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CAPITOLO VI

FRIEDRICH A. HAYEK E L’ORDINE DEL MERCATO

6.1. Introduzione

Friedrich August von Hayek è stato una delle figure intellettuali più
significative del XX secolo. Filosofo dai molteplici interessi, grande pensatore
liberale e premio Nobel per l’economia nel 1974, Hayek è autore di un’opera
vastissima che sta esercitando una grande influenza in ambito economico, filosofico
e politico.
Hayek nacque l’8 maggio del 1899 a Vienna in una famiglia di accademici e
di alti funzionari, nella quale la vita intellettuale ed universitaria aveva grande
importanza. Tuttavia il giovane Hayek non fu uno studente brillante: una grande e
disordinata curiosità intellettuale gli impedì di concentrarsi con dedizione su
discipline specifiche. Come lui stesso ebbe modo di confessare, se prendeva appunti
non poteva capire ciò che ascoltava e, incapace di ricordare le spiegazioni dei suoi
professori, era costretto a riprodurre ex novo e con grande sforzo i ragionamenti che
desiderava esporre. Nell’articolo Two Types of Mind (HAYEK, 1975: 60-67), Hayek
attribuì la vivacità intellettuale che lo caratterizzava proprio al suo processo
mentale, in apparenza disordinato ed intuitivo; cosa che lo distinse da altri teorici
della Scuola Austriaca, come Böhm-Bawerk o lo stesso Mises, i quali erano in grado
di esporre oralmente la propria materia con grande rigore e chiarezza.
Terminata la Prima Guerra mondiale e ritornato dal fronte (dove contrasse la
malaria ed apprese un po’ di italiano), Hayek entrò all’Università di Vienna, a quel
tempo un brulichio di correnti e di fermenti intellettuali senza pari nel mondo. Per
un certo periodo pensò di studiare psicologia; tuttavia, solo molto più tardi, nel
1952, Hayek pubblicò uno studio specifico, dal titolo The Sensory Order, in cui sono
esposti i fondamenti epistemologici della sua concezione (HAYEK, 1952b). Dopo
questa breve parentesi, rivolse il proprio interesse alle scienze giuridiche e sociali,
specializzandosi in economia politica sotto la direzione di von Wieser, il più
eclettico rappresentante della seconda generazione della Scuola Austriaca.
Come ha affermato lo stesso Hayek, in quegli anni le proprie idee politiche
non si differenziavano dal resto dei suoi compagni: egli era un socialista ‘fabiano’ il
quale, seguendo l’insegnamento del suo maestro Wieser, pensava che un benigno
intervento dello Stato fosse in grado di migliorare l’ordine sociale. Fu la lettura
dell’analisi critica di Socialism che nel 1922 convinse Hayek ad abbandonare i suoi
giovanili ideali socialisti. Da allora e grazie all’interessamento di Wieser, Hayek
iniziò una stretta collaborazione professionale con Mises, inizialmente nell’Ufficio
delle Riparazioni di guerra diretto dallo stesso Mises e, successivamente, come
direttore dell’Istituto Austriaco del Ciclo Economico, fondato anch’esso da Mises. In
breve tempo divenne così uno dei partecipanti più assidui e propositivi del
seminario misesiano.
Hayek deve al contatto con Mises il punto di partenza di quasi tutta la sua
opera di teoria economica. Grazie a lui, egli abbandonò gran parte
dell’impostazione datagli da Wieser e si ricollegò al filone ortodosso della
concezione austriaca dell’economia, difendendolo di fronte alle velleità di teorici
positivisti, quali Schumpeter, o di quelli più inclini al modello di equilibrio, come
Wieser. Le relazioni fra il maestro Mises e il discepolo Hayek furono tuttavia
particolari. Da una parte di grande ammirazione e rispetto. Dall’altra, in certi
periodi e circostanze, di distanza. Pur enfatizzando la sua indipendenza intellettuale
nei confronti di Mises, Hayek riconobbe tuttavia il debito nei confronti delle sue
idee.
Dal 1931, grazie anche ad un altro partecipante del seminario di Mises, Lionel
Robbins, Hayek insegnò fino al 1949 presso la London School of Economics,
divenendo così il principale esponente in Inghilterra della Scuola Austriaca. Hayek
si distinse sempre per avere un’ammirabile cortesia accademica con tutti i suoi
oppositori, ai quali contestò solamente gli errori intellettuali. Come accadde nel
corso delle polemiche con i teorici socialisti, con Keynes, con Knight e con gli
esponenti della Scuola di Chicago, ai quali si oppose non soltanto su questioni
metodologiche, ma anche su questioni di teoria monetaria, del capitale e dei cicli
(HAYEK, 1994: 126-29). Tuttavia, egli non ebbe mai una parola di lamento o di
rimprovero, nemmeno quando fu oggetto di ingiusti e furibondi attacchi da parte di
Keynes, o quando gli fu opposto il veto dai membri del dipartimento di Economia
di Chicago, la cui arroganza intellettuale impedì loro di accettare nelle proprie fila
un “teorico della Scuola Austriaca”. Hayek, pur senza ricevere alcuno stipendio
ufficiale, dato che la sua remunerazione era a carico di una fondazione privata, fu
così costretto a far parte del dipartimento di Pensiero Sociale e Morale della stessa
Università, dove si dedicò alla sua opera monumentale The Constitution of Liberty
(HAYEK, 1960).
Hayek non ebbe molta fortuna nelle vicende personali. Nel 1949 provocò un
grande dolore alla sua famiglia quando decise di divorziare per sposarsi con un
amore sfortunato della sua gioventù, una sua cugina la quale, per un malinteso, si
era sposata con un altro uomo e che, una volta vedova, egli rincontrò casualmente
durante una visita ai suoi parenti viennesi dopo la Seconda guerra mondiale. Tale
decisione ebbe per Hayek e per la sua famiglia ripercussioni negative. I suoi amici
inglesi, capeggiati da Robbins, lo emarginarono e pare anche che il dispiacere per il
divorzio causò la morte della sua prima moglie (sebbene questo sia sempre rimasto
un tema di cui Hayek ed i suoi più prossimi amici non vollero mai parlare). In ogni
caso, Hayek si riconciliò con Robbins solo molti anni dopo, in occasione del
matrimonio di suo figlio Laurence mentre, durante gli anni cinquanta e gran parte
degli anni sessanta, fu indotto ad un ‘volontario esilio’ negli Stati Uniti. In quegli
anni Hayek iniziò a soffrire di problemi di salute: inizialmente ebbe problemi legati
al metabolismo, che gli provocarono uno straordinario dimagrimento ed un
conseguente indebolimento; in seguito una progressiva sordità lo convertì in un
intellettuale chiuso in un suo mondo personale. Infine, costanti crisi di depressione
lo prostrarono e ne ridussero per lunghi periodi la produttività intellettuale. Nel
prologo di Law, Legislation and Liberty, infatti, Hayek dichiara che, in alcuni
momenti, arrivò addirittura a pensare che i problemi di salute gli avrebbero
impedito di terminare il proprio libro (HAYEK, 1973-79, I: 1-7). È difficile
comprendere fino a che punto le travagliate vicissitudini personali abbiano
rafforzato in Hayek la convinzione dell’importanza che i comportamenti morali di
tipo pattuito svolgono nel preservare la vita individuale e sociale dell’uomo;
tuttavia, dall’enfasi che egli concesse a tale tematica nelle proprie opere, si ricava
l’impressione che questo fosse, per esperienza diretta, un aspetto delle sue idee
particolarmente sentito.
I problemi di salute scomparvero quasi miracolosamente, quando Hayek
ricevette il premio Nobel per l’economia nel 1974, l’anno seguente alla morte di
Mises. Da allora percepì che stava uscendo dall’isolamento accademico ed
intellettuale ed iniziò una frenetica attività che lo condusse a viaggiare per tutto il
mondo e a pubblicare vari libri (l’ultimo fu The Fatal Conceit, pubblicato quando
aveva quasi novant’anni). L’attribuzione del premio Nobel nel 1974, può essere
considerata come la data di rinascita della moderna Scuola Austriaca.
Hayek volle sempre rimanere al margine dell’attività politica. Considerava
incompatibile il ruolo dell’intellettuale che doveva fare della ricerca scientifica il
riferimento della vita, con la figura del politico, sempre obbligato a sottomettersi al
volere dell’opinione pubblica per conseguire voti (HAYEK, 1991: 35ss.). Perciò egli
reputava che con il passare del tempo sarebbero stati molto più fecondi gli sforzi
indirizzati al dialogo fra gli intellettuali (progetto di cui è frutto la fondazione della
Mont Pélerin Society), o ad incidere sull’opinione pubblica (Hayek dissuase
Anthony Fisher dall’entrare in politica, convincendolo sulla maggiore utilità di
creare istituti, come l’Institut of Economic Affairs e in seguito l’Atlas Research
Foundation, per diffondere l’ideale liberale in tutto il mondo). È difficile pensare che
senza le iniziative strategiche di Hayek si sarebbe potuto produrre quel
cambiamento nell’opinione pubblica e nell’ambito intellettuale che portarono alla
caduta del muro di Berlino ed alla rivoluzione liberal-conservatrice che ebbe luogo
con Ronald W. Reagan negli Stati Uniti e con Margaret Thatcher in Inghilterra, e che
tanta influenza hanno avuto e continuano ad avere in tutto il mondo.
Hayek ebbe un particolare rapporto con la religione. Battezzato come
cattolico, fin da giovane abbandonò la pratica religiosa e divenne agnostico. Ma con
il passare degli anni, comprese sempre più l’importanza dalla religione nel regolare
l’osservanza delle norme pattuite su cui si basa la società e, in particolare,
l’importanza che i teologi spagnoli del Siglo de Oro ebbero per la moderna scienza
economica e sociale. Il mondo intellettuale rimase sorpreso quando, nel 1993, il
pensatore cattolico Michael Novak rese pubblica la lunga conversazione personale
che il papa Giovanni Paolo II ebbe con Hayek prima della morte di quest’ultimo
avvenuta nel 1992. Segni inequivocabili della presenza del pensiero di Hayek
possono ritrovarsi nell’Enciclica Centesimus annus e, in particolare, nei capitoli 31 e
32 (NOVAK, 1993a e 1993b). Non si saprà mai se Hayek, dichiaratosi agnostico, negli
ultimi momenti della sua vita abbia potuto compiere i passi necessari per
comprendere ed accettare quell’essere supremo «antropomorfico che superava, di
gran lunga, la sua capacità di comprensione». Ciò che possiamo affermare con
certezza è che Hayek comprese più di ogni altro i rischi di una tracotante
deificazione della ragione umana ed il ruolo chiave che la religione svolge per
evitarli, fino al punto che, come lui stesso afferma nella frase conclusiva del suo
ultimo libro, «da siffatta questione può dipendere la sopravvivenza della nostra
civiltà» (HAYEK, 1988: 226).
6.2. Le ricerche sul ciclo economico e il problema del tempo

Seguendo la linea teorica iniziata da Mises, ma introducendo una serie di


contributi personali di notevole importanza, Hayek dedicò i primi decenni della
propria carriera scientifica allo studio dei cicli economici. L’Accademia svedese
infatti motivò l’attribuzione del premio Nobel proprio per i suoi contributi sulla
teoria dei cicli apparsi negli anni trenta.
Quando Hayek giunse in Inghilterra nel 1931 disponeva di strumenti analitici
decisamente superiori rispetto a quelli dei colleghi inglesi in generale e a quelli
posseduti da Keynes in particolare. Hayek conosceva molto bene la teoria del
capitale di Böhm-Bawerk e capiva perfettamente perché il supposto “paradosso del
risparmio o frugalità” mancava di significato teorico. In effetti, in accordo con la
teoria di Böhm-Bawerk, ogni incremento di risparmio deprime il consumo e tende,
pertanto, a far diminuire il prezzo relativo dei beni di consumo. Ciò crea, da un lato,
il cosiddetto “effetto Ricardo”, consistente in una maggiore domanda di beni di
investimento che dà luogo ad un incremento dei salari reali determinando ceteris
paribus la diminuzione dei prezzi di consumo prodotta dal risparmio. Dall’altra
parte, ciò porta ad un aumento relativo dei benefici imprenditoriali delle tappe più
lontane del consumo i cui prodotti tendono ad acquisire valore in un contesto in cui
i tipi di interesse si riducono in conseguenza della maggiore abbondanza di
risparmio. Risultato combinato di questi effetti è un’allargamento della struttura
produttiva, che diventa maggiormente capital-intensiva grazie ai finanziamenti
determinati dalle risorse reali risparmiate in maggior quantità (HAYEK, 1995: 74ss.).
Il problema si pone, secondo Hayek, quando la manipolazione monetaria, in forma
di espansione creditizia prodotta dal sistema bancario senza la base di un risparmio
precedente, mette a disposizione degli imprenditori nuove risorse finanziarie da
dedicare all’investimento reale come se il risparmio della società fosse incrementato,
quando di fatto non vi è ragione che ciò sia accaduto. Si produce così un’espansione
degli investimenti, determinata dalla diminuzione artificiale nel tipo di interesse,
che non si potrà mantenere per un lungo periodo. Hayek considera rilevanti le
variazioni indotte dalla crescita monetaria sui prezzi relativi (in concreto sui prezzi
delle distinte tappe dei beni di capitale e i prezzi dei beni di consumo); un fenomeno
che tende ad essere trascurato ed ignorato dalla teoria quantitativa del denaro la
quale si concentra soltanto sugli effetti delle variazioni monetarie nei confronti del
livello generale dei prezzi.
Inoltre, Hayek si rese conto che durante gli anni venti la Riserva Federale
degli Stati Uniti aveva deliberatamente iniziato un’energica politica di espansione
creditizia tendente a neutralizzare gli effetti “deflazionistici” determinati in quegli
anni dall’aumento della produttività. Sebbene durante quel periodo non si sia
sperimentata una significativa crescita nel prezzo dei beni e servizi di consumo,
tuttavia, si alimentò una grande crescita monetaria ed un’importante bolla
finanziaria che, prima o poi, doveva esplodere mettendo in evidenza i gravi errori
di investimento commessi. In effetti, per Hayek, le politiche di stabilizzazione monetaria
in un contesto di diminuzione dei prezzi determinato da un aumento generale della
produttività sono condannate a produrre una grave mancanza di coordinamento
intertemporale tra le decisioni degli investitori ed i consumatori, trasformandosi prima o poi
in una recessione economica. Queste idee furono esposte da Hayek nel suo articolo dal
titolo Das intertemporale Gleichgewichtssystem der Preise und die Bewegungen des
“Geldwertes”, pubblicato nel 1928 (HAYEK, 1928). L’applicazione di tale analisi alla
realtà del momento, gli permise di predire la Grande Depressione iniziata
nell’ottobre del 1929, e che Hayek considerò sempre come risultato del processo di
artificiale espansione creditizia incrementato massiciamente dalla Federal Reserve
durante il decennio precedente (HUERTA DE SOTO, 1998: 334-340).
Successivamente, nel 1931, Hayek pubblicò il suo più importante libro sulla
teoria dei cicli, intitolato Prezzi e produzione: una spiegazione delle crisi delle economie
capitalistiche. In questo breve ma importantissimo libro, egli espose analiticamente il
modo in cui l’espansione creditizia, non appoggiata da un incremento precedente di
risparmio volontario, distorce la struttura produttiva rendendola artificialmente
troppo capital-intensiva e rendendo inesorabilmente evidenti gli errori commessi
attraverso una conseguente recessione.
Secondo Hayek, infatti, i cambiamenti monetari non sono mai neutrali e
coinvolgono sempre molto negativamente la struttura dei prezzi relativi. Quando si
crea una nuova quantità di denaro sotto forma di credito, questa entra a far parte
dell’economia da un punto molto concreto. Inizialmente essa viene utilizzata
acquistando determinati beni di capitale e servizi produttivi, e solo
successivamente, e lentamente, i suoi effetti si estendono al resto della struttura
produttiva. In questo modo i prezzi dei beni di capitale più lontani dalla tappa
finale del consumo, saranno interessati prima di altri (i prezzi dei beni più vicini al
consumo) e, di conseguenza, si modificherà l’assegnazione delle risorse lungo il
percorso della dinamica produttiva. In effetti, in seguito all’introduzione dei nuovi
mezzi fiduciari creati dal sistema bancario, numerosi imprenditori che avrebbero
avuto delle perdite finiscono invece per ottenere dei benefici, mentre molti
lavoratori che non avrebbero trovato lavoro, in determinati settori, lo trovano
facilmente proprio all’interno degli stessi.
Generalmente, il nuovo denaro giunge nel mercato attraverso una preventiva
riduzione artificiale dei tipi di interesse (al di sotto del loro livello ‘naturale’),
nell’ambito di una politica di chiara espansione creditizia e di guadagno facile. La
riduzione relativa del tipo di sconto e le maggiori agevolazioni creditizie tendono,
logicamente, ad incrementare le spese di investimento in relazione alle spese di
consumo, distorcendo così gli indicatori che guidano gli imprenditori e, in modo
particolare, il tasso di redditività relativo del capitale investito in ognuna delle
tappe o fasi in cui, secondo gli Austriaci, è divisa la struttura della produzione.
La riduzione dell’interesse rende così convenienti investimenti che prima non
lo erano. A sua volta, l’incremento relativo delle spese di investimento fa aumentare
il prezzo dei fattori di produzione, ciò che porta ad adottare metodi di produzione
più capital-intensivi e ad aumentare la richiesta di risorse naturali.
Simultaneamente, si riducono benefici relativi nelle industrie di beni di consumo, le
quali assistono ad un lento aumento dei costi senza che lo stesso accada per i prezzi.
Inizia così un travaso di fattori produttivi dalle industrie più prossime al consumo
verso i settori più intensivi in capitale. Ma, se si vuole raggiungere la nuova
struttura produttiva maggiormente capital-intensiva, tale travaso deve continuare
per un lungo periodo di tempo. Per Hayek è necessario mettere in conto che una
macchina, la cui utilità è determinata dalla produzione di altri beni di capitale
necessari per il suo uso, diventa inutile se, per mancanza di risorse, questi beni
complementari non arriveranno mai ad essere prodotti.
Tuttavia, prima o poi, la domanda di beni di consumo inizia ad aumentare in
seguito all’incremento delle rendite monetarie percepite dai proprietari dei fattori di
produzione, motivati a loro volta dalla nuova quantità di denaro introdotta nel
sistema economico dalla banca e che sta ormai giungendo ai proprietari dei fattori
produttivi. I consumatori non devono modificare la proporzione con cui
distribuivano i loro guadagni tra beni presenti e futuri; in questo modo, salvo
l’ipotetico caso in cui la totalità del nuovo denaro creato dal sistema bancario venga
risparmiato dagli agenti economici (fatto praticamente impossibile), tende a
prodursi un aumento generale nel prezzo relativo dei beni di consumo determinato
da: a) il naturale effetto dell’affluenza di nuove disponibilità monetarie al settore di
beni di consumo, la cui domanda risulta perciò incrementata e, b) perché il flusso
dell’offerta di beni di consumo tende logicamente a diminuire in modo temporale,
non solo perché si ritirano risorse da settori più vicini al consumo, ma anche perché
si dedica una gran parte di essi ad investimenti che matureranno e produrranno
risultati soltanto dopo molto tempo.
L’aumento dei prezzi relativi che si produce nuovamente nel settore dei beni
di consumo provoca così degli effetti totalmente opposti a quelli descritti e
posseduti inizialmente dall’espansione creditizia. I benefici delle industrie più
vicine al consumo iniziano ad elevarsi, mentre decadono in termini relativi quelli
corrispondenti ai settori di investimento. I beni di capitale che si iniziarono a
produrre in base ad una struttura produttiva rigidamente capitalista devono così
riadattarsi, se possibile, ad un’altra che lo è in maniera minore (e che pertanto è
maggiormente lavoro-intensiva, come è logico se si tiene presente che l’aumento dei
prezzi dei beni di consumo suppone sempre una riduzione dei salari reali).
Comincia in questo modo il trasferimento dei fattori produttivi dall’investimento al
consumo, con gravi perdite nei settori più tipicamente capitalisti (edilizia, industria
navale, industria ad alta tecnologia, informatica e telecomunicazioni, etc.),
vantaggiosi soltanto in presenza di un basso tasso di interesse, settori che, a loro
volta, finiscono per accorgersi di essersi sviluppati in modo eccessivo. Diventa
allora inevitabile l’inizio di una recessione economica per mancanza di risorse
sufficienti per completare cambiamenti troppo ambiziosi nella struttura produttiva
ed intrapresi per errore in seguito agli stessi finanziamenti eccessivamente facili che
avevano reso possibile l’espansione creditizia iniziata artificialmente dal sistema
bancario. Tale recessione si manifesta esteriormente attraverso un eccesso di
produzione nei settori di investimento ed una relativa scarsezza della stessa nei
settori più vicini al consumo.
Per Hayek le recessioni sono quindi crisi prodotte da un eccesso relativo di
domanda di beni di consumo, o se si preferisce, di carenza di risparmio non
sufficiente a completare gli investimenti più capital-intensivi intrapresi per errore.
La situazione a cui dà luogo l’espansione creditizia è per certi versi simile a quella
degli immaginari abitanti di un’isola perduta che, avendo intrapreso la costruzione
di un’enorme macchina in grado di soddisfare le necessità della popolazione,
avessero esaurito tutti i risparmi e i capitali prima di terminarla e non hanno altra
soluzione che quella di abbandonarne la costruzione, dedicando tutte le loro energie
alla ricerca di un sostentamento quotidiano, senza poter fare affidamento su alcun
tipo di capitale utile a tal fine.
Pertanto, l’esistenza di una “capacità oziosa” in molti processi produttivi
durante la recessione (ma specialmente in quelli più distanti dal consumo, ad
esempio le industrie edilizie, quelle di beni di capitale, telecomunicazioni ed
informatica) non prova in alcun modo, per Hayek, la presenza di un eccesso di
capitale o l’insufficienza del consumo. Al contrario, essa è un sintomo del fatto che
non è possibile utilizzare totalmente il capitale fisso esistente, perché la domanda
attuale di beni di consumo è tanto urgente da non consentire la produzione del
capitale circolante necessario per mettere in movimento e sfruttare tale “capacità
oziosa”.
Hayek conduce fino alle sue estreme conseguenze la teoria del capitale di
Böhm-Bawerk e l’analisi dei cicli di Mises, quando spiega in che modo
l’interventismo monetario produce un generale scoordinamento temporale tra le
decisioni degli agenti economici investitori e i consumatori. In questo modo egli
spiega anche che la recessione altro non è se non la tappa di un sano riequilibrio
economico che non deve essere evitata, bensì soltanto agevolata, ponendo termine
ad ogni ulteriore espansione creditizia o a fenomeni artificiali del consumo, e
lasciando che le forze del mercato lentamente ristabiliscano di nuovo una struttura
produttiva maggiormente in accordo con i desideri degli agenti economici che vi
partecipano (HUERTA DE SOTO, 1998: 213-272).
La teoria dei cicli economici venne completata da Hayek in Profitti, interesse
ed investimento, teorizzando l’esistenza di fattori di produzione disoccupati (HAYEK,
1939). Hayek elaborò e perfezionò queste analisi parallelamente alle polemiche sulla
teoria monetaria, del capitale e dei cicli con Keynes e con i teorici della Scuola di
Chicago.

6.3. Polemiche con Keynes e con la Scuola di Chicago

Non deve sorprendere che Hayek, fin dall’inizio, si sia opposto ai teorici di
tradizione neoclassica i quali, di fronte alla propria incapacità di applicare la teoria
dell’utilità marginale al denaro e alla loro mancanza di un’adeguata teoria del
capitale, si confrontavano con i problemi del momento attraverso un’ottica
esclusivamente macroeconomica.
In questo modo Hayek espresse il suo dissenso verso la teoria quantitativa
della moneta, sostenuta dagli economisti neoclassici in generale e dalla Scuola di
Chicago in particolare, la quale, «data la sua indole macroeconomica, si concentra
soltanto sul livello generale dei prezzi e soffre di un’incapacità sostanziale nello
scoprire gli effetti che sulla struttura relativa dei prezzi produce un’espansione dei
mezzi di pagamento disponibili. Essa non contempla, pertanto, le conseguenze più
gravi del processo inflazionistico: l’erroneo investimento di risorse e la generazione
di una corrispondente disoccupazione» (HAYEK, 1976b: 68-69).
Hayek riprese anche la polemica tra Böhm-Bawerk e Clark sul concetto di
capitale. Nell’opera dal titolo The Pure Theory of Capital(HAYEK, 1941), così come
nell’articolo intitolato The Mythology of Capital (HAYEK,1936: 199-228), egli criticò il
fondatore della Scuola di Chicago, Knight, il quale continuava a sostenere la validità
della concezione mitica del capitale come fondo omogeneo che si auto-riproduce
spontaneamente, ignorando la struttura del processo produttivo costituita da tappe
ed eliminando il ruolo dell’imprenditore quale stimolo costante per la creazione, il
coordinamento e il mantenimento delle stesse. Secondo Hayek, la concezione di
Knight è estremamente pericolosa; ossessionato dall’equilibrio, infatti, egli finisce
per sostenere le erronee teorie del “sottoconsumo” e, indirettamente, le prescrizioni
keynesiane per incrementare in modo artificiale l’effettiva domanda senza
considerare i gravi effetti distorcenti provocati sulla struttura microeconomica della
produzione sociale.
La polemica più importante fu comunque quella che Hayek ebbe con Keynes
durante gli anni trenta (HAYEK, 1995). Hayek iniziò la sua critica in due ampie
recensioni del libro di Keynes Trattato sulla moneta, apparso in Inghilterra quando
Hayek vi giunse agli inizi degli anni trenta. Keynes, da parte sua, contestò con un
furibondo attacco il libro di Hayek Prezzi e produzione, dando vita ad una polemica
tra i due nella quale si delinearono alcuni dei principali aspetti della teoria
monetaria e dei cicli e che oggi, placato l’impetuoso vento keynesiano, sarebbe
necessario riprendere là dove Keynes e Hayek la lasciarono alla fine degli anni
trenta. Hayek critica Keynes per la sua impostazione macroeconomica e per la
mancanza di un’adeguata teoria del capitale che concepisca la struttura produttiva
per tappe: come aveva spiegato Böhm-Bawerk. Inoltre, egli rimproverava a Keynes
di essere caduto nel grossolano mito del “sottoconsumo” e, in concreto, di non
comprendere che si può guadagnare denaro producendo un determinato bene
anche se ne decresce la domanda; ad esempio, quando si compiono degli
investimenti per diminuire i costi di produzione si acquisice una maggiore quantità
di beni di capitale e si genera una struttura produttiva più capital-intensiva nelle cui
tappe più lontane del consumo, sempre che si produca un aumento di risparmio, si
dà lavoro ai fattori di produzione che si liberano nelle tappe più vicine.
Inoltre, secondo Hayek, la ‘cura’ keynesiana per uscire dalla Grande
Depressione altro non è se non «pane per oggi e fame per domani». Effettivamente,
ogni incremento artificiale della domanda aggregata distorcerà gravemente la
struttura produttiva e potrà generare solamente un impiego precario il quale, alla
lunga, metterà in evidenza che si dedica ad attività non redditizie e che, pertanto,
genererà una disoccupazione ancora maggiore. Per Hayek le manipolazioni fiscali e
monetarie prescritte dai keynesiani e dai monetaristi generano gravi distorsioni nel
coordinamento intertemporale del mercato. Perciò egli è a favore di rigidi modelli
monetari e contro il nazionalismo monetario ed i tipi di cambio flessibili, difesi tanto
da Keynes quanto dai teorici della Scuola di Chicago. Così, in un’altro importante
libro dal titolo Monetary Nationalism and International Stability (HAYEK, 1937), egli
dimostra come i tipi di cambio flessibili inducano e facilitino gravi distorsioni reali
nella struttura produttiva, generando recessioni che non si sarebbero prodotte con
dei tipi di cambio fissi. In accordo con Hayek, i tipi di cambio flessibili rendono
difficile il ruolo coordinatore del mercato inducendo inutili distorsioni di origine
monetaria nel processo reale di assegnazione delle risorse.
Al fine di illustrare le grandi differenze tra l’impostazione austriaca di Hayek
e l’impostazione macroeconomica di keynesiani e monetaristi, si riassumono le
stesse nel seguente quadro sinottico.

Tabella 6.1
Due modi differenti di concepire l’economia
Scuola Austriaca Scuola Neoclassica
(monetaristi e keynesiani)
1. Il tempo svolge un ruolo essenziale. 1. Viene ignorata l’influenza del tempo.
2. Il “capitale” è concepito come un insieme 2. Il capitale è concepito come un fondo omogeneo che si
eterogeneo di beni di capitale che si consumano autoriproduce.
costantemente e che è necessario riprodurre.
3. Il processo produttivo è dinamico ed è 3. Si concepisce una struttura produttiva in equilibrio,
disgregato in molteplici tappe di tipo verticale. unidimensionale ed orizzontale (flusso circolare della rendita).
4. Il denaro danneggia il processo modificando 4. Il denaro danneggia il livello generale dei prezzi. Non si
la struttura dei prezzi relativi. considerano cambiamenti nei prezzi relativi.
5. Spiega i fenomeni macroeconomici in termini 5. Gli aggregati macroeconomici impediscono di analizzare le
microeconomici (variazioni nei prezzi relativi). realtà microeconomiche sottostanti.
6. Dispone di una teoria sulle cause istituzionali 6. Non hanno una vera teoria dei cicli. Le crisi sono
delle crisi economiche che spiega il loro carattere prodotte da cause esogene (psicologiche e/o errori di
ricorrente. politica monetaria).
7. Dispongono di una elaborata teoria del capitale. 7. Non possiedono una teoria del capitale.
8. Il risparmio svolge un ruolo primario e 8. Il risparmio non è importante. Il capitale si produce
determina un cambiamento longitudinale nella lateralmente (più dello stesso) e la funzione di produzione è
struttura produttiva e nel tipo di tecnologia che fissa ed è data dallo stato della tecnica.
si utilizzerà.
9. La domanda di beni di capitale varia 9. La domanda di beni di capitale varia nella stessa
inversamente alla domanda dei beni di consumo. direzione della domanda dei beni di consumo.
Ogni investimento esige un risparmio e,
pertanto, una diminuzione temporale del
consumo. 10. I costi di produzione sono oggettivi, reali e si
10. Si suppone che i costi di produzione siano considerano dati.
soggettivi e non siano dati. 11. Sono i costi storici di produzione a determinare i prezzi
11. Sono i prezzi di mercato a determinare i costi di mercato.
di produzione e non il contrario. 12. Il tipo di interesse tende ad essere determinato dalla
12. Il tipo di interesse viene considerato come un produttività od efficenza marginale del capitale ed è
prezzo di mercato determinato dalle valutazioni concepito come il tasso interno di ritorno che corrisponde
soggettive di “preferenza temporale”, che si alla corrente sperata di rendimento con il costo storico di
utilizza per scontare il valore attuale della produzione dei beni di capitale (che si considera dato ed
corrente futura di rendimenti a cui tende il invariabile). Si crede che a breve termine, il tipo di
prezzo di mercato di ogni bene di capitale. La interesse sia un fenomeno prevalentemente monetario.
manipolazione del tipo di interesse da parte
delle banche centrali e la banca con “riserva
frazionaria” generano cicli ricorrenti di
espansione (artificiale) e recessione.
6.4. Il dibattito con i socialisti e la critica dell’ingegneria sociale

Dal 1935, allorché pubblicò la raccolta di saggi sull’impossibilità logica del


socialismo dal titolo Collectivist Economic Planning (HAYEK, 1935), Hayek partecipò
assiduamente al fianco di Mises al dibattito sull’impossibilità del calcolo economico
socialista, attraverso una serie di saggi e volumi (HAYEK, 1997). Come sostiene nel
suo ultimo libro, The Fatal Conceit, il socialismo si fonda su un errore fatale di
orgoglio intellettuale o, se si preferisce, di arroganza scientifica. Nei suoi scritti
Hayek attribuisce un significato molto ampio al termine ‘socialismo’, includendovi
non soltanto il ‘socialismo reale’ (il sistema basato sulla proprietà pubblica dei
mezzi di produzione) ma, più in generale, ciascun progetto sistematico tendente ad
organizzare (in parte o totalmente), tramite misure coattive di ‘ingegneria sociale’,
ogni aspetto delle relazioni umane che costituiscono il mercato e la società. Così
inteso, il socialismo è per Hayek essenzialmente un errore intellettuale: è
logicamente impossibile che chi vuole organizzare la società possa generare ed
accentrare tutta l’informazione o la conoscenza di cui si ha bisogno per realizzare il
suo disegno di ‘migliorare’ volontariamente l’ordine sociale. In effetti, sempre
secondo Hayek, la società non è un sistema “organizzato razionalmente” da una
mente o da un gruppo di menti umane, bensì un ordine spontaneo: un processo
dinamico in costante evoluzione, che pur risultando dalla continua interazione di
milioni di esseri umani, non è mai stato né mai potrà essere progettato
coscientemente o deliberatamente da nessuno.
L’essenza del processo sociale così come è inteso da Hayek, è allora costituita
dall’informazione o dalla conoscenza di tipo strettamente personale, soggettivo,
pratico e disperso, che ciascun essere umano, in particolari circostanze di tempo e di
luogo, scopre e genera in ognuna delle azioni realizzate per raggiungere i suoi
obiettivi. Per poter scoprire e trasmettere imprenditorialmente l’enorme volume di
informazioni o conoscenze pratiche di cui ha bisogno lo sviluppo ed il
mantenimento della civiltà attuale, occorre quindi che l’uomo possa concepire
liberamente i fini e scoprire i mezzi necessari per conseguirli senza alcun tipo di
impedimento e specialmente senza essere costretto in maniera sistematica o
istituzionale.
È perciò evidente che il socialismo, indipendentemente dalla propria forma, è
per Hayek un errore intellettuale. Tutto ciò perché, da un lato, colui che tramite la
coercizione istituzionale pretende di ‘migliorare’ o di organizzare una determinata
area della vita sociale, non potrà mai disporre dell’enorme quantità di informazione
pratica e dispersa che si trova nella mente dei milioni di individui che dovrebbero
obbedire ai suoi ordini (e ciò per ragioni di capacità di comprensione, di volume,
ma soprattutto, per il carattere tacito, non-articolabile e dinamico del tipo di
conoscenza pratica rilevante per la vita sociale). Dall’altro lato, l’utilizzo sistematico
della coercizione e della violenza, su cui si basa l’essenza del socialismo, impedirà
all’uomo di perseguire liberamente i suoi fini e non permetterà che essi si
configurino come un incentivo per scoprire e generare l’informazione pratica
necessaria a rendere possibile lo sviluppo e il coordinamento della società.
Secondo Hayek –e per le stesse ragioni in base alle quali il socialismo è un
errore intellettuale ed un’impossibilità logica– le principali istituzioni della vita sociale
(morali, giuridiche, linguistiche ed economiche) non possono essere state create
deliberatamente da nessuno. Esse sono invece il risultato di un processo evolutivo
in cui milioni di esseri umani, generazione dopo generazione, hanno contribuito con
il loro piccolo “granello di sabbia” di esperienze, desideri, speranze, conoscenze,
etc.; dando luogo ad una serie di regole ripetitive di comportamento (istituzioni) che
sorgono da un processo di interazione sociale e lo rendono possibile. Queste regole
ripetitive di comportamento, o norme di condotta in senso materiale, costituiscono
un mondo intermedio fra l’istinto biologico, che condiziona tutti, ed il mondo esplicito
della ragione umana. Si tratta di un mondo intermedio perché, anche se dette norme
di condotta sono, senza alcun dubbio, il risultato dell’agire umano, tuttavia, esse
incorporano una tale quantità d’informazione, esperienze e conoscenze, che
oltrepassano di gran lunga ogni mente o ragione umana la quale è, pertanto,
incapace di creare o di progettare ex novo tale tipo di istituzioni.
Le norme di comportamento che rendono possibile la nascita della civiltà
appaiono inizialmente nell’ambito del processo evolutivo di gruppi sociali che
sviluppano il tipo di norme e di comportamenti proprî dello scambio commerciale
volontario e pacifico (successivamente integrato da quelle norme ed istituzioni
definite diritti di proprietà) e che finiscono per prevalere sui gruppi umani che
adottano una struttura primaria e tribale. I socialisti pertanto, secondo Hayek,
commettono un grave errore pensando che le emozioni ed attitudini proprie dei
piccoli gruppi primari (che si basano sui principî di solidarietà, altruismo e lealtà)
possano essere sufficienti per mantenere l’ordine estensivo di cooperazione sociale che
costituisce la società moderna. In effetti, i principî di solidarietà ed altruismo
possono venire utilizzati nei gruppi primari proprio perché in essi esiste una
conoscenza personale delle necessità e caratteristiche di ogni componente. Tuttavia,
cercare di estendere i principî di solidarietà e di altruismo proprî di
un’organizzazione tribale al più vasto ambito della cooperazione sociale, nel quale
interagiscono e cooperano milioni di individui che non si conoscono e non si
conosceranno mai, comporterebbe la scomparsa della civiltà, l’eliminazione fisica
della maggior parte del genere umano ed il regresso ad un’economia di sussistenza
di tipo tribale.
Di conseguenza, l’apporto originale di Hayek alle scienze sociali consiste
soprattutto nell’aver messo in evidenza che l’idea di Mises sull’impossibilità del
calcolo economico socialista altro non è se non un caso particolare del principio più
generale dell’impossibilità logica dell’ingegneria sociale o del “razionalismo
costruttivista o cartesiano”, basato sull’illusione che il potere della ragione umana
sia di gran lunga superiore a quello che realmente è. Si cade così nella fatale
arroganza ‘scientistica’, la quale consiste nel credere che non esistano limiti allo
sviluppo futuro delle applicazioni della tecnica od ‘ingegneria sociale’.
Hayek, che definisce ‘scientismo’ l’indebita applicazione del metodo della
fisica e delle scienze naturali alle scienze sociali, tra gli anni quaranta e gli inizi degli
anni cinquanta scrisse una serie di articoli che, nel 1952, confluirono in un libro
intitolato The Counter-revolution of Science (HAYEK, 1952a). In tale scritto Hayek
compie un’analisi critica e demolitrice tanto del razionalismo positivista che affonda
le sue radici in Comte e Saint-Simon, quanto del rigido utilitarismo di origine
benthamiana che presuppone un contesto in cui l’informazione sui benefici e sui
costi di ogni azione sia nota e renda possibile prendere decisioni ottimali.
Sfortunatamente, in quegli anni Milton Friedman pubblicò il volume Essays
in Positive Economics (FRIEDMAN, 1953), che ebbe un grande successo e diede un
nuovo impulso all’uso della metodologia positivista nella scienza economica.
Sebbene il libro di Hayek a grandi linee anticipasse, contestasse e criticasse i punti
principali dell’opera di Friedman, in seguito egli affermò che «una delle cose di cui
mi sono maggiormente pentito è di non avere criticato il trattato di Keynes (La
teoria generale), ma mi pento ugualmente di non aver criticato gli Essays in Positive
Economics di Friedman che, in un certo senso, è un libro altrettanto pericoloso»
(HAYEK, 1994: 144ss.). Forse tale affermazione può sorprendere coloro che
identificano Hayek con il liberalismo della Scuola di Chicago, senza rendersi conto
delle profondissime differenze metodologiche che esistono fra i teorici austriaci ed
gli esponenti della Scuola di Chicago. Lo stesso Hayek, in un’altra occasione, chiarì
in questo modo ciò che dal punto di vista della metodologia lo distingueva da
Friedman e dai neoclassici: «Friedman è un arci-positivista convinto che niente può
essere considerato scientifico se non è provato empiricamente. La mia tesi è che,
poiché noi conosciamo troppi dettagli empirici sull’economia, il nostro compito
consiste nel porre ordine a tale conoscenza empirica. Difficilmente esiste un settore
nel quale si necessiti ancora di nuova informazione empirica. La nostra maggiore
difficoltà e sfida consiste, infatti, nell’assimilare ciò che già sappiamo.
Dall’informazione statistica non possiamo acquisire nuova conoscenza, ma soltanto
ottenere informazioni specifiche sulle circostanze particolari del momento. Tuttavia,
da un punto di vista teorico, non credo che gli studi empirici ci permettano di
ottenere risultati utili. Il monetarismo di Friedman e il keynesianismo possiedono
più elementi in comune tra loro rispetto a quelli che io ho con ognuno di essi. La
Scuola di Chicago pensa essenzialmente in termini macroeconomici. Cerca di
analizzare in termini di aggregati e di medie statistiche realtà quali la quantità totale
di denaro, il livello generale dei prezzi, l’occupazione globale. Prendiamo ad
esempio la teoria quantitativa di Friedman. Ebbi già occasione di scrivere più di
quarant’anni fa che avevo delle obiezioni molto forti nei confronti della teoria
quantitativa perché la consideravo una grossolana approssimazione della realtà che
lascia al di fuori dell’analisi molte cose importanti. Mi sembra deplorevole che un
uomo così acuto come Milton Friedman non consideri la teoria come una semplice
approssimazione, ma creda, al contrario, che costituisca l’elemento teorico più
importante. Dunque, sono proprio gli aspetti metodologici quelli che, in ultima
istanza, maggiormente ci separano» (HAYEK, 1993: 129-130).
Bisogna infine ricordare che l’analisi critica di Hayek dell’economia
dell’equilibrio ebbe inizio con due articoli pubblicati tra gli anni trenta e quaranta,
intitolati rispettivamente Economia e conoscenza, del 1937, e L’uso della conoscenza nella
società, del 1945. In questi lavori Hayek riprende ed articola le conclusioni alle quali
era giunto nel dibattito con i teorici neoclassici socialisti, quando aveva osservato
che essi non erano in grado di comprendere l’impossibilità del socialismo perché i
modelli di equilibrio generale, sui quali si basavano, supponevano che tutta
l’informazione necessaria, relativa alle variabili e ai parametri delle equazioni
simultanee che lo costituivano, fosse già ‘data’. Di contro a tale tesi della teoria
economica dell’equilibrio, Hayek dimostra che nella vita reale l’informazione non è
mai data, al contrario, si scopre e si crea, passo dopo passo, da parte degli
imprenditori attraverso un processo dinamico che dovrebbe essere studiato dagli
economisti. In questo modo, Hayek abbandona il concetto neoclassico di
concorrenza perfetta e propone, seguendo in ciò la tradizione austriaca di origine
scolastica, un modello dinamico di concorrenza intesa come un processo di scoperta
di informazione; idea che sviluppa in Il significato della competizione, del 1946, e in La
competizione come processo di scoperta, del 1968 (HAYEK, 1948: 57-106; 1978a: 179-190;
1976a: 125-135).

6.5. Diritto, legislazione e libertà

A partire dal 1949, anno in cui lascia la London School of Economics per
trasferirsi all’Università di Chicago, nel programma di ricerca di Hayek si registra
un importante cambiamento. Da quella data in poi, infatti, egli si dedicherà
principalmente allo studio dei condizionamenti giuridici ed istituzionali della
società libera, ponendo così in secondo piano le sue ricerche di teoria economica.
Hayek smise di interessarsi alla discussione teorica allorché essa, negli anni
cinquanta e sessanta, si indirizzò sui concetti macroeconomici derivati dalla
“rivoluzione keynesiana”, e decise di aspettare che passasse la bufera scientista,
continuando nel frattempo il lavoro di ricerca sulla nascita e l’evoluzione delle
istituzioni inaugurata da Menger. Il risultato dello sforzo compiuto nei tre decenni
successivi fu la pubblicazione di due testi di fondamentale importanza: The
Constitution of Liberty e la trilogia Law, Legislation and Liberty (HAYEK, 1960; 1988).
Sarebbe impossibile esporre in questo libro i contributi di Hayek alla teoria
giuridica e politica, per i quali si rimanda allo studio di Paloma de la Nuez (DE LA
NUEZ, 1994). In questa sede si può soltanto sottolineare l’evidente concatenazione
logica fra i contributi di Hayek alla teoria economica, alla teoria del diritto e alla
teoria politica. Secondo Hayek, infatti, il socialismo, basandosi sull’aggressione
istituzionalizzata e sistematica contro l’attività umana mediante una serie di ordini o
di comandi coattivi, implica la scomparsa del concetto tradizionale di diritto inteso
come una serie di norme generali (ossia applicabili a tutti indistintamente) ed astratte
(dal momento che stabiliscono un ampio margine per l’azione individuale senza
prevedere alcun risultato concreto del processo sociale). In questo modo, le leggi in
senso materiale vengono sostituite da un ‘diritto’ spurio costituito da un
conglomerato di ordini, regolamenti e comandi di tipo amministrativo nei quali si
specifica quale dovrà essere il contenuto concreto del comportamento di ciascun
essere umano. Così, nella misura in cui l’interventismo economico si estende e si
sviluppa, le leggi in senso tradizionale cessano di agire come norme di riferimento
per il comportamento individuale ed il loro ruolo viene preso da ordini o comandi
coattivi emanati dall’organo direttivo (eletto o no democraticamente) denominato
da Hayek ‘legislazione’. In opposizione al concetto generico di ‘diritto’, la legge perde
così il suo ruolo e la sua funzione pratica e resta limitata a quegli ambiti, regolari od
irregolari, ai quali non si estende in maniera effettiva l’incidenza diretta del regime
interventista.
Dall’altro lato, come effetto secondario ma di grande importanza, gli agenti,
perdendo il punto di riferimento costituito dalla legge in senso materiale,
modificano la loro personalità, perdono l’abitudine ad adattarsi alle norme generali
di carattere astratto ed, anche se lentamente, assimilano ed osservano sempre meno
le norme tradizionali di condotta. Inoltre, visto che l’elusione delle direttive può
essere in molte occasioni un’esigenza imposta dalla stessa necessità di sopravvivere
ed in altre una manifestazione dell’esito della funzione imprenditoriale corrotta che
tende a generare il socialismo, la non osservanza della norma viene considerata da
gran parte della popolazione come una lodevole manifestazione dell’ingegno
umano che si deve ricercare ed incoraggiare, piuttosto che come la violazione di un
sistema di norme la quale possa pregiudicare la vita sociale. Il socialismo incita
pertanto a violare la legge, la priva di contenuto e la corrompe, discreditandola
completamente a livello sociale e, come conseguenza, fa in modo che i cittadini
perdano ogni rispetto per essa.
Secondo Hayek alla corruzione del concetto di diritto così concepito, è legata
un’analoga corruzione del concetto e dell’applicazione della giustizia. La giustizia, in
senso tradizionale, consiste nell’applicazione equa per tutti delle norme astratte di
condotta materiale che costituiscono il diritto penale ed il diritto privato. Non è un
caso che la giustizia sia rappresentata con gli occhi bendati, posto che essa deve
essere innanzi tutto cieca, nel senso che, nell’applicazione del diritto, non deve
lasciarsi influenzare «né dalle donazioni del ricco, né dalle lacrime del povero»
(Levitico, cap. 19, versetto 15). Corrompendo il tradizionale concetto di diritto, il
socialismo modifica anche il tradizionale concetto di giustizia. Nel sistema socialista
la ‘giustizia’ coincide infatti con l’arbitraria valutazione dell’organo politico-
direttivo o del giudice, sulla base dell’impressione, più o meno emotiva, che
produce sugli stessi il “risultato finale” e concreto del processo sociale che si crede
di percepire in un dato istante e che, intrepidamente, si cerca di organizzare
dall’alto mediante comandi coattivi. Non sono più, pertanto, i comportamenti
umani ad essere giudicati, bensì il ‘risultato’ percepito dagli stessi all’interno di un
contesto spurio di ‘giustizia’, alla quale si aggiunge l’aggettivo qualificativo ‘sociale’
con la finalità di renderla più attraente per coloro i quali la devono subire.
Dall’ottica opposta della giustizia tradizionale, non esiste nulla di più ingiusto del
concetto di “giustizia sociale”, poiché essa si basa su una visione, impressione o stima
dei ‘risultati’ dei processi sociali al cui margine stia il comportamento individuale di
ogni attore dal punto di vista delle norme del diritto tradizionale.
Per Hayek, la funzione del giudice nel diritto tradizionale è quindi di indole
meramente intellettuale, non dovendo egli lasciarsi influenzare né dalle proprie
inclinazioni emotive, né dal suo personale apprezzamento per le ragioni di una
parte o dell’altra. Se, come accade nel socialismo, si impedisce l’applicazione
oggettiva del diritto, permettendo che la decisione giuridica avvenga sulla base di
impressioni soggettive ed emotive, finirà per scomparire ogni tipo di sicurezza
giuridica e presto gli attori cominceranno a rendersi conto che qualunque pretesa
può ottenere protezione giuridica, in maniera tale che si tende ad impressionare
favorevolmente un giudice. Si crea così una condizione favorevole a litigi e
controversie che, uniti al caos determinato dal groviglio di comandi coattivi sempre
più imperfetti e contraddittori, pone i giudici in una tale situazione di sovraccarico
da rendere il loro lavoro sempre più inefficiente ed insostenibile. In tal modo, si
determina un progressivo processo di decomposizione che si conclude soltanto con
la virtuale scomparsa della giustizia in senso tradizionale così come dei giudici
stessi i quali vengono trasformati in semplici burocrati al servizio del potere
politico, con l’incarico di controllare il rispetto dei comandi coattivi da esso emanati.
Nella tabella 6.2, in una prospettiva hayekiana, vengono indicate
sistematicamente le principali differenze e le loro ripercussioni sul concetto e
sull’applicazione del diritto e della giustizia, fra il processo spontaneo (basato sulla
funzione imprenditoriale e la libera interazione umana) ed il sistema di
organizzazione (basato sul comando e sulla coazione istituzionale).

Tabella 6.2
PROCESSO SOCIALE SPONTANEO SOCIALISMO
Basato sulla funzione imprenditoriale (Aggressione istituzionale e sistematica contro la funzione imprenditoriale e l’azione umana)
(interazione sociale non aggredita)
1. Il coordinamento sociale si produce spontaneamente, grazie alla funzione 1. Si cerca di imporre dall’alto il coordinamento sociale in modo deliberato e coattivo
imprenditoriale che continuamente scopre ed elimina i disequilibri sociali, che si attraverso comandi, ordini e regolamenti coattivi emanati dal potere (ordine gerarchico — da
modellano in opportunità di guadagno (ordine spontaneo). hieros, sacro e archein, comandare — ed organizzato).
2. Il protagonista del processo è l’uomo, che agisce ed esercita la funzione imprenditoriale 2. Il protagonista del processo è il governante (democratico o meno) ed il funzionario (colui
creativa. che agisce attenendosi agli ordini ed ai regolamenti amministrativi emanati dal potere).
3. I vincoli di interazione sociale sono di tipo egemonico, nei quali alcuni comandano ed
altri obbediscono. Se si tratta di una “democrazia sociale” le “maggioranze” obbligano le
3. I vincoli di interazione sociale sono di tipo contrattuale e le parti coinvolte scambiano “minoranze”.
beni e servizi in accordo con norme giuridiche di tipo materiale (legge). 4. Prevale il comando o regolamento che, indipendentemente dal suo valore formale, è un
4. Prevale il concetto tradizionale di legge in senso materiale, intesa come norma astratta di ordine specifico di contenuto concreto che impone di compiere cose determinate in
contenuto generale, che si applica indistintamente a tutti senza considerare alcuna circostanze particolari e che non è applicata a tutti in modo uguale.
circostanza particolare. 5. I comandi ed i regolamenti sono emanazioni deliberate dal potere organizzato, altamente
imperfette ed erronee data la situazione di ignoranza che non può essere eliminata nella
5. Le leggi ed istituzioni che rendono possibile il processo sociale non sono state create quale il potere si trova sempre in relazione con la società civile.
deliberatamente, ma hanno un’origine evolutiva e consuetudinaria ed incorporano un
enorme volume di esperienze e d’informazione pratica accumulata di generazione in 6. Esige che un fine o un insieme di fini prevalga imponendosi a tutti mediante il sistema di
generazione. comandi. Ciò provoca conflitti e violenze sociali irresolvibili ed interminabili, che
6. Il processo spontaneo rende possibile la pace sociale, ogni attore, nel rispetto della legge, impediscono la pace sociale.
utilizza la sua conoscenza pratica e persegue i suoi fini privati, cooperando pacificamente
con gli altri e disciplinando spontaneamente il suo comportamento in funzione di altri
individui che perseguono fini distinti. 7. La “libertà” si intende come il poter ottenere i fini concreti che si desiderano in ogni
7. La libertà si intende come assenza di coazione od aggressione (sia istituzionale che momento (attraverso un semplice atto di volontà, comando o capriccio).
asistematica). 8. Prevale il senso spurio di “giustizia nei risultati” o “giustizia sociale”, intesa come
uguaglianza nei risultati del processo sociale, al margine del quale ci sia stato il
8. Prevale il senso tradizionale di giustizia, che suppone l’applicazione della legge comportamento (corretto o no dal punto di vista del diritto tradizionale) degli individui
materiale in maniera uguale per tutti, indipendentemente dai risultati concreti che si implicati nello stesso.
producono nel processo sociale. L’unica uguaglianza che si persegue è l’uguaglianza di
fronte alla legge, applicata da una giustizia cieca di fronte alle singole differenze degli 9. Prevale l’aspetto politico nella vita sociale ed i nessi fondamentali sono di tipo “tribale”:
uomini. a) lealtà al gruppo ed al suo capo; b) rispetto dell’ordine gerarchico; c) aiuto al “prossimo”
9. Prevalgono le relazioni di tipo astratto, economico e commerciale. I concetti spuri di lealtà, conosciuto (“solidarietà”) e noncuranza e disprezzo per gli “altri” esseri umani più o
“solidarietà” e ordine gerarchico non vengono presi in considerazione. Ogni attore regola meno sconosciuti, membri di altre “tribù”, dei quali si diffida o che si considerano
il suo comportamento in base alle norme di diritto materiale ed è partecipe di un ordine “nemici” (significato spurio e miope del termine “solidarietà”).
sociale universale, non essendoci per lui né “amici”, né “nemici”, ne vicini né lontani, ma
solamente una grande quantità di esseri umani per lo più sconosciuti, con i quali
interagisce con reciproca soddisfazione ogni volta più ampia e complessa (senso corretto
del termine solidarietà).

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