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CAPITOLO VII

LA RINASCITA DELLA SCUOLA AUSTRIACA

7.1. La crisi del paradigma neoclassico

Nel periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale ed il 1975 si
realizzò nella scienza economica il trionfo della “sintesi neoclassico-keynesiana” e del
formalismo matematico dell’analisi dell’equilibrio. In effetti, durante questo periodo
tale genere di approccio analitico si converte nel principale strumento della disciplina
economica, sebbene si debba constatare che fra gli economisti esistono due grandi
correnti, le quali fanno un diverso uso della nozione di equilibrio.
La prima di esse è rappresentata da Paul Anthony Samuelson il quale, in
seguito alla pubblicazione di Fondamenti dell’analisi economica (SAMUELSON, 1947),
diviene con Hicks un pioniere dell’elaborazione della sintesi neoclassico-keynesiana.
Samuelson abbraccia esplicitamente la teoria di Lange e Lerner sulla possibilità del
socialismo di mercato (SAMUELSON, 1947: 217 e 232) e, accettando la loro posizione,
elude la sfida posta dal teorema di Mises sull’impossibilità del socialismo. Samuelson
si pone come obiettivo esplicito la ricostruzione della scienza economica utilizzando il
linguaggio matematico, cosa che lo porta ad effettuare molteplici supposizioni
semplificatrici, che escludono dai suoi modelli la maggior parte della ricchezza e
complessità dei processi reali di mercato. In questo modo, lentamente, lo strumento
dell’analisi (formalismo matematico) si confonde con il fine e la chiarezza sintattica
viene ottenuta a discapito del contenuto semantico delle differenti analisi economiche,
giungendo perfino all’estremo di negare status scientifico alle teorie più realiste o
all’economia letteraria (BOETTKE, 1997: 11-64).
I teorici di questo primo gruppo, fra i quali Kenneth Arrow, Gerard Debreu,
Frank Hahn e, più di recente, Joseph Stiglitz, accettano il modello di equilibrio
competitivo in termini normativi come l’ideale al quale deve approssimarsi
l’economia, in maniera tale che, ogni qual volta si verifichi un’incongruenza tra la
realtà e l’equilibrio in concorrenza perfetta, essi pensano di aver individuato un
“fallimento del mercato”, che giustificherebbe prima facie l’intervento dello Stato al fine
di spingere la realtà verso l’ideale rappresentato dal modello di equilibrio generale.
Di fronte a questo gruppo, si pone, sempre all’interno della corrente dominante,
un secondo gruppo di economisti formato dai teorici dell’equilibrio che sostengono
però l’economia di mercato. Questo insieme di economisti si concentra principalmente
attorno alla Scuola di Chicago ed ha fra i suoi principali rappresentanti autori quali
Friedman, George Stigler, Robert Lucas e Gary Becker, secondo i quali il punto di vista
economico sarebbe costituito, esclusivamente, dal modello di equilibrio, dal principio
della massimizzazione e dal presupposto di costanza.

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Gli economisti di questo secondo gruppo, pur essendo teorici dell’equilibrio,
difendono l’economia di mercato di fronte alla teoria dei “fallimenti del mercato”
sostenuta dal primo gruppo. Essi affermano che il modello di equilibrio descrive la
realtà in modo molto approssimativo, come quando spiegano, seguendo la Scuola
della Public Choice, che in ogni caso gli errori presenti nel settore pubblico sarebbero
superiori a quelli identificabili nel settore privato.
I teorici della Scuola di Chicago credono così di restare immuni dall’attacco dei
teorici dei “fallimenti del mercato” e sono convinti di poter dimostrare, attraverso la
propria analisi, che non è necessario l’intervento dello Stato nell’economia. Secondo
loro, se la realtà fosse simile all’equilibrio competitivo, il mercato reale sarebbe
efficiente nel senso paretiano e non sarebbe necessario alcun intervento; specialmente
se, come invece avviene, l’azione combinata di politici, elettori e burocrati non fosse
esente da gravi errori.
Secondo la concezione dinamica del mercato elaborata dalla Scuola Austriaca
sono criticabili entrambe le posizioni.
In relazione ai modelli elaborati dai teorici della Scuola di Chicago, gli Austriaci
mettono in evidenza che nel loro caso l’intero lavoro è svolto da alcune supposizioni
di partenza: equilibrio, massimizzazione e costanza. Gli Austriaci osservano che prima
di poter concludere che la realtà è molto vicina al modello di equilibrio, i teorici della
Scuola di Chicago dovrebbero elaborare una teoria sul processo reale di mercato in
grado di spiegare (ammesso che ciò accada effettivamente nella realtà) come e perché
esso tenda all’equilibrio. Pensando che la teoria dell’equilibrio spieghi molto da vicino
la realtà, i teorici di Chicago peccano così di utopismo e lasciano molti lati scoperti alla
critica ideologica dei loro oppositori appartenenti al primo gruppo, in qualche modo
un po’ più realisti.
Anche i teorici Neoclassici dei “fallimenti del mercato” commettono, dal punto
di vista della Scuola Austriaca, gravi errori. In effetti, costoro non considerano gli
effetti dinamici di coordinazione che, stimolati dalla funzione imprenditoriale, sono
presenti in ogni mercato reale. Pensano perciò che sia in qualche modo possibile
avvicinarsi all’ideale dell’equilibrio generale attraverso l’intervento dello Stato, come
se coloro che dirigono la pianificazione disponessero di informazioni che, in realtà,
non potranno mai possedere. Secondo gli Austriaci, i teorici dei “fallimenti del
mercato” non sono degli utopisti bensì, esattamente all’opposto, degli inguaribili
pessimisti che considerano il mondo molto peggiore di quanto in realtà non sia. Infatti,
concentrandosi sull’analisi dell’equilibrio e facendone il punto di riferimento, essi non
considerano il reale processo di coordinazione esistente nel mercato, e non si rendono
neppure conto che il disequilibrio tanto criticato, più che un’imperfezione od errore
del mercato, rappresenta la caratteristica più naturale del mondo reale e, in ogni caso,
che il processo reale di mercato è preferibile ad ogni altra alternativa umanamente
raggiungibile.
Prescindendo per il momento dall’analisi della Public Choice, i principali
problemi teorici identificati dagli economisti austriaci in queste tesi sono: a) il non
tener conto che le misure di intervento, preconizzate per avvicinare il mondo reale al
modello di equilibrio, possano interessare molto negativamente, come di fatto avviene,

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il processo imprenditoriale di coordinamento che si ha nel mondo reale, b) il
presupporre che il responsabile dell’intervento pubblico possa giungere a disporre di
un’informazione di gran lunga superiore rispetto a quella che teoricamente è possibile
ottenere.
I teorici della Scuola Austriaca si propongono perciò di superare entrambe le
impostazioni dell’equilibrio (quella della Scuola di Chicago, così come quella dei
sostenitori degli “fallimenti del mercato”), riportando l’attenzione della ricerca
scientifica sul processo dinamico di coordinazione imprenditoriale che,
eventualmente, potrebbe condurre ad un equilibrio, non raggiungibile nella vita reale.
In questo modo il centro focale della ricerca passerebbe dal modello dell’equilibrio
all’analisi dinamica costituita dallo studio dei processi di mercato, evitando così le
gravi carenze presenti in entrambe le correnti della scuola Neoclassica.
Due esempi, uno nell’ambito di quella che i Neoclassici chiamerebbero
“microeconomia” e l’altro nel contesto della “macroeconomia”, possono aiutare a
chiarire la proposta degli economisti Austriaci.
Il primo esempio si riferisce al moderno sviluppo della teoria dell’informazione
che, nella versione della Scuola di Chicago, parte dal lavoro iniziale di Stigler su
L’economia dell’informazione (STIGLER, 1961). Stigler ed i sostenitori concepiscono
l’informazione in modo oggettivo, vale a dire come una merce che si compra e si
vende nel mercato in termini di costi e benefici. Pur riconoscendo che esiste
l’ignoranza, tuttavia essi ritengono che la quantità di quest’ultima che è presente nel
mondo reale rappresenti il suo livello ‘ottimo’ e, pertanto, che la ricerca di nuova
informazione, considerata oggettivamente, si ferma solamente quando il suo costo
marginale supera il suo ingresso marginale.
I teorici dei “fallimenti del mercato”, capeggiati da S. Grossman e Stiglitz,
sviluppano un’analisi economica sull’informazione ben diversa. Per essi, il mondo
reale si trova in un equilibrio inefficiente all’interno del quale evidenziano il seguente
‘errore’: siccome gli agenti economici pensano che i prezzi trasmettano informazione
in modo efficiente, si produce un effetto detto dell’”utente gratuito” o, se si preferisce,
del free rider, grazie al quale gli agenti economici non si preoccupano di acquisire
personalmente l’informazione addizionale di cui hanno bisogno poiché questa è
costosa. La conclusione è per questi teorici ovvia: il mercato tende a produrre un
volume di informazione insufficiente, che giustificherebbe il controllo dello Stato, a
patto che i suoi benefici superino i costi di controllo derivati da tale intervento
(GROSSMAN e STIGLITZ, 1980).
Come si è avuto modo di mostrare, secondo la Scuola Austriaca il problema
principale di entrambe le impostazioni nasce dal considerare l’informazione un dato
oggettivo, come se essa fosse ‘data’ in un qualche luogo determinato (sebbene spesso
non si sappia dove). Gli Austriaci, a differenza di entrambe le correnti della Scuola
Neoclassica, considerano che l’informazione o la conoscenza sia sempre un qualcosa di
soggettivo, la quale non può essere ‘data’, ma deve venire costantemente creata o
generata dagli imprenditori nel momento in cui si rendono conto di una opportunità
di guadagno, vale a dire dell’esistenza, nella costellazione costantemente cangiante dei
prezzi di mercato, di disequilibri o scoordinamenti che sono passati inosservati. Ciò fa

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sì che non sia possibile considerare l’informazione imprenditoriale in termini di costi e
benefici, perché non è possibile conoscere il suo valore fin tanto che non la si conosce
da un punto di vista imprenditoriale. Conseguentemente, se è impossibile compiere
una valutazione massimizzatrice in termini di costi e benefici, l’intera analisi
sull’informazione della Scuola di Chicago è destinata a crollare proprio dalle sue
stesse fondamenta.
In secondo luogo, se si impedisce o si ostacola il libero esercizio della funzione
imprenditoriale, non possiamo pensare che l’informazione che si genera nel mercato si
“autoriproduca”; di conseguenza, non esiste uno standard che permetta di confrontare
se l’informazione reale che crea ed utilizza il mercato sia o no inferiore al supposto
volume ‘ottimo’ di informazione. In questo caso è possibile applicare direttamente
l’analisi sull’impossibilità teorica del socialismo sviluppata dagli Austriaci, nel senso
che l’organo di controllo non potrà mai giungere a superare la capacità creativa ed
imprenditoriale degli agenti economici protagonisti dei processi di mercato. Come si è
visto, già Juan de Mariana aveva indicato che non è credibile in nessun caso che il
cieco possa guidare coloro che vedono (sebbene questi vedano con determinate
‘imperfezioni’ o, magari, siano guerci).
Il secondo esempio riguarda le differenti ipotesi teoriche sul mercato del lavoro.
Come è noto, i teorici della Scuola di Chicago della “nuova macroeconomia classica”
hanno attaccato frontalmente l’irrazionalità implicita nell’ipotesi keynesiana riferita al
carattere dei salari, che suppone siano nominalmente rigidi al ribasso. Secondo la
Scuola di Chicago l’ignoranza esistente nel mercato è ‘ottima’ per definizione. Vale a
dire che se una persona è disoccupata significa che preferisce continuare a cercare un
lavoro migliore, piuttosto che accettare quello che le viene offerto. Da ciò si trae la
conclusione che non può esistere alcun tipo di disoccupazione involontaria in un
mercato reale. In questa prospettiva, i cicli economici che danneggiano l’occupazione
sono dovuti alla successione di cambiamenti non anticipati nell’offerta monetaria che
impedisce agli agenti di distinguere chiaramente tra le variazioni di prezzi relativi che
possiedono una causa reale soggiacente e le variazioni del livello generale dei prezzi
causate dall’inflazione (LUCAS, 1977); oppure, più semplicemente, all’improvvisa
apparizione di shocks esterni di offerta o di tipo reale (KYDLAND e PRESCOTT, 1982).
I nuovi keynesiani (SHAPIRO e STIGLITZ, 1984; SALOP, 1979), hanno sviluppato
distinti modelli di equilibrio con disoccupazione che risultano dall’attività
massimizzatrice degli agenti che operano in un contesto in cui si dà la cosiddetta
“ipotesi del salario di efficienza”. Secondo quest’ipotesi, i salari non sono determinati
dalla produttività, ma è questa ad essere determinata dai salari. Vale a dire che gli
imprenditori, per non demotivare i loro dipendenti, mantengono salari di equilibrio
troppo alti che non sono capaci di ‘svuotare’ il mercato del lavoro. Entrambi gli
approcci sono altamente criticabili dal punto di vista della concezione dinamica del
mercato sviluppata dalla Scuola Austriaca. Infatti, considerare, come fanno i teorici
della Scuola di Chicago, che ogni disoccupazione sia ‘volontaria’ è un’ipotesi
totalmente irreale, poiché dà per scontato che in ogni momento si sia già prodotto il
processo reale di coordinazione in cui consiste il mercato e che si sia già raggiunto lo
stadio finale di riposo descritto dal modello di equilibrio. Tuttavia, poiché il mercato

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reale si trova in una situazione di continuo disequilibrio e perfino in assenza di
restrizioni istituzionali (leggi sul salario minimo, interventi sindacali, etc.), è assai
probabile che numerosi lavoratori –i quali sarebbero ben lieti di accettare un impiego
presso alcuni imprenditori, rimangano disoccupati e non giungano mai ad incontrarsi
o, se anche arrivassero a conoscersi– perderebbero l’opportunità, vantaggiosa per
entrambi, di concludere un contratto di lavoro, semplicemente per mancanza di
sufficiente perspicacia imprenditoriale.
Dall’altro lato, riferendoci ora ai teorici “dell’ipotesi del salario di efficienza”, il
ritenere che in assenza di restrizioni legali o sindacali le situazioni di disoccupazione
involontaria si mantengano indefinitamente in base al “salario di efficienza”, si scontra
frontalmente con il desiderio dei dipendenti e dei datori di lavoro di ottenere benefici
evitando perdite. In effetti, se chiedono un salario troppo elevato e non trovano
occupazione i lavoratori tenderanno a diminuire le loro pretese; e se, in qualità di
imprenditori, determinati agenti economici pagano in eccesso i proprî lavoratori per
mantenerli soddisfatti e rendendosi conto solo successivamente che avrebbero potuto
stipulare contratti con talenti simili o migliori a salari inferiori, sicuramente
decideranno di cambiare strategia, o saranno costretti a farlo se vorranno sopravvivere
nel mercato. Quanto detto può già bastare, anche senza dover necessariamente
menzionare il fatto che i neokeynesiani sorvolano completamente sui grandi effetti
negativi sull’occupazione che produce l’intervento statale, e su quel processo dinamico
che è il mercato del lavoro.
Secondo la Scuola Austriaca, il ciclo economico non è né un fenomeno
pienamente esterno, come sosterrebbero i teorici di Chicago (prodotto da cambiamenti
improvvisi, shock reali, etc.), né totalmente endogeno, come credono invece i
keynesiani (risultato di rigidità nominali o reali, o dell’ipotesi del salario di efficienza,
etc.). Per gli Austriaci, come già sappiamo, il ciclo economico è il risultato di certe
istituzioni monetarie e creditizie (gli istituti di credito con “riserva frazionaria”
orchestrati da una banca centrale) le quali, sebbene adesso si considerano tipiche del
mercato, non sono sorte dalla sua evoluzione naturale, bensì sono state imposte
coattivamente dall’esterno ed agiscono generando gravi disequilibri nel processo di
coordinazione intertemporale del mercato stesso (HUERTA DE SOTO, 1998).
Possiamo pertanto concludere che la concezione dinamica del mercato
sviluppata dai teorici della Scuola Austriaca elimina le imperfezioni e modera le
conclusioni estreme alle quali si giunge come risultato delle tesi sviluppate dalle due
correnti dell’equilibrio (quella di Chicago e quella dei neokeynesiani). Essa aggiunge
così una dose di realismo all’analisi economica ed evita i gravi errori teorici e di
politica economica che si annidano in entrambe le correnti del pensiero neoclassico.
Non c’è dunque da stupirsi se la scienza economica dei nostri giorni, dominata
dal formalismo matematico dei teorici dell’equilibrio di entrambe le impostazioni, stia
attraversando una profonda crisi. Questa si deve, essenzialmente, alle seguenti
ragioni: I) la predominante preoccupazione dei teorici verso gli stati di equilibrio che
non hanno niente a che fare con la realtà e che, però, sono gli unici a poter essere
analizzati utilizzando metodi matematici; II) il totale oblio o, se si vuole, lo studio da
una prospettiva errata del ruolo giocato dai processi dinamici di mercato e dalla

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concorrenza nella vita reale; III) l’insufficiente attenzione prestata al ruolo che
svolgono nel mercato l’informazione soggettiva, la conoscenza ed i processi di
apprendimento; IV) l’uso indiscriminato degli aggregati macroeconomici e la scarsa
attenzione verso lo studio della coordinazione tra i piani degli agenti individuali che
partecipano nel mercato.
Tutte queste ragioni spiegano l’incapacità di gran parte dell’attuale scienza
economica di comprendere i problemi più importanti della vita reale del nostro tempo,
nonché la conseguente situazione di crisi ed il crescente discredito in cui si trova oggi
tale disciplina. I motivi menzionati possiedono tutti una causa comune: la mancanza
di realismo nei presupposti e l’intenzione di applicare una metodologia propria delle
scienze naturali ad un ambito che le è totalmente estraneo, ossia il campo della
prassiologia o studio dell’azione umana. Proprio l’attuale situazione di crisi spiega
l’importante rinascita che, dal 1974, ha avuto la Scuola Austriaca, la quale è stata in
grado di presentare un paradigma alternativo, assai più realistico, coerente e proficuo,
per la ricostruzione della scienza economica.

7.2. Rothbard, Kirzner e la rinascita della Scuola Austriaca

L’assegnazione del premio Nobel per l’Economia a Hayek nel 1974 ed il


progressivo discredito della teoria macroeconomica di Keynes e delle ricette
interventiste, che si resero evidenti in seguito alla recessione inflazionistica degli anni
settanta, diede un rinnovato impulso internazionale allo sviluppo del paradigma
scientifico della Scuola Austriaca (Kirzner, 1987: 148-150). In tale rinascita giocarono
un ruolo centrale due dei migliori allievi di Mises negli Stati Uniti: Murray Newton
Rothbard ed Israel M. Kirzner.
Rothbard nacque a New York nel 1926 da una famiglia di emigranti ebrei di
origine polacca e conseguì il dottorato presso la Columbia University di New York
aiutato dal suo vicino di casa, il famoso economista Arthur Burns. Per una casualità
partecipò al seminario tenuto da Mises all’Università di New York, diventando subito
uno dei suoi più giovani, brillanti e promettenti discepoli. Rothbard divenne in seguito
professore di economia presso il Politecnico di New York e poi, fino alla sua
improvvisa morte avvenuta il 7 gennaio del 1995, professore emerito di economia
presso l’Università del Nevada a Las Vegas. E’ stato uno dei pensatori più coerenti,
poliedrici e tenaci della Scuola Austriaca ed il teorico della rifondazione filosofica del
liberalismo economico su una base giusnaturalistica. Ha lasciato oltre venti libri e
centinaia di articoli, fra i quali si distinguono importanti opere di storia economica,
come America’s Great Depression (ROTHBARD, 1975), e prestigiosi lavori di teoria
economica fra i quali i suoi trattati intitolati Man, Economy, and State (ROTHBARD, 1993)
e Power & Market (ROTHBARD, 1977). Di recente, con il titolo The Logic of Action
(ROTHBARD, 1997: voll. I e II), sono stati pubblicati due volumi che raccolgono i suoi
principali saggi economici, nonché i due volumi della sua monumentale opera sulla
storia del pensiero economico An Austrian Perspective on the History of Economic Thought
(ROTHBARD, 1995).

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Israel M. Kirzner nacque in Inghilterra nel 1930 e, dopo varie vicissitudini
familiari, finì per studiare direzione d’impresa presso l’Università di New York.
Anch’egli casualmente (poiché gli restavano alcuni crediti da completare per
terminare gli studi), scelse di assistere al seminario di Mises al quale partecipò
assiduamente. Kirzner si rese così conto che la sua vocazione era l’insegnamento e in
seguito fu nominato professore di economia all’Università di New York, un incarico
che ha lasciato solo da qualche anno. Kirzner si è specializzato nello sviluppo della
concezione dinamica ed imprenditoriale e nello studio delle sue conseguenze
coordinatrici all’interno del mercato. È autore di importanti volumi, tra i quali si
distinguono Competition & Enterpreneurship (KIRZNER, 1973), Perception, Opportunity,
and Profit (KIRZNER, 1979) e Discovery and the Capitalist Process (KIRZNER, 1985). Kirzner
si è inoltre occupato delle implicazioni nel campo dell’etica sociale della concezione
dinamica dell’imprenditorialità in un libro dal titolo Discovery, Capitalism, and
Distributive Justice (KIRZNER, 1989). Sempre a lui, inoltre, si deve una grande quantità
di articoli sulla teoria economica austriaca in generale e sulla funzione imprenditoriale
in particolare, nei quali ha elaborato una chiara e suggestiva visione dei processi di
mercato incentivati dall’imprenditorialità.
È possibile, inoltre, attribuire la rinascita della Scuola Austriaca ad un nutrito
gruppo di giovani teorici di diverse università degli Stati Uniti ed europee. Tra gli
atenei americani si distinguono l’Università di New York (con Mario J. Rizzo ed Israel
M. Kirzner), la George Mason University (con Peter J. Boettke, Donald Lavoie e Karen
I. Vaughn), la Auburn University (dove svolgono la loro attività i professori Roger W.
Garrison e Joseph T. Salerno) nonché l’università del Nevada (nella quale insegna il
professor Hans-Hermann Hoppe), si devono inoltre ricordare, tra gli altri, Jörg Guido
Hülsman, Gerald P. O’Driscoll, Lawrence H. White e George A. Selgin. In Europa si
distinguono i professori Stephen Littlechild e Normann P. Barry, dell’Università di
Buckingham; i professori William J. Keizer e Gerrit Meijer in Olanda; Dario Antiseri,
Raimondo Cubeddu e Lorenzo Infantino in Italia; Pascal Salin e Jacques Garello in
Francia; José Manuel Moreira, dell’Università di Oporto in Portogallo. In Spagna, si sta
rapidamente consolidando un crescente gruppo di docenti e ricercatori interessati alla
Scuola Austriaca (fra i quali spiccano i nomi dei professori Rubio de Urquía, José Juan
Franch, Ángel Rodríguez, Oscar Vara, Javier Aranzadi del Cerro, etc.).
Negli ultimi venticinque anni si sono moltiplicate le pubblicazioni di libri e
monografie degli esponenti della Scuola Austriaca; inoltre, da diverso tempo esistono
due riviste scientifiche specializzate, nelle quali vengono pubblicati i risultati delle
ricerche: “The Quarterly Journal of Austrian Economics”, pubblicata trimestralmente
da Transaction Publishers negli Stati Uniti e la “Review of Austrian Economics”,
pubblicata semestralmente dalla Kluwer Academic Publishers in Olanda.
Infine, si svolgono regolarmente vari congressi ed incontri internazionali nei
quali si discutono i più importanti contributi contemporanei della moderna Scuola
Austriaca ed a cui sono soliti partecipare numerosi docenti e ricercatori provenienti da
tutto il mondo.

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7.3. L’attuale programma di ricerca della Scuola Austriaca

La caduta del muro di Berlino e la conseguente crisi del socialismo reale hanno
condizionato significativamente il paradigma neoclassico che ha dominato fino a
questo momento e, più in generale, la concezione della scienza economica. Vi è
un’evidente carenza nell’economia intesa come scienza se un fatto così rilevante non
fu previsto ed adeguatamente analizzato dal paradigma neoclassico. Fortunatamente,
nonostante le evidenti carenze per l’interpretazione della realtà sociale del modello
neoclassico egemone nella disciplina economica, nella necessaria ricostruzione della
scienza economica non occorre ripartire da zero poiché gran parte degli strumenti
analitici necessari sono già stati elaborati e perfezionati proprio grazie all’impegno dei
teorici della Scuola Austriaca. Pur non essendo possibile in questa sede enumerare le
aree della disciplina coinvolte nell’attuale situazione, né tanto meno sviluppare il
nuovo contenuto delle stesse, appare comunque possibile, senza aver la pretesa di una
trattazione esaustiva, indicarne alcune.
In primo luogo, occorre mettere in evidenza la teoria della coercizione istituzionale,
che nasce come una generalizzazione dell’analisi austriaca del socialismo. Si è già
avuto modo di osservare che ciascun atto imprenditoriale suppone la scoperta di
nuova informazione, la sua trasmissione nel mercato e l’organizzazione dei
comportamenti scoordinati degli esseri umani tramite una forma evolutiva e
spontanea che rende possibile la vita in società. È pertanto evidente che l’esercizio
sistematico ed istituzionale della coercizione, supposto dal socialismo e
dall’interventismo, non solo impedisce la creazione e la trasmissione
dell’informazione, ma –il che è ancora più grave– impedisce il processo spontaneo di
coordinazione dei comportamenti individuali disorganizzati e, conseguentemente, la
sopravvivenza coordinata del processo sociale. Si apre, così, un nuovo campo di
ricerca per analizzare i disequilibri a cui dà luogo l’interventismo economico in
ognuno dei settori nei quali lo stesso incide e che costituisce una delle aree più
promettenti per il futuro lavoro di ricerca degli economisti.
In secondo luogo, è necessario abbandonare la diffusa teoria funzionale della
determinazione dei prezzi e sostituirla con una teoria dei prezzi che sia in grado di
spiegare in che modo essi si formano dinamicamente, quale esito di un processo
sequenziale ed evolutivo mosso dalla forza della funzione imprenditoriale. In altre
parole, attraverso le azioni degli individui implicati e non per effetto dell’intersezione
di curve o funzioni più o meno misteriose ma, in ogni caso, carenti di entità reale dato
che l’informazione di cui ipoteticamente si ha bisogno per conoscere e disegnare le
stesse non esiste nemmeno nella mente degli attori implicati.
In terzo luogo, si deve prestare maggiore attenzione allo sviluppo della teoria
austriaca della concorrenza e del monopolio sostituendo la teoria statica dei mercati con
una teoria della concorrenza intesa come un processo dinamico di rivalità tipicamente
imprenditoriale. Ciò che rende irrilevanti ed inesistenti i problemi di monopolio così
come concepiti in modo tradizionale, e permetterebbe di concentrare la propria
attenzione sulle restrizioni istituzionali al libero esercizio dell’imprenditorialità in
qualunque area del mercato. Inoltre, un rilevante corollario di politica economica

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dell’analisi austriaca sulla concorrenza ed il monopolio è rappresentato dalla necessità
di riconsiderare tutta la politica e legislazione anti-trust poiché in gran parte
pregiudizievole e superflua (KIRZNER, 1998-1999: 67-77; ARMENTANO, 1972).
In quarto luogo, la teoria del capitale e dell’interesse si vede profondamente colpita
dalla concezione soggettivista della Scuola Austriaca. Si rende così necessario che essa
superi le attuali insufficienze della concezione macroeconomica che non prende in
considerazione i processi di coordinazione microeconomici presenti nella struttura
produttiva del mondo reale.
In quinto luogo, la teoria del denaro, del credito e dei mercati finanziari in un
imminente futuro rappresenterà la sfida teorica più importante per gli studiosi di
economia. Recuperato il “gap teorico” rappresentato dall’analisi del socialismo,
l’ambito meno conosciuto ed allo stesso tempo più importante è quello monetario,
dove tuttora dominano diffusamente la coercizione sistematica delle banche centrali,
gli errori metodologici e la confusione teorica. Le relazioni sociali nelle quali è
coinvolto il denaro sono le più astratte e difficili da comprendere. In conseguenza di
ciò, e poiché la conoscenza generata dalle stesse è la più vasta, complessa ed
inafferrabile, l’intervento in quest’area diviene il responsabile diretto della nascita
delle recessioni economiche (HUERTA DE SOTO, 1998).
La teoria della crescita e del sottosviluppo economico, basata sugli equilibri e sugli
aggregati macroeconomici, è stata elaborata trascurando l’unico e vero protagonista
del processo: l’essere umano e la sua perspicacia e creatività imprenditoriale. È
necessario ricostruire l’intera teoria della crescita e del sottosviluppo, eliminando
quegli elementi di giustificazione della coercizione istituzionale che l’hanno resa fino
ad ora dannosa e sterile, ed incentrandola sullo studio teorico dei processi di scoperta
delle opportunità di sviluppo inesplorate per mancanza dell’imprescindibile elemento
imprenditoriale, che rappresenta invece la chiave per uscire dal sottosviluppo.
Una simile affermazione vale anche riguardo all’economia del benessere (welfare
economics) la quale, basata sul concetto paretiano di efficienza, si rende inutile ed
irrilevante, dal momento che per un utilizzo operativo richiede un contorno statico e
di piena informazione che non si può mai avere nella vita reale. L’efficienza, pertanto,
più che dai criteri paretiani, dipende, e deve essere definita, in termini di capacità
della funzione imprenditoriale per coordinare in modo spontaneo i disaccordi nelle
situazioni di disequilibrio (CORDATO, 1992).
La teoria dei beni ‘pubblici’ è da sempre costruita sui parametri specificamente
statici del modello di equilibrio, presupponendo che le circostanze determinanti
l’”offerta congiunta” e la “non rivalità nel consumo” siano date e non cambino. Dal
punto di vista della teoria dinamica della funzione imprenditoriale, ogni apparente
situazione di bene pubblico crea un’opportunità chiara che può essere scoperta ed
eliminata attraverso la corrispondente creatività imprenditoriale in ambito giuridico
e/o tecnologico. Per questo, secondo la Scuola Austriaca, l’insieme di beni pubblici
tende a svuotarsi e, in tal modo, scompare uno degli alibi più frequentemente
utilizzati per giustificare l’intervento statale in molti ambiti sociali ed economici.
Inoltre, è anche opportuno riferirsi al programma di ricerca che i teorici
austriaci stanno sviluppando nel campo della scuola della Public Choice e dell’analisi

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economica del diritto e delle istituzioni; in tali campi di ricerca, attualmente, si sta
dibattendo nel tentativo di liberarsi dall’influenza del modello statico basato sulla
piena informazione, il quale ha dato vita, nel campo neoclassico, ad un’analisi pseudo-
scientifica di numerose norme, sulla base di alcuni presupposti metodologici identici a
quelli che a suo tempo vennero utilizzati per giustificare il socialismo (piena
informazione), e che trascurano l’analisi dinamica ed evolutiva dei processi sociali di
tipo spontaneo generati e stimolati dalla imprenditorialità.
Per i teorici della Scuola Austriaca risulta contraddittorio voler analizzare le
norme e le regole giuridiche basandosi su un paradigma che, come quello neoclassico,
presuppone l’esistenza costante di piena informazione (in termini certi o probabilistici)
riguardo ai benefici e costi derivati dall’acquisizione dell’informazione stessa. In
effetti, se tale informazione esistesse, le regole e le norme non sarebbero necessarie e
potrebbero essere sostituite più efficacemente da semplici comandi. Semmai, se c’è
qualcosa che spiega la nascita evolutiva del diritto è precisamente l’inestirpabile
ignoranza in cui l’individuo si trova costantemente immerso.
La teoria della popolazione ha ricevuto un significativo impulso grazie ai
contributi degli Austriaci ed in particolare di Hayek. Infatti, per gli Austriaci, l’uomo
non è un fattore omogeneo di produzione, ma è dotato di un’innata capacità creativa
di tipo imprenditoriale per cui la crescita della popolazione, lungi dal comportare un
freno o remora per lo sviluppo economico, è il motore e la condizione necessaria
perché lo stesso si realizzi. Si è inoltre dimostrato che lo sviluppo della civiltà implica
una sempre maggiore divisione orizzontale e verticale della conoscenza pratica
possibile solamente se accanto al suo sviluppo si produce un incremento del numero
degli individui in grado di sopportare il crescente volume d’informazione pratica
utilizzata a livello sociale (Huerta de Soto, 1992: 80-82). Queste idee sono state
sviluppate anche da altri studiosi influenzati dagli Austriaci, i quali, come Julian L.
Simon, le hanno applicate alla teoria della crescita demografica dei paesi del Terzo
Mondo ed all’analisi dei benefici effetti economici dell’immigrazione (SIMON, 1989 e
1994).
Infine, nell’ambito dell’analisi teorica della giustizia e dell’etica sociale, i contributi
degli economisti austriaci stanno ottenendo un grande riscontro. Si distinguono così
non soltanto l’analisi critica di Hayek al concetto di giustizia sociale racchiusa nel II
volume di Legge, legislazione e libertà, ma anche la recente opera di Kirzner Discovery,
Capitalism, and Distributive Justice, nella quale si dimostra che ogni individuo detiene il
diritto a godere dei risultati della propria creatività imprenditoriale; analisi che
perfeziona e completa quella precedentemente effettuata da Robert Nozick (NOZICK,
1974). Hans-Hermann Hoppe, uno dei più brillanti allievi di Rothbard, ha portato a
termine con successo una giustificazione aprioristica del diritto di proprietà e del
libero mercato, partendo dal criterio habermasiano secondo il quale l’argomentazione
presuppone l’esistenza ed il rispetto previo alla proprietà sul proprio corpo, da cui si
deduce in forma logica una teoria sul libero mercato e sul capitalismo (HOPPE, 1989),
complementare alla giustificazione giusnaturalistica della libertà che Rothbard espone
nel suo trattato The Ethics of Liberty (ROTHBARD, 1982).

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7.4. Conclusioni: per una valutazione comparativa del paradigma austriaco

La valutazione dei risultati comparativi dei differenti paradigmi è di solito


svolta dagli economisti neoclassici, coerentemente alla loro posizione metodologica, in
termini strettamente empirici e quantitativi. Così, ad esempio, essi considerano come
criterio determinante del ‘successo’ di un determinato punto di vista metodologico il
numero di studiosi che lo seguono. Inoltre, essi si riferiscono alla quantità di problemi
concreti apparentemente risolti in termini operativi da tale impostazione. Tuttavia,
l’argomento ‘democratico’ relativo al numero di scienziati che seguono un
determinato paradigma è poco convincente (YEAGER, 1997: 153, 165). Non si tratta
soltanto del fatto che nella storia del pensiero umano, compreso il settore delle scienze
naturali, in molte occasioni la maggioranza degli scienziati si sia sbagliata, ma anche
del fatto che nell’ambito dell’economia si presenta un problema ulteriore secondo il
quale l’evidenza empirica non è mai incontrovertibile, cosicché le dottrine erronee non
possono essere immediatamente identificate e smentite.
Quando le analisi teoriche che si basano sull’equilibrio ricevono un’apparente
conferma empirica, esse, nonostante la teoria economica che le sostiene sia erronea,
possono essere considerate valide per un lungo periodo di tempo e, anche se alla fine
l’errore o il vizio teorico diviene evidente, passa comunque inosservato alla
maggioranza.
Se si aggiunge che fino a questo momento è esistita (e presumibilmente
continuerà ad esistere) un’ingenua ma importante domanda da parte di molti agenti
sociali (in particolar modo autorità pubbliche, leader sociali e semplici cittadini) di
previsioni concrete e di analisi empiriche ed ‘operative’ in relazione a differenti misure
di politica economica e sociale che è possibile adottare, è anche comprensibile che tale
domanda (come le richieste di oroscopi e di predizioni astrologiche) tenda ad essere
soddisfatta nel mercato da un’offerta di ‘analisti’ e di ‘ingegneri sociali’ che diano ai
proprî clienti ciò che essi richiedono con un’apparenza di rispettabilità e di legittimità
scientifiche.
Tuttavia, come opportunamente ha sottolineato Mises, «lo sviluppo di una
professione economica è conseguenza dell’interventismo. L’economista di professione
è lo specialista per studiare le varie misure dell’interferenza governativa negli affari.
Egli è un esperto nel campo della legislazione economica che oggigiorno
invariabilmente tende ad impedire il funzionamento della libera economia di mercato»
(MISES, 1949: 837). Che il comportamento degli specialisti dell’intervento rappresenti,
in ultima istanza, il giudice definitivo di un paradigma che, come quello austriaco,
delegittima metodologicamente le misure di intervento che essi preconizzano, è
qualcosa che toglie il significato all’argomentazione ‘democratica’. Se inoltre si
riconosce che nell’economia, a differenza dell’ingegneria e delle scienze naturali, più
che passi in avanti si producono soprattutto importanti retrocessioni ed errori che
vengono identificati e corretti soltanto dopo molto tempo, non si può nemmeno
accettare come criterio definitivo del successo il numero di soluzioni operative

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apparentemente riuscite, poiché ciò che oggi appare ‘corretto’ in termini operativi,
domani può dimostrarsi basato su erronee formulazioni teoriche.
Di fronte ai criteri empirici di valutazione del successo è quindi più opportuno
avanzare un criterio qualitativo. Secondo questo criterio un paradigma avrà avuto tanto
più successo quanto più avrà dato luogo ad un maggior numero di sviluppi teorici
corretti, rilevanti per l’evoluzione dell’umanità. In questa prospettiva risulta evidente
che il punto di vista ‘austriaco’ supera chiaramente quello neoclassico. Gli Austriaci
sono stati capaci di spiegare il perché dell’impossibilità del socialismo ciò che, se fosse
stato preso in considerazione per tempo, avrebbe evitato enormi sofferenze al genere
umano. Inoltre, la storica caduta del socialismo reale ha messo in evidenza e
confermato la veridicità dell’analisi austriaca. Qualcosa di simile accadde con la
Grande Depressione del 1929, ed anche in altri ambiti nei quali gli Austriaci hanno
sviluppato un’analisi dinamica sugli effetti negativi dell’intervento dello Stato. Così,
ad esempio, in ambito monetario e creditizio, nella teoria dei cicli economici, nella
rielaborazione della teoria dinamica della concorrenza e del monopolio, nell’analisi
della teoria dell’interventismo, nell’articolazione dei nuovi criteri di efficienza
dinamica che sostituiscono i tradizionali criteri paretiani, nell’analisi critica del
concetto di ‘giustizia sociale’. Tutto ciò mettendo in luce una migliore e superiore
comprensione del mercato inteso come processo di interazione sociale mosso dalla
forza imprenditoriale.
Quelli appena elencati, sono esempi degli importanti successi qualitativi del
modello ‘austriaco’ che contrastano con le gravi carenze ed insufficienze (o
insuccessi?) dell’impostazione neoclassica, fra le quali risalta in special modo la sua
confessata incapacità di riconoscere e di prevedere per tempo l’impossibilità teorica e
le disastrose conseguenze del sistema economico socialista. Così Sherwin Rosen,
esponente della Scuola di Chicago, ha finito per riconoscere che «il collasso della
pianificazione centrale nel passato decennio fu una sorpresa per la maggior parte di
noi» (ROSEN, 1997: 139-152). Un altro economista che rimase sorpreso fu lo stesso
Ronald H. Coase, secondo il quale «niente di ciò che avevo letto o sapevo suggeriva
l’avvento del collasso del sistema socialista» (COASE, 1997: 45).
Alcuni economisti neoclassici, come Mark Blaug, hanno dichiarato la propria
“apostasia” del modello di equilibrio generale e del paradigma statico neoclassico-
walrasiano concludendo che «poco a poco e molto rassegnatamente mi sono reso
conto che i teorici della Scuola Austriaca avevano ragione e noi avevamo torto»
(BLAUG e DE MARCHI, 1991: 508). Di recente lo stesso Blaug è tornato a riferirsi al
modello neoclassico, in relazione alla sua applicazione per giustificare il sistema
socialista, come qualcosa di «così ingenuo dal punto di vista amministrativo da
suscitare ilarità. Solamente coloro che furono ubriacati dalla teoria dell’equilibrio
statico e della concorrenza perfetta poterono accettare una simile sciocchezza. Io fui
una di quelle persone che accettarono questa concezione quando ero studente negli
anni cinquanta ed ora non posso fare a meno di meravigliarmi per la mia mancanza di
acutezza» (BLAUG, 1993: 1571).
È quindi chiaro che, se si vuole superare la difficoltà determinata dalla costante
domanda sociale di previsioni concrete, di ricette di intervento e di studi empirici nella

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scienza economica che si accettano con grande facilità indipendentemente dalla loro
mancanza di validità, sarà necessario continuare ad estendere ed approfondire
l’impostazione soggettivista proposta dalla Scuola Austriaca. Perciò, il Methodenstreit
proseguirà fintanto che gli uomini continueranno a preferire le dottrine che sembrano
soddisfarli in ogni circostanza concreta rispetto a quelle teoricamente certe, e fino a
che continuerà a dominare quella tradizionale superbia, o ‘fatale arroganza
razionalista’, che conduce l’uomo a supporre di possedere, in ogni circostanza storica
concreta, un’informazione superiore rispetto a quella che può effettivamente
raggiungere (HAYEK, 1988).

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