentium non mutat». L’edizione più recente in
Classics of international law 21, Oxford: Clarendon Press 1946, nonché
Buffalo, N. Y.: Hein 1995.
278 Cfr. sopra testo corrispondente a n. 102.
279 Nuzzo, Un mondo senza nemici (n. 4), in part. pp. 1329–1331 e cfr. p. 1331:
«se l’autorità di Savigny era servita a Wheaton per trasformare un diritto
radicato nella storia e fondato sulla morale cristiana in un sistema di regole
positive […]».
280 Manning, Commentaries on the law of Nations (n. 147), pp. 4–5.
281 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), p. 23 con riferimento a
John Austin, The Province of Jurisprudence, London: Murray 1832, rist.
Union, New Jersey: Lawbook exchange 1999, pp. 147–148 e 207–208 e cfr. in
part. p. 208: inteso il diritto internazionale come complesso di regole relative al
rapporto tra stati sovrani («speaking with graeter precision, international law,
or the law obtaining between nations, regards to conduct of sovereigns
considered as related to one anhoter»), l’Austin, di seguito al Savigny, aveva
escluso che il diritto internazionale avesse i caratteri del diritto positivo («is not
positive law for every positive law is set by a given sovereign to a person or
persons in a state of subjection to its author»). Solo per analogia con il diritto
in senso stretto, il diritto internazionale poteva essere considerato “diritto”
grazie all’opinione pubblica internazionale che, in molti casi quantunque non
sempre, aveva il potere di influenzare la condotta degli Stati («the duties which
it imposes are enforced by moral sanctions: by fear on the part of nations, or
by fear on the part of sovereigns, of provoking general hostility, and incurring

124 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Parafrasando, subito dopo, il pensiero di Savigny, il diplomatico statunitense
dichiarava di condividerne l’opinione completamente: nel sostenere che le
radici del diritto internazionale stavano nelle concezioni comuni agli Stati
cristiani dell’Europa, fondate sulle medesime origini e religione e positivizzate
nel diritto interno di ciascuna; nel rilevare che quello che si considerava il
diritto internazionale positivo era in realtà un diritto “imperfetto” (eine
unvollendete Rechtsbildung), sia perché le sue regole erano incerte, sia perché
si trattava di un diritto non azionabile data l’assenza di un tribunale che lo
applicasse; nel constatare, infine, che gli Europei mostravano la tendenza ad
estendere regole “analoghe” a quelle adottate nei rapporti reciproci alle
relazioni con gli altri popoli della terra, anche in assenza della garanzia della
reciprocità. 282
La correttezza della teoria del giurista tedesco trovava dimostrazione nel
recente miglioramento delle relazioni tra le nazioni cristiane dell’Europa e
dell’America e i popoli pagani e maomettani dell’Asia e dell’Africa – la
Turchia, l’Egitto, la Persia, gli Stati nordafricani (i cosiddetti Etats Barbares-
ques) –, i quali, ad esempio, nei rapporti diplomatici, sembravano voler
adottare gli usi delle nazioni più civili, tanto che gli Stati europei avevano loro
esteso, con caratteri di reciprocità, le regole vigenti nell’Europa. L’in-
dipendenza e l’integrità dell’Impero Ottomano era ormai considerata un
elemento essenziale per l’equilibrio europeo e i trattati che la garantivano
costituivano ormai parte integrante del diritto pubblico europeo. Non diver-
samente, erano stati stipulati sia dalle nazioni europee, sia dagli Stati Uniti
trattati con la Cina, che stava iniziando ad abbandonare la propria attitudine
anti – commerciale e anti – sociale e a riconoscere l’indipendenza e
l’uguaglianza delle altre nazioni nei rapporti reciproci di guerra e pace. 283
Come annotò il Dana nella ristampa del 1866 degli Elements, il governo
cinese nel 1864 finì per seguire il consiglio dell’ambasciatore statunitense
Burlingame e per tradurre in cinese gli Elements del Wheaton «as his text –

its probable evils, in case they shall violate maxims generally received and
respected»).
282 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), vol. I, p. 24 con riferi-
mento a Friedrich Carl von Savigny, System des heutigen Rechts, B. I,
Berlin: Weit und comp. 1840, Kap. II, § 11 Völkerrecht, pp. 32–34 e, conclu-
deva il Savigny: «Eine solche Anwendung aber hat einen rein sittlichen
Character, und nicht die Natur eines positiven Rechts».
283 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), vol. I, pp. 24–25 e per la
ricostruzione degli eventi e dei trattati che dal 1829 avevano provocato tale
inversione della politica europea nei confronti dell’Impero ottomano cfr. ora
Nuzzo, Un mondo senza nemici (n. 4), pp. 1354–1356.

Claudia Storti 125


book for its officials, in International Law». 284 Nell’anno successivo si ebbe
anche un’edizione giapponese. 285
Concordando con l’Heffter, il Wheaton riteneva, infatti, che i progressi
nella scienza internazionalistica consistessero anche in queste avvisaglie di una
seppur timida tendenza degli Stati extrauropei – che una trentina d’anni prima
il Mackintosh aveva descritti con tratti molto vivaci come ancora decisamente
arretrati sui principi della civiltà e refrattari ai modelli occidentali 286 – ad
adottare almeno alcune delle procedure e delle regole che le nazioni
“civilizzate” erano faticosamente riuscite nei secoli ad imprimere nei reciproci
rapporti. 287

10. Pellegrino Rossi vs. Henry Wheaton e … la scomparsa di una nota


Uno scivolone di pragmatismo diplomatico, contenuto in una sola nota della
massiccia ricostruzione degli elementi del diritto internazionale e della sua
storia, offrì il pretesto per mettere in discussione la validità del sistema di
Wheaton agli oppositori della diplomazia tra i quali si segnalarono Pellegrino
Rossi e, dopo di lui, il nostro Casanova.
Nella prima edizione degli Elements di pochi anni posteriore all’annessione
all’Impero russo della Polonia, il Wheaton aveva, infatti, qualificato tale l’atto
di “prepotenza” perpetrato dalla Russia nel 1832, in violazione di principi sui
quali bene o male ormai dottrina e diplomazia sembravano concordare
(primo tra tutti quello dell’indipendenza degli Stati), come atto di conquista
e tale qualifica fu stigmatizzata da Pellegrino Rossi nella recensione pubbli-
cata nel 1838 sulla Revue française della prima edizione degli Elements del
Wheaton che aveva riscosso immediato successo. 288
Tale recensione offrì occasione al docente e politico – ricordato come colui
che «non separò mai, né antepose l’interesse de’ principi a quello delle
nazioni» 289 – per riconoscere alcuni meriti all’autore statunitense e anche

284 Elements of international law, by Richard Henry Dana (n. 249), p. 19, n. 8.
285 Wheaton’s International Law, Japanese Edition, with Japanese diacritical
Marks, Kyoto 1865, cit. in Elements of international law, by Richard Henry
Dana (n. 249), p. 608.
286 Mackintosh, Discourse on the study of the law of Nature and Nations
(n. 133), in part. p. 63.
287 Cfr. in proposito Nuzzo, Un mondo senza nemici (n. 4), p. 1335.
288 Rossi, Droit des gens intervention (n. 14), p. 446.
289 Augusto Pierantoni, Pellegrino Rossi. Discorso di Augusto Pierantoni già
professore di diritto internazionale nella R. Università di Modena ora Profes-
sore di diritto costituzionale nella R. Università di Napoli, Padova: Minerva
1872, p. 58.

126 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


per denunciare a chiare lettere insoddisfazione e perplessità nei confronti di
tutte le opere sia di matrice scientifica, sia di matrice diplomatica sul diritto
internazionale fino ad allora pubblicate, in quanto approssimative ed inido-
nee, quanto quelle dei più illustri predecessori, di fronte ai grandi problemi
dell’ordine internazionale: «L’èrudition de Grotius, les formes géometriques
de Wolf, la simplicité par trop superficielle de Vattel, les connaissances
pratiques de Martens, n’ont pas suffi pour imprimer à cette partie si impor-
tante du droit tous les caractères d’une science régulièrement développée; les
principes n’en ont pas été démélés ni les conséquences déduites avec cette
netteté et cette rigueur qui satisfait l’intelligence et commande la conviction.
On dirait que dans le droit des gens il faut se contenter de l’à peu près, qu’il
n’y a pas de principe qui puisse supporter toutes ses conséquences, pas de
règle qui ne se trouve étouffée sous de nombreuses exceptions […]». 290
Gli Elements del Wheaton non avevano saputo superare tali limiti né dal
punto di vista della tecnica espositiva, né da quello del rapporto tra scienza
del diritto internazionale e politica, 291 una politica che, come si vedrà
immediatamente, continuava a pretendere – e purtroppo con successo – di
sovvertire principi generali del diritto che, nonostante tutto, dovevano
considerarsi come ormai consolidati.
Il pensiero del Rossi si riassume nella critica indignata ch’egli rivolse contro
l’atteggiamento assunto dal Wheaton, allora ambasciatore statunitense a
Berlino di fronte ai drammatici fatti dell’annientamento della Polonia. Il
doppio binario del diplomatico, comprensibilmente sempre in bilico tra
principi generali e pragmatismo – come concedeva il Rossi: «nous concevons
son embarras» –, 292 si era manifestato nelle concise parole ch’egli aveva usato
per dar conto di quella vicenda: la Russia avrebbe “conquistato” con le armi
la Polonia come giusta reazione alla ribellione dei Polacchi. 293
«Conquête: le mot est précieux». 294 Tale soluzione appariva al Rossi
semplicistica e del tutto in contrasto con il significato giusinternazionalistico
del termine conquista che poteva riguardare soltanto il rapporto tra due Stati
sovrani.
Per valutare correttamente il caso concreto alla luce dei principii generali si
sarebbe dovuto, invece, far riferimento alle clausole del trattato di Vienna che

290 Rossi, Droit des gens intervention (n. 14), p. 445.


291 Ibidem, pp. 446 ss.
292 Ibidem, p. 449.
293 Oltre che negli Elements, la complessità della situazione polacca e delle
trattative tra Russia, Impero e Prussia nel Congresso di Vienna fu di poi
ampiamente illustrata dal Wheaton in: Histoire du droit des gens (n. 11), vol.
II, pp. 121–132.
294 Rossi, Droit des gens intervention (n. 14), pp. 447–448.

Claudia Storti 127


avevano espressamente regolato le relazioni tra Impero russo e Polonia e da
questo punto di vista, solo due alternative erano ammissibili. O la Polonia,
pur conservando la propria identità nazionale, era diventata una “provincia”
dell’Impero russo. O la Polonia era uno Stato sovrano legato a quest’ultimo
nella forma dell’unione personale.
Nel primo caso avrebbe potuto parlarsi soltanto di ribellione. Il termine
conquista era, invece, appropriato nel secondo. L’accostamento di ribellione e
conquista non aveva, infatti, alcun senso nel diritto internazionale. Uno Stato
indipendente e sovrano – come era stata appunto qualificata la Polonia nagli
artt. 53–55 del trattato di Vienna – non poteva essere considerato come ribelle
nei confronti di un altro Stato, 295 così come una nazionalità compresa in uno
Stato non poteva essere conquistata in quanto uno Stato non può conquistare
una parte di se stesso. 296
Stabiliti questi aspetti tecnici, come giudicare l’azione della Russia che con
un atto interno (l’ukase del 1832 appunto) aveva annullato gli effetti di un
trattato che le nazioni europee avevano stipulato tra loro quale caposaldo
dell’“equilibrio’? A fronte dell’insurrezione polacca, i Russi avrebbero potuto
o ristabilire con le armi lo status quo, oppure, se l’intervento armato fosse
stato inefficace, avrebbero dovuto rivolgersi agli altri Stati, che avevano
sottoscritto l’accordo, affinché in qualità di garanti e di arbitri giudicassero
i fatti dopo aver concesso ai Polacchi il diritto al contraddittorio.
L’atto violento e unilaterale della Russia, contrario ai principi generalmente
approvati del «cosiddetto» diritto internazionale, costituiva, in quanto viola-
zione aperta di un trattato, un precedente che avrebbe pesato sul futuro
dell’Europa. In altre parole, il diritto si era fatto strumento della politica:
«Mais d’un trait de plume effacer la Pologne de la liste des Nations, sans plus
de façons que s’il se fût agi de destituer un gouverneur, briser de son propre
mouvement, de sa toute-puissance une des bases du traité de Vienne, pour des
fait que la Pologne avait le droit d’expliquer, que toutes les puissances
signataires avaient le droit d’apprécier, c’est un acte qu’on ne devrait pas
attendre d’un défenseur des doctrines et des arrengements de 1815, un
précédent qui ne sera pas oublié. Le droit a sommeillé: le droit se subordonne
dans son exercice aux intérêts complexes de ceux à qui il appartient: c’est là la
politique». 297
Pertanto, se era comprensibile che un diplomatico nella sua qualità di
politico non potesse sbilanciarsi per sostenere principii ‘scientifici’ in contra-

295 Così anche Vattel, Le droit des gens (n. 11) e cfr. sopra n. 116.
296 Rossi, Droit des gens intervention (n. 14), p. 448.
297 Ibidem, pp. 448–449.

128 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


sto con gli interessi delle nazioni potenti, la soluzione a tali contraddizioni non
poteva essere che una: che i diplomatici si astenessero dallo scrivere trattati di
diritto delle genti. 298
Occorre dire che. nella successiva edizione degli Elements, il Wheaton
incassò la critica e, pur senza citare Pellegrino Rossi, invertì la rotta. Dopo
aver segnalato le proteste diplomatiche della Francia e dell’Inghilterra contro
le violazioni della Russia abbandonò la parola “conquista” e procedette ad
una completa asettica ricostruzione dei fatti della Polonia, rilevando, innan-
zitutto, che l’unione tra quest’ultima e l’Impero stabilita dal congresso di
Vienna era stata di natura piuttosto «irrégulière» e difficilmente definibile alla
luce delle categorie internazionalistiche consolidate. Omise, inoltre, di stabi-
lire uno stretto collegamento tra la rivoluzione polacca del 1830 e il decreto
con il quale tra il 14 e il 20 febbraio del 1832 l’imperatore della Russia
riformò unilateralmente la costituzione polacca con l’abolizione del Parla-
mento, l’aggregazione del suo esercito a quello russo e l’unione della Polonia
all’Impero quale parte dell’Impero medesimo. 299
Non mancò, inoltre, di replicare implicitamente al Rossi, nell’ampia
trattazione della questione polacca svolta nell’Histoire des progrès du droit
des gens, che una critica fondata sul puro uso delle parole poteva essere
fuorviante. Lo sapevano bene i diplomatici e gli statisti: «Telle est
l’imperfection inévitable de tout language humain, qu’il devient souvent
impossibile, par les seuls termes d’un acte quelquonque, de déterminer quelle
était l’intention véritable des parties». 300 Intervenne, infine, sulla ripartizione
della materia degli Elements, fondendo la trattazione dei diritti di conserva-
zione e di indipendenza degli Stati per superare un’ulteriore contraddizione
che, come vedremo, gli imputò subito di seguito il recensore italiano. 301
Pellegrino Rossi gli aveva rimproverato, infatti, di aver commesso errori
anche di carattere sistematico: l’impostazione del suo trattato mancava di un
impianto razionale e di metodo, il ragionamento deduttivo non era applicato
rigorosamente.
Tali carenze producevano conseguenze nefaste sulla trattazione di uno dei
temi più attuali e scottanti delle relazioni internazionali, quello dell’interven-
to. Dal punto di vista giuridico, l’intervento consisteva nell’interferenza di uno
Stato, di propria iniziativa o su richiesta di una delle parti in conflitto, negli

298 Ibidem, p. 449.


299 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), vol. I, pp. 53–55.
300 Wheaton, Histoire des progrès (n. 11), vol. II, p. 124.
301 Cfr. infra testo corrispondente a n. 303 e Wheaton, Éléments du droit
international (n. 198), vol. I, Du droit de conservation et d’indépendance,
pp. 75 ss.

Claudia Storti 129


affari interni di un altro per modificarne – con la minaccia, con l’invasione, o
con qualsiasi altro mezzo di costrizione – il sistema istituzionale. 302 Stabilire
quando l’intervenire negli affari di un altro Stato fosse legittimo era di
fondamentale importanza dal punto di vista dei principii in quanto era
strettamente connesso con il principio della sovranità nazionale.
Pellegrino Rossi introduce l’esposizione della sua teoria dell’equilibrio,
dell’intervento e della guerra civile rilevando che fino a quel momento,
nessuno studio sul diritto internazionale aveva risolto esaurientemente tale
questione. Tantomeno quello di Wheaton, che, su questi punti, aveva com-
messo un errore scientificamente inaccettabile. Aveva, infatti, separato due
principii che dal punto di vista della scienza dovevano essere, invece,
strettamente uniti: quello della self-preservation, ossia del diritto di difesa e
conservazione degli Stati, da quello di indipendenza (come già ad esempio il
Klüber). 303 Si era inoltre arreso, sbagliando o disperando nel potere della
scienza, di fronte alla constatazione che normalmente sul tema dell’intervento
la forza sostituiva il diritto e che il monopolio di tale istituto apparteneva alla
politica. Posto il principio, del tutto solido e condiviso, dell’indipendenza e
della libertà delle nazioni, l’applicazione rigorosa del ragionamento deduttivo
avrebbe dovuto indicare come corrispettivo il principio del non-intervento.
Qualora uno Stato avesse sospettato che un altro intendeva mettere a rischio
la sua stabilità o i suoi diritti, avrebbe dovuto chiedere ragione o prepararsi a
reagire contro eventuali aggressioni o atti pregiudizievoli e esercitare tale
diritto di reazione solo qualora, dopo un reclamo, l’altro Stato avesse rifiutato
riparazione.
Solo come eccezione a tali regole, si sarebbe, inoltre, potuto prevedere un
sistema di prevenzione, che poteva considerarsi come «accidentellement légi-
time» nell’ambito dell’ordine internazionale, allorché si fosse verificato il caso
dell’instaurazione di un governo per sua natura «ostile» alle altre nazioni:
«d’un gouvernement qui porterait en lui-même, vis-à-vis d’un ou plusieurs
autres gouvernements, un principe d’aggression évident et inévitable». In tale
caso, non sarebbe stato, però, compromesso il principio fondamentale
dell’indipendenza degli Stati, in quanto tale presunta eccezione era, a sua
volta, un elemento costitutivo del diritto di pace e di guerra: «prévenir une
aggression imminente et certaine est permis, mais il faut que le motif soit
sérieux, sincère, et ne dégénère pas en prétexte». 304

302 Rossi, Droit des gens intervention (n. 14), p. 449 «On a dit qu’il y a
intervention lorqu’un Etat, se mêlant des affaires d’un autre Etat, prétend en
modifier le système politique».
303 Così anche nell’edizione del 1848: Wheaton, Éléments du droit international
(n. 198), vol. I, rispettivamente, pp. 108 ss. e 131 ss.
304 Rossi, Droit des gens intervention (n. 14), pp. 450–453.

130 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Da tale principio discendeva una serie di conseguenze ulteriori. In primo
luogo, la presunzione di legittimità del Governo di fatto: gli altri Stati
avrebbero potuto «giudicare» la stabilità e l’affidabilità di un nuovo Governo,
valutandola sulla base dell’obbedienza della generalità dei cittadini; 305 in
secondo luogo, l’obbligo di neutralità in caso di guerra civile. 306
Dal primo punto, conseguiva anche la possibilità di stipulare con il nuovo
Governo trattati validi e di stabilire quale natura, se temporanea o stabile,
avrebbero dovuto assumere tali stipulazioni. La completa autonomia delle
scelte in proposito, oltre che esercizio del diritto di libertà, costituiva una
forma legittima di «influenza» sull’ordinamento delle altre nazioni e poteva
contribuire a consolidarle o a indebolirle. 307
Il caso della guerra civile doveva essere a sua volta esaminato alla luce dei
principii generali e separato, da un punto di vista teorico, da quello
dell’intervento. Occorreva tuttavia distinguere nella guerra civile tra insurre-
zione nei confronti di uno Stato legittimo o lotta tra due partiti «nuovi» per la
conquista del potere. Nel primo caso, gli Stati stranieri non avrebbero mai
dovuto sostenere le ragioni degli insorti, ma tener lealmente fede ai legami
anteriormente stretti con il governo legittimo fino al punto di andare eventual-
mente in suo soccorso, come avrebbero potuto fare anche indipendentemente
dal fatto di un’insurrezione. Dal punto di vista del diritto, esisteva sempre una
presunzione contraria alle ragioni dell’insurrezione, a meno che i ribelli non
dimostrassero di rappresentare «le vœu national»: «elle ne peut devenir
légitime qu’autant qu’elle est assez puissante dans la masse de la nation pour
triompher de toutes les ressources dont le gouvernement dispose» e purché la
reazione fosse guidata dallo stesso Governo e non da un altro stato «qui
vienne faire chez lui la police». 308
L’obbligo di buon vicinato veniva meno qualora lo Stato legittimo avesse
mostrato di soccombere alla ribellione e di essere ridotto a sua volta al grado
di un partito oppure quando due partiti differenti e del tutto nuovi si fossero
contesi i poteri di governo. In tal caso, lo Stato straniero non avrebbe dovuto

305 Ibidem, p. 454.


306 Ibidem, p. 460.
307 Ibidem, pp. 454–455: «Je n’ai pas le droit, par conséquent, de m’opposer à
celui-ci, de prendre fait et cause pour celui-là; mais, libre que je suis d’entrer ou
de ne pas entrer dans telle ou telle espèce de rapports, soit avec l’un, soit avec
l’autre établissement, si j’entre en rapport avec le premier, j’en ai le droit. […]
A’ quel titre, sur quel fondement, sous quel prétexte m’imposerait-on, en
pareille occurrence, l’obligation d’agir en sens inverse de mon intêret?». Questo
era quanto di fatto avvenuto in occasione dell’instaurazione del governo nato
in Francia dalla rivoluzione del luglio 1830 (Ibidem, p. 452).
308 Ibidem, pp. 460–462.

Claudia Storti 131


soccorrere nessuno dei due direttamente; mentre indirettamente (ad esempio,
autorizzando i propri cittadini di andare a combattere o vendendo armi)
avrebbe potuto garantire sostegno ad entrambe le parti fino a che la volontà
nazionale avesse propeso decisamente a favore dell’uno o dell’altro. Qualsiasi
atteggiamento differente avrebbe rivestito il carattere di intervento. 309
Anche il principio del sostegno allo Stato legittimo poteva subire eccezioni
desumibili dai principi di carattere generale. Innanzitutto, quando il governo
legittimo poneva in atto azioni ostili nei confronti di una nazione straniera,
quest’ultima sarebbe stata legittimata a dichiarare guerra autonomamente e
senza riguardo all’insurrezione, come era avvenuto nel caso della guerra tra
Francia ed Inghilterra al tempo della rivoluzione americana. Terminata la
guerra, gli aiuti agli insorti avrebbero dovuto cessare perché altrimenti si
sarebbe configurato un caso di intervento. Qualora fosse stata, invece,
l’insurrezione a mettere a rischio gli interessi o i diritti di una nazione
straniera, quest’ultima doveva innanzitutto chiedere soddisfazione al governo
legittimo e solo in mancanza di riparazione da parte di quest’ultimo, la guerra
contro gli insorti sarebbe stata legittima. 310
Occorre anche dire che il Rossi calibrava considerevolmente la qualità degli
interessi che potevano giustificare un intervento armato contro i ribelli.
Quantunque fosse evidente che qualsiasi fatto di guerra civile creava disagi
alle nazioni circostanti o che, comunque, avevano legami con lo Stato
legittimo, non potevano essere considerati come causa lecita di intervento i
problemi di natura meramente commerciale. Una causa lecita di intervento
poteva essere costituita soltanto dalla violazione di diritti, che mettesse a
rischio la libertà e la conservazione dello Stato straniero. 311
Giustizia esigeva che non si pretendesse da un popolo la sopportazione di
un cattivo governo o di un governo tirannico per semplici inconvenienti
passeggeri, purché l’insurrezione non fosse contagiosa e non rischiasse di far
deflagrare l’ordine interno di altre nazioni. Se così fosse stato e se il pericolo
fosse stato reale, imminente ed inevitabile, le potenze minacciate avevano
pieno diritto di «difendere» la loro stabilità interna. 312

309 Ibidem, p. 463.


310 Ibidem, pp. 464–465.
311 Ibidem, pp. 467–468.
312 Ibidem, pp. 468–469. Ad esempio, nel 1830, due mesi dopo la rivoluzione di
luglio, i Paesi Bassi erano insorti contro il Belgio per unirsi alla Francia, ma
quest’ultima, ancora poco salda, non si era resa disponibile a tale offerta
perché rischiava una dichiarazione di guerra da parte di tutte le potenze
europee che vedevano minacciato l’equilibrio: la difesa della libertà dei Belgi
non avrebbe potuto giustificare il ritorno alle armi di tutta l’Europa.

132 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


Tale diritto di intervento era del tutto eccezionale e le forme dell’intervento
avrebbero dovuto essere ben misurate: «pour rester dans le droit et dans la
justice, il faut se garder d’abuser de l’exception». Il diritto di intervento
costituiva un’eccezione ai principii generali e si verificava soltanto nel caso che
fosse ispirato dalla volontà di favorire l’affermazione della volontà nazionale,
facendo cessare la lotta tra partiti, ristabilendo l’ordine interno, offrendo
l’occasione alle persone «calmes et paisibles» di realizzare una riorganizza-
zione stabile e sicura dello Stato dilaniato dalla guerra civile. A questo scopo,
le nazioni intervenute avrebbero dovuto sollecitare la deposizione delle armi,
svolgere una mediazione, lavorare per la conciliazione e, se questa era
impossibile, agire come arbitri saggi e imparziali non nell’interesse proprio,
ma in quello del nuovo governo. 313 Quella che poteva sembrare un’eccezione
al non intervento si risolveva pertanto nell’applicazione del principio
dell’arbitrato. Dell’uso giusto o scorretto dell’intervento sarebbero comunque
state giudici le altre nazioni, che avrebbero potuto ratificare, non riconoscere,
condannare o a loro volta prendere le armi colo lo Stato che avesse utilizzato
l’intervento ingiustamente nella forma di un atto di ‘prepotenza’.
Nell’opinione di tutti gli autori, anche di coloro che ritenevano l’intervento
una violazione dei diritti di indipendenza degli Stati, si era formata la
convinzione che l’indipendenza degli Stati cosiddetti “secondari” dipendesse
dalla benevolenza e dagli interessi degli Stati “de premier ordre”. Tale
opinione doveva essere decisamente smentita sia con riguardo all’intervento
spontaneo, sia con riguardo a quello fondato su trattati. Nel primo caso,
l’intervento era utilizzato, senza dubbio, per la conservazione dell’equilibrio,
ma dato che esso configurava un «crimine» non poteva essere in ogni caso né
giustificato, né imitato. 314 Quanto all’ipotesi di intervento fondato su un
trattato nel quale uno Stato avesse promesso ad un altro di non cambiare
regime politico, tale promessa avrebbe dovuto essere considerata come una
forma di abdicazione dalla sovranità nazionale. Se tale abdicazione fosse stata
espressione spontanea della volontà nazionale («hypothèse absurde») se ne
doveva dedurre che lo Stato non era più indipendente e, pertanto, dal punto di
vista giuridico, non avrebbe più potuto parlarsi di intervento. Qualora,
invece, una tale clausola fosse stata sottoscritta da un governo debole e

313 Ibidem, pp. 471–472. Così era avvenuto nel 1827 allorché Francia, Russia ed
Inghilterra erano intervenute per risolvere la crisi tra l’Impero ottomano, che
non era più in grado di riconquistare la Grecia, e la Grecia dove nessun partito
era in grado di prendere solidamente in mano le redini del potere.
314 Se l’Austria conculcava l’indipendenza degli Stati italiani per accrescere la
propria potenza, sarebbe stato possibile per la Francia, la Russia e la Prussia
fare altrettanto con gli Stati indipendenti secondari circostanti? L’intervento è
un crimine e come tale poteva essere solo represso, non imitato.

Claudia Storti 133


perfido che, con un’«œuvre honteuse et secrète» e contraria alla volontà
nazionale, avesse tradito l’indipendenza nazionale, il trattato avrebbe sem-
plicemente costituito la prova del reato commesso dal governo contro la
nazione e non, come aveva sostenuto il Wheaton, una legittimazione, l’unica
ammissibile, della violazione del diritto di indipendenza. 315

11. Dopo la «catastrofe del 1848»: le lezioni di Ludovico Casanova


sul Risorgimento italiano e sull’emancipazione
e moralizzazione del diritto internazionale
Nonostante l’ottimismo del Rossi («Le jour n’est pas éloigné où toute inter-
vention arbitraire sera aussi impossibile que l’est aujourd’huj l’empri-
sonnement d’un ambassadeur, fût – il celui de la république de Saint
Marin»), 316 le cose non erano granché cambiate dieci anni più tardi. Inutili
erano state le critiche al sistema dell’equilibrio e a tutte le sue conseguenze
sulla vita delle nazioni «secondarie» che si erano levate, come ricorderà il
Casanova, 317 oltre che da illustri giuristi come il Klüber, anche dalla voce di
persone non strettamente addette ai lavori come Richard Cobden, il quale
l’aveva definita come «an undescribed, indescribable, incomprehensible noth-
ing; mere words conveying to the mind not ideas». 318
Le lezioni del Casanova, come ricordato più sopra, pur ricalcando i
caratteri “eclettici” delle opere giuridiche italiane della prima metà

315 Wheaton, Éléments du droit international (n. 198), pp. 134–136.


316 Rossi, Droit des gens intervention (n. 14), pp. 475–477.
317 Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, pp. 10–12.
318 Richard Cobden (1804–1865), Political Writings, London: William Ridge-
way 21868, p. 259 cit. in James E. Dougherty, Robert L. Pfaltzgraff, Jr.,
Contending Theories of International Relations. A comprehensive Survey, New
York: Harper and Row 21981, in part. pp. 24–25: «It is not a fallacy, a
mistake, an imposture – it is an undescribed, indescribable, incomprehensible
nothing; mere words, conveying to the mind not ideas, but sounds like those
equally barren syllabes which our ancestors put together for the purpose of
puzzling themselves about words»; dello stesso Cobden, Russia and the
Eastern question with an introduction by an American Citizen, Boston: J. P.
Jewett; Cleveland, Ohio: Jewett, Proctor and Worthington 1854. Cfr. anche, su
diversi aspetti del pensiero del pacifista e diplomatico Richard Cobden:
Mannoni, Potenza e ragione (n. 14), n. 7, pp. 142, 168, 233 e più
diffusamente: Nuzzo, Un mondo senza nemici (n. 4), pp. 1356–1357. Per
un riesame del pensiero di metà Ottocento Charles Dupuis (1863–1938), Le
principe d’équilibre et le concert européen de la paix de Westphalie à l’acte
d’Algésiras, Paris: Perrin et cie 1909 e Kosters, Les fondements du droit des
gens (n. 170), in part. pp. 200 ss.

134 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


dell’Ottocento, 319 si presentano come un lavoro di composizione entro uno
schema unitario di opinioni desunte da diversi autori a sostegno di una
“scienza” del diritto internazionale fondata esclusivamente sui principii
fondamentali del diritto naturale e mirata alla realizzazione dell’indipendenza
delle “Nazioni” il cui “voto” fosse stato coartato dalla volontà delle grandi
potenze. Non è difficile riscontrare in tale impostazione l’ispirazione risorgi-
mentale che sta alla base della sapiente e “razionale” ricostruzione del
Casanova, che tra l’altro molto mutuò dallo scritto sopra ampiamente citato
di Pellegrino Rossi ricordato agli studenti come «un dotto scrittore». 320
Nel periodo tra la fine del 1850 e l’inizio del 1851, nel quale si colloca la
stesura delle prime lezioni, il “coraggioso” docente non esita a manifestare ai
suoi studenti come da una corretta individuazione e applicazione dei principii
innati delle Nazioni (conservazione, indipendenza e proprietà) derivasse il
pieno diritto di espressione della volontà della nazione italiana, quando
ancora era bruciante l’esperienza del fallimento dei moti risorgimentali e
della prima guerra d’indipendenza, della fine della Repubblica Romana con
l’omicidio appunto di Pellegrino Rossi, mentre a Francoforte, il 22 agosto del
1850, gli Amici della Pace avevano proclamato una dottrina del non inter-
vento, che per molti aspetti non poteva soddisfare del tutto gli aspiranti alla
liberazione dell’Italia. 321
In tale contesto, i temi dell’equilibrio e dell’intervento giocarono un ruolo
fondamentale e proprio su questi si concentrarono in particolare le due lezioni
sul diritto assoluto di conservazione e sul diritto di indipendenza che, come
già nei trattati di Klüber e di Wheaton e, a questo proposito, contro l’avviso
del Rossi, il Casanova tenne ben separati tra loro. La stretta connessione tra
diritto interno e diritto internazionale, insita nell’esame del problema
dell’intervento, trovava, inoltre, una continuazione, dal punto di vista del
diritto “esterno”, nelle lezioni dedicate alla proprietà internazionale.
Occorre innanzitutto intendersi sulla definizione di diritto internazionale e
su quelle di Stato e di Nazione del Casanova.
Quanto all’origine e ai fondamenti del diritto internazionale, seguendo la
teoria del Pufendorf che, a suo dire a differenza di Grozio, aveva identificato il
diritto delle genti con il diritto naturale, 322 e in adesione alla tesi proclamata

319 Cfr. sopra n. 44.


320 Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, p. 220.
321 Cfr. sopra § 8, n. 239–241.
322 Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, pp. 29–36. Il riferimento a
Pufendorf, De iure naturae et gentium (n. 272), lib. 2, cap. 3 § 23 era lo
stesso già citato dal Wheaton e cfr. sopra testo corrispondente a n. 272. Il
sistema di Wolf, ispirato dal Leibniz, avrebbe seguito una via intermedia tra
quello di Grozio e quello di Pufendorf. Pur considerando il diritto delle genti

Claudia Storti 135


dal Mackintosh «nel suo celebre discorso sullo studio del diritto naturale e
delle genti», 323 il Casanova sostiene che il diritto internazionale è «il com-
plesso delle verità suggerite dalla ragione intorno alla condotta che le Nazioni
devono tenere nei loro rapporti reciproci, in merito agli atti che esse devono
compiere, o dai quali devono astenersi»: «sicurezza, libertà e proprietà»
costituiscono i diritti della Nazione, così come per il singolo individuo, ed
hanno una contropartita nel dovere delle altre Nazioni di non impedirne
l’esercizio. In adesione al Bentham, e analogamente al Mancini, l’esercizio di
tali diritti e dei corrispondenti doveri deve essere contemperato con la
realizzazione della «massima somma di bene possibile per tutti in generale e
per ciascheduno in particolare». 324
Una tale impostazione consente al Casanova di negare validità ed efficacia
a qualsiasi modificazione dei principii, derivante sia dalla consuetudine, 325 sia

come parte del diritto naturale, ossia come diritto delle genti naturale, egli
teneva conto della impossibilità di assimilare completamente le nazioni, quali
persone morali, agli individui e quindi il diritto naturale al diritto delle genti. Il
Casanova rilevava altresì come il Pufendorf aggiungesse, inoltre che, come il
diritto civile costituisce una positivizzazione dei principi immutabili del diritto
naturale, così il diritto delle genti volontario costituiva un adattamento e
un’attenuazione del rigore del diritto naturale delle genti obbligatorio per
effetto del consenso presunto delle nazioni. A tale sistema avrebbero aderito
Vattel e Bynkershoek con taluni adattamenti. Mentre Bynkershoek riteneva che
i fondamenti del diritto delle genti fossero in primo luogo la ragione e in via
subordinata l’uso, Vattel, oltre a distinguere e a modificare il fondamento di
validità del diritto delle genti volontario, aveva introdotto la categoria del
diritto delle genti arbitrario o convenzionale e quella del diritto consuetudi-
nario. La ratio non l’autorità costituiva l’“anima” del Jus gentium. A tale
sistema avrebbero aderito molti autori tra i quali Wheaton, con il sostenere che
le nazioni civili concepiscono il diritto internazionale come l’insieme delle
regole di condotta «que la raison deduit comme étant conformes à la justice de
la société qui existe parmi les nations indépendantes en y admettant toutes les
définitions ou modifications qui peuvent être établies par l’usage et le consen-
tement général» e cfr. sopra testo corrispondente a n. 277–278.
323 Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, pp. 27–29 e cfr. sopra § 6.
324 Ibidem, p. 38.
325 Il fondamento consuetudinario non era sufficiente per trasformare in diritto usi
invalsi tra le genti, ma contrari alla ragione, come quelli di uccidere i prigionieri
di guerra o ridurli in schiavitù o, come tuttora accadeva in Europa, di catturare
le navi commerciali battenti bandiera nemica, impadronirsi delle merci e
catturare l’equipaggio, ovvero di sterminare le popolazioni civili. Ibidem.
rispettivamente pp. 40–42: «Si vedrà che scopo della guerra non è già il
distruggere, ma paralizzare le forze del nemico, quelle forze cioè che impiega
a combatterci; si vedrà che così in mare come in terra, sono soltanto gli uomini
e le cose destinate alla guerra, che devono subirne le conseguenze; si vedrà che
oltrepassata questa linea, non vi hanno più limiti alla devastazione ed alla

136 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


dal diritto convenzionale delle genti, e di esprimere il proprio disprezzo per le
dottrine della diplomazia, di sovente piene di «incoerenze» e di «contraddi-
zioni». 326 La diplomazia, come già sostenuto da Pellegrino Rossi, è una
scienza a parte, che sta al diritto internazionale «come sta l’applicazione al
principio». 327 Occorre, inoltre, seguire il Mackintosh e prendere le distanze
da tutte le teorie che da Grozio in poi, come già rilevato dal Bynkershoek,
erano state limitate alla sistemazione degli usi generalmente seguiti in Europa
(«de moribus apud plerasque gentes Europaeas receptis»). 328 Trattati e regole
contrastanti con i principi fondamentali di giustizia imposti dalle potenze
europee con la «forza» o con la «frode» potevano essere «lecitamente»
disattesi nel momento in cui «la nazione oppressa o tradita si trovi in grado
di farlo senza danno o pericolo». 329
Se scopo del diritto è l’ordine e l’ordine del diritto internazionale è la pace
fondata sulla fratellanza, 330 nello status quo costituito dall’instaurazione tra i

rapina, a talché ogni passo che si fa nella guerra allontana in luogo di


ravvicinarvi, e che la guerra facendosi piuttosto fra i governi che fra i popoli,
convien lasciare che quelli proseguano le loro relazioni commerciali, onde non
procurare coll’altrui la propria rovina».
326 Se il Martens fosse stato del tutto coerente al programma che si era prefisso di
«stabilire la teoria del diritto positivo delle genti» non sarebbe riuscito a fare
altro che una classificazione più o meno esatta dei trattati «senza principi
direttivi», in quanto, come aveva sostenuto Bynkershoek «ex solis pactis non
consulta ratione de jure gentium pronunciare periculosum est» (Ibidem, p. 40).
327 Ibidem, p. 39 e cfr. sopra testo corrispondente a n. 290 ss.
328 Ibidem, p. 35. Con riferimento al Bynkershoek (sopra n. 277), pp. 32–36 e a
Christian Wolf, Ius gentium metodo scientifico pertractatum, (del 1749),
Oxford: The Clarendon Press; London: H. Milford 1934, De rebus bellicis,
cap. 2 Ut bellum sit legitimum, indictionem belli non videri necessariam, § 4 in
fine dove il Wolf osservava anche che Grozio non aveva scritto sul diritto delle
genti universale, ma piuttosto sulle consuetudini (mores) prevalenti nei rap-
porti tra la maggior parte delle Gentes Europeae (pp. 164, col. B – 165 col. A).
Sul rapporto tra ratio e usus anche id., De foro legatorum tam in causa civili,
quam criminali, liber singularis (n. 278), cap. III Princeps in alterius Imperio
quo iure censeatur, quod ad forum competens § 3 pp. 125 col. B – 126 col. A:
«Quicquid autem & quam varie, et quam anxie de Jure Gentium disputetur, eo
sempre causa recidit, ut quod ratio dictavit Gentibus, quodquae illae rerum
saepe factarum collazione inter se observant, unicum jus sit eorum, qui alio
jure non reguntur. Si omnes homines homines sint, id est, ratione utamur, haud
fieri potest aliter, quin ratio iis quaedam suadeat & imperet, quae mutuo quasi
consenso serranda sunt, & quae deinde in usum conversa Gentes inter se
obligant, & sine quo Jure nec bellum, nec pax, nec foedera, nec legationes
intelliguntur».
329 Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, p. 39.
330 «L’ordine è il fine del diritto; e fra le nazioni l’ordine sta nella pace. La
conservazione della pace è dunque lo scopo precipuo, per non dire unico, del

Claudia Storti 137


popoli di «vincoli artificiali e caduchi», come rileva il Casanova con parole
forti ed incisive, la pace costituirebbe per le nazioni «oppresse», e pertanto per
tutto l’ordine internazionale, una violazione del diritto di indipendenza e di
libertà riconosciuto come assoluto dal diritto internazionale: «Qual pace può
essere fra la Polonia, l’Italia, l’Ungheria e gli stranieri da cui sono tiranneg-
giate? Lotta vi sarà accanita lotta fino a che la causa della giustizia non
trionfi, e la natura non sia vendicata delle violenze che le fecero l’avarizia e
l’ambizione». 331
A tutte le Nazioni deve essere riconosciuta sia la libertà esterna, rilevante
sul piano dei rapporti internazionali, sia quella interna di scegliersi la propria
costituzione e, sotto questo profilo, già Kant aveva previsto che il requisito
fondamentale per un progetto di pace duratura consiste nell’assetto «costitu-
zionale» del regime di ogni Stato. 332 Non diversamente, il Casanova osserva
che per il conseguimento della libertà internazionale è imprescindibile, ove
manchi, la realizzazione di un governo rappresentativo: «nei governi rap-
presentativi la libertà della discussione e della stampa illumina l’opinione,
dissipa le false prevenzioni e, mostrando dove siano i veri interessi della
nazione, non permette ch’ella si slanci in una via pericolosa e incerta». 333
Il ricorso a mezzi eversivi per realizzare tale fine, che è condizione di
giustizia, non costituisce un attentato ai principii del diritto internzionale. Da
questo punto di vista il Casanova ripete quanto il Rossi, cui la successiva
scuola italiana del diritto internazionale offrirà un importante riconoscimen-
to, 334 aveva espresso in maniera molto efficace: «On ne peut pas exiger, avec
justice, d’un peuple qu’il supporte un mauvais gouvernement, un gouver-
nement tyrannique». Al fine di realizzare tale esigenza gli Stati «vicini»
avrebbero dovuto rinunciare al loro egoismo e tollerare benevolmente anche
i fastidi che le guerre di liberazione avrebbero potuto provocare, quantomeno
temporaneamente, ai loro uomini d’affari o al loro benessere. 335 Non diversa

diritto internazionale. A conseguirla i governi rivolsero i loro atti, i filosofi le


loro meditazioni». Ibidem, p. 43.
331 La fratellanza si fonda sul rispetto delle nazionalità e sulla «libertà» delle
nazioni e non può sussistere «finché intere razze (= nazioni) saranno da altre
conculcate e oppresse». Scopo del diritto internazionale non è quello di
«formare tra i popoli vincoli artificiali e caduchi», bensì quello di «rassodare»
i vincoli «che la Provvidenza» (di vichiana memoria) «ha stabiliti». Ibidem,
p. 61.
332 Ibidem, pp. 60–61 e cfr. in proposito anche Brusa, Introduzione (n. 30), pp.
CCCXXXII ss. e sopra testo corrispondente a n. 237.
333 Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, p. 30.
334 Pierantoni, Storia (n. 14), pp. 92–100.
335 Rossi, Droit des gens intervention (n. 14), p. 468 (e cfr. sopra n. 311) e
Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, pp. 118 ss: «una guerra civile

138 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


era stata l’opinione del Romagnosi allorché aveva auspicato la solidarietà
delle nazioni più forti nei riguardi di quelle più deboli. Come già Kant e poi
Romagnosi, il Casanova ritiene, dunque, che condizione per il conseguimento
della pace universale sia l’assetto costituzionale dei singoli Stati. Non qualsiasi
Nazione, ma solo la Nazione libera e ordinata democraticamente evita la
guerra: in questo sta anche il motivo e il fondamento dell’indissolubile
rapporto tra diritto interno e internazionale.
Il Casanova fa ricorso alla Scienza delle Costituzioni del Romagnosi,
pubblicato nel 1848, nelle lezioni di diritto costituzionale più ampiamente
che in quelle di diritto internazionale. 336 A guardar bene, le sue riflessioni in
tema di equilibrio e di intervento erano esposte in maniera più politica, o, se si
vuole, provocatoria, che scientifica, ma certamente al Casanova non poteva
essere sfuggito il punto in cui il giurista emiliano aveva parificato equilibrio a
pace e sostenuto che lo scopo della pace avrebbe potuto essere realizzato dagli
stati “preminenti” col dare sostegno alle nazionalità deboli che miravano
all’unificazione contro le potenze che ne conculcavano l’indipendenza. 337

non è quasi mai un avvenimento isolato; è un avvenimento, che d’ordinario si


dirama al di fuori, che tocca più o meno gli interessi altrui, che più o meno
compromette la tranquillità degli Stati, i quali per la loro posizione geografica,
o pei loro antecenti storici sono in relazione più o meno intima col paese da
quel flagello lacerato».
336 Casanova, Del diritto costituzionale (n. 30), pp. 10–12 a proposito della
definizione dei caratteri di «una Costituzione veramente liberale» e contro la
teoria del contratto sociale di Jean Jacques Rousseau, sulla funzione di
positivizzazione dei diritti individuali tramite la Costituzione pp. 15–16. Le
citazioni delle fonti nelle lezioni di diritto costituzionale sono forse più ampie
così ad esempio, nella lezione I, oltre a Romagnosi, Montesquieu sulla
separazione dei poteri (pp. 20–22), Lord Henry Peter Brougham and Vaux
(in tema di indipendenza e apoliticità della Magistratura (pp. 20–21), le cui
opere sul governo erano state diffusamente tradotte in Toscana tra gli anni
Trenta e Cinquanta (cfr. ad esempio Enrico Brougham, Principii del governo,
governo monarchico, Firenze: Batelli 1850; id., Filosofia politica, tradotta da
Paolo Emiliani-Giudici e Raffaele Busacca, Firenze: Batelli 1850–1853; id.,
Dell’aristocrazia e dei governi aristocratici, Firenze: A. Batelli 1851; id., Della
democrazia e della monarchia mista, tradotta da Paolo Emiliani-Giudici e
Raffaele Busacca, Firenze: A. Batelli 1853. Cfr. sul contributo della teoria
romagnosiana al diritto internazionale anche Pierantoni, Storia (n. 14),
pp. 101–104.
337 Si veda in part. Romagnosi, Scienza delle costituzioni (n. 18), P. II Teoria
costituzionale, Lib. I Teoria costituzionale riguardante la politica esterna, cap.
III, A quale potenza la natura chiami le genti e quali siano i mezzi per
conseguirla e conservarla, § 11 Principio fondamentale di politica esterna –
Equilibrio, pp. 394–395. Di fronte al caso che una potenza avesse dimostrato
intenzione di espandersi territorialmente con la conquista di Stati deboli, in
nome della teoria dell’equilibrio, il Romagnosi esortava le altre di pari potenza

Claudia Storti 139


Tali temi ebbero a loro volta, dieci anni più tardi, dopo l’armistizio di
Villafranca dell’11 luglio 1859 e dopo la pubblicazione delle Lezioni del
Casanova del 1858, un’eco nelle parole di Massimo d’Azeglio con il rivendi-
care – quantunque nel contesto del diritto cristiano europeo, come ha
sottolineato Gian Savino Pene Vidari 338 – il rispetto di «tutti i mezzi concessi
dal diritto internazionale» e l’affermazione del diritto dei popoli
all’autodeterminazione, che «il concorso dei governi europei», proprio nel
rispetto del diritto internazionale, non avrebbe potuto disconoscere. 339
In quale categoria del diritto internazionale così inteso si poteva dunque
collocare «la nazione oppressa o tradita»? A differenza del Mancini che nel
1851 pone la Nazione sullo stesso piano dello Stato quale soggetto del diritto
pubblico internazionale, il Casanova distingue lo Stato, quale vero e proprio
unico soggetto di diritto internazionale, dalla Nazione, quale ente privo di
soggettività giuridica (popolazione che parla «la stessa lingua» e abita «un
territorio determinato da limiti naturali»). Il giurista genovese suggerisce che il
vincolo che unisce una pluralità di Nazioni entro il medesimo Stato (come nel
caso dell’Austria) è il risultato del «più rivoltante dispotismo e la negazione

ad intervenire: «l’equilibrio dunque col quale decorate questa gara è una


dolorosa congiura contro l’indipendenza degli stati meno potenti, che voi fate
ingoiare perché una casa non sia da meno della sua rivale. Ma voi volete
provvedere alla pubblica sicurezza. Alla buon’ora; aiutate gli stati meno
potenti a porre insieme le membra divise della loro unità nazionale, collegatevi
per reprimere l’ambizione illimitata della casa insaziabile, e voi otterrete il
vostro intento colla lode di generoso amante della pace del mondo».
338 Gian Savino Pene Vidari, Ad un secolo e mezzo dall’edizione parigina del
“laico” Massimo d’Azeglio su la politique et le droit chrétien, in: Studi
Piemontesi XXXVIII, 2 (2009), pp. 335–350, in part. p. 342 e ora id., La
“brochure” parigina di Massimo d’Azeglio a difesa dell’unificazione italiana
(1859), in: Verso l’Unità italiana (n. 29), pp. 105–151. È sintomatico che il
«laico» d’Azeglio – come ha rilevato Gian Savino Pene Vidari – avesse fatto
proprio il riferimento alle radici cristiane del diritto europeo, ma comprensi-
bile, se si considera, che l’elemento cristiano era stato e continuava ad essere
considerato negli scritti europei e statunitensi sul ius gentium e sul diritto
internazionale.
339 Cfr. da ultimo la vivace ricostruzione dell’annessione al Regno di Sardegna
delle Romagna attraverso la corrispondenza tra Massimo d’Azeglio e Eugène
Rendu (Aurelio Cernigliaro, La politica e il diritto cristiano: un nodo
spinoso della questione italiana, in: Quaderni del Dipartimento di filosofia dei
Diritti dell’Uomo e della Libertà di Religione 9 (2004), pp. 77–108, in part.
pp. 84–85 e 91 ora in id., Radici. Rileggendo la politica e il diritto cristiano di
Massimo D’Azeglio (rist. anast. Parigi, 1859), (Quaderni di Europa popolare),
Catanzaro: Rubbettino 2009.

140 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


assoluta dei più sacri diritti, che naturalmente competono ai popoli» 340 e
sostiene che, nell’ambito delle categorie giuridiche, lo Stato è caratterizzato da
due elementi fondamentali l’autonomia (quanto ad origine ed esistenza) e
l’identità. 341 L’instaurazione del governo nello Stato, ossia la sovranità dello
Stato così costituito, è «indipendente da qualunque azione straniera» e la sua
sovranità esterna o internazionale, il suo essere ed agire come persona morale,
è indipendente dalla forma di governo e continua a sussistere anche qualora il
popolo insorga, legittimamente o illegittimamente, contro il governo o
quando cada nell’anarchia. 342 La sovranità dello Stato nasce al momento
della sua fondazione oppure quando la società, il popolo che lo costituisce «si
libera in modo legittimo dalla dipendenza in cui era». Da questo punto di
vista, le unioni sono in molti casi «bastarde combinazioni degli Stati», nate
per mantenere il cosiddetto equilibrio europeo 343 e su questo punto segue
Pellegrino Rossi nella sua feroce critica a Wheaton. 344
Il giurista sembra quasi voler incorrere in una sorta di lapsus nella
definizione di persona morale che costituisce l’esordio al capitolo dei diritti
spettanti alle Nazioni: «Una Nazione, uno Stato è, come abbiamo veduto, una
persona morale capace di diritti». 345 In realtà in questo e nei successivi
capitoli dedicati ai diritti assoluti, in più punti – in parte sulla scorta di
Pellegrino Rossi, in parte autonomamente – il Casanova continua a ripetere il
suo concetto di fondo: i diritti di conservazione e indipendenza della Nazione,
come sopra definita, sono imprescrittibili e, quantunque temporaneamente
conculcati, possono rivivere nella loro pienezza nel momento in cui il «voto
nazionale», l’autodeterminazione, si manifesti compiutamente e si realizzi con
le forze interne o anche grazie all’intervento, in questo solo caso legittimo, di
altre Nazioni. La negazione del valore di fonti del diritto internazionale alla
consuetudine o ai trattati fanno il resto. Non dimentichiamo come egli neghi
valore a qualsiasi di questi elementi nel momento che esso collide con i
principi fondamentali del diritto internazionale, tra i quali rientra appunto
quello dell’indipendenza e della conservazione della persona morale sia esso
Stato o Nazione.

340 Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, p. 39; pp. 66–67. Sull’unione
reale e disuguale degli Stati che formano l’Impero austriaco cfr. anche pp. 76–
77.
341 Ibidem, p. 69.
342 Tanto che, come già il Klüber, egli considera inefficace ai fini dell’esistenza di
uno stato il «riconoscimento», ibidem, p. 71.
343 Ibidem, pp. 71 ss
344 Ibidem, p. 79.
345 Ibidem (1858), p. 81.

Claudia Storti 141


Si potrebbero sintetizzare queste parole dicendo che, secondo il metodo
seguito dal Casanova, di inserire la teoria della Nazione entro gli schemi del
diritto scientifico, la Nazione è bensì dotata dei diritti imprescrittibili di libertà
ed indipendenza, ma questi non le consentono di trasformarsi da Stato, per
così dire, in potenza, in vero e proprio Stato politico e soggetto di diritto
internazionale, fino a che, nel gioco fisiologico dei rapporti internazionali, la
Nazione non esprime la volontà di esistere: il «voto» è per lui l’elemento
fondamentale dell’esistenza della Nazione, secondo i termini utilizzati dal
Rossi. 346
E’ ben noto, inoltre, come, nella prelezione del 22 gennaio 1851, la chiave
del pensiero di Mancini consistesse, invece, nel considerare la Nazione in se
stessa come vero soggetto del diritto internazionale. La scienza del diritto
internazionale rientra in quella dell’«universal diritto umano», retto dalla
legge morale e da quella dell’utilità, e consiste nella «coesistenza delle nazio-
nalità secondo la legge del diritto». 347
La nazionalità come la famiglia è l’elemento fondamentale della «costitu-
zione naturale e necessaria della umanità». 348 La conservazione e lo sviluppo
della nazionalità, definita come «società naturale di uomini, da unità di
territorio, di origine, di costumi e di lingua conformati a comunanza di vita e
di coscienza sociale» non è solo un diritto, ma anche un dovere per i suoi
membri. 349
Le prerogative della nazionalità sono la libertà, che è piena fino a che la
nazionalità non attenti alla libertà delle altre e che implica il diritto di
conservazione di una «indipendente autonomia verso le Nazioni straniere»
che, come aveva già sostenuto il Romagnosi si esplica in due forme: nella
costituzione fisica, quanto al territorio nazionale, e in quella morale attinente
alla sua costituzione, indicata anche con i temini di autonomia esterna. 350

346 Cfr. sopra testo corrispondente a n. 308.


347 Pasquale Stanislao Mancini, Diritto internazionale. Prelezioni con un
Saggio su Machiavelli di P. S. Mancini, Napoli: Marghieri 1873 (rist. an.
Vaduz: Topos Verlag 1978), pp. 1–64 e Della nazionalità come fondamento
del diritto delle genti, ristampa riveduta e corretta della prima edizione a cura
di Erik Jaime, Torino: Giappichelli 2000 (dal quale si cita) pp. 38–39 e 63–64.
348 Ibidem, pp. 38–45.
349 Ibidem, p. 47.
350 Ibidem, pp. 48–49 e cfr. anche Romagnosi, Scienza delle costituzioni (n. 18),
Scienza, teoria speciale, lib. I, cap. 3, § 23. Sulle lezioni napoletane del
Mancini Storti Storchi, Ricerche (n. 48), pp. 306–308. Aggiungeva il
Mancini che lo Stato multietnico, che garantisce eguaglianza a nazioni costrette
ad un’unione forzata, «non è un corpo politico, ma un mostro incapace di
vita» (p. 50) e si può ben comprendere la reazione dell’Impero alla notizia di
queste sue espressioni.

142 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


La nazionalità e non lo Stato, diversamente da quanto fino a quel momento
sostenuto, è il soggetto del diritto delle genti e su questo punto si sviluppa la
polemica del Mancini contro «il mito» dei pubblicisti: «giusto è per essi
soltanto ciò che si vuole in alto, o tra le autorità reggitrici degli stati si
consente, i popoli non possono volere né sono capaci di diritto; sono servo
gregge, materia da contrattare o da cedere come il campo o il giumento». 351
Porre alla base della scienza del diritto internazionale la Nazionalità serve al
Mancini per combattere le tendenze di costoro: «Riforma feconda di salutari
effetti sarà già questa di trasportare il fondamento e le origini della scienza
dall’apice della piramide sociale alla base, dal governo costituito al popolo
governato, dallo Stato alla Nazionalità». 352 Come nel diritto interno dei vari
Stati già si era avviato un movimento per l’abbattimento dei regimi dispotici,
così nel diritto delle genti si sarebbe dovuto dare vita ad un’azione contro il
dispotismo degli Stati più potenti. 353 Affermare che la nazionalità era sog-
getto di diritto comportava assegnare a tutte le nazionalità, indistintamente,
«uguale inviolabilità e protezione di tutte». 354

12. Stato e Nazione nella didattica sul diritto internazionale


del Risorgimento
Giungiamo così alla conclusione di questo lungo excursus. Il Casanova ricorre
al diritto naturale nello stesso modo in cui frequentemente nella storia vi
avevano fatto ricorso i giuristi nei momenti di profonda crisi della politica e
del potere, quale ancora di salvezza per un ritorno ai valori fondamentali del
diritto. Il sistema in gioco è il più arduo per il giurista. E’ quello dei rapporti
tra gli Stati, soggetti di diritto che si sentivano al di sopra di ogni regola
giuridica. Non è un caso che egli vi abbia insistito sia nel corso di diritto
costituzionale che in quello di diritto internazionale.
In questo contesto, la riaffermazione dei diritti naturali, che costituiscono
sia il fondamento dei rapporti tra individui sia quello dei rapporti tra Stati, è
destinata ad irrobustire e a “moralizzare” la natura delle relazioni inter-
nazionali. Tale riaffermazione deve, innanzitutto, realizzare un diritto uni-
forme che si ponga come barriera contro il pragmatismo, per non dire contro
il cinismo, delle regole e delle “variabili” proposte nei loro trattati dagli
ambasciatori e dai diplomatici, ma deve anche “salvare” il Risorgimento e

351 Mancini, Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti (n. 346),
p. 50.
352 Ibidem, p. 52.
353 Ibidem, p. 53.
354 Ibidem, p. 62.

Claudia Storti 143


offrire i fondamenti giuridici alla rinascita in senso nazionale del popolo
italiano come di tutti i popoli europei. L’impostazione e lo schema tradizio-
nale delle opere sul jus gentium – una disciplina, come aveva preteso il Gentili,
caratterizzata da una rudis simplicitas 355 – offre il destro ad una tale
operazione, come appare dalle riflessioni che il Casanova espone in merito
alla scelta di un proprio sistema tra quelli fino a quel momento elaborati dagli
scrittori di jus gentium. La scienza di Casanova consiste nell’affermazione dei
diritti fondamentali degli aggregati politici statali che, collegati tra loro e
declinati per via deduttiva, avrebbero contribuito, con la moralizzazione
dell’attività dei governi, alla costruzione di un ordine internazionale più
giusto per effetto del riconoscimento dei diritti delle nazionalità.
Tutto questo si deve realizzare per il Casanova in un’epoca che egli sente,
come noi diremmo, di globalizzazione: «le distanze svaniscono o si accorcia-
no, non solo tra i diversi regni, ma fra un continente e l’altro». 356 La
sensazione di un imminente e più intenso confronto a livello mondiale
accentua la necessità di mettere a punto un sistema universale ed astratto,
scientificamente testato e che non possa prestarsi a manipolazioni interessate.
C’è un punto, però, che merita ulteriore attenzione e che è utile per
contestualizzare il diverso carattere impresso alle lezioni per i loro studenti
dai due Italiani, Casanova e Mancini, in quell’anno accademico 1851, dopo la
delusione della prima guerra d’indipendenza, mentre i grandi Stati dell’-
Europa erano usciti indenni dai rischi di uno sconvolgimento dell’equilibrio
e non sembravano nutrire alcun interesse per l’Italia che, da Nazione, avrebbe
voluto trasformarsi in Stato unitario e indipendente. Il diritto imprescrittibile,
seppur latente, di una Nazione, per il Casanova, avrebbe potuto diventare
effettivo soltanto se concretamente esercitato tramite l’«autodeterminazione».
Nella teoria del Mancini, era sufficiente la «coscienza nazionale» che confer-
iva ad un popolo il diritto di essere membro a tutti gli effetti, quale vero e
proprio Stato, della comunità internazionale. E’ ben vero che egli considerava
anche l’aspetto del “dovere” della nazionalità, ma nel discorso complessivo,
questo assumeva un ruolo secondario.
Sotto questo profilo, potremmo, allora, contrapporre il “romanticismo”
del Casanova, al realismo del Mancini. La tempra dei docenti è differente e
differente è il messaggio ch’essi intendono trasmettere ai loro studenti. Da un
lato, l’incitamento dell’educatore alla consapevolezza e all’azione; dall’altro, il
discorso di un personaggio che conosceva da vicino anche i problemi della
politica interna ed internazionale – se non altro per la partecipazione alla

355 Alberico Gentili, Il diritto di guerra (n. 8), Lib. II, cap. XIII Quand’è che una
tregua può dirsi violata?, p. 282 [310] = De iure belli, p. 182.
356 Così Casanova, Del diritto internazionale (n. 9), I, p. 29.

144 Il crocevia del diritto internazionale nella prima metà dell’Ottocento


rivoluzione del 1848 e per il clamore che aveva accompagnato l’istituzione
della cattedra che ricopriva –, che sapeva di essere osservato ed ascoltato
anche fuori dall’aula. L’istanza è la medesima, il metodo per conseguirla,
profondamente differente. Da un lato, è la lotta di popolo che deve imporre la
libertà della nazionalità, dall’altro, la necessità che i Governi accettino di
considerare la comunità internazionale come costituita non più da Stati, bensì
da Nazionalità e di prendere atto del fatto che, laddove i due elementi non
coincidono, è il secondo che deve prevalere.
L’autorevolezza conseguita dal Mancini nei vent’anni successivi può
giustificare, in un contesto internazionale del tutto differente, l’accusa rivol-
tagli dal Brusa nell’ampio commento all’opera del Casanova. Solo la tratta-
zione del docente genovese sul tema dell’equilibrio avrebbe corrisposto a
criteri razionali e scientifici, diversamente da quella provvidenziale ed eversiva
del Mancini. 357

Claudia Storti

357 Brusa, Introduzione (n. 30), pp. CCCXLI–CCCLIII.

Claudia Storti 145

Potrebbero piacerti anche