Ma soprattutto nel blues si ritrovano dei presupposti che hanno costituito l’origine del jazz:
Infatti si può tranquillamente affermare che il jazz sia nato quando si è cominciato a suonare i blues, oltre che
a cantarli.
Acquistare strumenti musicali (tra cui il tamburo che incitava alla rivolta) fu possibile solo dopo la guerra
civile. Quindi situiamo la nascita del blues sicuramente nella seconda metà dell’Ottocento.
Nel 1896 fu sancita dalla corte suprema (processo Plenty contro Ferguson) la legittimità della segregazione
della minoranza nera, a patto che venissero garantiti pari servizi e possibilità.
Fu solo un’ipocrita menzogna.
La realtà era molto diversa: ad esempio, riguardo l’istruzione, per un afroamericano veniva investito solo 1/5
di quanto si spendeva per un bianco.
Stesso discorso valeva per i servizi pubblici, tra cui i mezzi di trasporto e gli ospedali.
Anche il diritto al voto era un miraggio: a oltre il 90% dei neri era negato.
Probabilmente nel passaggio dalla schiavitù alla vita libera, il canto spirituale si trasformò nel blues:
L’etimologia della parola si fa risalire a un modo di dire inglese: “Vedere i diavoli blu”, riferito a coloro che
hanno alzato un po’ troppo il gomito.
In effetti gli interpreti di questa musica hanno sempre cercato nell’alcool (spesso distillato artigianalmente e
clandestinamente, di notte, da cui il termine Moonshine) un conforto e spesso molto di più di uno svago
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IL BLUES MASCHILE (POPOLARE O RURALE)
Il primo blues è detto “popolare” o “rurale”, talvolta anche Delta Blues perché si sviluppò in una particolare
regione, il Delta del Mississippi, che in realtà si trovava piuttosto all’interno del Paese, e non in prossimità
del mare come la parola fa pensare; era una zona in cui si praticava l’agricoltura, una sorta di “mezzaluna
fertile” delimitata dai fiumi Mississippi e Yazoo.
Esso viene prevalentemente definito Country Blues (in contrapposizione al City Blues che si svilupperà a
Chicago a partire dal 1930).
Nelle forme embrionali si trattava di brani solo cantati che avevano una struttura aperta, come negli hollers (i
richiami o calls).
I primi blues erano chiamati “one-verse song”, canzoni con un unico verso ripetuto. In questa forma è chiara
la discendenza da calls e cries.
Poi si aggiunse l’accompagnamento del banjo, l’unico strumento di origine africana entrato nella storia del
jazz (il suo progenitore si chiamava banjar); in seguito verrà sostituito quasi totalmente dalla chitarra.
I primi interpreti del blues furono sicuramente cantanti e chitarristi, che spesso sapevano fare l’uno e l’altro.
Successivamente ad essi si aggiunsero i pianisti.
Quest’ultimi allietavano le serate durante i fine settimana, suonando in locali di fortuna allestiti negli
accampamenti sorti un po’ ovunque per:
A questo popolo di operai, minatori, boscaioli e cercatori d’oro i musicisti del primo blues offrivano la loro
musica, suonata in tutte le salse.
Per fortuna il pubblico non si annoiava mai: se allora si suonava solo quello, pensate quanti blues potevano
essere suonati in una sola sera!
Considerando che questo avveniva in tantissimi posti contemporaneamente non possiamo evitare di
considerare che questo genere possieda realmente qualcosa di magico, perché non stanca mai (come prova il
fatto che il blues venga suonato ancor oggi con le medesime modalità), risultando sempre fresco ed attuale.
Queste bettole, situate in zone montuose e lontane dai centri abitati, erano frequentate da gente della peggior
risma. Esse prendevano il nome di:
A) Piney Woods
B) Honky Tonky
C) Barrelhouse
La musica non veniva neppure (o forse ancora) chiamata Blues; spesso il luogo la definiva:
A) Honky Tonky music (dal suono dei pianoforti, che ricordavano il rumore prodotto percuotendo delle
pentole di latta, tanto erano scordati
B) Gotbucket music (fondo del sacco, sentina)
L’allontanamento dalle piantagioni da parte degli ex-schiavi uomini, determinò il proliferare dei vagabondi, i
cosiddetti ”hobos” (termine di origine spagnola).
Al pari di altre minoranze emarginate il nero affrancato diventava un barbone, un nomade senza fissa dimora,
fiero e felice di esserlo.
In qualche modo sentiva di essere salito di livello; probabilmente non si sbagliava, perché era tornato libero!
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Tra i primi blues singers ricordiamo:
Si racconta che i bluesmen fossero tipi poco raccomandabili, grandi amatori e accaniti bevitori, spesso dediti
al gioco e ad altri vizi.
Vivevano esistenze “borderline”, spesso inevitabilmente contrassegnate da una tragica brevità.
Basti pensare che il migliore interprete del genere, il mitico Robert Johnson, l’autore dell’immortale “Sweet
Home Chicago”, morì prima dei trent’anni in circostanze misteriose, dopo una serata, probabilmente
avvelenato da un marito geloso.
Di lui si diceva che avesse venduto l’anima al diavolo.
Le tematiche proposte erano piuttosto comuni, identificabili in una serie di argomenti; soprattutto
gli interpreti maschili dei blues si vantavano o si lamentavano:
Nel 1909 nacque la National Association for the Advancement of Colored People (N.A.A.C.P.), guidata
da W.E.B. Du Bois, uno dei primi grandi leader politici negri.
Quest’organo cominciò, attraverso varie iniziative (stampa, manifestazioni, denunce…), a dare voce alle
rivendicazioni dei neri.
Lentamente cominciava un cambiamento sociale delle masse di colore.
Tuttavia gran parte degli ex-schiavi era rimasto, come abbiamo detto, nelle campagne degli stati del Sud,
impiegati come braccianti, e vivevano rassegnati, privi di speranze di miglioramento.
Altri, più coraggiosi, partivano per le città senza reali prospettive d’impiego, soprattutto perché, oltre che nel
razzismo, si imbattevano spesso in lavori che non sapevano fare.
Nelle città, ambienti ostili ed emarginanti, s’accresceva la loro solitudine e la disperazione.
Il disagio diventò una sorta di male sociale, proprio quello che si cantava nei blues:
Al contrario dello spiritual, che era l’espressione di una comunità nera che trovava una voce comune, il
blues era l’espressione e il canto del singolo, che si faceva domande e si rispondeva da solo.
Il canto sacro utilizzava l’allegoria dei salmi della Bibbia, il blues invece la metafora e l’allusione, perché
anch’esso non poteva parlare in modo diretto.
Pertanto il contenuto verbale della prima musica afroamericana era soggetta al “double talk”: parlare doppio
per metafore, in modo da essere capiti solo dai fratelli della stessa razza.
Attraverso questa innumerevole serie di lamenti individuali, i neri riacquistavano una consapevolezza di sé.
La loro cultura ne usciva rivalutata e rinforzata, cominciava l’Era del Blues.
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Definizione di “avere i blues”:
La forma più evoluta, che è poi quella ancora usata nella maggior parte dei casi, è quella di un brano di 12
misure, divise in 3 versi di 4 battute ciascuno.
I primi due sono quasi identici, il terzo costituisce una risposta o una conclusione.
C – Eb – F (registro inferiore)
G – Bb – C (registro superiore)
L’inizio della melodia è quasi sempre in levare e dopo la frase musicale si colloca un’altra pausa,
sempre sui tempi forti.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto sì che il blues diventasse la forma più nota a tutt’oggi della musica
afroamericana.
Anzi è diventato il perfetto veicolo per ogni tipo di messaggio.
A. Come gli africani, i blues singers parlavano per metafore (double talk)
B. Un’affermazione senza perifrasi o metafore era troppo brutale.
C. Il testo è soggetto a continue variazioni. Ciò si rispecchia anche nella musica: le frasi non sono
attaccate mai nella stessa maniera, c’è sempre una leggera variazione, come realizzando un sapiente
gioco di chiaroscuro, di tensione e distensione.
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EVOLUZIONE DEI BLUES
Nel passaggio dalle campagne alle città, il blues perse la sua primigenia ruvidezza.
Lo schema si consolidò in quelle 12 battute.
Le tematiche cambiarono, riflettendo le nuove condizioni di vita.
La nascente industria americana dello spettacolo cominciò a interessarsi alla musica afroamericana, ma i forti
pregiudizi razziali imponevano molta cautela.
Nelle prime sale di registrazione l’accesso agli afroamericani non era certo consentito; bisognerà aspettare
almeno due decenni dall’invenzione del disco, avvenuta nel 1902, per ascoltare la vera musica nera suonata
da artisti non bianchi.
Per quanto riguarda soprattutto l’aspetto vocale, il timbro dei primi interpreti di colore era ritenuto
“impresentabile” o comunque improponibile al grande pubblico, perché troppo rozzo e selvaggio.
A lungo il blues e il jazz stesso sono stati considerati dagli americani oggetti di cui vergognarsi, perché
disordinata, grezza e soprattutto di chiara ascendenza africana; a ciò si deve aggiungere l’aspetto malconcio e
poco “perbene” dei bluesmen, che non permetteva di intravedere al di là delle apparenze il grande valore e la
novità della loro proposta artistica.
Pian piano il blues dominerà il mondo musicale del Ventesimo secolo, ispirando largamente non soltanto il
jazz ma tutti i generi di consumo che si sono affermati a partire dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri,
come il rock and roll, il rock, e generalmente tutta la musica pop di largo consumo.
Ma prima che gli americani si rendessero conto del valore del jazz e del blues dovranno passare molti anni;
inizialmente ci si vergognava di quel prodotto musicale.
D’altronde come poteva essere accettato il fatto che l’America fosse rappresentata artisticamente dalla
musica creata dai suoi schiavi?
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IL BLUES CLASSICO (O FEMMINILE)
Tutti questi cambiamenti portarono alla creazione di un nuovo genere, il Blues classico, quello cantato dalle
donne, la cui epoca d’oro cominciò negli anni Venti del Novecento.
Il blues fino a quel momento era stato interpretato soltanto dagli uomini, che conferivano al genere un
carattere rozzo, quasi sempre scurrile; oltretutto la loro dizione era imperfetta, biascicata (colpa del troppo
Moonshine…) per cui spesso il testo risultava incomprensibile.
All’inizio del Novecento però, quando l’industria dello spettacolo si accorse delle potenzialità del blues, si
ritenne che per essere presentato al grande pubblico e quindi commercializzato questo genere dovesse essere
ingentilito in qualche maniera.
Si pensò che le voci femminili fossero più adatte, perché meno volgari; inoltre si avvicinavano di più al gusto
degli ascoltatori bianchi.
Già negli anni Dieci del Novecento si affermò Gertrude Pridgett Rainey, detta Ma’ Rainey.
Prima di diventare una stella nel circuito del Vaudeville e dei Minstrel Show si presentava in coppia col
marito Will Rainey, con un gruppo dal nome colorito: “The Assassinators of the Blues”.
Furono proprio loro a tenere a battesimo Bessie Smith nel 1912; soprannominata l’”Imperatrice del Blues”,
la cantante, nata a Chattanooga nel 1894, fu di certo la migliore interprete in assoluto di questo nuovo
genere.
La maggior parte delle melodie del blues classico presentavano un range (estensione vocale) limitato, in
genere o si utilizzavano le prime note della scala blues oppure quelle del registro acuto; esempi di questa
prassi sono riscontrabili in:
A. “You’ve Been A Good Old Wagon” (impostato sulla prima parte della scala)
B. “Cold In Hand Blues” (che privilegia le note più in alto, quelle della seconda metà)
Negli stessi brani si può cogliere l’incertezza modale dovuta all’uso della terza minore al canto, mentre
l’accordo è maggiore (“You’ve Been A Good Old Wagon”) e della settima maggiore in contrasto con
l’armonia che presenta la settima minore (“Cold In Hand Blues”).
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BESSIE SMITH
Bessie Smith divenne ben presto un’icona per tutta la gente afroamericana; a partire dal 1923 i suoi dischi,
incisi con etichette per soli artisti di colore, sotto la categoria “Race Records”, vendevano milioni di copie.
Le sue interpretazioni presentavano tutte le migliori qualità che doveva avere un’interprete di blues:
Nel 1920 la cantante afroamericana Mamie Smith inaugurò il nuovo mercato dei “Race Records”, le
registrazioni destinate alla razza nera, cantando con voce sdolcinata “Crazy Blues” e suscitando grande
interesse negli appassionati di novità musicali; il blues era vivo già da decenni, ma non era stato mai
presentato su disco in una forma che fosse più o meno vicina all’originale, e neanche questa volta era
un’immagine del tutto veritiera.
Anche se Mamie Smith vanta lo straordinario primato di essere stata la prima artista di colore ad essere
entrata in uno studio di registrazione per incidere un disco, bisognerà aspettare l’avvento di Bessie Smith
(che registrò i primi dischi nel 1925) per ascoltare il vero blues!
Ad ogni modo, furono ben cinque le Smith cantanti di blues a raggiungere la notorietà:
A. Bessie
B. Mamie
C. Clara
D. Trixie
E. Laura
N.B. Curiosamente la mamma di Bessie si chiamava anch’essa Laura, ma non faceva la cantante, per cui la
quinta Smith non è lei!
Tra le interpreti di blues classico ricordiamo le meno note:
A. Lucille Hegamin, una nera di pelle chiara dalle enormi possibilità vocali e lo stile pulito, trasferitasi
a Chicago dalla natìa Macon (Georgia del Sud), utilizzando lo pseudonimo di Georgia Peach
B. Ethel Waters, tra le prime a incidere i blues, ma nello stile sdolcinato e anti-drammatico del
Vaudeville (in Italia questo tipo di spettacolo era chiamato Varietà), simile a quello di Mamie
Smith, pertanto privato dell’antico e reale pathos; successivamente diventò una notevole cantante di
jazz e successivamente fece carriera anche come attrice cinematografica.
Con l’avvento dello stile classico il blues si affermò come forma di spettacolo autonoma e nonostante la sua
estrema semplicità fu pian piano innalzata al ruolo di musica d’ascolto.
Tra i primi a capirne la potenzialità d’intrattenimento popolare furono i fratelli Barasso di Memphis (ma con
chiare origini italiane, precisamente torinesi), che crearono l’agenzia T.O.B.A. (l’acronimo sta per “Theatre
Owers Booking Agency”, capace di gestire un circuito di circa 80 teatri, sparsi in tutti gli Stati del Sud e
frequentati moltissimo dalle comunità nere.
Il circuito T.O.B.A., chiamato anche ironicamente dagli artisti di colore “Tough On Black Artists” (“Dura
per gli artisti neri”), procurava lavoro abbastanza continuo agli artisti afroamericani, benché questi si
lamentassero dei compensi da fame.
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Indubbiamente però quest’organizzazione contribuì alla diffusione della musica nera in una vasta area
geografica, gli Stati del Centro-Sud.
IL BLUES COME TEMA DI JAZZ
I primi artisti della storia del jazz sono probabilmente musicisti blues che si affermano all’inizio del
Novecento con l’ufficializzazione della forma musicale, come il mitico cornettista Buddy Bolden.
A lui si attribuisce l’invenzione degli “hot blues”, cioè i blues soltanto suonati e non cantati.
Inseriti nelle compagnie di minstrel show, il blues prese lentamente il posto del ragtime.
Molto celebre divenne di colpo William Christopher Handy, autore del celeberrimo “St. Louis Blues”,
grande successo del 1914.
Afroamericano, cornettista, figlio di un modesto direttore di banda, egli stesso dirigeva un’orchestrina da
ballo che faceva per lo più musica popolare, polke, valtzer e motivi veloci e ritmati.
Già negli ultimi anni dell’Ottocento si era reso conto che stava nascendo presso gli strati inferiori della
popolazione nera un nuovo genere musicale; durante una festa in cui suonava, presso una fattoria di una zona
rurale del Sud, gli fu chiesto di lasciar suonare dei musicisti locali, che lui definì tre straccioni: la gente gradì
così tanto la loro musica e dimostrò una reale familiarità con essa, tanto da sommergere di monetine gli
esecutori e impedire all’orchestra scritturata di riprendere.
Dopo qualche anno, ne1903 ascoltò nuovamente un suonatore di blues durante l’attesa di un treno in una
stazione del Sud; l’uomo, anch’egli un barbone, cantava e si accompagnava facendo scivolare la lama di un
coltello sulle corde della sua chitarra, ottenendo un effetto affascinante e inconsueto.
Riconobbe quel suono e lo ricordò a lungo; dopo qualche anno decise di adottare la forma del blues in una
canzoncina composta come slogan pubblicitario di un candidato, Mr. Trump, durante la campagna elettorale
del 1912.
L’esperimento si rivelò vincente e dopo un paio d’anni Handy scrisse il suo capolavoro, “St. Louis Blues”; il
successo incredibile riscosso da questo brano spinse il musicista a proclamarsi “Padre del blues” ma a parte
l’exploit del 1914 fu solo l’autore di qualche bella canzone, come la successiva “Memphis Blues”.
Tuttavia bisogna riconoscergli il merito di essere stato il primo ad avere messo nero su bianco il blues,
inserendo questa forma musicale a pieno titolo nel mondo della canzone americana.
Inoltre “St.Louis Blues” si offrì come uno dei primi temi a disposizione degli improvvisatori che in quegli
anni stanno codificando il jazz.
Il blues come tema di jazz è un altro utilizzo che si fa della forma fissata in 12 misure.
A partire da W.C. Handy e spingendoci molto in là nel tempo, possiamo collegare in un unico filo i grandi
interpreti della musica afroamericana improvvisata, che si sono cimentati nella composizione di propri blues: