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“Tutti i principi pratici che presuppongono un oggetto (materia) della facoltà di desiderare
come motivo determinante della volontà sono complessivamente empirici, e non possono dare
luogo a nessuna legge pratica”. Prima tesi tutti i principi pratici che presuppongono un oggetto o
materia della facoltà di desiderare come motivo determinante della volontà sono complessivamente
empirici. Seconda tesi è che non possono dar luogo a nessuno legge pratica. Per capire queste tesi:
non dice che “tutti i principi pratici materiali sono empirici”, perché non è questo che ci interessa,
ma dice che “tutti i principi pratici materiali, in quanto la materia del desiderare è motivo
determinante della volontà”. Non dice tutti i principi pratici che “presuppongono una materia del
desiderare”, ma che “presuppongono una materia del desiderare come motivo determinante della
volontà”. È chiaro che il desiderare presuppone sempre una materia, l’abbiamo già detto, non si può
volere e non volere nulla, se voglio, voglio qualcosa. Dunque, è sempre presupposta una materia nel
desiderare. “Volere” e “volere qualcosa” è la stessa cosa. La questione rilevante è che non sia
presupposto come motivo determinante della volontà, cioè che questo oggetto desiderato non sia
motivo che determina la volontà desiderante. Ora la prima tesi è che tutti i principi pratici in cui
l’oggetto o materia del desiderare è motivo determinante della volontà sono tutti empirici. Per
questa loro caratteristica li chiamiamo d’ora in poi, e utilizzerò da adesso questo termine, principi
materiali, cioè principi in cui la materia del desiderare è motivo determinante della volontà e sono
tutti empirici. Ora la tesi è che tutti i principi di questo tipo, i principi materiali, sono empirici.
Questa tesi va dimostrata perché non è evidente, visto che appunto non è detto che l’oggetto
desiderato sia empirico. Io desidero un gelato, l’oggetto desiderato, la materia desiderata è empirica,
oggetto, materia del desiderare, ma non è un oggetto empirico. Dunque, i principi materiali possono
avere un oggetto empirico o non empirico, però il teorema dice che i principi materiali sono tutti
empirici. Questo è ciò che va dimostrato perché non è evidente. Non tutti, non necessariamente,
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hanno un oggetto empirico, ma che abbiano o non abbiano un oggetto empirico sono empirici. Tutti
cui è desiderata la realtà effettiva”. Questa è una definizione di materia. “Ora, se la brama di
questo oggetto precede la regola pratica ed è la condizione per farsene un principio, affermo
(in primo luogo) che tale principio è sempre empirico”. Lo “affermo in primo luogo” perché
questa è la prima tesi, poi ce n’è una seconda. Badate la frase precedente, la questione non è se la
brama di questo oggetto precede in senso cronologico la regola pratica, ma se è l’origine. Che lo
preceda non è una cosa decisiva, ma non è la cosa decisiva perché non è di questo che ci
occupiamo. Non stiamo facendo una psicologia della volontà, stiamo facendo un’indagine
trascendentale, quello che interessa è da dove scaturisce un principio pratico, quindi non ci interessa
condizione di essa, questo è il punto. Se è motivo determinante della volontà, in questo caso il
principio sarà sempre empirico. L’oggetto desiderato può essere empirico o non empirico ma il
tal caso è la rappresentazione di un oggetto e quel rapporto di essa” qui c’è, è chiaro, nella mia
dell’oggetto “col soggetto che determina la facoltà di desiderare ad attuarlo”. Arbitrio qui vale
per la capacità di scegliere tra desideri differenti o tra volontà. L’argomento è questo: il motivo
determinante dell’arbitrio, ciò che determina la facoltà di desiderare, quando il principio sia
materiale che cosa è? Non è solo la rappresentazione dell’oggetto. Qui sta il nucleo della
dimostrazione: quando io dico “desidero un gelato” ciò che determina il mio desiderare non è solo
desidero un gelato perché mi rappresento un gelato e voglio che diventi reale. Bene desidero
mangiare un gelato vuol dire che mi rappresento di mangiare un gelato e voglio che diventi reale
questo fatto che io mangio un gelato. Quindi certamente il motivo che determina la mia facoltà di
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desiderare è la rappresentazione dell’oggetto ma non solo, insieme a questo c’è anche sempre e
rappresentazione, della realtà dell’oggetto, con il soggetto. Pensateci un attimo “il rapporto della
definizione del piacere. Che cos’è il piacere? È la rappresentazione del rapporto del soggetto con la
realtà effettiva dell’oggetto, con la realizzazione dell’oggetto. Subito dopo introduce il termine
esplicitamente: piacere. Vuol dire che in un principio materiale la mia facoltà di desiderare è
determinata non solo dalla rappresentazione dell’oggetto ma anche, sempre, dalla rappresentazione
del piacere che io mi attendo dalla realizzazione di quell’oggetto. Oppure dal dispiacere che mi
attende evidentemente. Questo è il punto: quando l’oggetto desiderato determina il mio desiderare,
in realtà, insieme ad esso, il mio desiderare è anche sempre determinato dal piacere che mi attendo.
Qui ormai la dimostrazione è fatta, basta solo concluderla, perché se non è detto che l’oggetto sia
empirico, può essere empirico o meno empirico, però il piacere che me ne attendo quello è sempre
empirico. Io mi rappresento un piacere unito alla realizzazione di quell’oggetto, poi può darsi
benissimo che si riveli non piacevole. Il punto è che questo lo saprò solo quando proverò o non
proverò piacere. Dunque. il piacere, cioè il rapporto del soggetto con la realizzazione effettiva
dell’oggetto desiderato è sempre empirico. Allora quando io dico “desidero un gelato” in realtà
esprimo il mio desiderio in un modo incompleto, “Io desidero un gelato e il piacere che me ne
attendo”, perché altrimenti non desidererei quel gelato. Allora che l’oggetto sia empirico o no, il
piacere è sempre empirico. Dunque, il principio pratico materiale è sempre empirico, perché
“Ma un siffatto rapporto col soggetto si chiama «il piacere» per la realtà (effettiva) di
un oggetto. Così quest’ultimo stato dovrebbe essere presupposto come condizione della
oggetto, quale che essa sia, si può conoscere a priori se essa sarà associata a piacere o
dispiacere”. Posso attendermi un piacere, ma non posso conoscere che mi darà un piacere o se sarà
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indifferente, perché c’è anche questa possibilità. “Dunque in tal caso il motivo determinante
dell’arbitro deve essere sempre e necessariamente empirico, e quindi lo deve essere anche il
principio pratico materiale che lo presuppone quale condizione”. Qui la dimostrazione della
“Ora, poiché (in secondo luogo)” vedete, adesso occupiamoci della seconda tesi, dove però
la dimostrazione è molto facile e breve una volta verificata la prima tesi, infatti, “un principio che
si fondi solo sulla condizione soggettiva della possibilità di sentire un certo piacere o
dispiacere (che può essere sempre soltanto conosciuta empiricamente, e non può essere
ugualmente valida per tutti gli enti razionali nella stessa maniera) può bensì servire, per il
soggetto che la possieda, come sua massima, ma neanche per lui può fungere da legge (poiché
gli manca quella necessità oggettiva che deve essere conosciuta a priori), un principio siffatto
non può mai dare luogo a una legge pratica”. Se un principio materiale è empirico evidentemente
non può avere la necessità oggettiva di una legge, perché non è a priori e quindi non può avere la
validità di una legge. Ed ecco dimostrata la seconda tesi. Una volta dimostrato che tutti i principi
pratici sono empirici è facile dimostrare che non possono avere la validità di una legge, perché se
sono empirici non sono a priori e quindi non possono avere la necessità oggettiva che solo le
proposizioni a priori possono avere. E se non hanno una necessità oggettiva non sono delle leggi,
possono essere delle massime, possono essere delle regole soggettive ma non possono essere delle
leggi morali.
Teorema secondo. “Tutti quanti i principi pratici materiali sono, in quanto tali, di una
stessa specie, e appartengono al principio generale dell’amore di sé, o della felicità.” Qui c’è
una tesi e non si aggiunge una seconda tesi, ma si aggiungono solo dei nomi: si dice che tutti i
principi pratici materiali sono di una stessa specie, e dice solo come chiamiamo quella specie, cioè
sono i principi dell’amore di sé o della propria felicità, che è equivalente. Ma questo è solo un
nominare non è un ulteriore tesi. Quindi questo teorema ha una tesi, il cuore della tesi non sono i
nomi, ma che sono tutti di una stessa specie. Il primo teorema ha detto che sono empirici e che non
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possono valere come leggi, il secondo teorema dice che tutti i principi pratici materiali sono di una
stessa specie, questa specie la chiamiamo amore di sé o della propria felicità. Perché mai
aggiungere questo Teorema? È così importante? Sì, è così importante, perché? Intanto perché è
importante affermare in sé che sono tutti di una stessa specie, e secondo perché la dottrina corrente,
cioè la scolastica, invece, usa distinguere due specie della facoltà di desiderare.
La dottrina corrente, scolastica, distingueva per specie due differenti facoltà di desiderare
proprio in base all’oggetto desiderato. Cioè, in sostanza, diceva: se la facoltà di desiderare desidera
un oggetto sensibile allora è la facoltà di desiderare che si chiamava inferiore, se invece desidero un
oggetto intelligibile, cioè non oggetto di sensi ma un concetto, un’idea, allora è facoltà di desiderare
superiore. . Ora Kant in questo teorema nega che possa essere in riferimento all’oggetto che possa
essere fatta questa distinzione, perché se l’oggetto determina la facoltà di desiderare, l’abbiamo
visto nel primo teorema, sono tutti empirici i principi, e quindi sono tutti della stessa specie, che
l’oggetto sia sensibile o che sia intelligibile. È quella famosa questione del piacere, perché insieme
all’oggetto comunque io desidero anche il piacere che mi attende. Il piacere si diceva là è sempre
empirico, è sempre sensibile sia che l’oggetto desiderato sia sensibile o intelligibile. È un desiderare
sempre della stessa specie perché è sempre desiderare quel medesimo piacere, c’è un piacere
una cosa, in quanto debba essere un motivo determinante del desiderio di questa cosa, si
fonda sulla recettività del soggetto, poiché dipende dall’esistenza di un oggetto”. Fate attenzione,
questa traduzione può presentare un aspetto equivoco, altre traduzioni no, ma io lavoro su questa,
“il piacere derivato dalla rappresentazione dell’esistenza di una cosa in quanto” qui il soggetto è
sottinteso, ma il soggetto è tale piacere, non la rappresentazione della cosa. Quindi ve lo esplicito
“il piacere derivato dalla rappresentazione dell’esistenza di una cosa, in quanto tale piacere
debba essere un motivo determinante del desiderio di questa cosa, si fonda sulla recettività del
concetti, ma non con il soggetto secondo sentimenti.” Qui ci sono diverse cose, tanti dettagli. Il
senso complessivo è quello che vi ho detto: sto dicendo che il desiderare un oggetto, che l’oggetto
sia oggetto sensibile o intellegibile, indica sempre la rappresentazione del piacere che mi attende.
Alcuni dettagli: Kant dice “appartiene al senso (sentimento)”, lo mette tra parentesi sentimento. Nel
teoretico, cioè l’attività della sensibilità in campo teoretico, la chiamiamo sensazione e in campo
pratico la chiamiamo sentimento. Quindi se io dico sensazione penso alla sensibilità nel suo
significato teoretico se io dico sentimento penso alla sensibilità nel suo significato pratico. Quindi è
una questione lessicale, è chiaro che questo discorso dell’intero libro riguarda il campo pratico,
quindi se parlo di sensibilità o di senso parlo di sentimento, ma è una questione lessicale. Seconda
cosa: qui c’è una definizione di intelletto. Che cos’è l’intelletto? L’intelletto è quella facoltà “che
esprime una relazione della rappresentazione con un oggetto secondo concetti, ma non con il
soggetto secondo sentimenti”, questa è la sensibilità. Quindi qui, in realtà, ci sono due definizioni
perché nella forma negativa è implicita anche la definizione di sensibilità. Che io desideri un
oggetto sensibile, cioè un oggetto del sentimento o un oggetto intellegibile, cioè un oggetto
dell’intelletto o anche della ragione, un’idea della ragione, il punto è che me ne attendo anche
“Dunque è pratico solo nel senso che il sentimento gradevole che il soggetto si attende
dalla realtà (effettiva) dell’oggetto determina la facoltà di desiderare”. Anche quando l’oggetto
sia intellegibile. “Ma la coscienza che un ente razionale abbia di una gradevolezza della vita
essa il sommo motivo determinante del proprio arbitrio è il principio dell’amore di sé”. Questa
chiamando in causa il concetto di vita, e vita voi lo sapete cosa vuol dire, perché avete la
definizione in quella nota. Ora la felicità è definita come “la coscienza che un ente razionale ha di
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una gradevolezza”, cioè di una piacevolezza della vita che “accompagni ininterrottamente la sua
intera esistenza”. Dunque, la felicità è definita come una gradevolezza, quindi come un piacere, ma
non ogni piacere è la felicità. La felicità è quel piacere della vita che accompagna ininterrottamente
l’esistenza. Guardate che Kant anche qui non inventa niente, è la più tradizionale definizione di
felicità che esiste. La felicità è il piacere permanente. “la coscienza che un ente razionale ha di
una gradevolezza della vita che accompagni ininterrottamente la sua intera esistenza è la
felicità”. Poi segue la definizione del principio dell’amore di sé. Che cos’è il principio dell’amore
di sé? È il principio di fare della felicità il solo motivo determinante del proprio arbitrio. Per questo
nella tesi del teorema dice “tutti i principi materiali sono della stessa specie e appartengono al
principio dell’amore di sé o della propria felicità”, perché come la definizione stessa di principio
dell’amore di sé mi dice il principio dell’amore di sé consiste nel fare della propria felicità il sommo
bene e quindi, il principio dell’amore di sé è lo stesso che dire il principio della propria felicità. La
“Corollario”. È quando viene affermata una tesi dipendente da una tesi precedentemente
affermata o dimostrata, comunque dipendente da una tesi precedentemente verificata. Una certa
verità assodata può essere tale per cui implica la possibilità di una successiva affermazione che non
va ulteriormente dimostrata, quindi un corollario non ha una dimostrazione perché la sua verità è
già implicita nella tesi che è già stata precedentemente verificata o per dimostrazione, se è un
teorema, o per evidenza se è un assioma, o per definizione se è una definizione. Il corollario: “tutte
le regole pratiche materiali ripongono il motivo determinante della volontà nella facoltà di
desiderare inferiore, e, se non ci fossero affatto leggi solamente formali di essa che
determinassero sufficientemente la volontà, non potrebbe neanche essere ammessa una facoltà
di desiderare superiore”. Questo corollario è importante perché risolve quella questione che
avevamo lasciato in sospeso. Lo so che ripeto e ripeto, ma è per facilitarvi le cose. Avevamo detto:
il teorema si preoccupa di affermare che tutti i desideri di un oggetto sensibile sono della stessa
specie, cioè, tutti i principi materiali fanno parte di una facoltà di desiderare di una stessa specie. In
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questo teorema Kant non si pronuncia se la distinzione tra facoltà di desiderare superiore o inferiore
vada fatta cadere, o possa essere o debba essere conservata ma in un altro significato da quello
solito. Certamente non può essere conservata nel significato solito, cioè definita in base all’oggetto
desiderato, questo dice il teorema. Il corollario completa il discorso dicendo: tuttavia può essere,
anzi deve essere, tenuta una distinzione tra facoltà di desiderare superiore e facoltà di desiderare
inferiore, ma il significato di tale distinzione è totalmente diverso. Queste due facoltà distinte per
specie, queste due facoltà di desiderare, non dipendono nella loro distinzione dall’oggetto
desiderato, ma dall’ origine dei principi che determinano il desiderato. Quando i principi siano
materiali, l’abbiamo visto nel teorema secondo sono tutti della stessa specie, chiamiamo questa
specie facoltà di desiderare inferiore, quando invece la facoltà di desiderare sia determinata non
dall’oggetto desiderato ma dalla ragione da sé sola, cioè da principi puri a priori, allora questa è un
altro tipo di facoltà di desiderare di un’altra specie, e questa la possiamo chiamare facoltà di
desiderare superiore. Ma vedete che il criterio della distinzione non è più il carattere dell’oggetto
desiderato ma l’origine del principio che determina la facoltà di desiderare: se è materiale è una
significato totalmente differente e come indovinate in questo passaggio, in questa operazione, è già
incominciato quel lavoro che vi preannunciavo: un lavoro che implica un po’ di passaggi per
distinguere questa vaga categoria di facoltà di desiderare. Perché qui la distinzione incomincia a
essere fatta, c’è una facoltà di desiderare inferiore, che è quella in cui i principi sono materiali, c’è
una facoltà di desiderare superiore, quella in cui i principi sono razionali puri. Per adesso questo è
Nella prima nota – le note non sono come i corollari destinate a affermare una nuova tesi che
è implicita nel teorema precedentemente dimostrato, ma a spiegare un qualche aspetto del discorso,
quindi in una nota non vengono affermate nuove tesi ma vengono chiariti, approfonditi, svolti,
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sviluppati argomentati degli aspetti già visti ma che meritano un ulteriore sviluppo, chiarimento,
argomentazione.
La prima nota, argomenta ulteriormente la tesi del secondo teorema “tutti i principi materiali
sono della stessa specie”. “Non può non sorprendere, come uomini peraltro perspicaci credano
di poter trovare una differenza tra la facoltà di desiderare inferiore e quella superiore nella
condizione che le rappresentazioni che sono accompagnate dal sentimento di piacere abbiano
la loro la loro origine nei sensi, oppure nell’intelletto. E infatti, se si chiede quali siano i motivi
che determinano il desiderio, e se sono riposti in qualche piacere atteso da qualcosa, non
importa affatto donde provenga la rappresentazione di questo oggetto dilettevole, importa solo
in quale misura essa diletti”. Se l’oggetto desiderato e il piacere che me ne attende solo il motivo
determinante, non me ne importa niente da dove arriva l’oggetto, mi importa quanto piacere mi
porta. Dunque, la distinzione se l’oggetto sia sensibile o intellettuale è irrilevante per la facoltà di
desiderare perché desiderare significa sempre desiderare l’oggetto e soprattutto il piacere che me ne
“Anche nell’ipotesi che una rappresentazione abbia la sua sede e origine nell’intelletto,
se essa può determinare l’arbitrio solo in quanto presupponga un sentimento di piacere nel
soggetto, ebbene, il fatto che sia un motivo determinante dell’arbitrio dipende interamente
dalla costituzione del senso interno, ossia dalla possibilità che quest’ultimo ne sia
con le rappresentazioni dei sensi; nondimeno il sentimento di piacere per le quali soltanto, a
rigore, esse costituiscono il motivo determinante della volontà (il diletto, il godimento che ci si
aspetta da esse, e che stimola l’attività dell’oggetto) è di un’unica specie non solo nel senso che
può essere (ri)conosciuto sempre soltanto empiricamente, (primo teorema) ma anche nel senso
che stimola una stessa, identica forza vitale, che si esprime nella facoltà di desiderare, e per
questo rispetto esso non può essere diversa da ogni altro motivo determinante se non nel
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grado”. Può essere diverso il desiderare un oggetto o un altro e magari il desiderare un oggetto dei
sensi o anche, dice Kant, un oggetto della ragione, cioè se è un sentimento oppure un concetto o
un’idea della ragione, ma è diverso nel grado non nella specie, e il grado è una differenza, voi
sapete, che implica appunto omogeneità. È una differenza quantitativa che noi possiamo istituire e
definire all’interno di una grandezza omogenea. Il grado della pressione, il grado della temperatura
eccetera eccetera. Prendete tutti i casi di ciò che si misura in gradi, si misura in gradi appunto delle
realtà omogenee, quindi della stessa specie. Ora due desideri quanto all’oggetto possono
distinguersi e differire anche, ma non per specie, ma per grado, il che confuta che differiscono per
possibilità tra cui può scegliere e lo fa scegliere. Ora questo esperimento è costruito con cura
perché, voi vedete, sono quattro scelte. Nella colonna di sinistra avete sempre delle possibili scelte
di oggetti concettuali, quindi oggetti dell’intelletto, tolta la quarta in cui l’oggetto è un’idea della
ragione – perché Kant ha detto che l’oggetto intellegibile può essere un concetto dell’intelletto o
perfino un’idea della ragione e lì mette accuratamente: tre oggetti dell’intelletto cioè tre concetti e
un’idea della ragione – nella colonna di destra mette quattro possibili scelte, tutte di oggetti della
sensibilità. Quindi vengono fuori quattro coppie da cui questa persona sceglie tra un oggetto
dell’intelletto e un oggetto della sensibilità, oppure, nell’ultimo caso, tra un oggetto della ragione e
un oggetto della sensibilità. Così come costruisce l’esperimento Kant fa sì che la persona scelga
sempre a destra: sceglie sempre l’oggetto della sensibilità, però questa è più una cosa fatta per
rendere più arguta la questione, ma non è rilevante. Cioè l’argomento terrebbe esattamente nello
stesso modo se vi facesse scegliere a sinistra, il fatto che nell’esempio scelga sempre a destra non è
rilevante. “Proprio lo stesso individuo può restituire, senza averlo letto, un libro per lui
istruttivo di cui può disporre per quest’unica volta, per non rinunciare alla caccia”. Ecco la
prima situazione. C’è questo individuo, ed è un individuo intelligente versato alla lettura dei libri,
gli è stato prestato un bel libro che lo interessa: o lo legge adesso o non potrà più leggerlo perché lo
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dovrà restituire, però d’altra parte lo chiamano per andare a caccia “dai vieni”, “sto a casa a leggere
il libro o vado a caccia? Se vado a caccia quel libro non potrò più leggerlo, perché lo devo restituire,
se mi fermo a leggere il libro mi perdo la caccia, il piacere della caccia, ma anche il piacere di
leggere un libro è chiaro”. A un certo punto lui butta il libro sulla poltrona e se ne va a caccia.
Secondo esempio “può a metà di un bel discorso, andarsene per non arrivare tardi a un
pranzo”. Seconda scelta: sta sentendo un discorso interessante, una conferenza per esempio, che lo
interessa proprio, “accidenti sono già le 7:30 mi aspettano alle 8, dai è quasi finita”, ma sono le
7:35. A un certo punto si alza e basta. Quindi rinuncia al piacere, sia chiaro di un discorso
interessante, per il piacere di un pranzo in società. Vedete anche qui, leggere un libro oppure sentire
un discorso interessante, sono piaceri di oggetti concettuali, la caccia e il pranzo sono piaceri di
oggetti sensibili. Terzo “può abbandonare una conversazione assennata che del resto apprezza,
per sedersi al tavolo di gioco”. È invitato in un salotto insieme ad altri, stanno facendo una bella
conversazione, finalmente stasera trova della gente con cui non si parla di quelle stupide
chiacchiere, è interessante quello che ha detto lui, quello che ha risposto l’altro, in effetti sono dei
competenti, intelligenti, hanno detto delle cose che io non sapevo. D’altra parte, l’altro gli ha fatto
delle obiezioni, adesso stanno discutendo, mi piacerebbe stare a sentire ma di là ci manca il quarto
per questa scopa: alla fine va a giocare a carte. Anche qui ha scelto tra il piacere di una
conversazione interessante, di un oggetto intellettuale, il piacere del gioco delle carte, che è un
oggetto sensibile. Quarto caso “può perfino respingere un povero che solitamente è contento di
aiutare perché ora ha in tasca solo e precisamente il denaro che gli occorre per pagare il
biglietto di ingresso alla commedia”. Sta andando alla commedia, c’è un povero, tra l’altro lui lo
conosce, gli ha sempre dato qualcosa e siccome è un uomo buono gli fa piacere dargli qualcosa,
però ha solo i soldi per i biglietti per entrare al teatro: se li dà a lui non va al teatro, se va al teatro
non li dà a lui, qui la scelta è tra far del bene a un povero, quindi non è un concetto, è un’idea della
ragione, è un ideale e l’altro è il gusto della commedia, quindi il piacere per un oggetto sensibile. E
va alla commedia.
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Ora conclude Kant: “se la determinazione della sua volontà si basa sul sentimento
gradevole o sgradevole che si attende da una qualche cosa, gli è del tutto indifferente per
quale modo di rappresentazione sia colpito. Perché si decide a scegliere, gli importa solo
l’intensità di tale diletto, la sua durata, la facilità con cui procacciarselo, e la sua frequenza”.
Vedete, qual è la forza di questo argomento e dell’esempio o esperimento mentale che ha costruito?
Che in tutte quattro le situazioni questo individuo sceglie. Non è rilevante che scelga le possibilità
della parte destra, l’argomento varrebbe anche si scegliesse qualcuna di quelle a sinistra, ma il
punto è che sceglie, e se sceglie è perché ha confrontato le due possibilità e ne sceglie una. Quale?
Quella da cui si attende maggior piacere. Per scegliere bisogna confrontare e poi in base a un
criterio scegliere, e qui il criterio è il grado di piacere che la possibilità scelta mi procurerà. Questo
conferma nel modo più chiaro e semplice possibile che tra quelle scelte non c’è una differenza di
specie, perché se no non le potrai confrontare. Stabilire un grado è un confrontare. Dunque, vuol
“Se la determinazione della sua volontà si basa sul sentimento gradevole o sgradevole
che si attende da una qualche cosa, gli è del tutto indifferente per quale modo di
rappresentazione sia colpito. Perché si decide a scegliere, gli importa solo l’intensità di tale
diletto, la sua durata, la facilità con cui procacciarselo, e la sua frequenza”. Fermiamoci un
attimo su questo elenco. Ho appena detto, vi ricordate, che la felicità è il piacere permanente,
secondo una definizione tradizionale di cui abbiamo già parlato. Qui in realtà questa definizione
viene corretta, articolata e anche complicata. Anche qui non è un’invenzione di Kant, già da molti
secoli i filosofi si erano resi conto che definire la felicità il piacere permanente non è una
definizione sufficiente, perché la durata del piacere non può essere l’unico criterio nella scelta dei
piaceri nella ricerca della felicità. Qui Kant elenca dei criteri diversi, che sono quelli tradizionali.
L’intensità di un piacere, la sua durata, la facilità con cui procacciarselo e la sua frequenza, perché
la durata è certamente un criterio ma deve essere incrociato con altri criteri. Vedete qui fa un
elenco, forse si potrebbero aggiungere anche altri criteri, ma il fatto è che la durata non è l’unico
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criterio per determinare quale piacere perseguire per ottenere la felicità. Ed è qui che cominciano le
complicazioni, perché questi criteri, questi quattro che enuncia Kant, ma evidentemente anche altri,
si incrociano ma sono eterogenei e quindi è difficile fare l’integrale ottimo, fare l’ottima
composizione di questi criteri. Questo non l’avevano mica capito prima di Kant, questo l’hanno
capito dopo Kant anche quelli che si rifacevano a Kant. È forse stato il più immediato dibattito
quando Bentham ha dato le linee dell’etica utilitaristica, “la massima felicità del maggior numero
possibile” ma cosa vuol dire “massima”? Massima per durata, massima per intensità? È meglio che
diventi ricco di 100 milioni una sola persona o 99 persone di 1 milione? Certo dal punto di vista
della quantità è meglio la prima eventualità, perché? Perché è maggiore 100 milioni che 1, ma ci
sono anche altri criteri da tenere in conto. Mill aveva già fatto questa obiezione a Bentham, quindi
Comunque il discorso di Kant è che non importa niente da dove venga il piacere, il punto è
l’intensità, la durata, la facilità di procurarselo, la frequenza e fa una metafora: “come per colui che
ha bisogno di oro, per spenderlo, è completamente indifferente se la sua materia, l’oro stesso,
sia stato estratto dalla roccia o setacciato dalla sabbia, purché sia accettato ovunque per lo
stesso valore, così nessuno a cui interessi meramente la gradevolezza della vita chiede se si
tratti di rappresentazioni intellettuali o sensibili, ma solo quanti godimenti e quanto intensi gli
procurino, quanto più a lungo possibile”. Questa concezione dell’oro come denaro e solo come
denaro: interessa per il suo valore di scambio non interessa se venga dalla roccia o se venga dalla
sabbia, se l’hanno setacciato nei fiumi o scavato nelle miniere, gli interessa che sia denaro. Così il
“Solo coloro che vorrebbero ricusare alla ragione pura la facoltà di determinare la
volontà senza il presupposto di un qualche sentimento, possono deviare dalla loro propria
spiegazione al punto da dichiarare interamente eterogenei i motivi che prima essi avevano
ricondotto a un solo, identico principio”. Questi che fanno la distinzione tra facoltà di desiderare
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inferiore e superiore in riferimento all’oggetto è perché non vedono altra eventualità o addirittura la
negano, non la considerano nemmeno, cioè che la volontà, la facoltà di desiderare, sia determinata
unicamente dalla ragione in modo puro a priori. Se vedessero questo capirebbero che lì sta la
differenza. Quella sì è una facoltà di desiderare totalmente diversa dalla facoltà di desiderare
“Per esempio accade che il mero impiego di energia, la coscienza della forza della
propria anima nel superamento degli ostacoli che si oppongono ai nostri propositi, la cultura
delle nostre doti spirituali, eccetera, possano procurare godimento; e parliamo di gioie e
divertimenti più raffinati a buon diritto, perché dipendono da noi e non dagli altri, non si
consumano, anzi, rafforzano il sentimento per cui goderne ancora di più, e mentre dilettano
insieme coltivano”. È chiaro, che c’è differenza tra gli oggetti che desideriamo: desiderare oggetti
di tipo concettuale o idea della ragione, come quelli che indica, “l’ottimale impiego della propria
energia”, “la forza della propria anima nel superamento degli ostacoli” e altre ispirazioni di questo
tipo sono evidentemente più raffinate che il desiderare di mangiare. C’è una differenza: un uomo
che cerca il proprio piacere in desideri del primo tipo è un uomo certamente la cui ricerca del
piacere è differente da quella dell’altro, è più raffinata. Ma più raffinata è un’espressione che ci
riporta a quegli esempi, è una questione di grado. Difatti diciamo che è un desiderio più raffinato
dell’altro, dunque, lo confrontiamo, non è una differenza di specie, perché anche lui in quelle
attività, nobilissime, altissime, eccetera, cerca pur sempre il proprio piacere e soprattutto la sua
facoltà desiderare è pur sempre determinata dalla ricerca del piacere, dall’oggetto che vuole
procurarsi per ottenere il piacere, quindi da un principio materiale, anche se non sono materiali gli
oggetti che ricerca, ma il principio è materiale (primo teorema). Quindi è certamente più raffinato
“Però spacciarli per un modo di determinare la volontà diverso per specie dal semplice
senso, dal momento che peraltro presuppongono, per la possibilità di questi godimenti, un
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apposito sentimento insito in noi quale prima condizione di tale compiacimento, equivale
esattamente alla situazione che si verifica allorché ignoranti che amano impicciarsi di
metafisica pensano che la materia sia fine, sopraffina tanto da avere il capogiro, e poi credono
di aver escogitato, in tal modo, un essere spirituale e tuttavia esteso”. Anche qui se la prende
con qualcuno, “ignoranti che amano impicciarsi di metafisica”, però vogliono dire cose complicate
sulla metafisica e sostengono che lo spirito non è altro che materia, ma la materia più sopraffina.
Questa è una posizione che c’è da tanto tempo, il materialismo metafisico. Già quando Descartes
scrive le Meditazioni tra i suoi detrattori ci sono Gassendi, per esempio, Hobbes, che sostengono
questa posizione, ma non è vero che la sostanza pensante è un’altra specie di sostanza rispetto alla
sostanza estesa, il pensiero è solo una forma di materia più raffinata. Questi, dice Kant, sono
ignoranti – Gassendi era un genio e Hobbes era un genio – però poi c’erano tanti altri e questi sono
“ignoranti che si preoccupano di metafisica” e di spiegare che lo spirito non è altro che materia
molto molto raffinata Questi sono imbonitori, così dice Kant, il discorso scolastico, la distinzione
tra facoltà di desiderare inferiore e superiore in base all’oggetto, non è fondata sul ragionamento.
Essi devono spiegare perché c’è una differenza specifica tra desiderare un oggetto intellettuale o
razionale e desiderare un oggetto sensibile, dal momento che quello che vado a ricercare è sempre e
il medesimo piacere.
“Se, con Epicuro, continuiamo esclusivamente sul godimento che la virtù promette, per
determinare la volontà, non possiamo poi rimproverarlo di ritenere che tale piacere sia del
tutto omogeneo con quelli dei sensi più grossolani; infatti non c’è ragione di accusarlo di aver
stato in noi. Per quanto si può indovinare, egli ha cercato di la fonte di molte di esse anche e
non meno nell’uso della facoltà conoscitiva superiore: ma ciò non gli impedì e neanche poteva
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queste ultime di essere motivi determinanti della volontà. La coerenza è il principale obbligo
di un filosofo, eppure si incontra con rarità estrema”. Dice che costoro elogiano chi persegue i
desideri superiori e non quelli inferiori, ma in fondo era più coerente Epicuro che diceva che il
piacere è il piacere. Il principio di Epicuro è che la felicità consiste nel piacere, adesso bisogna poi
vedere quali piaceri ricercare ma il piacere è piacere ed è sempre lo stesso e della stessa specie.
Epicuro è più coerente di loro, e la coerenza è il principale obbligo di un filosofo eppure si incontra
con rarità estrema. Un filosofo deve essere coerente. Ma coerente nel senso che quando sviluppa
una teoria, questa teoria deve essere fondata in ogni suo passaggio in modo coerente con il suo
passaggio successivo e con il suo passaggio precedente, con il corpo della teoria.
“Le scuole greche antiche ce ne offrono esempi più numerosi di quelli che incontriamo
nella nostra età sincretistica, in cui si inventa un artificioso sistema di coalizione di Principi
che è contento di sapere di tutto un po’ e complessivamente nulla, e di potersene stare su tutte
le selle”. Dice che i filosofi greci, compresi gli epicurei, tutto sommato sulla questione della
coerenza erano meglio di noi. “Noi” intende il suo tempo, i filosofi dei suoi tempi, perché viviamo
in una cultura, in un momento storico della cultura in cui invece si preferisce da parte dei filosofi,
da parte degli intellettuali, proporre al pubblico dei sistemi sincretistici in cui si mette insieme un
po’ tutto, anche se insieme non sta, e si affastella un po’ tutto istituendo dei rapporti tra una parte e
l’altra che non sono dei rapporti filosoficamente giustificabili, razionalmente giustificabili, ma si fa
finta che tutto stia un po’ insieme. Uno dei motivi, dice Kant, è anche che questi fanno così perché
così piace al pubblico, perché c’è un pubblico. Questa è la domanda e quindi l’offerta da parte dei
filosofi, che vuol dire ai tempi di Kant degli intellettuali, corrisponde alla domanda. Perché il
pubblico vuole sapere di tutto un po’ e complessivamente nulla, non è interessato a sapere
veramente, però vuole avere delle opinioni su tutto. “Per quanto intelletto e ragione possa
comportare, il principio della propria felicità non conterrebbe, per la volontà, motivi
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determinanti diversi da quelli adeguati alla facoltà di desiderare inferiore; e dunque o non
esiste nessuna facoltà di desiderare superiore affatto, o la ragione pura deve essere
necessariamente pratica da sé sola, di per sé stessa, ossia deve poter determinare la volontà
con la pura forma della regola pratica, senza il presupposto di qualsiasi sentimento, quindi
senza rappresentazioni del gradevole o dello sgradevole come materia della facoltà di
desiderare, quella materia che è sempre una condizione empirica dei principi”. Ripete quello
che ha già detto nel corollario. Tutta la facoltà di desiderare determinata da principi materiali è della
stessa specie, dunque o non esiste una facoltà di desiderare superiore oppure esiste, ma allora non è
l’oggetto che fa la distinzione ma il fatto che questa altra facoltà, differente facoltà di desiderare, è
differente perché non è determinata dall’oggetto ma dalla ragione pura da sé sola, senza l’intervento
servizio delle inclinazioni)”, non è la ragione strumentale di cui parlavamo per l’imperativo
ipotetico. La ragione “è una vera facoltà di desiderare superiore, a cui è subordinata quella
determinabile patologicamente”, cioè quella inferiore “ed è distinta da questa realmente, anzi
per specie, di modo che la benché minima aggiunta di impulsi propri di quest’ultima” della
facoltà inferiore “nuoce alla sua forza e al suo privilegio, così come, in una dimostrazione
matematica, una condizione anche minimamente empirica scredita, annulla la sua dignità ed
efficacia”. Questo è quello che si chiama il rigorismo kantiano. La facoltà di desiderare superiore,
ora utilizziamo questa terminologia, in questo passaggio del testo è quella in cui la facoltà di
desiderare è determinata dalla ragione pura da sé sola, quindi dalla ragione senza alcun elemento
empirico nemmeno accanto alla ragione stessa. Aggiunge “anche senza che alcun elemento
empirico determini quella facoltà di desiderare insieme”, accanto alla regione. Se la facoltà di
desiderare è determinata dalla ragione e anche dal desiderio di un oggetto, allora già non è più la
facoltà di desiderare superiore. Rigorismo kantiano, non significa che Kant era uno cattivo,
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eccetera, ma significa tecnicamente questo, che il principio razionale puro è l’unico che fonda la
legge morale e la fonda solo se la fonda da sé solo, senza intervento di alcun elemento empirico,
“In una legge pratica, la ragione determina la volontà immediatamente, non con la
legge, e solo la sua possibilità di essere pratica come ragione pura le consente di essere
legislatrice”. Ricordatevi queste righe perché sono la sintesi di tutto quello che abbiamo detto: la
mediazione di un sentimento – è l’unica che fonda la legge morale. Ricordatevi queste righe perché
sono importanti, in qualche modo formulano in un modo definitivo il lavoro che abbiamo fatto, ma
poi anche perché all’inizio del terzo capitolo ci metteranno nei pasticci.
argomentazioni sul tema della felicità perché questo tema è introdotto nel secondo Teorema: “i
principi materiali sono della stessa specie e appartengono all’amore di sé o la propria felicità”. La
prima frase è icastica: “Essere felice è necessariamente l’esigenza di ogni ente razionale, ma
finito, e dunque è un inevitabile motivo determinante della sua facoltà di desiderare”. “Essere
felice è necessariamente l’esigenza”, badate, Kant sceglie sempre tutte le parole, qui non ne
risparmia nessuna per essere chiaro: “è necessariamente l’esigenza universale di ogni ente razionale
finito”. Quindi è una esigenza necessaria, universale e quindi è un’inevitabile motivo determinante
della sua facoltà di desiderare. Una frase così non è che può essere male interpretata, e Kant l’ha
scritta in modo tale che non è possibile: l’esigenza della felicità è necessaria, universale ed è
inevitabilmente un determinante della facoltà di desiderare di tutti, sempre. Dunque, credo di non
fare una strana interpretazione nel dire che Kant non è per nulla opposto alla felicità. Non ha
nessuna intenzione di costruire una dottrina morale che condanni la felicità o che non riconosca le
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esigenze della felicità. Quello che è vero, ma è tutt’altra cosa, è che la dottrina morale di Kant non è
fondata sul principio della felicità, cioè nella teoria morale di Kant la felicità non è il motivo
determinante oggettivo della legge morale, del principio morale, questo è vero ed è altrettanto
importante. Ma dire che un’etica o una dottrina morale non è fondata sulla felicità non vuol dire che
rinneghi l’esigenza della felicità. Sono due affermazioni totalmente differenti tra loro. Ora la
dottrina morale di Kant è certamente una dottrina che non è fondata sulla felicità, ma non è affatto
una dottrina che rinneghi l’esigenza della felicità. Per passare a una terminologia un po’ più tecnica,
noi diciamo eudemonistica una teoria morale fondata sulla eudemonia, cioè sulla felicità, quindi se
noi diciamo che una teoria morale è una teoria eudemonistica vuol dire che è una teoria morale che
fonda il sistema morale sulla felicità come principio, come fondamento. Ma se una teoria morale
non è eudemonistica allora, non c’è solo una possibilità ci sono due possibilità: che sia una teoria
morale anti-eudemonistica o che sia una teoria morale non eudemonistica, è differente. Perché se
dico che una teoria morale è anti-eudemonistica vuol dire che si forma sul principio della negazione
della felicità, del rifiuto della felicità, mentre se dico che una teoria morale è non eudemonistica
dico che è una teoria che si fonda su un principio diverso dalla felicità, ma non necessariamente
opposto alla felicità. Ora la teoria di Kant non è certamente una teoria eudemonistica, ma è piuttosto
una teoria non eudemonistica, ma non è una teoria anti-eudemonistica. se è vero quello che dice
Kant in questa prima frase della nota, cioè che la felicità è necessariamente un’esigenza universale
di ogni ente razionale finito e che inevitabilmente è motivo determinante della facoltà di desiderare,
allora una teoria etica anti-eudemonistica non è possibile, perché una teoria etica sarà sempre una
teoria per gli enti razionali finiti, per le persone umane. Se ogni persona umana ha l’esigenza della
felicità in modo necessario, universale, imprescindibile, bisognerebbe pensare a una teoria etica che
inevitabile motivo determinante della sua facoltà di desiderare. Infatti la soddisfazione per la
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sua intera esistenza non è – come si potrebbe forse credere – un possesso originario e una
autosufficienza, è invece un compito impostogli dalla sua stessa natura finita, poiché è
bisognoso; e tale bisogno concerne la materia della sua facoltà di desiderare, ossia qualcosa
determinato ciò che occorre affinché sia soddisfatto del proprio stato”. Questo è l’unico lavoro
di giustificazione della frase iniziale che lui fa. Essere felici è un’esigenza necessaria e universale di
ogni ente razionale finito, perché l’ente razionale finito non è un ente beato ma è un ente, che in
quanto finito, è mancante. Essendo mancante è bisognoso, questo bisogno lo porta ad agire in modo
da riempire la mancanza e così trovare soddisfazione e quindi piacere, nella misura in cui questo è
una soddisfazione, non solo di un bisogno puntuale e provvisorio, ma dell’essere bisognoso suo
complessivo. Tanto per incominciare Kant dice la felicità è un’esigenza necessaria e universale,
imprescindibile di ogni ente razionale finito perché non è beato. Introduce questo termine “beato”
che non abbiamo mai incontrato. Anche questo termine è un termine che ha una lunghissima storia
nei secoli. La beatitudine in latino beatitudo. Questo termine, beato, gli antichi lo usavano per
indicare quello stato, naturalmente di felicità, di piena felicità stabile, permanente, che quindi non
dà luogo a un movimento, a un’azione, perché l’ente beato non si muove. Non si muove perché non
ha nulla verso cui muovere, nel senso che è già pieno di tutto, insomma, questo è lo stato che già il
pensiero antico aveva attribuito agli dei. Gli dei sono beati nel senso che sono felici. Beato vuol dire
felice ma non è la felicità raggiunta, è la felicità come stato permanente. Gli dei sono sempre beati,
sono beati da quando sono e per sempre. Beata la situazione quindi degli dei, della divinità e poi
nella formulazione ebraico-cristiana di Dio. Ma è chiaro che già nel pensiero antico se è
riconosciuta come la situazione, lo stato della divinità, prima o dopo la si penserà, forse prima la si
sognerà, poi però anche la si penserà come una meta per gli uomini, l’ideale degli uomini.
felicità nella forma della beatitudine. Nascono una infinità di scritti, di ricerche e il titolo diventa un
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titolo quasi convenzionale: “de vita beata”. La vita beata è la vita degli dei ma è anche l’ideale per
tante culture filosofiche degli uomini. Come raggiungere la vita beata? La vita beata è quella vita
che è felice in modo permanente perché non manca di nulla. Ora dice Kant, e passiamo al secondo
punto da chiarire, l’ente razionale finito non è mai in questa situazione perché essendo finito è
mancante e dunque non è beato, non è felice nel senso della beatitudine di cui abbiamo abbastanza
parlato, gli manca qualcosa, e allora si innesta una dinamica del desiderio. La dinamica del
desiderio è questa: mancanza, desiderio, cioè tensione all’azione per riempire la mancanza, se
quest’azione realizza il suo effetto c’è riempimento della mancanza quindi la soddisfazione e la
felicità o il piacere, e se il piacere è permanente c’è la felicità. Dunque, vedete è tutta un’altra
situazione, ma questa è la situazione di ogni ente razionale finito, per questo nella prima frase Kant
diceva “la felicità è necessariamente l’esigenza di ogni ente razionale finito”. Esigenza vuol dire
appunto ciò a cui tendo perché non l’ho. Non si può parlare della felicità come esigenza per l’ente
beato, perché l’ente beato non ha l’esigenza della felicità, è felice. Se è una esigenza è perché mi
manca. La facoltà di desiderare è proprio quella facoltà che sorge per questa dinamica, poiché se
qualcosa manca si tende a, cioè si desidera ciò che riempie quella mancanza. Desiderare è
“Ma appunto perché questo motivo determinante materiale può essere (ri)conosciuto
dal soggetto solo empiricamente, è impossibile considerare tale problema come una legge,
motivo determinante della volontà in tutti i casi e per tutti gli enti razionali. Infatti, sebbene il
concetto della felicità sia ovunque il fondamento della relazione pratica degli oggetti con la
facoltà di desiderare, peraltro è solo il titolo generale dei motivi determinanti soggettivi, e non
determina specificamente nulla – mentre questo soltanto importa in questo problema pratico,
e senza tale determinazione esso non può venire affatto risolto”. Qui c’è una serie di argomenti
per sostenere ulteriormente la tesi che la felicità propria non può essere il motivo determinante della
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volontà moralmente determinata. Questo è ciò che è già stato dimostrato nel primo e nel secondo
teorema: tutti i principi materiali sono empirici e quindi non possono avere valore di legge, tutti i
principi materiali sono della stessa specie e stanno sotto il nome della felicità propria. Metteteli
insieme: quindi la felicità propria non può essere motivo determinante della volontà morale perché
empirica. Allora, dice Kant, che senso ha dire che tutti cercano la felicità? Se diciamo che è un
principio soggettivo allora non possiamo dire che tutti cercano la felicità, perché tutti cercano la
felicità è una proposizione universale. Poi diciamo anche “necessariamente”. Come mai allora è un
principio empirico quello della felicità e non può avere valore di legge? Perché, dice Kant, quando
noi diciamo felicità diciamo dunque una specie sotto la quale stanno tutti i principi materiali e
quindi tutti i piaceri, ma il concetto di felicità non determina ulteriormente questo aspetto. Quindi
quando noi diciamo “tutti cercano la felicità” ciò che esprimiamo non è un significato universale ma
un significato collettivo. Chiamiamo felicità quell’insieme, con numerose differenze, di fini delle
azioni tendenti al piacere, ma senza ulteriormente determinarli. Tutti cercano la felicità ma poi
ognuno la intende a modo suo. Quindi vedete che questo termine felicità è un termine vuoto, che
viene riempito di volta in volta in modo empirico, soggettivamente, da ogni persona con l’oggetto a
cui tende e da cui si attende piacere. Quindi non è propriamente un concetto universale e necessario
“Infatti dove ciascuno debba riporre la propria felicità dipende dal sentimento di
piacere e dispiacere suo particolare, e persino, in un identico soggetto, dalla diversità del
bisogno secondo le variazioni di tale sentimento, e una legge soggettivamente necessaria (come
legge di natura) e dunque, oggettivamente, un principio pratico persino molto accidentale, che
può e deve essere assai diverso in soggetti diversi, e quindi non può mai ingenerare una
legge”. Non solo ognuno soggettivamente e in modo accidentale identifica la felicità che va
cercando con una particolare oggetto, con la realizzazione di una particolare oggetto e il piacere che
vi associa, ma addirittura lo stesso soggetto in condizioni differenti può identificare la felicità con
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oggetti differenti. Dunque, la felicità è un principio assolutamente soggettivo, accidentale:
soggettivo, non obiettivo, accidentale, non necessario, particolare, non universale, empirico. Quindi
in nessun modo può essere il principio che determina la volontà morale, perché non è una legge,
non può costituire una legge, secondo quello che abbiamo detto nella prima nota.
“Poiché nella brama di felicità non importa la forma della legalità, ma soltanto la
dell’amore di sé” propria felicità l’abbiamo visto prima, sono espressioni sinonimiche, “possono
bensì contenere regole generali dell’abilità (onde trovare mezzi per certe finalità); ma allora
sono principi meramente teoretici (per esempio: Chi gradirebbe mangiare pane, deve trovarsi
un Mulino)”. Qui dice esplicitamente ciò che avevamo già detto: principi dell’amore di sé possono
contenere regole generali dell’abilità. Questa è un’espressione che avevamo già trovato nella nota,
che Kant usava per indicare gli imperativi ipotetici: regole dell’abilità, vi ricordate. Possono sì
ottenere regole generali della abilità, ma allora, dice Kant, e lo dice esplicitamente, non sono
principi pratici ma sono principi teoretici. Quali cause bisogna mettere in atto per ottenere un certo
effetto? Chi vuole un certo effetto deve essere capace di mettere in atto le cause sufficienti per
ottenere quell’effetto. Regole dell’abilità, ma queste sono regole teoretiche, vedete che lo dice
esplicitamente.
C’è una nota: “le proposizioni che sono chiamate pratiche nella matematica o nella
dottrina della natura a rigore dovrebbero dirsi tecniche” è la ragione tecnica quella che è qui in
atto, perché le regole di questo tipo, cioè le regole dell’abilità che normalmente vengono chiamate
regole pratiche, non sono pratiche ma tecniche. “Infatti tali dottrine non hanno nulla a che fare
con la determinazione della volontà; si limitano a mostrare il molteplice della possibile azione,
teoretiche tanto quanto tutte le proposizioni che enunciano la connessione di una causa con un
effetto. Ora chi desideri il secondo deve anche accettare che sia la prima”. Qui fa una analogia
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tra queste regole, cosiddette pratiche dell’abilità, che in realtà sono tecniche, con alcune regole della
matematica, in particolare con quelle che noi chiamiamo operative: per esempio le regole per
una circonferenza. Sono delle regole, quelle non sono leggi matematiche, sono regole costruttive,
per costruire la figura, sono regole operative, sono regole dell’abilità. Anche in matematica esistono
regole dell’abilità, anche in chimica, anche in fisica. Vengono erroneamente chiamate pratiche
perché ti dicono cose devi fare, ma in realtà non ti dicono cosa devi fare nel senso proprio dell’uso
pratico della ragione, cioè per produrre il proprio oggetto, ma per costruire una figura, per
combinare una formula chimica, eccetera, o per ottenere il proprio piacere. Sono regole operative
che ti dicono la tecnica che devi seguire per ottenere quel risultato. Naturalmente sono regole che
riguardano la ragione, perché è con la ragione che noi facciamo queste operazioni, ma con la
ragione tecnica, con la ragione strumentale, cioè con la ragione che non fonda i fini, ma che
ricerca solo i mezzi adeguati a raggiungere un fine dato da altrove. Non riduciamo la ragione alla
sua funzione tecnica e strumentale: è anche una ragione tecnica e strumentale ma solo
marginalmente, è una funzione della ragione, la funzione della ragione è quella teoretica, è quella
pratica, queste sono le due funzioni fondamentali della ragione. Nell’una la ragione determina a
priori un oggetto dato, nella seconda produce a priori il proprio oggetto, sono il campo della
conoscenza teoretica e della conoscenza pratica. “Ma le prescrizioni pratiche fondate su di essi
non possono mai essere universali, poiché il motivo determinante della facoltà di desiderare si
fonda sul sentimento di piacere e dispiacere, che non si può mai considerare come diretto
Altro argomento che c’è in questa nota è quello successivo: “Ma, posto che tutti gli enti
razionali finiti la pensassero allo stesso modo anche rispetto a quelli che dovessero considerare
come oggetti dei loro sentimenti di godimento o di dolore, e anche e persino quanto ai mezzi di
cui dovessero servirsi per ottenere i primi ed evitare i secondi, tuttavia non potrebbero affatto
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spacciare per una legge pratica il principio dell’amore di sé”. Qui Kant fa un esperimento
mentale: ha appena detto che “tutti desiderano la propria felicità” è un’affermazione collettiva ma
non universale, perché poi ognuno la riempie dei suoi contenuti soggettivi ed empirici e accidentali.
Ma adesso proviamo a pensare una situazione in cui tutti, nello stesso momento, desiderano la
felicità e intendono per felicità lo stesso oggetto, tutti sono d’accordo su questo e anche sono
d’accordo sui mezzi per raggiungerlo. In astratto si può pensare che tutti coincidano nell’intendere
il desiderio per la felicità e i mezzi per raggiungerlo. Allora, in questo caso, non sarebbe universale?
Non sarebbe un principio universale? No, non sarebbe un principio universale, e nemmeno un
principio necessario. Anche in questo caso “non potrebbero affatto spacciare per una legge
pratica il principio dell’amore di sé. Infatti questa stessa unanimità sarebbe soltanto
accidentale. Il motivo determinante avrebbe pur sempre una validità soltanto soggettiva e
sarebbe meramente empirico, mentre non avrebbe la necessità che è pensata in ogni legge,
ossia quella oggettiva perché fondata su ragioni a priori; si dovrebbe allora presentare tale
necessità non già come pratica, ma come meramente fisica, precisamente nel senso che
l’azione ci fosse estorta, dalla nostra inclinazione, non meno ineluttabilmente dello
sbadigliare, quando vediamo sbadigliare altri”. Anche in questo caso, che abbiamo costruito
come esperimento mentale, il desiderio della felicità sarebbe sempre un principio non universale,
non necessario e non oggettivo, ma particolare, accidentale e soggettivo, perché il generale accordo
soggettivo non si trasforma mai in oggettività, non si trasforma mai in universalità, nel senso vero e
rigoroso. Tutti sono d’accordo nel desiderare la felicità, e per felicità intendono lo stesso oggetto e
intendono gli stessi mezzi per raggiungerlo. In questo momento c’è un’universale accordo? No, c’è
un accordo generale, ma basta che uno, uno solo dica “cambio idea” e tutto finisce. Ma è
necessario? No. Tanto è vero che in ogni momento uno può dire “no, voglio cambiare idea”. Quindi
questo consenso è accidentale, non è necessario e alla fine non è neanche oggettivo perché è solo la
somma, senza eccezioni, di desideri soggettivi: ma la somma senza eccezione di desideri soggettivi
priori può avere una validità necessaria e oggettiva. Nessuna proposizione empirica potrà mai
essere altro che accidentale, anche nel caso in cui sia accidentalmente consensuale. Non potrà mai
essere altro che particolare, anche se consensualmente particolare, non potrà mai essere altro che
soggettiva, anche se consensualmente soggettiva. Questa è una distinzione importante che voi
dovete tenere ferma. Non è un assioma dire che solo le proposizioni a priori sono necessarie,
un corollario. Kant fa rilevare proprio bene questo in molti luoghi, ne scelgo uno nella ragione pura
teoretica, quando parlando della distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici parla della
universalità in senso rigoroso rispetto alla universalità empirica, che è appunto la generalità. La
logica formalistica di tipo aristotelico mi dice che ogni proposizione del tipo “Tutti gli A sono B” è
una proposizione universale. Dice “tutti”, quindi è universale, ma ci sono due significati di
universale, molto differenti tra di loro: se io dico “tutti gli A sono B” posso dire due cose molto
differenti. Per esempio, voi sapete di quel particolare, non so se si chiama specie o famiglia, di cigni
che è nera di piumaggio. Gli europei non la conoscevano prima che scoprissero l’Australia. Quindi
poniamo che io enunci la proposizione, “tutti i cigni sono bianchi”, questa è una proposizione
universale in senso formalista, così “tutti i cigni sono bianchi” ha la forma esterna di una
proposizione universale. Però domani arriva uno di voi e mi mette sulla cattedra un cigno nero:
“professore ho trovato questo”. Cosa devo fare io? Non posso che fare una cosa, dire: “mi correggo,
quasi tutti i cigni sono bianchi.” Ma se io vi dico, ragioniamo all’interno di una geometria euclidea,
di una geometria dello spazio piano, “tutti i triangoli hanno la somma degli angoli interni di 180
gradi”, domani viene uno e mi mette sulla cattedra un triangolo e mi dice “guardi io ho trovato
questo qui, ho misurato ma la somma degli angoli interni non è 180 gradi”, quale sarà la mia
reazione giusta e corretta? Non è dire “quasi tutti i triangoli…” ma è, senza nemmeno alzare la
testa, dire “lo porti via non è un triangolo”. Perché “tutti i triangoli hanno la somma degli angoli
interni di 180 gradi” è una affermazione a priori che è universale e necessaria e nessun dato
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empirico la può confutare. Se qualcuno mi presenta un dato empirico difforme, escludo il dato
empirico, non correggo la proposizione, ma nel caso dei cigni sì. Vedete formalisticamente tutte e
due le proposizioni sono universali, “tutti i cigni sono bianchi” e “tutti i triangoli…”, ma il
significato di universale è molto differente: solo il secondo è una universalità nel senso rigoroso,
oggettivo, necessario, perché è a priori, mentre ogni proposizione empirica, non potrà mai avere
queste caratteristiche. Per definizione una proposizione empirica è valida sino a quando l’esperienza
non mi dia dati in contrario. Quindi vedete c’è una universalità in senso rigoroso e una universalità
in senso empirico, che poi è una generalità. Allora qualunque principio pratico fondato sulla felicità
sarà sempre empirico, per il primo teorema, e dunque non avrà mai la vera e propria universalità,
necessità e oggettività. Dunque, non potrà fondare una volontà determinata in modo oggettivo,
necessario, universale. Se dei soggetti concordano sulla felicità, sul fine della felicità, o se anche,
come in questo esperimento mentale, tutti concordassero, è qualcosa che è accidentale, dice Kant.
“Si potrebbe affermare che non ci siano leggi pratiche affatto, ma solo consigli in
funzione delle nostre brame, piuttosto che elevare principi meramente soggettivi al rango di
leggi pratiche, tali da avere una necessità interamente obiettiva e non solo soggettiva, e da
dover essere (ri)conosciute dalla ragione a priori, e non per mezzo dell’esperienza (quanto si
voglia empiricamente generale)”. Dice Kant, il tentativo di confondere dei principi generalmente
soggettivi, empirici, con delle leggi pratiche, oltre che a essere errato, infondato, è anche
inutilmente falso. Allora è più coerente dire che non ci sono leggi pratiche. Se uno non riconosce
che sono possibili principi a priori che determinano la volontà, allora, piuttosto di dimostrare che ci
sono principi empirici che però sono universali, necessari, cosa che abbiamo visto non è, allora, è
meglio dire che non ci sono leggi morali, ma ci sono solo consigli soggettivi, massime, imperativi
ipotetici, regole dell’abilità, ma che non sono possibili leggi morali. Sicché, vedete, ancora una
volta, e siamo solo nelle prime pagine, ma ancora una volta ricompare la questione cruciale che
abbiamo visto nella prefazione, nell’introduzione, già nei primi due teoremi e in questa nota: la
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questione affrontata in questo libro è se è possibile che la ragione pura da sé sola determini la
volontà. Questo è il tema di questo libro, e l’implicazione che vediamo insistita è che se noi
riusciamo a dimostrare che è possibile che la ragione pura, quindi a priori, da sé sola determini la
volontà, allora è possibile una volontà morale, altrimenti no. Altrimenti dobbiamo concludere che
non ci sono leggi morali e che quindi resta naturalmente la nostra facoltà di desiderare, che però è
determinata da desideri soggettivi, da principi soggettivi, da oggetti desiderati dal piacere che ce ne
aspettiamo caso per caso, situazione per situazione, soggetto per soggetto, contesto per contesto, e
che quindi una teoria morale, una dottrina morale non possa che limitarsi ad essere una raccolta di
massime di buon senso, di massime generalmente accettate per orientarsi su questo terreno, senza
nessuna possibilità di oggettività. L’etica è possibile se fondata su principi puri della ragione da sé
sola, altrimenti non è possibile un’etica come conoscenza vera del campo dell’ambito pratico. Sarà
possibile allora altro, non è che in campo pratico se non è possibile un’etica non è possibile altro
tipo di lavoro, ma è un altro tipo di lavoro e non è un’etica. Capite cosa sta dicendo Kant? Sta
dicendo che solo un’etica fondata sui principi puri della ragione è un’etica, e che ogni altra dottrina
che non abbia questa caratteristica può chiamarsi etica se lo vuole ma non è un’etica. Kant sta
dicendo che solo la sua teoria etica è un’etica e che tutte le altre non sono delle etiche, a partire da
Aristotele: vogliono essere delle etiche, presumono di essere delle etiche, si chiamano etiche ma
non sono delle etiche. Se sono di tipo descrittivo, cioè descrivono il comportamento umano – anche
oggi ci sono tante dottrine etiche di tipo descrittivo, per esempio sociologico, psicologico, eccetera
– queste sono delle etologie, diremmo noi, non delle etiche. Si può studiare il comportamento
analizzarli, di capirne il funzionamento. Dunque, questo è molto utile, questa è molto interessante,
ma si chiama etologia, non è etica, no. Non è normativa, è descrittiva. Oppure sono normative ma
pretendono solo di darvi dei principi soggettivi, empirici, cioè delle regole delle abilità per come
raggiungere un fine dato, e allora sono delle economiche, non delle etiche. Non è l’economia la
scienza che mi dice quali sono i mezzi utili per raggiungere il fine dato? È l’economia, che sia
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economia finanziaria o che sia economia domestica, è l’economia quella scienza che è capace di
dare una teoria dei mezzi utili per raggiungere un fine dato. Sono delle economiche e l’Etica
Nicomachea di Aristotele, da questo punto di vista, è un’economica: mi dice, posto che gli uomini
un’economica e non è un caso che l’utilitarismo sia l’etica che è nata nel cuore del liberalismo
politico, che è connesso in modo inscindibile con il liberismo economico. È un’economia, mi dice
per raggiungere il fine “il massimo della felicità per il maggior numero possibile” come devo fare.
O tutte quelle etiche, prendete per esempio quel periodo chiamato ellenismo, l’etica stoica, l’etica
epicurea, eccetera, che consistono in un calcolo dei piaceri. Quali sono i piaceri da scegliere, quali
da evitare? Sono delle economiche, non sono delle etiche. Come vedete la questione è radicale.
esempio quelle meccaniche) solo se sono (ri)conosciute realmente a priori, o almeno (come
accade con quelle chimiche) se si ammette che sarebbero conosciute a priori, sulla base di
ragioni oggettive se discernessimo più in profondità. Però per i principi pratici meramente
condizioni soggettive dell’arbitrio; e quindi che possano essere presenti sempre soltanto come
mere massime, e non mai come leggi pratiche. Quest’ultima osservazione a prima vista pare
che possa mai essere presa in considerazione nel corso di ricerche pratiche”. L’etica fondata su
principi puri della ragione o una raccolta di regole dell’abilità di massime consigliate. Badate, dice
nelle righe immediatamente precedenti, noi ci comportiamo sempre secondo una massima quando
ci comportiamo in modo volontario., Ed è sempre il soggetto che si rappresenta che cosa fare, come
agire, e di conseguenza agisce. Dunque, è sempre mediante una massima che noi determiniamo la
nostra volontà soggettivamente. Il punto è se questa massima è conforme alla legge o se non è
conforme alla legge, questa è la questione morale. Non confondete la differenza tra l’azione morale
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e l’azione moralmente estranea: non è che una è secondo la legge e una secondo una massima, tutte
e due sono secondo una massima, ma la questione è se la massima è corrispondente a una legge,
conforme a una legge o non è conforme a una legge. Ora se noi concludiamo che non è possibile
che la ragione pura da sé sola determini la volontà, allora tutti i principi pratici sono empirici e
quindi non sono leggi, e quindi la massima non potrà per principio mai essere conforme a una
legge, perché non ci sono leggi. Ancora una volta insisto su quello che Kant dice.
Siamo al terzo Teorema. Se voi scorrete le pagine, vedete, è molto più articolato degli altri.
Come al solito il teorema va alla tesi: esposizione della tesi in ipotesi e la dimostrazione e infine la
“Se un ente razionale deve pensare le proprie massime come leggi pratiche universali,
può pensarle solo come principi tali da non contenere il motivo determinante della volontà
secondo la materia, ma unicamente secondo la forma”, questa è la tesi del teorema. Adesso
entriamo a vederne il significato, ma non è difficile. In astratto non è difficile, prima però vi faccio
notare che qui avviene un cambiamento netto, molto evidente. A differenza dei primi due teoremi
questo teorema dice come è il principio pratico oggettivo a priori che ha valore di legge. Gli altri
due dicevano che tutti i principi pratici sono empirici, e quindi non hanno valore di legge, e che tutti
i principi pratici materiali sono della stessa specie e quindi non hanno valore di legge. Quindi in
sostanza i primi due teoremi hanno un significato nel discorso negativo, escludono, dicono: quello
di cui parliamo non può essere il principio che andiamo cercando. I primi due teoremi sono la pars
destruens del discorso: cominciamo a dire cosa non può essere l’autentico principio pratico e poi,
una volta che abbiamo sbarazzato il campo dai principi pratici materiali, adesso passiamo alla pars
Il terzo e il quarto teorema dunque sono la pars construens. C’è proprio un cambiamento di
direzione del discorso. Il teorema dice che se un ente razionale deve pensare la propria massima
come legge, le proprie massime come leggi pratiche universali, siccome non può pensarle come
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principi materiali, per il primo e secondo teorema che l’hanno escluso, deve pensarle come
principio formale. Se non è un principio materiale deve essere un principio formale perché in un
principio c’è la materia cioè il contenuto, e c’è la forma del principio. Dunque, siccome i primi due
teoremi hanno dimostrato che si escludono i principi materiali, tolta la materia, se dobbiamo
pensare al principio della ragion pratica dobbiamo pensarlo come formale. Non è difficile capire
questa tesi. Una volta che abbiamo escluso la materia come principio se vogliamo trovare un
principio deve essere un principio fondato sulla forma. La prima dimostrazione è quella che vi ho
detto: se il principio della ragione pratica non può essere la materia, tolta la materia non resta che la
forma. Dunque, è dimostrato che se un soggetto deve trovare un principio della ragion pratica, che
abbia valore di legge, questo principio deve essere formale. Tolta la materia resta la forma. Se fosse
tutto qui, allora, sulla base di questo passo, preso da sé solo fuori dal contesto, non avrebbero tutti i
torti quelli che, come già vi avevo accennato, accusavano Kant di formalismo etico. Ho già
accennato al concetto trascendentale di forma, cioè che il concetto kantiano, della filosofia
trascendentale, di forma è tutt’altro che il concetto della forma vuota. Vi ricordate quella nota in cui
se la prendeva con un critico che volendo dire qualcosa aveva detto che lui non aveva inventato una
nuova morale ma solo una formula, e lui diceva “accidenti se è poco, dite a un matematico che ha
inventato una nuova formula e lo vedrete fare i salti di gioia”, perché la forma, o formula, la forma
non è semplicemente il vuoto che resta tolta la materia ma è l’origine di ogni contenuto. Vi facevo
l’esempio delle serie numeriche: ogni numero in sé non ha nessun significato, ha significato nel
contesto di una serie numerica, che cos’è il 5? Non lo so, che cos’è il 6? Niente, che cos’è il 6 nella
serie dei numeri naturali? È il sesto posto in quella serie. Che cos’è il 6 nei numeri pari? È il terzo
posto di quella serie, ma è la legge che determina la serie, che dà anche significato ai singoli valori
della serie, perché li genera. Tanto è vero che conoscendo la semplicissima formula della serie dei
numeri naturali io posso dire, con tutta tranquillità e assoluta certezza che io conosco tutti i numeri
naturali. Ma sono infiniti? Sì, sono infiniti ma io li conosco tutti perché li conosco a priori. Li
conosco a priori in quel concetto formale, in quella formula che determina in modo oggettivo,
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necessario, universale tutta la serie infinita dei numeri naturali. Quindi vedete la forma non è affatto
la vuota forma, è la forma che è origine di ogni contenuto: è questo il senso di quella definizione di
trascendentale che vi ho già citato. Qui però la dimostrazione, appunto, ricorre a un concetto
elementare, e anche povero, di forma. “La materia di un principio pratico è l’oggetto della
volontà. Quest’ultimo è il motivo determinante della volontà stessa, oppure no. Qualora fosse
il suo motivo determinante, la regola della volontà sarebbe subordinata a una condizione
dispiacere), e di conseguenza non sarebbe una legge pratica”. È la ripetizione del primo
teorema. “Ora, se da una legge si stacca tutta la materia, ossia ogni oggetto della volontà (come
motivo determinante), della stessa legge non rimane che la mera forma di una legislazione
universale”. Questa è la dimostrazione, e poi conclude riprendendo la tesi, ergo, qui è proprio
l’ergo scolastico della conclusione di un teorema: “un ente razionale non può pensare affatto
come legge universali i propri principi pratici soggettivi, ossia massime, oppure deve
ammettere che la loro mera forma, per la quale essi si attagliano alla legislazione universale,
ed essa soltanto, faccia di essi la legge pratica”. Lascia un po’ insoddisfatti questa dimostrazione,
l’ho già detto, però bisogna prenderla com’è, un punto di partenza. Povera, ma è una dimostrazione
e quindi il teorema è dimostrato. Dunque, il principio con valore di legge che determina la volontà
deve essere un principio formale, cioè deve essere costituito dalla sola forma della legge,
indipendentemente da ogni materia. Fino a qui ci siamo arrivati, ma che cosa voglia dire credo che
resti ancora oscuro. Cosa vuol dire “una legge che è un imperativo”, quindi che comanda, e che
comanda solo una forma e nessun contenuto? Dice “tu devi”, cosa? Niente, perché se dico cosa, do
un contenuto. è chiaro che poi devo riempire con dei contenuti, ma negli stadi successivi come vi
dicevo, nella Metafisica dei costumi, nella Antropologia pragmatica. Ma il principio fondante,
quella che Kant chiamerà tra poche pagine la legge fondamentale della ragione pura pratica, è
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devi” ma nulla, non comanda nulla. Questo non è tanto chiaro ma siamo qui per lavorare per
chiarirlo.
Prima nota. Partiamo dal teorema, il principio che andiamo cercando deve essere puramente
formale. La nota riflette su questo. “Quale forma, nella massima, si attagli alla legislazione
universale, e quale no, lo può distinguere l’intelletto più comune, senza bisogno di istruzione
alcuna”. Questa è una frase che Kant usa spessissimo. L’avevamo già trovata, proprio in quella
nota in cui se la pigliava con quel critico che diceva che lui non aveva inventato nessuna nuova
morale, e lui diceva “vorrei vedere, che bisogno c’è di inventare una nuova morale, che cosa deve
dire una morale lo sanno tutti”. “Tutti sanno”, “il senso comune sa”. Perché Kant spesso ripete
questo punto? Questo punto è importante: la filosofia non è una disciplina che va a scoprire delle
sapienze ignote per cui solo pochi, gli iniziati, vengono introdotti in questa sapienza esoterica che il
senso comune, cioè il comune pensare, la comune opinione della gente, non conosce. Nel modo più
assoluto. Ma non solo in campo pratico ma in generale. La filosofia, ve l’avevo già detto è un
pensiero riflettente, è un pensiero che riflette sul già noto. E allora è inutile? Non è inutile perché la
filosofia, che è filosofia critica e trascendentale, riflette sul già noto per darne la fondazione, per
darne la giustificazione. Ciò su cui riflettere è già noto, ma perché sia così questo non è già noto. La
filosofia è quel sapere riflettente che dice di ciò che tutti sanno perché è così, che ne dà la
giustificazione razionale e a priori. Questo “tutti sanno” è quello che Kant, secondo un uso diffuso
nel suo tempo, chiama il senso comune, che non è il senso comune degli stoici, che ha tutt’altro
significato. Senso comune vuol dire proprio ciò che la gente pensa e, come dice qui, anche senza
nessuna istruzione, ciò che la gente normalmente pensa. Questo riferimento al senso comune era
stato un riferimento di fondamentale importanza, prima ancora che per Kant, per altri, per esempio
per Mendelssohn. Mendelssohn dice e ripete che la fonte della filosofia è il senso comune. Kant,
che su altre cose si scontra con Mendelssohn, su questa, e su altre cose lo ammira. In un saggio Sul
sano intelletto comune, Kant, partendo da un confronto con Mendelssohn dice: sono d’accordo, alla
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fine il metro di paragone di ciò che diciamo noi filosofi è il sano intelletto comune, però vedete ci
aggiunge “sano”, il “sano intelletto comune”. “Intelletto comune” d’accordo, “sano intelletto
comune”. Intanto non parliamo più di senso comune ma di intelletto comune e poi di sano intelletto
comune. “Sano” non ha un significato clinico. Allora Kant approfondisce, che cos’è questo “sano
intelletto comune”? Alla fine, il sano intelletto comune è la ragione, è l’intelletto comune quando è
guidato dalla ragione, quindi non è esposto agli errori delle inclinazioni sensibili. Sicché questo
intelletto comune, questo senso comune, questo sano intelletto comune non è altro che la ragione
stessa, e allora queste formule, del tipo “tutti sanno”, “qualunque persona sa anche se non istruita”
equivalgono a dire, a esprimere, quello che è un grande insegnamento di Kant, profondo, ma non
solo di Kant, di tutto l’illuminismo, e cioè che la ragione è patrimonio di tutti. Tutti possiedono la
ragione e sono capaci di esercitarla. Dire che tutti hanno la ragione e sono in grado di esercitarla
non significa dire che tutti la esercitano. Tutti sanno cosa è bene e cosa è male, e tutti sanno quale
forma della massima si attagli alla legislazione universale, non c’è bisogno che venga la filosofia a
dirlo, lo sanno già. Ripeto, il ruolo della filosofia non è quello di inventare, cioè di scoprire sapienze
ma è quello di dare la giustificazione di ciò che si sa. Ora in questa nota ciò che tutti sanno, per
ignoranti che siano, anche se nessuno gli ha mai fatto lezioni di etica, è quale forma di una massima
– cioè di una regola soggettiva, di una rappresentazione secondo la quale io determino la mia
“Per esempio ho adottato la massima di accrescere il mio patrimonio con ogni mezzo
sicuro”. Una massima non del tutto inverosimile, posso essere una persona che si dice “io nella
vita voglio diventare ricco il più possibile, e ricco con ogni mezzo sicuro, cioè senza finire in
prigione senza finire ammazzato, con ogni mezzo sicuro”, questa è la massima della mia vita. “Ora
ho in mano un deposito il cui proprietario è morto, senza lasciare nessuno scritto in merito. È
naturalmente un caso che ricade sotto la mia massima. Ora voglio solo sapere se quella
massima possa vigere anche come legge pratica universale”. Dunque, è successo questo:
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qualcuno mi ha lasciato un deposito, deposito vuol dire un bene che mi ha lasciato, “ti lascio il mio
portafogli, tu me lo tieni perché vado a fare ginnastica e quando torno me lo dai”. È un deposito,
non è un regalo, va a fare ginnastica e gli piglia un accidente. Fatto sta che lui non torna a prendere
il suo portafogli, io mi trovo col suo portafogli in mano, me lo ha lasciato, lui non c’è più, è morto,
non c’è nessuno scritto che attesti che io ho il suo portafogli quindi nessuno potrà mai sapere né
provare che io ho il suo portafogli, la massima che mi sono dato è di arricchirmi il più possibile con
ogni mezzo sicuro, tenermi il portafogli significa certamente arricchirmi, il mezzo non importa, il
mio mezzo è sicuro perché nessuno potrà saperlo, dunque, mi tengo il portafogli. Adesso però mi
chiedo se questo massima è conforme, usa il termine conforme perché dentro c’è il termine forma,
alla legge morale. Secondo voi si comporta bene a fare così? Cioè in generale, dal punto di vista
morale, spero che pensiate di no. Ma perché ognuno vede, è ovvio, che questa massima del
comportamento non è conforme alla legge morale? Perché? Questo il senso comune non lo sa. Sa
che non è la cosa buona, sa che non è conforme alla legge morale, ma perché non è conforme alla
legge morale? Questo glielo deve spiegare il filosofo. Nello spiegarlo faccio vedere che non
riguarda il contenuto della sua azione ma la forma della sua azione. Perché? “Dunque applico
questa massima al caso presente, mi chiedo se potrebbe assumere la forma di una legge, e se
quindi con la mia massima io potrei insieme stabilire una legge siffatta”. Perché dire che la mia
massima è conforme alla legge vuol dire che penso la mia massima e penso che possa avere valore
di legge, quindi da “io mi propongo di tenermi quel deposito”, alla legge: è necessariamente e
universalmente valido il principio che ognuno si tiene i depositi che gli vengono lasciati. Questo
vuol dire essere conforme alla legge, vuol dire che può avere la forma di una legge.
“Subito mi accorgo che tale principio, come legge, distruggerebbe se stesso, poiché
farebbe sì che non ci fosse nessun deposito affatto”. Subito mi accorgo che quella massima non
può essere innalzata a legge, quindi non è conforme alla legge, perché se fosse innalzata a legge
distruggerebbe l’oggetto di cui si occupa, cioè il deposito. Non ci sarebbero più depositi. Badate,
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non ci sarebbero più depositi non perché gli altri sapendo quello che ho fatto faranno bene
attenzione a non lasciarmi più nessun bene, uno perché questo riguarderebbe soltanto me, due
perché non lo sanno quello che ho fatto, ma per una questione formale. Che cos’è un deposito? È un
bene affidato a qualcuno per essere restituito sotto richiesta, questo è il concetto di deposito che lo
distingue da dono o regalo. Allora proviamo a pensare come legge, cioè come proposizione di
valore oggettivo, universale e necessario questa proposizione: “i depositi non vanno restituiti, non
devono essere restituiti”. Provate a sostituire al soggetto, cioè al termine deposito, la sua definizione
e la legge diventa: “i beni che vengono affidati a qualcuno per essere restituiti non devono essere
restituiti”. È contraddittorio. Il predicato nega il soggetto, annulla il concetto del soggetto. Se i beni
che vengono affidati a qualcuno per essere restituiti non devono essere restituiti allora non sono
beni affidati a qualcuno per essere restituiti, dunque, non stiamo parlando del deposito. Vedete che è
evidente che quella massima non può essere elevata a valore di legge non per un motivo materiale,
per il suo contenuto, ma per la sua forma, perché è contraddittoria. Ora che una massima
contraddica un’altra massima questo è possibile, Kant l’ha detto all’inizio della prima nota, ma una
legge non può contraddire un’altra legge e una massima non può contraddire una legge. Dunque, è
per una questione formale, non materiale, che quella massima non può essere una legge morale e
non può essere conforme, cioè non può avere la forma di una legge morale. Mi sembra che
“Quindi sorprende come, poiché sono universali la brama di felicità, e dunque anche la
massima con cui ciascuno fa di essa il motivo determinante della propria volontà, uomini
assennati abbiano potuto credere di poterla perciò spacciare per una legge pratica universale.
Infatti, mentre altrove una legge universale della natura mette tutti d’accordo, qui, se si
volesse conferire alla massima l’universalità di una legge, avrebbe luogo proprio l’estremo
della sua finalità”. Qui aggiunge un ulteriore argomento sul discorso riguardo la felicità. La felicità
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non può essere il principio della volontà morale perché produce contraddizioni. Questo argomento
l’ha introdotto qui perché abbiamo introdotto il discorso sulla forma, sull’aspetto formale del
Contraddizione che in campo pratico significa conflitto. Credo di averlo già detto, la negazione
pratica non è come la negazione logica ma piuttosto è analoga a quella fisica. L’opposto di A nel
piano logico è non-A, ma sul piano pratico è un B che si oppone ad A perché pretende di essere A.
Così come una forza si oppone all’altra perché esercita un effetto contrario a quello dell’altra forza.
Dunque, la contraddizione logica è una semplice negazione, la contraddizione pratica, come quella
fisica, è una reale opposizione. Ora, il principio di felicità produce una contraddizione che in campo
pratico significa una opposizione, un conflitto. Perché questo è un argomento? Perché prima Kant
dice, le leggi invece sono sempre, sono per definizione, necessariamente, principi di ordine. La
legge è sempre un principio che determina i fenomeni, se si tratta di una legge della natura, o le
azioni se si tratta di una legge pratica, per dare un ordine regolato alla conoscenza sia di una che
delle altre. La legge è per sua forma, per sua natura formale, cioè è per sua definizione un principio
di ordine e quindi di armonia, mentre il principio della felicità, se fosse innalzato a principio
legge, alla forma di legge, non al contenuto. Qualunque siano i contenuti delle leggi le leggi sono
principi di ordine, di determinazione ordinata e quindi armonica. “Infatti la volontà di tutti non
ha allora un identico oggetto, ma ciascuno ha il suo proprio (il proprio benessere)” la propria
felicità, l’amore di sé “che, accidentalmente, può bensì conciliarsi con le finalità di altri”.
Perfino una banda di malfattori può andare d’accordo per costituire una banda, perché
accidentalmente i loro interessi concordano e quindi agiscono insieme per fare un colpo alla banca,
per esempio. Quando dovranno poi spartirsi il bottino litigheranno, perché gli interessi divergono.
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“Ma non è affatto sufficiente perché abbia luogo la legge, poiché le eccezioni che si
venire sussunte a una regola universale. In tal caso si produce un’armonia” accidentale
empirica “che è simile a quella concordia che una certa satira dipinge a proposito di due
coniugi che si distruggono reciprocamente: «O mirabile armonia: quel ch’ei vuole, vuole
anch’ella», eccetera, o a ciò che si narra dell’impegno assuntosi dal re Francesco I contro
l’imperatore Carlo V: quello che vuole mio fratello Carlo (Milano), lo voglio avere anch’io”.
Questo è un aneddoto storico, nonostante fossero cugini, ma fratelli in senso lato. È un episodio
noto in cui Francesco I dice “quel che vuole Carlo voglio anch’io”, ma stavano facendo una guerra
per quello. Perché ambedue volevano il ducato di Milano. Che armonia è: siamo concordi,
vogliamo la stessa cosa, per questo appunto stiamo facendo la guerra. Oppure, questo è il verso di
una commedia: due coniugi che litigano come gatti: “Mirabile armonia quel ch’ei vuole, vuole
anch’ella”. È per quello che litigano, perché vogliono la stessa cosa. Dunque, l’accordo
sull’oggetto, l’accordo sul contenuto materiale della massima non è in nessun modo garanzia di
ordine, di armonia, talvolta addirittura può essere proprio esso la fonte del conflitto, perché
l’armonia e l’ordine sono determinati dalla forma della legge e non dall’accordo sul contenuto.
Creare conflitto è qualcosa di un principio che non è una legge, che non può essere una legge,
perché la legge, e vedete che qui interviene il concetto di forma, la legge dal punto di vista formale
legislazione universale esterna, ma neanche interna; infatti, uno pone a fondamento della
propria inclinazione il suo soggetto, ma un altro un altro soggetto, e persino in ogni singolo
soggetto influisce prevalentemente ora l’una, ora l’altra inclinazione. Trovare una legge che le
impossibile”.
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Vedete che il testo continua con problema primo. Perché ci sia un problema, come dovreste
avere imparato dei vostri studi precedenti, ci vogliono tre condizioni, se manca anche una sola di
queste condizioni non c’è un problema. Ci vogliono uno o più dati, se non ci sono dei dati o anche
un solo dato da cui partire non c’è, non si può impostare un problema, uno o più quesiti, domande, e
se non ci sono quesiti non c’è un problema, e una o più soluzioni, se non ci sono soluzioni possibili
non c’è un problema. Un problema è un procedimento che per definizione ha delle soluzioni.
Quindi anche nei problemi che qui ci presenta Kant voi troverete sempre questa struttura.
Innanzitutto, l’esposizione del dato o dei dati, poi il quesito o i quesiti e alla fine la soluzione le
soluzioni, in questo caso le soluzioni. Questa è la struttura del problema, così come abbiamo visto la
struttura del teorema. C’è una struttura del problema. “Supposto che la mera forma legislativa
delle massime soltanto sia il motivo determinante sufficiente di una volontà, trovare come sia
fatta una volontà tale da poter essere determinata solo da essa”, cioè dalla forma legislativa
della massima. Come vedete c’è un dato, quel “supposto” introduce un dato, noi diamo, assumiamo
come dato che la sola forma legislativa delle massime sia il motivo determinante sufficiente di una
volontà. Perché questo possiamo assumerlo come dato? Perché lo abbiamo dimostrato nel teorema,
dunque, è dato perché è dimostrato. Questo è vero per la dimostrazione nel teorema terzo,
d’accordo. Adesso viene il quesito: assumiamo che la sola forma della legge determina la volontà,
quesito: come deve essere questa volontà? Quindi qui c’è un dato e c’è un quesito, e adesso il
problema può svolgersi sino ad arrivare alla sua soluzione. “Poiché la mera forma della legge può
venire rappresentata esclusivamente dalla ragione, e quindi non è oggetto dei sensi, dunque
determinante della volontà è distinta da tutti i motivi determinanti degli eventi che, nella
natura, seguono la legge di causalità, poiché in quest’ultimo caso gli stessi motivi determinanti
volontà può fungere da legge per essa, tranne quella forma legislativa universale, una volontà
siffatta deve essere necessariamente pensata come interamente indipendente dalla legge
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naturale dei fenomeni, ossia dalla legge della causalità degli uni rispetto agli altri. Ma
un’indipendenza siffatta si chiama libertà nel senso più rigoroso, ossia trascendentale”. E qua
sta la soluzione: dunque una volontà per cui la mera forma legislativa della massima soltanto possa
fungere da legge è una volontà libera. Il percorso per la soluzione è lineare, semplice. Assunto il
dato che la volontà che stiamo cercando, di cui stiamo cercando la caratteristica, è determinata solo
dalla forma della legge, poiché la forma della legge, essendo forma, non può essere un fenomeno –
perché un fenomeno è sempre un dato della sensibilità, quindi un oggetto della conoscenza – allora
vuol dire che nemmeno la volontà è determinata da fenomeni e quindi che non è determinata
secondo quella legge della determinazione dei fenomeni che è la legge della causalità naturale, della
causalità necessaria. Dunque, questa volontà di cui stiamo parlando è una volontà che non è in
nessun modo determinata da necessità fenomenica, quindi che è incondizionata, cioè che non ha
libero, è il significato della libertà, nel suo significato trascendentale, come avevamo visto nella
Critica della Ragion pura. Vi ricordate la terza antinomia? La tesi diceva vi è una causa libera del
mondo, vi è una causa libera. Cosa vuol dire? Che vi è una causa che non sta nella catena delle
cause e degli effetti, quindi una causa incondizionata. Dunque, se assumiamo il dato di una volontà
che sia determinata solo dalla forma della legge questa volontà è libera. Rispiego il procedimento:
se noi assumiamo il dato di una volontà che sia determinata solo dalla forma della legge, la forma
della legge non è un fenomeno, non è un oggetto dell’esperienza possibile, cioè della conoscenza
della natura. Allora vuol dire che questa volontà è determinata da qualcosa che non è un fenomeno.
Ora una volontà che sia determinata ma non dalla causalità necessaria, dalla causalità naturale è
significato trascendentale di libero, dunque, la soluzione è che quella volontà che sia determinata
solo dalla forma della legge è una volontà libera. Proviamo a rileggerlo “Poiché la mera forma
della legge può venire rappresentata esclusivamente dalla ragione, e quindi non è oggetto dei
che, nella natura, seguono la legge di causalità, poiché in quest’ultimo caso gli stessi motivi
determinante della volontà può fungere da legge per essa, tranne quella forma legislativa
universale, una volontà siffatta deve essere necessariamente pensata come interamente
indipendente dalla legge naturale dei fenomeni, ossia dalla legge della causalità degli uni
rispetto agli altri. Ma un’indipendenza siffatta si chiama libertà nel senso più rigoroso, ossia
trascendentale. Dunque una volontà per cui la mera forma legislativa della massima soltanto
Adesso vediamo il secondo problema. “Supposto che una volontà sia libera, trovare la
legge la quale soltanto sia atta a determinarla necessariamente”. Il dato è una volontà libera.
Perché possiamo assumerlo come dato? Perché l’abbiamo dimostrato nel problema precedente,
meglio l’abbiamo trovato nel problema precedente, come soluzione del problema precedente e
adesso lo introduciamo come dato, non come soluzione ma come dato nel secondo problema.
“Supposto che una volontà sia libera,” quesito: “trovare la legge la quale soltanto sia atta a
legge che determina necessariamente una volontà libera? “Poiché la materia della legge pratica,
ossia un oggetto della massima, non può mai essere dato se non empiricamente,” primo
quel “necessariamente” io lo toglierei perché in tedesco non c’è, c’è muß ma è molto equivoco
perché non vuol dire che deve essere determinabile in modo necessario ma che bisogna che sia
volontà libera deve essere determinabile, una volontà libera deve incontrare –
purtuttavia. Ma, oltre alla materia della legge, in quest’ultima non è insito altro che la forma
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legislativa.”, terzo teorema, “Dunque la forma legislativa, in quanto è contenuta nella massima,
è l’unica cosa che possa costituire un motivo determinante della volontà.” E questa è la
soluzione. Il dato: data una volontà libera. Come deve essere la legge che la determina? Formale,
deve essere la mera forma della legge. Questo perché? Questo è il percorso che fa: se la volontà è
libera non può essere determinata da nessuna materia del volere, perché ogni oggetto del volere è
fenomenico, è sottoposto alla causalità necessaria. Se la volontà è libera non può essere determinata
dalla materia del volere, ma se non è determinata dalla materia non resta che la forma: dunque, una
volontà libera non può essere determinata da altro che dalla forma della legge. Anche questo è
C’è un rapporto curioso tra il primo e secondo problema. Questi due problemi sono uno
reciproco dell’altro: in uno si dice “data la sola forma della legge come deve essere la volontà che
ne è determinata? Libera”, l’altro vi dice “data una volontà libera come deve essere la legge che la
determina? La sola forma della legge”. Sono reciproci dal punto di vista della struttura formale e
proprio così, sono due problemi perfettamente reciproci. Perché Kant a questo punto del discorso
inserisce questi due problemi? Perché questi due e perché hanno questa strana parentela di
reciprocità? A che cosa servono nel discorso, al lavoro filosofico che stiamo facendo? Servono,
sono molto utili, sono un passaggio importantissimo, ma bisogna capire perché, in che cosa consiste
questo passaggio. Perché in questi due problemi, che sono reciproci e in cui intervengono in ruoli
differenti sempre le stesse tesi, non intervengono proprio le stesse affermazioni. In parte sono le
stesse, in parte sono molto simili, ma non sono proprio identiche perché nel percorso attraverso
questi due problemi qualcosa si è sviluppato, qualche significato si è sviluppato. Questi problemi
hanno questa importanza: di avere sviluppato questo significato. Il significato che hanno sviluppato
Vedete, nel primo problema la volontà libera, che interviene come soluzione del problema,
interviene esplicitamente nel senso della libertà trascendentale, come dice lo stesso Kant, cioè della
libertà come incondizionatezza. Lo dice proprio nel problema e fa parte proprio della risoluzione
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del problema. La volontà deve essere libera perché non è condizionata da altro, questo è
naturalmente un significato importante della libertà ed è quello a cui si giunge nel primo problema.
Ma nel secondo problema già il quesito implica un passo avanti, perché già il quesito mi chiede da
quale tipo di legge deve essere determinata la volontà libera. La soluzione mi dice che la volontà
libera deve essere determinata dalla sola forma della legge. Ma allora qui libera è nel senso di
determinata dalla forma della legge, non di indeterminata, incondizionata. Il primo problema mi
secondo problema mi permette di arrivare al concetto di volontà libera come determinata dalla
forma della legge. È vero che questo “determinato” dalla forma della legge è già assunto come dato
nel primo problema, ma non era ancora maturato come soluzione di un problema. Sì, è una piccola
differenza ma importantissima. Tutti e due questi significati sono autenticamente significati della
libertà.
Libertà significa incondizionatezza, non possiamo dire che una volontà è libera, in generale
non possiamo dire che qualcosa è libero se non nel senso che non è condizionato da altro perché se
autentico di libertà, non solo autentico, ma irrinunciabile, se libero non vuol dire incondizionato
allora non vuol dire niente. Ciò che non è incondizionato non può essere libero. Fissato questo è
anche vero che incondizionato non è l’unico significato di libero. Mentre nel primo problema la
determinazione. Volontà libera è quella determinata dalla forma della legge, non indeterminata,
incondizionata. Certo incondizionata da altro ma condizionata, anzi determinata dalla forma della
legge. È chiara la differenza, lo scarto fra questi due significati? Tutti e due, anche il secondo è un
significato importante della libertà senza il quale non si può pienamente parlare di libertà, però non
sono lo stesso identico significato. Libertà significa incondizionatezza, ma libertà significa anche,
ma non voglio dirvi la parola che verrà introdotta nel quarto teorema, ma insomma significa essere
determinati da null’altro che dalla forma della legge. Vi dicevo prima la libertà come
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incondizionatezza è un concetto della libertà come principio di indeterminazione, il concetto di
libertà come determinazione mediante la forma della legge è un principio della libertà come
principio di determinazione.
Parlare della libertà come incondizionatezza vuol dire sottrarre il concetto di ente libero alla
necessità della causalità naturale, ma parlare della libertà come determinazione secondo la forma
della legge vuol dire parlare della libertà come causalità libera: cioè la libertà non è solo il sottrarsi
alla causalità necessaria ma e anche un’altra forma di causalità, una forma diversa di causalità.
Capite l’importanza di questo passaggio? Dunque, o noi possiamo parlare della libertà nel
significato di una causalità libera, e allora possiamo spiegare la causa di quella azione mediante una
causalità che non è quella naturale, quella necessaria, ma è un’altra differente, incomparabile,
oppure non ci serve a niente la libertà come incondizionatezza per spiegare un’azione. Dunque, ciò
che è interessante è il concetto di libertà. “La libertà è la chiave di volta dell’intero sistema della
ragione”, ricordate? Ma la libertà nel suo significato pieno di incondizionatezza e di causalità libera,
cioè riconoscere che nell’ambito della conoscenza razionale – guardate che questo è importante non
dimenticarlo, Kant pretende e assolutamente non sarebbe disposto a far altro, una filosofia
giustificata secondo ragione – come quella trascendentale, noi per parlare di etica, per parlare della
funzione pratica della ragione, dobbiamo poter dare un senso, razionalmente giustificato, all’idea di
libertà non solo come incondizionatezza ma come causalità libera. Detto nel linguaggio comune,
dobbiamo poter riconoscere razionalmente che nella realtà, non nella dimensione naturale della
realtà cioè la dimensione fenomenica della realtà, ma in quella dimensione intelligibile che è quella
morale, sono possibili delle cause che spontaneamente producono degli effetti. Spontaneamente
vuol dire liberamente e significa che producono degli effetti senza a loro volta essere effetti di altre
cause, quello che nella tesi della terza antinomia era la causa prima del mondo. Dobbiamo poter
realtà di una causalità libera, che come vi dicevo altre volte non spiega la realtà nella sua
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dimensione fenomenica, perché per conoscere i fenomeni noi non abbiamo altra via che la causalità
mediante una causa libera sarebbe un pessimo fisico, non può farlo. Sarebbe un uso illegittimo dei
principi puri dell’intelletto, come aveva dimostrato la Critica della Ragion pura. Nella dimensione
intelligibile della realtà – e già vi ho detto che diritto abbiamo di affermare che c’è una dimensione
intelligibile della realtà, che diritto abbiamo di affermare che la realtà non si riduce tutta alla sua
dimensione sensibile cioè fenomenica: noi siamo questo diritto. Il fatto è che ci siamo noi. Il fatto di
quella questione che se il giudice mi chiede del perché hai sparato a quello là e io gli do una
spiegazione esauriente sul piano fenomenico il giudice mi dice “non mi basta, non è questo che ti
chiedevo non è questo che mi interessa, e non è che il giudice sia folle, il giudice lo dice per
un’esigenza rigorosamente razionale, “io voglio capire le tue responsabilità in quell’atto, non la
catena delle cause fenomeniche che ti hanno portato a quell’atto”, e per capire le tue responsabilità
devo riuscire a capire come quell’atto sia scaturito da una causa libera, cioè dalla tua volontà.
Perché se non potesse essere così, se non avesse senso razionale questa mia pretesa, allora non
avrebbe senso che io sia qui a fare il giudice, non avrebbe senso giudicare le azioni, gli atti, non ci
sarebbe né bene né male, non ci sarebbe nessuna responsabilità. Dunque, noi abbiamo tutte le
fondate ragioni per poter riconoscere, anzi per dover riconoscere che la piena conoscenza della
realtà è costituita dalla conoscenza della sua dimensione fenomenica, mediante la causalità
necessaria, insieme alla sua dimensione noumenica, intelligibile: mediante la causalità libera.
Ora questi due problemi, esattamente nella loro sequenza ci hanno permesso di fare questo
passaggio, perché sinora si era parlato di volontà come facoltà di desiderare mentre di libertà non si
era ancora parlato. Si introduce il passaggio dal significato, che peraltro mantiene perché valido,
della libertà come incondizionatezza al significato della libertà come causalità libera, cioè come
principio di determinazione causale, differente però dalla causalità naturale che è invece necessaria.
Attraverso questi due problemi abbiamo fatto questo lavoro. questi due problemi ci hanno permesso
di fare un percorso, nel nostro lavoro filosofico, di introduzione del concetto di libertà e di
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definizione dei suoi due significati: la libertà come incondizionatezza e la libertà come principio di
Adesso voglio ancora fermarmi a chiarire due punti. Uno è che ho parlato di volontà e
spesso intenzionalmente nel mio discorso avrete sentito volontà e azione come due termini
accostati, quasi a suggerire che fossero sinonimi. Bene non era quasi a suggerire che fossero
sinonimi, sono sinonimi, dal punto di vista filosofico. Dire volontà e dire azione è dire la stessa
cosa, perché una volontà che non sia azione sarebbe una volontà che non vuole nulla, sarebbe una
velleità. Dire una volontà vuota di oggetto o una volontà che non è azione è la stessa cosa. Dunque,
volontà è azione, azione è volontà, perché un’azione che non sia volontaria non è un’azione, questo
vi può sembrare più oscuro ma non è oscuro, è chiarissimo, solo che vi è reso oscuro da un
equivoco del linguaggio comune che confonde la parola azione con la parola atto, e li tratta come
sinonimi, le azioni e gli atti. Invece non sono sinonimi. L’azione è la volontà, che poi si traduce o
non si traduce, si può tradurre in atti. Quando io vi dicevo una volontà che non è azione non è una
volontà intendevo appunto quello che dicevo, e non una volontà che non si traduce in atti non è una
volontà, perché questo è sbagliato. Qui, nel lavoro che stiamo facendo piano piano, Kant sta
facendo anche la distinzione, di cui già vi avevo dato annuncio, tra il significato proprio e rigoroso
solo la volontà pura, cioè la volontà determinata unicamente dalla ragione pura è volontà. La
volontà empiricamente determinata è facoltà di desiderare, “brama”, usa anche il termine brama, ma
non è propriamente la volontà. Sempre, nell’ente razionale finito la volontà si trova in un conflitto
tra il comando della legge morale e le inclinazioni del desiderio sensibile. Solo l’ente razionale
infinito, poiché la sua volontà è immediatamente identica con la legge morale e non è limitato dalla
Il secondo punto su cui volevo soffermarmi, perché è molto importante prima di andare
avanti nella lettura del testo, è ancora una volta su questi due significati di libertà. Finora abbiamo
descritto: libertà come incondizionatezza e libertà come causalità libera, principio di determinazione
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causale differente da quello necessario. Questi due significati, la loro distinzione e anche la loro
complementarità sono patrimonio di tutta la tradizione del pensiero filosofico, sin dall’antichità.
Sempre si è visto che libero significa sia una cosa sia l’altra. Addirittura, già Agostino
avevano dato dei nomi a queste due forme, a questi due significati: la chiamavano l’una libertas
minor e l’altra libertas maior, la libertà minore e la libertà maggiore, per intendere quello che
dicevamo. Adesso un po’ mi soffermo, certamente alla libertà non si può dare un significato
accettabile, all’idea di libertà, se non come incondizionatezza, perché se uno è costretto non è
libero, insomma è ovvio. Ma anche se uno non è necessitato ma fortemente condizionato non è
linguaggio tradizionale chiama la libertà anche arbitrio. L’arbitro è appunto quella facoltà di
scegliere, ma perché ci sia una facoltà di scegliere bisogna che io sia libero di scegliere, non solo:
bisogna che ci siano diverse possibilità tra cui scegliere. Questa è una condizione necessaria, perché
se non ci sono diverse possibilità tra cui scegliere non posso scegliere, non si pone la questione
della scelta. Però al di là di questo bisogna anche che io sia libero di scegliere, perché se non sono
libero di scegliere non c’è la libertà di scelta non c’è il libero arbitrio. Questo significato della
libertà come libero arbitrio è antichissimo, e Kant parlando della libertà in senso trascendentale di
Dunque, vedete la libertà come arbitrio, adesso possiamo dirlo, è la libertà come
incondizionatezza, ma da sempre si è capito che dire che uno è libero perché è incondizionato è
certamente qualcosa di sensato, perché se non è incondizionato non è libero, ma non esaurisce il
significato di libero, perché quando noi diciamo che un uomo è libero nel senso più pregnante del
termine, diciamo non solo che non è condizionato da altro ma anche che è un uomo pienamente
realizzato, è un uomo che realizza le sue capacità, è un uomo nella pienezza delle sue potenzialità,
questo è un uomo libero. Libero non è solo il non essere condizionato da altro ma essere sovrano di
se stesso e sovranamente realizzatore di se stesso. Questa è la libertas maior, questa è la libertà nel
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significato di essere causa delle proprie azioni, causa sovrana delle proprie azioni. Certo
indipendente, certo incondizionata, ma soprattutto che agisce e che realizza, o che agisce per
realizzare il significato di se stesso e del mondo intorno a sé. Questo è un altro significato di libertà,
non alternativo al primo ma che si aggiunge al primo e senza al quale il significato di libertà come
mero arbitrio è troppo povero. Non che non sia vero, ma non è completo. Vedete quando Kant qui
nei due problemi lavora sui due significati di libertà sta lavorando su una grande tradizione.
all’altra”. Questa affermazione iniziale è il risultato dei due problemi, si è mostrato che la legge
pratica incondizionata e la libertà si rinviano una all’altra. Se noi assumiamo una come dato
arriviamo all’altro e viceversa, quindi che ci sia una relazione reciproca tra libertà e legge morale è
assodato dai due problemi. “Ora qui non chiedo se siano diverse anche nella realtà effettiva, o
se invece una legge incondizionata non sia unicamente l’autocoscienza di una ragione pura
pratica, mentre quest’ultima si identifica interamente con il concetto positivo della libertà;
chiedo invece dove inizi la nostra conoscenza dell’incondizionatamente pratico, se dalla libertà
o dalla legge pratica”. Qui Kant chiarisce, all’inizio, qual è il tema di questa nota: accertato che c’è
un rapporto reciproco tra libertà e legge morale, non chiede se siano la stessa cosa o meno, dice che
non lo chiede perché si potrebbe chiedere, perché è una questione reale, è una questione consistente,
però qui non viene affrontata, qui invece viene affrontato un’altra questione: quale conosciamo per
prima? Se conosciamo prima la libertà o se conosciamo prima la legge morale. Questo è il tema,
non l’altro.
dalla legge pratica”. La risposta è immediata: “non può iniziare dalla libertà; infatti non ne
dei fenomeni, dunque il meccanismo della natura, che è esattamente il contrario della libertà”.
La nostra conoscenza non può incominciare dalla libertà perché noi non possiamo avere una
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conoscenza immediata della libertà in senso positivo, possiamo pensarla, ma solo nel suo significato
negativo di incondizionato, la libertà trascendentale di cui si parlava nel primo problema. Libero è
ciò che non è condizionato da altro, ma vedete che questa è una definizione negativa che definisce
la libertà per ciò che non è, non per ciò che è. D’altra parte non possiamo averne una conoscenza
immediata di tipo empirico perché la libertà non è un fenomeno. Questo è un principio a cui Kant
tiene sempre fermo. Non è dato il fenomeno della libertà. Lo abbiamo accennato quando dicevamo
che se un fisico o uno scienziato della natura spiegasse un qualunque evento mediante la libertà
uscirebbe dei limiti legittimi della sua conoscenza. Non è dato un fenomeno della libertà. Qui
l’argomento è semplice, è che noi possiamo pensare la libertà, pensare l’idea della libertà. L’idea
della libertà è una conoscenza immediata però solo nel suo significato negativo, che cosa non è.
Insomma, i due problemi che abbiamo visto ieri sono in quell’ordine ma non potrebbero essere
nell’ordine inverso, anche se sono reciproci. A parte che non possono essere nell’ordine inverso
perché il primo problema assume come dato la tesi del teorema, ma anche perché non può assumere
come dato la libertà dal momento che non è data, non è data la conoscenza della libertà in modo
positivo e immediato. Dunque, non possiamo conoscere la libertà per una forma di intuizione
intellettuale, non possiamo conoscere la libertà per un’esperienza empirica, dunque non possiamo
conoscere immediatamente la libertà. Infatti, questo è il risultato anche della Critica della Ragion
pura teoretica: la libertà è un’idea che possiamo pensare in modo problematico, ma questo pensiero
non lo possiamo riempire di un contenuto positivo di significato, almeno in sede teoretica. In sede
pratica vedremo che si può, ma non in modo immediato, quindi non possiamo muovere dalla libertà.
“È quindi della legge morale, che noi diventiamo immediatamente consapevoli (non
appena consideriamo massime della volontà), è la legge morale a presentarcisi per prima, e a
motivo determinante tale da non poter essere soverchiato da nessuna condizione sensibile, e
morale, e dalla legge morale conosciamo anche la libertà. Questo l’aveva già anticipato – vi
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ricordate in una nota dell’introduzione, su cui c’eravamo soffermati, quella formula che tutti
ricordano “che la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà”, è la legge morale quella
attraverso cui noi conosciamo la libertà, non viceversa. Quindi, dice Kant, noi conosciamo prima la
legge morale poi la libertà. Usa proprio la parola prima, non è una questione cronologica ma è una
questione di successione nel processo della conoscenza. Noi conosciamo prima la legge morale e
dalla legge morale conosciamo la libertà. Attenzione questa anteriorità della conoscenza della legge
morale rispetto alla conoscenza della libertà non significa però una maggiore originarietà della
legge morale rispetto alla libertà, perché invece, al contrario, noi sappiamo, e ne parlerà
diffusamente, che è piuttosto la libertà il fondamento della legge morale. È perché siamo liberi che
vale per noi una legge morale. Questo stava nell’altra parte di quella formula “la libertà è la ratio
essendi della legge morale”. Il principio che rende possibile la legge morale è la libertà, ma la legge
morale rende possibile la conoscenza della libertà. È un circolo, ma non è un circolo vizioso perché
sono due questioni differenti. Noi conosciamo la libertà a partire dalla legge morale ma la legge
morale si fonda sulla libertà, però siccome qui il tema è quale conosciamo prima, noi conosciamo
prima la legge morale. Il che vuole anche dire che noi la legge morale la conosciamo
immediatamente. Se prima abbiamo insistito sul fatto che la libertà non la possiamo conoscere
immediatamente.
“Ma come è possibile anche la coscienza di quella legge morale? Possiamo diventare
consapevoli di leggi pratiche pure proprio come siamo consapevoli di Principi teoretici puri,
prescindere da tutte le condizioni empiriche, come essa ci insegna”. E come mai noi possiamo
avere una conoscenza immediata della legge morale? Nello stesso modo in cui noi abbiamo in sede
teoretica una conoscenza immediata dei principi dell’intelletto, la legge morale non è altro che il
principio puro della volontà. Cioè sono tutti principi puri della ragione: gli uni della ragione nel suo
uso teoretico, gli altri della ragione nel suo uso pratico. Così come per i principi puri dell’intelletto,
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il principio di causalità per esempio: noi abbiamo una conoscenza immediata a priori, perché sono
principi puri che non dipendono dall’esperienza e non contengono nemmeno nessun elemento
empirico, ne abbiamo una conoscenza immediata perché la ragione ci dice che necessariamente per
conoscere dobbiamo applicare quei principi. Per conoscere in sede teoretica, cioè per determinare
l’oggetto dato, noi dobbiamo necessariamente determinarlo mediante i principi puri dell’intelletto: i
principi della quantità, della qualità, della relazione e della modalità. Questi sono i principi puri
della ragione in sede teoretica mediante i quali noi determiniamo un oggetto, quindi noi
possiamo giungere a una conoscenza certa, è evidente che noi lo facciamo applicando questi
principi puri che noi conosciamo immediatamente, a priori, perché sono i principi puri della
ragione. Sono la ragione in quanto principio di conoscenza teoretica. Analogamente, in sede pratica,
noi abbiamo una conoscenza pratica, cioè una volontà capace di determinarsi all’azione, in quanto
noi applichiamo il principio puro pratico, cioè la legge morale. Questo principio pratico è certo
immediatamente e non empiricamente perché è un principio puro e quindi a priori, e non solo non
“Il concetto di una volontà pura scaturisce dalle prime” (cioè dalle leggi pratiche),
“come la coscienza di un intelletto puro dagli ultimi” (dai principi teoretici). “Che questo sia il
vero ordine dei nostri concetti, e che l’eticità ci riveli per prima il concetto della libertà, e
dunque la ragione pratica sia la prima a proporre alla ragione speculativa, con questo
concetto, il problema per essa più insolubile, per metterla massimamente in imbarazzo, risulta
chiaramente già da questo: poiché il concetto della libertà non consente di spiegare nulla, nei
fenomeni, dove invece il filo conduttore deve essere sempre necessariamente costituito dal
meccanismo naturale, e per giunta l’antinomia” (fa riferimento alla terza antinomia nella
cosmologia nella dialettica trascendentale) “in cui incorre la ragione pura quando voglia risalire
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all’incondizionato nelle serie delle cause si involge, in entrambi i casi, in incomprensibilità,
mentre, tuttavia, la seconda alternativa (quella del meccanismo) può almeno essere usata per
spiegare i fenomeni – non si sarebbe mai corso il rischio di introdurre la libertà nella scienza,
se non vi fosse giunta la legge etica, e con essa la ragione pratica, imponendoci tale concetto”.
Dunque, è la ragione nel suo uso pratico che a partire dalla legge morale, cioè dal principio puro
pratico, ci dà una conoscenza, questa volta positiva, della libertà. Questa non è più una conoscenza
negativa, non ci dice più cosa la libertà non è ma cosa la libertà è: è: una forma di causalità, è la
forma di causalità che vige nella dimensione intelligibile cioè in ambito pratico. Dunque, quello che
non era possibile in sede teoretica, cioè dare all’idea di libertà un contenuto di conoscenza positivo,
è invece possibile in ambito pratico. Questo ha dei riflessi anche sull’ambito teoretico, perché resta
fermo che noi non possiamo avere una conoscenza teoretica della libertà, però non possiamo
trascurare o far finta che non ci sia questo risultato nella conoscenza pratica, cioè che la libertà è
un’idea di cui abbiamo una conoscenza positiva. Questa conoscenza positiva, a cui noi giungiamo
in campo pratico, ha naturalmente un’influenza sul piano teoretico, non perché cambia quella
impossibilità ma perché ha un uso regolativo rispetto alla conoscenza teoretica. Per questo Kant
diceva nell’Introduzione “la libertà è la chiave di volta dell’intero sistema della ragione”, non solo
della ragione pratica, perché noi giungiamo a una conoscenza positiva della libertà in campo pratico
ma questa conoscenza positiva ha un’influenza anche sul campo teoretico perché dà anche alla
scienza della natura un orizzonte regolativo, che, dicevamo, è quello del sistema, è quello della
totalità, senza il quale la conoscenza della natura stessa non procederebbe nel suo cammino.
“Ma anche l’esperienza conferma questo ordine dei concetti in noi”. Vedete, la solita
espressione che abbiamo trovato anche nella nota precedente, “tutti sanno che”, “anche il senso
comune lo sa”, in questo caso lo troviamo nella forma che “anche l’esperienza ci dice queste cose”.
Qui incomincia un magnifico esempio. Dunque, è un esempio costruito in due scene, oppure
possiamo dire un esperimento mentale costruito in due scene: non dimenticate che viene introdotto
per sostenere che anche l’esperienza comune ci dice che è la legge morale quella da cui inizia la
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nostra conoscenza pratica e che è attraverso di essa che noi conosciamo la libertà e non viceversa.
Questo è il tema di tutta la nota, in particolare l’ultima parte della nota dice che anche l’esperienza
comune lo sa, e così vi introduce questo esempio, che voi recepite e comprendete e valutate secondo
Prima scena, io lo chiamo l’esempio della forca. “Supponete che qualcuno pretendesse
che la sua inclinazione libidinosa sarebbe per lui irresistibile, qualora gli si presentassero
inclinazione, se, davanti alla casa dove si trovasse tale occasione, fosse installata una forca
dove impiccarlo subito dopo che avesse soddisfatto il suo appetito; non è difficile indovinare
che cosa risponderebbe, e intende dire che sicuramente risponderebbe che lui in quella casa non ci
metterebbe piede. Ora Kant lo dà per scontato, forse qualcuno di voi lo dà meno per scontato, però
ottocentesca e anche per la prima parte del ‘900, in cui era considerato un dato scontato che tra le
inclinazioni umane ce ne fossero di più fondamentali e che le più fondamentali siano due: l’istinto
sessuale. Questi erano considerati gli istinti fondamentali, così forti da essere irresistibili. Però era
autoconservazione fosse più forte di quello sessuale. Ed ecco perché Kant dice che prevarrà l’istinto
all’autoconservazione su quello della riproduzione, perché questo era quello dato per scontato nella
conoscenza antropologica. Quello che ci interessa, e che è la parte più importante di questa
conclusione, è questo “Non è difficile indovinare”. Perché non è difficile indovinare? Perché è certo
che cosa sceglierà, è certo. Perché è certo che cosa sceglierà? Perché in realtà non è una scelta
quella davanti a cui si trova costui. Non è una scelta perché non interviene la libertà. Quest’uomo è
influenzato, inclinato, spinto da due inclinazioni che tra l’altro non possono coesistere, poiché l’una
fa mancare l’altra e viceversa. Queste due inclinazioni sono dunque contrapposte, confliggono e
prevarrà la più forte. Esattamente come in un calcolo delle forze fisiche: se ci sono due forze
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opposte quella più forte prevale su quella più debole. Se voi fate scontrare due palle da biliardo che
si muovono in direzioni opposte, quella che ha maggior massa e maggiore velocità prevarrà
sull’altra e quindi, dopo lo scontro, le due palle da biliardo si muoveranno con una velocità che è la
somma, in questo caso la differenza, tra la velocità dell’una e la velocità dell’altra e la direzione di
quella prevalente. Se per caso pensate di fare incontrare due palle da biliardo in direzione opposta
con la medesima massa e velocità si scontreranno e resteranno ferme sul posto. Questo è necessario
perché è un fenomeno che è determinato da una causalità che è quella naturale, che è una causalità
necessaria, non è che può andare così o altrimenti, va così necessariamente, è un calcolo delle forze.
Ora nell’esempio che stiamo esaminando la situazione è esattamente la stessa. Qui abbiamo
l’opporsi di due inclinazioni del desiderio sensibile, che sono a tutti gli effetti due forze fisiche e
psichiche, comunque due forze fenomeniche e pertanto l’esito è calcolabile secondo la necessità
naturale con una certezza necessaria. Qui non abbiamo a che fare con una questione pratica, cioè
con una scelta della volontà, ma con un evento fenomenico: lo scontro tra due inclinazioni. “Ma poi
fategli un’altra domanda qualora il suo principe – con la minaccia della stessa morte,
immediata – pretendesse che egli testimoniasse il falso contro un uomo onesto che lo stesso
principe vorrebbero rovinare con speciosi pretesti, ebbene, riterrebbe possibile vincere il
proprio amore per la vita, per quanto grande potesse essere? Forse non oserebbe assicurare
che lo farebbe, o no; ma che gli sia possibile, deve necessariamente ammetterlo senza esitare.
Dunque giudica di essere capace di fare qualcosa poiché è consapevole di averne il dovere, e
(ri)conosce in sé la libertà che altrimenti gli sarebbe rimasta ignota, senza la legge morale”.
Questa è la situazione, ed è una situazione che Kant prende da Giovenale, quella del Toro di
Falaride. C’è un principe ingiusto, un tiranno, che vuole perdere il suo nemico, quindi vuole
chiamarlo in giudizio e condannarlo a morte sulla base di una falsa testimonianza, e cerca qualcuno
che gli dia questa falsa testimonianza. Allora prende questo qui e gli dice: “tu adesso vieni in
tribunale e accusi questo qui con una falsa testimonianza, perché non è vero quello che dirai, di
modo che io possa condannarlo a morte. Se non lo fai io ammazzo te”. Chiedetegli che cosa farà? E
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qui la conclusione della scena è molto diversa dalla prima. Nella prima Kant dice che non abbiamo
dubbio su che cosa risponderà, invece qui conclude che risponderà che non sa., Noi chiediamo se
resisterà alla pressione del principe perché menta per condannare l’innocente, e lui ci risponderà che
non sa se resisterà o meno. Se è una persona onesta ci dice che non sa, perché adesso può anche dire
che lui resisterà ma poi magari la paura al momento sarà più forte. Quindi uno può avere tutte le più
belle intenzioni del mondo però poi, magari, la paura prevale o chissà quale altra pressione. Quindi
ci dirà che lui non sa se resisterà o meno, e dice “non so cosa farò ma so, e questo lo so con
certezza, indipendentemente da ciò che farò, che posso resistere anche al costo di farmi ammazzare
e non dare falsa testimonianza, so che posso farlo”. Perché so che posso farlo? Perché so che devo,
so che la legge morale mi dice che ciò che devo fare sarebbe questo, che la scelta che devo fare è
questa, che la scelta moralmente giusta è questa. E poiché la legge morale mi dice questo so anche
che posso farla quella scelta, se poi la farò questo non lo so. Questa risposta è estremamente
interessante, perché vedete qui la situazione è molto differente dall’altra. Qui c’è effettivamente una
scelta morale, indipendentemente da quale scelta farà. C’è una scelta morale e quindi c’è una libertà
di scegliere. Anche se lui non resisterà e per paura testimonierà il falso per salvarsi la vita, saprà nel
momento in cui lo fa, e lo saprà sempre nella sua vita, che poteva fare altrimenti. E come fa a
saperlo? Perché doveva fare altrimenti. Questo “so che posso perché devo” è appunto
l’esemplificazione del tema. La nostra libertà la conosciamo a partire dalla legge morale.
“Devo” è la legge morale “posso” è la libertà. “So che posso perché devo”. Anche
l’esperienza comune ci fa capire che noi conosciamo la nostra libertà a partire dalla legge morale.
Nella prima scena, dove non interviene la legge morale perché c’è una pura contrapposizione di
inclinazioni, scelgo in un modo, e dopo aver scelto non posso dirmi “so che potevo fare anche
altrimenti” perché sono certo che altrimenti non potevo fare, perché una inclinazione era superiore
all’altra. Ma nella seconda scena tutto è diverso, qui c’è effettivamente una scelta, e la libertà della
scelta di cui sono certo è una conoscenza che io ho a partire dalla conoscenza chiara della legge
morale che mi dice “Tu non devi mentire”. Vedete, un’altra volta l’esempio è sul dire il vero o dire
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il falso. Il confronto tra le due scene mette in evidenza nell’esperienza comune, nell’opinione
comune, la chiarezza di quanto sostenuto nell’argomento della nota. “Posso perché devo” mi dà
l’esatto ordine di successione non tra la libertà e la legge morale ma tra la conoscenza della libertà e
la conoscenza della legge morale. La mia conoscenza della mia libertà mi viene a partire dalla mia
conoscenza della legge morale che invece è immediata. È questo il motivo per cui la legge morale
mi dà la conoscenza della mia libertà altrimenti non mi darebbe la conoscenza della mia libertà: è
sempre nella possibilità di prevalere perché la ragione può sempre prevalere sulle inclinazioni
sensibili, anche quando non prevale, sia ben chiaro. Questa affermazione che la ragione può sempre
prevalere sulle inclinazioni sensibili non è un’affermazione che viene falsificata dal dato di fatto che
in un caso non prevalga; anche se non prevale può prevalere, cioè la legge morale vale anche se la
trasgredisco. La legge “non mentire” vale anche se mento e questo mi dà la certezza che potevo non
mentire.
Adesso vedete c’è un altro paragrafo, “Legge fondamentale della ragione pura pratica”.
Dunque, qui Kant formula la legge fondamentale della ragione pura pratica, la legge morale
fondamentale, badate, di non dimenticare quel fondamentale, perché evidentemente ci sono tante
leggi morali, “non mentire” è una legge morale, “non toglierti la vita” è una legge morale, “non
rubare”, l’abbiamo visto nel caso del deposito, è una legge morale. Dunque, sono molteplici le leggi
morali, ma tutte queste leggi morali sono fondate in un principio fondamentale, in una legge
fondamentale.
Dunque, questa è la legge fondamentale della ragione pura pratica, non è l’unica legge ma è
la legge fondamentale. E Kant la formula: “agisci in modo che la massima della tua volontà
possa sempre valere, insieme, come principio di una legislazione universale”. Questa è una
categorico fondamentale. Non è l’unica, Kant ne aveva date già altre nella Fondazione della
metafisica dei costumi. Ne trovano già almeno tre, sono tutte differenti tra di loro, ma sono tutte
equivalenti, non sono contraddittorie l’una con l’altra. Ognuna è formulata a partire da un aspetto
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piuttosto che dall’altro ma sono equivalenti. È chiaro che la legge fondamentale della ragione pura
pratica è una, può essere formulata in più modi, non in qualunque modo, ma in diversi modi. Kant
spesso la formula in più modi ma è una. Solo alcune cose che voi stessi notate immediatamente:
intanto la forma imperativa “agisci”, è un imperativo e questo non vi deve stupire perché abbiamo
visto sin dall’inizio che i principi pratici oggettivi sono degli imperativi. Poiché non è posto nessun
fine presupposto, cioè la formula non dice “se vuoi”, come quell’esempio “se non vuoi penare in
vecchiaia”, siccome qui questo non c’è è chiaro che siamo difronte a un imperativo categorico e non
a un imperativo ipotetico, e anche questo non vi stupisce, altrimenti non sarebbe una legge, e non
solo non sarebbe la legge fondamentale ma non sarebbe nemmeno una legge. Usa questa forma:
parte dalla massima, “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come”,
usa questa forma non per complicare inutilmente la formula ma perché come già vi avevo detto dal
punto di vista della descrizione del procedimento deliberativo, del procedimento della volontà, la
volontà procede sempre, si determina sempre a partire da una massima, cioè da una
una rappresentazione che è evidentemente soggettiva: sono io che la determino la mia volontà,
secondo quella rappresentazione, quindi ciò che determina immediatamente un’azione o una scelta
della volontà è sempre una massima. Non tutte le massime hanno validità morale, ma solo quelle
che concordano con la legge morale. Le leggi morali, l’abbiamo appena detto, devono essere
coerenti con la legge fondamentale. Allora la legge fondamentale dice “agisci il modo che la
massima della tua volontà possa sempre valere anche come principio di una legislazione
universale”. Quella è la massima secondo cui tu agisci, la massima deve poter avere un valore di
legge, cioè deve poter avere il valore oggettivo, necessario, universale di legge. Quel “possa” non
significa “possa avere o anche non avere”, “possa” indica il carattere trascendentale di questa
formula, dal punto di vista del piano della filosofia trascendentale, del dato di fatto che abbia il
valore, non perché non ce l’abbia, ma quello che ci interessa è che possa averlo, cioè che sia
sempre essere principio di una legislazione universale è come dire che “la massima della tua
volontà possa sempre essere anche la condizione a priori di una legislazione universale”. Che sia la
condizione a priori di una legislazione universale, coincida con la condizione a priori di una
legislazione universale. Che cosa comanda? Nulla. Ci dice il modo, ma il modo dal punto di vista
formale, cioè devo guardare se la massima con cui voglio indirizzare la mia volontà, la mia scelta,
ha la forma adatta per essere anche il principio di una legislazione universale, qualunque sia il suo
contenuto. Se ha questa forma adatta, allora, quella massima sarà secondo la legge morale, se non
ha questa forma adatta, allora, sarà contro la legge morale. Ed è la forma che decide, qualunque sia
il contenuto della mia massima. “Voglio trattenermi il deposito”, per fare un esempio che abbiamo
fatto, “voglio testimoniare il falso contro un’innocente”, per ripercorrere gli esempi che abbiamo
fatto di imperativi categorici: mi devo chiedere non se quello che voglio è moralmente buono,
perché non arrivo a capo di niente in questo modo, ma se quella mia rappresentazione, quella mia
massima, quel mio proposito con cui voglio determinare la mia volontà può valere come il principio
su cui si fonda una legislazione universale, dal punto di vista formale. Questo è quello che decide.
Vi ricordate il caso del deposito: ognuno vede, dice Kant, anche se non ha mai studiato, che non
può valere, perché in quel modo, se io penso a quella mia massima di trattenermi il deposito che mi
è stato affidato, se penso di farne il principio di una legislazione universale, si distrugge il concetto
di deposito, non c’è più la materia su cui giudicare, non ha più senso parlare di deposito. Dunque, è
la forma che decide, non la materia. Se io mi chiedo, e me lo devo chiedere se mi pongo una
questione morale, se la massima con cui mi propongo di agire è moralmente buona o no, che vuol
dire è moralmente buona o moralmente cattiva, perché l’opposizione pratica lo abbiamo già detto
non è solo una negazione ma è un’opposizione reale, non arriverò mai a capo di questa mia
questione lavorando sui contenuti, ma sempre e solo lavorando sulla forma. Questa mia massima
può anche valere come principio di una legislazione universale? Se sì, allora è conforme alla legge
morale, se no, allora è contraria alla legge morale. Come dire: se è sì è moralmente possibile, se è
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no allora vuol dire che è moralmente impossibile. Badate, la possibilità morale non è la possibilità
condizioni formali della conoscenza teoretica, cioè con i principi puri dell’intelletto. È impossibile
che un vaso di gerani lasciato andare vada in su? è impossibile per le leggi della fisica. La
possibilità pratica in senso generale è ancora sempre definibile in questo modo, cioè la concordanza
– in questo caso di una massima, di una rappresentazione, con le condizioni a priori della possibilità
– ma non della conoscenza teoretica ma della conoscenza pratica, e le condizioni a priori della
conoscenza teoretica sono i principi puri dell’intelletto, ma le condizioni a priori della possibilità
pratica sono la legge morale. Dunque, possibilità pratica è la concordanza di quelle condizioni a
priori della possibilità pratica con la legge morale. Sicché ciò che è moralmente possibile o
impossibile è ciò che in linguaggio proprio si chiama lecito e illecito. Lecito è ciò che è moralmente
possibile, illecito è ciò che è moralmente impossibile, cioè opposto al lecito. Dunque, questa è la
formulazione che qui Kant da dell’imperativo categorico: “agisci in modo che la massima della
tua volontà possa sempre valere, anche, come principio di una legislazione universale”. Voglio
solo farvi notare che qui ha formulato, sapendolo, consapevolmente e sfidando qualunque
Alla formulazione della legge fondamentale della ragione pura pratica segue una nota che
proposizioni pratiche, che però non contengono altro che il presupposto che si possa fare
qualcosa, qualora si esiga che si debba farlo – e sono le uniche sue proposizioni che
problematica della volontà. Ma qui la regola dice che si deve procedere senz’altro in una certa
maniera”. Dunque, non è un postulato la legge fondamentale della ragione pura pratica, anche se
evidentemente è un principio che non può essere dimostrato. Può essere fondato, ma non può essere
dimostrato. Può essere dimostrata la necessità che sia formale, terzo teorema, ma la formulazione
del principio è quella, e non è, dice Kant, come in geometria quella di un postulato. In geometria il
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postulato è una proposizione che deve essere ammessa se si vuole che abbia una coerenza logica il
sistema stabilito. “Per un punto esterno a una retta data passa una e una sola parallela”, questo è un
postulato, qui la formula è come quella di un assioma, poi c’è stata una discussione, e di fatto è un
postulato: il sistema euclideo funziona se noi pensiamo lo spazio piano e quindi se noi pensiamo
che a una retta su un punto esterno passa solo una parallela. Tanto è vero che sono possibili altre
geometrie, cosiddette riemanniane, che pensano lo spazio non come spazio piano, come quello di
Euclide, e sono tali per cui quel postulato non vale. “A un punto esterno ad una retta passano
infinite parallele alla retta data o non passa nessuna parallela alla retta data”, dipende da quale
proposizione io pongo tra i principi non dimostrati dal sistema. I principi non dimostrati sono le
definizioni, gli assiomi e poi appunto dei postulati. Qui questa legge fondamentale non è
un postulato.
Kant scrive: “ma qui la regola dice che si deve procedere senz’altro in una certa
(senz’altro e direttamente dalla stessa regola pratica, che dunque qui è legge). Infatti la
pensata come indipendente da condizioni empiriche, dunque come volontà pura, determinata
dalla mera forma della legge, e questo motivo determinante è considerato come la condizione
suprema di tutte le massime”. Notate che forse per la prima volta, in termini affermativi, assertori,
non solo come ipotesi, qui viene usato il concetto e quindi anche l’espressione volontà pura. La
volontà pura è quella volontà che è determinata unicamente e immediatamente dalla ragione pura
pratica, cioè dalla sola forma della legge. Quel lavoro di distinzione concettuale e quindi anche di
desiderare” che abbiamo usato dall’inizio come sinonimo di volontà, quel lavoro ha proceduto
attraverso i teoremi, e adesso volontà è la volontà pura, se non è pura è facoltà di desiderare, ma non
è propriamente volontà. D’ora in poi, salvo forse qualche eccezione, vedrete che Kant correggerà la
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terminologia nel suo discorso successivo, e quando parla della volontà parla della volontà pura, e
anche se non è scritto nel testo volontà pura intende la volontà pura se c’è il termine volontà. Quella
ma volontà è solo la volontà pura. Badate, è un grande passo, perché non si tratta solo di
puntualizzare una terminologia: questa è niente di meno che la seconda ipotesi che guida tutta la
immediatamente la volontà, questo è il tema di una Critica della Ragion Pratica, e poi, proseguiva
dicendo che se noi verifichiamo questa possibilità, cioè se verifichiamo che è possibile una ragione
pura pratica, allora, non è necessario fare una critica della ragione pura pratica come avevamo fatto
per quella teoretica, perché se è possibile la ragione pura pratica essa ha un unico uso, e questo è
legittimo perché solo essa è veramente volontà, perché quando parliamo di volontà in senso proprio
pratica.
“La cosa è abbastanza sorprendente, e non trova riscontro in tutto il resto della
conoscenza pratica”. Oltre la conoscenza pura pratica, quella che dà luogo a una conoscenza certa
e vera, che è la moralità, ci sono altri domini della conoscenza (apparentemente pratica, in realtà
teoretica), per esempio le regole dell’abilità, vi ricordate: tutti i domini che sono determinati da quei
principi che sono degli imperativi ipotetici, l’economia per esempio è certamente un’attività
ipotetico e così via. “Infatti il pensiero a priori di una legislazione universale possibile, che
nulla mutuare dall’esperienza o da una qualche volontà esterna. Ma non è neanche una
prescrizione secondo cui debba avvenire un’azione tale da rendere possibile un effetto
desiderato (poiché in tal caso la regola sarebbe sempre fisicamente condizionata), è invece una
regola che si limita a determinare a priori la volontà rispetto alla forma delle sue massime, e
allora almeno non è impossibile pensare che una legge che è meramente al servizio della
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forma soggettiva dei Principi sia motivo determinante in virtù della forma obiettiva di una
legge in generale”. L’imperativo categorico, la legge fondamentale della ragione pratica, non è
riferita agli effetti nella sua validità naturalmente, non dice che cosa devo ottenere, che cosa devo
evitare, è solo un principio del tutto formale che come dice qui “detta la forma alle massime”. Le
volontà, o la mia azione. Queste massime sono morali se sono determinate in base alla legge
fondamentale che ne fonda la validità. Infatti, vi ho fatto notare, che nella formulazione della legge
fondamentale c’è questa formulazione a partire dalle massime, “agisci in modo che la massima
della tua volontà possa sempre valere anche come principio di una legislazione universale”, perché
rappresentazione soggettiva e quindi una massima. La legge morale non determina gli atti, non mi
dice come devo fare, determina la massima, mi dice come deve essere dal punto di vista della forma
la massima che determina la mia azione e quindi di conseguenza gli atti per produrre l’effetto
desiderato. Che cosa vuol dire una legge formale? Adesso abbiamo la formulazione, capiamo che è
formale “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere anche come principio
di una legislazione universale”, capiamo che è un principio formale perché non ha nessun
contenuto, ma solo in questo senso lo capiamo, perché non ha nessun contenuto. Esattamente come
nella dimostrazione del terzo teorema aveva dimostrato che il principio doveva essere formale,
perché non potendo essere materiale se togliamo la materia resta la forma, ma è ancora sempre una
spiegazione inadeguata rispetto a quel concetto trascendentale di forma di cui vi dicevo che è invece
Adesso viene un passaggio famoso: “si può chiamare la coscienza di questa legge
fondamentale un factum della ragione, poiché non la si può derivare sofisticamente a partire
da precedenti dati della ragione, per esempio dalla coscienza della libertà (giacché
proposizione sintetica a priori, che non è fondata su nessuna intuizione, né pura né empirica,
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sebbene sarebbe analitica, se ci si presupponesse la libertà del volere – peraltro un concetto
positivo il quale richiederebbe un’intuizione intellettuale che qui non è affatto lecito
assumere”. Allora, dice che la coscienza o consapevolezza di questa legge fondamentale della
ragione pura pratica la possiamo chiamare un factum della regione. Espressione strana e anche
problematica. Che sia strana è certo, non solo per noi ma anche per Kant che l’ha costruita, e non
solo Kant sa benissimo che è strana, ma la costruisce in modo strano. Vuole produrre
un’espressione strana, “factum della ragione”. Che questa sia un’intenzione di Kant è perché c’è un
indizio chiaro: cioè Kant usa una parola, factum, che anche in tedesco è Faktum, che non è una
parola tedesca ma latina, si può usare in tedesco, è un latinismo, ma non è che il tedesco manchi di
parole per indicare un “fatto”. Se Kant voleva dire “fatto” in tedesco, in tutti i casi eccetto che qui,
avrebbe avuto un intero dizionario e l’avrebbe usato. Se usa un latinismo, se usa una parola strana, è
perché vuole che sia strana, vuole che il lettore resti colpito e quindi attento a questo termine. Non
solo usa quindi una parola latina, factum, che va bene intendiamola nel senso grosso di fatto, ma,
badate, poi ci aggiunge anche, tanto per renderla ancora più strana, un fatto della ragione. Ma come
un “fatto della ragione”? I fatti sono fatti dell’esperienza, eventi, fenomeni. Cosa vuol dire un fatto
della ragione? È un’espressione molto strana. Allora dobbiamo fermarci, Kant ha fatto tutte le
capriole lessicali possibili per fare in modo che ci fermiamo, e poi ce lo spiega anche perché. Perché
vuole dire, ci tiene a dirlo perché è importante questo, che la legge morale in noi, questa legge di cui
conoscenza di questo principio, meglio, la conoscenza di questo principio è qualche cosa che è
proprio, inscindibile dalla ragione. Ogni ente razionale ha questa conoscenza e ce l’ha con la
certezza della sua validità pari alla certezza di un fatto. Perché non usa il termine che usa
solitamente anche in campo teoretico, che è quello usabile anche in campo teoretico per indicare
una conoscenza certa e immediata cioè è “dato”? Perché non dice un “dato”? Perché i dati sono i
dati della sensibilità. Solo la sensibilità è capace di intuizione, e quindi di conoscere dei contenuti
immediatamente dati, invece questa è una conoscenza certa, ma non della sensibilità ma della
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ragione e allora evita la parola dato. Ne cerca una che abbia lo stesso significato di conoscenza certa
e immediata: factum. Poi esplicita, però, “non empirico ma della ragione” cioè intelligibile,
razionale puro. Non solo non empirico ma che non contiene alcun elemento che in nessun modo
dipenda dall’esperienza: è interamente a priori e in più non contiene nessun elemento empirico. Noi
della legge morale abbiamo una conoscenza, possiamo dire, dice Kant, come di un factum della
ragione, più avanti userà questa espressione, sempre con delle espressioni prudenziali “per così dire
factum della ragione”, “come un factum della ragione” perché si rende conto che è un’espressione
strana, problematica. Vuole dire a conclusione della documentazione che ha fatto nella nota sin ora:
posto che questo principio non è un postulato e non è un principio ipotetico, non dipende il suo
valore da nessun rapporto con gli effetti possibili ma è un principio valido in modo incondizionato e
fondato unicamente nella ragione pura, allora, per dire tutto questo, diciamo che è per così dire un
factum della ragione. Perché è un factum? Perché non lo possiamo dedurre, se lo potessimo dedurre
sarebbe una verità che si fonda su un principio quindi una tesi, ma questa la conosciamo come una
verità certamente vera e incondizionata, ma non possiamo giustificarne la fondazione, stavo per dire
“non possiamo dire su cosa si fonda”, ma possiamo dire su cosa si fonda, lo sappiamo anche, si
fonda sulla libertà, perché la libertà è la ratio essendi, è il fondamento della legge morale, però noi
non possiamo dedurre la legge morale dalla libertà dice qui Kant, perché noi della libertà non
possiamo avere una intuizione intellettuale cioè una conoscenza immediata di tipo intellettuale, e
nemmeno una intuizione empirica, non possiamo avere una intuizione empirica della libertà perché
la libertà è la legge causale nell’ambito del noumeno, dell’intelligibile, non del fenomeno,
dell’esperibile. Questo è un principio importante e fermo di tutta la teoria di Kant: non è dato il
fenomeno morale, non possiamo verificare negli eventi empirici un atto libero perché la conoscenza
degli enti empirici, cioè l’esperienza possibile è una conoscenza teoretica e deve essere tutta fondata
sulla causalità naturale che è necessaria e non libera. Kant, vedete, lo dice alla fine della nota,
“richiederebbe una intuizione intellettuale che qui non è affatto lecito assumere”. L’intuizione
intellettuale non è possibile, questo è un punto fermo nella filosofia trascendentale di Kant.
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L’intuizione dice Kant all’inizio dell’Estetica trascendentale della Critica della Ragion pura, tutte
le intuizioni sono sensibili, cioè tutte le conoscenze immediate sono sensibili o non sono. Noi
possiamo avere intuizione, cioè conoscenza immediata, solo dei dati della sensibilità. Questo è un
confine dell’uso legittimo della ragione invalicabile. Allora una intuizione empirica è possibile, una
intuizione intellettuale è impossibile, sicché io non posso dedurre la legge morale dalla libertà, lo so
che il fondamento è la libertà ma la libertà la conosco solo dalla legge morale, ricordate la nota
precedente: la libertà non la posso conoscere come conoscenza immediata, come una intuizione, ma
la devo dedurre, la devo conoscere a partire dalla legge morale La legge morale però è una
conoscenza immediata. Non diciamo un dato per non equivocare con il dato sensibile, è “come un
factum della ragione”. La conoscenza della legge morale è per così dire un factum della ragione,
perché ne siamo certi come di un dato di fatto, però questa certezza non è una intuizione empirica
perché non ne possiamo avere una intuizione empirica, e non è nemmeno una intuizione
Corollario: “la ragione pura è di per sé sola pratica, e da (all’uomo) una legge
universale, che chiamiamo «la legge morale»”. Dunque, questo breve corollario, del tutto
assertivo, apodittico è una affermazione. Come mai decide di mettere un corollario con questa
affermazione buttata lì così? Non è buttata lì così perché è il risultato del lavoro che abbiamo fatto,
ma perché metterla lì? La mette lì perché è la risposta all’ipotesi che ha guidato tutta la nostra
indagine. Vi ricordate la Prefazione e l’Introduzione, dobbiamo fare una critica della ragion pratica
in generale per verificare se è possibile una ragione pura pratica, cioè se è possibile che la ragione
pura da sé sola dia la legge che determina la volontà. Dunque, questo corollario dice: il lavoro
l’abbiamo fatto e l’ipotesi l’abbiamo verificata. “La ragione pura è di per sé sola pratica, e da
Nota: “Il factum” il factum della ragione, la legge morale di cui parlava nella nota prima e
di cui abbiamo parlato finora “prima menzionato è innegabile”. Sta dicendo a tutti quelli che
hanno in testa quella obiezione “ma come fa a dirlo?” che non solo lo dice, ma dice che è
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innegabile. “È sufficiente scomporre il giudizio che gli uomini danno della conformità alla
legge delle loro azioni: si troverà sempre che, comunque possa interloquire l’inclinazione,
tuttavia la loro ragione, incorruttibile e da se stessa costretta, riserva sempre la massima della
volontà, in un’azione, alla volontà pura, ossia a se stessa, in quanto considera se stessa come
pratica a priori”. Si troverà sempre, se noi scomponiamo il giudizio che gli uomini danno della
conformità alla legge delle loro azioni – prendete la persona delle esempio “non so se lo farò ma so
che posso perché devo”, questa persona scompone i motivi che la determinano a un’azione e, tolte
le inclinazioni sensibili, in questo caso la paura, può darsi che abbia scelto di testimoniare il falso,
“si l’ho fatto per paura, però, so che potevo non farlo perché dovevo”. Ogni uomo, se scompone
qualunque azione, anche un’azione moralmente cattiva, per esempio testimoniare il falso contro un
innocente, questo esempio che stiamo riprendendo, anche se questo ha testimoniato il falso, se dopo
averlo fatto e gli chiediamo perché, risponderà “sì, l’ho fatto, ma per paura, l’inclinazione sensibile
ha prevalso, però la legge morale mi diceva di non farlo e questo lo so”. “È sufficiente scomporre
il giudizio che gli uomini danno della conformità alla legge delle loro azioni: si troverà sempre
che, comunque possa interloquire l’inclinazione”, l’inclinazione interviene sempre perché noi
siamo enti razionali finiti e quindi sensibili e quindi sempre interviene l’inclinazione, e comunque
possa intervenire, magari anche avendo il sopravvento, quindi di fatto determinando la mia azione:
della volontà, in un’azione, alla volontà pura, ossia a se stessa, in quanto considera se stessa
come pratica a priori”. Se io testimonierò il falso dirò “io ho agito non secondo ciò che mi diceva
la mia ragione, ma secondo la paura, per paura, secondo le mie inclinazioni sensibili”. Non potrò
dire secondo la ragione, la ragione pura – non la ragione strumentale, perché la ragione strumentale
è un’altra questione: io avevo posto come massima quello di sopravvivere a ogni costo, e allora la
ragione mi ha detto che la via per farlo era testimoniare il falso, questa è la ragione strumentale, non
la ragione pura – la ragione a priori da se sola, quella certamente mi dirà che non dovevo farlo.
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“Ora questo principio della moralità, appunto in virtù dell’universalità della
una legge per tutti gli enti razionali, in quanto abbiano in generale una volontà, ossia una
siano capaci delle azioni secondo Principi, dunque anche secondo principi pratici a priori
(perché questi soltanto hanno quella necessità che la ragione esige dal principio)”. Tanto
perché non vi sfugga, qui c’è una definizione di volontà: una facoltà di determinare la loro causalità
con la rappresentazione di regole, quindi in quanto siano capaci delle azioni secondo Principi,
dunque anche secondo principi pratici a priori”. Dunque, la ragione dichiara che quel principio
formale che determina, o che deve determinare perché è un comando, la mia massima, se questa
vuole essere secondo ragione, cioè morale, è valido per tutti gli enti razionali, evidentemente perché
è una legge della ragione. “Dunque” la validità di questa legge “non si limita agli uomini, ma si
estende a tutti gli enti finiti che abbiano ragione e volontà, anzi persino l’Ente infinito, quale
intelligenza suprema”. Questa legge della ragione, questa legge fondamentale della ragione pura
pratica è appunto una legge valida per tutti gli enti razionali. Kant dice “non solo per tutti gli uomini
ma per tutti gli enti razionali finiti”, questo non significa che qui Kant voglia dire che esistono i
marziani o che voglia parlare degli angeli o cose del genere, a Kant non importa proprio per niente,
almeno qui, se ci sono altri esseri finiti oltre gli uomini o no, il punto è invece una proprietà di
discorso: poiché qui si tratta di un discorso trascendentale, quando noi diciamo, per indicare gli enti
razionali finiti, diciamo uomini, usiamo un termine legittimo ma non del tutto appropriato, perché è
un termine che rimanda anche a una quantità di significati di tipo antropologico che non hanno nulla
a che fare con il discorso trascendentale. È chiaro che noi stiamo parlando degli uomini ma ne
stiamo parlando in quanto enti razionali finiti, cioè in quanto enti razionali dotati di una sensibilità,
che siano uomini e che abbiano tutte le caratteristiche antropologiche, psicologiche, zoologiche,
sociologiche che stanno dentro ad una antropologia può anche essere vero ma non riguarda il nostro
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discorso. Questa prima precisazione quindi non è per dire “anche per i marziani”, è per dire per tutti
gli uomini o per dire meglio, in un discorso trascendentale, per tutti gli enti razionali finiti. Ma poi
aggiunge “anche per quello infinito”, cioè Dio. Se penso all’ente razionale finito insieme penso
anche all’ente razionale non finito, infinito. Dunque, se io penso l’ente razionale finito penso anche
insieme l’ente razionale non finito, e tradizionalmente il pensiero filosofico lo chiama Dio. Il
discorso che Kant tiene qui a precisare, è che se la legge razionale, la legge morale come legge
razionale pura, vale tra tutti gli enti razionali, vale per tutti gli enti razionali finiti e anche per l’ente
razionale infinito, anche per Dio vale la legge morale. Perché se vale per tutti gli enti razionali, Dio
“Ma nel primo caso la legge ha la forma di un imperativo, poiché si può bensì
presupporre una volontà pura, ma non una volontà santa – ossia incapace di massime in
contrasto con la legge morale –, in quell’ente bensì razionale, ma, purtuttavia, influenzato da
bisogni e mosso da cause sensibili. La legge morale è quindi, in quegli enti, un imperativo, che
con questa legge è il rapporto di una dipendenza, che è chiamata «obbligatorietà», che
significa una costrizione”. Guardate, tutto questo lessico: imperativo, comando, dipendenza,
obbligatorietà, costrizione, sta facendo una catena di termini e quindi di concetti. “Sebbene solo da
parte della ragione e della sua legge obiettiva – a compiere una certa azione, che si chiama
«dovere»”. Qui compare il termine Pflicht, ma solo di passaggio, a proposito dell’etica del dovere,
però tematizzato è solo nel terzo capitolo. “Poiché un arbitrio patologicamente influenzato
(ancorché non perciò determinato, e quindi pur sempre libero) comporta un desiderio che
scaturisce da cause soggettive, e quindi può anche essere spesso in contrasto con il puro motivo
determinante obiettivo, e dunque abbisogna di una resistenza della ragione pratica, che può
essere chiamata coazione interna, ma intellettuale – ossia di una costrizione morale”. Invece,
“posta l’uguaglianza” – questo è un tipico metodo di Kant, quando Kant ha due concetti di cui vuole
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mostrare che cosa hanno in comune e in cosa differiscono – innanzitutto mostra cosa hanno in
comune ben chiaramente, poi, dopo, quando questo è saldo, allora passa alla differenza. “Poiché è
chiaro che questo significato ce l’hanno in comune adesso vediamo… però l’uno è così, l’altro è
così”. Posto che la legge morale, cioè la legge fondamentale della ragione pura pratica vale per tutti
gli enti razionali, finiti e infinito, posto questo, è tenuto fermo questo, è vero però che c’è anche una
differenza. Perché l’ente razionale finito, essendo finito cioè dotato di sensibilità è tale che la sua
volontà è sempre sollecitata da inclinazioni sensibili, cioè dal desiderio del piacere, dunque, la legge
della ragione deve imporsi sulla forza, che è l’effetto della forza dei desideri sensibili, delle
inclinazioni sensibili sul soggetto, per questo, e qui c’è tutto quello catena di concetti, la legge
morale per l’ente razionale finito si presenta come un comando, come un imperativo “devi fare
così”, perché la sua volontà per com’è, essendo eccitata e influenzata da forze che lo portano in
altre direzione, tenderebbe a fare altrimenti. Quindi la legge si formula come un comando, un
imperativo, e se si formula come un imperativo vuol dire che mi obbliga, quindi in qualche modo
mi costringe, non fisicamente ma moralmente. Mi dice “tu devi fare così”, mi costringe, perché se
io sono portato, inclinato in altra direzione, è chiaro che resiste, produce una resistenza contro
questa inclinazione. L’inclinazione mi porta in quella direzione ma la legge morale resiste, cioè
produce una opposizione che è per me una obbligatorietà, quindi una coazione, una costrizione.
Ecco perché l’azione che risulta da questo è il dovere, cioè è sempre un’azione fatta per costrizione,
non spontaneamente, non perché ci sia inclinati. Questa è la catena dei concetti, anche se Kant ve lo
esplicita, ma l’aveva già detto, la costrizione non deve essere intesa come una costrizione esterna,
perché altrimenti non sarebbe più libera la libertà. “Sono costretto”, “ma costretto è l’opposto di
libero”, sì, solo però che qui io sono costretto da nessun altro che da me stesso. Allora in questo
caso, costretto non è più l’opposto di libero perché è l’altro significato di libertà, sono
sono opposti solo se costretto significa “condizionato da altro”, altrimenti possono benissimo essere
complementari, anzi come già abbiamo visto nei due problemi, e come vedremo è il tema del quarto
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teorema, non solo non sono opposti, ma sono complementari nel significato di libertà. Libertà
significa sia incondizionatezza, cioè non essere condizionato da altri, sia autodeterminazione, essere
determinato da sé. Quindi questa è la modalità in cui la legge morale determina la volontà dell’ente
razionale finito.
razionale infinito, che non è limitato dalla sensibilità perché la sua ragione è pienamente
autosufficiente, quello che Aristotele diceva “pensiero di pensiero”, atto puro, “l’arbitrio è a buon
diritto rappresentato come incapace di alcuna massima che non potrebbe essere insieme legge
obiettiva, e il concetto della santità”, è la seconda volta che in questa pagina compare, “che
perciò le compete, non la pone certo al di là di tutte le leggi pratiche, tuttavia la pone al di
sopra di tutte le leggi pratiche restrittive, limitative, e quindi dell’obbligatorietà e del dovere”.
La volontà dell’ente razionale infinito, poiché è una volontà che non è condizionata dalle
inclinazioni sensibili, non è che sia una volontà che si sottrae alla legge morale, il punto è che è una
volontà identica alla legge morale, perché la legge morale è la legge della ragione, è la volontà di
Dio, la volontà come ragione pura senza nessuna inclinazione sensibile. Dunque, la volontà di Dio è
sempre è immediatamente identica con la legge morale. Dio agisce sempre secondo la legge morale,
certo, perché la sua volontà è identica alla legge morale. Non è nemmeno pensabile che Dio agisca
altrimenti che secondo la legge morale, perché vorrebbe dire che agisce per una qualche altra
inclinazione, che necessariamente dovrebbe essere ascritta alla sensibilità, e Dio non ha la
sensibilità. Dunque, la sua volontà è immediatamente identica con la legge morale, il che vuol dire,
per conseguenza, l’opposto di tutta quella catena di conseguenze che abbiamo visto per l’ente
razionale finito. Là si diceva, la legge morale si presenta come un imperativo, come un comando,
invece, per Dio non si presenta come un comando e come un imperativo. La legge morale costringe,
obbliga, è coazione rispetto alla volontà dell’ente razionale finito, mentre per l’ente razionale
infinito non costringe, non obbliga, non è coazione. Quindi, l’azione morale per l’ente razionale
finito è dovere mentre per Dio non è dovere, ma è puro amore. Tutto questo è ciò che noi diciamo
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quando diciamo che la volontà di Dio è una volontà santa. Santa significa questo, è la volontà
immediatamente e perfettamente identica con la ragione e quindi con la legge morale. In questo
modo Kant prende posizione rispetto a un altro dei tanti problemi classici della storia del pensiero
occidentale, cioè sin dal Medioevo, ma fin dalla filosofia greca, sin dal Socrate di Platone, cioè il
rapporto tra intelletto e volontà. Se l’intelletto determina la volontà allora come possiamo dire che
la volontà è libera? O se la volontà è indipendente dall’intelletto allora, però, come possiamo dire
che sceglie se non ha dall’intelletto un criterio per scegliere, se l’intelletto non le dice cos’è il bene?
Se c’è un rapporto, ma non un rapporto necessitante, allora che rapporto c’è? Nel Medioevo è
ampio questo dibattito tra intellettualisti e volontaristi, e una declinazione classica di questo
problema è quella teologica. Si può porre un problema per la volontà nell’uomo, si può porre un
problema per la volontà di Dio. Dio ha creato il mondo, il mondo è determinato secondo delle leggi
razionali, queste leggi valgono perché Dio le vuole o Dio le vuole perché valgono? La volontà di
Dio è indipendente dalle leggi della ragione o è dipendente dalle leggi della ragione? Se è
dell’irrazionalità della volontà Divina. Anche questo è un altro aspetto di quel rapporto tra intelletto
e volontà che è una delle questioni che hanno attraversato tutta la storia del pensiero occidentale.
Per Kant è chiaro: la volontà di Dio non è indipendente dalla ragione. Il problema del rapporto tra
volontà e ragione in Dio, Kant lo risolve non con una indipendenza, ma nel senso opposto, con una
identità. Non c’è nessuno scarto tra la ragione e la volontà in Dio perché sono identici, per questo
noi diciamo che la volontà di Dio è santa. Se la volontà di Dio è santa, tuttavia è determinata dalla
legge della ragione, dalla legge morale, come quella dell’uomo, in questo modo differente perché
identica. Però la stessa legge morale vale per Dio come per uomo – allora la santità di Dio non è
certamente la situazione dell’uomo, perché la volontà dell’uomo non è santa, perché non è
immediatamente identica con la legge morale, al contrario, l’uomo in quanto ente razionale finito è
sollecitato da inclinazioni sensibili e quindi la legge della ragione gli si deve imporre come un
comando, è tutto quello che abbiamo detto. Quindi non è certamente santa la volontà dell’uomo,
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quindi tra la volontà dell’ente infinito e la volontà dell’ente finito non c’è una differenza
inconfrontabile perché comunque hanno in comune questo dato fondamentale: che sono tutte e due
volontà in rapporto con la legge della ragione. Il rapporto dell’ente infinito è quello della santità, il
rapporto che l’ente finito ha con la legge morale non è quello della santità, perché la sua volontà
non è immediatamente identica con la legge morale ma deve diventare sempre più consona alla
legge morale, sempre più conforme alla legge morale. Per questo la legge gli si propone come un
comando, deve diventare sempre più conforme alla legge morale. Dunque, l’ente morale è
impegnato, l’ente finito è impegnato in uno sforzo per rendere la propria volontà sempre più
conforme alla legge morale, questo sforzo ha un nome: si chiama moralità. Allora vedete la moralità
non è la santità. Là dove c’è la santità non c’è la moralità. L’ente santo non ha bisogno di essere
morale perché non ha bisogno di sforzarsi per conformare la sua volontà alla legge morale, che è già
identica, e l’ente morale non è Santo perché c’è sempre uno sforzo tra la sua volontà e la perfetta
adeguazione alla legge morale. Tuttavia, moralità e santità non sono due concetti disparati. Ora si
tratta dunque di vedere che cosa hanno di analogo, ma anche che cosa hanno di differente.
Ricordate, nella nota Kant ragionava sulla validità incondizionata della legge morale, che è
valida per tutti gli enti razionali perché è la legge della ragione. Quindi per l’ente razionale finito e
per l’ente razionale infinito, Dio: con una differenza però, che per l’ente razionale finito vale nella
forma di un comando, perché, essendo finito, cioè dotato di sensibilità, la sua volontà è sempre
sollecitata da inclinazioni del desiderio del piacevole, del desiderio sensibile, e quindi la legge
morale deve imporsi resistendo alle inclinazioni, opponendosi a queste inclinazioni e quindi la legge
morale ha sempre la forma dell’imperativo categorico, implica sempre una costrizione, una
sempre come un dovere e non come un atto spontaneo, come un atto d’amore – ricordando che il
movente nella spontaneità dell’azione è quello che intendiamo come amore. Mentre per l’ente
razionale infinito, poiché la sua volontà è immediatamente identica con la legge morale, dunque, la
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legge vale ed è già sempre e unicamente il motivo determinante della sua volontà, non è che venga
prima della sua volontà, è identica alla sua volontà, quindi, la legge non ha la forma dell’imperativo
e l’azione non si configura come una costrizione, come una obbligatorietà, né come un dovere.
Questa situazione è quella che Kant chiama santità, in senso morale, ed è propria solo dell’ente
razionale infinito. L’ente razionale finito non è mai santo, perché vorrebbe dire che la sua volontà è
immediatamente identica con la legge morale e questo non è, perché ci sono le inclinazioni
sensibili, quindi la condizione dell’ente razionale finito è la moralità, la tensione a adeguare sempre
meglio la propria volontà alla legge morale. Fatta questa distinzione bisogna anche essere in chiaro
sul rapporto tra queste due situazioni: la santità e la moralità, perché se noi ci fermiamo alla
sono due condizioni disparate, diverse e non c’è nessun rapporto. Invece non è così. Il rapporto c’è
ed è importante chiarirlo.
“Questa santità della volontà è nondimeno un’idea pratica, che deve fungere
spetti a tutti gli enti razionali finiti,” sta parlando della santità “e che è tenuta costantemente ed
esattamente davanti ai loro occhi dalla pura legge morale, la quale perciò si dice essa stessa
«santa»; e la sicurezza del progresso all’infinito delle proprie massime e della loro immutabile
capacità di migliorare continuamente – ossia la virtù – è la cosa somma che possa cagionare
alla ragione pratica finita, la quale a sua volta – almeno in quanto facoltà naturalmente
acquisita – non può mai essere compiuta, poiché la sicurezza in tal caso non diventa mai
Innanzitutto, vi faccio notare che qui c’è una definizione: la definizione di virtù: “la sicurezza del
progresso all’infinito delle proprie massime e della loro immutabile capacità di migliorare
continuamente, ossia la virtù”. Cos’è la virtù? Definizione: la sicurezza del progresso all’infinito
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Poi vi faccio notare un altro aspetto terminologico: all’inizio di quanto abbiamo letto dice
che “la santità della volontà è un’idea pratica per l’ente razionale finito” e cosa sia un’idea
l’abbiamo già visto, è qualcosa che è possibile pensare, e pensare questa idea ha un significato
regolativo: l’idea ha un significato regolativo non solo in campo teoretico, ne abbiamo parlato, ma
anche in campo pratico. La santità è idea regolativa della moralità, cioè la moralità non è santità, il
significato della santità non è il contenuto del significato della moralità, però indica la direzione
verso cui muove quella conoscenza, che è la conoscenza razionale pratica, cioè la moralità. La
teoretica, e questo orizzonte di riferimento è l’idea della santità, perché se non ci fosse questo
orientamento dato dalla funzione regolativa dell’idea della santità non ci sarebbe nemmeno la
moralità, perché non ci sarebbe la virtù, che è l’azione morale. La virtù è appunto la sicurezza della
capacità, non del fatto, ma della capacità di progredire nella moralità, cioè nello sforzo di adeguare
sempre meglio la volontà alla legge morale. “La sicurezza nella capacità di progredire nella
moralità infinitamente”, ma infinitamente non vuol solo dire che non finisce mai ma vuol dire verso
Vedete, progredire infinitamente nel senso kantiano significa certamente che, poiché si tratta
di un progresso infinito, non può mai essere compiuto, perché altrimenti non sarebbe infinito, certo
vuol dire anche questo, e quindi come Kant dice nelle ultime linee “non può mai essere compiuto”,
perché in tal caso la sicurezza di progredire diventerebbe “certezza apodittica di aver raggiunto ciò
situazione, di essere giunti così avanti nel nostro progresso morale da aver compiutamente
raggiunto la santità, questo non solo sarebbe falso ma sarebbe anche molto pericoloso. Sarebbe
molto pericoloso perché questo è il fanatismo morale, è la condizione di chi è convinto di essere
l’incapacità di confrontarsi con gli altri. Dunque, progredire infinitamente ha certamente anche
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questo significato, che il progresso verso la santità non è mai compiutamente realizzato, però
significa anche che questo progresso ha una direzione che è l’idea della santità. Questa direzione è
ciò che fonda la sicurezza della mia capacità immutabile, perché è molto importante la scelta delle
Questo è molto importante, perché è un passo che ci dice il modo in cui Kant intende il
concetto di progresso, almeno nel senso di progresso morale ma poi in fondo anche nel senso di
progresso storico, però qui parliamo del progresso morale. Il concetto di progresso è un concetto
importante in tutta la cultura illuministica, questo è chiaro, è una sorta di certezza fondante nella
cultura illuministica, perché è complementare con quell’altra certezza fondante, che la ragione è in
tutti gli uomini. È complementare con questo perché se tutti gli uomini sono razionali, hanno in sé
la voce della ragione, tutti gli uomini quindi sono capaci di progresso verso una realizzazione
razionale della realtà, e razionale in senso pratico significa secondo la legge morale.
Allora, vedete, e qui vengo al chiarimento terminologico a cui avevo accennato, ecco perché
Kant, all’inizio di questo passo scrive che la santità è “nondimeno un’idea pratica che deve fungere
necessariamente da archetipo (Urbild), approssimarsi infinitamente al quale è l’unica cosa che spetti
a tutti gli enti razionali finiti”. Noi conosciamo già questo operare della traduttrice, quando nella
traduzione di una parola particolarmente, pregnante, cerca di tradurla con un termine italiano,
questo è giusto perché un traduttore deve tradurre tutto, però anche quando la traduzione da sé non
esaurisce tutto, allora mette tra parentesi, in corsivo, il termine tedesco. Avevo già fatto notare che
di per sé questo non avrebbe senso in una traduzione che ha il testo tedesco a fronte, quindi se uno
vuole sapere qual è la parola tedesca va a vedere la pagina di sinistra, ma se lo fa è per dire: “io
traduco archetipo, traduco con il termine archetipo la parola kantiana Urbild”. Questa traduzione, in
questo caso, è particolarmente adatta, non solo perché del tutto letterale, Urbild significa tipo
originario, figura originaria, meglio di tutto forma originaria, forma visibile, nel senso di
conoscibile, che è esattamente il significato della parola greca, perché archetipo è una parola
italiana ma è un grecismo che significa appunto forma originaria, tipo originario. Ma non solo
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questa traduzione è adatta perché è un calco letterale della parola tedesca, ma perché mette in
evidenza come la parola tedesca scelta da Kant sia un calco di quella greca; cioè Kant qui, come in
tanti altri luoghi, esplicitamente adotta una terminologia che è evidentemente quella platonica.
terminologia ci riporta alla concettualità platonica, e la relazione che Kant vuole chiarire tra santità
e moralità è esattamente quella che Platone poneva tra le idee e i fenomeni: le idee sono il vero
essere, i fenomeni sono apparenze, questa è la differenza per Platone, ma non c’è solo una
differenza, accentuare unilateralmente la differenza tra idee e fenomeni è un grave errore che porta
a fraintendere il pensiero platonico, è l’errore che ha fatto Aristotele, che è peraltro l’allievo di
Platone, che ha accentuato il chorismos, cioè la separazione tra idee e enti. In Platone c’è la
separazione, ma c’è anche la relazione, perché le idee sono archetipi per i fenomeni, i fenomeni
sono tanto più, quanto più, partecipano delle idee, sono simili all’idea. Un cavallo è un cavallo in
tanto in quanto realizza in sé l’idea di cavallo, allora, l’idea di cavallo è l’archetipo a cui tende ogni
fenomeno cavallino. Un cavallo è un buon cavallo tanto più quanto più è un cavallo secondo l’idea
di cavallo, e potrei continuare a cercare di esprimere la cosa in mille altri modi, ma questo vuol dire
che certamente le idee sono separate dalle cose, perché nessun cavallo fenomenico è l’idea
compiutamente realizzata di cavallo, ma anche che c’è un rapporto tra le idee e le cose, perché le
idee sono il dover essere dei fenomeni, ciò che i fenomeni devono essere per essere se stessi.
Dunque, la dimensione del dover essere dell’idea è archetipo, cioè è modello originario a cui ogni
essere fenomenico tende o deve tendere per adeguarsi alla propria idea, quindi sì, il dover essere è
differente dall’essere, questa differenza del dover essere dall’essere è insuperabile, guai se noi la
cancelliamo: se cancelliamo la differenza ontologica tra dover essere e essere tutto è ridotto
all’essere, c’è una pura immanenza e tutto è fatto e allora, come dicevamo altre volte, non c’è più lo
spazio per l’etica. Per riconoscere la realtà nella sua pienezza, dobbiamo riconoscere che la realtà ha
una dimensione che è l’essere e una dimensione che è il dover essere di quest’essere, che è
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differente, c’è uno scarto mai pienamente colmabile. Qui dice “un progresso infinito mai
pienamente compiuto”. Però questo scarto è una relazione, perché questo scarto è una tensione o
perlomeno indica la direzione di una tensione dell’essere realmente esistente verso ciò che deve
essere. Quindi il dover essere è differente dall’essere ma non è una differenza che significhi una
separazione. E’ vero che in un mito, in una narrazione metaforica, Platone parla dell’iperuranio
come luogo delle idee, ma siamo in una narrazione metaforica, non è questa la sua concezione
filosofica, il luogo del dover essere non è separato dall’essere, è dentro l’essere. Il dover essere è
differente dall’essere ma è dentro l’essere, non ha altro luogo che l’essere, è una differenza
all’interno dell’essere. Per cui l’essere non può mai stare quieto in sé, l’essere finito naturalmente, a
differenza dell’essere infinito, quello che per definizione è quieto in sé. Perché è quieto in sé?
Perché nell’essere infinito, che è l’Uno originario, non c’è questa differenza, non c’è questa
tensione, ma nell’essere finito c’è questa inquietudine, questa tensione. Non sto parlando di tensioni
esistenziali, sto parlando di ontologia. L’essere ha in sé una tensione verso ciò che deve essere.
Questo significa che il dover essere, l’ideale, non ha altro luogo che il reale, ma che questo suo
abitare il reale fa sì che il reale non possa mai stare quietamente soddisfatto di sé, ma ci sia una
di cui qui Kant parla per le sue applicazioni sul concetto di progresso. Certamente Kant condivide il
grande ideale del progresso illuministico, così come il grande ideale della razionalità universale,
però il concetto di progresso nella cultura illuministica, e anche in quella più tarda, ottocentesca, per
esempio scientista ecc., ha avuto molti significati differenti. Non perché la parola avesse più
significati. Si sono attribuiti alla parola “progresso” una quantità di significati differenti tra loro e
addirittura inconciliabili, quella più corrente, nota e oggi più vituperata, ma da una parte vituperata
dall’altra parte trionfante, e questa idea del progresso come un processo necessario, inevitabile, che
non torna mai indietro, sicuro, sempre verso il meglio e verso l’ottimo. Questo ottimismo ingenuo e
scriteriato, irrazionale, è anche fanatico, perché parlare della nostra realtà come di una realtà in un
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sicuro e trionfante progresso inarrestabile è penoso se pensiamo a tutta la sofferenza che c’è nel
mondo e a tutta la barbarie che c’è nel mondo. Perché l’illuminismo aveva la grande speranza di
superare definitivamente la barbarie, ma non c’è riuscito. Oggi è facile pensare che, essendo noi
dopo l’opera dell’illuminismo, non siamo più in un mondo barbaro, in una società barbara, perché
c’è stato l’illuminismo, ma non è vero. La nostra società è una società barbara, è ancora una società
in cui le dinamiche sono le guerre per bande, la rapina, l’uccisione, l’assassinio, la prevaricazione,
la distruzione. Oggi parliamo della distruzione dell’ambiente, del tutto forsennata, del tutto
incontrollata, esattamente come poteva essere nelle campagne italiane nel IX, nel VIII, nel VII
secolo. Purtroppo, è così. Certo, ciò che c’è di nuovo è che c’è stato l’illuminismo, che non ha
cambiato la situazione, però ha introdotto un principio di critica, e quello per fortuna finora rimane.
Però progresso può voler dire quello, ed è evidente che è una concezione falsa del progresso,
addirittura provocatoria, scandalosa, ma badate, vi dicevo, è una concezione oggi tanto vituperata
ma d’altra parte anche molto coltivata, perché tutta l’apoteosi della tecnologia, che siamo costretti a
constatare e che spesso ha questa colorazione del tutto ingenua, irresponsabile: “con la tecnologia
risolveremo tutto, tutto andrà meglio, tutti i problemi saranno superati, ci vorrà qualche chip in più,
è una questione di chip”. Questo che cosa ha di differente da quella concezione stupida del
progresso?
Ma quella di Kant non è questa concezione del progresso. Kant parla del progresso, qui
parliamo del progresso morale, ma varrebbe anche per il progresso storico, che per Kant è un
progresso morale. Il progresso è la sicurezza, la certezza, non che si andrà verso il meglio, ma
dell’interrotta capacità di andare verso il meglio: dire che siamo capaci di migliorare non vuol dire
che miglioriamo.
La certezza che siamo capaci di migliorare non significa la certezza che miglioriamo,
possiamo migliorare. Questa certezza, questa capacità è immutabile, la certezza che possiamo
migliorare sempre, perché questa capacità di migliorare è immutabile, non importa se anche
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abbiamo peggiorato, possiamo essere tornati indietro, per tornare alla metafora del progresso,
possiamo aver compiuto un regresso, anche un regresso profondo e grave, fino all’infimo livello
della moralità, fuori di metafora, possiamo esserci macchiati delle colpe più atroci: sempre, da
qualunque punto del nostro percorso, anche da questo, il più basso di tutti, esattamente da lì può
incominciare il nostro progresso. “Mio Dio quanto sono caduto in basso” è una affermazione che
nella sfera della moralità non ha senso; certo che importa, ma ai fini del progresso morale non
importa quanto sono caduto in basso. Non c’è un punto da cui posso progredire e un altro da cui non
posso più progredire, da qualunque punto posso progredire, questo è molto importante nel concetto
di progresso, questo è un aspetto per cui il concetto di progresso è un concetto morale e non un
concetto sacrale.
L’ultima cosa che voglio dire: Kant insiste in questo testo che abbiamo letto, “la certezza
della capacità immutabile di un progresso infinito”, insiste che infinito vuol dire che nessuno può
mai pensare di averlo compiuto, non che nessuno può pensare di aver fatto un progresso, ma di aver
compiuto la via del progresso e di aver raggiunto completamente la santità. Anzi, dice Kant, è molto
pericoloso pensarlo. Attenzione progresso vuol dire questo, vuol dire che è infinito nel senso che
mai è compiutamente realizzato, ma vuol anche dire, e non bisogna togliere questa parte perché
altrimenti si tradisce il significato di progresso, che se non è mai compiuto però, in ogni suo passo,
miglioramento, nessun passo all’infinito sarà la compiutezza di questo processo, ma ogni passo è
realmente un passo del processo, è realmente un miglioramento. Questo è molto importante, questa
è una caratteristica del concetto critico di progresso a cui dovete fare attenzione perché se togliete
questo e lasciate solo l’altra parte, che il progresso è un processo infinito e quindi mai compiuto, poi
cadete in una mentalità romantica, che è sensibile solo alla tensione all’infinito. Anche il pensiero
critico è una tensione all’infinito, lo vediamo per esempio in questa concezione del progresso che è
una tensione all’infinito, verso la santità, però nella mentalità romantica l’altra faccia della tensione
all’infinito è l’ironia per il finito. Se solo l’infinito vale allora tutto ciò che è finito non vale niente.
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L’ironia è un sorriso stretto, con la bocca stretta, all’ingiù, è un sorriso di disprezzo verso il finito,
mentre il pensiero critico è un pensiero che ha in sé forte la tensione verso l’infinito ma l’altra
faccia della tensione all’infinito non è l’ironia, ma lo humour. Anche lo humour è un modo di
sorridere, ma è tutto un altro sorriso, è un sorriso arcuato, con gli estremi in su, è un sorriso
benevolo, perché la tensione critica all’infinito sa con certezza che ogni realizzazione parziale,
difettosa, mancante, imperfetta, miserrima del bene, per quanto abbia tutte queste manchevolezze, è
una realizzazione del bene. Non solo, molto di più. Non solo è una realizzazione del bene, ma l’idea
del bene non sta altrove che in queste sue realizzazioni parziali.
Un’ultima cosa, vedete che allora nel rapporto tra moralità e santità Kant dice “per questo
noi diciamo santa anche la legge”, non solo l’ente razionale infinito è detto santo, ma anche la legge
morale è santa, perché la legge morale è identica con la volontà dell’ente razionale infinito.
Siamo al teorema quarto, con il solito impianto di un teorema. “L’autonomia della volontà
è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri ad esse conformi; invece ogni
eteronomia dell’arbitrio non solo non è il fondamento di nessuna obbligatorietà affatto, anzi, è
avversa al suo principio e alla moralità della volontà”. Dunque, questo teorema ha due tesi: la
prima è “l’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri ad esse
conformi”, la seconda tesi, leggete bene, non dice solo che, invece, l’eteronomia della volontà non è
il principio, perché altrimenti non sarebbe una tesi, è chiaro che se l’autonomia della volontà è
l’unico principio, l’eteronomia non è il principio, non sarebbe una tesi. Ma dice qualcos’altro:
“invece ogni eteronomia dell’arbitrio non solo non è il fondamento di nessuna obbligatorietà affatto,
anzi, è avversa al suo principio e alla moralità della volontà”. Quindi dice qualcosa in più, dice che
ogni eteronomia non solo non è il principio, ma si oppone al principio. Ogni principio eteronomo si
oppone alla legge morale, non solo non può fondarla, ma la impedisce.
Notate come ormai la terminologia, a proposito di quella famiglia di termini che, abbiamo
detto, pian piano viene precisandosi, cioè facoltà di desiderare, volontà, ecc. ormai è stata
puntualizzata. Infatti, qui Kant dice “l’autonomia della volontà”, ma non dice ogni eteronomia della
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volontà, ma dell’arbitrio, perché quella facoltà di desiderare che non è determinata dal principio
termine volontà, quando non è specificato (talvolta è addirittura specificato, volontà pura, ecc.)
distinzione è fissata.
Allora, vediamo la dimostrazione della prima tesi: “ossia: l’unico principio della moralità
(primo e secondo teorema) “ma insieme” l’unico principio della moralità consiste “nella
determinazione dell’arbitrio da parte della mera forma legislativa universale, di cui nella
massima deve essere necessariamente capace” (terzo teorema). Ricapitola il percorso fatto,
quindi due significati: la libertà come indeterminazione, come arbitro, come incondizionatezza; la
libertà come autodeterminazione, come determinazione della volontà solo da parte della ragione in
quanto forma. “Ma quell’indipendenza è libertà in senso negativo, mentre questa attività
legislatrice propria della ragione pura e in quanto tale pratica è libertà in senso positivo”.
Adesso dà anche un nome a questi due significati della libertà, la libertà trascendentale, cioè libertà
come incondizionatezza è libertà in senso negativo, che non vuol dire che non è libertà, ma è libertà
definita come non condizionato, in senso negativo, perché è definita nel significato di non essere
condizionato, e la libertà invece come autonomia è la libertà in senso positivo. Vedete, che il lavoro
“Dunque la legge morale non esprime altro che l’autonomia della ragione pura pratica
ossia” qui c’è nella versione che io leggo e in quelli che molti di voi hanno, “ossia della libertà” e
questa è effettivamente la traduzione letterale del testo tedesco, però non ha senso. Perché
autonomia della libertà è un’espressione che non ha significato, perché l’autonomia è la definizione
della libertà. Sicché, non che io voglia correggere Kant, ma bisognerebbe vedere nell’edizione della
Accademia, cioè nell’editio princeps: può darsi che ci sia anche là un suggerimento di correzione,
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talvolta i curatori di quell’edizione, che erano interpreti e studiosi di Kant, indicano dove loro
sembra proprio che ci sia un refuso, un errore, allora indicano una possibile correzione. Comunque
mi sembrerebbe più sensato che Kant scrivesse: “dunque la legge morale non esprime altro che
l’autonomia della ragione pura pratica ossia la libertà”, perché l’ha detto prima che l’autonomia
della ragione pura pratica è la definizione positiva della libertà e quindi non ha senso parlare
dell’autonomia della libertà, al più autonomia della volontà, quindi io suggerisco di leggere “la
libertà”.
possono concordare con la suprema legge pratica”. Attenzione anche qui a leggere giusto. Non
c’è punteggiatura nella traduzione che vi aiuti, ma dovete leggere in modo giusto, altrimenti cambia
tutto. “Alla quale soltanto”, cioè soltanto alla libertà come condizione formale, possono concordare,
non dovete leggere “alla quale soltanto esse” che non ha nessun senso: “alla quale soltanto, esse
possono concordare”.
“Quindi se la materia del volere, che non può essere altro che l’oggetto di una brama
che viene connessa con la legge, interviene nella legge pratica quale condizione della possibilità
natura, che induce a seguire qualche impulso o inclinazione, e la volontà non dà a se stessa la
che in questa maniera non può mai contenere in se la forma legislativa universale, in tal modo
non solo non fonda nessuna obbligatorietà, ma è perfino in contrasto con il principio di una
ragione pratica pura, e perciò anche con la convinzione morale, anche qualora l’azione
derivatane dovesse essere conforme alla legge”. Questa è la dimostrazione della seconda tesi.
Sono dimostrazioni semplici. La prima tesi è dimostrata ricapitolando il percorso fatto: poiché
nessun principio materiale può essere il principio di una ragione pura pratica, ma solo il principio
formale come principio di determinazione della volontà, dunque, l’autonomia è l’unico principio di
il principio di tutte le leggi morali, ogni determinazione della volontà da parte non della sola forma
e quindi della materia, non solo non può essere il principio che fonda la legge morale, ma anche la
rende impossibile, la impedisce. Questa aggiunta è importante, perché è questo quello che si chiama
non significa vagamente che Kant era uno che non perdonava niente, rigorismo kantiano significa
che la sua concezione morale è tale per cui non solo la legge morale è fondata sul principio formale
della ragione, ma che deve essere fondata solo sul principio formale della ragione, solo su questo.
moralità.
Nessun principio eteronomo deve intervenire come motivo determinante, anche solo accanto
a quello puro. Questo non significa, ve lo ripeto, che non possa essere contento quando agisco bene,
questa è un’altra questione, ma non deve essere un motivo che mi determina ad agire. È chiaro che
sono contento se mi applaudono e mi approvano, ma non solo non deve essere un motivo che mi
determina ad agire invece che la pura legge formale della ragione, ma anche solo accanto alla pura
Ancora un attimo, perché qui interviene una parola e quindi anche un concetto che è molto
importante nel discorso kantiano e che sarà il tema del terzo capitolo: cioè quel concetto che la
traduttrice traduce con “convinzione”. Vedete che la traduttrice è consapevole di fare un’operazione
che potrebbe essere discussa, infatti, come suo solito, tra parentesi mette la parola tedesca
Gesinnung, che di per sé non è necessario mettere perché c’è nella pagina sinistra. Perché ce lo
vuole segnalare? Ve lo vuole segnalare perché questa è una parola importante nel discorso kantiano,
è una parola che ha dato anche luogo a molte interpretazioni di Kant e per di più è una parola che
“Intenzione” è la traduzione più usata dai traduttori italiani, ed è per questo che la traduttrice si
discosta, proprio perché questa traduzione, intenzione, può essere problematica per la storia che ha
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avuto nella interpretazione di Kant, quindi lei, e vedete come tradurre è proprio un’operazione
scientifica di interpretazione, prende le distanze da quella parola e dice ‘no, io ne uso un’altra’,
anche se in questo modo mi discosto dalla tradizione abituale, lo faccio appunto per discostarmi e
evitare al lettore di cadere nelle ambiguità della traduzione “intenzione”. Questo perché, per il ruolo
che questa parola ha nel discorso kantiano, è stata motivo di una delle tante false etichette che sono
state appiccicate alla concezione kantiana dell’etica, anche questa arcinota: l’etica di Kant è un’etica
dell’intenzione: questo è stato spesso detto con significato negativo, un difetto dell’etica di Kant è
l’essere un’etica dell’intenzione, cioè che si occupa delle intenzioni ma è indifferente agli effetti che
queste producono. È un’etica della sola intenzione e quindi è un’etica che poi viene accostata alla
“coscienza infelice” di Hegel. Hegel stesso, quando parla della “coscienza infelice” pensa non solo,
ma anche a Kant.
Ora, la parola Gesinnung, nel significato in cui Kant la usa, non significa la vuota
intenzione, non significa la pia intenzione. Quando Kant dice che ogni etica eteronoma è in
contrasto con il principio di una ragione pratica pura e perciò anche con la Gesinnung morale non
intende dire con la vuota intenzione: per questo la traduttrice cerca un’altra parola e usa la parola
convinzione. Ci stanno tutte e due a tradurre Gesinnung, ma il punto è che cosa intende Kant. Allora
che cosa intende Kant? Tanto per non controbattere una interpretazione infondata con altre
interpretazioni fantasiose, che cosa intende Kant lo trovate anche nel terzo capitolo in questa
edizione a pagina 275. Terzo capitolo: Dei moventi della ragione pura pratica, la prima nota che
trovate, nota di Kant evidentemente. Vi ho detto che questo tema della Gesinnung è il tema
principale del terzo capitolo, in quella nota si dice: “di ogni azione conforme alla legge che
peraltro sia avvenuta non in considerazione della legge, si può dire: è moralmente buona
meramente secondo la lettera, ma non secondo lo spirito”. Tra parentesi di Kant trovate
Gesinnung, quindi qui è esplicitamente posta come sinonimo di spirito opposto a lettera.
È chiaro che qui Kant, in questa nota, adotta un caratteristico e noto a tutti lessico paolino,
soprattutto nella Lettera ai Romani, ma anche altrove, dove dice che “bisogna osservare la legge
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secondo lo spirito e non solo secondo la lettera”. Del resto, anche nei Vangeli Gesù se la prende con
coloro che rispettano ogni dettaglio della legge secondo la lettera ma non secondo lo spirito, ci sono
infiniti luoghi dove questo si può trovare. Kant qui intenzionalmente riprende questo lessico
paolino, seguire la legge non solo secondo la lettera ma secondo lo spirito e tra parentesi mette
Gesinnung. Dunque, Gesinnung ha questo significato. Questa distinzione è quella che in questo
passo del terzo capitolo, ma anche in altri luoghi che incontreremo, per Kant discrimina tra legalità
e moralità. Legale è un’azione conforme alla legge: se io agisco in modo conforme alla legge agisco
in modo legale. Morale è qualcosa di più, è un’azione che non solo è conforme alla legge ma è
anche fatta solo per la legge, in cui la legge non è solo il motivo determinante oggettivo della mia
azione ma è anche il motivo determinante soggettivo. Dunque, è chiaro che ogni azione morale è
anche legale, ma non necessariamente ogni azione legale è anche morale, perché un’azione per
essere morale deve essere non solo conforme alla legge ma anche fatta unicamente a motivo della
legge. Questo è il senso di Gesinnung, tradotto con intenzione, che non c’entra niente con la mera
intenzione o l’indifferenza agli effetti e alle conseguenze, ma indica che non solo la legge morale è
Direi che in quella nota nel terzo capitolo Kant chiarisce in modo inequivoco la questione,
però siccome questo termine “intenzione” porta con sé tutta una storia di misinterpretazione, la
traduttrice preferisce evitarlo e ne usa un altro, volutamente, e secondo me è intelligente a farlo. Qui
mi fermo perché il discorso sulla Gesinnung è soprattutto il tema del terzo capitolo.
Prima nota, voi vedete che ci sono due note prima che finisca l’intero capitolo, note al IV
Teorema. “Dunque non si deve mai ascrivere alla legge pratica una prescrizione pratica che
sempre empirica) “Infatti la legge della volontà pura, che è libera, pone quest’ultima in una
sfera del tutto diversa da quella empirica, e, poiché la necessità che tale legge esprime non
deve essere una necessità naturale, può consistere esclusivamente di condizioni formali della
possibilità di una legge in genere”. Il comando della legge morale è necessario e necessitante, ma
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non nel senso della necessità fisica, altrimenti vorrebbe dire che la volontà non è più libera perché
necessario è opposto a libero, non possiamo fare giochi di parole. Necessario è l’opposto di libero,
se qualcosa è necessario non è libero, se qualcosa è libero non è necessario. Qualunque capriola non
ci permette di smuovere quest’opposizione, ma questo per quanto riguarda la necessità fisica, cioè
la necessità teoretica. La causalità libera è differente dalla causalità necessaria, lo abbiamo già
detto, e come noi non dobbiamo cercare di conoscere i fenomeni naturali se non mediante la
causalità necessaria e mai attraverso la causalità libera, noi non possiamo conoscere i noumeni, cioè
le intenzioni e le azioni della volontà, se non mediante la causalità libera, non mediante la causalità
necessaria. Quindi quando diciamo che la legge morale è necessaria noi non lo diciamo nel senso
della necessità fisica, della causalità naturale, ma nel senso della necessità morale.
Già vi avevo fatto notare la differenza tra il concetto di possibilità fisica e di possibilità
morale. Adesso vediamo la differenza tra necessità fisica e necessità morale. La necessità morale
non è quella fisica, non significa che non c’è libertà, ma significa l’obbligatorietà del comando: tu
devi. “Tu devi” è un comando che non mi permette nessuno scostamento dal suo comandare, “tu
devi”, non è che è “meglio se”, “ti consiglio”, lo abbiamo visto in un passo che abbiamo letto
precedentemente: è l’obbligatorietà del comando categorico, questo si intende per necessità in senso
morale. È una costrizione, ma non è una costrizione fisica è una costrizione morale. Vi ricordate,
torneremo sempre a quella frase perché è estremamente compendiosa: “non so cosa farò, ma so che
posso perché devo”. È chiaro in questa frase che “devo” significa una necessità con cui mi è
comandato quello che devo fare, ma allo stesso tempo non toglie che posso fare altrimenti. Non è
una necessità fisica, fenomenica, è una necessità noumenica. Ora, questa necessità morale, questa
necessità noumenica, a differenza di quella fenomenica non è opposta alla libertà, questo è il punto.
Se io sono necessitato nel senso della necessità fisica allora non sono libero, non c’è niente da fare,
ma se io sono necessitato nel senso della necessità morale, nel senso che la legge morale mi
comanda di fare così, questo non toglie la mia libertà. Perché? Perché, questo è il senso del quarto
teorema, è vero che la legge morale mi obbliga, ma chi mi obbliga? Io stesso, perché io sono la
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ragione che mi obbliga. La ragione, la legge è una legge della ragione, è la ragione che attraverso la
legge morale mi obbliga, ma la ragione non è un principio esterno a me, è la mia ragione, sono io
Per questo Kant usa questo termine molto pregnante: autonomia, perché sono un essere
soggetto alla legge che però mi sono dato da me stesso. Io sono allo stesso tempo il suddito e il
sovrano di questa legge. Io sono obbligato ma sono anche la voce della ragione che mi obbliga. Per
questo la necessità dell’obbligo non è contraddittoria con la mia libertà ma al contrario, è la piena
realizzazione della mia libertà secondo quello che abbiamo visto già, perché questo discorso è
incominciato con i due problemi. È lì che pian piano si è maturato e si è approfondito questo doppio
significato negativo e positivo dell’idea di libertà. Io sono libero perché non sono condizionato da
altro, ma questo significato sarebbe lacunoso, manchevole se non fosse arricchito dall’altro
significato, io sono libero, non solo perché non sono condizionato da altro, ma perché sono sovrano
di me stesso, sono padrone di me stesso, sono colui che si autodetermina secondo la legge della
ragione. Allora, vedete, in questo caso la necessità intesa come necessità noumenica non è
“Ogni materia di regole pratiche poggia sempre su condizioni soggettive, che non
procurano, per gli enti razionali, nessuna universalità che non sia soltanto quella condizionata
(nel caso che io desideri questo o quello, che cosa debba io allora fare per attuarlo)” (è la
situazione degli imperativi ipotetici) “e tutti quanti ruotano intorno al principio della propria
felicità”. Questa non è che una ricapitolazione dei primi due teoremi. “Ora, sebbene sia innegabile
che ogni volere debba necessariamente avere un oggetto, e quindi una materia, tuttavia
quest’ultima non è affatto il motivo determinante e la condizione della massima;” (in una
volontà morale, in una volontà pura) ”infatti se tale materia lo è, la massima non può essere
presentata con una forma universalmente legislativa, poiché l’attesa dell’esistenza dell’oggetto
sarebbe allora la causa determinante dell’arbitrio,” (vedete usa arbitrio, non volontà) “e
dovrebbe essere posta a fondamento del volere la dipendenza della facoltà di desiderare
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dall’esistenza di una qualche cosa; ed essa può essere cercata sempre soltanto in condizioni
empiriche, e quindi non può mai offrire il fondamento per una regola necessaria e
universale”. Questi sono i primi due teoremi, non c’è niente di nuovo.
Quando abbiamo dei passaggi così – ogni tanto Kant ricapitola i passaggi del discorso per
fare poi il passo successivo – è un buon test per voi per vedere se seguite il filo del discorso: se lo
seguite avete acquisito il percorso fatto finora. “Così la felicità di altri enti potrà essere l’oggetto
dovrebbe presupporre che noi nel benessere di altri non trovassimo solo un naturale
simpatetico.” Dunque, qui Kant, continua quel discorso fatto a rate che abbiamo visto lungo le note
sulla felicità che non può essere il principio determinante della volontà morale. Vi ricordate, è un
discorso che va avanti a pezzi, man mano che gli elementi del discorso principale lo permettono.
Qui Kant, in questa nota, propone una tappa ulteriore di quel discorso, cioè presenta una
questione, che potrebbe anche essere una obiezione, alla sua tesi che la felicità non può essere il
principio della legge morale. Va bene, abbiamo visto e ammettiamo che la propria felicità non possa
essere il principio che fonda la legge morale, il principio determinante della volontà morale, ma la
felicità degli altri? Capito qual è la questione? Finora abbiamo parlato della felicità sempre come la
propria felicità, però si può pensare anche di fondare la moralità sul principio della felicità altrui o
addirittura della felicità universale. Questo, in prima apparenza, non è più un motivo egoistico, non
è più un motivo che determina la legge della mia azione in base alla ricerca del mio piacere, perché
la felicità è piacere stabile ma non più mio, ma il piacere degli altri o addirittura il piacere di tutti.
Allora Kant affronta questa possibile obiezione, questa considerazione. La felicità non come felicità
propria, ma come felicità altrui può essere il principio determinante della legge morale? No.
Assolutamente no. Naturalmente non che sia male desiderare la felicità altrui, sempre ricordatevi
questa questione, Kant non sta negando la legittimità della ricerca della felicità, ricordate l’inizio
della prima nota: “la felicità è quanto tutti gli uomini inevitabilmente ricercano” e quindi non ha
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nessuna intenzione di negare quanto sia importante la ricerca della felicità. Il punto non è mai
questo, il punto non è se è male volere essere felici, non è male voler essere felici, è bene voler
essere felici. Il punto è un altro: la felicità può essere il motivo determinante della mia volontà
moralmente determinante? Non se è un buon oggetto, ma se può essere il motivo determinante della
volontà morale. Non può esserlo per tutti gli argomenti che abbiamo visto a partire dai teoremi
stessi, primo e secondo, ma nemmeno nella versione “la felicità degli altri”. Perché la felicità di altri
enti può essere l’oggetto di una volontà di un ente razionale, ma se fosse il motivo determinante
della massima si dovrebbe supporre che noi, nel benessere di altri non trovassimo solo un naturale
godimento ma anche un bisogno “quale comporta negli uomini il modo di sentire simpatetico”.
Cioè, anche la felicità degli altri non può essere il motivo determinante perché, per dirla alla breve,
è pur sempre un principio materiale e quindi come principio materiale cade sotto il primo teorema, è
sempre empirico, perché in un modo più o meno evidente, forse nel caso della felicità degli altri
meno evidente che nel caso della felicità propria, ma anche qui c’è pur sempre la ricerca del
Perché la felicità degli altri è la ricerca del piacere? Badate, non sto parlando del piacere
degli altri, è ovvio che se io agisco per la felicità degli altri agisco per il loro piacere, perché felicità
è il piacere stabile, ma il punto, dice Kant, è che se io opero per la felicità degli altri, vuol dire che
nel motivo che determina la mia volontà c’è anche sempre, anche se meno evidente, un’attesa di un
mio piacere. Per spiegare questo fa riferimento a un termine, e quindi a un concetto, molto
importante nel pensiero etico del ’600 e del ’700 che è quello di simpatia. Taluni grandi teorici
dell’etica del sentimento morale avevano individuato proprio nella simpatia il sentimento morale,
cioè quello che sta a fondamento dell’agire morale. La simpatia, essendo un sentimento, è empirica,
implica la ricerca e l’attesa di un proprio piacere. Il ragionamento di Kant è che se io sono motivato
nella mia volontà e nella mia azione dalla felicità degli altri è perché la felicità degli altri è qualcosa
che produce anche una mia felicità, sì, io sono soddisfatto nel vedere gli altri soddisfatti, io provo
felicità nel vedere gli altri felici, questa è la simpatia. Kant non nega che negli uomini ci sia questo
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sentimento della simpatia, Kant lo riconosce, ed è molto importante, ma non può essere il motivo
determinante, perché sarebbe un motivo materiale. È vero che io agisco perché gli altri siano felici,
ma anche perché io sia felice del fatto che gli altri siano felici; se non ci fosse questa sorta di
consonanza sentimentale, che è letteralmente simpatia, io non sarei interessato alla felicità degli
altri. Se sono interessato alla felicità degli altri è anche, sempre, perché da essa dipende la mia
felicità.
Ora, per Kant, questa è una inclinazione naturale dell’uomo, non è che la disconosca, ed è
un’inclinazione molto importante. In Kant è un’inclinazione che fa parte di una inclinazione più
complessa, però qui non mi dilungo perché dovremmo entrare nell’antropologia kantiana e qui
invece siamo nella filosofia trascendentale. Ma quando Kant parla sul piano antropologico, parla
della socievole insocievolezza dell’uomo. Gli uomini sono in relazione tra loro in una socievole
incontrarsi, ad andare d’accordo, essere insieme, e allo stesso tempo una inclinazione al conflitto, al
contrapporsi. Ci sono tutti e due questi aspetti nelle caratteristiche antropologiche degli uomini, ma
non solo ci sono tutti e due ma sono complementari, sono due facce della medesima antropologia,
tanto è vero che poi Kant, in certi passi del suo discorso antropologico, arriva perfino a sfruttare
questa complementarietà. Per esempio sostiene che le guerre hanno una funzione in questo, perché
mediante le guerre è vero che gli uomini si uccidono, le guerre sono espressione dell’insocievolezza
degli uomini, sono espressione della loro conflittualità, però allo stesso tempo mediante le guerre gli
eserciti si spostano, gli stranieri entrano in terre che non conoscevano, conoscono i costumi degli
altri e quindi, poi, dopo la guerra, si ha una maggiore conoscenza reciproca: insomma la guerra è un
contatto culturale tra due popoli che poi produce, una volta instaurata la pace, commercio, produce
complementare alla socievolezza, è evidente che sono contrapposte ma non sono separate, l’uomo
con l’altro uomo è sempre in un rapporto di socievole insocievolezza. Dunque, un aspetto di questa
moralisti che davano un grande riconoscimento a questo sentimento. Anche Kant gli dà un grande
riconoscimento, ma non come motivo determinante della volontà, questo è il punto, perché
altrimenti rientra nel primo teorema: è pur sempre un motivo materiale e se è un motivo materiale
vuol dire che, anche se non è così evidente, come nel caso della propria felicità, però anche qui, in
qualche modo, io sono mosso da un piacere mio che mi aspetto, o perlomeno anche da un piacere
mio. Non dico che non mi muove il fare contenti gli altri, il fare felici gli altri, ma in questo fare
felici gli altri mi aspetto anche una mia soddisfazione. Così è chiaro, il caso della felicità degli altri
è ricondotto alla felicità propria ed è quindi soggiacente agli stessi argomenti contro la felicità
“Dunque la materia della massima può bensì restare;” cioè si può ed è lecito, è anche
una buona cosa volere la felicità degli altri, “però non deve essere la sua condizione, perché in
tal caso la massima non potrebbe costituire una legge. Dunque la mera forma di una legge,
che limita la materia, deve essere insieme una ragione, un fondamento per assegnare tale
materia alla volontà, ma senza presupporla”. Questa mera forma della legge, è ora che ci
fermiamo e ci riflettiamo sopra. Che cosa significa “la mera forma della legge”? Qui nel testo di
Kant è Form eines Gesetzes, ma in altri luoghi usa il termine Gesetzlichkeit o Geseztmässigkeit,
sono parole composte dalla parola Gesetz che significa legge. Gesetzlichkeit a volerlo tradurre in
modo letterale, ci sarebbe anche la parola in italiano, che è legalità, questa terminazione in ichkeit è
una delle forme che il tedesco ha per fare il sostantivo astratto. È analogo alla terminazione italiano
“ità”. La quantità è il sostantivo astratto del quanto, l’onestà è il sostantivo astratto di essere onesto.
In italiano quella terminazione è una di quelle con cui facciamo il sostantivo astratto. Analogamente
questa terminazione in keit è una delle terminazioni con cui il tedesco fa il sostantivo astratto. Si
potrebbe tradurlo con legalità, solo che è meglio non farlo perché il termine legalità nell’uso italiano
è troppo fortemente connotato giuridicamente, si potrebbe usare e dire: guardate che non ha il
significato giuridico, ma bisognerebbe tutte le volte fare uno sforzo enorme, intellettuale, per “dico
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legalità ma non dico nel senso giuridico”. Quindi è meglio non usarlo, Kant lo usa, abbiamo parlato
oggi della differenza tra moralità e legalità, ma appunto anche qui in un significato giuridico.
Legale è l’azione conforme alla legge, illegale è quella contraria alla legge, ma questo è il
significato giuridico. Morale è l’azione non solo conforme alla legge, ma fatta per la legge.
Allora, Gesetzlichkeit, prendiamo però il senso di questo sostantivo astratto, è l’essere legge
di una legge, ciò per cui una legge è legge, è per dire, ma badate, fate le differenze di distanza
culturale, è come quando diciamo che l’idea platonica rispetto al fenomeno è la cavallinità rispetto
al cavallo. La cavallinità, e ovviamente la cavallinità non esiste, e ciò per cui un cavallo è un
tutto il suo sfondo ontologico, è ciò per cui qualcosa è ciò che è. Un cavallo è un cavallo perché ha
la forma del cavallo, non stiamo parlando tanto della forma esterna ma della forma nel senso
dell’essere cavallo, del resto forma è uno dei termini che Platone usa per indicare l’idea, ed è la
componente fondamentale della sostanza in Aristotele, come forma interna, ciò per cui quell’essere
è ciò che è. Un cavallo è un cavallo, “perché è un cavallo ma ha tre gambe? Sì, ma è un cavallo con
tre gambe però è un cavallo”, “ma gli hanno tagliato la coda? Sì, è un cavallo senza coda, ma è un
cavallo”, “ma ha dei tasti con delle cifre scritte sopra? No, allora è una macchina da scrivere, non è
un cavallo con i tasti, è una macchina da scrivere”. Perché se ha tre gambe continua a essere un
cavallo e se ha i tasti non è un cavallo? Capite, è difficile stabilire perché, però tutti capiamo che c’è
un discrimine per cui qualcosa continua a essere sé stesso, continua a essere ciò che è per quante
modifiche o per quante differenze ci siano tra l’una e l’altra, e invece per certe differenze non è più
quella cosa lì. E che cos’è questo? La forma, è questo il senso, è ciò per cui ciò che è, è quello che
è. Ora quando noi diciamo la forma di una legge intendiamo questo: ciò per cui una legge è una
legge, pur con tutte le differenze che ci sono tra le leggi. Però, per quanto grandi siano le differenze,
c’è un motivo per cui diciamo che sono tutte leggi, mentre per un’infinità di altre cose diciamo che
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Abbiamo avuto un esempio nella nota alla definizione, in cui Kant nella definizione stessa
dice che alcuni principi sono leggi altri principi non sono leggi. Ma pensate, non solo la differenza
tra le singole leggi, perché ovviamente ogni legge è differente dall’altra altrimenti sarebbe la stessa
legge, se parliamo di due leggi evidentemente sono differenti l’una dall’altra, sono differenti ma
sono leggi tutte e due. Che cos’è questo che hanno in comune? Pensate anche alla differenza ancora
più grande: abbiamo parlato di legge morale, stiamo parlando di legge morale e abbiamo detto tante
volte già che è diversa dalle leggi fisiche, è chiaro che le leggi fisiche non sono le leggi morali, che
ci sono differenze importantissime, però le chiamiamo leggi. Se le chiamiamo leggi vuol dire che
qualcosa in comune c’è. E questo qualcosa in comune è esattamente la forma della legge, che poi
nel caso specifico è l’oggettività, la necessità, l’universalità e il fondamento a priori: questo è ciò
che fa di una legge una legge, che sia una legge fisica, che sia una legge morale, ecc. Se la chiamo
legge è perché intendo questo: è una proposizione dotata di oggettività, necessità, universalità e
quindi è una legge. È dalle sue caratteristiche formali che prende questo significato, non dai suoi
contenuti, dalla sua materia che sono evidentemente differenti per ogni legge.
Quindi la forma della legge è questa, la Gesetzlichkeit è l’essere legge di una legge. Adesso
riempiamo anche di un significato più consistente quel terzo teorema: se la volontà deve essere
determinata da una legge, “questa deve essere tale solo quanto alla forma e non quanto alla
materia”, ma “quanto alla forma” vuol dire qualcosa di molto importante, non è la vuota forma:
deve avere questa validità oggettiva, necessaria e universale. Ecco perché quella formulazione della
legge fondamentale: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa, sempre, valere anche
come principio di una delle legislazione universale”, cioè se la tua massima non può avere il valore
oggettivo, necessario e universale di un principio della legislazione universale allora non può avere
il valore di una legge, può essere una massima che tu segui per il tuo comportamento, può essere
anche una massima efficace o non efficace, può essere una massima prudente – su questo discorso
sulla prudenza arriveremo nella seconda nota al quarto teorema – ma non può essere una legge
morale. È chiaro quindi cos’è la forma della legge? La forma della legge è il carattere formale, che
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però vuol dire qualcosa di ben preciso: la sua validità incondizionata, la sua validità oggettiva
necessaria e universale.
ciascuno (come mi è in realtà lecito fare per gli enti finiti), può diventare una legge pratica
obiettiva solo se includo, in essa, anche la felicità propria degli altri. Dunque la legge di
promuovere una felicità degli altri non scaturisce dal presupposto che sia questo un oggetto
per l’arbitrio proprio di ciascuno, ma meramente dal fatto che la forma dell’universalità che
abbisogna alla ragione quale condizione per dare a una massima dell’amore di sé la validità
obiettiva di una legge diventi il motivo determinante della volontà; e dunque il motivo
determinante della volontà pura non era l’oggetto (la felicità degli altri), bensì esclusivamente
la mera forma legale con cui limitavo la mia massima fondata sull’inclinazione, per
procurarle l’universalità di una legge e renderla così adeguata alla ragione pura pratica;
soltanto da tale restrizione – e non dell’aggiunta di un movente esterno – poteva poi sorgere il
concetto dell’obbligo di estendere la massima del mio amore per me stesso anche alla felicità
altrui”. Diverso, dice qui Kant, se io pongo la questione della felicità altrui in altro modo, cioè di
fronte alla mia inclinazione dell’amore di sé, dell’amore di me stesso, quindi della mia propria
felicità, che è certamente il contenuto di una massima a cui sono inclinato all’agire per la mia
propria felicità, applico quella forma della legge fondamentale: agisci in modo che la massima della
tua volontà possa sempre valere anche come principio di una legislazione universale. Allora mi
chiedo questo voglio essere felice può essere elevato a legge universale? No, così no, certo, se lo
trasformo in una massima universale, “che tutti agiscano per la felicità universale”, allora sì, ma ciò
che ne farà una legge non è il contenuto, la felicità, ma questo carattere di universalità in senso
rigoroso, e quindi di oggettività che gli ho dato: Questo la eleva a valore di legge, non il contenuto
cioè la felicità.
“L’esatto opposto del principio della moralità è quello della propria felicità, se ne è
fatto il motivo determinante della volontà”. Vedete, ancora una volta Kant insiste: la felicità
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propria è l’opposto della moralità se ne faccio motivo determinante, non è che sia illecito come
oggetto del desiderio, è opposto alla moralità quando pretende di essere motivo determinante della
volontà.
“Dove – come ho mostrato prima – deve essere annoverato tutto ciò che ripone il
motivo determinante che deve servire da legge comunque altrove, rispetto alla forma
legislatrice della massima”. Dunque, guardate che cosa sta dicendo: se non fosse che Kant è un
genio è un’affermazione che dovremmo considerare presuntuosa, perché sta dicendo che posto che
l’autonomia è l’unico motivo determinante della legge morale, seconda tesi, ogni eteronomia è
opposta alla moralità, il che vuol dire che ogni concezione morale che non si fondi sulla pura forma
della legge è eteronoma e dunque è una concezione, che non solo non è una corretta concezione
morale, ma è una concezione che si oppone alla corretta concezione morale, il che vuol dire, tutte le
Tutte le altre concezioni morali sono eteronome, pertanto non sono corrette, non solo, ma
sono anche opposte alla corretta concezione morale. Tutte, da Aristotele in poi, tutta la storia
dell’etica aspettava Kant. Tutta la storia dell’etica è la storia di un grande enorme errore che solo la
teoria kantiana corregge. Questo vuol dire, e poi vedrete che alla fine della nota lui fa anche una
tipologia per le etiche eteronome, con tanto di schema, e praticamente ci sono dentro tutte, eccetto
la sua, il che vi deve far riflettere. Poi la vostra riflessione avrà l’esito che avrà, magari sarà appunto
dire “meglio che lasciamo perdere Kant e parliamo di gente più seria”, va bene, però certamente
non si può accettare Kant senza fare finta di niente, perché di fatto l’etica di Kant è certamente il
modello più classico che esista di etica deontologica cioè di un’etica fondata su principi
modello più classico di etica deontologica, ma è quel modello di etica deontologica così radicale
che pretende che l’etica o è deontologica o non è, questo è il punto. Che l’etica in senso corretto può
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Il dibattito oggi, ma anche in passato, ma anche oggi è ricchissimo tra etiche deontologiche,
etiche descrittive, etiche consequenzialiste, ecc., varie forme di concezione etica che naturalmente
nel dibattito sono messe sullo stesso piano di legittimità, ed è giusto, perché in un dibattito non si
può discutere con un altro se io non ne riconosco la legittimità. Ricordatevi che il primo atto perché
dell’interlocutore. Lo dico perché noi viviamo purtroppo in un malcostume, non solo politico ma
che ha avuto origine nella politica e che però è diventato diffuso nell’intera società, in cui, invece, il
innanzitutto dichiaro e affermo che lui non è legittimo nelle sue opinioni e poi discutiamo,: a partire
da questa mossa non è possibile discutere, non si può discutere con qualcuno di cui non si riconosca
Ora, questa è la barbarie sia ben chiaro, perché la prima mossa perché ci sia un confronto,
frase di Voltaire in una lettera, non mi ricordo più a chi, “caro signore io penso esattamente
l’opposto di quello che lei pensa, ma darei la vita perché lei possa continuare a sostenere le sue
opinioni”. Questo è il punto, se non si parte da questo presupposto non ci può essere confronto, ci
può essere solo guerra, non dico nemmeno scontro, aggressione reciproca, ve lo dico e ve lo ripeto,
perché dovrebbe essere ovvio ma nella nostra depravata società non solo non è ovvio ma è quasi
stato perso di vista. Capite? Prima mossa è dire “io non riesco a capire e non riesco ad accettare che
le tue argomentazioni siano valide, però sono le tue e riconosco la tua legittimità di averle”.
Se il primo atto non è la legittimazione dell’altro non ci può essere confronto, ma solo
aggressione reciproca: ricordatevelo questo, perché purtroppo il trend della nostra società, vi
insegna tutt’altro, ma è l’uscita dalla barbarie, è uno degli elementi fondamentali per uscire dalla
barbarie. È grazie a questo elemento che noi viviamo in una delle belle repubbliche democratiche,
perché come vi ho detto è fondata su una delle più belle costituzioni democratiche, perché gruppi
politici che avevano idee, le più lontane e anche conflittuali tra loro, sono stati capaci di riunirsi in
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assemblea e quindi implicitamente ed esplicitamente a riconoscersi reciprocamente la legittimità di
partecipare al dibattito con le proprie idee, ogni gruppo con le proprie idee, e di confrontarsi, senza
(Domanda: due punti scusi professore, potrebbe solo ripetere il concetto che ha detto prima
sull’autonomia e le eteronomie?) Risposta: l’autonomia significa appunto una libertà nel suo
significato positivo, cioè una determinazione necessaria della volontà, che però è libera perché è
una determinazione necessaria, ma non da altro ma dalla volontà stessa, sono io che in quanto
ragione mi determino in modo obbligatorio, quindi necessario in senso morale, non in senso fisico.
L’eteronomia è ogni altra forma di determinazione che non sia l’autodeterminazione. Badate
autodeterminazione vuol dire “determinazione da parte di sé stesso” non nel senso del soggetto
empirico, ma del soggetto trascendentale, cioè la ragione in me, la ragione che io sono. Lo dico
perché questo è stata una delle accuse che è stata fatta a Kant e continua a essere ripetuta, cioè del
soggettivismo morale di Kant: ognuno stabilisce le sue leggi in forza di una sbagliata
non io soggetto empirico, io soggetto trascendentale, cioè la legge morale, la ragione, quella ragione
che io sono, non c’è nessun soggettivismo, al contrario se la legge non è oggettiva non è legge.
Eteronoma è ogni determinazione della volontà che abbia la sua origine in un principio differente
dalla propria stessa ragione e quindi da un principio materiale, perché il principio razionale è quello
formale. Ogni principio che non sia quello formale è necessariamente materiale, non esiste un altro
principio formale.
Una precisazione della mia opinione, che naturalmente è mia e non deve essere
necessariamente accettata, qualcuno può pensarla diversamente: il discorso che ho fatto prima sulla
legittimazione dell’interlocutore come primo movimento senza il quale non c’è un confronto, non
significa che bisogna legittimare ogni interlocutore. Questa è la differenza tra pluralismo e
relativismo, però non significa quello, perché io credo, ma altri invece la pensano differentemente e
hanno una legittimità a pensare differentemente, che esista un discrimine regolativo. Non lo
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possiamo delineare nettamente, però ha un significato orientativo che è quello che io indico col
termine di umano contrapposto a anti-umano, non umano, e questo discrimine segna il campo di ciò
che è legittimo. Non è lo stesso che bene e male, c’è una quantità di male che è umano e c’è anche
del bene che è antiumano, però credo che lì ci sia una linea di confine, e che per opinioni, o
addirittura per azioni, ma anche solo per opinioni che vanno oltre questa linea di confine allora sia
legittimo, e forse anche doveroso, non riconoscere loro legittimità, nemmeno legittimità a
confrontarsi
Nota 2: “L’esatto opposto del principio della moralità è quello della propria felicità, se
ne è fatto il motivo determinante della volontà; dove – come ho mostrato prima – deve essere
annoverato tutto ciò che ripone il motivo determinante che deve servire la legge comunque
altrove, rispetto alla forma legislatrice della massima. Però tale contrasto non è meramente
logico, come quello che insorgerebbe fra regole empiricamente condizionate che si volesse
della ragione, relativamente alla volontà, non fosse così chiara, così perentoria, così
percettibile perfino per l’uomo più comune, manderebbe completamente a picco la moralità;
ma tale situazione può ancora sussistere solo in quelle speculazioni confuse e tortuose delle
scuole che sono abbastanza temerarie da evitare di udire quella voce celeste, per tenere in
piedi una teoria che non sia troppo faticosa”. Ancora una volta il riferimento al senso comune.
“Il senso comune lo sa benissimo”, “la voce celeste”, cioè la voce della ragione è così, guardate
come insiste, c’è un’enfasi retorica: “la voce della ragione e così chiara, così perentoria, così
percettibile”, proprio tre attributi uno dopo l’altro per dire: l’uomo comune non ha dubbi sulla legge
morale, i dubbi vengono insinuati solo da una artificiosa e laboriosa elaborazione intellettualmente
falsa, cioè “solo da quelle speculazioni confuse e tortuose delle scuole abbastanza temerarie da
evitare di udire quella voce celeste, per tenere in piedi una teoria che non sia troppo faticosa”.
Qui torniamo ancora a questa affermazione che abbiamo già incontrato in Kant: “il senso
comune sa benissimo” cos’è la legge morale, la voce della ragione è in ogni persona. Ora, qui c’è
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sempre quel dubbio che aveva sollevato un vostro compagno: ma è proprio vero? Io conosco un
sacco di gente che è totalmente insensibile alla voce della ragione, si comportano male ma non
hanno nessuna consapevolezza di questo. Ora, è vero, ne conosco tanti anch’io, non che si
comportano male, tutti ci comportiamo male, ma che si comportano male e non hanno la minima
consapevolezza di questo. Però, voi dovete pensare, dovete intendere l’affermazione di Kant non
come una affermazione empirica. Quanto Kant dice qui è che tutti gli uomini hanno in sé la voce
della ragione: chiara, perentoria, ecc., non fa una constatazione empirica, perché non è che ai suoi
tempi fosse diverso che ai nostri, e non è che Kant non veda quello che ognuno vede. Voi dovete
capire che l’affermazione, che è importante, “tutti gli uomini, nel senso di tutte le persone, di tutti
gli enti razionali finiti, hanno in sé chiara e perentoria la voce della ragione”, come affermazione
empirica, dal punto di vista di Kant, non varrebbe niente, perché è un principio innegabile della
dottrina trascendentale: non è dato il fenomeno morale. E questo principio vuole anche dire che noi
non possiamo constatare empiricamente questa presenza della voce della ragione in ogni persona. Il
punto è che questa affermazione “in ogni persona è presente chiara la voce della ragione” non è
essere presente.
Ora, qualcuno di voi a questo punto penserà “ma così ci allontaniamo dalla realtà e facciamo
una filosofia dell’illusione”, non è una filosofia dell’illusione è una filosofia della realtà, è
importante per leggere la realtà questa affermazione. In ogni persona è presente chiara la voce della
ragione. Questo è essenziale, proprio per comprendere la realtà, per cercare di farvene rendere conto
vi invito a considerare non l’aspetto di cui abbiamo parlato prima, cioè che io conosco molta gente
per cui questo non è vero, ma provate un po’ a pensare a un’altra prospettiva: se io non pensassi,
non dovessi pensare a priori, che in ogni persona umana è presente chiara la voce della ragione,
vorrebbe dire che mi è lecito, anzi che mi è inevitabile, considerare alcuni miei simili non come
persone umane, perché ciò che ci fa persona per Kant è la nostra dimensione razionale, è la nostra
dimensione razionale che ci dà la dignità umana, la dignità della persona. Certo il concetto di
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persona tornerà, sarà tematizzato nel terzo capitolo, siamo persone, siamo persone umane perché
siamo enti razionali, e sul piano pratico enti razionali vuol dire enti per i quali è chiara in ognuno di
Dunque, cercate di considerare questa prospettiva: dire che in ogni persona è presente chiara
la voce della ragione vuol dire che io non sono mai a priori giustificato a considerare qualcuno non
con la dignità di una persona, chiunque sia, qualunque cosa abbia fatto, in qualunque modo si
comporti, io non posso negargli la dignità della persona, io non posso venir meno al rispetto
assoluto verso di lui o verso di lei che si deve alla santità della legge morale di cui è portatore.
Allora, così la capite meglio, così capite che non è un’astrazione, ma è un principio a priori di
assoluto rilievo nella realtà, con infinite implicazioni. Ve ne segnalo solo una, ma è una tra le tante:
pensate all’ambito penale, se io potessi pensare che qualcuno a causa di ciò che ha fatto, magari
misfatti atroci, ha perduto la dignità della persona, allora vuol dire che non è più una persona umana
ma una cosa. Pensate cosa sarebbe l’intero sistema penale in questo caso,: poiché è reo ha perduto
la dignità di una persona e pertanto è una cosa, quindi non ha più nessun diritto e io lo posso, anzi lo
devo trattare come una cosa, senza nessun diritto, non dico giuridico, non dico solo civile ma
nemmeno umano. Posso infliggergli torture, posso usarlo come cavia per esperimenti, posso farne
quello che voglio, perché non è più una persona, ha perso la dignità della persona. Sarebbe orribile.
Invece, questo è il punto, ogni ente razionale finito, ogni uomo, è per me doveroso a priori
considerarlo sempre e comunque una persona, cioè un portatore della legge morale, anche qualora
sia manifestamente colpevole di colpe anche atroci. È naturalmente legittimo che lo Stato,
attraverso il diritto penale, lo giudichi, lo condanni e anche lo sanzioni con una pena, ma non che gli
neghi la sua dignità umana; e pertanto anche nello scontare la pena ha il diritto di essere trattato
Pensate a tutte le implicazioni, anzi, proprio a questo proposito Kant come filosofo si è
pronunciato sulla questione della legittimità della pena. Voi sapete che era una questione nel
diritto? Sarebbe lunga ma non ho tempo, però tanti teorici che proprio nel ’700 e poi ancora
nell’’800 hanno scritto,: Dei delitti e delle pene, ecc. Si dice: “la pena è una misura per difendere la
società”, “la pena è una misura per scoraggiare il crimine”, ecc. ecc. Kant quando si pronuncia su
questo tema fa piazza pulita di tutte queste motivazioni, tutte. L’unica motivazione su cui fonda la
legittimità della pena sapete qual è? Il diritto del reo. La pena è legittima perché è un diritto del
colpevole. Geniale, la pena è un diritto non della società, non dell’offeso, è un diritto del colpevole
che gli sia comminata una pena, perché con la sua colpa lui ha inquinato la propria dignità morale e
ha il diritto di avere i mezzi per ricostituirla, per restaurarla nella sua pienezza, ma badate, la
pienezza della sua dignità, il colpevole condannato, non la restaura quando ha scontato la pena, ma
quando gli è stata comminata la pena, in quel momento lui è di nuovo interamente restituito nella
sua dignità, quindi non alla fine ma quando gli è comminata la pena. Quindi lui sconta la pena nella
piena dignità personale e pertanto il sistema delle pene deve essere nel rispetto di questa sua dignità
personale. Lasciamo perdere tutte le considerazioni da fare sui sistemi di pena, i sistemi carcerari
nelle nostre società, se corrispondono da questo punto di vista e purtroppo sono molto carenti. È nel
momento in cui è sanzionato che lui ha interamente riconquistato la pienezza della propria dignità,
poi sconta la pena, certo, ma non è alla fine di questo processo che lui è restituito nella sua dignità,
ma prima, nel momento in cui è sanzionato. Questa è una prospettiva di altissima civiltà, e questo
perché? Perché noi affermiamo a priori,: è un dovere morale considerare sempre e comunque ogni
uomo come una persona umana, cioè come un portatore della ragione, della legge morale in sé.
Allora, capite, questa affermazione non è un’affermazione empirica, poi dal punto di vista
empirico tutti noi abbiamo questa esperienza negli altri e anche noi stessi, che questa chiara
consapevolezza della legge morale non sempre si fa presente così chiaramente, ma questa è una
sempre ogni altro come una persona umana, e abbiamo il diritto di pretendere che ogni altro
consideri noi sempre e comunque come una persona umana, e abbiamo il dovere e il diritto di
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considerare sempre e comunque noi stessi come una persona umana, perché poi qui si aprirebbe
tutto un altro discorso, di quanto male ci vogliamo, non solo di quanto gli altri ci disprezzano ma di
quanto noi spesso ci disprezziamo, che è diverso dalla autocritica. Non abbiamo il diritto di
considerarci, qualunque cosa abbiamo fatto, altro che la inviolabile santità della legge morale che è
in noi. Siamo, da questo punto di vista, santi, è vero non siamo santi nel senso che abbiamo
raggiunto compiutamente la perfezione morale, ma siamo santi in quanto portatori della legge
morale: comunque e in qualunque condizione, che dal punto di vista empirico sia constatabile, che
Qui compaiono due esempi. “Se un amico che del resto ti è caro supponesse di
giustificarsi con te di una sua falsa testimonianza dicendo in primo luogo di avere tutelato
quello che pretende essere il sacrosanto dovere della propria felicità,” il tema è sempre la
propria felicità, che non può essere il principio fondante della moralità, “poi elencando i vantaggi
ottenuti tutti così, indicando la prudenza osservata per essere sicuro di non venire comunque
scoperto, neanche da te, a cui rivela il segreto solo per poterlo sempre negare, ma poi con
tutta serietà, pretendesse di aver praticato un vero dovere umano, – ebbene, o tu gli rideresti
suoi Principi solo secondo i propri vantaggi, non avresti nulla da eccepire contro questa
tema della nota, che poi è il tema delle altre note: la felicità nemmeno nel senso della felicità altrui o
Kant descrive questa situazione: voi avete avuto una vita distrutta da un amico, credevate
che fosse un amico, il quale ha testimoniato il falso contro di voi, e voi siete finiti in carcere, ne
avete subite di tutte, avete perso ogni bene, vostra moglie se n’è andata, i figli non vi vogliono più
nemmeno parlare, vi siete presi anche una malattia dei polmoni perché in carcere la situazione era
insana, ecc., alla fine dopo 30 anni siete usciti, siete ormai uno straccio che aspetta solo di morire, e
anzi, state passeggiando lungo un torrente pensando se non abbreviare la cosa, e mentre vi
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trascinate così, con in tasca la vostra bottiglia di birra è il mezzo panino avvolto nella carta di
giornale nella giacca con le tasche sfondate, ecc. Mentre vi trascinate lungo le rive di questo
torrente vedete uno lì, che sta pescando, vi avvicinate e lui si volta e dice “Andrea, quanti anni che
non ci vediamo, mamma come stai male! Sei malmesso! Vieni qua, siediti qua, ho qua nel cestino
tutto il pranzo. Ma che bello! Vieni! Mangiamo qualcosa insieme”, e voi ormai siete passivi, non
reagite più, e così questo comincia a dirvi “eh lo so, ti ricordi che amici che eravamo, eravamo
sempre insieme, ma quanto amici eravamo e poi, tu fra l’altro avevi un sacco di soldi, avevi una
famiglia felice, ti eri fatto una fortuna, e io ti devo dire che la desideravo questa fortuna, e allora è
per quello che ti ho denunciato. Lo so che non avevi fatto quello che io ho denunciato, eri
innocente, ma io ti ho denunciato lo sai, ti ricordi, e così ti hanno condannato, e così mentre tu eri in
carcere io ti ho rubato tutto, anche la moglie, i figli non mi interessano tanto però li ho mandati a
studiare non ti preoccupare, ora fanno la loro vita, tua moglie è contenta con me, io vivo nella tua
casa che è una bella villa, mi trovo benissimo! E poi quella azienda lì, l’avevi proprio messa su
bene, devo dire che per me è una gallina dalle uova d’oro, proprio guarda, io ho una vita felice!
Sono proprio contento!”. Ora, dice Kant, come reagireste? Lei dice l’ammazzo, ma il punto è che
questo qui è talmente allo stremo che se ne avesse la forza si metterebbe a ridere di’ una cosa così
assurda: il senso comune lo capisce che non va bene questo. Credo che su questo non ci siano
dubbi, però di per sé, se è vero che il nostro comportamento, che la legge morale è fondata sul
principio della nostra felicità, costui ha agito in modo assolutamente coerente con il principio della
propria felicità: è l’uomo moralmente inappuntabile e voi dovreste togliervi il cappello e dire “che
sant’uomo, devo dire che ti ammiro”. Ora, è ovvio che non è così.
cioè come vostro amministratore “un uomo a cui potete affidare ciecamente tutti i vostri affari,
e che, per ispirarvi fiducia, elogi la sua prudenza per cui conosce benissimo il proprio
tornaconto, e anche la sua attività indefessa che sfrutta proprio tutte le occasioni, e infine
supponete che, affinché non si tema un suo egoismo volgare, lodi la grande raffinatezza con
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cui sa vivere, cercando di godere non già con l’accumulare denaro o con una brutale
accuratamente scelta e istruttiva, persino con la beneficenza verso i poveri, ma aggiunga come
egli non si preoccupi dei mezzi (che peraltro traggono il loro valore o disvalore solo dallo
scopo), e come usi e abusi delle sostanze altrui, purché sappia di poterlo fare senza essere
scoperto e impedito; ebbene, credereste che colui che vi raccomanda un simile individuo
volesse prendere in giro, oppure che fosse impazzito”. Un altro esempio, assurdo, sempre a
partire dal presupposto che la propria felicità sia il principio fondante della legge morale. Tu mi
avevi detto che vorresti qualcuno che amministri bene i tuoi beni, e io ho la persona giusta,
sempre trovare i mezzi giusti, efficacissimi. Infatti, è uno che ha fatto fortuna, e non credere che sia
una persona volgare, al contrario è uno raffinato, tutti questi soldi che ha non è che li usa per banali
bassi piaceri, no, è un uomo di lettere, ha una biblioteca meravigliosa, il suo salotto è uno dei salotti
più importanti della città con molti intellettuali che vanno a conversare lì con lui, e lui conosce un
benemerito delle arti, ecc., è liberale, generoso con gli amici, ma fa anche un sacco di beneficenza
ai poveri. È evidente che lui si muove per il proprio interesse e non ha nessuno scrupolo, prende
ricchezze dovunque le trova purché sia sicuro che non lo scoprano e che nemmeno tu che sei
l’amministrato lo sappia, quindi non ti accorgerai di nulla, ti svuota le tasche e ti manda in miseria,
però è uno veramente in gamba, te lo consiglio. È ovvio che non prendereste la cosa sul serio, è
ovvio perché il senso comune lo capisce. D’altra parte, se è vero che la propria felicità è il principio
fondante della legge morale, costui è il migliore esempio di comportamento moralmente buono, il
che non è.
Dunque, vedete, anche il senso comune sa perfettamente, perché ha la voce della ragione
chiara in sé stesso, che non può essere il principio della felicità il fondamento della legge morale.
Sono due esempi, anche un po’ comici, però vi voglio fare notare una cosa, che poi sarà sviluppata
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subito dopo: in tutti due gli esempi una parola chiave, sempre la stessa. Nel primo esempio dice
“elencando i vantaggi ottenuti tutti così, indicando la prudenza osservata per essere sicuro di non
venire comunque scoperto”. La prudenza. Anche nel secondo esempio dice che per ispirarvi fiducia
elogi “la sua prudenza per cui conosce benissimo il proprio tornaconto”. La prudenza, perché la
grande caratteristica di tutti due questi tipi dei due esempi e di essere persone assai accorte, assai
prudenti.
Questa parola, prudenza, è una parola molto importante, non tanto in Kant che
evidentemente la critica (non critica la prudenza ma il voler dare ad essa una importanza eccessiva
nella teoria e nella pratica morale), ma nella storia dell’etica, perché la prudenza e ciò che in greco è
phronesis. Phronesis, voi sapete, è in Aristotele una delle virtù dianoetiche ed è esattamente quella
virtù che consiste nella capacità di discriminare, di giudicare sempre in modo corretto qual è il
miglior mezzo ovvero il giusto mezzo, cioè la virtù, che mi permette di evitare sia i difetti sia gli
essenzialmente in un esercizio della prudenza. E questo vale per Aristotele e, sul modello di
Aristotele, vale per tutte le etiche delle virtù: le virtù sono appunto i mezzi giusti per raggiungere il
fine che, guarda caso, proprio all’inizio dell’Etica Nicomachea è posto nella la felicità. La prudenza
è la guida alla felicità ed è la struttura stessa dell’etica delle virtù. Quindi ha avuto un’importanza
centrale nei secoli nel pensiero etico, ma non per Kant. Non che Kant disprezzi la prudenza, un
uomo prudente è certamente meglio che un uomo imprudente, ma nega che la prudenza sia la guida
stessa, la regola della moralità. E questo è collegato al rifiuto di riconoscere che la felicità sia il
fondamento della moralità. Perché? Perché una qualunque etica che si fondi sulla felicità, che poi
vuol dire una qualunque etica che si fondi su un fine che non sia la legge stessa – per il primo e
secondo teorema “tutti i principi materiali sono della stessa specie e stanno sotto il titolo della
propria felicità”, quindi qualunque sia l’obiettivo che io mi pongo sempre si tratta, in un modo o
nell’altro, di perseguire la felicità – e dunque qualunque etica che consista nel trovare i mezzi giusti
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per raggiungere un fine dato, che poi è la definizione di etica eteronoma per ritornare alla
terminologia del nostro teorema,: qualunque etica eteronoma non solo non è la corretta concezione
morale, ma si oppone, seconda tesi del teorema, alla corretta concezione morale. Qualunque etica
eteronoma, in un modo o nell’altro, è un’etica della prudenza, perché se il fine è presupposto come
un fine materiale, la moralità consisterà nel trovare i mezzi corretti, cioè imperativi ipotetici, regole
dell’abilità. Qualunque sia l’obiettivo che mi do, fosse anche fare la volontà di Dio, fosse anche
perfezionare la mia umanità, sempre siamo ancora in etiche eteronome e pertanto alla fine tutto è
A ben vedere queste etiche, questo è il punto, non sono delle etiche. Sono sbagliate, ieri vi
dicevo che per Kant solo la sua etica è giusta e tutte le altre sono sbagliate, ma di più, ancora più
radicale, il fatto è che dal punto di vista di Kant solo la sua è un’etica, le altre non sono
propriamente delle etiche, ma sono delle economiche, sono delle teorie economiche non delle teorie
etiche. Perché trovare i mezzi utili per raggiungere un fine: questa è la definizione della economia.
Solo quella concezione etica che non possa in nessun modo essere ridotta a questo, perché è definita
proposizione del fine, solo questa è differente, è di un’altra specie,: per usare una terminologia
antiquata, che non è di Kant ma che gli abbiamo visto discutere, è la facoltà di desiderare superiore,
l’aveva detto nel corollario. Tutte le altre, per differenti che siano, sono eteronome e quindi alla fine
sono etiche della felicità e della prudenza, e quindi alla fine non sono delle etiche. Questo termine,
prudenza, Kant lo usa naturalmente intenzionalmente e poi dopo lo critica – non in sé, è chiaro che
è una buona cosa essere prudenti – come principio, qualora se ne faccia un principio.
“I confini tra la moralità e l’amore di sé sono tracciati in un modo tanto chiaro e netto,
che persino all’occhio più comune non può affatto sfuggire la differenza per cui qualcosa
appartenga all’una o all’altro. Le poche osservazioni che seguono possono bensì apparire
superflue, data l’evidenza di tale verità, tuttavia servono almeno a procurare una chiarezza
un poco maggiore al giudizio del comune ragione umana. Il principio della felicità può si
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fornire massime, ma non mai massime tali da poter dare luogo a leggi della volontà, neanche
se si facesse della felicità universale il proprio oggetto”. Questo è un altro modo di esprimersi per
dire la stessa cosa che qualche pagina prima aveva detto, vi ricordate, la prima nota sulla felicità “la
felicità è un fine che tutti gli uomini necessariamente ricercano”, e qui è detto nel senso che il
“principio della felicità può sì costituire l’argomento di una massima”, cioè è vero, è possibile, Kant
riconosce che è del tutto lecito proporsi, in una massima della propria azione, la propria felicità,
perseguire la propria felicità o anche la felicità degli altri o anche la felicità di tutti, perché questo è
inevitabile, è una inclinazione naturale di tutti gli uomini,: è necessaria ma non può costituire il
Ricordate la formula della legge fondamentale “agisci in modo che la massima della tua
volontà possa, sempre, valere anche come principio di una legislazione universale”; dunque, il
perseguimento della felicità può essere senz’altro un fine, ognuno di noi agirà in una quantità di
situazioni, ed è rilevante per la sua vita, per perseguire e per conseguire la felicità propria e di tutti,
e questo va benissimo, ma non c’entra con la moralità, fa parte dell’agire umano, l’agire economico
dell’uomo, quando non usi i mezzi che violino la legge morale va benissimo, solo che quelle
massime, e quindi quelle azioni, non sono azioni morali. Non nel senso che siano azioni opposte
alla moralità, sono azioni moralmente irrilevanti. Fa parte del nostro agire pragmatico, fa parte della
nostra vita perseguire la felicità, nostra e altrui, ed è giusto che usiamo la prudenza per cercare i
mezzi più adeguati per ottenere il nostro fine, è tutto normale, ma solo che non c’entra con la
moralità. Questo è il punto. A meno che, ripeto, questo comporti azioni che violano la legge morale.
Ma non può quella massima, in nessun modo, avere una rilevanza morale, perché non può essere
elevata a principio di una legislazione universale per tutti gli argomenti che abbiamo visto sulla
felicità.
ogni giudizio in merito dipende molto persino dall’opinione di ciascuno, che per giunta è
mutevolissima, ci possono bensì essere regole generali, ma non mai universali, ossia sono
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possibili regole che, in media, si verifichino per lo più, ma non regole che debbano essere
valide sempre è necessariamente; e quindi non vi si può fondare nessuna legge pratica.
Proprio perché qui si deve porre un oggetto dell’arbitrio a fondamento della regola stessa, e
quindi tale oggetto deve precedere quest’ultima, tale regola non può venire riferita se non a
ciò che si sente, e dunque all’esperienza, e deve essere fondata su di essa, cosicché la varietà
dei giudizi non può non essere interminabile”. Ogni principio materiale è empirico, primo
teorema, e pertanto non può avere valore di legge, seconda tesi del primo teorema. “Dunque questo
principio non prescrive le medesime regole pratiche a tutti gli agenti razionali, sebbene esse si
raccolgoano tutte sotto un titolo comune, quello della felicità”. Lo abbiamo già visto questo
argomento nella prima nota sulla felicità, quando noi diciamo che la felicità è un oggetto universale
del desiderio noi in realtà usiamo il termine universale in modo improprio, è vera la proposizione
“tutti desiderano la felicità”, che ha la forma esteriore di una proposizione universale, ma non
significa una vera universalità ma è solo un titolo collettivo: tutti desiderano cose differenti sotto il
titolo felicità. Che cosa sia la felicità dipende da ciascuno e anche per la medesima persona può
pensiamo che in un certo momento, per una sorta di contingenza strana, tutti gli esseri umani
intendano la felicità che desiderano nello stesso modo, resta pur sempre non universale, perché è
contingente, dura sin che dura, è una pura coincidenza empirica: non è una universalità necessaria, è
l’universalità della frase “tutti i cigni sono bianchi”, non della frase “tutti i triangoli hanno la
“Ma la legge morale è pensata come obiettivamente necessaria solo perché deve vigere
per chiunque sia dotato di ragione e volontà”. Deve necessariamente, oggettivamente, questo sì,
universalmente, nel senso rigoroso del termine universalità, “tutti devono dire il vero” e non è che
qualcuno può dire “ma invece io voglio dire il falso”, se tu vuoi dire il falso tu sbagli, esattamente
come il triangolo che non ha la somma interna degli angoli uguali a 180° non è un triangolo. Se tu
dici il falso non sei moralmente buono, non è che si può dire “ma per me è così”.
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“La massima dell’amore di sé (prudenza) si limita a consigliare; la legge della moralità
comanda. Ma c’è una grande differenza tra ciò che ci si consiglia e ciò a cui siamo obbligati”.
Anche questo non è nuovo, la legge morale ha una necessità, la necessità morale, quella della
obbligazione. Qualunque regola della prudenza, perché ogni etica della felicità è un’etica della
felicità nei fini, ed è un’etica della prudenza nei mezzi, quindi ogni etica della felicità, ovvero della
prudenza, è sempre un insieme di consigli, magari accorti, magari utili, ma consigli non
obbligazioni, non necessari nella struttura che avevamo visto all’inizio che è quella dell’imperativo
“Ciò che si debba fare secondo il principio dell’autonomia dell’arbitrio, l’intelletto più
comune lo può discernere con tutta facilità e senza esitare; ciò che si debba fare col
presupposto della sua eteronomia, è difficile da intendersi, e richiede conoscenza del mondo;
in altri termini: che cosa sia dovere, è naturalmente palese per ciascuno; ma che cosa apporti
un vantaggio vero e durevole, e anzi tale da essere esteso all’esistenza intera, è sempre
impenetrabilmente oscuro, e richiede una grande prudenza, per adattare agli scopi della vita
la regola pratica confacente, con le opportune eccezioni, in una maniera anche solo
tollerabile”. Questo è uno dei tanti paradossi a proposito del confronto tra legge morale e regole
della felicità che Kant mette in evidenza: contrariamente a quello che il luogo comune, non il
“senso comune” ma il “luogo comune”, pensa, cioè che le regole per essere felici, tutto sommato,
sono facili da individuare perché sono regole in genere, si dice, “concrete”, “uno capisce”, “poi
vede dagli effetti”, invece le leggi morali “che cosa misteriosa” e “poi sarà proprio certo, è proprio
ragione, la voce della ragione in noi, ci dice, e ce lo dice in un modo univoco, oggettivo, necessario,
universale, incondizionato, “tu devi fare così”; invece la regole della prudenza “ti consiglio di fare
così, ma date le circostanze, forse è meglio fare altrimenti”, “no no, fai così, però prima accertati
che…”, “no no, in generale è meglio così, però naturalmente in una situazione eccezionale
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cambiano le cose”: ecco che spuntano le eccezioni, spuntano gli adeguamenti alle condizioni,
spuntano tutti quegli aspetti contingenti che tante concezioni morali ritengono siano di pertinenza
della moralità: “la legge morale dice così, però bisogna vedere le circostanze, le condizioni, ecc.”.
Invece con la legge morale questi dubbi non hanno niente a che fare, nella legge morale non ci sono
condizioni che tengano, non ci sono eccezioni che tengano, la legge morale è un comando
È piuttosto nell’economica della prudenza che tutto diventa estremamente complicato, non
chiaro, incerto, perché siamo sul terreno del “che cosa è più opportuno”, “che cosa produce effetti
migliori”. Sto parlando dell’utilitarismo, che si dà per un’etica, ma sto parlando anche di tutte le
etiche consequenzialiste, che però per Kant non sono delle etiche, sono su questo terreno dei
consigli di prudenza per ottenere il migliore effetto desiderato. Questo sì che è complicato, questo sì
che è una teoria e una pratica complicata, oscura, incerta, confusa, mutevole, ma la legge morale no.
Aperta breve parentesi: questo non vuol dire, come purtroppo anche diversi interpreti di
Kant o diversi critici di Kant hanno sostenuto, che quindi Kant pretenda che la moralità umana
all’imperativo categorico fondamentale: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa,
sempre, valere come principio universale” e che Kant pretenda che con questo abbiamo risolto tutto.
Noi ci troviamo nei pasticci nella vita quotidiana, e diciamo “in questo caso come faccio?” Allora
vado a chiedere a Kant, e Kant mi dice “è semplice, agisci in modo che la massima della tua volontà
possa, sempre, valere come principio di legislazione universale”. Che me ne faccio io di questo?
Perché tutto bello, tutto giusto, ma io qui devo decidere quod vitae sectabor iter, per citare
Agostino, e qui si tratta di scelte concrete. Allora la morale di Kant è una morale astratta e quindi è
una morale che non serve a niente, e quindi è anche una caricatura di morale perché la morale è
anche pur sempre ciò che deve guidare la nostra volontà e determinare la nostra volontà e le nostre
azioni; allora non basta questo riferimento a un principio così astratto. Ma certo che non basta! A
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Kant non passa nemmeno per la testa di pensare che basta, ma come vi ho detto già altre volte,
quella è la legge fondamentale della ragione pura pratica, secondo il titolo; su quella legge si fonda
un sistema di leggi materiali che hanno un contenuto, che sono trattate da Kant nella Metafisica dei
costumi, che tratta dei principi del diritto e dei principi della moralità, sono leggi come “non
mentire”, “osserva i patti”, ecc. ecc. Queste leggi a loro volta fondano delle regole di
comportamento, che sono contingenti, e che naturalmente devono tenere conto delle circostanze e
che riguardano, appunto, quelle massime che devo adottare di volta in volta, quotidianamente nella
determinazione dei miei quotidiani comportamenti per vedere di fare bene e di non fare male. È
chiaro che non posso giudicare e determinare le mie azioni facendo direttamente riferimento alla
regole di comportamento le fondo su leggi metafisiche, e queste leggi metafisiche le fondo sulla
legge fondamentale. È chiaro che anche per Kant c’è una mediazione tra la legge fondamentale e le
regole di comportamento. Il punto è che, invece, nelle altre etiche, quelle della prudenza, tutta
l’etica consiste nelle regole di comportamento, perché il presunto, preteso principio, cioè la propria
felicità, non può essere un principio, una legge, cioè un principio oggettivo, oggettivamente valido,
necessario e universale, sicché di fatto tutta l’etica, la cosiddetta etica, consiste in una sorta di
spesso non lo è affatto, neanche rispetto a un’unica finalità”. Vedete, Kant si diverte proprio a
capovolgere tutti i luoghi comuni. Solitamente si pensa, e qualcuno ha anche detto, “è sempre
possibile trovare, in modo prudente e accorto, i mezzi per raggiungere un fine, invece, la moralità
nel senso kantiano impone degli obblighi senza preoccuparsi se è possibile comportarsi così” e Kant
dice: “è proprio l’opposto, per la legge morale noi sappiamo che è sempre possibile osservarla”,
possibilità morale naturalmente, “lo sappiamo per quel rapporto inscindibile tra moralità e libertà.”
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Vi ricordate la risposta di colui a cui viene chiesto se resisterà all’imposizione di dare falsa
testimonianza: “non so cosa farò, ma so che posso perché devo”. È sempre possibile osservare la
legge morale, mentre i consigli dell’abilità non è detto che sia sempre possibile osservarli, bisogna
sempre fare dei calcoli molto difficili di fattibilità: questa sarebbe la via più efficace, ma è fattibile?
Sono problemi difficili e complicati, ma nella questione della prudenza, non nelle questioni della
moralità. “La causa di questa differenza è che nel primo caso si tratta solo della massima, che
deve essere genuina e pura, mentre nel secondo contano anche le forze e la facoltà fisica di
fare realmente esistere un oggetto desiderato”. Perché, nel caso dell’abilità contano gli effetti,
tutto si misura dagli effetti, mentre nel caso della moralità non è che si è indifferenti agli effetti, ma
“Comandare che qualcuno debba cercare di rendersi felice sarebbe folle; poiché non si
comanda mai, a qualcuno, ciò che vuole già da solo, inevitabilmente. Si dovrebbe
semplicemente ordinargli le misure opportune, o meglio offrirgliele, poiché egli non può tutto
infatti dapprima non tutti obbediscono volentieri alla sua prescrizione, se è in conflitto con
inclinazioni, e, per quanto concerne le misure secondo cui ciascuno possa osservare questa
legge, qui non possono essere insegnate, infatti ciò che uno vuole per questo rispetto anche lo
può”. Sic volo, sic iubeo, aveva detto qualche pagina prima, e poi fa degli esempi. Non mi
“Chi abbia perduto al gioco può certo irritarsi con se stesso, per la propria
sconsideratezza; ma chi sia consapevole di avere barato giocando (quand’anche abbia così
guadagnato), non può non disprezzare se stesso, non appena si confronti con la legge morale”.
Se io ho perduto al gioco, vuol dire che sono stato poco abile, posso prendermela con me stesso,
non ho agito con prudenza, non ho seguito le vie giuste per vincere, oppure ho seguito delle vie che
non erano sbagliate ma altri hanno seguito vie più giuste. Ma se io ho barato al gioco, anche se ho
vinto, se ho ancora una capacità critica, devo disprezzare me stesso, cioè devo accusare me stesso e
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dire “ho fatto male”, non importa se l’effetto è stato positivo: ho guadagnato rispetto alla felicità,
però ho fatto male, perché gli effetti non contano, non condizionano il valore del principio morale.
“La legge morale deve dunque essere ben diversa dal principio della propria felicità.
Infatti la necessità di dire a se stesso «Sono un indegno, sebbene mi sia riempita la borsa»,
deve pur avere un metro di giudizio diverso da quello per cui uno plaude a se stesso dicendo:
«Sono un uomo accorto, perché ho impinguato il mio patrimonio»”. Qui fa di nuovo riferimento
generale di un’etica deontologica, seriamente intesa. La legge morale è qualche cosa che mi obbliga
indipendentemente dagli effetti, e questo non solo è ciò che rende incondizionatamente valida la
legge morale, cosa che abbiamo detto tante volte perché lo abbiamo incontrato tante volte,; ma
guardate anche questa altra faccia della questione, questa oggettività, necessità della legge morale è
da una parte ciò che rende incondizionatamente valida la legge morale, ma, d’altra parte, è ciò che
rende anche incondizionatamente valida la mia dignità umana, perché io sono sempre il sovrano e il
Questo è qualcosa che bisogna apprezzare, perché è proprio solo di una prospettiva etica di
tipo deontologico. Là dove non riconosciamo principi incondizionatamente validi, allora tutto il
di comportamento morale, allora tutto il comportamento morale si riduce a regole di prudenza, cioè
a regole dell’abilità per raggiungere gli effetti, e dunque la validità delle regole è misurata sugli
effetti, attenzione, ma anche la mia dignità morale è misurata sugli effetti. Alla fine, con un po’ di
passaggi che la coscienza ottusa non fa fatica a fare, “io ho avuto fortuna” diventa la conferma del
“sono un uomo buono”, e questo, purtroppo, è qualcosa che, dato che la nostra è una cultura in cui
dominano le etiche di tipo consequenzialista, è una implicazione assai grave. Perché ormai si
misurano le persone, ogni persona anche misura sé stessa, sulla base degli effetti che riesce a
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raggiungere. Non che non sia importante operare nella realtà per produrre degli effetti voluti e
Nella nostra cultura è assai diffusa questa posizione a livello teorico, di teoria etica, ma
anche a livello operativo e nel senso comune. Per cui, poi, la regola implicita “se uno agisce bene ha
anche dei buoni risultati” inevitabilmente, quasi senza accorgersene, comincia a valere anche
nell’altro senso reciproco “se uno ha buoni risultati agisce bene”. Si sente confermato.
Per Kant e per una etica deontologica, solo per un’etica deontologica, la dignità di una
persona, così come l’incondizionato valore della legge, non è condizionata dagli effetti, e se noi
riscoprissimo un po’ questa dimensione ci farebbe bene anche nel costume pubblico e privato.
Sarebbe bene che molto più spesso le persone, per esempio, si astenessero da cattivi comportamenti
pubblici e privati anche solo per questo banale modo di pensare: “io alla mattina voglio farmi la
Più avanti Kant fa l’esempio di una persona che rifiuta di mentire in una situazione in cui
peraltro la sua menzogna sarebbe innocua, una piccolissima menzogna che non farebbe male a
nessuno, però, si dice “no, perché devo mentire?” Per la propria dignità non lo fa. Ecco, se
comportarci male, per la propria dignità, capite, per potersi guardare allo specchio, ma non per
sentirsi buoni ma per non sentirsi troppo cattivi. Anche perché, certe volte, con l’abitudine del
comportarsi secondo prudenza, secondo abilità, si cade nell’opposto, certe volte a livelli veramente
vergognosi. Vogliamo essere belli, giusto che vogliamo essere belli e cerchiamo di essere belli: non
importa la faccia che abbiamo, non importano i tratti della faccia che abbiamo, ma importa una
faccia che si possa guardare allo specchio, e questa è anche una implicazione di un’etica
“Infatti, sebbene chi infligge una certa punizione possa insieme avere la benevola
intenzione di indirizzarla anche a questo scopo, tuttavia essa deve essere giustificata in primo
luogo come pena, ossia come un male meramente fisico, di per sé, di modo che, se le cose si
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fermassero qui e anche se la stessa persona punita non riuscisse a vedere un favore nascosto
dietro tale durezza, dovrebbe ammettere di essersela meritata, e che la sua sorte è
perfettamente adeguata alla sua condotta. In ogni pena come tale ci deve essere anzitutto
questo discorso che Kant presenta per esemplificare, è simile a quella del giocatore. Se uno ha fatto
del male e riceve delle bastonate, gli fanno male le bastonate, non può essere contento di ricevere
delle bastonate, perché prova dolore; sarebbe assurdo che dicesse “ah che bello”; gli fanno male le
bastonate, però, dice Kant, sicuramente le bastonate gli fanno male, ma certamente lui dovrà dirsi
“me le sono meritate”. E quel “me le sono meritate” è una forma di compenso della propria dignità,
vi dicevo che la pena è un diritto del reo, “me la sono meritata”, e non aggiunge “meno male che me
le hanno date”, però in sostanza quel “me le sono meritate” è l’affermazione del “sono un uomo
giusto, anch’io, nonostante tutto, sono un uomo giusto, perché so che me le sono meritate”, non
giusto perché mi sono comportato bene ma giusto perché so cos’è la legge morale, ho in me la voce
della legge morale, e, se in questo momento mi sono comportato male, nel momento successivo
“Essa può essere bensì connessa a benevolenza, ma il colpevole – dopo il suo misfatto –
non ha il benché minimo motivo per contare su di essa”. Badate, la pena è ciò che la giustizia
esige, ma la giustizia non esclude la benevolenza, cioè la misericordia, quindi è sempre possibile
non comminare la pena; o meglio: non stabilire la pena, non sanzionare la colpa con una pena,
questo sarebbe ingiusto, però è sempre possibile, dopo aver sanzionato la colpa con la pena, per un
atto di misericordia annullare l’esecuzione della pena, cioè graziare il condannato. Questo a livello
individuale ma anche a livello pubblico, ogni sistema giuridico civile considera e deve considerare
la possibilità della grazia, e la grazia non significa, insisto perché c’è una differenza fondamentale,
che non viene sanzionata la colpa con una pena, perché questo annullerebbe l’intero sistema del
diritto, perché non ha senso parlare di reato e di giudizio senza una sanzione, “non vi è legge senza
sanzione” questo è un principio fondamentale del diritto pubblico occidentale, quindi non è
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possibile in un sistema giuridico civile non sanzionare un reato, una colpa, però è possibile, per certi
motivi, ci sono casi eccezionali, almeno in senso totale ma anche in senso parziale, applicare
misericordia all’esecuzione della pena, in senso totale con la grazia ma anche in senso parziale, per
esempio tenendo conto di attenuanti con la riduzione della pena, o con lo stabilire che la pena deve
essere scontata in condizioni particolarmente protette, ecc., per esempio ai domiciliari invece che in
Tutte queste sono funzioni della misericordia e la misericordia non è opposta alla giustizia, è
complementare alla giustizia, in che modo siano complementari misericordia e giustizia questo è
uno dei grandi enigmi, non è l’unico, è uno dei grandi e magnifici enigmi in cui noi uomini da
Il punto è che la vera soluzione sarà quando capiremo che sono una parola sola, però adesso
non lo capiamo, ma è giusto che ci sforziamo di trovare un po’ di più di comprensione in questa
questione. Non sono degli opposti, ma su questo pensate, pensate pure, andate avanti a pensare e
non finirete mai, eppure non dovrete mai smettere, perché per ora non lo capiamo, ma intanto nella
vita quotidiana dobbiamo in qualche modo mettere a posto le questioni. Come trattare gli altri con
“Ancora più sottile, ma non meno falsa è la pretesa di coloro che assumono un certo
godimento, e invece quella del vizio a turbamento e dolore; essi finiscono così per fare tutto
filosofica, in particolare proprio nel Seicento, nel Settecento e anche oggi naturalmente, che
possiamo raccogliere, nelle sue molteplici e differenti articolazioni, sotto il titolo di “etiche del
sentimento morale”. Le etiche del sentimento morale erano molto diffuse al tempo di Kant e già da
tempo, già dal ’600, e Kant le prende sul serio naturalmente. Kant non è d’accordo e questo è ovvio.
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Già il titolo, etica del sentimento morale, vi fa intuire che Kant non può allinearsi su queste
posizioni, visto che tutta la sua etica è fondata sulla ragione e non sul sentimento, tuttavia, Kant le
prende molto sul serio, e la polemica contro le etiche del sentimento morale in generale è molto
presente nella Critica della ragion pratica, lungo tutto il testo – in particolare il terzo capitolo sarà
proprio un confronto con le etiche del sentimento morale. Però non solo il terzo capitolo: in tutto il
testo ogni tanto affiora questo confronto. Capite che se un filosofo si confronta polemicamente con
una posizione è perché non è d’accordo con quella posizione, non è d’accordo però la considera una
posizione seria, perché uno non passa il tempo a far polemica contro le posizioni che ritiene
inconsistenti o non rilevanti, è chiaro che tanto più si occupa di confrontarsi con una posizione
quanto più la considera seria. E in effetti così è per Kant a proposito delle etiche del sentimento
morale. Vedremo meglio lungo il testo di Kant, a partire da questa pagina ma soprattutto, ripeto, nel
Le etiche del sentimento morale, parlo al plurale perché, ripeto, è un titolo collettivo, i
teorici in questo campo sono diversi, anche differenti tra loro, le dottrine etiche del sentimento
morale sono talvolta anche molto differenti tra loro. Perché le raccolgo sotto questo titolo? Non
sono io, la storiografia in generale fa questa operazione, perché hanno in comune questo: pur nelle
differenze, ripeto, quindi sto facendo un discorso molto generale e pertanto generico, hanno in
comune questo, di fondare l’etica su un sentimento, – non in generale sui sentimenti, lo dico perché
talvolta alcuni fanno confusione. Etiche del sentimento morale o etica dei sentimenti è la stessa
cosa? No, sono discorsi completamente differenti: le etiche del sentimento morale si fondano su un
sentimento particolare, che infatti viene chiamato “il sentimento morale”. Cioè a fondamento di
tutta la moralità ci starebbe non un principio razionale ma una inclinazione sentimentale; come i
singoli filosofi individuano questo specifico particolare sentimento morale, questo differisce
dall’uno all’altro, ma l’idea comune è che a fondamento della moralità ci sia una inclinazione
sentimentale.
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Kant non è d’accordo con questo, e capite che non può essere d’accordo con questo, perché
evidentemente sarebbe un principio materiale e cadrebbe sotto il giudizio del primo teorema, però,
Kant è consapevole della serietà di queste posizioni, in quanto, se pure danno delle soluzioni errate,
però colgono un problema reale: cioè sono etiche che tutto sommato si pongono la questione della
fondazione. Qual è il fondamento della moralità? Questa domanda è una domanda importante anche
per Kant, tutta la Critica della ragion pratica è dedicata a rispondere a questa domanda. Questa
domanda, che altre etiche non si pongono, è la domanda che muove i teorici del sentimento morale
a rispondere dicendo: è un sentimento, non ogni sentimento, non un qualunque sentimento, ma uno
specifico sentimento che è più fondamentale degli altri rispetto alla moralità e che è quello che
fonda la moralità.
Come mai giungono a un sentimento? I motivi sono tanti, ma uno importante è che,
naturalmente, porre un sentimento a fondamento della moralità vuol dire, appunto, porre un
immediato con l’oggetto, mentre l’intelletto è un rapporto mediato. Quindi il sentimento ha questo
vantaggio, di essere un rapporto immediato con l’oggetto e quindi, dal momento che si cerca il
principio fondante, bisogna cercare un principio di cui abbiamo una conoscenza immediata. Quindi
rispondere che il sentimento è questo fondamento risolve questo problema, lo risolve in modo
semplice, elegante.
Quel problema che, se invece si nega questa strada, come la nega Kant, diventa un problema
complicatissimo; se non si prende questa strada, come fa Kant, e si pone la ragione a fondamento
della legge morale, il problema diventa molto complicato. Ne abbiamo avuto solo un saggio, un
primo approccio – ma nei testi successivi sarà poi approfondito, perché è il problema più difficile di
tutto questo discorso kantiano. Vi ricordate quella nota dopo i problemi, quando Kant diceva:
attraverso i problemi siamo arrivati alla chiarezza su un punto, che c’è un rapporto inscindibile tra
libertà e legge morale, ma quale conosciamo per prima? Non possiamo conoscere per prima la
libertà, invece conosciamo immediatamente la legge morale e la libertà solo a partire dalla legge
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morale. Già, ma il fondamento è la libertà, non è la legge morale. La ratio essendi della legge
morale è la libertà, non viceversa. Dunque, vedete, se io non prendo la strada facile del sentimento
morale, il problema della fondazione è un problema enorme, perché come posso fondare l’intero
sistema della moralità sopra un fondamento che certamente è il fondamento, però io non lo posso
conoscere se non in modo mediato? Questo sarà il problema principe della teoria kantiana, un
problema che i teorici del sentimento morale non hanno, perché il fondamento è un sentimento e il
Dunque, Kant prende sul serio queste posizioni, pur non condividendole, anzi contestandole
e polemizzando con esse, perché apprezza di queste posizioni il fatto che abbiano posto il problema
serio della fondazione. L’hanno visto e l’hanno posto, e su questo Kant le rispetta; ciò che non va
bene è la soluzione che hanno dato di questo problema, che è certamente una soluzione semplice,
facile, che toglie tutte le questioni, ma è una soluzione che non regge. Dunque, sono posizioni
interessanti perché hanno visto il problema della fondazione, sono posizioni non condivisibili
perché hanno dato una soluzione errata di questo problema. Non sempre il confronto con l’etica del
sentimento morale in questo testo è esplicito, spesso è esplicito, ma talvolta non è esplicito tuttavia
è chiaro che quando Kant svolge certi argomenti, certe tappe del discorso, ha in mente anche,
Qua dice che questa è una pretesa “sottile”, cioè è una pretesa non rozza, e tuttavia falsa.
Qual è? “la pretesa di coloro che assumono un certo senso morale particolare, il quale –
virtù sarebbe legata direttamente a soddisfazione e godimento, e invece quella del vizio a
turbamento e dolore; essi finiscono così per fare tutto dipendere dall’ esigenza della propria
felicità”. Perché se è un sentimento, ogni sentimento è sempre, l’abbiamo visto nel primo teorema,
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“Senza ripetere quanto è stato detto prima, voglio solo notare l’errore che qui ha
coscienza dei suoi misfatti, devono già rappresentarselo prima come moralmente buono,
almeno in una certa misura, nel fondamento più nobile del suo carattere, così come colui che è
deliziato dalla coscienza di avere compiuto azioni conformi al dovere devono già
rappresentarselo prima come virtuoso. Dunque il concetto della moralità e del dovere doveva
pur precedere ogni considerazione di tale soddisfazione, e non può essere affatto (logicamente)
dedotto da quest’ultima”. L’argomento che porta qui è un argomento confutatorio. Questi dicono
che a fondamento del comportamento morale c’è un sentimento, che è una percezione immediata, e
quindi un godimento per l’azione moralmente buona e un dolore, un dispiacere, per l’azione
fatto il male o si compiace di aver fatto il bene è perché implicitamente presuppongo che
quest’uomo abbia già un concetto di fare il male o di fare il bene. Se è consapevole di aver fatto il
bene o di aver fatto il male è perché ha già un concetto della legge morale, e dunque, questo
sentimento morale, che loro pongono come fondamento immediato, in realtà presuppone già un
concetto, e il concetto è un concetto della ragione, un concetto non può essere un sentimento.
l’autorità della legge morale e il valore immediato che la sua osservanza conferisce alla
persona, ai propri occhi, per sentire” quindi prima, il presupposto è conoscere la legge morale,
per poter poi sentire quella soddisfazione, “quella soddisfazione nella coscienza della propria
conformità alla legge stessa, e invece un aspro biasimo se ci si può rimproverare di averla
trasgredita. Dunque non si può sentire tale soddisfazione oppure turbamento prima di
cronologico, ma in senso trascendentale “almeno per metà, per potersi anche solo rappresentare
quei sentimenti. Del resto, che, come in virtù della libertà la volontà umana può essere
immediatamente determinata dalla legge morale, così anche il frequente esercizio conforme a
soddisfazione, è una tesi che non contesto affatto; anzi, rientra persino nel dovere, fondare e
coltivare questo sentimento che è l’unico che meriti di essere detto «morale» a rigore”. Questa
frase è un po’ complicata, è l’anticipazione, appunto, del tema del terzo capitolo. Qui Kant dice: io
sentimento morale sarà proprio il tema del terzo capitolo, in senso positivo: anche Kant riconosce
un ruolo al sentimento morale, è il tema del terzo capitolo, ciò che contesta è che questo sentimento
“Ma il concetto del dovere non ne può venire derivato, altrimenti dovremmo supporre
un sentimento della legge in quanto tale, e fare un oggetto della sensibilità di ciò che può
essere solo pensato dalla ragione; infatti, se non si trattasse di una netta contraddizione,
sarebbe così soppresso ogni concetto del dovere, che verrebbe sostituito da un mero gioco
meccanico di inclinazioni più raffinate, e talvolta in conflitto con quelle più grossolane”.
Questa è l’implicazione negativa, forse più importante dal punto di vista di Kant, delle etiche del
sentimento morale. Perché l’argomento che ha svolto prima è mostrare che c’è una contraddizione
nella teoria del sentimento morale come fondamento della legge morale, ma sono diversi i motivi,
non solo l’aver riscontrato un errore argomentativo, vi sono anche altri motivi per cui Kant non
Forse il più importante è proprio quello che accenna qui: le etiche del sentimento morale,
qualunque siano, sono, sotto un certo punto di vista, l’opposto della concezione kantiana, perché noi
abbiamo già visto quanto sia importante per la concezione kantiana questa prospettiva che l’uomo
non è santo, che l’uomo è un ente razionale finito, e che quindi la moralità è uno sforzo, un
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progresso verso una adeguazione sempre migliore della volontà alla legge morale, e che questo
sforzo è inevitabile perché ad esso si oppongono le inclinazioni sensibili, il desiderio del piacere,
quindi della felicità, e quindi la moralità è una opposizione a queste inclinazioni. Per questo la legge
morale è un comando, è un imperativo, e implica un dovere, cioè una obbligazione. Abbiamo visto
che questa è la prospettiva di Kant, non per il gusto di un dolorismo gratuito, ma proprio per una
concezione dell’ente morale, cioè dell’uomo, come un ente finito. Invece le etiche del sentimento
morale, proprio per il loro presupposto, proprio per il loro impianto, considerano la moralità come
qualunque sia poi il sentimento che si identifica come sentimento fondante, cioè come sentimento
morale. La prospettiva delle etiche del sentimento morale è quella di un uomo spontaneamente
Questa concezione è l’opposto di quella kantiana, e non è che Kant difenda una posizione
più severa, più obbligatoria della moralità contro una più spontanea solo per una sorta di gusto
sadico, ma perché vede, perché ritiene, che questo corrisponda alla realtà dell’ente morale, cioè
dell’uomo, dell’ente razionali finito, che non fa il bene spontaneamente ma che sente la legge
morale come un comando e come un’obbligazione e che si sforza di fare bene e non sempre ci
riesce, perché è sempre una lotta, bisogna opporsi all’inclinazione, al piacere, non alle inclinazioni
al piacere in quanto tali, ma in quanto motivi determinanti della volontà. Ma anche vede quali sono
le gravi implicazioni di ogni concezione, e non sono solo le etiche del sentimento morale in questa
categoria, che vede la moralità come una inclinazione spontanea, come un’attitudine spontanea
dell’uomo. Le implicazioni secondo Kant sono gravi e anche molto pericolose. Tanto per
cominciare: concessioni di questo tipo portano inevitabilmente l’uomo alla presunzione, perché più
o meno esplicitamente questo presupposto vuol dire che l’uomo ritiene di essere santo, di essere
perché connaturato con il loro presupposto, queste etiche, queste concezioni etiche, sono concezioni
che apparentemente sono etiche, di fatto sono estetiche: è una estetizzazione dell’etica, perché
quando io parlo di sentimento parlo dell’ambito dell’estetica, dove quando dico che è buono fare
questo in realtà quello che sto dicendo è che è bello fare questo. Perché se un uomo si sente
Sono delle forme estetizzanti di etica, che alla fine svuotano l’etica e la trasformano in una estetica.
Qui naturalmente si entra in una tematica di enorme importanza, che sarà importante anche per
Voi pensate come questa problematica sia importante per Kant e per gran parte del pensiero,
non solo dopo Kant ma direttamente discendente da Kant. Pensate solo due nomi: Goethe, Schiller,
Herder per dirne un terzo. Stiamo parlando di kantiani. Tutta la grande filosofia classica tedesca,
che da Kant muove, ha questo tema come uno dei grandi temi: il rapporto tra etica ed estetica,
perché è un tema reale, c’è un rapporto tra etica ed estetica. Questo il pensiero occidentale l’ha
sempre pensato, da Platone in poi e per tutta la tradizione, anche quando la tradizione classica si è
manifestazione del bene. Questo è dichiarare il rapporto tra etica ed estetica, tanto che nel
linguaggio il monoteismo ebraico-cristiano prende una grande importanza la parola gloria, perché la
importantissimo nella tradizione del pensiero filosofico ma non solo filosofico, anche teologico,
anche letterario, artistico, ecc., persino scientifico. E non è solo ridotta alla bieca questione se
l’artista deve essere buono o che rapporto c’è in un testo letterario, se il contenuto deve essere
moralmente edificante o no. Queste sono questioni specifiche, ma è un tema più vasto: è in generale
il problema del rapporto tra la dimensione etica e la dimensione estetica. È certamente un tema
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importantissimo anche già per Kant, non dimenticate che la terza critica è la Critica del giudizio e la
Critica del giudizio, nella sua prima parte, è critica del giudizio estetico, e nella critica del giudizio
estetico c’è in primo piano la questione del rapporto tra etica ed estetica. Dunque, il tema c’è, il
tema esiste, il tema è importantissimo, ma certamente per Kant non può essere semplicemente
trattato è risolto con una riduzione dell’etica all’estetica. Nemmeno evidentemente con una
riduzione dell’estetica all’etica, ma il rischio, quasi inevitabile, delle etiche che considerano la
moralità come una inclinazione spontanea dell’uomo è appunto la riduzione dell’etica all’estetica.
Tutto questo per dirvi la portata del confronto con queste etiche del sentimento morale che trascorre
Kant conclude questa nota mostrando come (il tema sono le etiche eteronome non
dimenticatelo), nella storia del pensiero etico, e anche nella sua contemporaneità, siano molte le
forme di etiche eteronome, quindi sono differenti tra di loro, e alla fine fa anche uno specchietto e
vicino a ogni forma mette anche dei nomi di filosofi del passato o di filosofi a lui contemporanei,
quindi sono molte e differenti fra loro, ma alla fine sono tutti riducibili a questo stesso discorso:
sono etiche eteronome, qualunque sia il principio che pongono non è l’autonomia della volontà e
pertanto è una eteronomia, e quindi cadono tutte ugualmente sotto le critiche che abbiamo fatto
sotto la seconda tesi del IV teorema che ogni etica eteronoma non solo non fonda la legge morale
ma le si oppone.
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