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Ad un certo punto del secondo episodio di Mondo Cane1, il bizzarro e controverso documentario di
Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, viene mostrata quella che la voce narrante definisce una
“stazione di servizio per lavaggio e ingrassaggio” di mucche. Mentre gli animali fanno avanti e indietro
tra spazzole rotanti e spruzzi d’acqua automatici ci viene spiegato il senso di tale marchingegno: «Gli
americani hanno il senso pratico – ci ricorda il narratore – e per loro una mucca è una macchina per
fabbricare il latte quindi dev’essere ben lubrificata»2. Dall’altra parte del mondo - questa volta non in un
mondo-movie3 - vengono diffuse le immagini di alcuni cittadini indiani che per combattere la diffusione
del Covid19 si cospargono il corpo di sterco di mucca. Alcune credenze indù, infatti, prescrivono il
bagno negli escrementi di mucca sacra allo scopo di prevenire malattie e potenziare il sistema
immunitario4. Stesso animale, insomma, ma due tipi molto diversi di lavaggio. Per comprenderli meglio,
sarà il caso di chiedersi cosa sia la sporcizia e, di rimando, cosa la pulizia.
Provando ad interrogare il vocabolario si scopre che per “sporco” s’intente comunemente tutto ciò
che – guarda caso – non è “pulito” e per “pulito” tutto ciò che – rullo di tamburi – non è “sporco”. Si
direbbe che siamo intrappolati in una tautologia. Per uscirne sarà il caso di chiedere aiuto agli
antropologi. Sembra, infatti, che nelle culture aborigene, in particolare in quelle che vivono in comunità
di cacciatori-raccoglitori, non sia riconosciuto alcun senso ai concetti di sporco e pulito né, tanto meno,
si riscontra la presenza di una parola per indicarli (Cazzolla Gatti, 2012). L’antitesi tra sporco e pulito
sembra una derivazione della prime società contadine stanziali. Chiunque viva in una società in cui la
natura non sia già stata domesticata può definirsi sporco: l’idea di pulito è intrinsecamente legata a
quella di “domestico” e quindi, volendo essere tranchant, al contrario di “selvatico”.
piantagioni di palme da olio ed un incremento delle esportazioni di suini che è passata dai 36mila dollari del 1992 ai 4 milioni
e mezzo del 2013. [Online] Available at: <https://urly.it/36sq4> (Ultima consultazione: 19/05/2020)
Sbagliando, siamo portati a considerarci come un unico essere quando, in verità, ogni giorno ci
scontriamo contro il fatto che sarebbe opportuno considerarci più simili ad un microcosmo che
cammina e si autoregola6: viviamo in simbiosi con miliardi di batteri utili che formano il nostro
microbiota, con i quali ci siamo evoluti per millenni e che, quindi, rappresentano in maniera profonda
chi siamo. Così come le politiche di espansione in nome del progresso stanno riducendo la biodiversità
del pianeta con cui viviamo, gli effetti collaterali di un’eccessiva igienizzazione o uso di antibiotici
rischiamo di uccidere la biodiversità di cui siamo fatti (Hamblin, 2021).
Nell’ultimo anno, spinti dall’onesto tentativo di interrompere la catena di trasmissione virale,
abbiamo accelerato il processo di interruzione dello scambio, alienazione e scissione che era già in atto
sia scientificamente che criticamente ma, lentamente, ci stiamo accorgendo che la natura lì fuori è
prodotta da noi ma è anche il prodotto del quale facciamo. Il nostro esistere comporta quindi empatia,
alterità, somiglianza e differenza. Comporta cura con ciò che ci circonda, nodo indissolubile tra dentro
e fuori, nei luoghi e in noi stessi. Come ha scritto recentemente Emanuele Coccia «la nuova città
dovrebbe essere una sorta di enorme storta chimica in cui provare a trovare l’elisir della vita
mescolando le cose e noi stessi con gli altri e con ogni tipo di oggetto» (Coccia, 2020).
7 Vedi Hustanton School a Norfolk (1950-1954), la sede del giornale The Economist (1959-1964) e il complesso urbano Robin
Hood Gardens (1966-1972).
8 Vedi La casa del futuro presentata alla Daily Mail Ideal Home Exhibition nel 1965.
9 Vedi Parr, M. (2009), Playas, Chris Boot Ltd, Londra o Parr, M. (2009) The Last Resort, Dewi Lewis Publishing.
inquietante pulizia, la casa al mare resta quindi baluardo di mescolanza e sana sporcizia in cui le porte
sono spalancate e i confini rarefatti.
Quando nel 1962 Marco Zanuso venne incaricato di costruire, per due famiglie milanesi, una coppia
di case per vacanze ad Arzachena, si trovò di fronte un paesaggio ancora fortemente selvaggio, non
servito da gas o elettricità, in cui non era ancora iniziata la speculazione turistica che ha così fortemente
modificato il paesaggio sardo. A venti metri dal mare, Zanuso costruisce un recinto di 15 metri per lato
che racchiude due case gemelle. Tutto il progetto sarà estremamente semplice ed essenziale ma per
questo assolutamente vicino al genius loci della costa. Le camere, costruite sui quattro angoli del recinto,
comunicano tra di loro solo tramite il cortile centrale che è un teatro in cui si svolge la vita dei residenti
insieme a quella dell’ambiente naturale: luce, ombra, vento si alternano in una danza antica sotto un
graticcio leggero che ripara dal sole. Vista dal mare, essendo costruita in granito, con lo stesso materiale
della scogliera, e grazie ai due vuoti dell’ingresso, insieme alla posizione arretrata delle stanze rispetto al
perimetro del volume, la casa sembra quasi un recinto per la pastorizia a cielo aperto, tutt’uno con il
paesaggio e la natura. Tutto il progetto, arredi compresi, sembra essere stato intagliato in una roccia e
per via della sua posizione, della sua essenzialità ed interpretazione del genius loci, è selvaggio proprio
come doveva esserlo quella scogliera negli anni in cui era stata costruita.
Nelle case al mare come quella di Zanuso è piuttosto facile intuire il senso di un abitare che collassa
su quello di una mescolanza in e con la natura. Abitare in vacanza vuol dire ritrovare una certa
essenzialità che spesso sembra essere addirittura necessaria a catturare una simbiosi con il paesaggio in
cui si è immersi. Si potrebbe andare a cercare conferme ad Ibiza, nella casa vacanze che Ricardo Bofill
disegna nel 1970. Si tratta di una casa insieme organica e vernacolare che riesce a lavorare con estrema
maestria attraverso una giustapposizione di ambienti aperti e chiusi verso il paesaggio. Non
necessitando di inutili comodità, l'interno è austero e magicamente sobrio. Tutta la casa è un pezzo di
roccia addomesticata con un filo di intonaco bianco che si accomoda sulla spiaggia selvaggia dell’isola
spagnola.
Quello interpretato dalla casa per vacanze è il sogno di un abitante viaggiatore capace di fare di sé
stesso la propria casa abitando seguendo il corso delle stagioni. È un’affascinante concezione di abitare
ecologico per cui non c’è più la chiusura dell’uomo verso il mondo ma chiusura del mondo nell’uomo
stesso. L’alloggio, in vacanza, non rappresenta più l’idea di un interno ma piuttosto sembra fungere da
un ipotetico nucleo funzionale tascabile a servizio di un’immensa casa che è la terra. Il Cabanon che Le
Corbusier realizza in Costa Azzurra è in tal senso la più onesta delle rappresentazioni di un abitare
vacanziero interprete di una visione simbiotica del mondo e della natura: una casa al sacco concepita
come l’embrione di un’ipotetica casa trasportabile, come può essere una roulotte o una tenda ripiegatile
nello zaino. Il capanno 3,66 per 3,66 metri, costruito in adiacenza ad un ristorante a Roquebrune-Cap-
Martin, è per l’architetto il pretesto per fuggire da una vita umana “pulita” e rintanarsi in un’altra
«finalmente inoperosa, animale, pura» (Caffo, 2020, p. 159). Le Corbusier, che morirà proprio lì
nell’estate del ’65, realizzerà con i Cabanon il più estremo esercizio di mescolanza della sua vita: l’interno
compresso, con pochi arredi misurati ed essenziali è il pretesto per vivere la casa dall’esterno. Spesso
nudo, all’aria aperta, l’architetto svizzero sperimenterà un abitare sporco e selvaggio che non gli starà
per niente stretto. Il Cabanon era il pretesto per vivere la natura e il mare della Costa Azzurra. Era un
microcosmo di oggetti semplicissimi e complessissimi insieme che contribuivano, come accadrebbe
nella cabina di un treno, a comprimere l’interno per allargare il più possibile l’esterno. La sua storia, nel
vertice di un triangolo mediterraneo che va da Ibiza ad Arzachena, racconta bene il senso di una
vacanza come esercizio di mescolanza con il mondo, il suo sporco e il suo selvatico da cui la casa-
urbana post-pandemia potrebbe ripartire per inseguire la possibilità di un domestico abitare più
ecologico, giusto, equo e, quindi, inevitabilmente più sano.
Bibliografia
Caffo, L. (2020), Quattro capanne, Nottetempo, Milano.
Scimemi, M. (2004), “Un'opera aperta degli Smithson a Bad Karlshafen”, in Casabella 706.