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Teoremi I-IV (§§ 2-8)

“Tutti i principi pratici che presuppongono un oggetto (materia) della facoltà di desiderare

come motivo determinante della volontà sono complessivamente empirici, e non possono dare

luogo a nessuna legge pratica”. Prima tesi tutti i principi pratici che presuppongono un oggetto o

materia della facoltà di desiderare come motivo determinante della volontà sono complessivamente

empirici. Seconda tesi è che non possono dar luogo a nessuno legge pratica. Per capire queste tesi:

non dice che “tutti i principi pratici materiali sono empirici”, perché non è questo che ci interessa,

ma dice che “tutti i principi pratici materiali, in quanto la materia del desiderare è motivo

determinante della volontà”. Non dice tutti i principi pratici che “presuppongono una materia del

desiderare”, ma che “presuppongono una materia del desiderare come motivo determinante della

volontà”. È chiaro che il desiderare presuppone sempre una materia, l’abbiamo già detto, non si può

volere e non volere nulla, se voglio, voglio qualcosa. Dunque, è sempre presupposta una materia nel

desiderare. “Volere” e “volere qualcosa” è la stessa cosa. La questione rilevante è che non sia

presupposto come motivo determinante della volontà, cioè che questo oggetto desiderato non sia

motivo che determina la volontà desiderante. Ora la prima tesi è che tutti i principi pratici in cui

l’oggetto o materia del desiderare è motivo determinante della volontà sono tutti empirici. Per

questa loro caratteristica li chiamiamo d’ora in poi, e utilizzerò da adesso questo termine, principi

materiali, cioè principi in cui la materia del desiderare è motivo determinante della volontà e sono

tutti empirici. Ora la tesi è che tutti i principi di questo tipo, i principi materiali, sono empirici.

Questa tesi va dimostrata perché non è evidente, visto che appunto non è detto che l’oggetto

desiderato sia empirico. Io desidero un gelato, l’oggetto desiderato, la materia desiderata è empirica,

il gelato è un oggetto empirico. Io desidero fare la volontà di Dio, io desidero perfezionarmi, è un

oggetto, materia del desiderare, ma non è un oggetto empirico. Dunque, i principi materiali possono

avere un oggetto empirico o non empirico, però il teorema dice che i principi materiali sono tutti

empirici. Questo è ciò che va dimostrato perché non è evidente. Non tutti, non necessariamente,
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hanno un oggetto empirico, ma che abbiano o non abbiano un oggetto empirico sono empirici. Tutti

i principi pratici materiali sono empirici.

Vediamo la dimostrazione, “Intendo per materie della facoltà di desiderare un oggetto di

cui è desiderata la realtà effettiva”. Questa è una definizione di materia. “Ora, se la brama di

questo oggetto precede la regola pratica ed è la condizione per farsene un principio, affermo

(in primo luogo) che tale principio è sempre empirico”. Lo “affermo in primo luogo” perché

questa è la prima tesi, poi ce n’è una seconda. Badate la frase precedente, la questione non è se la

brama di questo oggetto precede in senso cronologico la regola pratica, ma se è l’origine. Che lo

preceda non è una cosa decisiva, ma non è la cosa decisiva perché non è di questo che ci

occupiamo. Non stiamo facendo una psicologia della volontà, stiamo facendo un’indagine

trascendentale, quello che interessa è da dove scaturisce un principio pratico, quindi non ci interessa

se l’oggetto desiderato, la materia del desiderare, precede o non precede la regola, ma se è

condizione di essa, questo è il punto. Se è motivo determinante della volontà, in questo caso il

principio sarà sempre empirico. L’oggetto desiderato può essere empirico o non empirico ma il

principio è empirico. Sempre, devo dimostrarlo. “Infatti il motivo determinante dell’arbitrio in

tal caso è la rappresentazione di un oggetto e quel rapporto di essa” qui c’è, è chiaro, nella mia

traduzione un errore, non di “esso”, ma di “essa”, non dell’oggetto ma della rappresentazione

dell’oggetto “col soggetto che determina la facoltà di desiderare ad attuarlo”. Arbitrio qui vale

per la capacità di scegliere tra desideri differenti o tra volontà. L’argomento è questo: il motivo

determinante dell’arbitrio, ciò che determina la facoltà di desiderare, quando il principio sia

materiale che cosa è? Non è solo la rappresentazione dell’oggetto. Qui sta il nucleo della

dimostrazione: quando io dico “desidero un gelato” ciò che determina il mio desiderare non è solo

la rappresentazione del gelato, naturalmente anche e soprattutto la rappresentazione del gelato:

desidero un gelato perché mi rappresento un gelato e voglio che diventi reale. Bene desidero

mangiare un gelato vuol dire che mi rappresento di mangiare un gelato e voglio che diventi reale

questo fatto che io mangio un gelato. Quindi certamente il motivo che determina la mia facoltà di
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desiderare è la rappresentazione dell’oggetto ma non solo, insieme a questo c’è anche sempre e

inscindibilmente il rapporto di quella rappresentazione col soggetto, il rapporto della

rappresentazione, della realtà dell’oggetto, con il soggetto. Pensateci un attimo “il rapporto della

rappresentazione nella realtà effettiva dell’oggetto con il soggetto”, è la definizione di piacere. È la

definizione del piacere. Che cos’è il piacere? È la rappresentazione del rapporto del soggetto con la

realtà effettiva dell’oggetto, con la realizzazione dell’oggetto. Subito dopo introduce il termine

esplicitamente: piacere. Vuol dire che in un principio materiale la mia facoltà di desiderare è

determinata non solo dalla rappresentazione dell’oggetto ma anche, sempre, dalla rappresentazione

del piacere che io mi attendo dalla realizzazione di quell’oggetto. Oppure dal dispiacere che mi

attende evidentemente. Questo è il punto: quando l’oggetto desiderato determina il mio desiderare,

in realtà, insieme ad esso, il mio desiderare è anche sempre determinato dal piacere che mi attendo.

Qui ormai la dimostrazione è fatta, basta solo concluderla, perché se non è detto che l’oggetto sia

empirico, può essere empirico o meno empirico, però il piacere che me ne attendo quello è sempre

empirico. Io mi rappresento un piacere unito alla realizzazione di quell’oggetto, poi può darsi

benissimo che si riveli non piacevole. Il punto è che questo lo saprò solo quando proverò o non

proverò piacere. Dunque. il piacere, cioè il rapporto del soggetto con la realizzazione effettiva

dell’oggetto desiderato è sempre empirico. Allora quando io dico “desidero un gelato” in realtà

esprimo il mio desiderio in un modo incompleto, “Io desidero un gelato e il piacere che me ne

attendo”, perché altrimenti non desidererei quel gelato. Allora che l’oggetto sia empirico o no, il

piacere è sempre empirico. Dunque, il principio pratico materiale è sempre empirico, perché

contiene un elemento empirico: il piacere che mi attendo. La dimostrazione è fatta.

“Ma un siffatto rapporto col soggetto si chiama «il piacere» per la realtà (effettiva) di

un oggetto. Così quest’ultimo stato dovrebbe essere presupposto come condizione della

possibilità della determinazione dell’arbitro. Ma di nessuna rappresentazione di qualche

oggetto, quale che essa sia, si può conoscere a priori se essa sarà associata a piacere o

dispiacere”. Posso attendermi un piacere, ma non posso conoscere che mi darà un piacere o se sarà
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indifferente, perché c’è anche questa possibilità. “Dunque in tal caso il motivo determinante

dell’arbitro deve essere sempre e necessariamente empirico, e quindi lo deve essere anche il

principio pratico materiale che lo presuppone quale condizione”. Qui la dimostrazione della

prima tesi è conclusa.

“Ora, poiché (in secondo luogo)” vedete, adesso occupiamoci della seconda tesi, dove però

la dimostrazione è molto facile e breve una volta verificata la prima tesi, infatti, “un principio che

si fondi solo sulla condizione soggettiva della possibilità di sentire un certo piacere o

dispiacere (che può essere sempre soltanto conosciuta empiricamente, e non può essere

ugualmente valida per tutti gli enti razionali nella stessa maniera) può bensì servire, per il

soggetto che la possieda, come sua massima, ma neanche per lui può fungere da legge (poiché

gli manca quella necessità oggettiva che deve essere conosciuta a priori), un principio siffatto

non può mai dare luogo a una legge pratica”. Se un principio materiale è empirico evidentemente

non può avere la necessità oggettiva di una legge, perché non è a priori e quindi non può avere la

validità di una legge. Ed ecco dimostrata la seconda tesi. Una volta dimostrato che tutti i principi

pratici sono empirici è facile dimostrare che non possono avere la validità di una legge, perché se

sono empirici non sono a priori e quindi non possono avere la necessità oggettiva che solo le

proposizioni a priori possono avere. E se non hanno una necessità oggettiva non sono delle leggi,

possono essere delle massime, possono essere delle regole soggettive ma non possono essere delle

leggi morali.

Teorema secondo. “Tutti quanti i principi pratici materiali sono, in quanto tali, di una

stessa specie, e appartengono al principio generale dell’amore di sé, o della felicità.” Qui c’è

una tesi e non si aggiunge una seconda tesi, ma si aggiungono solo dei nomi: si dice che tutti i

principi pratici materiali sono di una stessa specie, e dice solo come chiamiamo quella specie, cioè

sono i principi dell’amore di sé o della propria felicità, che è equivalente. Ma questo è solo un

nominare non è un ulteriore tesi. Quindi questo teorema ha una tesi, il cuore della tesi non sono i

nomi, ma che sono tutti di una stessa specie. Il primo teorema ha detto che sono empirici e che non
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possono valere come leggi, il secondo teorema dice che tutti i principi pratici materiali sono di una

stessa specie, questa specie la chiamiamo amore di sé o della propria felicità. Perché mai

aggiungere questo Teorema? È così importante? Sì, è così importante, perché? Intanto perché è

importante affermare in sé che sono tutti di una stessa specie, e secondo perché la dottrina corrente,

cioè la scolastica, invece, usa distinguere due specie della facoltà di desiderare.

La dottrina corrente, scolastica, distingueva per specie due differenti facoltà di desiderare

proprio in base all’oggetto desiderato. Cioè, in sostanza, diceva: se la facoltà di desiderare desidera

un oggetto sensibile allora è la facoltà di desiderare che si chiamava inferiore, se invece desidero un

oggetto intelligibile, cioè non oggetto di sensi ma un concetto, un’idea, allora è facoltà di desiderare

superiore. . Ora Kant in questo teorema nega che possa essere in riferimento all’oggetto che possa

essere fatta questa distinzione, perché se l’oggetto determina la facoltà di desiderare, l’abbiamo

visto nel primo teorema, sono tutti empirici i principi, e quindi sono tutti della stessa specie, che

l’oggetto sia sensibile o che sia intelligibile. È quella famosa questione del piacere, perché insieme

all’oggetto comunque io desidero anche il piacere che mi attende. Il piacere si diceva là è sempre

empirico, è sempre sensibile sia che l’oggetto desiderato sia sensibile o intelligibile. È un desiderare

sempre della stessa specie perché è sempre desiderare quel medesimo piacere, c’è un piacere

differente ma è sempre sensibile.

Vediamo la dimostrazione: “il piacere derivato dalla rappresentazione dell’esistenza di

una cosa, in quanto debba essere un motivo determinante del desiderio di questa cosa, si

fonda sulla recettività del soggetto, poiché dipende dall’esistenza di un oggetto”. Fate attenzione,

questa traduzione può presentare un aspetto equivoco, altre traduzioni no, ma io lavoro su questa,

“il piacere derivato dalla rappresentazione dell’esistenza di una cosa in quanto” qui il soggetto è

sottinteso, ma il soggetto è tale piacere, non la rappresentazione della cosa. Quindi ve lo esplicito

“il piacere derivato dalla rappresentazione dell’esistenza di una cosa, in quanto tale piacere

debba essere un motivo determinante del desiderio di questa cosa, si fonda sulla recettività del

soggetto, poiché dipende dall’esistenza di un oggetto; dunque appartiene al senso (sentimento)


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e non all’intelletto, che esprime una relazione della rappresentazione con un oggetto secondo

concetti, ma non con il soggetto secondo sentimenti.” Qui ci sono diverse cose, tanti dettagli. Il

senso complessivo è quello che vi ho detto: sto dicendo che il desiderare un oggetto, che l’oggetto

sia oggetto sensibile o intellegibile, indica sempre la rappresentazione del piacere che mi attende.

Alcuni dettagli: Kant dice “appartiene al senso (sentimento)”, lo mette tra parentesi sentimento. Nel

lessico filosofico comunemente accettato e tradizionalmente assunto la sensibilità in campo

teoretico, cioè l’attività della sensibilità in campo teoretico, la chiamiamo sensazione e in campo

pratico la chiamiamo sentimento. Quindi se io dico sensazione penso alla sensibilità nel suo

significato teoretico se io dico sentimento penso alla sensibilità nel suo significato pratico. Quindi è

una questione lessicale, è chiaro che questo discorso dell’intero libro riguarda il campo pratico,

quindi se parlo di sensibilità o di senso parlo di sentimento, ma è una questione lessicale. Seconda

cosa: qui c’è una definizione di intelletto. Che cos’è l’intelletto? L’intelletto è quella facoltà “che

esprime una relazione della rappresentazione con un oggetto secondo concetti, ma non con il

soggetto secondo sentimenti”, questa è la sensibilità. Quindi qui, in realtà, ci sono due definizioni

perché nella forma negativa è implicita anche la definizione di sensibilità. Che io desideri un

oggetto sensibile, cioè un oggetto del sentimento o un oggetto intellegibile, cioè un oggetto

dell’intelletto o anche della ragione, un’idea della ragione, il punto è che me ne attendo anche

sempre un piacere e pertanto sono della stessa specie.

“Dunque è pratico solo nel senso che il sentimento gradevole che il soggetto si attende

dalla realtà (effettiva) dell’oggetto determina la facoltà di desiderare”. Anche quando l’oggetto

sia intellegibile. “Ma la coscienza che un ente razionale abbia di una gradevolezza della vita

che accompagni ininterrottamente la sua intera esistenza è la felicità, e il principio di fare di

essa il sommo motivo determinante del proprio arbitrio è il principio dell’amore di sé”. Questa

è una collana di definizioni. Questa è la definizione di felicità, è la definizione di felicità fatta

chiamando in causa il concetto di vita, e vita voi lo sapete cosa vuol dire, perché avete la

definizione in quella nota. Ora la felicità è definita come “la coscienza che un ente razionale ha di
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una gradevolezza”, cioè di una piacevolezza della vita che “accompagni ininterrottamente la sua

intera esistenza”. Dunque, la felicità è definita come una gradevolezza, quindi come un piacere, ma

non ogni piacere è la felicità. La felicità è quel piacere della vita che accompagna ininterrottamente

l’esistenza. Guardate che Kant anche qui non inventa niente, è la più tradizionale definizione di

felicità che esiste. La felicità è il piacere permanente. “la coscienza che un ente razionale ha di

una gradevolezza della vita che accompagni ininterrottamente la sua intera esistenza è la

felicità”. Poi segue la definizione del principio dell’amore di sé. Che cos’è il principio dell’amore

di sé? È il principio di fare della felicità il solo motivo determinante del proprio arbitrio. Per questo

nella tesi del teorema dice “tutti i principi materiali sono della stessa specie e appartengono al

principio dell’amore di sé o della propria felicità”, perché come la definizione stessa di principio

dell’amore di sé mi dice il principio dell’amore di sé consiste nel fare della propria felicità il sommo

bene e quindi, il principio dell’amore di sé è lo stesso che dire il principio della propria felicità. La

dimostrazione è conclusa e non è difficile.

“Corollario”. È quando viene affermata una tesi dipendente da una tesi precedentemente

affermata o dimostrata, comunque dipendente da una tesi precedentemente verificata. Una certa

verità assodata può essere tale per cui implica la possibilità di una successiva affermazione che non

va ulteriormente dimostrata, quindi un corollario non ha una dimostrazione perché la sua verità è

già implicita nella tesi che è già stata precedentemente verificata o per dimostrazione, se è un

teorema, o per evidenza se è un assioma, o per definizione se è una definizione. Il corollario: “tutte

le regole pratiche materiali ripongono il motivo determinante della volontà nella facoltà di

desiderare inferiore, e, se non ci fossero affatto leggi solamente formali di essa che

determinassero sufficientemente la volontà, non potrebbe neanche essere ammessa una facoltà

di desiderare superiore”. Questo corollario è importante perché risolve quella questione che

avevamo lasciato in sospeso. Lo so che ripeto e ripeto, ma è per facilitarvi le cose. Avevamo detto:

il teorema si preoccupa di affermare che tutti i desideri di un oggetto sensibile sono della stessa

specie, cioè, tutti i principi materiali fanno parte di una facoltà di desiderare di una stessa specie. In
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questo teorema Kant non si pronuncia se la distinzione tra facoltà di desiderare superiore o inferiore

vada fatta cadere, o possa essere o debba essere conservata ma in un altro significato da quello

solito. Certamente non può essere conservata nel significato solito, cioè definita in base all’oggetto

desiderato, questo dice il teorema. Il corollario completa il discorso dicendo: tuttavia può essere,

anzi deve essere, tenuta una distinzione tra facoltà di desiderare superiore e facoltà di desiderare

inferiore, ma il significato di tale distinzione è totalmente diverso. Queste due facoltà distinte per

specie, queste due facoltà di desiderare, non dipendono nella loro distinzione dall’oggetto

desiderato, ma dall’ origine dei principi che determinano il desiderato. Quando i principi siano

materiali, l’abbiamo visto nel teorema secondo sono tutti della stessa specie, chiamiamo questa

specie facoltà di desiderare inferiore, quando invece la facoltà di desiderare sia determinata non

dall’oggetto desiderato ma dalla ragione da sé sola, cioè da principi puri a priori, allora questa è un

altro tipo di facoltà di desiderare di un’altra specie, e questa la possiamo chiamare facoltà di

desiderare superiore. Ma vedete che il criterio della distinzione non è più il carattere dell’oggetto

desiderato ma l’origine del principio che determina la facoltà di desiderare: se è materiale è una

facoltà di desiderare inferiore, se è un principio puro a priori, puramente razionale, è la facoltà di

desiderare superiore. La distinzione nominalmente viene mantenuta ma viene riempita di un

significato totalmente differente e come indovinate in questo passaggio, in questa operazione, è già

incominciato quel lavoro che vi preannunciavo: un lavoro che implica un po’ di passaggi per

distinguere questa vaga categoria di facoltà di desiderare. Perché qui la distinzione incomincia a

essere fatta, c’è una facoltà di desiderare inferiore, che è quella in cui i principi sono materiali, c’è

una facoltà di desiderare superiore, quella in cui i principi sono razionali puri. Per adesso questo è

l’elemento introdotto ma è un elemento importante.

Nella prima nota – le note non sono come i corollari destinate a affermare una nuova tesi che

è implicita nel teorema precedentemente dimostrato, ma a spiegare un qualche aspetto del discorso,

quindi in una nota non vengono affermate nuove tesi ma vengono chiariti, approfonditi, svolti,

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sviluppati argomentati degli aspetti già visti ma che meritano un ulteriore sviluppo, chiarimento,

argomentazione.

La prima nota, argomenta ulteriormente la tesi del secondo teorema “tutti i principi materiali

sono della stessa specie”. “Non può non sorprendere, come uomini peraltro perspicaci credano

di poter trovare una differenza tra la facoltà di desiderare inferiore e quella superiore nella

condizione che le rappresentazioni che sono accompagnate dal sentimento di piacere abbiano

la loro la loro origine nei sensi, oppure nell’intelletto. E infatti, se si chiede quali siano i motivi

che determinano il desiderio, e se sono riposti in qualche piacere atteso da qualcosa, non

importa affatto donde provenga la rappresentazione di questo oggetto dilettevole, importa solo

in quale misura essa diletti”. Se l’oggetto desiderato e il piacere che me ne attende solo il motivo

determinante, non me ne importa niente da dove arriva l’oggetto, mi importa quanto piacere mi

porta. Dunque, la distinzione se l’oggetto sia sensibile o intellettuale è irrilevante per la facoltà di

desiderare perché desiderare significa sempre desiderare l’oggetto e soprattutto il piacere che me ne

attende. Quello che importa è quanto piacere me ne attendo, me ne arriverà.

“Anche nell’ipotesi che una rappresentazione abbia la sua sede e origine nell’intelletto,

se essa può determinare l’arbitrio solo in quanto presupponga un sentimento di piacere nel

soggetto, ebbene, il fatto che sia un motivo determinante dell’arbitrio dipende interamente

dalla costituzione del senso interno, ossia dalla possibilità che quest’ultimo ne sia

gradevolmente influenzato. Le rappresentazioni degli oggetti possono essere quanto si voglia

eterogenee, possono essere rappresentazioni dell’intelletto e anche della ragione, in antitesi

con le rappresentazioni dei sensi; nondimeno il sentimento di piacere per le quali soltanto, a

rigore, esse costituiscono il motivo determinante della volontà (il diletto, il godimento che ci si

aspetta da esse, e che stimola l’attività dell’oggetto) è di un’unica specie non solo nel senso che

può essere (ri)conosciuto sempre soltanto empiricamente, (primo teorema) ma anche nel senso

che stimola una stessa, identica forza vitale, che si esprime nella facoltà di desiderare, e per

questo rispetto esso non può essere diversa da ogni altro motivo determinante se non nel
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grado”. Può essere diverso il desiderare un oggetto o un altro e magari il desiderare un oggetto dei

sensi o anche, dice Kant, un oggetto della ragione, cioè se è un sentimento oppure un concetto o

un’idea della ragione, ma è diverso nel grado non nella specie, e il grado è una differenza, voi

sapete, che implica appunto omogeneità. È una differenza quantitativa che noi possiamo istituire e

definire all’interno di una grandezza omogenea. Il grado della pressione, il grado della temperatura

eccetera eccetera. Prendete tutti i casi di ciò che si misura in gradi, si misura in gradi appunto delle

realtà omogenee, quindi della stessa specie. Ora due desideri quanto all’oggetto possono

distinguersi e differire anche, ma non per specie, ma per grado, il che confuta che differiscono per

specie, perché se si differenziassero per specie non lo potrebbero per grado.

Fa quattro esempi o esperimenti mentali. Mette un ipotetico soggetto, davanti a due

possibilità tra cui può scegliere e lo fa scegliere. Ora questo esperimento è costruito con cura

perché, voi vedete, sono quattro scelte. Nella colonna di sinistra avete sempre delle possibili scelte

di oggetti concettuali, quindi oggetti dell’intelletto, tolta la quarta in cui l’oggetto è un’idea della

ragione – perché Kant ha detto che l’oggetto intellegibile può essere un concetto dell’intelletto o

perfino un’idea della ragione e lì mette accuratamente: tre oggetti dell’intelletto cioè tre concetti e

un’idea della ragione – nella colonna di destra mette quattro possibili scelte, tutte di oggetti della

sensibilità. Quindi vengono fuori quattro coppie da cui questa persona sceglie tra un oggetto

dell’intelletto e un oggetto della sensibilità, oppure, nell’ultimo caso, tra un oggetto della ragione e

un oggetto della sensibilità. Così come costruisce l’esperimento Kant fa sì che la persona scelga

sempre a destra: sceglie sempre l’oggetto della sensibilità, però questa è più una cosa fatta per

rendere più arguta la questione, ma non è rilevante. Cioè l’argomento terrebbe esattamente nello

stesso modo se vi facesse scegliere a sinistra, il fatto che nell’esempio scelga sempre a destra non è

rilevante. “Proprio lo stesso individuo può restituire, senza averlo letto, un libro per lui

istruttivo di cui può disporre per quest’unica volta, per non rinunciare alla caccia”. Ecco la

prima situazione. C’è questo individuo, ed è un individuo intelligente versato alla lettura dei libri,

gli è stato prestato un bel libro che lo interessa: o lo legge adesso o non potrà più leggerlo perché lo
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dovrà restituire, però d’altra parte lo chiamano per andare a caccia “dai vieni”, “sto a casa a leggere

il libro o vado a caccia? Se vado a caccia quel libro non potrò più leggerlo, perché lo devo restituire,

se mi fermo a leggere il libro mi perdo la caccia, il piacere della caccia, ma anche il piacere di

leggere un libro è chiaro”. A un certo punto lui butta il libro sulla poltrona e se ne va a caccia.

Secondo esempio “può a metà di un bel discorso, andarsene per non arrivare tardi a un

pranzo”. Seconda scelta: sta sentendo un discorso interessante, una conferenza per esempio, che lo

interessa proprio, “accidenti sono già le 7:30 mi aspettano alle 8, dai è quasi finita”, ma sono le

7:35. A un certo punto si alza e basta. Quindi rinuncia al piacere, sia chiaro di un discorso

interessante, per il piacere di un pranzo in società. Vedete anche qui, leggere un libro oppure sentire

un discorso interessante, sono piaceri di oggetti concettuali, la caccia e il pranzo sono piaceri di

oggetti sensibili. Terzo “può abbandonare una conversazione assennata che del resto apprezza,

per sedersi al tavolo di gioco”. È invitato in un salotto insieme ad altri, stanno facendo una bella

conversazione, finalmente stasera trova della gente con cui non si parla di quelle stupide

chiacchiere, è interessante quello che ha detto lui, quello che ha risposto l’altro, in effetti sono dei

competenti, intelligenti, hanno detto delle cose che io non sapevo. D’altra parte, l’altro gli ha fatto

delle obiezioni, adesso stanno discutendo, mi piacerebbe stare a sentire ma di là ci manca il quarto

per questa scopa: alla fine va a giocare a carte. Anche qui ha scelto tra il piacere di una

conversazione interessante, di un oggetto intellettuale, il piacere del gioco delle carte, che è un

oggetto sensibile. Quarto caso “può perfino respingere un povero che solitamente è contento di

aiutare perché ora ha in tasca solo e precisamente il denaro che gli occorre per pagare il

biglietto di ingresso alla commedia”. Sta andando alla commedia, c’è un povero, tra l’altro lui lo

conosce, gli ha sempre dato qualcosa e siccome è un uomo buono gli fa piacere dargli qualcosa,

però ha solo i soldi per i biglietti per entrare al teatro: se li dà a lui non va al teatro, se va al teatro

non li dà a lui, qui la scelta è tra far del bene a un povero, quindi non è un concetto, è un’idea della

ragione, è un ideale e l’altro è il gusto della commedia, quindi il piacere per un oggetto sensibile. E

va alla commedia.
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Ora conclude Kant: “se la determinazione della sua volontà si basa sul sentimento

gradevole o sgradevole che si attende da una qualche cosa, gli è del tutto indifferente per

quale modo di rappresentazione sia colpito. Perché si decide a scegliere, gli importa solo

l’intensità di tale diletto, la sua durata, la facilità con cui procacciarselo, e la sua frequenza”.

Vedete, qual è la forza di questo argomento e dell’esempio o esperimento mentale che ha costruito?

Che in tutte quattro le situazioni questo individuo sceglie. Non è rilevante che scelga le possibilità

della parte destra, l’argomento varrebbe anche si scegliesse qualcuna di quelle a sinistra, ma il

punto è che sceglie, e se sceglie è perché ha confrontato le due possibilità e ne sceglie una. Quale?

Quella da cui si attende maggior piacere. Per scegliere bisogna confrontare e poi in base a un

criterio scegliere, e qui il criterio è il grado di piacere che la possibilità scelta mi procurerà. Questo

conferma nel modo più chiaro e semplice possibile che tra quelle scelte non c’è una differenza di

specie, perché se no non le potrai confrontare. Stabilire un grado è un confrontare. Dunque, vuol

dire che sono grandezze omogenee.

“Se la determinazione della sua volontà si basa sul sentimento gradevole o sgradevole

che si attende da una qualche cosa, gli è del tutto indifferente per quale modo di

rappresentazione sia colpito. Perché si decide a scegliere, gli importa solo l’intensità di tale

diletto, la sua durata, la facilità con cui procacciarselo, e la sua frequenza”. Fermiamoci un

attimo su questo elenco. Ho appena detto, vi ricordate, che la felicità è il piacere permanente,

secondo una definizione tradizionale di cui abbiamo già parlato. Qui in realtà questa definizione

viene corretta, articolata e anche complicata. Anche qui non è un’invenzione di Kant, già da molti

secoli i filosofi si erano resi conto che definire la felicità il piacere permanente non è una

definizione sufficiente, perché la durata del piacere non può essere l’unico criterio nella scelta dei

piaceri nella ricerca della felicità. Qui Kant elenca dei criteri diversi, che sono quelli tradizionali.

L’intensità di un piacere, la sua durata, la facilità con cui procacciarselo e la sua frequenza, perché

la durata è certamente un criterio ma deve essere incrociato con altri criteri. Vedete qui fa un

elenco, forse si potrebbero aggiungere anche altri criteri, ma il fatto è che la durata non è l’unico
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criterio per determinare quale piacere perseguire per ottenere la felicità. Ed è qui che cominciano le

complicazioni, perché questi criteri, questi quattro che enuncia Kant, ma evidentemente anche altri,

si incrociano ma sono eterogenei e quindi è difficile fare l’integrale ottimo, fare l’ottima

composizione di questi criteri. Questo non l’avevano mica capito prima di Kant, questo l’hanno

capito dopo Kant anche quelli che si rifacevano a Kant. È forse stato il più immediato dibattito

quando Bentham ha dato le linee dell’etica utilitaristica, “la massima felicità del maggior numero

possibile” ma cosa vuol dire “massima”? Massima per durata, massima per intensità? È meglio che

diventi ricco di 100 milioni una sola persona o 99 persone di 1 milione? Certo dal punto di vista

della quantità è meglio la prima eventualità, perché? Perché è maggiore 100 milioni che 1, ma ci

sono anche altri criteri da tenere in conto. Mill aveva già fatto questa obiezione a Bentham, quindi

questo elenco complica le cose.

Comunque il discorso di Kant è che non importa niente da dove venga il piacere, il punto è

l’intensità, la durata, la facilità di procurarselo, la frequenza e fa una metafora: “come per colui che

ha bisogno di oro, per spenderlo, è completamente indifferente se la sua materia, l’oro stesso,

sia stato estratto dalla roccia o setacciato dalla sabbia, purché sia accettato ovunque per lo

stesso valore, così nessuno a cui interessi meramente la gradevolezza della vita chiede se si

tratti di rappresentazioni intellettuali o sensibili, ma solo quanti godimenti e quanto intensi gli

procurino, quanto più a lungo possibile”. Questa concezione dell’oro come denaro e solo come

denaro: interessa per il suo valore di scambio non interessa se venga dalla roccia o se venga dalla

sabbia, se l’hanno setacciato nei fiumi o scavato nelle miniere, gli interessa che sia denaro. Così il

piacere, non mi interessa da dove venga, mi interessa che mi produca piacere.

“Solo coloro che vorrebbero ricusare alla ragione pura la facoltà di determinare la

volontà senza il presupposto di un qualche sentimento, possono deviare dalla loro propria

spiegazione al punto da dichiarare interamente eterogenei i motivi che prima essi avevano

ricondotto a un solo, identico principio”. Questi che fanno la distinzione tra facoltà di desiderare

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inferiore e superiore in riferimento all’oggetto è perché non vedono altra eventualità o addirittura la

negano, non la considerano nemmeno, cioè che la volontà, la facoltà di desiderare, sia determinata

unicamente dalla ragione in modo puro a priori. Se vedessero questo capirebbero che lì sta la

differenza. Quella sì è una facoltà di desiderare totalmente diversa dalla facoltà di desiderare

determinata dall’oggetto, che è poi quello che ha detto nel corollario.

“Per esempio accade che il mero impiego di energia, la coscienza della forza della

propria anima nel superamento degli ostacoli che si oppongono ai nostri propositi, la cultura

delle nostre doti spirituali, eccetera, possano procurare godimento; e parliamo di gioie e

divertimenti più raffinati a buon diritto, perché dipendono da noi e non dagli altri, non si

consumano, anzi, rafforzano il sentimento per cui goderne ancora di più, e mentre dilettano

insieme coltivano”. È chiaro, che c’è differenza tra gli oggetti che desideriamo: desiderare oggetti

di tipo concettuale o idea della ragione, come quelli che indica, “l’ottimale impiego della propria

energia”, “la forza della propria anima nel superamento degli ostacoli” e altre ispirazioni di questo

tipo sono evidentemente più raffinate che il desiderare di mangiare. C’è una differenza: un uomo

che cerca il proprio piacere in desideri del primo tipo è un uomo certamente la cui ricerca del

piacere è differente da quella dell’altro, è più raffinata. Ma più raffinata è un’espressione che ci

riporta a quegli esempi, è una questione di grado. Difatti diciamo che è un desiderio più raffinato

dell’altro, dunque, lo confrontiamo, non è una differenza di specie, perché anche lui in quelle

attività, nobilissime, altissime, eccetera, cerca pur sempre il proprio piacere e soprattutto la sua

facoltà desiderare è pur sempre determinata dalla ricerca del piacere, dall’oggetto che vuole

procurarsi per ottenere il piacere, quindi da un principio materiale, anche se non sono materiali gli

oggetti che ricerca, ma il principio è materiale (primo teorema). Quindi è certamente più raffinato

ma non è di un’altra specie.

“Però spacciarli per un modo di determinare la volontà diverso per specie dal semplice

senso, dal momento che peraltro presuppongono, per la possibilità di questi godimenti, un

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apposito sentimento insito in noi quale prima condizione di tale compiacimento, equivale

esattamente alla situazione che si verifica allorché ignoranti che amano impicciarsi di

metafisica pensano che la materia sia fine, sopraffina tanto da avere il capogiro, e poi credono

di aver escogitato, in tal modo, un essere spirituale e tuttavia esteso”. Anche qui se la prende

con qualcuno, “ignoranti che amano impicciarsi di metafisica”, però vogliono dire cose complicate

sulla metafisica e sostengono che lo spirito non è altro che materia, ma la materia più sopraffina.

Questa è una posizione che c’è da tanto tempo, il materialismo metafisico. Già quando Descartes

scrive le Meditazioni tra i suoi detrattori ci sono Gassendi, per esempio, Hobbes, che sostengono

questa posizione, ma non è vero che la sostanza pensante è un’altra specie di sostanza rispetto alla

sostanza estesa, il pensiero è solo una forma di materia più raffinata. Questi, dice Kant, sono

ignoranti – Gassendi era un genio e Hobbes era un genio – però poi c’erano tanti altri e questi sono

“ignoranti che si preoccupano di metafisica” e di spiegare che lo spirito non è altro che materia

molto molto raffinata Questi sono imbonitori, così dice Kant, il discorso scolastico, la distinzione

tra facoltà di desiderare inferiore e superiore in base all’oggetto, non è fondata sul ragionamento.

Essi devono spiegare perché c’è una differenza specifica tra desiderare un oggetto intellettuale o

razionale e desiderare un oggetto sensibile, dal momento che quello che vado a ricercare è sempre e

il medesimo piacere.

“Se, con Epicuro, continuiamo esclusivamente sul godimento che la virtù promette, per

determinare la volontà, non possiamo poi rimproverarlo di ritenere che tale piacere sia del

tutto omogeneo con quelli dei sensi più grossolani; infatti non c’è ragione di accusarlo di aver

attribuito soltanto ai sensi corporei le rappresentazioni da cui il sentimento di piacere sarebbe

stato in noi. Per quanto si può indovinare, egli ha cercato di la fonte di molte di esse anche e

non meno nell’uso della facoltà conoscitiva superiore: ma ciò non gli impedì e neanche poteva

impedirgli di ritenere interamente omogeneo, secondo il suddetto principio, lo stesso

godimento che si procurano tali rappresentazioni intellettuali, e il quale soltanto consente a

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queste ultime di essere motivi determinanti della volontà. La coerenza è il principale obbligo

di un filosofo, eppure si incontra con rarità estrema”. Dice che costoro elogiano chi persegue i

desideri superiori e non quelli inferiori, ma in fondo era più coerente Epicuro che diceva che il

piacere è il piacere. Il principio di Epicuro è che la felicità consiste nel piacere, adesso bisogna poi

vedere quali piaceri ricercare ma il piacere è piacere ed è sempre lo stesso e della stessa specie.

Epicuro è più coerente di loro, e la coerenza è il principale obbligo di un filosofo eppure si incontra

con rarità estrema. Un filosofo deve essere coerente. Ma coerente nel senso che quando sviluppa

una teoria, questa teoria deve essere fondata in ogni suo passaggio in modo coerente con il suo

passaggio successivo e con il suo passaggio precedente, con il corpo della teoria.

“Le scuole greche antiche ce ne offrono esempi più numerosi di quelli che incontriamo

nella nostra età sincretistica, in cui si inventa un artificioso sistema di coalizione di Principi

contraddittori, pieno di disonestà e superficialità, perché si raccomanda meglio a un pubblico

che è contento di sapere di tutto un po’ e complessivamente nulla, e di potersene stare su tutte

le selle”. Dice che i filosofi greci, compresi gli epicurei, tutto sommato sulla questione della

coerenza erano meglio di noi. “Noi” intende il suo tempo, i filosofi dei suoi tempi, perché viviamo

in una cultura, in un momento storico della cultura in cui invece si preferisce da parte dei filosofi,

da parte degli intellettuali, proporre al pubblico dei sistemi sincretistici in cui si mette insieme un

po’ tutto, anche se insieme non sta, e si affastella un po’ tutto istituendo dei rapporti tra una parte e

l’altra che non sono dei rapporti filosoficamente giustificabili, razionalmente giustificabili, ma si fa

finta che tutto stia un po’ insieme. Uno dei motivi, dice Kant, è anche che questi fanno così perché

così piace al pubblico, perché c’è un pubblico. Questa è la domanda e quindi l’offerta da parte dei

filosofi, che vuol dire ai tempi di Kant degli intellettuali, corrisponde alla domanda. Perché il

pubblico vuole sapere di tutto un po’ e complessivamente nulla, non è interessato a sapere

veramente, però vuole avere delle opinioni su tutto. “Per quanto intelletto e ragione possa

comportare, il principio della propria felicità non conterrebbe, per la volontà, motivi

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determinanti diversi da quelli adeguati alla facoltà di desiderare inferiore; e dunque o non

esiste nessuna facoltà di desiderare superiore affatto, o la ragione pura deve essere

necessariamente pratica da sé sola, di per sé stessa, ossia deve poter determinare la volontà

con la pura forma della regola pratica, senza il presupposto di qualsiasi sentimento, quindi

senza rappresentazioni del gradevole o dello sgradevole come materia della facoltà di

desiderare, quella materia che è sempre una condizione empirica dei principi”. Ripete quello

che ha già detto nel corollario. Tutta la facoltà di desiderare determinata da principi materiali è della

stessa specie, dunque o non esiste una facoltà di desiderare superiore oppure esiste, ma allora non è

l’oggetto che fa la distinzione ma il fatto che questa altra facoltà, differente facoltà di desiderare, è

differente perché non è determinata dall’oggetto ma dalla ragione pura da sé sola, senza l’intervento

di alcun motivo determinante oggettivo, di alcun sentimento.

“Dunque la ragione – solo in quanto determina di per se stessa la volontà (non è al

servizio delle inclinazioni)”, non è la ragione strumentale di cui parlavamo per l’imperativo

ipotetico. La ragione “è una vera facoltà di desiderare superiore, a cui è subordinata quella

determinabile patologicamente”, cioè quella inferiore “ed è distinta da questa realmente, anzi

per specie, di modo che la benché minima aggiunta di impulsi propri di quest’ultima” della

facoltà inferiore “nuoce alla sua forza e al suo privilegio, così come, in una dimostrazione

matematica, una condizione anche minimamente empirica scredita, annulla la sua dignità ed

efficacia”. Questo è quello che si chiama il rigorismo kantiano. La facoltà di desiderare superiore,

ora utilizziamo questa terminologia, in questo passaggio del testo è quella in cui la facoltà di

desiderare è determinata dalla ragione pura da sé sola, quindi dalla ragione senza alcun elemento

empirico nemmeno accanto alla ragione stessa. Aggiunge “anche senza che alcun elemento

empirico determini quella facoltà di desiderare insieme”, accanto alla regione. Se la facoltà di

desiderare è determinata dalla ragione e anche dal desiderio di un oggetto, allora già non è più la

facoltà di desiderare superiore. Rigorismo kantiano, non significa che Kant era uno cattivo,

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eccetera, ma significa tecnicamente questo, che il principio razionale puro è l’unico che fonda la

legge morale e la fonda solo se la fonda da sé solo, senza intervento di alcun elemento empirico,

nemmeno accanto ad esso.

“In una legge pratica, la ragione determina la volontà immediatamente, non con la

mediazione di un interposto sentimento di piacere o dispiacere, neanche per questa stessa

legge, e solo la sua possibilità di essere pratica come ragione pura le consente di essere

legislatrice”. Ricordatevi queste righe perché sono la sintesi di tutto quello che abbiamo detto: la

ragione pura da sé sola è immediatamente, senza la mediazione di un sentimento di piacere o di

dispiacere – e un sentimento è sempre un sentimento di piacere o di dispiacere, quindi senza la

mediazione di un sentimento – è l’unica che fonda la legge morale. Ricordatevi queste righe perché

sono importanti, in qualche modo formulano in un modo definitivo il lavoro che abbiamo fatto, ma

poi anche perché all’inizio del terzo capitolo ci metteranno nei pasticci.

La seconda nota è destinata a iniziare almeno uno sviluppo, un chiarimento delle

argomentazioni sul tema della felicità perché questo tema è introdotto nel secondo Teorema: “i

principi materiali sono della stessa specie e appartengono all’amore di sé o la propria felicità”. La

prima frase è icastica: “Essere felice è necessariamente l’esigenza di ogni ente razionale, ma

finito, e dunque è un inevitabile motivo determinante della sua facoltà di desiderare”. “Essere

felice è necessariamente l’esigenza”, badate, Kant sceglie sempre tutte le parole, qui non ne

risparmia nessuna per essere chiaro: “è necessariamente l’esigenza universale di ogni ente razionale

finito”. Quindi è una esigenza necessaria, universale e quindi è un’inevitabile motivo determinante

della sua facoltà di desiderare. Una frase così non è che può essere male interpretata, e Kant l’ha

scritta in modo tale che non è possibile: l’esigenza della felicità è necessaria, universale ed è

inevitabilmente un determinante della facoltà di desiderare di tutti, sempre. Dunque, credo di non

fare una strana interpretazione nel dire che Kant non è per nulla opposto alla felicità. Non ha

nessuna intenzione di costruire una dottrina morale che condanni la felicità o che non riconosca le

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esigenze della felicità. Quello che è vero, ma è tutt’altra cosa, è che la dottrina morale di Kant non è

fondata sul principio della felicità, cioè nella teoria morale di Kant la felicità non è il motivo

determinante oggettivo della legge morale, del principio morale, questo è vero ed è altrettanto

importante. Ma dire che un’etica o una dottrina morale non è fondata sulla felicità non vuol dire che

rinneghi l’esigenza della felicità. Sono due affermazioni totalmente differenti tra loro. Ora la

dottrina morale di Kant è certamente una dottrina che non è fondata sulla felicità, ma non è affatto

una dottrina che rinneghi l’esigenza della felicità. Per passare a una terminologia un po’ più tecnica,

noi diciamo eudemonistica una teoria morale fondata sulla eudemonia, cioè sulla felicità, quindi se

noi diciamo che una teoria morale è una teoria eudemonistica vuol dire che è una teoria morale che

fonda il sistema morale sulla felicità come principio, come fondamento. Ma se una teoria morale

non è eudemonistica allora, non c’è solo una possibilità ci sono due possibilità: che sia una teoria

morale anti-eudemonistica o che sia una teoria morale non eudemonistica, è differente. Perché se

dico che una teoria morale è anti-eudemonistica vuol dire che si forma sul principio della negazione

della felicità, del rifiuto della felicità, mentre se dico che una teoria morale è non eudemonistica

dico che è una teoria che si fonda su un principio diverso dalla felicità, ma non necessariamente

opposto alla felicità. Ora la teoria di Kant non è certamente una teoria eudemonistica, ma è piuttosto

una teoria non eudemonistica, ma non è una teoria anti-eudemonistica. se è vero quello che dice

Kant in questa prima frase della nota, cioè che la felicità è necessariamente un’esigenza universale

di ogni ente razionale finito e che inevitabilmente è motivo determinante della facoltà di desiderare,

allora una teoria etica anti-eudemonistica non è possibile, perché una teoria etica sarà sempre una

teoria per gli enti razionali finiti, per le persone umane. Se ogni persona umana ha l’esigenza della

felicità in modo necessario, universale, imprescindibile, bisognerebbe pensare a una teoria etica che

va sistematicamente contro a tutto ciò: è una teoria etica radicalmente antiumana.

“Essere felice è necessariamente l’esigenza di ogni ente razionale, ma finito, e dunque è un

inevitabile motivo determinante della sua facoltà di desiderare. Infatti la soddisfazione per la

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sua intera esistenza non è – come si potrebbe forse credere – un possesso originario e una

beatitudine che presupporrebbe una consapevolezza della propria indipendente

autosufficienza, è invece un compito impostogli dalla sua stessa natura finita, poiché è

bisognoso; e tale bisogno concerne la materia della sua facoltà di desiderare, ossia qualcosa

che si riferisce a un sentimento di piacere o dispiacere soggettivamente soggiacente con cui è

determinato ciò che occorre affinché sia soddisfatto del proprio stato”. Questo è l’unico lavoro

di giustificazione della frase iniziale che lui fa. Essere felici è un’esigenza necessaria e universale di

ogni ente razionale finito, perché l’ente razionale finito non è un ente beato ma è un ente, che in

quanto finito, è mancante. Essendo mancante è bisognoso, questo bisogno lo porta ad agire in modo

da riempire la mancanza e così trovare soddisfazione e quindi piacere, nella misura in cui questo è

una soddisfazione, non solo di un bisogno puntuale e provvisorio, ma dell’essere bisognoso suo

complessivo. Tanto per incominciare Kant dice la felicità è un’esigenza necessaria e universale,

imprescindibile di ogni ente razionale finito perché non è beato. Introduce questo termine “beato”

che non abbiamo mai incontrato. Anche questo termine è un termine che ha una lunghissima storia

nei secoli. La beatitudine in latino beatitudo. Questo termine, beato, gli antichi lo usavano per

indicare quello stato, naturalmente di felicità, di piena felicità stabile, permanente, che quindi non

dà luogo a un movimento, a un’azione, perché l’ente beato non si muove. Non si muove perché non

ha nulla verso cui muovere, nel senso che è già pieno di tutto, insomma, questo è lo stato che già il

pensiero antico aveva attribuito agli dei. Gli dei sono beati nel senso che sono felici. Beato vuol dire

felice ma non è la felicità raggiunta, è la felicità come stato permanente. Gli dei sono sempre beati,

sono beati da quando sono e per sempre. Beata la situazione quindi degli dei, della divinità e poi

nella formulazione ebraico-cristiana di Dio. Ma è chiaro che già nel pensiero antico se è

riconosciuta come la situazione, lo stato della divinità, prima o dopo la si penserà, forse prima la si

sognerà, poi però anche la si penserà come una meta per gli uomini, l’ideale degli uomini.

Raggiungere la felicità, ma la felicità abbiamo detto è il piacere stabile, permanente, quindi la

felicità nella forma della beatitudine. Nascono una infinità di scritti, di ricerche e il titolo diventa un
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titolo quasi convenzionale: “de vita beata”. La vita beata è la vita degli dei ma è anche l’ideale per

tante culture filosofiche degli uomini. Come raggiungere la vita beata? La vita beata è quella vita

che è felice in modo permanente perché non manca di nulla. Ora dice Kant, e passiamo al secondo

punto da chiarire, l’ente razionale finito non è mai in questa situazione perché essendo finito è

mancante e dunque non è beato, non è felice nel senso della beatitudine di cui abbiamo abbastanza

parlato, gli manca qualcosa, e allora si innesta una dinamica del desiderio. La dinamica del

desiderio è questa: mancanza, desiderio, cioè tensione all’azione per riempire la mancanza, se

quest’azione realizza il suo effetto c’è riempimento della mancanza quindi la soddisfazione e la

felicità o il piacere, e se il piacere è permanente c’è la felicità. Dunque, vedete è tutta un’altra

situazione, ma questa è la situazione di ogni ente razionale finito, per questo nella prima frase Kant

diceva “la felicità è necessariamente l’esigenza di ogni ente razionale finito”. Esigenza vuol dire

appunto ciò a cui tendo perché non l’ho. Non si può parlare della felicità come esigenza per l’ente

beato, perché l’ente beato non ha l’esigenza della felicità, è felice. Se è una esigenza è perché mi

manca. La facoltà di desiderare è proprio quella facoltà che sorge per questa dinamica, poiché se

qualcosa manca si tende a, cioè si desidera ciò che riempie quella mancanza. Desiderare è

desiderare qualcosa che mi manca.

“Ma appunto perché questo motivo determinante materiale può essere (ri)conosciuto

dal soggetto solo empiricamente, è impossibile considerare tale problema come una legge,

poiché quest’ultima, in quanto obiettiva, dovrebbe necessariamente contenere proprio lo stesso

motivo determinante della volontà in tutti i casi e per tutti gli enti razionali. Infatti, sebbene il

concetto della felicità sia ovunque il fondamento della relazione pratica degli oggetti con la

facoltà di desiderare, peraltro è solo il titolo generale dei motivi determinanti soggettivi, e non

determina specificamente nulla – mentre questo soltanto importa in questo problema pratico,

e senza tale determinazione esso non può venire affatto risolto”. Qui c’è una serie di argomenti

per sostenere ulteriormente la tesi che la felicità propria non può essere il motivo determinante della

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volontà moralmente determinata. Questo è ciò che è già stato dimostrato nel primo e nel secondo

teorema: tutti i principi materiali sono empirici e quindi non possono avere valore di legge, tutti i

principi materiali sono della stessa specie e stanno sotto il nome della felicità propria. Metteteli

insieme: quindi la felicità propria non può essere motivo determinante della volontà morale perché

empirica. Allora, dice Kant, che senso ha dire che tutti cercano la felicità? Se diciamo che è un

principio soggettivo allora non possiamo dire che tutti cercano la felicità, perché tutti cercano la

felicità è una proposizione universale. Poi diciamo anche “necessariamente”. Come mai allora è un

principio empirico quello della felicità e non può avere valore di legge? Perché, dice Kant, quando

noi diciamo felicità diciamo dunque una specie sotto la quale stanno tutti i principi materiali e

quindi tutti i piaceri, ma il concetto di felicità non determina ulteriormente questo aspetto. Quindi

quando noi diciamo “tutti cercano la felicità” ciò che esprimiamo non è un significato universale ma

un significato collettivo. Chiamiamo felicità quell’insieme, con numerose differenze, di fini delle

azioni tendenti al piacere, ma senza ulteriormente determinarli. Tutti cercano la felicità ma poi

ognuno la intende a modo suo. Quindi vedete che questo termine felicità è un termine vuoto, che

viene riempito di volta in volta in modo empirico, soggettivamente, da ogni persona con l’oggetto a

cui tende e da cui si attende piacere. Quindi non è propriamente un concetto universale e necessario

ma un concetto empirico, soggettivo, particolare.

“Infatti dove ciascuno debba riporre la propria felicità dipende dal sentimento di

piacere e dispiacere suo particolare, e persino, in un identico soggetto, dalla diversità del

bisogno secondo le variazioni di tale sentimento, e una legge soggettivamente necessaria (come

legge di natura) e dunque, oggettivamente, un principio pratico persino molto accidentale, che

può e deve essere assai diverso in soggetti diversi, e quindi non può mai ingenerare una

legge”. Non solo ognuno soggettivamente e in modo accidentale identifica la felicità che va

cercando con una particolare oggetto, con la realizzazione di una particolare oggetto e il piacere che

vi associa, ma addirittura lo stesso soggetto in condizioni differenti può identificare la felicità con

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oggetti differenti. Dunque, la felicità è un principio assolutamente soggettivo, accidentale:

soggettivo, non obiettivo, accidentale, non necessario, particolare, non universale, empirico. Quindi

in nessun modo può essere il principio che determina la volontà morale, perché non è una legge,

non può costituire una legge, secondo quello che abbiamo detto nella prima nota.

“Poiché nella brama di felicità non importa la forma della legalità, ma soltanto la

materia, ossia se è quanto godimento io mi debba attendere osservando la legge. Principi

dell’amore di sé” propria felicità l’abbiamo visto prima, sono espressioni sinonimiche, “possono

bensì contenere regole generali dell’abilità (onde trovare mezzi per certe finalità); ma allora

sono principi meramente teoretici (per esempio: Chi gradirebbe mangiare pane, deve trovarsi

un Mulino)”. Qui dice esplicitamente ciò che avevamo già detto: principi dell’amore di sé possono

contenere regole generali dell’abilità. Questa è un’espressione che avevamo già trovato nella nota,

che Kant usava per indicare gli imperativi ipotetici: regole dell’abilità, vi ricordate. Possono sì

ottenere regole generali della abilità, ma allora, dice Kant, e lo dice esplicitamente, non sono

principi pratici ma sono principi teoretici. Quali cause bisogna mettere in atto per ottenere un certo

effetto? Chi vuole un certo effetto deve essere capace di mettere in atto le cause sufficienti per

ottenere quell’effetto. Regole dell’abilità, ma queste sono regole teoretiche, vedete che lo dice

esplicitamente.

C’è una nota: “le proposizioni che sono chiamate pratiche nella matematica o nella

dottrina della natura a rigore dovrebbero dirsi tecniche” è la ragione tecnica quella che è qui in

atto, perché le regole di questo tipo, cioè le regole dell’abilità che normalmente vengono chiamate

regole pratiche, non sono pratiche ma tecniche. “Infatti tali dottrine non hanno nulla a che fare

con la determinazione della volontà; si limitano a mostrare il molteplice della possibile azione,

il che” si riferisce al molteplice “è sufficiente a produrre un certo effetto; e quindi sono

teoretiche tanto quanto tutte le proposizioni che enunciano la connessione di una causa con un

effetto. Ora chi desideri il secondo deve anche accettare che sia la prima”. Qui fa una analogia

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tra queste regole, cosiddette pratiche dell’abilità, che in realtà sono tecniche, con alcune regole della

matematica, in particolare con quelle che noi chiamiamo operative: per esempio le regole per

costruire un triangolo rettangolo inscritto in una circonferenza, o un esagono regolare inscritto in

una circonferenza. Sono delle regole, quelle non sono leggi matematiche, sono regole costruttive,

per costruire la figura, sono regole operative, sono regole dell’abilità. Anche in matematica esistono

regole dell’abilità, anche in chimica, anche in fisica. Vengono erroneamente chiamate pratiche

perché ti dicono cose devi fare, ma in realtà non ti dicono cosa devi fare nel senso proprio dell’uso

pratico della ragione, cioè per produrre il proprio oggetto, ma per costruire una figura, per

combinare una formula chimica, eccetera, o per ottenere il proprio piacere. Sono regole operative

che ti dicono la tecnica che devi seguire per ottenere quel risultato. Naturalmente sono regole che

riguardano la ragione, perché è con la ragione che noi facciamo queste operazioni, ma con la

ragione tecnica, con la ragione strumentale, cioè con la ragione che non fonda i fini, ma che

ricerca solo i mezzi adeguati a raggiungere un fine dato da altrove. Non riduciamo la ragione alla

sua funzione tecnica e strumentale: è anche una ragione tecnica e strumentale ma solo

marginalmente, è una funzione della ragione, la funzione della ragione è quella teoretica, è quella

pratica, queste sono le due funzioni fondamentali della ragione. Nell’una la ragione determina a

priori un oggetto dato, nella seconda produce a priori il proprio oggetto, sono il campo della

conoscenza teoretica e della conoscenza pratica. “Ma le prescrizioni pratiche fondate su di essi

non possono mai essere universali, poiché il motivo determinante della facoltà di desiderare si

fonda sul sentimento di piacere e dispiacere, che non si può mai considerare come diretto

universalmente sugli stessi oggetti”.

Altro argomento che c’è in questa nota è quello successivo: “Ma, posto che tutti gli enti

razionali finiti la pensassero allo stesso modo anche rispetto a quelli che dovessero considerare

come oggetti dei loro sentimenti di godimento o di dolore, e anche e persino quanto ai mezzi di

cui dovessero servirsi per ottenere i primi ed evitare i secondi, tuttavia non potrebbero affatto

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spacciare per una legge pratica il principio dell’amore di sé”. Qui Kant fa un esperimento

mentale: ha appena detto che “tutti desiderano la propria felicità” è un’affermazione collettiva ma

non universale, perché poi ognuno la riempie dei suoi contenuti soggettivi ed empirici e accidentali.

Ma adesso proviamo a pensare una situazione in cui tutti, nello stesso momento, desiderano la

felicità e intendono per felicità lo stesso oggetto, tutti sono d’accordo su questo e anche sono

d’accordo sui mezzi per raggiungerlo. In astratto si può pensare che tutti coincidano nell’intendere

il desiderio per la felicità e i mezzi per raggiungerlo. Allora, in questo caso, non sarebbe universale?

Non sarebbe un principio universale? No, non sarebbe un principio universale, e nemmeno un

principio necessario. Anche in questo caso “non potrebbero affatto spacciare per una legge

pratica il principio dell’amore di sé. Infatti questa stessa unanimità sarebbe soltanto

accidentale. Il motivo determinante avrebbe pur sempre una validità soltanto soggettiva e

sarebbe meramente empirico, mentre non avrebbe la necessità che è pensata in ogni legge,

ossia quella oggettiva perché fondata su ragioni a priori; si dovrebbe allora presentare tale

necessità non già come pratica, ma come meramente fisica, precisamente nel senso che

l’azione ci fosse estorta, dalla nostra inclinazione, non meno ineluttabilmente dello

sbadigliare, quando vediamo sbadigliare altri”. Anche in questo caso, che abbiamo costruito

come esperimento mentale, il desiderio della felicità sarebbe sempre un principio non universale,

non necessario e non oggettivo, ma particolare, accidentale e soggettivo, perché il generale accordo

soggettivo non si trasforma mai in oggettività, non si trasforma mai in universalità, nel senso vero e

rigoroso. Tutti sono d’accordo nel desiderare la felicità, e per felicità intendono lo stesso oggetto e

intendono gli stessi mezzi per raggiungerlo. In questo momento c’è un’universale accordo? No, c’è

un accordo generale, ma basta che uno, uno solo dica “cambio idea” e tutto finisce. Ma è

necessario? No. Tanto è vero che in ogni momento uno può dire “no, voglio cambiare idea”. Quindi

questo consenso è accidentale, non è necessario e alla fine non è neanche oggettivo perché è solo la

somma, senza eccezioni, di desideri soggettivi: ma la somma senza eccezione di desideri soggettivi

non è il desiderio oggettivo. È determinato da tutti i soggetti consensualmente, ma sempre dai


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soggetti e non oggettivamente. Perché? Perché resta sempre empirico, e solo una proposizione a

priori può avere una validità necessaria e oggettiva. Nessuna proposizione empirica potrà mai

essere altro che accidentale, anche nel caso in cui sia accidentalmente consensuale. Non potrà mai

essere altro che particolare, anche se consensualmente particolare, non potrà mai essere altro che

soggettiva, anche se consensualmente soggettiva. Questa è una distinzione importante che voi

dovete tenere ferma. Non è un assioma dire che solo le proposizioni a priori sono necessarie,

universali, oggettive: è dimostrabile, è una proposizione dimostrata, non è un assioma, tantomeno

un corollario. Kant fa rilevare proprio bene questo in molti luoghi, ne scelgo uno nella ragione pura

teoretica, quando parlando della distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici parla della

universalità in senso rigoroso rispetto alla universalità empirica, che è appunto la generalità. La

logica formalistica di tipo aristotelico mi dice che ogni proposizione del tipo “Tutti gli A sono B” è

una proposizione universale. Dice “tutti”, quindi è universale, ma ci sono due significati di

universale, molto differenti tra di loro: se io dico “tutti gli A sono B” posso dire due cose molto

differenti. Per esempio, voi sapete di quel particolare, non so se si chiama specie o famiglia, di cigni

che è nera di piumaggio. Gli europei non la conoscevano prima che scoprissero l’Australia. Quindi

poniamo che io enunci la proposizione, “tutti i cigni sono bianchi”, questa è una proposizione

universale in senso formalista, così “tutti i cigni sono bianchi” ha la forma esterna di una

proposizione universale. Però domani arriva uno di voi e mi mette sulla cattedra un cigno nero:

“professore ho trovato questo”. Cosa devo fare io? Non posso che fare una cosa, dire: “mi correggo,

quasi tutti i cigni sono bianchi.” Ma se io vi dico, ragioniamo all’interno di una geometria euclidea,

di una geometria dello spazio piano, “tutti i triangoli hanno la somma degli angoli interni di 180

gradi”, domani viene uno e mi mette sulla cattedra un triangolo e mi dice “guardi io ho trovato

questo qui, ho misurato ma la somma degli angoli interni non è 180 gradi”, quale sarà la mia

reazione giusta e corretta? Non è dire “quasi tutti i triangoli…” ma è, senza nemmeno alzare la

testa, dire “lo porti via non è un triangolo”. Perché “tutti i triangoli hanno la somma degli angoli

interni di 180 gradi” è una affermazione a priori che è universale e necessaria e nessun dato
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empirico la può confutare. Se qualcuno mi presenta un dato empirico difforme, escludo il dato

empirico, non correggo la proposizione, ma nel caso dei cigni sì. Vedete formalisticamente tutte e

due le proposizioni sono universali, “tutti i cigni sono bianchi” e “tutti i triangoli…”, ma il

significato di universale è molto differente: solo il secondo è una universalità nel senso rigoroso,

oggettivo, necessario, perché è a priori, mentre ogni proposizione empirica, non potrà mai avere

queste caratteristiche. Per definizione una proposizione empirica è valida sino a quando l’esperienza

non mi dia dati in contrario. Quindi vedete c’è una universalità in senso rigoroso e una universalità

in senso empirico, che poi è una generalità. Allora qualunque principio pratico fondato sulla felicità

sarà sempre empirico, per il primo teorema, e dunque non avrà mai la vera e propria universalità,

necessità e oggettività. Dunque, non potrà fondare una volontà determinata in modo oggettivo,

necessario, universale. Se dei soggetti concordano sulla felicità, sul fine della felicità, o se anche,

come in questo esperimento mentale, tutti concordassero, è qualcosa che è accidentale, dice Kant.

“Si potrebbe affermare che non ci siano leggi pratiche affatto, ma solo consigli in

funzione delle nostre brame, piuttosto che elevare principi meramente soggettivi al rango di

leggi pratiche, tali da avere una necessità interamente obiettiva e non solo soggettiva, e da

dover essere (ri)conosciute dalla ragione a priori, e non per mezzo dell’esperienza (quanto si

voglia empiricamente generale)”. Dice Kant, il tentativo di confondere dei principi generalmente

soggettivi, empirici, con delle leggi pratiche, oltre che a essere errato, infondato, è anche

inutilmente falso. Allora è più coerente dire che non ci sono leggi pratiche. Se uno non riconosce

che sono possibili principi a priori che determinano la volontà, allora, piuttosto di dimostrare che ci

sono principi empirici che però sono universali, necessari, cosa che abbiamo visto non è, allora, è

meglio dire che non ci sono leggi morali, ma ci sono solo consigli soggettivi, massime, imperativi

ipotetici, regole dell’abilità, ma che non sono possibili leggi morali. Sicché, vedete, ancora una

volta, e siamo solo nelle prime pagine, ma ancora una volta ricompare la questione cruciale che

abbiamo visto nella prefazione, nell’introduzione, già nei primi due teoremi e in questa nota: la

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questione affrontata in questo libro è se è possibile che la ragione pura da sé sola determini la

volontà. Questo è il tema di questo libro, e l’implicazione che vediamo insistita è che se noi

riusciamo a dimostrare che è possibile che la ragione pura, quindi a priori, da sé sola determini la

volontà, allora è possibile una volontà morale, altrimenti no. Altrimenti dobbiamo concludere che

non ci sono leggi morali e che quindi resta naturalmente la nostra facoltà di desiderare, che però è

determinata da desideri soggettivi, da principi soggettivi, da oggetti desiderati dal piacere che ce ne

aspettiamo caso per caso, situazione per situazione, soggetto per soggetto, contesto per contesto, e

che quindi una teoria morale, una dottrina morale non possa che limitarsi ad essere una raccolta di

massime di buon senso, di massime generalmente accettate per orientarsi su questo terreno, senza

nessuna possibilità di oggettività. L’etica è possibile se fondata su principi puri della ragione da sé

sola, altrimenti non è possibile un’etica come conoscenza vera del campo dell’ambito pratico. Sarà

possibile allora altro, non è che in campo pratico se non è possibile un’etica non è possibile altro

tipo di lavoro, ma è un altro tipo di lavoro e non è un’etica. Capite cosa sta dicendo Kant? Sta

dicendo che solo un’etica fondata sui principi puri della ragione è un’etica, e che ogni altra dottrina

che non abbia questa caratteristica può chiamarsi etica se lo vuole ma non è un’etica. Kant sta

dicendo che solo la sua teoria etica è un’etica e che tutte le altre non sono delle etiche, a partire da

Aristotele: vogliono essere delle etiche, presumono di essere delle etiche, si chiamano etiche ma

non sono delle etiche. Se sono di tipo descrittivo, cioè descrivono il comportamento umano – anche

oggi ci sono tante dottrine etiche di tipo descrittivo, per esempio sociologico, psicologico, eccetera

– queste sono delle etologie, diremmo noi, non delle etiche. Si può studiare il comportamento

umano in termini descrittivi, analizzando i fenomeni di questo comportamento e cercando di

analizzarli, di capirne il funzionamento. Dunque, questo è molto utile, questa è molto interessante,

ma si chiama etologia, non è etica, no. Non è normativa, è descrittiva. Oppure sono normative ma

pretendono solo di darvi dei principi soggettivi, empirici, cioè delle regole delle abilità per come

raggiungere un fine dato, e allora sono delle economiche, non delle etiche. Non è l’economia la

scienza che mi dice quali sono i mezzi utili per raggiungere il fine dato? È l’economia, che sia
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economia finanziaria o che sia economia domestica, è l’economia quella scienza che è capace di

dare una teoria dei mezzi utili per raggiungere un fine dato. Sono delle economiche e l’Etica

Nicomachea di Aristotele, da questo punto di vista, è un’economica: mi dice, posto che gli uomini

vogliono raggiungere la felicità, quali sono i mezzi migliori? Le virtù. L’utilitarismo è

un’economica e non è un caso che l’utilitarismo sia l’etica che è nata nel cuore del liberalismo

politico, che è connesso in modo inscindibile con il liberismo economico. È un’economia, mi dice

per raggiungere il fine “il massimo della felicità per il maggior numero possibile” come devo fare.

O tutte quelle etiche, prendete per esempio quel periodo chiamato ellenismo, l’etica stoica, l’etica

epicurea, eccetera, che consistono in un calcolo dei piaceri. Quali sono i piaceri da scegliere, quali

da evitare? Sono delle economiche, non sono delle etiche. Come vedete la questione è radicale.

“Persino le regole di fenomeni concordanti sono chiamate «leggi di natura» (per

esempio quelle meccaniche) solo se sono (ri)conosciute realmente a priori, o almeno (come

accade con quelle chimiche) se si ammette che sarebbero conosciute a priori, sulla base di

ragioni oggettive se discernessimo più in profondità. Però per i principi pratici meramente

soggettivi è condizione esplicita la necessità che non si fondino su condizioni oggettive, ma su

condizioni soggettive dell’arbitrio; e quindi che possano essere presenti sempre soltanto come

mere massime, e non mai come leggi pratiche. Quest’ultima osservazione a prima vista pare

semplicemente pedante; ma in verità determina il significato della distinzione più importante

che possa mai essere presa in considerazione nel corso di ricerche pratiche”. L’etica fondata su

principi puri della ragione o una raccolta di regole dell’abilità di massime consigliate. Badate, dice

nelle righe immediatamente precedenti, noi ci comportiamo sempre secondo una massima quando

ci comportiamo in modo volontario., Ed è sempre il soggetto che si rappresenta che cosa fare, come

agire, e di conseguenza agisce. Dunque, è sempre mediante una massima che noi determiniamo la

nostra volontà soggettivamente. Il punto è se questa massima è conforme alla legge o se non è

conforme alla legge, questa è la questione morale. Non confondete la differenza tra l’azione morale

29
e l’azione moralmente estranea: non è che una è secondo la legge e una secondo una massima, tutte

e due sono secondo una massima, ma la questione è se la massima è corrispondente a una legge,

conforme a una legge o non è conforme a una legge. Ora se noi concludiamo che non è possibile

che la ragione pura da sé sola determini la volontà, allora tutti i principi pratici sono empirici e

quindi non sono leggi, e quindi la massima non potrà per principio mai essere conforme a una

legge, perché non ci sono leggi. Ancora una volta insisto su quello che Kant dice.

Siamo al terzo Teorema. Se voi scorrete le pagine, vedete, è molto più articolato degli altri.

Come al solito il teorema va alla tesi: esposizione della tesi in ipotesi e la dimostrazione e infine la

riaffermazione della tesi dimostrata. QED.

“Se un ente razionale deve pensare le proprie massime come leggi pratiche universali,

può pensarle solo come principi tali da non contenere il motivo determinante della volontà

secondo la materia, ma unicamente secondo la forma”, questa è la tesi del teorema. Adesso

entriamo a vederne il significato, ma non è difficile. In astratto non è difficile, prima però vi faccio

notare che qui avviene un cambiamento netto, molto evidente. A differenza dei primi due teoremi

questo teorema dice come è il principio pratico oggettivo a priori che ha valore di legge. Gli altri

due dicevano che tutti i principi pratici sono empirici, e quindi non hanno valore di legge, e che tutti

i principi pratici materiali sono della stessa specie e quindi non hanno valore di legge. Quindi in

sostanza i primi due teoremi hanno un significato nel discorso negativo, escludono, dicono: quello

di cui parliamo non può essere il principio che andiamo cercando. I primi due teoremi sono la pars

destruens del discorso: cominciamo a dire cosa non può essere l’autentico principio pratico e poi,

una volta che abbiamo sbarazzato il campo dai principi pratici materiali, adesso passiamo alla pars

construens, diciamo come deve essere il principio pratico.

Il terzo e il quarto teorema dunque sono la pars construens. C’è proprio un cambiamento di

direzione del discorso. Il teorema dice che se un ente razionale deve pensare la propria massima

come legge, le proprie massime come leggi pratiche universali, siccome non può pensarle come
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principi materiali, per il primo e secondo teorema che l’hanno escluso, deve pensarle come

principio formale. Se non è un principio materiale deve essere un principio formale perché in un

principio c’è la materia cioè il contenuto, e c’è la forma del principio. Dunque, siccome i primi due

teoremi hanno dimostrato che si escludono i principi materiali, tolta la materia, se dobbiamo

pensare al principio della ragion pratica dobbiamo pensarlo come formale. Non è difficile capire

questa tesi. Una volta che abbiamo escluso la materia come principio se vogliamo trovare un

principio deve essere un principio fondato sulla forma. La prima dimostrazione è quella che vi ho

detto: se il principio della ragione pratica non può essere la materia, tolta la materia non resta che la

forma. Dunque, è dimostrato che se un soggetto deve trovare un principio della ragion pratica, che

abbia valore di legge, questo principio deve essere formale. Tolta la materia resta la forma. Se fosse

tutto qui, allora, sulla base di questo passo, preso da sé solo fuori dal contesto, non avrebbero tutti i

torti quelli che, come già vi avevo accennato, accusavano Kant di formalismo etico. Ho già

accennato al concetto trascendentale di forma, cioè che il concetto kantiano, della filosofia

trascendentale, di forma è tutt’altro che il concetto della forma vuota. Vi ricordate quella nota in cui

se la prendeva con un critico che volendo dire qualcosa aveva detto che lui non aveva inventato una

nuova morale ma solo una formula, e lui diceva “accidenti se è poco, dite a un matematico che ha

inventato una nuova formula e lo vedrete fare i salti di gioia”, perché la forma, o formula, la forma

non è semplicemente il vuoto che resta tolta la materia ma è l’origine di ogni contenuto. Vi facevo

l’esempio delle serie numeriche: ogni numero in sé non ha nessun significato, ha significato nel

contesto di una serie numerica, che cos’è il 5? Non lo so, che cos’è il 6? Niente, che cos’è il 6 nella

serie dei numeri naturali? È il sesto posto in quella serie. Che cos’è il 6 nei numeri pari? È il terzo

posto di quella serie, ma è la legge che determina la serie, che dà anche significato ai singoli valori

della serie, perché li genera. Tanto è vero che conoscendo la semplicissima formula della serie dei

numeri naturali io posso dire, con tutta tranquillità e assoluta certezza che io conosco tutti i numeri

naturali. Ma sono infiniti? Sì, sono infiniti ma io li conosco tutti perché li conosco a priori. Li

conosco a priori in quel concetto formale, in quella formula che determina in modo oggettivo,
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necessario, universale tutta la serie infinita dei numeri naturali. Quindi vedete la forma non è affatto

la vuota forma, è la forma che è origine di ogni contenuto: è questo il senso di quella definizione di

trascendentale che vi ho già citato. Qui però la dimostrazione, appunto, ricorre a un concetto

elementare, e anche povero, di forma. “La materia di un principio pratico è l’oggetto della

volontà. Quest’ultimo è il motivo determinante della volontà stessa, oppure no. Qualora fosse

il suo motivo determinante, la regola della volontà sarebbe subordinata a una condizione

empirica (al rapporto della rappresentazione determinante con il sentimento di piacere o

dispiacere), e di conseguenza non sarebbe una legge pratica”. È la ripetizione del primo

teorema. “Ora, se da una legge si stacca tutta la materia, ossia ogni oggetto della volontà (come

motivo determinante), della stessa legge non rimane che la mera forma di una legislazione

universale”. Questa è la dimostrazione, e poi conclude riprendendo la tesi, ergo, qui è proprio

l’ergo scolastico della conclusione di un teorema: “un ente razionale non può pensare affatto

come legge universali i propri principi pratici soggettivi, ossia massime, oppure deve

ammettere che la loro mera forma, per la quale essi si attagliano alla legislazione universale,

ed essa soltanto, faccia di essi la legge pratica”. Lascia un po’ insoddisfatti questa dimostrazione,

l’ho già detto, però bisogna prenderla com’è, un punto di partenza. Povera, ma è una dimostrazione

e quindi il teorema è dimostrato. Dunque, il principio con valore di legge che determina la volontà

deve essere un principio formale, cioè deve essere costituito dalla sola forma della legge,

indipendentemente da ogni materia. Fino a qui ci siamo arrivati, ma che cosa voglia dire credo che

resti ancora oscuro. Cosa vuol dire “una legge che è un imperativo”, quindi che comanda, e che

comanda solo una forma e nessun contenuto? Dice “tu devi”, cosa? Niente, perché se dico cosa, do

un contenuto. è chiaro che poi devo riempire con dei contenuti, ma negli stadi successivi come vi

dicevo, nella Metafisica dei costumi, nella Antropologia pragmatica. Ma il principio fondante,

quella che Kant chiamerà tra poche pagine la legge fondamentale della ragione pura pratica, è

puramente formale, eppure è un imperativo, certamente un imperativo categorico. Comanda “tu

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devi” ma nulla, non comanda nulla. Questo non è tanto chiaro ma siamo qui per lavorare per

chiarirlo.

Prima nota. Partiamo dal teorema, il principio che andiamo cercando deve essere puramente

formale. La nota riflette su questo. “Quale forma, nella massima, si attagli alla legislazione

universale, e quale no, lo può distinguere l’intelletto più comune, senza bisogno di istruzione

alcuna”. Questa è una frase che Kant usa spessissimo. L’avevamo già trovata, proprio in quella

nota in cui se la pigliava con quel critico che diceva che lui non aveva inventato nessuna nuova

morale, e lui diceva “vorrei vedere, che bisogno c’è di inventare una nuova morale, che cosa deve

dire una morale lo sanno tutti”. “Tutti sanno”, “il senso comune sa”. Perché Kant spesso ripete

questo punto? Questo punto è importante: la filosofia non è una disciplina che va a scoprire delle

sapienze ignote per cui solo pochi, gli iniziati, vengono introdotti in questa sapienza esoterica che il

senso comune, cioè il comune pensare, la comune opinione della gente, non conosce. Nel modo più

assoluto. Ma non solo in campo pratico ma in generale. La filosofia, ve l’avevo già detto è un

pensiero riflettente, è un pensiero che riflette sul già noto. E allora è inutile? Non è inutile perché la

filosofia, che è filosofia critica e trascendentale, riflette sul già noto per darne la fondazione, per

darne la giustificazione. Ciò su cui riflettere è già noto, ma perché sia così questo non è già noto. La

filosofia è quel sapere riflettente che dice di ciò che tutti sanno perché è così, che ne dà la

giustificazione razionale e a priori. Questo “tutti sanno” è quello che Kant, secondo un uso diffuso

nel suo tempo, chiama il senso comune, che non è il senso comune degli stoici, che ha tutt’altro

significato. Senso comune vuol dire proprio ciò che la gente pensa e, come dice qui, anche senza

nessuna istruzione, ciò che la gente normalmente pensa. Questo riferimento al senso comune era

stato un riferimento di fondamentale importanza, prima ancora che per Kant, per altri, per esempio

per Mendelssohn. Mendelssohn dice e ripete che la fonte della filosofia è il senso comune. Kant,

che su altre cose si scontra con Mendelssohn, su questa, e su altre cose lo ammira. In un saggio Sul

sano intelletto comune, Kant, partendo da un confronto con Mendelssohn dice: sono d’accordo, alla

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fine il metro di paragone di ciò che diciamo noi filosofi è il sano intelletto comune, però vedete ci

aggiunge “sano”, il “sano intelletto comune”. “Intelletto comune” d’accordo, “sano intelletto

comune”. Intanto non parliamo più di senso comune ma di intelletto comune e poi di sano intelletto

comune. “Sano” non ha un significato clinico. Allora Kant approfondisce, che cos’è questo “sano

intelletto comune”? Alla fine, il sano intelletto comune è la ragione, è l’intelletto comune quando è

guidato dalla ragione, quindi non è esposto agli errori delle inclinazioni sensibili. Sicché questo

intelletto comune, questo senso comune, questo sano intelletto comune non è altro che la ragione

stessa, e allora queste formule, del tipo “tutti sanno”, “qualunque persona sa anche se non istruita”

equivalgono a dire, a esprimere, quello che è un grande insegnamento di Kant, profondo, ma non

solo di Kant, di tutto l’illuminismo, e cioè che la ragione è patrimonio di tutti. Tutti possiedono la

ragione e sono capaci di esercitarla. Dire che tutti hanno la ragione e sono in grado di esercitarla

non significa dire che tutti la esercitano. Tutti sanno cosa è bene e cosa è male, e tutti sanno quale

forma della massima si attagli alla legislazione universale, non c’è bisogno che venga la filosofia a

dirlo, lo sanno già. Ripeto, il ruolo della filosofia non è quello di inventare, cioè di scoprire sapienze

ma è quello di dare la giustificazione di ciò che si sa. Ora in questa nota ciò che tutti sanno, per

ignoranti che siano, anche se nessuno gli ha mai fatto lezioni di etica, è quale forma di una massima

– cioè di una regola soggettiva, di una rappresentazione secondo la quale io determino la mia

volontà – sia corrispondente a una legge e quale no.

“Per esempio ho adottato la massima di accrescere il mio patrimonio con ogni mezzo

sicuro”. Una massima non del tutto inverosimile, posso essere una persona che si dice “io nella

vita voglio diventare ricco il più possibile, e ricco con ogni mezzo sicuro, cioè senza finire in

prigione senza finire ammazzato, con ogni mezzo sicuro”, questa è la massima della mia vita. “Ora

ho in mano un deposito il cui proprietario è morto, senza lasciare nessuno scritto in merito. È

naturalmente un caso che ricade sotto la mia massima. Ora voglio solo sapere se quella

massima possa vigere anche come legge pratica universale”. Dunque, è successo questo:

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qualcuno mi ha lasciato un deposito, deposito vuol dire un bene che mi ha lasciato, “ti lascio il mio

portafogli, tu me lo tieni perché vado a fare ginnastica e quando torno me lo dai”. È un deposito,

non è un regalo, va a fare ginnastica e gli piglia un accidente. Fatto sta che lui non torna a prendere

il suo portafogli, io mi trovo col suo portafogli in mano, me lo ha lasciato, lui non c’è più, è morto,

non c’è nessuno scritto che attesti che io ho il suo portafogli quindi nessuno potrà mai sapere né

provare che io ho il suo portafogli, la massima che mi sono dato è di arricchirmi il più possibile con

ogni mezzo sicuro, tenermi il portafogli significa certamente arricchirmi, il mezzo non importa, il

mio mezzo è sicuro perché nessuno potrà saperlo, dunque, mi tengo il portafogli. Adesso però mi

chiedo se questo massima è conforme, usa il termine conforme perché dentro c’è il termine forma,

alla legge morale. Secondo voi si comporta bene a fare così? Cioè in generale, dal punto di vista

morale, spero che pensiate di no. Ma perché ognuno vede, è ovvio, che questa massima del

comportamento non è conforme alla legge morale? Perché? Questo il senso comune non lo sa. Sa

che non è la cosa buona, sa che non è conforme alla legge morale, ma perché non è conforme alla

legge morale? Questo glielo deve spiegare il filosofo. Nello spiegarlo faccio vedere che non

riguarda il contenuto della sua azione ma la forma della sua azione. Perché? “Dunque applico

questa massima al caso presente, mi chiedo se potrebbe assumere la forma di una legge, e se

quindi con la mia massima io potrei insieme stabilire una legge siffatta”. Perché dire che la mia

massima è conforme alla legge vuol dire che penso la mia massima e penso che possa avere valore

di legge, quindi da “io mi propongo di tenermi quel deposito”, alla legge: è necessariamente e

universalmente valido il principio che ognuno si tiene i depositi che gli vengono lasciati. Questo

vuol dire essere conforme alla legge, vuol dire che può avere la forma di una legge.

“Subito mi accorgo che tale principio, come legge, distruggerebbe se stesso, poiché

farebbe sì che non ci fosse nessun deposito affatto”. Subito mi accorgo che quella massima non

può essere innalzata a legge, quindi non è conforme alla legge, perché se fosse innalzata a legge

distruggerebbe l’oggetto di cui si occupa, cioè il deposito. Non ci sarebbero più depositi. Badate,

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non ci sarebbero più depositi non perché gli altri sapendo quello che ho fatto faranno bene

attenzione a non lasciarmi più nessun bene, uno perché questo riguarderebbe soltanto me, due

perché non lo sanno quello che ho fatto, ma per una questione formale. Che cos’è un deposito? È un

bene affidato a qualcuno per essere restituito sotto richiesta, questo è il concetto di deposito che lo

distingue da dono o regalo. Allora proviamo a pensare come legge, cioè come proposizione di

valore oggettivo, universale e necessario questa proposizione: “i depositi non vanno restituiti, non

devono essere restituiti”. Provate a sostituire al soggetto, cioè al termine deposito, la sua definizione

e la legge diventa: “i beni che vengono affidati a qualcuno per essere restituiti non devono essere

restituiti”. È contraddittorio. Il predicato nega il soggetto, annulla il concetto del soggetto. Se i beni

che vengono affidati a qualcuno per essere restituiti non devono essere restituiti allora non sono

beni affidati a qualcuno per essere restituiti, dunque, non stiamo parlando del deposito. Vedete che è

evidente che quella massima non può essere elevata a valore di legge non per un motivo materiale,

per il suo contenuto, ma per la sua forma, perché è contraddittoria. Ora che una massima

contraddica un’altra massima questo è possibile, Kant l’ha detto all’inizio della prima nota, ma una

legge non può contraddire un’altra legge e una massima non può contraddire una legge. Dunque, è

per una questione formale, non materiale, che quella massima non può essere una legge morale e

non può essere conforme, cioè non può avere la forma di una legge morale. Mi sembra che

l’esempio sia chiaro.

“Quindi sorprende come, poiché sono universali la brama di felicità, e dunque anche la

massima con cui ciascuno fa di essa il motivo determinante della propria volontà, uomini

assennati abbiano potuto credere di poterla perciò spacciare per una legge pratica universale.

Infatti, mentre altrove una legge universale della natura mette tutti d’accordo, qui, se si

volesse conferire alla massima l’universalità di una legge, avrebbe luogo proprio l’estremo

contrario dell’accordo, il peggiore conflitto e la completa distruzione della massima stessa e

della sua finalità”. Qui aggiunge un ulteriore argomento sul discorso riguardo la felicità. La felicità

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non può essere il principio della volontà morale perché produce contraddizioni. Questo argomento

l’ha introdotto qui perché abbiamo introdotto il discorso sulla forma, sull’aspetto formale del

principio. La contraddizione è un carattere che riguarda il carattere formale di una proposizione e

quindi anche di un principio. Perché il principio di felicità produrrebbe contraddizioni?

Contraddizione che in campo pratico significa conflitto. Credo di averlo già detto, la negazione

pratica non è come la negazione logica ma piuttosto è analoga a quella fisica. L’opposto di A nel

piano logico è non-A, ma sul piano pratico è un B che si oppone ad A perché pretende di essere A.

Così come una forza si oppone all’altra perché esercita un effetto contrario a quello dell’altra forza.

Dunque, la contraddizione logica è una semplice negazione, la contraddizione pratica, come quella

fisica, è una reale opposizione. Ora, il principio di felicità produce una contraddizione che in campo

pratico significa una opposizione, un conflitto. Perché questo è un argomento? Perché prima Kant

dice, le leggi invece sono sempre, sono per definizione, necessariamente, principi di ordine. La

legge è sempre un principio che determina i fenomeni, se si tratta di una legge della natura, o le

azioni se si tratta di una legge pratica, per dare un ordine regolato alla conoscenza sia di una che

delle altre. La legge è per sua forma, per sua natura formale, cioè è per sua definizione un principio

di ordine e quindi di armonia, mentre il principio della felicità, se fosse innalzato a principio

dell’azione sarebbe un principe di conflitto, di contrapposizione. Questo è opposto al significato di

legge, alla forma di legge, non al contenuto. Qualunque siano i contenuti delle leggi le leggi sono

principi di ordine, di determinazione ordinata e quindi armonica. “Infatti la volontà di tutti non

ha allora un identico oggetto, ma ciascuno ha il suo proprio (il proprio benessere)” la propria

felicità, l’amore di sé “che, accidentalmente, può bensì conciliarsi con le finalità di altri”.

Perfino una banda di malfattori può andare d’accordo per costituire una banda, perché

accidentalmente i loro interessi concordano e quindi agiscono insieme per fare un colpo alla banca,

per esempio. Quando dovranno poi spartirsi il bottino litigheranno, perché gli interessi divergono.

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“Ma non è affatto sufficiente perché abbia luogo la legge, poiché le eccezioni che si

sarebbe occasionalmente autorizzati a fare sarebbero infinite, e sicuramente non potrebbero

venire sussunte a una regola universale. In tal caso si produce un’armonia” accidentale

empirica “che è simile a quella concordia che una certa satira dipinge a proposito di due

coniugi che si distruggono reciprocamente: «O mirabile armonia: quel ch’ei vuole, vuole

anch’ella», eccetera, o a ciò che si narra dell’impegno assuntosi dal re Francesco I contro

l’imperatore Carlo V: quello che vuole mio fratello Carlo (Milano), lo voglio avere anch’io”.

Questo è un aneddoto storico, nonostante fossero cugini, ma fratelli in senso lato. È un episodio

noto in cui Francesco I dice “quel che vuole Carlo voglio anch’io”, ma stavano facendo una guerra

per quello. Perché ambedue volevano il ducato di Milano. Che armonia è: siamo concordi,

vogliamo la stessa cosa, per questo appunto stiamo facendo la guerra. Oppure, questo è il verso di

una commedia: due coniugi che litigano come gatti: “Mirabile armonia quel ch’ei vuole, vuole

anch’ella”. È per quello che litigano, perché vogliono la stessa cosa. Dunque, l’accordo

sull’oggetto, l’accordo sul contenuto materiale della massima non è in nessun modo garanzia di

ordine, di armonia, talvolta addirittura può essere proprio esso la fonte del conflitto, perché

l’armonia e l’ordine sono determinati dalla forma della legge e non dall’accordo sul contenuto.

Creare conflitto è qualcosa di un principio che non è una legge, che non può essere una legge,

perché la legge, e vedete che qui interviene il concetto di forma, la legge dal punto di vista formale

è un principio di ordine e di armonia. “I motivi determinanti empirici non si confanno a nessuno

legislazione universale esterna, ma neanche interna; infatti, uno pone a fondamento della

propria inclinazione il suo soggetto, ma un altro un altro soggetto, e persino in ogni singolo

soggetto influisce prevalentemente ora l’una, ora l’altra inclinazione. Trovare una legge che le

regoli tutte insieme a questa condizione, quella dell’accordo universale, è semplicemente

impossibile”.

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Vedete che il testo continua con problema primo. Perché ci sia un problema, come dovreste

avere imparato dei vostri studi precedenti, ci vogliono tre condizioni, se manca anche una sola di

queste condizioni non c’è un problema. Ci vogliono uno o più dati, se non ci sono dei dati o anche

un solo dato da cui partire non c’è, non si può impostare un problema, uno o più quesiti, domande, e

se non ci sono quesiti non c’è un problema, e una o più soluzioni, se non ci sono soluzioni possibili

non c’è un problema. Un problema è un procedimento che per definizione ha delle soluzioni.

Quindi anche nei problemi che qui ci presenta Kant voi troverete sempre questa struttura.

Innanzitutto, l’esposizione del dato o dei dati, poi il quesito o i quesiti e alla fine la soluzione le

soluzioni, in questo caso le soluzioni. Questa è la struttura del problema, così come abbiamo visto la

struttura del teorema. C’è una struttura del problema. “Supposto che la mera forma legislativa

delle massime soltanto sia il motivo determinante sufficiente di una volontà, trovare come sia

fatta una volontà tale da poter essere determinata solo da essa”, cioè dalla forma legislativa

della massima. Come vedete c’è un dato, quel “supposto” introduce un dato, noi diamo, assumiamo

come dato che la sola forma legislativa delle massime sia il motivo determinante sufficiente di una

volontà. Perché questo possiamo assumerlo come dato? Perché lo abbiamo dimostrato nel teorema,

dunque, è dato perché è dimostrato. Questo è vero per la dimostrazione nel teorema terzo,

d’accordo. Adesso viene il quesito: assumiamo che la sola forma della legge determina la volontà,

quesito: come deve essere questa volontà? Quindi qui c’è un dato e c’è un quesito, e adesso il

problema può svolgersi sino ad arrivare alla sua soluzione. “Poiché la mera forma della legge può

venire rappresentata esclusivamente dalla ragione, e quindi non è oggetto dei sensi, dunque

neanche rientra tra i fenomeni, di conseguenza la rappresentazione di essa quale motivo

determinante della volontà è distinta da tutti i motivi determinanti degli eventi che, nella

natura, seguono la legge di causalità, poiché in quest’ultimo caso gli stessi motivi determinanti

devono essere necessariamente fenomeni. Ma se nessun altro motivo determinante della

volontà può fungere da legge per essa, tranne quella forma legislativa universale, una volontà

siffatta deve essere necessariamente pensata come interamente indipendente dalla legge
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naturale dei fenomeni, ossia dalla legge della causalità degli uni rispetto agli altri. Ma

un’indipendenza siffatta si chiama libertà nel senso più rigoroso, ossia trascendentale”. E qua

sta la soluzione: dunque una volontà per cui la mera forma legislativa della massima soltanto possa

fungere da legge è una volontà libera. Il percorso per la soluzione è lineare, semplice. Assunto il

dato che la volontà che stiamo cercando, di cui stiamo cercando la caratteristica, è determinata solo

dalla forma della legge, poiché la forma della legge, essendo forma, non può essere un fenomeno –

perché un fenomeno è sempre un dato della sensibilità, quindi un oggetto della conoscenza – allora

vuol dire che nemmeno la volontà è determinata da fenomeni e quindi che non è determinata

secondo quella legge della determinazione dei fenomeni che è la legge della causalità naturale, della

causalità necessaria. Dunque, questa volontà di cui stiamo parlando è una volontà che non è in

nessun modo determinata da necessità fenomenica, quindi che è incondizionata, cioè che non ha

delle condizioni che la determinano necessariamente. Incondizionato dice Kant è il significato di

libero, è il significato della libertà, nel suo significato trascendentale, come avevamo visto nella

Critica della Ragion pura. Vi ricordate la terza antinomia? La tesi diceva vi è una causa libera del

mondo, vi è una causa libera. Cosa vuol dire? Che vi è una causa che non sta nella catena delle

cause e degli effetti, quindi una causa incondizionata. Dunque, se assumiamo il dato di una volontà

che sia determinata solo dalla forma della legge questa volontà è libera. Rispiego il procedimento:

se noi assumiamo il dato di una volontà che sia determinata solo dalla forma della legge, la forma

della legge non è un fenomeno, non è un oggetto dell’esperienza possibile, cioè della conoscenza

della natura. Allora vuol dire che questa volontà è determinata da qualcosa che non è un fenomeno.

Ora una volontà che sia determinata ma non dalla causalità necessaria, dalla causalità naturale è

appunto incondizionata, non è determinata da condizioni causali necessarie. Incondizionato è il

significato trascendentale di libero, dunque, la soluzione è che quella volontà che sia determinata

solo dalla forma della legge è una volontà libera. Proviamo a rileggerlo “Poiché la mera forma

della legge può venire rappresentata esclusivamente dalla ragione, e quindi non è oggetto dei

sensi, dunque neanche rientra tra i fenomeni, di conseguenza la rappresentazione di essa


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quale motivo determinante della volontà è distinta da tutti i motivi determinanti degli eventi

che, nella natura, seguono la legge di causalità, poiché in quest’ultimo caso gli stessi motivi

determinanti devono essere necessariamente fenomeni. Ma se nessun altro motivo

determinante della volontà può fungere da legge per essa, tranne quella forma legislativa

universale, una volontà siffatta deve essere necessariamente pensata come interamente

indipendente dalla legge naturale dei fenomeni, ossia dalla legge della causalità degli uni

rispetto agli altri. Ma un’indipendenza siffatta si chiama libertà nel senso più rigoroso, ossia

trascendentale. Dunque una volontà per cui la mera forma legislativa della massima soltanto

possa fungere da legge è una volontà libera”.

Adesso vediamo il secondo problema. “Supposto che una volontà sia libera, trovare la

legge la quale soltanto sia atta a determinarla necessariamente”. Il dato è una volontà libera.

Perché possiamo assumerlo come dato? Perché l’abbiamo dimostrato nel problema precedente,

meglio l’abbiamo trovato nel problema precedente, come soluzione del problema precedente e

adesso lo introduciamo come dato, non come soluzione ma come dato nel secondo problema.

“Supposto che una volontà sia libera,” quesito: “trovare la legge la quale soltanto sia atta a

determinarla necessariamente”. Qual è la legge che la determina necessariamente? Qual è la

legge che determina necessariamente una volontà libera? “Poiché la materia della legge pratica,

ossia un oggetto della massima, non può mai essere dato se non empiricamente,” primo

teorema “ma la volontà libera, in quanto indipendente da condizioni empiriche (ossia

appartenente al mondo sensibile), non di meno deve essere necessariamente determinabile”

quel “necessariamente” io lo toglierei perché in tedesco non c’è, c’è muß ma è molto equivoco

perché non vuol dire che deve essere determinabile in modo necessario ma che bisogna che sia

determinabile, quindi io lo toglierei questo “necessariamente” nella traduzione “nondimeno la

volontà libera deve essere determinabile, una volontà libera deve incontrare –

indipendentemente dalla materia della legge – un motivo determinante, nella legge,

purtuttavia. Ma, oltre alla materia della legge, in quest’ultima non è insito altro che la forma
41
legislativa.”, terzo teorema, “Dunque la forma legislativa, in quanto è contenuta nella massima,

è l’unica cosa che possa costituire un motivo determinante della volontà.” E questa è la

soluzione. Il dato: data una volontà libera. Come deve essere la legge che la determina? Formale,

deve essere la mera forma della legge. Questo perché? Questo è il percorso che fa: se la volontà è

libera non può essere determinata da nessuna materia del volere, perché ogni oggetto del volere è

fenomenico, è sottoposto alla causalità necessaria. Se la volontà è libera non può essere determinata

dalla materia del volere, ma se non è determinata dalla materia non resta che la forma: dunque, una

volontà libera non può essere determinata da altro che dalla forma della legge. Anche questo è

semplice come percorso.

C’è un rapporto curioso tra il primo e secondo problema. Questi due problemi sono uno

reciproco dell’altro: in uno si dice “data la sola forma della legge come deve essere la volontà che

ne è determinata? Libera”, l’altro vi dice “data una volontà libera come deve essere la legge che la

determina? La sola forma della legge”. Sono reciproci dal punto di vista della struttura formale e

proprio così, sono due problemi perfettamente reciproci. Perché Kant a questo punto del discorso

inserisce questi due problemi? Perché questi due e perché hanno questa strana parentela di

reciprocità? A che cosa servono nel discorso, al lavoro filosofico che stiamo facendo? Servono,

sono molto utili, sono un passaggio importantissimo, ma bisogna capire perché, in che cosa consiste

questo passaggio. Perché in questi due problemi, che sono reciproci e in cui intervengono in ruoli

differenti sempre le stesse tesi, non intervengono proprio le stesse affermazioni. In parte sono le

stesse, in parte sono molto simili, ma non sono proprio identiche perché nel percorso attraverso

questi due problemi qualcosa si è sviluppato, qualche significato si è sviluppato. Questi problemi

hanno questa importanza: di avere sviluppato questo significato. Il significato che hanno sviluppato

è quello di libertà, o se volete di volontà libera. Riprendiamoli tutti e due.

Vedete, nel primo problema la volontà libera, che interviene come soluzione del problema,

interviene esplicitamente nel senso della libertà trascendentale, come dice lo stesso Kant, cioè della

libertà come incondizionatezza. Lo dice proprio nel problema e fa parte proprio della risoluzione
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del problema. La volontà deve essere libera perché non è condizionata da altro, questo è

naturalmente un significato importante della libertà ed è quello a cui si giunge nel primo problema.

Ma nel secondo problema già il quesito implica un passo avanti, perché già il quesito mi chiede da

quale tipo di legge deve essere determinata la volontà libera. La soluzione mi dice che la volontà

libera deve essere determinata dalla sola forma della legge. Ma allora qui libera è nel senso di

determinata dalla forma della legge, non di indeterminata, incondizionata. Il primo problema mi

permette di arrivare al concetto di volontà libera nel significato trascendentale di incondizionata, il

secondo problema mi permette di arrivare al concetto di volontà libera come determinata dalla

forma della legge. È vero che questo “determinato” dalla forma della legge è già assunto come dato

nel primo problema, ma non era ancora maturato come soluzione di un problema. Sì, è una piccola

differenza ma importantissima. Tutti e due questi significati sono autenticamente significati della

libertà.

Libertà significa incondizionatezza, non possiamo dire che una volontà è libera, in generale

non possiamo dire che qualcosa è libero se non nel senso che non è condizionato da altro perché se

è condizionato da altro è necessitato, quindi non è libero. È certamente questo un significato

autentico di libertà, non solo autentico, ma irrinunciabile, se libero non vuol dire incondizionato

allora non vuol dire niente. Ciò che non è incondizionato non può essere libero. Fissato questo è

anche vero che incondizionato non è l’unico significato di libero. Mentre nel primo problema la

libertà è un principio di indeterminazione, nel secondo problema la libertà è un principio di

determinazione. Volontà libera è quella determinata dalla forma della legge, non indeterminata,

incondizionata. Certo incondizionata da altro ma condizionata, anzi determinata dalla forma della

legge. È chiara la differenza, lo scarto fra questi due significati? Tutti e due, anche il secondo è un

significato importante della libertà senza il quale non si può pienamente parlare di libertà, però non

sono lo stesso identico significato. Libertà significa incondizionatezza, ma libertà significa anche,

ma non voglio dirvi la parola che verrà introdotta nel quarto teorema, ma insomma significa essere

determinati da null’altro che dalla forma della legge. Vi dicevo prima la libertà come
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incondizionatezza è un concetto della libertà come principio di indeterminazione, il concetto di

libertà come determinazione mediante la forma della legge è un principio della libertà come

principio di determinazione.

Parlare della libertà come incondizionatezza vuol dire sottrarre il concetto di ente libero alla

necessità della causalità naturale, ma parlare della libertà come determinazione secondo la forma

della legge vuol dire parlare della libertà come causalità libera: cioè la libertà non è solo il sottrarsi

alla causalità necessaria ma e anche un’altra forma di causalità, una forma diversa di causalità.

Capite l’importanza di questo passaggio? Dunque, o noi possiamo parlare della libertà nel

significato di una causalità libera, e allora possiamo spiegare la causa di quella azione mediante una

causalità che non è quella naturale, quella necessaria, ma è un’altra differente, incomparabile,

oppure non ci serve a niente la libertà come incondizionatezza per spiegare un’azione. Dunque, ciò

che è interessante è il concetto di libertà. “La libertà è la chiave di volta dell’intero sistema della

ragione”, ricordate? Ma la libertà nel suo significato pieno di incondizionatezza e di causalità libera,

cioè riconoscere che nell’ambito della conoscenza razionale – guardate che questo è importante non

dimenticarlo, Kant pretende e assolutamente non sarebbe disposto a far altro, una filosofia

rigorosamente razionale, addirittura razionalistica, in cui nessuna affermazione è accettata se non è

giustificata secondo ragione – come quella trascendentale, noi per parlare di etica, per parlare della

funzione pratica della ragione, dobbiamo poter dare un senso, razionalmente giustificato, all’idea di

libertà non solo come incondizionatezza ma come causalità libera. Detto nel linguaggio comune,

dobbiamo poter riconoscere razionalmente che nella realtà, non nella dimensione naturale della

realtà cioè la dimensione fenomenica della realtà, ma in quella dimensione intelligibile che è quella

morale, sono possibili delle cause che spontaneamente producono degli effetti. Spontaneamente

vuol dire liberamente e significa che producono degli effetti senza a loro volta essere effetti di altre

cause, quello che nella tesi della terza antinomia era la causa prima del mondo. Dobbiamo poter

riconoscere razionalmente la realtà, non assumerla come un postulato, ma riconoscere la certissima

realtà di una causalità libera, che come vi dicevo altre volte non spiega la realtà nella sua
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dimensione fenomenica, perché per conoscere i fenomeni noi non abbiamo altra via che la causalità

necessaria. Vi dicevo, qualunque scienziato, qualunque fisico volesse spiegare un fenomeno

mediante una causa libera sarebbe un pessimo fisico, non può farlo. Sarebbe un uso illegittimo dei

principi puri dell’intelletto, come aveva dimostrato la Critica della Ragion pura. Nella dimensione

intelligibile della realtà – e già vi ho detto che diritto abbiamo di affermare che c’è una dimensione

intelligibile della realtà, che diritto abbiamo di affermare che la realtà non si riduce tutta alla sua

dimensione sensibile cioè fenomenica: noi siamo questo diritto. Il fatto è che ci siamo noi. Il fatto di

quella questione che se il giudice mi chiede del perché hai sparato a quello là e io gli do una

spiegazione esauriente sul piano fenomenico il giudice mi dice “non mi basta, non è questo che ti

chiedevo non è questo che mi interessa, e non è che il giudice sia folle, il giudice lo dice per

un’esigenza rigorosamente razionale, “io voglio capire le tue responsabilità in quell’atto, non la

catena delle cause fenomeniche che ti hanno portato a quell’atto”, e per capire le tue responsabilità

devo riuscire a capire come quell’atto sia scaturito da una causa libera, cioè dalla tua volontà.

Perché se non potesse essere così, se non avesse senso razionale questa mia pretesa, allora non

avrebbe senso che io sia qui a fare il giudice, non avrebbe senso giudicare le azioni, gli atti, non ci

sarebbe né bene né male, non ci sarebbe nessuna responsabilità. Dunque, noi abbiamo tutte le

fondate ragioni per poter riconoscere, anzi per dover riconoscere che la piena conoscenza della

realtà è costituita dalla conoscenza della sua dimensione fenomenica, mediante la causalità

necessaria, insieme alla sua dimensione noumenica, intelligibile: mediante la causalità libera.

Ora questi due problemi, esattamente nella loro sequenza ci hanno permesso di fare questo

passaggio, perché sinora si era parlato di volontà come facoltà di desiderare mentre di libertà non si

era ancora parlato. Si introduce il passaggio dal significato, che peraltro mantiene perché valido,

della libertà come incondizionatezza al significato della libertà come causalità libera, cioè come

principio di determinazione causale, differente però dalla causalità naturale che è invece necessaria.

Attraverso questi due problemi abbiamo fatto questo lavoro. questi due problemi ci hanno permesso

di fare un percorso, nel nostro lavoro filosofico, di introduzione del concetto di libertà e di
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definizione dei suoi due significati: la libertà come incondizionatezza e la libertà come principio di

determinazione cioè come causalità libera.

Adesso voglio ancora fermarmi a chiarire due punti. Uno è che ho parlato di volontà e

spesso intenzionalmente nel mio discorso avrete sentito volontà e azione come due termini

accostati, quasi a suggerire che fossero sinonimi. Bene non era quasi a suggerire che fossero

sinonimi, sono sinonimi, dal punto di vista filosofico. Dire volontà e dire azione è dire la stessa

cosa, perché una volontà che non sia azione sarebbe una volontà che non vuole nulla, sarebbe una

velleità. Dire una volontà vuota di oggetto o una volontà che non è azione è la stessa cosa. Dunque,

volontà è azione, azione è volontà, perché un’azione che non sia volontaria non è un’azione, questo

vi può sembrare più oscuro ma non è oscuro, è chiarissimo, solo che vi è reso oscuro da un

equivoco del linguaggio comune che confonde la parola azione con la parola atto, e li tratta come

sinonimi, le azioni e gli atti. Invece non sono sinonimi. L’azione è la volontà, che poi si traduce o

non si traduce, si può tradurre in atti. Quando io vi dicevo una volontà che non è azione non è una

volontà intendevo appunto quello che dicevo, e non una volontà che non si traduce in atti non è una

volontà, perché questo è sbagliato. Qui, nel lavoro che stiamo facendo piano piano, Kant sta

facendo anche la distinzione, di cui già vi avevo dato annuncio, tra il significato proprio e rigoroso

di volontà è il significato generico di facoltà di desiderare. Il risultato ormai lo indovinate, è che

solo la volontà pura, cioè la volontà determinata unicamente dalla ragione pura è volontà. La

volontà empiricamente determinata è facoltà di desiderare, “brama”, usa anche il termine brama, ma

non è propriamente la volontà. Sempre, nell’ente razionale finito la volontà si trova in un conflitto

tra il comando della legge morale e le inclinazioni del desiderio sensibile. Solo l’ente razionale

infinito, poiché la sua volontà è immediatamente identica con la legge morale e non è limitato dalla

sensibilità non avrà questo problema.

Il secondo punto su cui volevo soffermarmi, perché è molto importante prima di andare

avanti nella lettura del testo, è ancora una volta su questi due significati di libertà. Finora abbiamo

descritto: libertà come incondizionatezza e libertà come causalità libera, principio di determinazione
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causale differente da quello necessario. Questi due significati, la loro distinzione e anche la loro

complementarità sono patrimonio di tutta la tradizione del pensiero filosofico, sin dall’antichità.

Sempre si è visto che libero significa sia una cosa sia l’altra. Addirittura, già Agostino

esplicitamente parla di questa distinzione e di questa complementarità, addirittura i medievali

avevano dato dei nomi a queste due forme, a questi due significati: la chiamavano l’una libertas

minor e l’altra libertas maior, la libertà minore e la libertà maggiore, per intendere quello che

dicevamo. Adesso un po’ mi soffermo, certamente alla libertà non si può dare un significato

accettabile, all’idea di libertà, se non come incondizionatezza, perché se uno è costretto non è

libero, insomma è ovvio. Ma anche se uno non è necessitato ma fortemente condizionato non è

interamente libero. Quindi la libertà è una forma di incondizionatezza, in questo significato il

linguaggio tradizionale chiama la libertà anche arbitrio. L’arbitro è appunto quella facoltà di

scegliere, ma perché ci sia una facoltà di scegliere bisogna che io sia libero di scegliere, non solo:

bisogna che ci siano diverse possibilità tra cui scegliere. Questa è una condizione necessaria, perché

se non ci sono diverse possibilità tra cui scegliere non posso scegliere, non si pone la questione

della scelta. Però al di là di questo bisogna anche che io sia libero di scegliere, perché se non sono

libero di scegliere non c’è la libertà di scelta non c’è il libero arbitrio. Questo significato della

libertà come libero arbitrio è antichissimo, e Kant parlando della libertà in senso trascendentale di

incondizionatezza si rifà a questo tradizionale significato.

Dunque, vedete la libertà come arbitrio, adesso possiamo dirlo, è la libertà come

incondizionatezza, ma da sempre si è capito che dire che uno è libero perché è incondizionato è

certamente qualcosa di sensato, perché se non è incondizionato non è libero, ma non esaurisce il

significato di libero, perché quando noi diciamo che un uomo è libero nel senso più pregnante del

termine, diciamo non solo che non è condizionato da altro ma anche che è un uomo pienamente

realizzato, è un uomo che realizza le sue capacità, è un uomo nella pienezza delle sue potenzialità,

questo è un uomo libero. Libero non è solo il non essere condizionato da altro ma essere sovrano di

se stesso e sovranamente realizzatore di se stesso. Questa è la libertas maior, questa è la libertà nel
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significato di essere causa delle proprie azioni, causa sovrana delle proprie azioni. Certo

indipendente, certo incondizionata, ma soprattutto che agisce e che realizza, o che agisce per

realizzare il significato di se stesso e del mondo intorno a sé. Questo è un altro significato di libertà,

non alternativo al primo ma che si aggiunge al primo e senza al quale il significato di libertà come

mero arbitrio è troppo povero. Non che non sia vero, ma non è completo. Vedete quando Kant qui

nei due problemi lavora sui due significati di libertà sta lavorando su una grande tradizione.

“Dunque libertà e legge pratica incondizionata rinviano reciprocamente l’una

all’altra”. Questa affermazione iniziale è il risultato dei due problemi, si è mostrato che la legge

pratica incondizionata e la libertà si rinviano una all’altra. Se noi assumiamo una come dato

arriviamo all’altro e viceversa, quindi che ci sia una relazione reciproca tra libertà e legge morale è

assodato dai due problemi. “Ora qui non chiedo se siano diverse anche nella realtà effettiva, o

se invece una legge incondizionata non sia unicamente l’autocoscienza di una ragione pura

pratica, mentre quest’ultima si identifica interamente con il concetto positivo della libertà;

chiedo invece dove inizi la nostra conoscenza dell’incondizionatamente pratico, se dalla libertà

o dalla legge pratica”. Qui Kant chiarisce, all’inizio, qual è il tema di questa nota: accertato che c’è

un rapporto reciproco tra libertà e legge morale, non chiede se siano la stessa cosa o meno, dice che

non lo chiede perché si potrebbe chiedere, perché è una questione reale, è una questione consistente,

però qui non viene affrontata, qui invece viene affrontato un’altra questione: quale conosciamo per

prima? Se conosciamo prima la libertà o se conosciamo prima la legge morale. Questo è il tema,

non l’altro.

Da “dove inizi la nostra conoscenza dell’incondizionatamente pratico, se dalla libertà o

dalla legge pratica”. La risposta è immediata: “non può iniziare dalla libertà; infatti non ne

possiamo diventare consapevoli immediatamente, poiché il suo primo concetto è negativo, né

possiamo inferirlo dall’esperienza, poiché l’esperienza ci permette di conoscere solo la legge

dei fenomeni, dunque il meccanismo della natura, che è esattamente il contrario della libertà”.

La nostra conoscenza non può incominciare dalla libertà perché noi non possiamo avere una
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conoscenza immediata della libertà in senso positivo, possiamo pensarla, ma solo nel suo significato

negativo di incondizionato, la libertà trascendentale di cui si parlava nel primo problema. Libero è

ciò che non è condizionato da altro, ma vedete che questa è una definizione negativa che definisce

la libertà per ciò che non è, non per ciò che è. D’altra parte non possiamo averne una conoscenza

immediata di tipo empirico perché la libertà non è un fenomeno. Questo è un principio a cui Kant

tiene sempre fermo. Non è dato il fenomeno della libertà. Lo abbiamo accennato quando dicevamo

che se un fisico o uno scienziato della natura spiegasse un qualunque evento mediante la libertà

uscirebbe dei limiti legittimi della sua conoscenza. Non è dato un fenomeno della libertà. Qui

l’argomento è semplice, è che noi possiamo pensare la libertà, pensare l’idea della libertà. L’idea

della libertà è una conoscenza immediata però solo nel suo significato negativo, che cosa non è.

Insomma, i due problemi che abbiamo visto ieri sono in quell’ordine ma non potrebbero essere

nell’ordine inverso, anche se sono reciproci. A parte che non possono essere nell’ordine inverso

perché il primo problema assume come dato la tesi del teorema, ma anche perché non può assumere

come dato la libertà dal momento che non è data, non è data la conoscenza della libertà in modo

positivo e immediato. Dunque, non possiamo conoscere la libertà per una forma di intuizione

intellettuale, non possiamo conoscere la libertà per un’esperienza empirica, dunque non possiamo

conoscere immediatamente la libertà. Infatti, questo è il risultato anche della Critica della Ragion

pura teoretica: la libertà è un’idea che possiamo pensare in modo problematico, ma questo pensiero

non lo possiamo riempire di un contenuto positivo di significato, almeno in sede teoretica. In sede

pratica vedremo che si può, ma non in modo immediato, quindi non possiamo muovere dalla libertà.

“È quindi della legge morale, che noi diventiamo immediatamente consapevoli (non

appena consideriamo massime della volontà), è la legge morale a presentarcisi per prima, e a

condurci direttamente al concetto della libertà, in quanto la ragione la presenta quale un

motivo determinante tale da non poter essere soverchiato da nessuna condizione sensibile, e

anzi da esserne totalmente indipendente”. Ciò che conosciamo immediatamente è la legge

morale, e dalla legge morale conosciamo anche la libertà. Questo l’aveva già anticipato – vi
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ricordate in una nota dell’introduzione, su cui c’eravamo soffermati, quella formula che tutti

ricordano “che la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà”, è la legge morale quella

attraverso cui noi conosciamo la libertà, non viceversa. Quindi, dice Kant, noi conosciamo prima la

legge morale poi la libertà. Usa proprio la parola prima, non è una questione cronologica ma è una

questione di successione nel processo della conoscenza. Noi conosciamo prima la legge morale e

dalla legge morale conosciamo la libertà. Attenzione questa anteriorità della conoscenza della legge

morale rispetto alla conoscenza della libertà non significa però una maggiore originarietà della

legge morale rispetto alla libertà, perché invece, al contrario, noi sappiamo, e ne parlerà

diffusamente, che è piuttosto la libertà il fondamento della legge morale. È perché siamo liberi che

vale per noi una legge morale. Questo stava nell’altra parte di quella formula “la libertà è la ratio

essendi della legge morale”. Il principio che rende possibile la legge morale è la libertà, ma la legge

morale rende possibile la conoscenza della libertà. È un circolo, ma non è un circolo vizioso perché

sono due questioni differenti. Noi conosciamo la libertà a partire dalla legge morale ma la legge

morale si fonda sulla libertà, però siccome qui il tema è quale conosciamo prima, noi conosciamo

prima la legge morale. Il che vuole anche dire che noi la legge morale la conosciamo

immediatamente. Se prima abbiamo insistito sul fatto che la libertà non la possiamo conoscere

immediatamente, ma solo mediante la legge morale, invece, la legge morale la conosciamo

immediatamente.

“Ma come è possibile anche la coscienza di quella legge morale? Possiamo diventare

consapevoli di leggi pratiche pure proprio come siamo consapevoli di Principi teoretici puri,

ossia in quanto consideriamo la necessità con cui la ragione ce le prescrive, e badiamo a

prescindere da tutte le condizioni empiriche, come essa ci insegna”. E come mai noi possiamo

avere una conoscenza immediata della legge morale? Nello stesso modo in cui noi abbiamo in sede

teoretica una conoscenza immediata dei principi dell’intelletto, la legge morale non è altro che il

principio puro della volontà. Cioè sono tutti principi puri della ragione: gli uni della ragione nel suo

uso teoretico, gli altri della ragione nel suo uso pratico. Così come per i principi puri dell’intelletto,
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il principio di causalità per esempio: noi abbiamo una conoscenza immediata a priori, perché sono

principi puri che non dipendono dall’esperienza e non contengono nemmeno nessun elemento

empirico, ne abbiamo una conoscenza immediata perché la ragione ci dice che necessariamente per

conoscere dobbiamo applicare quei principi. Per conoscere in sede teoretica, cioè per determinare

l’oggetto dato, noi dobbiamo necessariamente determinarlo mediante i principi puri dell’intelletto: i

principi della quantità, della qualità, della relazione e della modalità. Questi sono i principi puri

della ragione in sede teoretica mediante i quali noi determiniamo un oggetto, quindi noi

conosciamo. E poiché conosciamo effettivamente, la fisica e la matematica lo dimostrano, cioè

possiamo giungere a una conoscenza certa, è evidente che noi lo facciamo applicando questi

principi puri che noi conosciamo immediatamente, a priori, perché sono i principi puri della

ragione. Sono la ragione in quanto principio di conoscenza teoretica. Analogamente, in sede pratica,

noi abbiamo una conoscenza pratica, cioè una volontà capace di determinarsi all’azione, in quanto

noi applichiamo il principio puro pratico, cioè la legge morale. Questo principio pratico è certo

immediatamente e non empiricamente perché è un principio puro e quindi a priori, e non solo non

dipende dall’esperienza, ma nemmeno contiene nessun elemento empirico ed è valido

immediatamente perché è il principio attraverso il quale è possibile una conoscenza pratica

razionale. È la ragione in quanto principio pratico.

“Il concetto di una volontà pura scaturisce dalle prime” (cioè dalle leggi pratiche),

“come la coscienza di un intelletto puro dagli ultimi” (dai principi teoretici). “Che questo sia il

vero ordine dei nostri concetti, e che l’eticità ci riveli per prima il concetto della libertà, e

dunque la ragione pratica sia la prima a proporre alla ragione speculativa, con questo

concetto, il problema per essa più insolubile, per metterla massimamente in imbarazzo, risulta

chiaramente già da questo: poiché il concetto della libertà non consente di spiegare nulla, nei

fenomeni, dove invece il filo conduttore deve essere sempre necessariamente costituito dal

meccanismo naturale, e per giunta l’antinomia” (fa riferimento alla terza antinomia nella

cosmologia nella dialettica trascendentale) “in cui incorre la ragione pura quando voglia risalire
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all’incondizionato nelle serie delle cause si involge, in entrambi i casi, in incomprensibilità,

mentre, tuttavia, la seconda alternativa (quella del meccanismo) può almeno essere usata per

spiegare i fenomeni – non si sarebbe mai corso il rischio di introdurre la libertà nella scienza,

se non vi fosse giunta la legge etica, e con essa la ragione pratica, imponendoci tale concetto”.

Dunque, è la ragione nel suo uso pratico che a partire dalla legge morale, cioè dal principio puro

pratico, ci dà una conoscenza, questa volta positiva, della libertà. Questa non è più una conoscenza

negativa, non ci dice più cosa la libertà non è ma cosa la libertà è: è: una forma di causalità, è la

forma di causalità che vige nella dimensione intelligibile cioè in ambito pratico. Dunque, quello che

non era possibile in sede teoretica, cioè dare all’idea di libertà un contenuto di conoscenza positivo,

è invece possibile in ambito pratico. Questo ha dei riflessi anche sull’ambito teoretico, perché resta

fermo che noi non possiamo avere una conoscenza teoretica della libertà, però non possiamo

trascurare o far finta che non ci sia questo risultato nella conoscenza pratica, cioè che la libertà è

un’idea di cui abbiamo una conoscenza positiva. Questa conoscenza positiva, a cui noi giungiamo

in campo pratico, ha naturalmente un’influenza sul piano teoretico, non perché cambia quella

impossibilità ma perché ha un uso regolativo rispetto alla conoscenza teoretica. Per questo Kant

diceva nell’Introduzione “la libertà è la chiave di volta dell’intero sistema della ragione”, non solo

della ragione pratica, perché noi giungiamo a una conoscenza positiva della libertà in campo pratico

ma questa conoscenza positiva ha un’influenza anche sul campo teoretico perché dà anche alla

scienza della natura un orizzonte regolativo, che, dicevamo, è quello del sistema, è quello della

totalità, senza il quale la conoscenza della natura stessa non procederebbe nel suo cammino.

“Ma anche l’esperienza conferma questo ordine dei concetti in noi”. Vedete, la solita

espressione che abbiamo trovato anche nella nota precedente, “tutti sanno che”, “anche il senso

comune lo sa”, in questo caso lo troviamo nella forma che “anche l’esperienza ci dice queste cose”.

Qui incomincia un magnifico esempio. Dunque, è un esempio costruito in due scene, oppure

possiamo dire un esperimento mentale costruito in due scene: non dimenticate che viene introdotto

per sostenere che anche l’esperienza comune ci dice che è la legge morale quella da cui inizia la
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nostra conoscenza pratica e che è attraverso di essa che noi conosciamo la libertà e non viceversa.

Questo è il tema di tutta la nota, in particolare l’ultima parte della nota dice che anche l’esperienza

comune lo sa, e così vi introduce questo esempio, che voi recepite e comprendete e valutate secondo

la vostra esperienza comune per confermare quella affermazione.

Prima scena, io lo chiamo l’esempio della forca. “Supponete che qualcuno pretendesse

che la sua inclinazione libidinosa sarebbe per lui irresistibile, qualora gli si presentassero

l’oggetto amato è l’occasione relativa, e di chiedergli se non reprimerebbe la propria

inclinazione, se, davanti alla casa dove si trovasse tale occasione, fosse installata una forca

dove impiccarlo subito dopo che avesse soddisfatto il suo appetito; non è difficile indovinare

che cosa risponderebbe, e intende dire che sicuramente risponderebbe che lui in quella casa non ci

metterebbe piede. Ora Kant lo dà per scontato, forse qualcuno di voi lo dà meno per scontato, però

dovete capire questa conclusione di Kant tenendo conto dell’antropologia settecentesca,

ottocentesca e anche per la prima parte del ‘900, in cui era considerato un dato scontato che tra le

inclinazioni umane ce ne fossero di più fondamentali e che le più fondamentali siano due: l’istinto

di autoconservazione, cioè quello di sopravvivere, e l’istinto della riproduzione, cioè l’istinto

sessuale. Questi erano considerati gli istinti fondamentali, così forti da essere irresistibili. Però era

generalmente riconosciuto che essendo questi due istinti fondamentali, l’istinto di

autoconservazione fosse più forte di quello sessuale. Ed ecco perché Kant dice che prevarrà l’istinto

all’autoconservazione su quello della riproduzione, perché questo era quello dato per scontato nella

conoscenza antropologica. Quello che ci interessa, e che è la parte più importante di questa

conclusione, è questo “Non è difficile indovinare”. Perché non è difficile indovinare? Perché è certo

che cosa sceglierà, è certo. Perché è certo che cosa sceglierà? Perché in realtà non è una scelta

quella davanti a cui si trova costui. Non è una scelta perché non interviene la libertà. Quest’uomo è

influenzato, inclinato, spinto da due inclinazioni che tra l’altro non possono coesistere, poiché l’una

fa mancare l’altra e viceversa. Queste due inclinazioni sono dunque contrapposte, confliggono e

prevarrà la più forte. Esattamente come in un calcolo delle forze fisiche: se ci sono due forze
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opposte quella più forte prevale su quella più debole. Se voi fate scontrare due palle da biliardo che

si muovono in direzioni opposte, quella che ha maggior massa e maggiore velocità prevarrà

sull’altra e quindi, dopo lo scontro, le due palle da biliardo si muoveranno con una velocità che è la

somma, in questo caso la differenza, tra la velocità dell’una e la velocità dell’altra e la direzione di

quella prevalente. Se per caso pensate di fare incontrare due palle da biliardo in direzione opposta

con la medesima massa e velocità si scontreranno e resteranno ferme sul posto. Questo è necessario

perché è un fenomeno che è determinato da una causalità che è quella naturale, che è una causalità

necessaria, non è che può andare così o altrimenti, va così necessariamente, è un calcolo delle forze.

Ora nell’esempio che stiamo esaminando la situazione è esattamente la stessa. Qui abbiamo

l’opporsi di due inclinazioni del desiderio sensibile, che sono a tutti gli effetti due forze fisiche e

psichiche, comunque due forze fenomeniche e pertanto l’esito è calcolabile secondo la necessità

naturale con una certezza necessaria. Qui non abbiamo a che fare con una questione pratica, cioè

con una scelta della volontà, ma con un evento fenomenico: lo scontro tra due inclinazioni. “Ma poi

fategli un’altra domanda qualora il suo principe – con la minaccia della stessa morte,

immediata – pretendesse che egli testimoniasse il falso contro un uomo onesto che lo stesso

principe vorrebbero rovinare con speciosi pretesti, ebbene, riterrebbe possibile vincere il

proprio amore per la vita, per quanto grande potesse essere? Forse non oserebbe assicurare

che lo farebbe, o no; ma che gli sia possibile, deve necessariamente ammetterlo senza esitare.

Dunque giudica di essere capace di fare qualcosa poiché è consapevole di averne il dovere, e

(ri)conosce in sé la libertà che altrimenti gli sarebbe rimasta ignota, senza la legge morale”.

Questa è la situazione, ed è una situazione che Kant prende da Giovenale, quella del Toro di

Falaride. C’è un principe ingiusto, un tiranno, che vuole perdere il suo nemico, quindi vuole

chiamarlo in giudizio e condannarlo a morte sulla base di una falsa testimonianza, e cerca qualcuno

che gli dia questa falsa testimonianza. Allora prende questo qui e gli dice: “tu adesso vieni in

tribunale e accusi questo qui con una falsa testimonianza, perché non è vero quello che dirai, di

modo che io possa condannarlo a morte. Se non lo fai io ammazzo te”. Chiedetegli che cosa farà? E
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qui la conclusione della scena è molto diversa dalla prima. Nella prima Kant dice che non abbiamo

dubbio su che cosa risponderà, invece qui conclude che risponderà che non sa., Noi chiediamo se

resisterà alla pressione del principe perché menta per condannare l’innocente, e lui ci risponderà che

non sa se resisterà o meno. Se è una persona onesta ci dice che non sa, perché adesso può anche dire

che lui resisterà ma poi magari la paura al momento sarà più forte. Quindi uno può avere tutte le più

belle intenzioni del mondo però poi, magari, la paura prevale o chissà quale altra pressione. Quindi

ci dirà che lui non sa se resisterà o meno, e dice “non so cosa farò ma so, e questo lo so con

certezza, indipendentemente da ciò che farò, che posso resistere anche al costo di farmi ammazzare

e non dare falsa testimonianza, so che posso farlo”. Perché so che posso farlo? Perché so che devo,

so che la legge morale mi dice che ciò che devo fare sarebbe questo, che la scelta che devo fare è

questa, che la scelta moralmente giusta è questa. E poiché la legge morale mi dice questo so anche

che posso farla quella scelta, se poi la farò questo non lo so. Questa risposta è estremamente

interessante, perché vedete qui la situazione è molto differente dall’altra. Qui c’è effettivamente una

scelta morale, indipendentemente da quale scelta farà. C’è una scelta morale e quindi c’è una libertà

di scegliere. Anche se lui non resisterà e per paura testimonierà il falso per salvarsi la vita, saprà nel

momento in cui lo fa, e lo saprà sempre nella sua vita, che poteva fare altrimenti. E come fa a

saperlo? Perché doveva fare altrimenti. Questo “so che posso perché devo” è appunto

l’esemplificazione del tema. La nostra libertà la conosciamo a partire dalla legge morale.

“Devo” è la legge morale “posso” è la libertà. “So che posso perché devo”. Anche

l’esperienza comune ci fa capire che noi conosciamo la nostra libertà a partire dalla legge morale.

Nella prima scena, dove non interviene la legge morale perché c’è una pura contrapposizione di

inclinazioni, scelgo in un modo, e dopo aver scelto non posso dirmi “so che potevo fare anche

altrimenti” perché sono certo che altrimenti non potevo fare, perché una inclinazione era superiore

all’altra. Ma nella seconda scena tutto è diverso, qui c’è effettivamente una scelta, e la libertà della

scelta di cui sono certo è una conoscenza che io ho a partire dalla conoscenza chiara della legge

morale che mi dice “Tu non devi mentire”. Vedete, un’altra volta l’esempio è sul dire il vero o dire
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il falso. Il confronto tra le due scene mette in evidenza nell’esperienza comune, nell’opinione

comune, la chiarezza di quanto sostenuto nell’argomento della nota. “Posso perché devo” mi dà

l’esatto ordine di successione non tra la libertà e la legge morale ma tra la conoscenza della libertà e

la conoscenza della legge morale. La mia conoscenza della mia libertà mi viene a partire dalla mia

conoscenza della legge morale che invece è immediata. È questo il motivo per cui la legge morale

mi dà la conoscenza della mia libertà altrimenti non mi darebbe la conoscenza della mia libertà: è

sempre nella possibilità di prevalere perché la ragione può sempre prevalere sulle inclinazioni

sensibili, anche quando non prevale, sia ben chiaro. Questa affermazione che la ragione può sempre

prevalere sulle inclinazioni sensibili non è un’affermazione che viene falsificata dal dato di fatto che

in un caso non prevalga; anche se non prevale può prevalere, cioè la legge morale vale anche se la

trasgredisco. La legge “non mentire” vale anche se mento e questo mi dà la certezza che potevo non

mentire.

Adesso vedete c’è un altro paragrafo, “Legge fondamentale della ragione pura pratica”.

Dunque, qui Kant formula la legge fondamentale della ragione pura pratica, la legge morale

fondamentale, badate, di non dimenticare quel fondamentale, perché evidentemente ci sono tante

leggi morali, “non mentire” è una legge morale, “non toglierti la vita” è una legge morale, “non

rubare”, l’abbiamo visto nel caso del deposito, è una legge morale. Dunque, sono molteplici le leggi

morali, ma tutte queste leggi morali sono fondate in un principio fondamentale, in una legge

fondamentale.

Dunque, questa è la legge fondamentale della ragione pura pratica, non è l’unica legge ma è

la legge fondamentale. E Kant la formula: “agisci in modo che la massima della tua volontà

possa sempre valere, insieme, come principio di una legislazione universale”. Questa è una

formulazione famosa del cosiddetto imperativo categorico, ma è propriamente dell’imperativo

categorico fondamentale. Non è l’unica, Kant ne aveva date già altre nella Fondazione della

metafisica dei costumi. Ne trovano già almeno tre, sono tutte differenti tra di loro, ma sono tutte

equivalenti, non sono contraddittorie l’una con l’altra. Ognuna è formulata a partire da un aspetto
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piuttosto che dall’altro ma sono equivalenti. È chiaro che la legge fondamentale della ragione pura

pratica è una, può essere formulata in più modi, non in qualunque modo, ma in diversi modi. Kant

spesso la formula in più modi ma è una. Solo alcune cose che voi stessi notate immediatamente:

intanto la forma imperativa “agisci”, è un imperativo e questo non vi deve stupire perché abbiamo

visto sin dall’inizio che i principi pratici oggettivi sono degli imperativi. Poiché non è posto nessun

fine presupposto, cioè la formula non dice “se vuoi”, come quell’esempio “se non vuoi penare in

vecchiaia”, siccome qui questo non c’è è chiaro che siamo difronte a un imperativo categorico e non

a un imperativo ipotetico, e anche questo non vi stupisce, altrimenti non sarebbe una legge, e non

solo non sarebbe la legge fondamentale ma non sarebbe nemmeno una legge. Usa questa forma:

parte dalla massima, “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come”,

usa questa forma non per complicare inutilmente la formula ma perché come già vi avevo detto dal

punto di vista della descrizione del procedimento deliberativo, del procedimento della volontà, la

volontà procede sempre, si determina sempre a partire da una massima, cioè da una

rappresentazione soggettiva. L’abbiamo già detto, l’azione volontaria è un’azione determinata da

una rappresentazione che è evidentemente soggettiva: sono io che la determino la mia volontà,

secondo quella rappresentazione, quindi ciò che determina immediatamente un’azione o una scelta

della volontà è sempre una massima. Non tutte le massime hanno validità morale, ma solo quelle

che concordano con la legge morale. Le leggi morali, l’abbiamo appena detto, devono essere

coerenti con la legge fondamentale. Allora la legge fondamentale dice “agisci il modo che la

massima della tua volontà possa sempre valere anche come principio di una legislazione

universale”. Quella è la massima secondo cui tu agisci, la massima deve poter avere un valore di

legge, cioè deve poter avere il valore oggettivo, necessario, universale di legge. Quel “possa” non

significa “possa avere o anche non avere”, “possa” indica il carattere trascendentale di questa

formula, dal punto di vista del piano della filosofia trascendentale, del dato di fatto che abbia il

valore, non perché non ce l’abbia, ma quello che ci interessa è che possa averlo, cioè che sia

condizione a priori della possibilità. L’indagine trascendentale è sempre un’indagine sulle


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condizioni a priori della “possibilità di”, quindi dire che la massima della tua volontà possa anche

sempre essere principio di una legislazione universale è come dire che “la massima della tua

volontà possa sempre essere anche la condizione a priori di una legislazione universale”. Che sia la

condizione a priori di una legislazione universale, coincida con la condizione a priori di una

legislazione universale. Che cosa comanda? Nulla. Ci dice il modo, ma il modo dal punto di vista

formale, cioè devo guardare se la massima con cui voglio indirizzare la mia volontà, la mia scelta,

ha la forma adatta per essere anche il principio di una legislazione universale, qualunque sia il suo

contenuto. Se ha questa forma adatta, allora, quella massima sarà secondo la legge morale, se non

ha questa forma adatta, allora, sarà contro la legge morale. Ed è la forma che decide, qualunque sia

il contenuto della mia massima. “Voglio trattenermi il deposito”, per fare un esempio che abbiamo

fatto, “voglio testimoniare il falso contro un’innocente”, per ripercorrere gli esempi che abbiamo

fatto di imperativi categorici: mi devo chiedere non se quello che voglio è moralmente buono,

perché non arrivo a capo di niente in questo modo, ma se quella mia rappresentazione, quella mia

massima, quel mio proposito con cui voglio determinare la mia volontà può valere come il principio

su cui si fonda una legislazione universale, dal punto di vista formale. Questo è quello che decide.

Vi ricordate il caso del deposito: ognuno vede, dice Kant, anche se non ha mai studiato, che non

può valere, perché in quel modo, se io penso a quella mia massima di trattenermi il deposito che mi

è stato affidato, se penso di farne il principio di una legislazione universale, si distrugge il concetto

di deposito, non c’è più la materia su cui giudicare, non ha più senso parlare di deposito. Dunque, è

la forma che decide, non la materia. Se io mi chiedo, e me lo devo chiedere se mi pongo una

questione morale, se la massima con cui mi propongo di agire è moralmente buona o no, che vuol

dire è moralmente buona o moralmente cattiva, perché l’opposizione pratica lo abbiamo già detto

non è solo una negazione ma è un’opposizione reale, non arriverò mai a capo di questa mia

questione lavorando sui contenuti, ma sempre e solo lavorando sulla forma. Questa mia massima

può anche valere come principio di una legislazione universale? Se sì, allora è conforme alla legge

morale, se no, allora è contraria alla legge morale. Come dire: se è sì è moralmente possibile, se è
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no allora vuol dire che è moralmente impossibile. Badate, la possibilità morale non è la possibilità

fisica. La possibilità fisica è la concordanza di un fenomeno, di una possibile esperienza, con le

condizioni formali della conoscenza teoretica, cioè con i principi puri dell’intelletto. È impossibile

che un vaso di gerani lasciato andare vada in su? è impossibile per le leggi della fisica. La

possibilità pratica in senso generale è ancora sempre definibile in questo modo, cioè la concordanza

– in questo caso di una massima, di una rappresentazione, con le condizioni a priori della possibilità

– ma non della conoscenza teoretica ma della conoscenza pratica, e le condizioni a priori della

conoscenza teoretica sono i principi puri dell’intelletto, ma le condizioni a priori della possibilità

pratica sono la legge morale. Dunque, possibilità pratica è la concordanza di quelle condizioni a

priori della possibilità pratica con la legge morale. Sicché ciò che è moralmente possibile o

impossibile è ciò che in linguaggio proprio si chiama lecito e illecito. Lecito è ciò che è moralmente

possibile, illecito è ciò che è moralmente impossibile, cioè opposto al lecito. Dunque, questa è la

formulazione che qui Kant da dell’imperativo categorico: “agisci in modo che la massima della

tua volontà possa sempre valere, anche, come principio di una legislazione universale”. Voglio

solo farvi notare che qui ha formulato, sapendolo, consapevolmente e sfidando qualunque

contestazione, una proposizione che è incondizionatamente valida.

Alla formulazione della legge fondamentale della ragione pura pratica segue una nota che

evidentemente riguarda questa formulazione. “La geometria pura ha postulati, come

proposizioni pratiche, che però non contengono altro che il presupposto che si possa fare

qualcosa, qualora si esiga che si debba farlo – e sono le uniche sue proposizioni che

concernano un’esistenza. Sono dunque regole pratiche sottoposte a una condizione

problematica della volontà. Ma qui la regola dice che si deve procedere senz’altro in una certa

maniera”. Dunque, non è un postulato la legge fondamentale della ragione pura pratica, anche se

evidentemente è un principio che non può essere dimostrato. Può essere fondato, ma non può essere

dimostrato. Può essere dimostrata la necessità che sia formale, terzo teorema, ma la formulazione

del principio è quella, e non è, dice Kant, come in geometria quella di un postulato. In geometria il
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postulato è una proposizione che deve essere ammessa se si vuole che abbia una coerenza logica il

sistema stabilito. “Per un punto esterno a una retta data passa una e una sola parallela”, questo è un

postulato, qui la formula è come quella di un assioma, poi c’è stata una discussione, e di fatto è un

postulato: il sistema euclideo funziona se noi pensiamo lo spazio piano e quindi se noi pensiamo

che a una retta su un punto esterno passa solo una parallela. Tanto è vero che sono possibili altre

geometrie, cosiddette riemanniane, che pensano lo spazio non come spazio piano, come quello di

Euclide, e sono tali per cui quel postulato non vale. “A un punto esterno ad una retta passano

infinite parallele alla retta data o non passa nessuna parallela alla retta data”, dipende da quale

proposizione io pongo tra i principi non dimostrati dal sistema. I principi non dimostrati sono le

definizioni, gli assiomi e poi appunto dei postulati. Qui questa legge fondamentale non è

un postulato.

Kant scrive: “ma qui la regola dice che si deve procedere senz’altro in una certa

maniera. La regola pratica è dunque incondizionata, e quindi è rappresentata come

proposizione pratica categorica a priori, da cui la volontà è determinata in un modo obiettivo

(senz’altro e direttamente dalla stessa regola pratica, che dunque qui è legge). Infatti la

ragione pura, in sé stessa pratica, qui è immediatamente legislatrice. La volontà è dunque

pensata come indipendente da condizioni empiriche, dunque come volontà pura, determinata

dalla mera forma della legge, e questo motivo determinante è considerato come la condizione

suprema di tutte le massime”. Notate che forse per la prima volta, in termini affermativi, assertori,

non solo come ipotesi, qui viene usato il concetto e quindi anche l’espressione volontà pura. La

volontà pura è quella volontà che è determinata unicamente e immediatamente dalla ragione pura

pratica, cioè dalla sola forma della legge. Quel lavoro di distinzione concettuale e quindi anche di

separazione terminologica all’interno di quell’espressione assai vaga e indeterminata “facoltà di

desiderare” che abbiamo usato dall’inizio come sinonimo di volontà, quel lavoro ha proceduto

attraverso i teoremi, e adesso volontà è la volontà pura, se non è pura è facoltà di desiderare, ma non

è propriamente volontà. D’ora in poi, salvo forse qualche eccezione, vedrete che Kant correggerà la
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terminologia nel suo discorso successivo, e quando parla della volontà parla della volontà pura, e

anche se non è scritto nel testo volontà pura intende la volontà pura se c’è il termine volontà. Quella

empiricamente determinata è la facoltà di desiderare, la brama, l’inclinazione, il desiderio, eccetera

ma volontà è solo la volontà pura. Badate, è un grande passo, perché non si tratta solo di

puntualizzare una terminologia: questa è niente di meno che la seconda ipotesi che guida tutta la

ricerca. La prima è verificare se è possibile che la ragione pura da sé sola determini

immediatamente la volontà, questo è il tema di una Critica della Ragion Pratica, e poi, proseguiva

dicendo che se noi verifichiamo questa possibilità, cioè se verifichiamo che è possibile una ragione

pura pratica, allora, non è necessario fare una critica della ragione pura pratica come avevamo fatto

per quella teoretica, perché se è possibile la ragione pura pratica essa ha un unico uso, e questo è

legittimo perché solo essa è veramente volontà, perché quando parliamo di volontà in senso proprio

parliamo della volontà determinata incondizionatamente e immediatamente dalla ragione pura

pratica.

“La cosa è abbastanza sorprendente, e non trova riscontro in tutto il resto della

conoscenza pratica”. Oltre la conoscenza pura pratica, quella che dà luogo a una conoscenza certa

e vera, che è la moralità, ci sono altri domini della conoscenza (apparentemente pratica, in realtà

teoretica), per esempio le regole dell’abilità, vi ricordate: tutti i domini che sono determinati da quei

principi che sono degli imperativi ipotetici, l’economia per esempio è certamente un’attività

apparentemente pratica, ma non è determinata dall’imperativo categorico ma dall’ imperativo

ipotetico e così via. “Infatti il pensiero a priori di una legislazione universale possibile, che

dunque è meramente problematico, viene comandato incondizionatamente come legge, senza

nulla mutuare dall’esperienza o da una qualche volontà esterna. Ma non è neanche una

prescrizione secondo cui debba avvenire un’azione tale da rendere possibile un effetto

desiderato (poiché in tal caso la regola sarebbe sempre fisicamente condizionata), è invece una

regola che si limita a determinare a priori la volontà rispetto alla forma delle sue massime, e

allora almeno non è impossibile pensare che una legge che è meramente al servizio della
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forma soggettiva dei Principi sia motivo determinante in virtù della forma obiettiva di una

legge in generale”. L’imperativo categorico, la legge fondamentale della ragione pratica, non è

riferita agli effetti nella sua validità naturalmente, non dice che cosa devo ottenere, che cosa devo

evitare, è solo un principio del tutto formale che come dice qui “detta la forma alle massime”. Le

massime sono i principi soggettivi, le rappresentazioni attraverso le quali io determino la mia

volontà, o la mia azione. Queste massime sono morali se sono determinate in base alla legge

fondamentale che ne fonda la validità. Infatti, vi ho fatto notare, che nella formulazione della legge

fondamentale c’è questa formulazione a partire dalle massime, “agisci in modo che la massima

della tua volontà possa sempre valere anche come principio di una legislazione universale”, perché

la rappresentazione mediante cui io soggettivamente mi determino ad agire è sempre una

rappresentazione soggettiva e quindi una massima. La legge morale non determina gli atti, non mi

dice come devo fare, determina la massima, mi dice come deve essere dal punto di vista della forma

la massima che determina la mia azione e quindi di conseguenza gli atti per produrre l’effetto

desiderato. Che cosa vuol dire una legge formale? Adesso abbiamo la formulazione, capiamo che è

formale “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere anche come principio

di una legislazione universale”, capiamo che è un principio formale perché non ha nessun

contenuto, ma solo in questo senso lo capiamo, perché non ha nessun contenuto. Esattamente come

nella dimostrazione del terzo teorema aveva dimostrato che il principio doveva essere formale,

perché non potendo essere materiale se togliamo la materia resta la forma, ma è ancora sempre una

spiegazione inadeguata rispetto a quel concetto trascendentale di forma di cui vi dicevo che è invece

pregnante di significato del tutto positivo.

Adesso viene un passaggio famoso: “si può chiamare la coscienza di questa legge

fondamentale un factum della ragione, poiché non la si può derivare sofisticamente a partire

da precedenti dati della ragione, per esempio dalla coscienza della libertà (giacché

quest’ultima non ci è data anteriormente), ma perché invece ci si impone di per sé come

proposizione sintetica a priori, che non è fondata su nessuna intuizione, né pura né empirica,
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sebbene sarebbe analitica, se ci si presupponesse la libertà del volere – peraltro un concetto

positivo il quale richiederebbe un’intuizione intellettuale che qui non è affatto lecito

assumere”. Allora, dice che la coscienza o consapevolezza di questa legge fondamentale della

ragione pura pratica la possiamo chiamare un factum della regione. Espressione strana e anche

problematica. Che sia strana è certo, non solo per noi ma anche per Kant che l’ha costruita, e non

solo Kant sa benissimo che è strana, ma la costruisce in modo strano. Vuole produrre

un’espressione strana, “factum della ragione”. Che questa sia un’intenzione di Kant è perché c’è un

indizio chiaro: cioè Kant usa una parola, factum, che anche in tedesco è Faktum, che non è una

parola tedesca ma latina, si può usare in tedesco, è un latinismo, ma non è che il tedesco manchi di

parole per indicare un “fatto”. Se Kant voleva dire “fatto” in tedesco, in tutti i casi eccetto che qui,

avrebbe avuto un intero dizionario e l’avrebbe usato. Se usa un latinismo, se usa una parola strana, è

perché vuole che sia strana, vuole che il lettore resti colpito e quindi attento a questo termine. Non

solo usa quindi una parola latina, factum, che va bene intendiamola nel senso grosso di fatto, ma,

badate, poi ci aggiunge anche, tanto per renderla ancora più strana, un fatto della ragione. Ma come

un “fatto della ragione”? I fatti sono fatti dell’esperienza, eventi, fenomeni. Cosa vuol dire un fatto

della ragione? È un’espressione molto strana. Allora dobbiamo fermarci, Kant ha fatto tutte le

capriole lessicali possibili per fare in modo che ci fermiamo, e poi ce lo spiega anche perché. Perché

vuole dire, ci tiene a dirlo perché è importante questo, che la legge morale in noi, questa legge di cui

stiamo parlando, questa legge fondamentale, questo principio fondamentale, o almeno la

conoscenza di questo principio, meglio, la conoscenza di questo principio è qualche cosa che è

proprio, inscindibile dalla ragione. Ogni ente razionale ha questa conoscenza e ce l’ha con la

certezza della sua validità pari alla certezza di un fatto. Perché non usa il termine che usa

solitamente anche in campo teoretico, che è quello usabile anche in campo teoretico per indicare

una conoscenza certa e immediata cioè è “dato”? Perché non dice un “dato”? Perché i dati sono i

dati della sensibilità. Solo la sensibilità è capace di intuizione, e quindi di conoscere dei contenuti

immediatamente dati, invece questa è una conoscenza certa, ma non della sensibilità ma della
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ragione e allora evita la parola dato. Ne cerca una che abbia lo stesso significato di conoscenza certa

e immediata: factum. Poi esplicita, però, “non empirico ma della ragione” cioè intelligibile,

razionale puro. Non solo non empirico ma che non contiene alcun elemento che in nessun modo

dipenda dall’esperienza: è interamente a priori e in più non contiene nessun elemento empirico. Noi

della legge morale abbiamo una conoscenza, possiamo dire, dice Kant, come di un factum della

ragione, più avanti userà questa espressione, sempre con delle espressioni prudenziali “per così dire

factum della ragione”, “come un factum della ragione” perché si rende conto che è un’espressione

strana, problematica. Vuole dire a conclusione della documentazione che ha fatto nella nota sin ora:

posto che questo principio non è un postulato e non è un principio ipotetico, non dipende il suo

valore da nessun rapporto con gli effetti possibili ma è un principio valido in modo incondizionato e

fondato unicamente nella ragione pura, allora, per dire tutto questo, diciamo che è per così dire un

factum della ragione. Perché è un factum? Perché non lo possiamo dedurre, se lo potessimo dedurre

sarebbe una verità che si fonda su un principio quindi una tesi, ma questa la conosciamo come una

verità certamente vera e incondizionata, ma non possiamo giustificarne la fondazione, stavo per dire

“non possiamo dire su cosa si fonda”, ma possiamo dire su cosa si fonda, lo sappiamo anche, si

fonda sulla libertà, perché la libertà è la ratio essendi, è il fondamento della legge morale, però noi

non possiamo dedurre la legge morale dalla libertà dice qui Kant, perché noi della libertà non

possiamo avere una intuizione intellettuale cioè una conoscenza immediata di tipo intellettuale, e

nemmeno una intuizione empirica, non possiamo avere una intuizione empirica della libertà perché

la libertà è la legge causale nell’ambito del noumeno, dell’intelligibile, non del fenomeno,

dell’esperibile. Questo è un principio importante e fermo di tutta la teoria di Kant: non è dato il

fenomeno morale, non possiamo verificare negli eventi empirici un atto libero perché la conoscenza

degli enti empirici, cioè l’esperienza possibile è una conoscenza teoretica e deve essere tutta fondata

sulla causalità naturale che è necessaria e non libera. Kant, vedete, lo dice alla fine della nota,

“richiederebbe una intuizione intellettuale che qui non è affatto lecito assumere”. L’intuizione

intellettuale non è possibile, questo è un punto fermo nella filosofia trascendentale di Kant.
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L’intuizione dice Kant all’inizio dell’Estetica trascendentale della Critica della Ragion pura, tutte

le intuizioni sono sensibili, cioè tutte le conoscenze immediate sono sensibili o non sono. Noi

possiamo avere intuizione, cioè conoscenza immediata, solo dei dati della sensibilità. Questo è un

confine dell’uso legittimo della ragione invalicabile. Allora una intuizione empirica è possibile, una

intuizione intellettuale è impossibile, sicché io non posso dedurre la legge morale dalla libertà, lo so

che il fondamento è la libertà ma la libertà la conosco solo dalla legge morale, ricordate la nota

precedente: la libertà non la posso conoscere come conoscenza immediata, come una intuizione, ma

la devo dedurre, la devo conoscere a partire dalla legge morale La legge morale però è una

conoscenza immediata. Non diciamo un dato per non equivocare con il dato sensibile, è “come un

factum della ragione”. La conoscenza della legge morale è per così dire un factum della ragione,

perché ne siamo certi come di un dato di fatto, però questa certezza non è una intuizione empirica

perché non ne possiamo avere una intuizione empirica, e non è nemmeno una intuizione

intellettuale perché non è data alla ragione umana l’intuizione intellettuale.

Corollario: “la ragione pura è di per sé sola pratica, e da (all’uomo) una legge

universale, che chiamiamo «la legge morale»”. Dunque, questo breve corollario, del tutto

assertivo, apodittico è una affermazione. Come mai decide di mettere un corollario con questa

affermazione buttata lì così? Non è buttata lì così perché è il risultato del lavoro che abbiamo fatto,

ma perché metterla lì? La mette lì perché è la risposta all’ipotesi che ha guidato tutta la nostra

indagine. Vi ricordate la Prefazione e l’Introduzione, dobbiamo fare una critica della ragion pratica

in generale per verificare se è possibile una ragione pura pratica, cioè se è possibile che la ragione

pura da sé sola dia la legge che determina la volontà. Dunque, questo corollario dice: il lavoro

l’abbiamo fatto e l’ipotesi l’abbiamo verificata. “La ragione pura è di per sé sola pratica, e da

(all’uomo) una legge universale, che chiamiamo «la legge morale»”.

Nota: “Il factum” il factum della ragione, la legge morale di cui parlava nella nota prima e

di cui abbiamo parlato finora “prima menzionato è innegabile”. Sta dicendo a tutti quelli che

hanno in testa quella obiezione “ma come fa a dirlo?” che non solo lo dice, ma dice che è
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innegabile. “È sufficiente scomporre il giudizio che gli uomini danno della conformità alla

legge delle loro azioni: si troverà sempre che, comunque possa interloquire l’inclinazione,

tuttavia la loro ragione, incorruttibile e da se stessa costretta, riserva sempre la massima della

volontà, in un’azione, alla volontà pura, ossia a se stessa, in quanto considera se stessa come

pratica a priori”. Si troverà sempre, se noi scomponiamo il giudizio che gli uomini danno della

conformità alla legge delle loro azioni – prendete la persona delle esempio “non so se lo farò ma so

che posso perché devo”, questa persona scompone i motivi che la determinano a un’azione e, tolte

le inclinazioni sensibili, in questo caso la paura, può darsi che abbia scelto di testimoniare il falso,

“si l’ho fatto per paura, però, so che potevo non farlo perché dovevo”. Ogni uomo, se scompone

qualunque azione, anche un’azione moralmente cattiva, per esempio testimoniare il falso contro un

innocente, questo esempio che stiamo riprendendo, anche se questo ha testimoniato il falso, se dopo

averlo fatto e gli chiediamo perché, risponderà “sì, l’ho fatto, ma per paura, l’inclinazione sensibile

ha prevalso, però la legge morale mi diceva di non farlo e questo lo so”. “È sufficiente scomporre

il giudizio che gli uomini danno della conformità alla legge delle loro azioni: si troverà sempre

che, comunque possa interloquire l’inclinazione”, l’inclinazione interviene sempre perché noi

siamo enti razionali finiti e quindi sensibili e quindi sempre interviene l’inclinazione, e comunque

possa intervenire, magari anche avendo il sopravvento, quindi di fatto determinando la mia azione:

“Tuttavia la loro ragione, incorruttibile e da se stessa costretta, riserva sempre la massima

della volontà, in un’azione, alla volontà pura, ossia a se stessa, in quanto considera se stessa

come pratica a priori”. Se io testimonierò il falso dirò “io ho agito non secondo ciò che mi diceva

la mia ragione, ma secondo la paura, per paura, secondo le mie inclinazioni sensibili”. Non potrò

dire secondo la ragione, la ragione pura – non la ragione strumentale, perché la ragione strumentale

è un’altra questione: io avevo posto come massima quello di sopravvivere a ogni costo, e allora la

ragione mi ha detto che la via per farlo era testimoniare il falso, questa è la ragione strumentale, non

la ragione pura – la ragione a priori da se sola, quella certamente mi dirà che non dovevo farlo.

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“Ora questo principio della moralità, appunto in virtù dell’universalità della

legislazione, che fa di esso il supremo motivo determinante formale della volontà a

prescindere da tutte le diversità soggettive di quest’ultima, la ragione dichiara essere insieme

una legge per tutti gli enti razionali, in quanto abbiano in generale una volontà, ossia una

facoltà di determinare la loro causalità con la rappresentazione di regole, quindi in quanto

siano capaci delle azioni secondo Principi, dunque anche secondo principi pratici a priori

(perché questi soltanto hanno quella necessità che la ragione esige dal principio)”. Tanto

perché non vi sfugga, qui c’è una definizione di volontà: una facoltà di determinare la loro causalità

con la rappresentazione di regole, quindi in quanto siano capaci delle azioni secondo Principi,

dunque anche secondo principi pratici a priori”. Dunque, la ragione dichiara che quel principio

formale che determina, o che deve determinare perché è un comando, la mia massima, se questa

vuole essere secondo ragione, cioè morale, è valido per tutti gli enti razionali, evidentemente perché

è una legge della ragione. “Dunque” la validità di questa legge “non si limita agli uomini, ma si

estende a tutti gli enti finiti che abbiano ragione e volontà, anzi persino l’Ente infinito, quale

intelligenza suprema”. Questa legge della ragione, questa legge fondamentale della ragione pura

pratica è appunto una legge valida per tutti gli enti razionali. Kant dice “non solo per tutti gli uomini

ma per tutti gli enti razionali finiti”, questo non significa che qui Kant voglia dire che esistono i

marziani o che voglia parlare degli angeli o cose del genere, a Kant non importa proprio per niente,

almeno qui, se ci sono altri esseri finiti oltre gli uomini o no, il punto è invece una proprietà di

discorso: poiché qui si tratta di un discorso trascendentale, quando noi diciamo, per indicare gli enti

razionali finiti, diciamo uomini, usiamo un termine legittimo ma non del tutto appropriato, perché è

un termine che rimanda anche a una quantità di significati di tipo antropologico che non hanno nulla

a che fare con il discorso trascendentale. È chiaro che noi stiamo parlando degli uomini ma ne

stiamo parlando in quanto enti razionali finiti, cioè in quanto enti razionali dotati di una sensibilità,

che siano uomini e che abbiano tutte le caratteristiche antropologiche, psicologiche, zoologiche,

sociologiche che stanno dentro ad una antropologia può anche essere vero ma non riguarda il nostro
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discorso. Questa prima precisazione quindi non è per dire “anche per i marziani”, è per dire per tutti

gli uomini o per dire meglio, in un discorso trascendentale, per tutti gli enti razionali finiti. Ma poi

aggiunge “anche per quello infinito”, cioè Dio. Se penso all’ente razionale finito insieme penso

anche all’ente razionale non finito, infinito. Dunque, se io penso l’ente razionale finito penso anche

insieme l’ente razionale non finito, e tradizionalmente il pensiero filosofico lo chiama Dio. Il

discorso che Kant tiene qui a precisare, è che se la legge razionale, la legge morale come legge

razionale pura, vale tra tutti gli enti razionali, vale per tutti gli enti razionali finiti e anche per l’ente

razionale infinito, anche per Dio vale la legge morale. Perché se vale per tutti gli enti razionali, Dio

è un ente razionale, quindi anche per lui vale la legge morale.

“Ma nel primo caso la legge ha la forma di un imperativo, poiché si può bensì

presupporre una volontà pura, ma non una volontà santa – ossia incapace di massime in

contrasto con la legge morale –, in quell’ente bensì razionale, ma, purtuttavia, influenzato da

bisogni e mosso da cause sensibili. La legge morale è quindi, in quegli enti, un imperativo, che

comanda categoricamente, poiché la legge è incondizionata; il rapporto di una volontà siffatta

con questa legge è il rapporto di una dipendenza, che è chiamata «obbligatorietà», che

significa una costrizione”. Guardate, tutto questo lessico: imperativo, comando, dipendenza,

obbligatorietà, costrizione, sta facendo una catena di termini e quindi di concetti. “Sebbene solo da

parte della ragione e della sua legge obiettiva – a compiere una certa azione, che si chiama

«dovere»”. Qui compare il termine Pflicht, ma solo di passaggio, a proposito dell’etica del dovere,

però tematizzato è solo nel terzo capitolo. “Poiché un arbitrio patologicamente influenzato

(ancorché non perciò determinato, e quindi pur sempre libero) comporta un desiderio che

scaturisce da cause soggettive, e quindi può anche essere spesso in contrasto con il puro motivo

determinante obiettivo, e dunque abbisogna di una resistenza della ragione pratica, che può

essere chiamata coazione interna, ma intellettuale – ossia di una costrizione morale”. Invece,

“nell’intelligenza perfettamente autosufficiente…”. Qua Kant dice, “descrivendo la distinzione”,

“posta l’uguaglianza” – questo è un tipico metodo di Kant, quando Kant ha due concetti di cui vuole
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mostrare che cosa hanno in comune e in cosa differiscono – innanzitutto mostra cosa hanno in

comune ben chiaramente, poi, dopo, quando questo è saldo, allora passa alla differenza. “Poiché è

chiaro che questo significato ce l’hanno in comune adesso vediamo… però l’uno è così, l’altro è

così”. Posto che la legge morale, cioè la legge fondamentale della ragione pura pratica vale per tutti

gli enti razionali, finiti e infinito, posto questo, è tenuto fermo questo, è vero però che c’è anche una

differenza. Perché l’ente razionale finito, essendo finito cioè dotato di sensibilità è tale che la sua

volontà è sempre sollecitata da inclinazioni sensibili, cioè dal desiderio del piacere, dunque, la legge

della ragione deve imporsi sulla forza, che è l’effetto della forza dei desideri sensibili, delle

inclinazioni sensibili sul soggetto, per questo, e qui c’è tutto quello catena di concetti, la legge

morale per l’ente razionale finito si presenta come un comando, come un imperativo “devi fare

così”, perché la sua volontà per com’è, essendo eccitata e influenzata da forze che lo portano in

altre direzione, tenderebbe a fare altrimenti. Quindi la legge si formula come un comando, un

imperativo, e se si formula come un imperativo vuol dire che mi obbliga, quindi in qualche modo

mi costringe, non fisicamente ma moralmente. Mi dice “tu devi fare così”, mi costringe, perché se

io sono portato, inclinato in altra direzione, è chiaro che resiste, produce una resistenza contro

questa inclinazione. L’inclinazione mi porta in quella direzione ma la legge morale resiste, cioè

produce una opposizione che è per me una obbligatorietà, quindi una coazione, una costrizione.

Ecco perché l’azione che risulta da questo è il dovere, cioè è sempre un’azione fatta per costrizione,

non spontaneamente, non perché ci sia inclinati. Questa è la catena dei concetti, anche se Kant ve lo

esplicita, ma l’aveva già detto, la costrizione non deve essere intesa come una costrizione esterna,

perché altrimenti non sarebbe più libera la libertà. “Sono costretto”, “ma costretto è l’opposto di

libero”, sì, solo però che qui io sono costretto da nessun altro che da me stesso. Allora in questo

caso, costretto non è più l’opposto di libero perché è l’altro significato di libertà, sono

autodeterminato, sono determinato da me. Vi ricordate i due problemi: incondizionato e costretto

sono opposti solo se costretto significa “condizionato da altro”, altrimenti possono benissimo essere

complementari, anzi come già abbiamo visto nei due problemi, e come vedremo è il tema del quarto
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teorema, non solo non sono opposti, ma sono complementari nel significato di libertà. Libertà

significa sia incondizionatezza, cioè non essere condizionato da altri, sia autodeterminazione, essere

determinato da sé. Quindi questa è la modalità in cui la legge morale determina la volontà dell’ente

razionale finito.

“Nell’intelligenza perfettamente autosufficiente”, cioè nell’intelligenza dell’essere

razionale infinito, che non è limitato dalla sensibilità perché la sua ragione è pienamente

autosufficiente, quello che Aristotele diceva “pensiero di pensiero”, atto puro, “l’arbitrio è a buon

diritto rappresentato come incapace di alcuna massima che non potrebbe essere insieme legge

obiettiva, e il concetto della santità”, è la seconda volta che in questa pagina compare, “che

perciò le compete, non la pone certo al di là di tutte le leggi pratiche, tuttavia la pone al di

sopra di tutte le leggi pratiche restrittive, limitative, e quindi dell’obbligatorietà e del dovere”.

La volontà dell’ente razionale infinito, poiché è una volontà che non è condizionata dalle

inclinazioni sensibili, non è che sia una volontà che si sottrae alla legge morale, il punto è che è una

volontà identica alla legge morale, perché la legge morale è la legge della ragione, è la volontà di

Dio, la volontà come ragione pura senza nessuna inclinazione sensibile. Dunque, la volontà di Dio è

sempre è immediatamente identica con la legge morale. Dio agisce sempre secondo la legge morale,

certo, perché la sua volontà è identica alla legge morale. Non è nemmeno pensabile che Dio agisca

altrimenti che secondo la legge morale, perché vorrebbe dire che agisce per una qualche altra

inclinazione, che necessariamente dovrebbe essere ascritta alla sensibilità, e Dio non ha la

sensibilità. Dunque, la sua volontà è immediatamente identica con la legge morale, il che vuol dire,

per conseguenza, l’opposto di tutta quella catena di conseguenze che abbiamo visto per l’ente

razionale finito. Là si diceva, la legge morale si presenta come un imperativo, come un comando,

invece, per Dio non si presenta come un comando e come un imperativo. La legge morale costringe,

obbliga, è coazione rispetto alla volontà dell’ente razionale finito, mentre per l’ente razionale

infinito non costringe, non obbliga, non è coazione. Quindi, l’azione morale per l’ente razionale

finito è dovere mentre per Dio non è dovere, ma è puro amore. Tutto questo è ciò che noi diciamo
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quando diciamo che la volontà di Dio è una volontà santa. Santa significa questo, è la volontà

immediatamente e perfettamente identica con la ragione e quindi con la legge morale. In questo

modo Kant prende posizione rispetto a un altro dei tanti problemi classici della storia del pensiero

occidentale, cioè sin dal Medioevo, ma fin dalla filosofia greca, sin dal Socrate di Platone, cioè il

rapporto tra intelletto e volontà. Se l’intelletto determina la volontà allora come possiamo dire che

la volontà è libera? O se la volontà è indipendente dall’intelletto allora, però, come possiamo dire

che sceglie se non ha dall’intelletto un criterio per scegliere, se l’intelletto non le dice cos’è il bene?

Se c’è un rapporto, ma non un rapporto necessitante, allora che rapporto c’è? Nel Medioevo è

ampio questo dibattito tra intellettualisti e volontaristi, e una declinazione classica di questo

problema è quella teologica. Si può porre un problema per la volontà nell’uomo, si può porre un

problema per la volontà di Dio. Dio ha creato il mondo, il mondo è determinato secondo delle leggi

razionali, queste leggi valgono perché Dio le vuole o Dio le vuole perché valgono? La volontà di

Dio è indipendente dalle leggi della ragione o è dipendente dalle leggi della ragione? Se è

dipendente c’è il problema dell’immanenza di Dio, se è indipendente c’è il problema

dell’irrazionalità della volontà Divina. Anche questo è un altro aspetto di quel rapporto tra intelletto

e volontà che è una delle questioni che hanno attraversato tutta la storia del pensiero occidentale.

Per Kant è chiaro: la volontà di Dio non è indipendente dalla ragione. Il problema del rapporto tra

volontà e ragione in Dio, Kant lo risolve non con una indipendenza, ma nel senso opposto, con una

identità. Non c’è nessuno scarto tra la ragione e la volontà in Dio perché sono identici, per questo

noi diciamo che la volontà di Dio è santa. Se la volontà di Dio è santa, tuttavia è determinata dalla

legge della ragione, dalla legge morale, come quella dell’uomo, in questo modo differente perché

identica. Però la stessa legge morale vale per Dio come per uomo – allora la santità di Dio non è

certamente la situazione dell’uomo, perché la volontà dell’uomo non è santa, perché non è

immediatamente identica con la legge morale, al contrario, l’uomo in quanto ente razionale finito è

sollecitato da inclinazioni sensibili e quindi la legge della ragione gli si deve imporre come un

comando, è tutto quello che abbiamo detto. Quindi non è certamente santa la volontà dell’uomo,
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quindi tra la volontà dell’ente infinito e la volontà dell’ente finito non c’è una differenza

inconfrontabile perché comunque hanno in comune questo dato fondamentale: che sono tutte e due

volontà in rapporto con la legge della ragione. Il rapporto dell’ente infinito è quello della santità, il

rapporto che l’ente finito ha con la legge morale non è quello della santità, perché la sua volontà

non è immediatamente identica con la legge morale ma deve diventare sempre più consona alla

legge morale, sempre più conforme alla legge morale. Per questo la legge gli si propone come un

comando, deve diventare sempre più conforme alla legge morale. Dunque, l’ente morale è

impegnato, l’ente finito è impegnato in uno sforzo per rendere la propria volontà sempre più

conforme alla legge morale, questo sforzo ha un nome: si chiama moralità. Allora vedete la moralità

non è la santità. Là dove c’è la santità non c’è la moralità. L’ente santo non ha bisogno di essere

morale perché non ha bisogno di sforzarsi per conformare la sua volontà alla legge morale, che è già

identica, e l’ente morale non è Santo perché c’è sempre uno sforzo tra la sua volontà e la perfetta

adeguazione alla legge morale. Tuttavia, moralità e santità non sono due concetti disparati. Ora si

tratta dunque di vedere che cosa hanno di analogo, ma anche che cosa hanno di differente.

Ricordate, nella nota Kant ragionava sulla validità incondizionata della legge morale, che è

valida per tutti gli enti razionali perché è la legge della ragione. Quindi per l’ente razionale finito e

per l’ente razionale infinito, Dio: con una differenza però, che per l’ente razionale finito vale nella

forma di un comando, perché, essendo finito, cioè dotato di sensibilità, la sua volontà è sempre

sollecitata da inclinazioni del desiderio del piacevole, del desiderio sensibile, e quindi la legge

morale deve imporsi resistendo alle inclinazioni, opponendosi a queste inclinazioni e quindi la legge

morale ha sempre la forma dell’imperativo categorico, implica sempre una costrizione, una

coazione, una obbligatorietà.

Obbligatorietà è un termine giuridico e quindi l’azione che ne è determinata si costituisce

sempre come un dovere e non come un atto spontaneo, come un atto d’amore – ricordando che il

movente nella spontaneità dell’azione è quello che intendiamo come amore. Mentre per l’ente

razionale infinito, poiché la sua volontà è immediatamente identica con la legge morale, dunque, la
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legge vale ed è già sempre e unicamente il motivo determinante della sua volontà, non è che venga

prima della sua volontà, è identica alla sua volontà, quindi, la legge non ha la forma dell’imperativo

e l’azione non si configura come una costrizione, come una obbligatorietà, né come un dovere.

Questa situazione è quella che Kant chiama santità, in senso morale, ed è propria solo dell’ente

razionale infinito. L’ente razionale finito non è mai santo, perché vorrebbe dire che la sua volontà è

immediatamente identica con la legge morale e questo non è, perché ci sono le inclinazioni

sensibili, quindi la condizione dell’ente razionale finito è la moralità, la tensione a adeguare sempre

meglio la propria volontà alla legge morale. Fatta questa distinzione bisogna anche essere in chiaro

sul rapporto tra queste due situazioni: la santità e la moralità, perché se noi ci fermiamo alla

distinzione, diciamo la santità è la condizione di Dio, la moralità è la condizione dell’uomo e basta;

sono due condizioni disparate, diverse e non c’è nessun rapporto. Invece non è così. Il rapporto c’è

ed è importante chiarirlo.

“Questa santità della volontà è nondimeno un’idea pratica, che deve fungere

necessariamente da archetipo (Urbild), approssimarsi infinitamente al quale è l’unica cosa che

spetti a tutti gli enti razionali finiti,” sta parlando della santità “e che è tenuta costantemente ed

esattamente davanti ai loro occhi dalla pura legge morale, la quale perciò si dice essa stessa

«santa»; e la sicurezza del progresso all’infinito delle proprie massime e della loro immutabile

capacità di migliorare continuamente – ossia la virtù – è la cosa somma che possa cagionare

alla ragione pratica finita, la quale a sua volta – almeno in quanto facoltà naturalmente

acquisita – non può mai essere compiuta, poiché la sicurezza in tal caso non diventa mai

certezza apodittica, e, come persuasione è molto pericolosa”. Un passo interessante.

Innanzitutto, vi faccio notare che qui c’è una definizione: la definizione di virtù: “la sicurezza del

progresso all’infinito delle proprie massime e della loro immutabile capacità di migliorare

continuamente, ossia la virtù”. Cos’è la virtù? Definizione: la sicurezza del progresso all’infinito

delle proprie massime e della loro immutabile capacità di migliorare continuamente.

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Poi vi faccio notare un altro aspetto terminologico: all’inizio di quanto abbiamo letto dice

che “la santità della volontà è un’idea pratica per l’ente razionale finito” e cosa sia un’idea

l’abbiamo già visto, è qualcosa che è possibile pensare, e pensare questa idea ha un significato

regolativo: l’idea ha un significato regolativo non solo in campo teoretico, ne abbiamo parlato, ma

anche in campo pratico. La santità è idea regolativa della moralità, cioè la moralità non è santità, il

significato della santità non è il contenuto del significato della moralità, però indica la direzione

verso cui muove quella conoscenza, che è la conoscenza razionale pratica, cioè la moralità. La

moralità ha un orizzonte di riferimento, così come l’orizzonte sistematico per la conoscenza

teoretica, e questo orizzonte di riferimento è l’idea della santità, perché se non ci fosse questo

orientamento dato dalla funzione regolativa dell’idea della santità non ci sarebbe nemmeno la

moralità, perché non ci sarebbe la virtù, che è l’azione morale. La virtù è appunto la sicurezza della

capacità, non del fatto, ma della capacità di progredire nella moralità, cioè nello sforzo di adeguare

sempre meglio la volontà alla legge morale. “La sicurezza nella capacità di progredire nella

moralità infinitamente”, ma infinitamente non vuol solo dire che non finisce mai ma vuol dire verso

una direzione che è quella del suo compimento, cioè la santità.

Vedete, progredire infinitamente nel senso kantiano significa certamente che, poiché si tratta

di un progresso infinito, non può mai essere compiuto, perché altrimenti non sarebbe infinito, certo

vuol dire anche questo, e quindi come Kant dice nelle ultime linee “non può mai essere compiuto”,

perché in tal caso la sicurezza di progredire diventerebbe “certezza apodittica di aver raggiunto ciò

verso cui si progrediva, e come persuasione è pericolosa”. Se noi pensassimo, in qualunque

situazione, di essere giunti così avanti nel nostro progresso morale da aver compiutamente

raggiunto la santità, questo non solo sarebbe falso ma sarebbe anche molto pericoloso. Sarebbe

molto pericoloso perché questo è il fanatismo morale, è la condizione di chi è convinto di essere

buono, di possedere completamente e stabilmente la realtà della legge morale e si comporta di

conseguenza, e la conseguenza la vediamo in ogni fanatismo: la persecuzione di tutti gli altri,

l’incapacità di confrontarsi con gli altri. Dunque, progredire infinitamente ha certamente anche
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questo significato, che il progresso verso la santità non è mai compiutamente realizzato, però

significa anche che questo progresso ha una direzione che è l’idea della santità. Questa direzione è

ciò che fonda la sicurezza della mia capacità immutabile, perché è molto importante la scelta delle

parole che fa Kant, “immutabile capacità di progredire”.

Questo è molto importante, perché è un passo che ci dice il modo in cui Kant intende il

concetto di progresso, almeno nel senso di progresso morale ma poi in fondo anche nel senso di

progresso storico, però qui parliamo del progresso morale. Il concetto di progresso è un concetto

importante in tutta la cultura illuministica, questo è chiaro, è una sorta di certezza fondante nella

cultura illuministica, perché è complementare con quell’altra certezza fondante, che la ragione è in

tutti gli uomini. È complementare con questo perché se tutti gli uomini sono razionali, hanno in sé

la voce della ragione, tutti gli uomini quindi sono capaci di progresso verso una realizzazione

razionale della realtà, e razionale in senso pratico significa secondo la legge morale.

Allora, vedete, e qui vengo al chiarimento terminologico a cui avevo accennato, ecco perché

Kant, all’inizio di questo passo scrive che la santità è “nondimeno un’idea pratica che deve fungere

necessariamente da archetipo (Urbild), approssimarsi infinitamente al quale è l’unica cosa che spetti

a tutti gli enti razionali finiti”. Noi conosciamo già questo operare della traduttrice, quando nella

traduzione di una parola particolarmente, pregnante, cerca di tradurla con un termine italiano,

questo è giusto perché un traduttore deve tradurre tutto, però anche quando la traduzione da sé non

esaurisce tutto, allora mette tra parentesi, in corsivo, il termine tedesco. Avevo già fatto notare che

di per sé questo non avrebbe senso in una traduzione che ha il testo tedesco a fronte, quindi se uno

vuole sapere qual è la parola tedesca va a vedere la pagina di sinistra, ma se lo fa è per dire: “io

traduco archetipo, traduco con il termine archetipo la parola kantiana Urbild”. Questa traduzione, in

questo caso, è particolarmente adatta, non solo perché del tutto letterale, Urbild significa tipo

originario, figura originaria, meglio di tutto forma originaria, forma visibile, nel senso di

conoscibile, che è esattamente il significato della parola greca, perché archetipo è una parola

italiana ma è un grecismo che significa appunto forma originaria, tipo originario. Ma non solo
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questa traduzione è adatta perché è un calco letterale della parola tedesca, ma perché mette in

evidenza come la parola tedesca scelta da Kant sia un calco di quella greca; cioè Kant qui, come in

tanti altri luoghi, esplicitamente adotta una terminologia che è evidentemente quella platonica.

Anche perché subito prima ha parlato di idea pratica.

Dunque, Kant evoca la terminologia platonica, e lo fa intenzionalmente, perché la

terminologia ci riporta alla concettualità platonica, e la relazione che Kant vuole chiarire tra santità

e moralità è esattamente quella che Platone poneva tra le idee e i fenomeni: le idee sono il vero

essere, i fenomeni sono apparenze, questa è la differenza per Platone, ma non c’è solo una

differenza, accentuare unilateralmente la differenza tra idee e fenomeni è un grave errore che porta

a fraintendere il pensiero platonico, è l’errore che ha fatto Aristotele, che è peraltro l’allievo di

Platone, che ha accentuato il chorismos, cioè la separazione tra idee e enti. In Platone c’è la

separazione, ma c’è anche la relazione, perché le idee sono archetipi per i fenomeni, i fenomeni

sono tanto più, quanto più, partecipano delle idee, sono simili all’idea. Un cavallo è un cavallo in

tanto in quanto realizza in sé l’idea di cavallo, allora, l’idea di cavallo è l’archetipo a cui tende ogni

fenomeno cavallino. Un cavallo è un buon cavallo tanto più quanto più è un cavallo secondo l’idea

di cavallo, e potrei continuare a cercare di esprimere la cosa in mille altri modi, ma questo vuol dire

che certamente le idee sono separate dalle cose, perché nessun cavallo fenomenico è l’idea

compiutamente realizzata di cavallo, ma anche che c’è un rapporto tra le idee e le cose, perché le

idee sono il dover essere dei fenomeni, ciò che i fenomeni devono essere per essere se stessi.

Dunque, la dimensione del dover essere dell’idea è archetipo, cioè è modello originario a cui ogni

essere fenomenico tende o deve tendere per adeguarsi alla propria idea, quindi sì, il dover essere è

differente dall’essere, questa differenza del dover essere dall’essere è insuperabile, guai se noi la

cancelliamo: se cancelliamo la differenza ontologica tra dover essere e essere tutto è ridotto

all’essere, c’è una pura immanenza e tutto è fatto e allora, come dicevamo altre volte, non c’è più lo

spazio per l’etica. Per riconoscere la realtà nella sua pienezza, dobbiamo riconoscere che la realtà ha

una dimensione che è l’essere e una dimensione che è il dover essere di quest’essere, che è
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differente, c’è uno scarto mai pienamente colmabile. Qui dice “un progresso infinito mai

pienamente compiuto”. Però questo scarto è una relazione, perché questo scarto è una tensione o

perlomeno indica la direzione di una tensione dell’essere realmente esistente verso ciò che deve

essere. Quindi il dover essere è differente dall’essere ma non è una differenza che significhi una

separazione. E’ vero che in un mito, in una narrazione metaforica, Platone parla dell’iperuranio

come luogo delle idee, ma siamo in una narrazione metaforica, non è questa la sua concezione

filosofica, il luogo del dover essere non è separato dall’essere, è dentro l’essere. Il dover essere è

differente dall’essere ma è dentro l’essere, non ha altro luogo che l’essere, è una differenza

all’interno dell’essere. Per cui l’essere non può mai stare quieto in sé, l’essere finito naturalmente, a

differenza dell’essere infinito, quello che per definizione è quieto in sé. Perché è quieto in sé?

Perché nell’essere infinito, che è l’Uno originario, non c’è questa differenza, non c’è questa

tensione, ma nell’essere finito c’è questa inquietudine, questa tensione. Non sto parlando di tensioni

esistenziali, sto parlando di ontologia. L’essere ha in sé una tensione verso ciò che deve essere.

Questo significa che il dover essere, l’ideale, non ha altro luogo che il reale, ma che questo suo

abitare il reale fa sì che il reale non possa mai stare quietamente soddisfatto di sé, ma ci sia una

tensione al proprio dovere essere.

Questa impostazione ha una quantità di implicazioni importantissime, ma mi limito a quella

di cui qui Kant parla per le sue applicazioni sul concetto di progresso. Certamente Kant condivide il

grande ideale del progresso illuministico, così come il grande ideale della razionalità universale,

però il concetto di progresso nella cultura illuministica, e anche in quella più tarda, ottocentesca, per

esempio scientista ecc., ha avuto molti significati differenti. Non perché la parola avesse più

significati. Si sono attribuiti alla parola “progresso” una quantità di significati differenti tra loro e

addirittura inconciliabili, quella più corrente, nota e oggi più vituperata, ma da una parte vituperata

dall’altra parte trionfante, e questa idea del progresso come un processo necessario, inevitabile, che

non torna mai indietro, sicuro, sempre verso il meglio e verso l’ottimo. Questo ottimismo ingenuo e

scriteriato, irrazionale, è anche fanatico, perché parlare della nostra realtà come di una realtà in un
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sicuro e trionfante progresso inarrestabile è penoso se pensiamo a tutta la sofferenza che c’è nel

mondo e a tutta la barbarie che c’è nel mondo. Perché l’illuminismo aveva la grande speranza di

superare definitivamente la barbarie, ma non c’è riuscito. Oggi è facile pensare che, essendo noi

dopo l’opera dell’illuminismo, non siamo più in un mondo barbaro, in una società barbara, perché

c’è stato l’illuminismo, ma non è vero. La nostra società è una società barbara, è ancora una società

in cui le dinamiche sono le guerre per bande, la rapina, l’uccisione, l’assassinio, la prevaricazione,

la distruzione. Oggi parliamo della distruzione dell’ambiente, del tutto forsennata, del tutto

incontrollata, esattamente come poteva essere nelle campagne italiane nel IX, nel VIII, nel VII

secolo. Purtroppo, è così. Certo, ciò che c’è di nuovo è che c’è stato l’illuminismo, che non ha

cambiato la situazione, però ha introdotto un principio di critica, e quello per fortuna finora rimane.

Però progresso può voler dire quello, ed è evidente che è una concezione falsa del progresso,

addirittura provocatoria, scandalosa, ma badate, vi dicevo, è una concezione oggi tanto vituperata

ma d’altra parte anche molto coltivata, perché tutta l’apoteosi della tecnologia, che siamo costretti a

constatare e che spesso ha questa colorazione del tutto ingenua, irresponsabile: “con la tecnologia

risolveremo tutto, tutto andrà meglio, tutti i problemi saranno superati, ci vorrà qualche chip in più,

è una questione di chip”. Questo che cosa ha di differente da quella concezione stupida del

progresso?

Ma quella di Kant non è questa concezione del progresso. Kant parla del progresso, qui

parliamo del progresso morale, ma varrebbe anche per il progresso storico, che per Kant è un

progresso morale. Il progresso è la sicurezza, la certezza, non che si andrà verso il meglio, ma

dell’interrotta capacità di andare verso il meglio: dire che siamo capaci di migliorare non vuol dire

che miglioriamo.

La certezza che siamo capaci di migliorare non significa la certezza che miglioriamo,

significa che possiamo migliorare o peggiorare, ma anche se ci peggioriamo, sappiamo che

possiamo migliorare. Questa certezza, questa capacità è immutabile, la certezza che possiamo

migliorare sempre, perché questa capacità di migliorare è immutabile, non importa se anche
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abbiamo peggiorato, possiamo essere tornati indietro, per tornare alla metafora del progresso,

possiamo aver compiuto un regresso, anche un regresso profondo e grave, fino all’infimo livello

della moralità, fuori di metafora, possiamo esserci macchiati delle colpe più atroci: sempre, da

qualunque punto del nostro percorso, anche da questo, il più basso di tutti, esattamente da lì può

incominciare il nostro progresso. “Mio Dio quanto sono caduto in basso” è una affermazione che

nella sfera della moralità non ha senso; certo che importa, ma ai fini del progresso morale non

importa quanto sono caduto in basso. Non c’è un punto da cui posso progredire e un altro da cui non

posso più progredire, da qualunque punto posso progredire, questo è molto importante nel concetto

di progresso, questo è un aspetto per cui il concetto di progresso è un concetto morale e non un

concetto sacrale.

L’ultima cosa che voglio dire: Kant insiste in questo testo che abbiamo letto, “la certezza

della capacità immutabile di un progresso infinito”, insiste che infinito vuol dire che nessuno può

mai pensare di averlo compiuto, non che nessuno può pensare di aver fatto un progresso, ma di aver

compiuto la via del progresso e di aver raggiunto completamente la santità. Anzi, dice Kant, è molto

pericoloso pensarlo. Attenzione progresso vuol dire questo, vuol dire che è infinito nel senso che

mai è compiutamente realizzato, ma vuol anche dire, e non bisogna togliere questa parte perché

altrimenti si tradisce il significato di progresso, che se non è mai compiuto però, in ogni suo passo,

è effettivamente realizzato. Il progresso in senso kantiano vuol dire un procedere verso il

miglioramento, nessun passo all’infinito sarà la compiutezza di questo processo, ma ogni passo è

realmente un passo del processo, è realmente un miglioramento. Questo è molto importante, questa

è una caratteristica del concetto critico di progresso a cui dovete fare attenzione perché se togliete

questo e lasciate solo l’altra parte, che il progresso è un processo infinito e quindi mai compiuto, poi

cadete in una mentalità romantica, che è sensibile solo alla tensione all’infinito. Anche il pensiero

critico è una tensione all’infinito, lo vediamo per esempio in questa concezione del progresso che è

una tensione all’infinito, verso la santità, però nella mentalità romantica l’altra faccia della tensione

all’infinito è l’ironia per il finito. Se solo l’infinito vale allora tutto ciò che è finito non vale niente.
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L’ironia è un sorriso stretto, con la bocca stretta, all’ingiù, è un sorriso di disprezzo verso il finito,

mentre il pensiero critico è un pensiero che ha in sé forte la tensione verso l’infinito ma l’altra

faccia della tensione all’infinito non è l’ironia, ma lo humour. Anche lo humour è un modo di

sorridere, ma è tutto un altro sorriso, è un sorriso arcuato, con gli estremi in su, è un sorriso

benevolo, perché la tensione critica all’infinito sa con certezza che ogni realizzazione parziale,

difettosa, mancante, imperfetta, miserrima del bene, per quanto abbia tutte queste manchevolezze, è

una realizzazione del bene. Non solo, molto di più. Non solo è una realizzazione del bene, ma l’idea

del bene non sta altrove che in queste sue realizzazioni parziali.

Un’ultima cosa, vedete che allora nel rapporto tra moralità e santità Kant dice “per questo

noi diciamo santa anche la legge”, non solo l’ente razionale infinito è detto santo, ma anche la legge

morale è santa, perché la legge morale è identica con la volontà dell’ente razionale infinito.

Siamo al teorema quarto, con il solito impianto di un teorema. “L’autonomia della volontà

è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri ad esse conformi; invece ogni

eteronomia dell’arbitrio non solo non è il fondamento di nessuna obbligatorietà affatto, anzi, è

avversa al suo principio e alla moralità della volontà”. Dunque, questo teorema ha due tesi: la

prima è “l’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri ad esse

conformi”, la seconda tesi, leggete bene, non dice solo che, invece, l’eteronomia della volontà non è

il principio, perché altrimenti non sarebbe una tesi, è chiaro che se l’autonomia della volontà è

l’unico principio, l’eteronomia non è il principio, non sarebbe una tesi. Ma dice qualcos’altro:

“invece ogni eteronomia dell’arbitrio non solo non è il fondamento di nessuna obbligatorietà affatto,

anzi, è avversa al suo principio e alla moralità della volontà”. Quindi dice qualcosa in più, dice che

ogni eteronomia non solo non è il principio, ma si oppone al principio. Ogni principio eteronomo si

oppone alla legge morale, non solo non può fondarla, ma la impedisce.

Notate come ormai la terminologia, a proposito di quella famiglia di termini che, abbiamo

detto, pian piano viene precisandosi, cioè facoltà di desiderare, volontà, ecc. ormai è stata

puntualizzata. Infatti, qui Kant dice “l’autonomia della volontà”, ma non dice ogni eteronomia della
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volontà, ma dell’arbitrio, perché quella facoltà di desiderare che non è determinata dal principio

razionale non è propriamente la volontà, ma semplicemente l’arbitrio. Ormai, come vi dicevo, il

termine volontà, quando non è specificato (talvolta è addirittura specificato, volontà pura, ecc.)

indica la volontà pura. La facoltà di desiderare determinata empiricamente o comunque determinata

in modo eteronomo non è propriamente volontà. Anche terminologicamente ormai questa

distinzione è fissata.

Allora, vediamo la dimostrazione della prima tesi: “ossia: l’unico principio della moralità

consiste nell’indipendenza da ogni materie della legge (e cioè da un oggetto desiderato)”

(primo e secondo teorema) “ma insieme” l’unico principio della moralità consiste “nella

determinazione dell’arbitrio da parte della mera forma legislativa universale, di cui nella

massima deve essere necessariamente capace” (terzo teorema). Ricapitola il percorso fatto,

quindi due significati: la libertà come indeterminazione, come arbitro, come incondizionatezza; la

libertà come autodeterminazione, come determinazione della volontà solo da parte della ragione in

quanto forma. “Ma quell’indipendenza è libertà in senso negativo, mentre questa attività

legislatrice propria della ragione pura e in quanto tale pratica è libertà in senso positivo”.

Adesso dà anche un nome a questi due significati della libertà, la libertà trascendentale, cioè libertà

come incondizionatezza è libertà in senso negativo, che non vuol dire che non è libertà, ma è libertà

definita come non condizionato, in senso negativo, perché è definita nel significato di non essere

condizionato, e la libertà invece come autonomia è la libertà in senso positivo. Vedete, che il lavoro

fatto adesso arriva alla sua piena maturità.

“Dunque la legge morale non esprime altro che l’autonomia della ragione pura pratica

ossia” qui c’è nella versione che io leggo e in quelli che molti di voi hanno, “ossia della libertà” e

questa è effettivamente la traduzione letterale del testo tedesco, però non ha senso. Perché

autonomia della libertà è un’espressione che non ha significato, perché l’autonomia è la definizione

della libertà. Sicché, non che io voglia correggere Kant, ma bisognerebbe vedere nell’edizione della

Accademia, cioè nell’editio princeps: può darsi che ci sia anche là un suggerimento di correzione,
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talvolta i curatori di quell’edizione, che erano interpreti e studiosi di Kant, indicano dove loro

sembra proprio che ci sia un refuso, un errore, allora indicano una possibile correzione. Comunque

mi sembrerebbe più sensato che Kant scrivesse: “dunque la legge morale non esprime altro che

l’autonomia della ragione pura pratica ossia la libertà”, perché l’ha detto prima che l’autonomia

della ragione pura pratica è la definizione positiva della libertà e quindi non ha senso parlare

dell’autonomia della libertà, al più autonomia della volontà, quindi io suggerisco di leggere “la

libertà”.

“E quest’ultima è la condizione formale di tutte le massime, alla quale soltanto esse

possono concordare con la suprema legge pratica”. Attenzione anche qui a leggere giusto. Non

c’è punteggiatura nella traduzione che vi aiuti, ma dovete leggere in modo giusto, altrimenti cambia

tutto. “Alla quale soltanto”, cioè soltanto alla libertà come condizione formale, possono concordare,

non dovete leggere “alla quale soltanto esse” che non ha nessun senso: “alla quale soltanto, esse

possono concordare”.

“Quindi se la materia del volere, che non può essere altro che l’oggetto di una brama

che viene connessa con la legge, interviene nella legge pratica quale condizione della possibilità

di quest’ultima, ne consegue l’eteronomia dell’arbitrio, ossia la dipendenza dalla legge di

natura, che induce a seguire qualche impulso o inclinazione, e la volontà non dà a se stessa la

legge, ma solo la prescrizione per osservare razionalmente leggi patologiche; ma la massima,

che in questa maniera non può mai contenere in se la forma legislativa universale, in tal modo

non solo non fonda nessuna obbligatorietà, ma è perfino in contrasto con il principio di una

ragione pratica pura, e perciò anche con la convinzione morale, anche qualora l’azione

derivatane dovesse essere conforme alla legge”. Questa è la dimostrazione della seconda tesi.

Sono dimostrazioni semplici. La prima tesi è dimostrata ricapitolando il percorso fatto: poiché

nessun principio materiale può essere il principio di una ragione pura pratica, ma solo il principio

formale come principio di determinazione della volontà, dunque, l’autonomia è l’unico principio di

tutte le leggi morali.


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Ora la dimostrazione della seconda tesi è anch’essa semplice: se solo l’autonomia può essere

il principio di tutte le leggi morali, ogni determinazione della volontà da parte non della sola forma

e quindi della materia, non solo non può essere il principio che fonda la legge morale, ma anche la

rende impossibile, la impedisce. Questa aggiunta è importante, perché è questo quello che si chiama

il rigorismo kantiano. Rigorismo è un termine appropriato per indicare l’impostazione kantiana ma

non significa vagamente che Kant era uno che non perdonava niente, rigorismo kantiano significa

che la sua concezione morale è tale per cui non solo la legge morale è fondata sul principio formale

della ragione, ma che deve essere fondata solo sul principio formale della ragione, solo su questo.

Qualunque motivo determinante eteronomo, anche accanto a quello autonomo, distrugge la

moralità.

Nessun principio eteronomo deve intervenire come motivo determinante, anche solo accanto

a quello puro. Questo non significa, ve lo ripeto, che non possa essere contento quando agisco bene,

questa è un’altra questione, ma non deve essere un motivo che mi determina ad agire. È chiaro che

sono contento se mi applaudono e mi approvano, ma non solo non deve essere un motivo che mi

determina ad agire invece che la pura legge formale della ragione, ma anche solo accanto alla pura

legge formale della ragione.

Ancora un attimo, perché qui interviene una parola e quindi anche un concetto che è molto

importante nel discorso kantiano e che sarà il tema del terzo capitolo: cioè quel concetto che la

traduttrice traduce con “convinzione”. Vedete che la traduttrice è consapevole di fare un’operazione

che potrebbe essere discussa, infatti, come suo solito, tra parentesi mette la parola tedesca

Gesinnung, che di per sé non è necessario mettere perché c’è nella pagina sinistra. Perché ce lo

vuole segnalare? Ve lo vuole segnalare perché questa è una parola importante nel discorso kantiano,

è una parola che ha dato anche luogo a molte interpretazioni di Kant e per di più è una parola che

generalmente i traduttori italiani traducono altrimenti, cioè traducono con “intenzione”.

“Intenzione” è la traduzione più usata dai traduttori italiani, ed è per questo che la traduttrice si

discosta, proprio perché questa traduzione, intenzione, può essere problematica per la storia che ha
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avuto nella interpretazione di Kant, quindi lei, e vedete come tradurre è proprio un’operazione

scientifica di interpretazione, prende le distanze da quella parola e dice ‘no, io ne uso un’altra’,

anche se in questo modo mi discosto dalla tradizione abituale, lo faccio appunto per discostarmi e

evitare al lettore di cadere nelle ambiguità della traduzione “intenzione”. Questo perché, per il ruolo

che questa parola ha nel discorso kantiano, è stata motivo di una delle tante false etichette che sono

state appiccicate alla concezione kantiana dell’etica, anche questa arcinota: l’etica di Kant è un’etica

dell’intenzione: questo è stato spesso detto con significato negativo, un difetto dell’etica di Kant è

l’essere un’etica dell’intenzione, cioè che si occupa delle intenzioni ma è indifferente agli effetti che

queste producono. È un’etica della sola intenzione e quindi è un’etica che poi viene accostata alla

“coscienza infelice” di Hegel. Hegel stesso, quando parla della “coscienza infelice” pensa non solo,

ma anche a Kant.

Ora, la parola Gesinnung, nel significato in cui Kant la usa, non significa la vuota

intenzione, non significa la pia intenzione. Quando Kant dice che ogni etica eteronoma è in

contrasto con il principio di una ragione pratica pura e perciò anche con la Gesinnung morale non

intende dire con la vuota intenzione: per questo la traduttrice cerca un’altra parola e usa la parola

convinzione. Ci stanno tutte e due a tradurre Gesinnung, ma il punto è che cosa intende Kant. Allora

che cosa intende Kant? Tanto per non controbattere una interpretazione infondata con altre

interpretazioni fantasiose, che cosa intende Kant lo trovate anche nel terzo capitolo in questa

edizione a pagina 275. Terzo capitolo: Dei moventi della ragione pura pratica, la prima nota che

trovate, nota di Kant evidentemente. Vi ho detto che questo tema della Gesinnung è il tema

principale del terzo capitolo, in quella nota si dice: “di ogni azione conforme alla legge che

peraltro sia avvenuta non in considerazione della legge, si può dire: è moralmente buona

meramente secondo la lettera, ma non secondo lo spirito”. Tra parentesi di Kant trovate

Gesinnung, quindi qui è esplicitamente posta come sinonimo di spirito opposto a lettera.

È chiaro che qui Kant, in questa nota, adotta un caratteristico e noto a tutti lessico paolino,

soprattutto nella Lettera ai Romani, ma anche altrove, dove dice che “bisogna osservare la legge
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secondo lo spirito e non solo secondo la lettera”. Del resto, anche nei Vangeli Gesù se la prende con

coloro che rispettano ogni dettaglio della legge secondo la lettera ma non secondo lo spirito, ci sono

infiniti luoghi dove questo si può trovare. Kant qui intenzionalmente riprende questo lessico

paolino, seguire la legge non solo secondo la lettera ma secondo lo spirito e tra parentesi mette

Gesinnung. Dunque, Gesinnung ha questo significato. Questa distinzione è quella che in questo

passo del terzo capitolo, ma anche in altri luoghi che incontreremo, per Kant discrimina tra legalità

e moralità. Legale è un’azione conforme alla legge: se io agisco in modo conforme alla legge agisco

in modo legale. Morale è qualcosa di più, è un’azione che non solo è conforme alla legge ma è

anche fatta solo per la legge, in cui la legge non è solo il motivo determinante oggettivo della mia

azione ma è anche il motivo determinante soggettivo. Dunque, è chiaro che ogni azione morale è

anche legale, ma non necessariamente ogni azione legale è anche morale, perché un’azione per

essere morale deve essere non solo conforme alla legge ma anche fatta unicamente a motivo della

legge. Questo è il senso di Gesinnung, tradotto con intenzione, che non c’entra niente con la mera

intenzione o l’indifferenza agli effetti e alle conseguenze, ma indica che non solo la legge morale è

ciò che mi determina oggettivamente, ma anche soggettivamente.

Direi che in quella nota nel terzo capitolo Kant chiarisce in modo inequivoco la questione,

però siccome questo termine “intenzione” porta con sé tutta una storia di misinterpretazione, la

traduttrice preferisce evitarlo e ne usa un altro, volutamente, e secondo me è intelligente a farlo. Qui

mi fermo perché il discorso sulla Gesinnung è soprattutto il tema del terzo capitolo.

Prima nota, voi vedete che ci sono due note prima che finisca l’intero capitolo, note al IV

Teorema. “Dunque non si deve mai ascrivere alla legge pratica una prescrizione pratica che

comporti una condizione materiale (e perciò empirica).” (primo teorema, se è materiale è

sempre empirica) “Infatti la legge della volontà pura, che è libera, pone quest’ultima in una

sfera del tutto diversa da quella empirica, e, poiché la necessità che tale legge esprime non

deve essere una necessità naturale, può consistere esclusivamente di condizioni formali della

possibilità di una legge in genere”. Il comando della legge morale è necessario e necessitante, ma
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non nel senso della necessità fisica, altrimenti vorrebbe dire che la volontà non è più libera perché

necessario è opposto a libero, non possiamo fare giochi di parole. Necessario è l’opposto di libero,

se qualcosa è necessario non è libero, se qualcosa è libero non è necessario. Qualunque capriola non

ci permette di smuovere quest’opposizione, ma questo per quanto riguarda la necessità fisica, cioè

la necessità teoretica. La causalità libera è differente dalla causalità necessaria, lo abbiamo già

detto, e come noi non dobbiamo cercare di conoscere i fenomeni naturali se non mediante la

causalità necessaria e mai attraverso la causalità libera, noi non possiamo conoscere i noumeni, cioè

le intenzioni e le azioni della volontà, se non mediante la causalità libera, non mediante la causalità

necessaria. Quindi quando diciamo che la legge morale è necessaria noi non lo diciamo nel senso

della necessità fisica, della causalità naturale, ma nel senso della necessità morale.

Già vi avevo fatto notare la differenza tra il concetto di possibilità fisica e di possibilità

morale. Adesso vediamo la differenza tra necessità fisica e necessità morale. La necessità morale

non è quella fisica, non significa che non c’è libertà, ma significa l’obbligatorietà del comando: tu

devi. “Tu devi” è un comando che non mi permette nessuno scostamento dal suo comandare, “tu

devi”, non è che è “meglio se”, “ti consiglio”, lo abbiamo visto in un passo che abbiamo letto

precedentemente: è l’obbligatorietà del comando categorico, questo si intende per necessità in senso

morale. È una costrizione, ma non è una costrizione fisica è una costrizione morale. Vi ricordate,

torneremo sempre a quella frase perché è estremamente compendiosa: “non so cosa farò, ma so che

posso perché devo”. È chiaro in questa frase che “devo” significa una necessità con cui mi è

comandato quello che devo fare, ma allo stesso tempo non toglie che posso fare altrimenti. Non è

una necessità fisica, fenomenica, è una necessità noumenica. Ora, questa necessità morale, questa

necessità noumenica, a differenza di quella fenomenica non è opposta alla libertà, questo è il punto.

Se io sono necessitato nel senso della necessità fisica allora non sono libero, non c’è niente da fare,

ma se io sono necessitato nel senso della necessità morale, nel senso che la legge morale mi

comanda di fare così, questo non toglie la mia libertà. Perché? Perché, questo è il senso del quarto

teorema, è vero che la legge morale mi obbliga, ma chi mi obbliga? Io stesso, perché io sono la
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ragione che mi obbliga. La ragione, la legge è una legge della ragione, è la ragione che attraverso la

legge morale mi obbliga, ma la ragione non è un principio esterno a me, è la mia ragione, sono io

come ente razionale.

Per questo Kant usa questo termine molto pregnante: autonomia, perché sono un essere

soggetto alla legge che però mi sono dato da me stesso. Io sono allo stesso tempo il suddito e il

sovrano di questa legge. Io sono obbligato ma sono anche la voce della ragione che mi obbliga. Per

questo la necessità dell’obbligo non è contraddittoria con la mia libertà ma al contrario, è la piena

realizzazione della mia libertà secondo quello che abbiamo visto già, perché questo discorso è

incominciato con i due problemi. È lì che pian piano si è maturato e si è approfondito questo doppio

significato negativo e positivo dell’idea di libertà. Io sono libero perché non sono condizionato da

altro, ma questo significato sarebbe lacunoso, manchevole se non fosse arricchito dall’altro

significato, io sono libero, non solo perché non sono condizionato da altro, ma perché sono sovrano

di me stesso, sono padrone di me stesso, sono colui che si autodetermina secondo la legge della

ragione. Allora, vedete, in questo caso la necessità intesa come necessità noumenica non è

contraddittoria con la libertà, ma è esattamente la libertà intesa come causalità libera.

“Ogni materia di regole pratiche poggia sempre su condizioni soggettive, che non

procurano, per gli enti razionali, nessuna universalità che non sia soltanto quella condizionata

(nel caso che io desideri questo o quello, che cosa debba io allora fare per attuarlo)” (è la

situazione degli imperativi ipotetici) “e tutti quanti ruotano intorno al principio della propria

felicità”. Questa non è che una ricapitolazione dei primi due teoremi. “Ora, sebbene sia innegabile

che ogni volere debba necessariamente avere un oggetto, e quindi una materia, tuttavia

quest’ultima non è affatto il motivo determinante e la condizione della massima;” (in una

volontà morale, in una volontà pura) ”infatti se tale materia lo è, la massima non può essere

presentata con una forma universalmente legislativa, poiché l’attesa dell’esistenza dell’oggetto

sarebbe allora la causa determinante dell’arbitrio,” (vedete usa arbitrio, non volontà) “e

dovrebbe essere posta a fondamento del volere la dipendenza della facoltà di desiderare
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dall’esistenza di una qualche cosa; ed essa può essere cercata sempre soltanto in condizioni

empiriche, e quindi non può mai offrire il fondamento per una regola necessaria e

universale”. Questi sono i primi due teoremi, non c’è niente di nuovo.

Quando abbiamo dei passaggi così – ogni tanto Kant ricapitola i passaggi del discorso per

fare poi il passo successivo – è un buon test per voi per vedere se seguite il filo del discorso: se lo

seguite avete acquisito il percorso fatto finora. “Così la felicità di altri enti potrà essere l’oggetto

della volontà di un ente razionale. Ma se fosse il motivo determinante della massima, si

dovrebbe presupporre che noi nel benessere di altri non trovassimo solo un naturale

godimento, ma anche un bisogno, quale comporta, negli uomini, il modo di sentire

simpatetico.” Dunque, qui Kant, continua quel discorso fatto a rate che abbiamo visto lungo le note

sulla felicità che non può essere il principio determinante della volontà morale. Vi ricordate, è un

discorso che va avanti a pezzi, man mano che gli elementi del discorso principale lo permettono.

Qui Kant, in questa nota, propone una tappa ulteriore di quel discorso, cioè presenta una

questione, che potrebbe anche essere una obiezione, alla sua tesi che la felicità non può essere il

principio della legge morale. Va bene, abbiamo visto e ammettiamo che la propria felicità non possa

essere il principio che fonda la legge morale, il principio determinante della volontà morale, ma la

felicità degli altri? Capito qual è la questione? Finora abbiamo parlato della felicità sempre come la

propria felicità, però si può pensare anche di fondare la moralità sul principio della felicità altrui o

addirittura della felicità universale. Questo, in prima apparenza, non è più un motivo egoistico, non

è più un motivo che determina la legge della mia azione in base alla ricerca del mio piacere, perché

la felicità è piacere stabile ma non più mio, ma il piacere degli altri o addirittura il piacere di tutti.

Allora Kant affronta questa possibile obiezione, questa considerazione. La felicità non come felicità

propria, ma come felicità altrui può essere il principio determinante della legge morale? No.

Assolutamente no. Naturalmente non che sia male desiderare la felicità altrui, sempre ricordatevi

questa questione, Kant non sta negando la legittimità della ricerca della felicità, ricordate l’inizio

della prima nota: “la felicità è quanto tutti gli uomini inevitabilmente ricercano” e quindi non ha
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nessuna intenzione di negare quanto sia importante la ricerca della felicità. Il punto non è mai

questo, il punto non è se è male volere essere felici, non è male voler essere felici, è bene voler

essere felici. Il punto è un altro: la felicità può essere il motivo determinante della mia volontà

moralmente determinante? Non se è un buon oggetto, ma se può essere il motivo determinante della

volontà morale. Non può esserlo per tutti gli argomenti che abbiamo visto a partire dai teoremi

stessi, primo e secondo, ma nemmeno nella versione “la felicità degli altri”. Perché la felicità di altri

enti può essere l’oggetto di una volontà di un ente razionale, ma se fosse il motivo determinante

della massima si dovrebbe supporre che noi, nel benessere di altri non trovassimo solo un naturale

godimento ma anche un bisogno “quale comporta negli uomini il modo di sentire simpatetico”.

Cioè, anche la felicità degli altri non può essere il motivo determinante perché, per dirla alla breve,

è pur sempre un principio materiale e quindi come principio materiale cade sotto il primo teorema, è

sempre empirico, perché in un modo più o meno evidente, forse nel caso della felicità degli altri

meno evidente che nel caso della felicità propria, ma anche qui c’è pur sempre la ricerca del

piacere, e il piacere è sempre un motivo empirico.

Perché la felicità degli altri è la ricerca del piacere? Badate, non sto parlando del piacere

degli altri, è ovvio che se io agisco per la felicità degli altri agisco per il loro piacere, perché felicità

è il piacere stabile, ma il punto, dice Kant, è che se io opero per la felicità degli altri, vuol dire che

nel motivo che determina la mia volontà c’è anche sempre, anche se meno evidente, un’attesa di un

mio piacere. Per spiegare questo fa riferimento a un termine, e quindi a un concetto, molto

importante nel pensiero etico del ’600 e del ’700 che è quello di simpatia. Taluni grandi teorici

dell’etica del sentimento morale avevano individuato proprio nella simpatia il sentimento morale,

cioè quello che sta a fondamento dell’agire morale. La simpatia, essendo un sentimento, è empirica,

implica la ricerca e l’attesa di un proprio piacere. Il ragionamento di Kant è che se io sono motivato

nella mia volontà e nella mia azione dalla felicità degli altri è perché la felicità degli altri è qualcosa

che produce anche una mia felicità, sì, io sono soddisfatto nel vedere gli altri soddisfatti, io provo

felicità nel vedere gli altri felici, questa è la simpatia. Kant non nega che negli uomini ci sia questo
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sentimento della simpatia, Kant lo riconosce, ed è molto importante, ma non può essere il motivo

determinante, perché sarebbe un motivo materiale. È vero che io agisco perché gli altri siano felici,

ma anche perché io sia felice del fatto che gli altri siano felici; se non ci fosse questa sorta di

consonanza sentimentale, che è letteralmente simpatia, io non sarei interessato alla felicità degli

altri. Se sono interessato alla felicità degli altri è anche, sempre, perché da essa dipende la mia

felicità.

Ora, per Kant, questa è una inclinazione naturale dell’uomo, non è che la disconosca, ed è

un’inclinazione molto importante. In Kant è un’inclinazione che fa parte di una inclinazione più

complessa, però qui non mi dilungo perché dovremmo entrare nell’antropologia kantiana e qui

invece siamo nella filosofia trascendentale. Ma quando Kant parla sul piano antropologico, parla

della socievole insocievolezza dell’uomo. Gli uomini sono in relazione tra loro in una socievole

insocievolezza, cioè in un rapporto che è insieme un’inclinazione simpatetica, una inclinazione a

incontrarsi, ad andare d’accordo, essere insieme, e allo stesso tempo una inclinazione al conflitto, al

contrapporsi. Ci sono tutti e due questi aspetti nelle caratteristiche antropologiche degli uomini, ma

non solo ci sono tutti e due ma sono complementari, sono due facce della medesima antropologia,

tanto è vero che poi Kant, in certi passi del suo discorso antropologico, arriva perfino a sfruttare

questa complementarietà. Per esempio sostiene che le guerre hanno una funzione in questo, perché

mediante le guerre è vero che gli uomini si uccidono, le guerre sono espressione dell’insocievolezza

degli uomini, sono espressione della loro conflittualità, però allo stesso tempo mediante le guerre gli

eserciti si spostano, gli stranieri entrano in terre che non conoscevano, conoscono i costumi degli

altri e quindi, poi, dopo la guerra, si ha una maggiore conoscenza reciproca: insomma la guerra è un

contatto culturale tra due popoli che poi produce, una volta instaurata la pace, commercio, produce

comunicazione, produce scambio, è motore di socievolezza. Vedete come l’insocievolezza è

complementare alla socievolezza, è evidente che sono contrapposte ma non sono separate, l’uomo

con l’altro uomo è sempre in un rapporto di socievole insocievolezza. Dunque, un aspetto di questa

socievole insocievolezza è la socievolezza che è una inclinazione naturale, la simpatia.


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Quindi in questo Kant partecipa, ed è d’accordo con Hume, per esempio, e con altri

moralisti che davano un grande riconoscimento a questo sentimento. Anche Kant gli dà un grande

riconoscimento, ma non come motivo determinante della volontà, questo è il punto, perché

altrimenti rientra nel primo teorema: è pur sempre un motivo materiale e se è un motivo materiale

vuol dire che, anche se non è così evidente, come nel caso della propria felicità, però anche qui, in

qualche modo, io sono mosso da un piacere mio che mi aspetto, o perlomeno anche da un piacere

mio. Non dico che non mi muove il fare contenti gli altri, il fare felici gli altri, ma in questo fare

felici gli altri mi aspetto anche una mia soddisfazione. Così è chiaro, il caso della felicità degli altri

è ricondotto alla felicità propria ed è quindi soggiacente agli stessi argomenti contro la felicità

propria come motivo determinante.

“Dunque la materia della massima può bensì restare;” cioè si può ed è lecito, è anche

una buona cosa volere la felicità degli altri, “però non deve essere la sua condizione, perché in

tal caso la massima non potrebbe costituire una legge. Dunque la mera forma di una legge,

che limita la materia, deve essere insieme una ragione, un fondamento per assegnare tale

materia alla volontà, ma senza presupporla”. Questa mera forma della legge, è ora che ci

fermiamo e ci riflettiamo sopra. Che cosa significa “la mera forma della legge”? Qui nel testo di

Kant è Form eines Gesetzes, ma in altri luoghi usa il termine Gesetzlichkeit o Geseztmässigkeit,

sono parole composte dalla parola Gesetz che significa legge. Gesetzlichkeit a volerlo tradurre in

modo letterale, ci sarebbe anche la parola in italiano, che è legalità, questa terminazione in ichkeit è

una delle forme che il tedesco ha per fare il sostantivo astratto. È analogo alla terminazione italiano

“ità”. La quantità è il sostantivo astratto del quanto, l’onestà è il sostantivo astratto di essere onesto.

In italiano quella terminazione è una di quelle con cui facciamo il sostantivo astratto. Analogamente

questa terminazione in keit è una delle terminazioni con cui il tedesco fa il sostantivo astratto. Si

potrebbe tradurlo con legalità, solo che è meglio non farlo perché il termine legalità nell’uso italiano

è troppo fortemente connotato giuridicamente, si potrebbe usare e dire: guardate che non ha il

significato giuridico, ma bisognerebbe tutte le volte fare uno sforzo enorme, intellettuale, per “dico
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legalità ma non dico nel senso giuridico”. Quindi è meglio non usarlo, Kant lo usa, abbiamo parlato

oggi della differenza tra moralità e legalità, ma appunto anche qui in un significato giuridico.

Legale è l’azione conforme alla legge, illegale è quella contraria alla legge, ma questo è il

significato giuridico. Morale è l’azione non solo conforme alla legge, ma fatta per la legge.

Allora, Gesetzlichkeit, prendiamo però il senso di questo sostantivo astratto, è l’essere legge

di una legge, ciò per cui una legge è legge, è per dire, ma badate, fate le differenze di distanza

culturale, è come quando diciamo che l’idea platonica rispetto al fenomeno è la cavallinità rispetto

al cavallo. La cavallinità, e ovviamente la cavallinità non esiste, e ciò per cui un cavallo è un

cavallo. Potremmo dire l’essenza, ma l’essenza è un altro termine estremamente compromesso da

tutto il suo sfondo ontologico, è ciò per cui qualcosa è ciò che è. Un cavallo è un cavallo perché ha

la forma del cavallo, non stiamo parlando tanto della forma esterna ma della forma nel senso

dell’essere cavallo, del resto forma è uno dei termini che Platone usa per indicare l’idea, ed è la

componente fondamentale della sostanza in Aristotele, come forma interna, ciò per cui quell’essere

è ciò che è. Un cavallo è un cavallo, “perché è un cavallo ma ha tre gambe? Sì, ma è un cavallo con

tre gambe però è un cavallo”, “ma gli hanno tagliato la coda? Sì, è un cavallo senza coda, ma è un

cavallo”, “ma ha dei tasti con delle cifre scritte sopra? No, allora è una macchina da scrivere, non è

un cavallo con i tasti, è una macchina da scrivere”. Perché se ha tre gambe continua a essere un

cavallo e se ha i tasti non è un cavallo? Capite, è difficile stabilire perché, però tutti capiamo che c’è

un discrimine per cui qualcosa continua a essere sé stesso, continua a essere ciò che è per quante

modifiche o per quante differenze ci siano tra l’una e l’altra, e invece per certe differenze non è più

quella cosa lì. E che cos’è questo? La forma, è questo il senso, è ciò per cui ciò che è, è quello che

è. Ora quando noi diciamo la forma di una legge intendiamo questo: ciò per cui una legge è una

legge, pur con tutte le differenze che ci sono tra le leggi. Però, per quanto grandi siano le differenze,

c’è un motivo per cui diciamo che sono tutte leggi, mentre per un’infinità di altre cose diciamo che

non sono leggi.

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Abbiamo avuto un esempio nella nota alla definizione, in cui Kant nella definizione stessa

dice che alcuni principi sono leggi altri principi non sono leggi. Ma pensate, non solo la differenza

tra le singole leggi, perché ovviamente ogni legge è differente dall’altra altrimenti sarebbe la stessa

legge, se parliamo di due leggi evidentemente sono differenti l’una dall’altra, sono differenti ma

sono leggi tutte e due. Che cos’è questo che hanno in comune? Pensate anche alla differenza ancora

più grande: abbiamo parlato di legge morale, stiamo parlando di legge morale e abbiamo detto tante

volte già che è diversa dalle leggi fisiche, è chiaro che le leggi fisiche non sono le leggi morali, che

ci sono differenze importantissime, però le chiamiamo leggi. Se le chiamiamo leggi vuol dire che

qualcosa in comune c’è. E questo qualcosa in comune è esattamente la forma della legge, che poi

nel caso specifico è l’oggettività, la necessità, l’universalità e il fondamento a priori: questo è ciò

che fa di una legge una legge, che sia una legge fisica, che sia una legge morale, ecc. Se la chiamo

legge è perché intendo questo: è una proposizione dotata di oggettività, necessità, universalità e

quindi è una legge. È dalle sue caratteristiche formali che prende questo significato, non dai suoi

contenuti, dalla sua materia che sono evidentemente differenti per ogni legge.

Quindi la forma della legge è questa, la Gesetzlichkeit è l’essere legge di una legge. Adesso

riempiamo anche di un significato più consistente quel terzo teorema: se la volontà deve essere

determinata da una legge, “questa deve essere tale solo quanto alla forma e non quanto alla

materia”, ma “quanto alla forma” vuol dire qualcosa di molto importante, non è la vuota forma:

deve avere questa validità oggettiva, necessaria e universale. Ecco perché quella formulazione della

legge fondamentale: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa, sempre, valere anche

come principio di una delle legislazione universale”, cioè se la tua massima non può avere il valore

oggettivo, necessario e universale di un principio della legislazione universale allora non può avere

il valore di una legge, può essere una massima che tu segui per il tuo comportamento, può essere

anche una massima efficace o non efficace, può essere una massima prudente – su questo discorso

sulla prudenza arriveremo nella seconda nota al quarto teorema – ma non può essere una legge

morale. È chiaro quindi cos’è la forma della legge? La forma della legge è il carattere formale, che
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però vuol dire qualcosa di ben preciso: la sua validità incondizionata, la sua validità oggettiva

necessaria e universale.

“Supponiamo che la materia sia la mia propria felicità. Questa, se la attribuisco a

ciascuno (come mi è in realtà lecito fare per gli enti finiti), può diventare una legge pratica

obiettiva solo se includo, in essa, anche la felicità propria degli altri. Dunque la legge di

promuovere una felicità degli altri non scaturisce dal presupposto che sia questo un oggetto

per l’arbitrio proprio di ciascuno, ma meramente dal fatto che la forma dell’universalità che

abbisogna alla ragione quale condizione per dare a una massima dell’amore di sé la validità

obiettiva di una legge diventi il motivo determinante della volontà; e dunque il motivo

determinante della volontà pura non era l’oggetto (la felicità degli altri), bensì esclusivamente

la mera forma legale con cui limitavo la mia massima fondata sull’inclinazione, per

procurarle l’universalità di una legge e renderla così adeguata alla ragione pura pratica;

soltanto da tale restrizione – e non dell’aggiunta di un movente esterno – poteva poi sorgere il

concetto dell’obbligo di estendere la massima del mio amore per me stesso anche alla felicità

altrui”. Diverso, dice qui Kant, se io pongo la questione della felicità altrui in altro modo, cioè di

fronte alla mia inclinazione dell’amore di sé, dell’amore di me stesso, quindi della mia propria

felicità, che è certamente il contenuto di una massima a cui sono inclinato all’agire per la mia

propria felicità, applico quella forma della legge fondamentale: agisci in modo che la massima della

tua volontà possa sempre valere anche come principio di una legislazione universale. Allora mi

chiedo questo voglio essere felice può essere elevato a legge universale? No, così no, certo, se lo

trasformo in una massima universale, “che tutti agiscano per la felicità universale”, allora sì, ma ciò

che ne farà una legge non è il contenuto, la felicità, ma questo carattere di universalità in senso

rigoroso, e quindi di oggettività che gli ho dato: Questo la eleva a valore di legge, non il contenuto

cioè la felicità.

“L’esatto opposto del principio della moralità è quello della propria felicità, se ne è

fatto il motivo determinante della volontà”. Vedete, ancora una volta Kant insiste: la felicità
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propria è l’opposto della moralità se ne faccio motivo determinante, non è che sia illecito come

oggetto del desiderio, è opposto alla moralità quando pretende di essere motivo determinante della

volontà.

“Dove – come ho mostrato prima – deve essere annoverato tutto ciò che ripone il

motivo determinante che deve servire da legge comunque altrove, rispetto alla forma

legislatrice della massima”. Dunque, guardate che cosa sta dicendo: se non fosse che Kant è un

genio è un’affermazione che dovremmo considerare presuntuosa, perché sta dicendo che posto che

l’autonomia è l’unico motivo determinante della legge morale, seconda tesi, ogni eteronomia è

opposta alla moralità, il che vuol dire che ogni concezione morale che non si fondi sulla pura forma

della legge è eteronoma e dunque è una concezione, che non solo non è una corretta concezione

morale, ma è una concezione che si oppone alla corretta concezione morale, il che vuol dire, tutte le

concezioni morali eccetto la sua. Brevemente, questo è il punto.

Tutte le altre concezioni morali sono eteronome, pertanto non sono corrette, non solo, ma

sono anche opposte alla corretta concezione morale. Tutte, da Aristotele in poi, tutta la storia

dell’etica aspettava Kant. Tutta la storia dell’etica è la storia di un grande enorme errore che solo la

teoria kantiana corregge. Questo vuol dire, e poi vedrete che alla fine della nota lui fa anche una

tipologia per le etiche eteronome, con tanto di schema, e praticamente ci sono dentro tutte, eccetto

la sua, il che vi deve far riflettere. Poi la vostra riflessione avrà l’esito che avrà, magari sarà appunto

dire “meglio che lasciamo perdere Kant e parliamo di gente più seria”, va bene, però certamente

non si può accettare Kant senza fare finta di niente, perché di fatto l’etica di Kant è certamente il

modello più classico che esista di etica deontologica cioè di un’etica fondata su principi

performativi, normativi e di tipo incondizionato. Questo è fuori discussione, ma non solo è il

modello più classico di etica deontologica, ma è quel modello di etica deontologica così radicale

che pretende che l’etica o è deontologica o non è, questo è il punto. Che l’etica in senso corretto può

essere solo deontologica.

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Il dibattito oggi, ma anche in passato, ma anche oggi è ricchissimo tra etiche deontologiche,

etiche descrittive, etiche consequenzialiste, ecc., varie forme di concezione etica che naturalmente

nel dibattito sono messe sullo stesso piano di legittimità, ed è giusto, perché in un dibattito non si

può discutere con un altro se io non ne riconosco la legittimità. Ricordatevi che il primo atto perché

una discussione sia possibile e non sia un’aggressione reciproca è la legittimazione

dell’interlocutore. Lo dico perché noi viviamo purtroppo in un malcostume, non solo politico ma

che ha avuto origine nella politica e che però è diventato diffuso nell’intera società, in cui, invece, il

primo atto di ciò che viene chiamato discussione è la delegittimazione dell’interlocutore:

innanzitutto dichiaro e affermo che lui non è legittimo nelle sue opinioni e poi discutiamo,: a partire

da questa mossa non è possibile discutere, non si può discutere con qualcuno di cui non si riconosca

la legittimità delle opinioni.

Ora, questa è la barbarie sia ben chiaro, perché la prima mossa perché ci sia un confronto,

naturalmente anche con un antagonista, è legittimarlo, riconoscerne la legittimità: resta aurea la

frase di Voltaire in una lettera, non mi ricordo più a chi, “caro signore io penso esattamente

l’opposto di quello che lei pensa, ma darei la vita perché lei possa continuare a sostenere le sue

opinioni”. Questo è il punto, se non si parte da questo presupposto non ci può essere confronto, ci

può essere solo guerra, non dico nemmeno scontro, aggressione reciproca, ve lo dico e ve lo ripeto,

perché dovrebbe essere ovvio ma nella nostra depravata società non solo non è ovvio ma è quasi

stato perso di vista. Capite? Prima mossa è dire “io non riesco a capire e non riesco ad accettare che

le tue argomentazioni siano valide, però sono le tue e riconosco la tua legittimità di averle”.

Se il primo atto non è la legittimazione dell’altro non ci può essere confronto, ma solo

aggressione reciproca: ricordatevelo questo, perché purtroppo il trend della nostra società, vi

insegna tutt’altro, ma è l’uscita dalla barbarie, è uno degli elementi fondamentali per uscire dalla

barbarie. È grazie a questo elemento che noi viviamo in una delle belle repubbliche democratiche,

perché come vi ho detto è fondata su una delle più belle costituzioni democratiche, perché gruppi

politici che avevano idee, le più lontane e anche conflittuali tra loro, sono stati capaci di riunirsi in
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assemblea e quindi implicitamente ed esplicitamente a riconoscersi reciprocamente la legittimità di

partecipare al dibattito con le proprie idee, ogni gruppo con le proprie idee, e di confrontarsi, senza

questo non c’è confronto.

(Domanda: due punti scusi professore, potrebbe solo ripetere il concetto che ha detto prima

sull’autonomia e le eteronomie?) Risposta: l’autonomia significa appunto una libertà nel suo

significato positivo, cioè una determinazione necessaria della volontà, che però è libera perché è

una determinazione necessaria, ma non da altro ma dalla volontà stessa, sono io che in quanto

ragione mi determino in modo obbligatorio, quindi necessario in senso morale, non in senso fisico.

L’eteronomia è ogni altra forma di determinazione che non sia l’autodeterminazione. Badate

autodeterminazione vuol dire “determinazione da parte di sé stesso” non nel senso del soggetto

empirico, ma del soggetto trascendentale, cioè la ragione in me, la ragione che io sono. Lo dico

perché questo è stata una delle accuse che è stata fatta a Kant e continua a essere ripetuta, cioè del

soggettivismo morale di Kant: ognuno stabilisce le sue leggi in forza di una sbagliata

interpretazione di autonomia. Autonomia vuol dire che io sovranamente mi determino da me, ma

non io soggetto empirico, io soggetto trascendentale, cioè la legge morale, la ragione, quella ragione

che io sono, non c’è nessun soggettivismo, al contrario se la legge non è oggettiva non è legge.

Eteronoma è ogni determinazione della volontà che abbia la sua origine in un principio differente

dalla propria stessa ragione e quindi da un principio materiale, perché il principio razionale è quello

formale. Ogni principio che non sia quello formale è necessariamente materiale, non esiste un altro

principio formale.

Una precisazione della mia opinione, che naturalmente è mia e non deve essere

necessariamente accettata, qualcuno può pensarla diversamente: il discorso che ho fatto prima sulla

legittimazione dell’interlocutore come primo movimento senza il quale non c’è un confronto, non

significa che bisogna legittimare ogni interlocutore. Questa è la differenza tra pluralismo e

relativismo, però non significa quello, perché io credo, ma altri invece la pensano differentemente e

hanno una legittimità a pensare differentemente, che esista un discrimine regolativo. Non lo
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possiamo delineare nettamente, però ha un significato orientativo che è quello che io indico col

termine di umano contrapposto a anti-umano, non umano, e questo discrimine segna il campo di ciò

che è legittimo. Non è lo stesso che bene e male, c’è una quantità di male che è umano e c’è anche

del bene che è antiumano, però credo che lì ci sia una linea di confine, e che per opinioni, o

addirittura per azioni, ma anche solo per opinioni che vanno oltre questa linea di confine allora sia

legittimo, e forse anche doveroso, non riconoscere loro legittimità, nemmeno legittimità a

confrontarsi

Nota 2: “L’esatto opposto del principio della moralità è quello della propria felicità, se

ne è fatto il motivo determinante della volontà; dove – come ho mostrato prima – deve essere

annoverato tutto ciò che ripone il motivo determinante che deve servire la legge comunque

altrove, rispetto alla forma legislatrice della massima. Però tale contrasto non è meramente

logico, come quello che insorgerebbe fra regole empiricamente condizionate che si volesse

peraltro erigere a principi necessari della conoscenza, ma ha carattere pratico, e, se la voce

della ragione, relativamente alla volontà, non fosse così chiara, così perentoria, così

percettibile perfino per l’uomo più comune, manderebbe completamente a picco la moralità;

ma tale situazione può ancora sussistere solo in quelle speculazioni confuse e tortuose delle

scuole che sono abbastanza temerarie da evitare di udire quella voce celeste, per tenere in

piedi una teoria che non sia troppo faticosa”. Ancora una volta il riferimento al senso comune.

“Il senso comune lo sa benissimo”, “la voce celeste”, cioè la voce della ragione è così, guardate

come insiste, c’è un’enfasi retorica: “la voce della ragione e così chiara, così perentoria, così

percettibile”, proprio tre attributi uno dopo l’altro per dire: l’uomo comune non ha dubbi sulla legge

morale, i dubbi vengono insinuati solo da una artificiosa e laboriosa elaborazione intellettualmente

falsa, cioè “solo da quelle speculazioni confuse e tortuose delle scuole abbastanza temerarie da

evitare di udire quella voce celeste, per tenere in piedi una teoria che non sia troppo faticosa”.

Qui torniamo ancora a questa affermazione che abbiamo già incontrato in Kant: “il senso

comune sa benissimo” cos’è la legge morale, la voce della ragione è in ogni persona. Ora, qui c’è
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sempre quel dubbio che aveva sollevato un vostro compagno: ma è proprio vero? Io conosco un

sacco di gente che è totalmente insensibile alla voce della ragione, si comportano male ma non

hanno nessuna consapevolezza di questo. Ora, è vero, ne conosco tanti anch’io, non che si

comportano male, tutti ci comportiamo male, ma che si comportano male e non hanno la minima

consapevolezza di questo. Però, voi dovete pensare, dovete intendere l’affermazione di Kant non

come una affermazione empirica. Quanto Kant dice qui è che tutti gli uomini hanno in sé la voce

della ragione: chiara, perentoria, ecc., non fa una constatazione empirica, perché non è che ai suoi

tempi fosse diverso che ai nostri, e non è che Kant non veda quello che ognuno vede. Voi dovete

capire che l’affermazione, che è importante, “tutti gli uomini, nel senso di tutte le persone, di tutti

gli enti razionali finiti, hanno in sé chiara e perentoria la voce della ragione”, come affermazione

empirica, dal punto di vista di Kant, non varrebbe niente, perché è un principio innegabile della

dottrina trascendentale: non è dato il fenomeno morale. E questo principio vuole anche dire che noi

non possiamo constatare empiricamente questa presenza della voce della ragione in ogni persona. Il

punto è che questa affermazione “in ogni persona è presente chiara la voce della ragione” non è

un’affermazione empirica, ma è un’affermazione a priori. In ogni persona è presente perché deve

essere presente.

Ora, qualcuno di voi a questo punto penserà “ma così ci allontaniamo dalla realtà e facciamo

una filosofia dell’illusione”, non è una filosofia dell’illusione è una filosofia della realtà, è

importante per leggere la realtà questa affermazione. In ogni persona è presente chiara la voce della

ragione. Questo è essenziale, proprio per comprendere la realtà, per cercare di farvene rendere conto

vi invito a considerare non l’aspetto di cui abbiamo parlato prima, cioè che io conosco molta gente

per cui questo non è vero, ma provate un po’ a pensare a un’altra prospettiva: se io non pensassi,

non dovessi pensare a priori, che in ogni persona umana è presente chiara la voce della ragione,

vorrebbe dire che mi è lecito, anzi che mi è inevitabile, considerare alcuni miei simili non come

persone umane, perché ciò che ci fa persona per Kant è la nostra dimensione razionale, è la nostra

dimensione razionale che ci dà la dignità umana, la dignità della persona. Certo il concetto di
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persona tornerà, sarà tematizzato nel terzo capitolo, siamo persone, siamo persone umane perché

siamo enti razionali, e sul piano pratico enti razionali vuol dire enti per i quali è chiara in ognuno di

noi la voce della ragione.

Dunque, cercate di considerare questa prospettiva: dire che in ogni persona è presente chiara

la voce della ragione vuol dire che io non sono mai a priori giustificato a considerare qualcuno non

con la dignità di una persona, chiunque sia, qualunque cosa abbia fatto, in qualunque modo si

comporti, io non posso negargli la dignità della persona, io non posso venir meno al rispetto

assoluto verso di lui o verso di lei che si deve alla santità della legge morale di cui è portatore.

Allora, così la capite meglio, così capite che non è un’astrazione, ma è un principio a priori di

assoluto rilievo nella realtà, con infinite implicazioni. Ve ne segnalo solo una, ma è una tra le tante:

pensate all’ambito penale, se io potessi pensare che qualcuno a causa di ciò che ha fatto, magari

misfatti atroci, ha perduto la dignità della persona, allora vuol dire che non è più una persona umana

ma una cosa. Pensate cosa sarebbe l’intero sistema penale in questo caso,: poiché è reo ha perduto

la dignità di una persona e pertanto è una cosa, quindi non ha più nessun diritto e io lo posso, anzi lo

devo trattare come una cosa, senza nessun diritto, non dico giuridico, non dico solo civile ma

nemmeno umano. Posso infliggergli torture, posso usarlo come cavia per esperimenti, posso farne

quello che voglio, perché non è più una persona, ha perso la dignità della persona. Sarebbe orribile.

Invece, questo è il punto, ogni ente razionale finito, ogni uomo, è per me doveroso a priori

considerarlo sempre e comunque una persona, cioè un portatore della legge morale, anche qualora

sia manifestamente colpevole di colpe anche atroci. È naturalmente legittimo che lo Stato,

attraverso il diritto penale, lo giudichi, lo condanni e anche lo sanzioni con una pena, ma non che gli

neghi la sua dignità umana; e pertanto anche nello scontare la pena ha il diritto di essere trattato

nell’interesse della sua dignità umana.

Pensate a tutte le implicazioni, anzi, proprio a questo proposito Kant come filosofo si è

pronunciato sulla questione della legittimità della pena. Voi sapete che era una questione nel

Settecento, c’era un dibattito vivo su questo argomento. Qual è il fondamento, qual è la


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giustificazione per cui si commina una pena a un colpevole? Che diritto abbiamo e chi ha questo

diritto? Sarebbe lunga ma non ho tempo, però tanti teorici che proprio nel ’700 e poi ancora

nell’’800 hanno scritto,: Dei delitti e delle pene, ecc. Si dice: “la pena è una misura per difendere la

società”, “la pena è una misura per scoraggiare il crimine”, ecc. ecc. Kant quando si pronuncia su

questo tema fa piazza pulita di tutte queste motivazioni, tutte. L’unica motivazione su cui fonda la

legittimità della pena sapete qual è? Il diritto del reo. La pena è legittima perché è un diritto del

colpevole. Geniale, la pena è un diritto non della società, non dell’offeso, è un diritto del colpevole

che gli sia comminata una pena, perché con la sua colpa lui ha inquinato la propria dignità morale e

ha il diritto di avere i mezzi per ricostituirla, per restaurarla nella sua pienezza, ma badate, la

pienezza della sua dignità, il colpevole condannato, non la restaura quando ha scontato la pena, ma

quando gli è stata comminata la pena, in quel momento lui è di nuovo interamente restituito nella

sua dignità, quindi non alla fine ma quando gli è comminata la pena. Quindi lui sconta la pena nella

piena dignità personale e pertanto il sistema delle pene deve essere nel rispetto di questa sua dignità

personale. Lasciamo perdere tutte le considerazioni da fare sui sistemi di pena, i sistemi carcerari

nelle nostre società, se corrispondono da questo punto di vista e purtroppo sono molto carenti. È nel

momento in cui è sanzionato che lui ha interamente riconquistato la pienezza della propria dignità,

poi sconta la pena, certo, ma non è alla fine di questo processo che lui è restituito nella sua dignità,

ma prima, nel momento in cui è sanzionato. Questa è una prospettiva di altissima civiltà, e questo

perché? Perché noi affermiamo a priori,: è un dovere morale considerare sempre e comunque ogni

uomo come una persona umana, cioè come un portatore della ragione, della legge morale in sé.

Allora, capite, questa affermazione non è un’affermazione empirica, poi dal punto di vista

empirico tutti noi abbiamo questa esperienza negli altri e anche noi stessi, che questa chiara

consapevolezza della legge morale non sempre si fa presente così chiaramente, ma questa è una

considerazione empirica, di tipo psicologico, ma abbiamo il dovere di considerare comunque

sempre ogni altro come una persona umana, e abbiamo il diritto di pretendere che ogni altro

consideri noi sempre e comunque come una persona umana, e abbiamo il dovere e il diritto di
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considerare sempre e comunque noi stessi come una persona umana, perché poi qui si aprirebbe

tutto un altro discorso, di quanto male ci vogliamo, non solo di quanto gli altri ci disprezzano ma di

quanto noi spesso ci disprezziamo, che è diverso dalla autocritica. Non abbiamo il diritto di

considerarci, qualunque cosa abbiamo fatto, altro che la inviolabile santità della legge morale che è

in noi. Siamo, da questo punto di vista, santi, è vero non siamo santi nel senso che abbiamo

raggiunto compiutamente la perfezione morale, ma siamo santi in quanto portatori della legge

morale: comunque e in qualunque condizione, che dal punto di vista empirico sia constatabile, che

ne siamo più o meno consapevoli.

Qui compaiono due esempi. “Se un amico che del resto ti è caro supponesse di

giustificarsi con te di una sua falsa testimonianza dicendo in primo luogo di avere tutelato

quello che pretende essere il sacrosanto dovere della propria felicità,” il tema è sempre la

propria felicità, che non può essere il principio fondante della moralità, “poi elencando i vantaggi

ottenuti tutti così, indicando la prudenza osservata per essere sicuro di non venire comunque

scoperto, neanche da te, a cui rivela il segreto solo per poterlo sempre negare, ma poi con

tutta serietà, pretendesse di aver praticato un vero dovere umano, – ebbene, o tu gli rideresti

apertamente in faccia, oppure ne rifuggiresti inorridito, benché, se qualcuno avesse orientato i

suoi Principi solo secondo i propri vantaggi, non avresti nulla da eccepire contro questa

misura”. La situazione è chiara, stiamo considerando in un esempio, e poi ancora in un altro, il

tema della nota, che poi è il tema delle altre note: la felicità nemmeno nel senso della felicità altrui o

universale può essere il principio fondante della moralità.

Kant descrive questa situazione: voi avete avuto una vita distrutta da un amico, credevate

che fosse un amico, il quale ha testimoniato il falso contro di voi, e voi siete finiti in carcere, ne

avete subite di tutte, avete perso ogni bene, vostra moglie se n’è andata, i figli non vi vogliono più

nemmeno parlare, vi siete presi anche una malattia dei polmoni perché in carcere la situazione era

insana, ecc., alla fine dopo 30 anni siete usciti, siete ormai uno straccio che aspetta solo di morire, e

anzi, state passeggiando lungo un torrente pensando se non abbreviare la cosa, e mentre vi
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trascinate così, con in tasca la vostra bottiglia di birra è il mezzo panino avvolto nella carta di

giornale nella giacca con le tasche sfondate, ecc. Mentre vi trascinate lungo le rive di questo

torrente vedete uno lì, che sta pescando, vi avvicinate e lui si volta e dice “Andrea, quanti anni che

non ci vediamo, mamma come stai male! Sei malmesso! Vieni qua, siediti qua, ho qua nel cestino

tutto il pranzo. Ma che bello! Vieni! Mangiamo qualcosa insieme”, e voi ormai siete passivi, non

reagite più, e così questo comincia a dirvi “eh lo so, ti ricordi che amici che eravamo, eravamo

sempre insieme, ma quanto amici eravamo e poi, tu fra l’altro avevi un sacco di soldi, avevi una

famiglia felice, ti eri fatto una fortuna, e io ti devo dire che la desideravo questa fortuna, e allora è

per quello che ti ho denunciato. Lo so che non avevi fatto quello che io ho denunciato, eri

innocente, ma io ti ho denunciato lo sai, ti ricordi, e così ti hanno condannato, e così mentre tu eri in

carcere io ti ho rubato tutto, anche la moglie, i figli non mi interessano tanto però li ho mandati a

studiare non ti preoccupare, ora fanno la loro vita, tua moglie è contenta con me, io vivo nella tua

casa che è una bella villa, mi trovo benissimo! E poi quella azienda lì, l’avevi proprio messa su

bene, devo dire che per me è una gallina dalle uova d’oro, proprio guarda, io ho una vita felice!

Sono proprio contento!”. Ora, dice Kant, come reagireste? Lei dice l’ammazzo, ma il punto è che

questo qui è talmente allo stremo che se ne avesse la forza si metterebbe a ridere di’ una cosa così

assurda: il senso comune lo capisce che non va bene questo. Credo che su questo non ci siano

dubbi, però di per sé, se è vero che il nostro comportamento, che la legge morale è fondata sul

principio della nostra felicità, costui ha agito in modo assolutamente coerente con il principio della

propria felicità: è l’uomo moralmente inappuntabile e voi dovreste togliervi il cappello e dire “che

sant’uomo, devo dire che ti ammiro”. Ora, è ovvio che non è così.

Secondo esempio: “oppure supponete che qualcuno vi raccomandi, come economo,”

cioè come vostro amministratore “un uomo a cui potete affidare ciecamente tutti i vostri affari,

e che, per ispirarvi fiducia, elogi la sua prudenza per cui conosce benissimo il proprio

tornaconto, e anche la sua attività indefessa che sfrutta proprio tutte le occasioni, e infine

supponete che, affinché non si tema un suo egoismo volgare, lodi la grande raffinatezza con
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cui sa vivere, cercando di godere non già con l’accumulare denaro o con una brutale

sensualità, ma con l’ampliamento delle proprie conoscenze, con una compagnia

accuratamente scelta e istruttiva, persino con la beneficenza verso i poveri, ma aggiunga come

egli non si preoccupi dei mezzi (che peraltro traggono il loro valore o disvalore solo dallo

scopo), e come usi e abusi delle sostanze altrui, purché sappia di poterlo fare senza essere

scoperto e impedito; ebbene, credereste che colui che vi raccomanda un simile individuo

volesse prendere in giro, oppure che fosse impazzito”. Un altro esempio, assurdo, sempre a

partire dal presupposto che la propria felicità sia il principio fondante della legge morale. Tu mi

avevi detto che vorresti qualcuno che amministri bene i tuoi beni, e io ho la persona giusta,

bravissimo amministratore, bravissimo, sa veramente amministrare i beni in un modo perfetto, sa

sempre trovare i mezzi giusti, efficacissimi. Infatti, è uno che ha fatto fortuna, e non credere che sia

una persona volgare, al contrario è uno raffinato, tutti questi soldi che ha non è che li usa per banali

bassi piaceri, no, è un uomo di lettere, ha una biblioteca meravigliosa, il suo salotto è uno dei salotti

più importanti della città con molti intellettuali che vanno a conversare lì con lui, e lui conosce un

sacco di cose, ha letto un sacco di libri è appassionato di musica, di poesia, si fa promotore

benemerito delle arti, ecc., è liberale, generoso con gli amici, ma fa anche un sacco di beneficenza

ai poveri. È evidente che lui si muove per il proprio interesse e non ha nessuno scrupolo, prende

ricchezze dovunque le trova purché sia sicuro che non lo scoprano e che nemmeno tu che sei

l’amministrato lo sappia, quindi non ti accorgerai di nulla, ti svuota le tasche e ti manda in miseria,

però è uno veramente in gamba, te lo consiglio. È ovvio che non prendereste la cosa sul serio, è

ovvio perché il senso comune lo capisce. D’altra parte, se è vero che la propria felicità è il principio

fondante della legge morale, costui è il migliore esempio di comportamento moralmente buono, il

che non è.

Dunque, vedete, anche il senso comune sa perfettamente, perché ha la voce della ragione

chiara in sé stesso, che non può essere il principio della felicità il fondamento della legge morale.

Sono due esempi, anche un po’ comici, però vi voglio fare notare una cosa, che poi sarà sviluppata
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subito dopo: in tutti due gli esempi una parola chiave, sempre la stessa. Nel primo esempio dice

“elencando i vantaggi ottenuti tutti così, indicando la prudenza osservata per essere sicuro di non

venire comunque scoperto”. La prudenza. Anche nel secondo esempio dice che per ispirarvi fiducia

elogi “la sua prudenza per cui conosce benissimo il proprio tornaconto”. La prudenza, perché la

grande caratteristica di tutti due questi tipi dei due esempi e di essere persone assai accorte, assai

prudenti.

Questa parola, prudenza, è una parola molto importante, non tanto in Kant che

evidentemente la critica (non critica la prudenza ma il voler dare ad essa una importanza eccessiva

nella teoria e nella pratica morale), ma nella storia dell’etica, perché la prudenza e ciò che in greco è

phronesis. Phronesis, voi sapete, è in Aristotele una delle virtù dianoetiche ed è esattamente quella

virtù che consiste nella capacità di discriminare, di giudicare sempre in modo corretto qual è il

miglior mezzo ovvero il giusto mezzo, cioè la virtù, che mi permette di evitare sia i difetti sia gli

eccessi in ogni tipo di comportamento. La prudenza è, nell’etica aristotelica, la guida del

comportamento morale ma anche del giudizio morale. In sostanza la moralità consiste

essenzialmente in un esercizio della prudenza. E questo vale per Aristotele e, sul modello di

Aristotele, vale per tutte le etiche delle virtù: le virtù sono appunto i mezzi giusti per raggiungere il

fine che, guarda caso, proprio all’inizio dell’Etica Nicomachea è posto nella la felicità. La prudenza

è la guida alla felicità ed è la struttura stessa dell’etica delle virtù. Quindi ha avuto un’importanza

centrale nei secoli nel pensiero etico, ma non per Kant. Non che Kant disprezzi la prudenza, un

uomo prudente è certamente meglio che un uomo imprudente, ma nega che la prudenza sia la guida

stessa, la regola della moralità. E questo è collegato al rifiuto di riconoscere che la felicità sia il

fondamento della moralità. Perché? Perché una qualunque etica che si fondi sulla felicità, che poi

vuol dire una qualunque etica che si fondi su un fine che non sia la legge stessa – per il primo e

secondo teorema “tutti i principi materiali sono della stessa specie e stanno sotto il titolo della

propria felicità”, quindi qualunque sia l’obiettivo che io mi pongo sempre si tratta, in un modo o

nell’altro, di perseguire la felicità – e dunque qualunque etica che consista nel trovare i mezzi giusti
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per raggiungere un fine dato, che poi è la definizione di etica eteronoma per ritornare alla

terminologia del nostro teorema,: qualunque etica eteronoma non solo non è la corretta concezione

morale, ma si oppone, seconda tesi del teorema, alla corretta concezione morale. Qualunque etica

eteronoma, in un modo o nell’altro, è un’etica della prudenza, perché se il fine è presupposto come

un fine materiale, la moralità consisterà nel trovare i mezzi corretti, cioè imperativi ipotetici, regole

dell’abilità. Qualunque sia l’obiettivo che mi do, fosse anche fare la volontà di Dio, fosse anche

perfezionare la mia umanità, sempre siamo ancora in etiche eteronome e pertanto alla fine tutto è

riducibile all’etica della felicità, in cui la regola morale fondamentale è la prudenza.

A ben vedere queste etiche, questo è il punto, non sono delle etiche. Sono sbagliate, ieri vi

dicevo che per Kant solo la sua etica è giusta e tutte le altre sono sbagliate, ma di più, ancora più

radicale, il fatto è che dal punto di vista di Kant solo la sua è un’etica, le altre non sono

propriamente delle etiche, ma sono delle economiche, sono delle teorie economiche non delle teorie

etiche. Perché trovare i mezzi utili per raggiungere un fine: questa è la definizione della economia.

Solo quella concezione etica che non possa in nessun modo essere ridotta a questo, perché è definita

come agire secondo un principio a priori incondizionato, indipendentemente da qualunque

proposizione del fine, solo questa è differente, è di un’altra specie,: per usare una terminologia

antiquata, che non è di Kant ma che gli abbiamo visto discutere, è la facoltà di desiderare superiore,

l’aveva detto nel corollario. Tutte le altre, per differenti che siano, sono eteronome e quindi alla fine

sono etiche della felicità e della prudenza, e quindi alla fine non sono delle etiche. Questo termine,

prudenza, Kant lo usa naturalmente intenzionalmente e poi dopo lo critica – non in sé, è chiaro che

è una buona cosa essere prudenti – come principio, qualora se ne faccia un principio.

“I confini tra la moralità e l’amore di sé sono tracciati in un modo tanto chiaro e netto,

che persino all’occhio più comune non può affatto sfuggire la differenza per cui qualcosa

appartenga all’una o all’altro. Le poche osservazioni che seguono possono bensì apparire

superflue, data l’evidenza di tale verità, tuttavia servono almeno a procurare una chiarezza

un poco maggiore al giudizio del comune ragione umana. Il principio della felicità può si
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fornire massime, ma non mai massime tali da poter dare luogo a leggi della volontà, neanche

se si facesse della felicità universale il proprio oggetto”. Questo è un altro modo di esprimersi per

dire la stessa cosa che qualche pagina prima aveva detto, vi ricordate, la prima nota sulla felicità “la

felicità è un fine che tutti gli uomini necessariamente ricercano”, e qui è detto nel senso che il

“principio della felicità può sì costituire l’argomento di una massima”, cioè è vero, è possibile, Kant

riconosce che è del tutto lecito proporsi, in una massima della propria azione, la propria felicità,

perseguire la propria felicità o anche la felicità degli altri o anche la felicità di tutti, perché questo è

inevitabile, è una inclinazione naturale di tutti gli uomini,: è necessaria ma non può costituire il

principio di una legislazione universale.

Ricordate la formula della legge fondamentale “agisci in modo che la massima della tua

volontà possa, sempre, valere anche come principio di una legislazione universale”; dunque, il

perseguimento della felicità può essere senz’altro un fine, ognuno di noi agirà in una quantità di

situazioni, ed è rilevante per la sua vita, per perseguire e per conseguire la felicità propria e di tutti,

e questo va benissimo, ma non c’entra con la moralità, fa parte dell’agire umano, l’agire economico

dell’uomo, quando non usi i mezzi che violino la legge morale va benissimo, solo che quelle

massime, e quindi quelle azioni, non sono azioni morali. Non nel senso che siano azioni opposte

alla moralità, sono azioni moralmente irrilevanti. Fa parte del nostro agire pragmatico, fa parte della

nostra vita perseguire la felicità, nostra e altrui, ed è giusto che usiamo la prudenza per cercare i

mezzi più adeguati per ottenere il nostro fine, è tutto normale, ma solo che non c’entra con la

moralità. Questo è il punto. A meno che, ripeto, questo comporti azioni che violano la legge morale.

Ma non può quella massima, in nessun modo, avere una rilevanza morale, perché non può essere

elevata a principio di una legislazione universale per tutti gli argomenti che abbiamo visto sulla

felicità.

“Infatti, poiché la conoscenza di essa poggia esclusivamente su dati empirici, poiché

ogni giudizio in merito dipende molto persino dall’opinione di ciascuno, che per giunta è

mutevolissima, ci possono bensì essere regole generali, ma non mai universali, ossia sono
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possibili regole che, in media, si verifichino per lo più, ma non regole che debbano essere

valide sempre è necessariamente; e quindi non vi si può fondare nessuna legge pratica.

Proprio perché qui si deve porre un oggetto dell’arbitrio a fondamento della regola stessa, e

quindi tale oggetto deve precedere quest’ultima, tale regola non può venire riferita se non a

ciò che si sente, e dunque all’esperienza, e deve essere fondata su di essa, cosicché la varietà

dei giudizi non può non essere interminabile”. Ogni principio materiale è empirico, primo

teorema, e pertanto non può avere valore di legge, seconda tesi del primo teorema. “Dunque questo

principio non prescrive le medesime regole pratiche a tutti gli agenti razionali, sebbene esse si

raccolgoano tutte sotto un titolo comune, quello della felicità”. Lo abbiamo già visto questo

argomento nella prima nota sulla felicità, quando noi diciamo che la felicità è un oggetto universale

del desiderio noi in realtà usiamo il termine universale in modo improprio, è vera la proposizione

“tutti desiderano la felicità”, che ha la forma esteriore di una proposizione universale, ma non

significa una vera universalità ma è solo un titolo collettivo: tutti desiderano cose differenti sotto il

titolo felicità. Che cosa sia la felicità dipende da ciascuno e anche per la medesima persona può

essere differente in circostanze differenti, e anche se noi facciamo un esperimento mentale e

pensiamo che in un certo momento, per una sorta di contingenza strana, tutti gli esseri umani

intendano la felicità che desiderano nello stesso modo, resta pur sempre non universale, perché è

contingente, dura sin che dura, è una pura coincidenza empirica: non è una universalità necessaria, è

l’universalità della frase “tutti i cigni sono bianchi”, non della frase “tutti i triangoli hanno la

somma degli angoli interni uguale a 180 gradi”.

“Ma la legge morale è pensata come obiettivamente necessaria solo perché deve vigere

per chiunque sia dotato di ragione e volontà”. Deve necessariamente, oggettivamente, questo sì,

universalmente, nel senso rigoroso del termine universalità, “tutti devono dire il vero” e non è che

qualcuno può dire “ma invece io voglio dire il falso”, se tu vuoi dire il falso tu sbagli, esattamente

come il triangolo che non ha la somma interna degli angoli uguali a 180° non è un triangolo. Se tu

dici il falso non sei moralmente buono, non è che si può dire “ma per me è così”.
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“La massima dell’amore di sé (prudenza) si limita a consigliare; la legge della moralità

comanda. Ma c’è una grande differenza tra ciò che ci si consiglia e ciò a cui siamo obbligati”.

Anche questo non è nuovo, la legge morale ha una necessità, la necessità morale, quella della

obbligazione. Qualunque regola della prudenza, perché ogni etica della felicità è un’etica della

felicità nei fini, ed è un’etica della prudenza nei mezzi, quindi ogni etica della felicità, ovvero della

prudenza, è sempre un insieme di consigli, magari accorti, magari utili, ma consigli non

obbligazioni, non necessari nella struttura che avevamo visto all’inizio che è quella dell’imperativo

ipotetico: se vuoi ottenere quello devi fare così.

“Ciò che si debba fare secondo il principio dell’autonomia dell’arbitrio, l’intelletto più

comune lo può discernere con tutta facilità e senza esitare; ciò che si debba fare col

presupposto della sua eteronomia, è difficile da intendersi, e richiede conoscenza del mondo;

in altri termini: che cosa sia dovere, è naturalmente palese per ciascuno; ma che cosa apporti

un vantaggio vero e durevole, e anzi tale da essere esteso all’esistenza intera, è sempre

impenetrabilmente oscuro, e richiede una grande prudenza, per adattare agli scopi della vita

la regola pratica confacente, con le opportune eccezioni, in una maniera anche solo

tollerabile”. Questo è uno dei tanti paradossi a proposito del confronto tra legge morale e regole

della felicità che Kant mette in evidenza: contrariamente a quello che il luogo comune, non il

“senso comune” ma il “luogo comune”, pensa, cioè che le regole per essere felici, tutto sommato,

sono facili da individuare perché sono regole in genere, si dice, “concrete”, “uno capisce”, “poi

vede dagli effetti”, invece le leggi morali “che cosa misteriosa” e “poi sarà proprio certo, è proprio

vero”, Kant dice, è esattamente il contrario. È esattamente il contrario, la legge morale è

semplicissima da conoscere e da comprendere, perché è semplicemente ciò che la legge della

ragione, la voce della ragione in noi, ci dice, e ce lo dice in un modo univoco, oggettivo, necessario,

universale, incondizionato, “tu devi fare così”; invece la regole della prudenza “ti consiglio di fare

così, ma date le circostanze, forse è meglio fare altrimenti”, “no no, fai così, però prima accertati

che…”, “no no, in generale è meglio così, però naturalmente in una situazione eccezionale
109
cambiano le cose”: ecco che spuntano le eccezioni, spuntano gli adeguamenti alle condizioni,

spuntano tutti quegli aspetti contingenti che tante concezioni morali ritengono siano di pertinenza

della moralità: “la legge morale dice così, però bisogna vedere le circostanze, le condizioni, ecc.”.

Invece con la legge morale questi dubbi non hanno niente a che fare, nella legge morale non ci sono

condizioni che tengano, non ci sono eccezioni che tengano, la legge morale è un comando

incondizionato, oggettivo, necessario, punto e basta.: “Devi fare così”.

È piuttosto nell’economica della prudenza che tutto diventa estremamente complicato, non

chiaro, incerto, perché siamo sul terreno del “che cosa è più opportuno”, “che cosa produce effetti

migliori”. Sto parlando dell’utilitarismo, che si dà per un’etica, ma sto parlando anche di tutte le

etiche consequenzialiste, che però per Kant non sono delle etiche, sono su questo terreno dei

consigli di prudenza per ottenere il migliore effetto desiderato. Questo sì che è complicato, questo sì

che è una teoria e una pratica complicata, oscura, incerta, confusa, mutevole, ma la legge morale no.

La legge morale è semplice e chiara, è univoca, è incondizionata.

Aperta breve parentesi: questo non vuol dire, come purtroppo anche diversi interpreti di

Kant o diversi critici di Kant hanno sostenuto, che quindi Kant pretenda che la moralità umana

consista in un adeguare il proprio comportamento direttamente al principio fondamentale e

all’imperativo categorico fondamentale: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa,

sempre, valere come principio universale” e che Kant pretenda che con questo abbiamo risolto tutto.

Noi ci troviamo nei pasticci nella vita quotidiana, e diciamo “in questo caso come faccio?” Allora

vado a chiedere a Kant, e Kant mi dice “è semplice, agisci in modo che la massima della tua volontà

possa, sempre, valere come principio di legislazione universale”. Che me ne faccio io di questo?

Perché tutto bello, tutto giusto, ma io qui devo decidere quod vitae sectabor iter, per citare

Agostino, e qui si tratta di scelte concrete. Allora la morale di Kant è una morale astratta e quindi è

una morale che non serve a niente, e quindi è anche una caricatura di morale perché la morale è

anche pur sempre ciò che deve guidare la nostra volontà e determinare la nostra volontà e le nostre

azioni; allora non basta questo riferimento a un principio così astratto. Ma certo che non basta! A
110
Kant non passa nemmeno per la testa di pensare che basta, ma come vi ho detto già altre volte,

quella è la legge fondamentale della ragione pura pratica, secondo il titolo; su quella legge si fonda

un sistema di leggi materiali che hanno un contenuto, che sono trattate da Kant nella Metafisica dei

costumi, che tratta dei principi del diritto e dei principi della moralità, sono leggi come “non

mentire”, “osserva i patti”, ecc. ecc. Queste leggi a loro volta fondano delle regole di

comportamento, che sono contingenti, e che naturalmente devono tenere conto delle circostanze e

che riguardano, appunto, quelle massime che devo adottare di volta in volta, quotidianamente nella

determinazione dei miei quotidiani comportamenti per vedere di fare bene e di non fare male. È

chiaro che non posso giudicare e determinare le mie azioni facendo direttamente riferimento alla

legge fondamentale: lo giudico e lo determinano secondo delle regole di comportamento, e queste

regole di comportamento le fondo su leggi metafisiche, e queste leggi metafisiche le fondo sulla

legge fondamentale. È chiaro che anche per Kant c’è una mediazione tra la legge fondamentale e le

regole di comportamento. Il punto è che, invece, nelle altre etiche, quelle della prudenza, tutta

l’etica consiste nelle regole di comportamento, perché il presunto, preteso principio, cioè la propria

felicità, non può essere un principio, una legge, cioè un principio oggettivo, oggettivamente valido,

necessario e universale, sicché di fatto tutta l’etica, la cosiddetta etica, consiste in una sorta di

silloge di regole di comportamento.

“Soddisfare il comando categorico della moralità è sempre nel potere di ciascuno,

soddisfare la prescrizione empiricamente condizionata della felicità è possibile solo di rado, e

spesso non lo è affatto, neanche rispetto a un’unica finalità”. Vedete, Kant si diverte proprio a

capovolgere tutti i luoghi comuni. Solitamente si pensa, e qualcuno ha anche detto, “è sempre

possibile trovare, in modo prudente e accorto, i mezzi per raggiungere un fine, invece, la moralità

nel senso kantiano impone degli obblighi senza preoccuparsi se è possibile comportarsi così” e Kant

dice: “è proprio l’opposto, per la legge morale noi sappiamo che è sempre possibile osservarla”,

possibilità morale naturalmente, “lo sappiamo per quel rapporto inscindibile tra moralità e libertà.”

111
Vi ricordate la risposta di colui a cui viene chiesto se resisterà all’imposizione di dare falsa

testimonianza: “non so cosa farò, ma so che posso perché devo”. È sempre possibile osservare la

legge morale, mentre i consigli dell’abilità non è detto che sia sempre possibile osservarli, bisogna

sempre fare dei calcoli molto difficili di fattibilità: questa sarebbe la via più efficace, ma è fattibile?

Sono problemi difficili e complicati, ma nella questione della prudenza, non nelle questioni della

moralità. “La causa di questa differenza è che nel primo caso si tratta solo della massima, che

deve essere genuina e pura, mentre nel secondo contano anche le forze e la facoltà fisica di

fare realmente esistere un oggetto desiderato”. Perché, nel caso dell’abilità contano gli effetti,

tutto si misura dagli effetti, mentre nel caso della moralità non è che si è indifferenti agli effetti, ma

la validità della determinazione morale non dipende dagli effetti.

“Comandare che qualcuno debba cercare di rendersi felice sarebbe folle; poiché non si

comanda mai, a qualcuno, ciò che vuole già da solo, inevitabilmente. Si dovrebbe

semplicemente ordinargli le misure opportune, o meglio offrirgliele, poiché egli non può tutto

quanto vuole. Ma comandare moralità, col nome di «dovere», è interamente ragionevole;

infatti dapprima non tutti obbediscono volentieri alla sua prescrizione, se è in conflitto con

inclinazioni, e, per quanto concerne le misure secondo cui ciascuno possa osservare questa

legge, qui non possono essere insegnate, infatti ciò che uno vuole per questo rispetto anche lo

può”. Sic volo, sic iubeo, aveva detto qualche pagina prima, e poi fa degli esempi. Non mi

soffermo, perché mi sembrano cose chiare.

“Chi abbia perduto al gioco può certo irritarsi con se stesso, per la propria

sconsideratezza; ma chi sia consapevole di avere barato giocando (quand’anche abbia così

guadagnato), non può non disprezzare se stesso, non appena si confronti con la legge morale”.

Se io ho perduto al gioco, vuol dire che sono stato poco abile, posso prendermela con me stesso,

non ho agito con prudenza, non ho seguito le vie giuste per vincere, oppure ho seguito delle vie che

non erano sbagliate ma altri hanno seguito vie più giuste. Ma se io ho barato al gioco, anche se ho

vinto, se ho ancora una capacità critica, devo disprezzare me stesso, cioè devo accusare me stesso e
112
dire “ho fatto male”, non importa se l’effetto è stato positivo: ho guadagnato rispetto alla felicità,

però ho fatto male, perché gli effetti non contano, non condizionano il valore del principio morale.

“La legge morale deve dunque essere ben diversa dal principio della propria felicità.

Infatti la necessità di dire a se stesso «Sono un indegno, sebbene mi sia riempita la borsa»,

deve pur avere un metro di giudizio diverso da quello per cui uno plaude a se stesso dicendo:

«Sono un uomo accorto, perché ho impinguato il mio patrimonio»”. Qui fa di nuovo riferimento

agli esempi di prima. Questo è qualcosa di importante, caratteristico dell’etica kantiana e in

generale di un’etica deontologica, seriamente intesa. La legge morale è qualche cosa che mi obbliga

indipendentemente dagli effetti, e questo non solo è ciò che rende incondizionatamente valida la

legge morale, cosa che abbiamo detto tante volte perché lo abbiamo incontrato tante volte,; ma

guardate anche questa altra faccia della questione, questa oggettività, necessità della legge morale è

da una parte ciò che rende incondizionatamente valida la legge morale, ma, d’altra parte, è ciò che

rende anche incondizionatamente valida la mia dignità umana, perché io sono sempre il sovrano e il

suddito di questa legge.

Questo è qualcosa che bisogna apprezzare, perché è proprio solo di una prospettiva etica di

tipo deontologico. Là dove non riconosciamo principi incondizionatamente validi, allora tutto il

comportamento morale, ammesso che riconosciamo un senso a parlare di comportamento morale,

perché il determinismo evidentemente lo nega, ma ammesso che riconosciamo un senso al parlare

di comportamento morale, allora tutto il comportamento morale si riduce a regole di prudenza, cioè

a regole dell’abilità per raggiungere gli effetti, e dunque la validità delle regole è misurata sugli

effetti, attenzione, ma anche la mia dignità morale è misurata sugli effetti. Alla fine, con un po’ di

passaggi che la coscienza ottusa non fa fatica a fare, “io ho avuto fortuna” diventa la conferma del

“sono un uomo buono”, e questo, purtroppo, è qualcosa che, dato che la nostra è una cultura in cui

dominano le etiche di tipo consequenzialista, è una implicazione assai grave. Perché ormai si

misurano le persone, ogni persona anche misura sé stessa, sulla base degli effetti che riesce a

113
raggiungere. Non che non sia importante operare nella realtà per produrre degli effetti voluti e

buoni, ma non si può misurare la propria dignità morale dagli effetti.

Nella nostra cultura è assai diffusa questa posizione a livello teorico, di teoria etica, ma

anche a livello operativo e nel senso comune. Per cui, poi, la regola implicita “se uno agisce bene ha

anche dei buoni risultati” inevitabilmente, quasi senza accorgersene, comincia a valere anche

nell’altro senso reciproco “se uno ha buoni risultati agisce bene”. Si sente confermato.

Per Kant e per una etica deontologica, solo per un’etica deontologica, la dignità di una

persona, così come l’incondizionato valore della legge, non è condizionata dagli effetti, e se noi

riscoprissimo un po’ questa dimensione ci farebbe bene anche nel costume pubblico e privato.

Sarebbe bene che molto più spesso le persone, per esempio, si astenessero da cattivi comportamenti

pubblici e privati anche solo per questo banale modo di pensare: “io alla mattina voglio farmi la

barba tranquillamente”, cioè voglio potermi guardare allo specchio.

Più avanti Kant fa l’esempio di una persona che rifiuta di mentire in una situazione in cui

peraltro la sua menzogna sarebbe innocua, una piccolissima menzogna che non farebbe male a

nessuno, però, si dice “no, perché devo mentire?” Per la propria dignità non lo fa. Ecco, se

riprendessimo un po’ l’abitudine a questo costume di comportarci bene, soprattutto di non

comportarci male, per la propria dignità, capite, per potersi guardare allo specchio, ma non per

sentirsi buoni ma per non sentirsi troppo cattivi. Anche perché, certe volte, con l’abitudine del

comportarsi secondo prudenza, secondo abilità, si cade nell’opposto, certe volte a livelli veramente

vergognosi. Vogliamo essere belli, giusto che vogliamo essere belli e cerchiamo di essere belli: non

importa la faccia che abbiamo, non importano i tratti della faccia che abbiamo, ma importa una

faccia che si possa guardare allo specchio, e questa è anche una implicazione di un’etica

deontologica e non di un’etica consequenzialista.

“Infatti, sebbene chi infligge una certa punizione possa insieme avere la benevola

intenzione di indirizzarla anche a questo scopo, tuttavia essa deve essere giustificata in primo

luogo come pena, ossia come un male meramente fisico, di per sé, di modo che, se le cose si
114
fermassero qui e anche se la stessa persona punita non riuscisse a vedere un favore nascosto

dietro tale durezza, dovrebbe ammettere di essersela meritata, e che la sua sorte è

perfettamente adeguata alla sua condotta. In ogni pena come tale ci deve essere anzitutto

giustizia, e quest’ultima è l’essenziale di tale concetto”. Qui la situazione, a proposito sempre di

questo discorso che Kant presenta per esemplificare, è simile a quella del giocatore. Se uno ha fatto

del male e riceve delle bastonate, gli fanno male le bastonate, non può essere contento di ricevere

delle bastonate, perché prova dolore; sarebbe assurdo che dicesse “ah che bello”; gli fanno male le

bastonate, però, dice Kant, sicuramente le bastonate gli fanno male, ma certamente lui dovrà dirsi

“me le sono meritate”. E quel “me le sono meritate” è una forma di compenso della propria dignità,

vi dicevo che la pena è un diritto del reo, “me la sono meritata”, e non aggiunge “meno male che me

le hanno date”, però in sostanza quel “me le sono meritate” è l’affermazione del “sono un uomo

giusto, anch’io, nonostante tutto, sono un uomo giusto, perché so che me le sono meritate”, non

giusto perché mi sono comportato bene ma giusto perché so cos’è la legge morale, ho in me la voce

della legge morale, e, se in questo momento mi sono comportato male, nel momento successivo

posso cominciare di nuovo a comportarmi bene.

“Essa può essere bensì connessa a benevolenza, ma il colpevole – dopo il suo misfatto –

non ha il benché minimo motivo per contare su di essa”. Badate, la pena è ciò che la giustizia

esige, ma la giustizia non esclude la benevolenza, cioè la misericordia, quindi è sempre possibile

non comminare la pena; o meglio: non stabilire la pena, non sanzionare la colpa con una pena,

questo sarebbe ingiusto, però è sempre possibile, dopo aver sanzionato la colpa con la pena, per un

atto di misericordia annullare l’esecuzione della pena, cioè graziare il condannato. Questo a livello

individuale ma anche a livello pubblico, ogni sistema giuridico civile considera e deve considerare

la possibilità della grazia, e la grazia non significa, insisto perché c’è una differenza fondamentale,

che non viene sanzionata la colpa con una pena, perché questo annullerebbe l’intero sistema del

diritto, perché non ha senso parlare di reato e di giudizio senza una sanzione, “non vi è legge senza

sanzione” questo è un principio fondamentale del diritto pubblico occidentale, quindi non è
115
possibile in un sistema giuridico civile non sanzionare un reato, una colpa, però è possibile, per certi

motivi, ci sono casi eccezionali, almeno in senso totale ma anche in senso parziale, applicare

misericordia all’esecuzione della pena, in senso totale con la grazia ma anche in senso parziale, per

esempio tenendo conto di attenuanti con la riduzione della pena, o con lo stabilire che la pena deve

essere scontata in condizioni particolarmente protette, ecc., per esempio ai domiciliari invece che in

un carcere o in una clinica piuttosto che in un carcere.

Tutte queste sono funzioni della misericordia e la misericordia non è opposta alla giustizia, è

complementare alla giustizia, in che modo siano complementari misericordia e giustizia questo è

uno dei grandi enigmi, non è l’unico, è uno dei grandi e magnifici enigmi in cui noi uomini da

sempre e per sempre cercheremo di vederci un pochino più chiaro.

Il punto è che la vera soluzione sarà quando capiremo che sono una parola sola, però adesso

non lo capiamo, ma è giusto che ci sforziamo di trovare un po’ di più di comprensione in questa

questione. Non sono degli opposti, ma su questo pensate, pensate pure, andate avanti a pensare e

non finirete mai, eppure non dovrete mai smettere, perché per ora non lo capiamo, ma intanto nella

vita quotidiana dobbiamo in qualche modo mettere a posto le questioni. Come trattare gli altri con

giustizia ma anche con misericordia? Con misericordia ma anche con giustizia?

“Ancora più sottile, ma non meno falsa è la pretesa di coloro che assumono un certo

senso morale particolare, il quale – anziché la ragione – determinerebbe la legge morale, e

secondo il quale la coscienza della virtù sarebbe legata direttamente a soddisfazione e

godimento, e invece quella del vizio a turbamento e dolore; essi finiscono così per fare tutto

dipendere dall’ esigenza della propria felicità”.

Qui fa un riferimento a una impostazione dell’etica molto importante nella tradizione

filosofica, in particolare proprio nel Seicento, nel Settecento e anche oggi naturalmente, che

possiamo raccogliere, nelle sue molteplici e differenti articolazioni, sotto il titolo di “etiche del

sentimento morale”. Le etiche del sentimento morale erano molto diffuse al tempo di Kant e già da

tempo, già dal ’600, e Kant le prende sul serio naturalmente. Kant non è d’accordo e questo è ovvio.
116
Già il titolo, etica del sentimento morale, vi fa intuire che Kant non può allinearsi su queste

posizioni, visto che tutta la sua etica è fondata sulla ragione e non sul sentimento, tuttavia, Kant le

prende molto sul serio, e la polemica contro le etiche del sentimento morale in generale è molto

presente nella Critica della ragion pratica, lungo tutto il testo – in particolare il terzo capitolo sarà

proprio un confronto con le etiche del sentimento morale. Però non solo il terzo capitolo: in tutto il

testo ogni tanto affiora questo confronto. Capite che se un filosofo si confronta polemicamente con

una posizione è perché non è d’accordo con quella posizione, non è d’accordo però la considera una

posizione seria, perché uno non passa il tempo a far polemica contro le posizioni che ritiene

inconsistenti o non rilevanti, è chiaro che tanto più si occupa di confrontarsi con una posizione

quanto più la considera seria. E in effetti così è per Kant a proposito delle etiche del sentimento

morale. Vedremo meglio lungo il testo di Kant, a partire da questa pagina ma soprattutto, ripeto, nel

terzo capitolo, qual è la posizione di Kant.

Le etiche del sentimento morale, parlo al plurale perché, ripeto, è un titolo collettivo, i

teorici in questo campo sono diversi, anche differenti tra loro, le dottrine etiche del sentimento

morale sono talvolta anche molto differenti tra loro. Perché le raccolgo sotto questo titolo? Non

sono io, la storiografia in generale fa questa operazione, perché hanno in comune questo: pur nelle

differenze, ripeto, quindi sto facendo un discorso molto generale e pertanto generico, hanno in

comune questo, di fondare l’etica su un sentimento, – non in generale sui sentimenti, lo dico perché

talvolta alcuni fanno confusione. Etiche del sentimento morale o etica dei sentimenti è la stessa

cosa? No, sono discorsi completamente differenti: le etiche del sentimento morale si fondano su un

sentimento particolare, che infatti viene chiamato “il sentimento morale”. Cioè a fondamento di

tutta la moralità ci starebbe non un principio razionale ma una inclinazione sentimentale; come i

singoli filosofi individuano questo specifico particolare sentimento morale, questo differisce

dall’uno all’altro, ma l’idea comune è che a fondamento della moralità ci sia una inclinazione

sentimentale.

117
Kant non è d’accordo con questo, e capite che non può essere d’accordo con questo, perché

evidentemente sarebbe un principio materiale e cadrebbe sotto il giudizio del primo teorema, però,

Kant è consapevole della serietà di queste posizioni, in quanto, se pure danno delle soluzioni errate,

però colgono un problema reale: cioè sono etiche che tutto sommato si pongono la questione della

fondazione. Qual è il fondamento della moralità? Questa domanda è una domanda importante anche

per Kant, tutta la Critica della ragion pratica è dedicata a rispondere a questa domanda. Questa

domanda, che altre etiche non si pongono, è la domanda che muove i teorici del sentimento morale

a rispondere dicendo: è un sentimento, non ogni sentimento, non un qualunque sentimento, ma uno

specifico sentimento che è più fondamentale degli altri rispetto alla moralità e che è quello che

fonda la moralità.

Come mai giungono a un sentimento? I motivi sono tanti, ma uno importante è che,

naturalmente, porre un sentimento a fondamento della moralità vuol dire, appunto, porre un

principio immediato, perché il sentimento – l’aspetto pratico della sensibilità – è il rapporto

immediato con l’oggetto, mentre l’intelletto è un rapporto mediato. Quindi il sentimento ha questo

vantaggio, di essere un rapporto immediato con l’oggetto e quindi, dal momento che si cerca il

principio fondante, bisogna cercare un principio di cui abbiamo una conoscenza immediata. Quindi

rispondere che il sentimento è questo fondamento risolve questo problema, lo risolve in modo

semplice, elegante.

Quel problema che, se invece si nega questa strada, come la nega Kant, diventa un problema

complicatissimo; se non si prende questa strada, come fa Kant, e si pone la ragione a fondamento

della legge morale, il problema diventa molto complicato. Ne abbiamo avuto solo un saggio, un

primo approccio – ma nei testi successivi sarà poi approfondito, perché è il problema più difficile di

tutto questo discorso kantiano. Vi ricordate quella nota dopo i problemi, quando Kant diceva:

attraverso i problemi siamo arrivati alla chiarezza su un punto, che c’è un rapporto inscindibile tra

libertà e legge morale, ma quale conosciamo per prima? Non possiamo conoscere per prima la

libertà, invece conosciamo immediatamente la legge morale e la libertà solo a partire dalla legge
118
morale. Già, ma il fondamento è la libertà, non è la legge morale. La ratio essendi della legge

morale è la libertà, non viceversa. Dunque, vedete, se io non prendo la strada facile del sentimento

morale, il problema della fondazione è un problema enorme, perché come posso fondare l’intero

sistema della moralità sopra un fondamento che certamente è il fondamento, però io non lo posso

conoscere se non in modo mediato? Questo sarà il problema principe della teoria kantiana, un

problema che i teorici del sentimento morale non hanno, perché il fondamento è un sentimento e il

sentimento io lo sento, è una conoscenza immediata.

Dunque, Kant prende sul serio queste posizioni, pur non condividendole, anzi contestandole

e polemizzando con esse, perché apprezza di queste posizioni il fatto che abbiano posto il problema

serio della fondazione. L’hanno visto e l’hanno posto, e su questo Kant le rispetta; ciò che non va

bene è la soluzione che hanno dato di questo problema, che è certamente una soluzione semplice,

facile, che toglie tutte le questioni, ma è una soluzione che non regge. Dunque, sono posizioni

interessanti perché hanno visto il problema della fondazione, sono posizioni non condivisibili

perché hanno dato una soluzione errata di questo problema. Non sempre il confronto con l’etica del

sentimento morale in questo testo è esplicito, spesso è esplicito, ma talvolta non è esplicito tuttavia

è chiaro che quando Kant svolge certi argomenti, certe tappe del discorso, ha in mente anche,

sempre, questo confronto con le etiche del sentimento morale.

Qua dice che questa è una pretesa “sottile”, cioè è una pretesa non rozza, e tuttavia falsa.

Qual è? “la pretesa di coloro che assumono un certo senso morale particolare, il quale –

anziché la ragione – determinerebbe la legge morale, e secondo il quale la coscienza della

virtù sarebbe legata direttamente a soddisfazione e godimento, e invece quella del vizio a

turbamento e dolore; essi finiscono così per fare tutto dipendere dall’ esigenza della propria

felicità”. Perché se è un sentimento, ogni sentimento è sempre, l’abbiamo visto nel primo teorema,

implicitamente anche attesa di un piacere o anche di un dispiacere, e quindi è legato al principio

dell’amore di sé o della propria felicità.

119
“Senza ripetere quanto è stato detto prima, voglio solo notare l’errore che qui ha

luogo. Per rappresentarsi il vizioso come tormentato da un grande turbamento per la

coscienza dei suoi misfatti, devono già rappresentarselo prima come moralmente buono,

almeno in una certa misura, nel fondamento più nobile del suo carattere, così come colui che è

deliziato dalla coscienza di avere compiuto azioni conformi al dovere devono già

rappresentarselo prima come virtuoso. Dunque il concetto della moralità e del dovere doveva

pur precedere ogni considerazione di tale soddisfazione, e non può essere affatto (logicamente)

dedotto da quest’ultima”. L’argomento che porta qui è un argomento confutatorio. Questi dicono

che a fondamento del comportamento morale c’è un sentimento, che è una percezione immediata, e

quindi un godimento per l’azione moralmente buona e un dolore, un dispiacere, per l’azione

moralmente cattiva. Ma dice, se io mi rappresento un uomo che spontaneamente si dispiace di aver

fatto il male o si compiace di aver fatto il bene è perché implicitamente presuppongo che

quest’uomo abbia già un concetto di fare il male o di fare il bene. Se è consapevole di aver fatto il

bene o di aver fatto il male è perché ha già un concetto della legge morale, e dunque, questo

sentimento morale, che loro pongono come fondamento immediato, in realtà presuppone già un

concetto, e il concetto è un concetto della ragione, un concetto non può essere un sentimento.

Dunque, l’argomento che porta è di una contraddizione dell’impostazione dell’etica del

sentimento morale, è un’argomentazione, certamente non è il tutto dell’argomento di Kant.

“Ora si deve prima apprezzare l’importanza di quello che chiamiamo «dovere»,

l’autorità della legge morale e il valore immediato che la sua osservanza conferisce alla

persona, ai propri occhi, per sentire” quindi prima, il presupposto è conoscere la legge morale,

per poter poi sentire quella soddisfazione, “quella soddisfazione nella coscienza della propria

conformità alla legge stessa, e invece un aspro biasimo se ci si può rimproverare di averla

trasgredita. Dunque non si può sentire tale soddisfazione oppure turbamento prima di

conoscere l’obbligatorietà, né porre il primo termine a fondamento dell’ultimo”. È la

conoscenza della legge morale che produce in me anche un sentimento di autoapprovazione o di


120
autodisapprovazione, non viceversa. “Occorre essere già un uomo onesto” già non in senso

cronologico, ma in senso trascendentale “almeno per metà, per potersi anche solo rappresentare

quei sentimenti. Del resto, che, come in virtù della libertà la volontà umana può essere

immediatamente determinata dalla legge morale, così anche il frequente esercizio conforme a

tale motivo determinante possa infine comportare, soggettivamente, un sentimento di

soddisfazione, è una tesi che non contesto affatto; anzi, rientra persino nel dovere, fondare e

coltivare questo sentimento che è l’unico che meriti di essere detto «morale» a rigore”. Questa

frase è un po’ complicata, è l’anticipazione, appunto, del tema del terzo capitolo. Qui Kant dice: io

non contesto la legittimità e anzi la necessità di riconoscere un sentimento morale, infatti il

sentimento morale sarà proprio il tema del terzo capitolo, in senso positivo: anche Kant riconosce

un ruolo al sentimento morale, è il tema del terzo capitolo, ciò che contesta è che questo sentimento

morale sia il fondamento della legge morale. Questo è il punto.

“Ma il concetto del dovere non ne può venire derivato, altrimenti dovremmo supporre

un sentimento della legge in quanto tale, e fare un oggetto della sensibilità di ciò che può

essere solo pensato dalla ragione; infatti, se non si trattasse di una netta contraddizione,

sarebbe così soppresso ogni concetto del dovere, che verrebbe sostituito da un mero gioco

meccanico di inclinazioni più raffinate, e talvolta in conflitto con quelle più grossolane”.

Questa è l’implicazione negativa, forse più importante dal punto di vista di Kant, delle etiche del

sentimento morale. Perché l’argomento che ha svolto prima è mostrare che c’è una contraddizione

nella teoria del sentimento morale come fondamento della legge morale, ma sono diversi i motivi,

non solo l’aver riscontrato un errore argomentativo, vi sono anche altri motivi per cui Kant non

accetta le etiche del sentimento morale.

Forse il più importante è proprio quello che accenna qui: le etiche del sentimento morale,

qualunque siano, sono, sotto un certo punto di vista, l’opposto della concezione kantiana, perché noi

abbiamo già visto quanto sia importante per la concezione kantiana questa prospettiva che l’uomo

non è santo, che l’uomo è un ente razionale finito, e che quindi la moralità è uno sforzo, un
121
progresso verso una adeguazione sempre migliore della volontà alla legge morale, e che questo

sforzo è inevitabile perché ad esso si oppongono le inclinazioni sensibili, il desiderio del piacere,

quindi della felicità, e quindi la moralità è una opposizione a queste inclinazioni. Per questo la legge

morale è un comando, è un imperativo, e implica un dovere, cioè una obbligazione. Abbiamo visto

che questa è la prospettiva di Kant, non per il gusto di un dolorismo gratuito, ma proprio per una

concezione dell’ente morale, cioè dell’uomo, come un ente finito. Invece le etiche del sentimento

morale, proprio per il loro presupposto, proprio per il loro impianto, considerano la moralità come

un’inclinazione spontanea, perché se nasce da un sentimento il sentimento è qualcosa di

immediatamente naturale nell’uomo, dunque, l’uomo è mosso naturalmente a essere buono,

qualunque sia poi il sentimento che si identifica come sentimento fondante, cioè come sentimento

morale. La prospettiva delle etiche del sentimento morale è quella di un uomo spontaneamente

morale, spontaneamente buono.

Questa concezione è l’opposto di quella kantiana, e non è che Kant difenda una posizione

più severa, più obbligatoria della moralità contro una più spontanea solo per una sorta di gusto

sadico, ma perché vede, perché ritiene, che questo corrisponda alla realtà dell’ente morale, cioè

dell’uomo, dell’ente razionali finito, che non fa il bene spontaneamente ma che sente la legge

morale come un comando e come un’obbligazione e che si sforza di fare bene e non sempre ci

riesce, perché è sempre una lotta, bisogna opporsi all’inclinazione, al piacere, non alle inclinazioni

al piacere in quanto tali, ma in quanto motivi determinanti della volontà. Ma anche vede quali sono

le gravi implicazioni di ogni concezione, e non sono solo le etiche del sentimento morale in questa

categoria, che vede la moralità come una inclinazione spontanea, come un’attitudine spontanea

dell’uomo. Le implicazioni secondo Kant sono gravi e anche molto pericolose. Tanto per

cominciare: concessioni di questo tipo portano inevitabilmente l’uomo alla presunzione, perché più

o meno esplicitamente questo presupposto vuol dire che l’uomo ritiene di essere santo, di essere

spontaneamente buono. Spontaneamente buono e la definizione di santo, di essere un ente la cui

volontà, se non è disturbata, è immediatamente identica con la legge morale, e questa è la


122
definizione di santità. Quindi sono delle prospettive che hanno in sé, inevitabilmente, il germe del

fanatismo morale, cioè della presunzione di essere santi.

L’altra grande e grave implicazione, è che più o meno esplicitamente ma inevitabilmente,

perché connaturato con il loro presupposto, queste etiche, queste concezioni etiche, sono concezioni

che apparentemente sono etiche, di fatto sono estetiche: è una estetizzazione dell’etica, perché

quando io parlo di sentimento parlo dell’ambito dell’estetica, dove quando dico che è buono fare

questo in realtà quello che sto dicendo è che è bello fare questo. Perché se un uomo si sente

naturalmente e spontaneamente inclinato a, siamo in un discorso estetico, non in un discorso etico.

Sono delle forme estetizzanti di etica, che alla fine svuotano l’etica e la trasformano in una estetica.

Qui naturalmente si entra in una tematica di enorme importanza, che sarà importante anche per

Kant: il rapporto tra etica ed estetica.

Voi pensate come questa problematica sia importante per Kant e per gran parte del pensiero,

non solo dopo Kant ma direttamente discendente da Kant. Pensate solo due nomi: Goethe, Schiller,

Herder per dirne un terzo. Stiamo parlando di kantiani. Tutta la grande filosofia classica tedesca,

che da Kant muove, ha questo tema come uno dei grandi temi: il rapporto tra etica ed estetica,

perché è un tema reale, c’è un rapporto tra etica ed estetica. Questo il pensiero occidentale l’ha

sempre pensato, da Platone in poi e per tutta la tradizione, anche quando la tradizione classica si è

incontrata con il monoteismo ebraico-cristiano. Fin dall’antichità si dice che il bello è la

manifestazione del bene. Questo è dichiarare il rapporto tra etica ed estetica, tanto che nel

linguaggio il monoteismo ebraico-cristiano prende una grande importanza la parola gloria, perché la

gloria è esattamente la manifestazione. Dunque, il rapporto tra etica ed estetica è un tema

importantissimo nella tradizione del pensiero filosofico ma non solo filosofico, anche teologico,

anche letterario, artistico, ecc., persino scientifico. E non è solo ridotta alla bieca questione se

l’artista deve essere buono o che rapporto c’è in un testo letterario, se il contenuto deve essere

moralmente edificante o no. Queste sono questioni specifiche, ma è un tema più vasto: è in generale

il problema del rapporto tra la dimensione etica e la dimensione estetica. È certamente un tema
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importantissimo anche già per Kant, non dimenticate che la terza critica è la Critica del giudizio e la

Critica del giudizio, nella sua prima parte, è critica del giudizio estetico, e nella critica del giudizio

estetico c’è in primo piano la questione del rapporto tra etica ed estetica. Dunque, il tema c’è, il

tema esiste, il tema è importantissimo, ma certamente per Kant non può essere semplicemente

trattato è risolto con una riduzione dell’etica all’estetica. Nemmeno evidentemente con una

riduzione dell’estetica all’etica, ma il rischio, quasi inevitabile, delle etiche che considerano la

moralità come una inclinazione spontanea dell’uomo è appunto la riduzione dell’etica all’estetica.

Tutto questo per dirvi la portata del confronto con queste etiche del sentimento morale che trascorre

in tutto il testo ed è molto importante.

Kant conclude questa nota mostrando come (il tema sono le etiche eteronome non

dimenticatelo), nella storia del pensiero etico, e anche nella sua contemporaneità, siano molte le

forme di etiche eteronome, quindi sono differenti tra di loro, e alla fine fa anche uno specchietto e

vicino a ogni forma mette anche dei nomi di filosofi del passato o di filosofi a lui contemporanei,

quindi sono molte e differenti fra loro, ma alla fine sono tutti riducibili a questo stesso discorso:

sono etiche eteronome, qualunque sia il principio che pongono non è l’autonomia della volontà e

pertanto è una eteronomia, e quindi cadono tutte ugualmente sotto le critiche che abbiamo fatto

sotto la seconda tesi del IV teorema che ogni etica eteronoma non solo non fonda la legge morale

ma le si oppone.

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