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Sporcarsi

Domestico contro, senza, con e per selvatico


Ciro Priore

Ad un certo punto del secondo episodio di Mondo Cane1, il bizzarro e controverso documentario di
Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, viene mostrata quella che la voce narrante definisce una
“stazione di servizio per lavaggio e ingrassaggio” di mucche. Mentre gli animali fanno avanti e indietro
tra spazzole rotanti e spruzzi d’acqua automatici ci viene spiegato il senso di tale marchingegno: «Gli
americani hanno il senso pratico – ci ricorda il narratore – e per loro una mucca è una macchina per
fabbricare il latte quindi dev’essere ben lubrificata»2. Dall’altra parte del mondo - questa volta non in un
mondo-movie3 - vengono diffuse le immagini di alcuni cittadini indiani che per combattere la diffusione
del Covid19 si cospargono il corpo di sterco di mucca. Alcune credenze indù, infatti, prescrivono il
bagno negli escrementi di mucca sacra allo scopo di prevenire malattie e potenziare il sistema
immunitario4. Stesso animale, insomma, ma due tipi molto diversi di lavaggio. Per comprenderli meglio,
sarà il caso di chiedersi cosa sia la sporcizia e, di rimando, cosa la pulizia.
Provando ad interrogare il vocabolario si scopre che per “sporco” s’intente comunemente tutto ciò
che – guarda caso – non è “pulito” e per “pulito” tutto ciò che – rullo di tamburi – non è “sporco”. Si
direbbe che siamo intrappolati in una tautologia. Per uscirne sarà il caso di chiedere aiuto agli
antropologi. Sembra, infatti, che nelle culture aborigene, in particolare in quelle che vivono in comunità
di cacciatori-raccoglitori, non sia riconosciuto alcun senso ai concetti di sporco e pulito né, tanto meno,
si riscontra la presenza di una parola per indicarli (Cazzolla Gatti, 2012). L’antitesi tra sporco e pulito
sembra una derivazione della prime società contadine stanziali. Chiunque viva in una società in cui la
natura non sia già stata domesticata può definirsi sporco: l’idea di pulito è intrinsecamente legata a
quella di “domestico” e quindi, volendo essere tranchant, al contrario di “selvatico”.

Domestico contro selvatico


Negli ultimi vent’anni, per far fronte alla sempre crescente domanda di carne a basso costo e di olio di
palma, la Malesia ha scientemente trasformato le proprie foreste compromettendone fortemente la
biodiversità per imporsi tra i massimi allevatori di un animale proibito dalla religione prevalente, il
maiale5. Il risultato è che, nel 1998, nel 2004 e di nuovo nel 2018, gli sfruttamenti del suolo e degli
allevamenti intensivi hanno causato una convivenza forzata tra animali selvatici ed addomesticati,
favorendo così il passaggio del virus NIPAH dai pipistrelli della frutta ai maiali e poi all’uomo: un
centinaio di vittime tra Malesia, Bangladesh ed India e più di un milione di suini abbattuti.
Anche nel 2019 un virus di origine selvatica, dopo aver effettuato una certa quantità di salti di
spillover (Quammen, 2012), è passato dagli animali all’uomo. Ci ritroviamo così catapultati in una
drammatica pandemia che ha messo in luce tutte le contraddizioni che caratterizzano le nostre società.
Molta produzione scientifica è stata scritta su come la crisi pandemica si è palesata, fin da subito, anche
come una crisi del domestico (Molinari, 2020) ma, a mio avviso, vale la pensa sottolineare anche che,
come ogni altra epidemia di questo genere, quella del COVID19 è la conseguenza dell’ennesimo attacco
che l’antropocentrica società sta sferrando a tutto ciò che, essendo selvaggio e selvatico, è ritenuto
sporco.

1 Mondo cane 2, reg. Jacopetti G., Prosperi F., 1963, documentario.


2 Ibidem.
3 Un Mondo-movie è un sottogenere cinematografico che intende colpire lo spettatore con immagini e temi controversi pur

mantenendo la forma del documentario. Il genere è conosciuto anche come shockumentary.


4 Reuters, Doctors warn against cow dung as COVID cure in India, YouTube video, 2021. [Online] Available at:

https://www.youtube.com/watch?v=gbFMYt4nnzY (Ultima consultazione: 06/06/2021).


5 Fino al 2012, la superficie forestale della Malesia è diminuita di 47mila kmq a fronte di un aumento di 17mila kmq di

piantagioni di palme da olio ed un incremento delle esportazioni di suini che è passata dai 36mila dollari del 1992 ai 4 milioni
e mezzo del 2013. [Online] Available at: <https://urly.it/36sq4> (Ultima consultazione: 19/05/2020)
Sbagliando, siamo portati a considerarci come un unico essere quando, in verità, ogni giorno ci
scontriamo contro il fatto che sarebbe opportuno considerarci più simili ad un microcosmo che
cammina e si autoregola6: viviamo in simbiosi con miliardi di batteri utili che formano il nostro
microbiota, con i quali ci siamo evoluti per millenni e che, quindi, rappresentano in maniera profonda
chi siamo. Così come le politiche di espansione in nome del progresso stanno riducendo la biodiversità
del pianeta con cui viviamo, gli effetti collaterali di un’eccessiva igienizzazione o uso di antibiotici
rischiamo di uccidere la biodiversità di cui siamo fatti (Hamblin, 2021).
Nell’ultimo anno, spinti dall’onesto tentativo di interrompere la catena di trasmissione virale,
abbiamo accelerato il processo di interruzione dello scambio, alienazione e scissione che era già in atto
sia scientificamente che criticamente ma, lentamente, ci stiamo accorgendo che la natura lì fuori è
prodotta da noi ma è anche il prodotto del quale facciamo. Il nostro esistere comporta quindi empatia,
alterità, somiglianza e differenza. Comporta cura con ciò che ci circonda, nodo indissolubile tra dentro
e fuori, nei luoghi e in noi stessi. Come ha scritto recentemente Emanuele Coccia «la nuova città
dovrebbe essere una sorta di enorme storta chimica in cui provare a trovare l’elisir della vita
mescolando le cose e noi stessi con gli altri e con ogni tipo di oggetto» (Coccia, 2020).

Domestico senza selvatico


La ricerca dell’uomo, sempre intento ad allontanare il più possibile qualunque idea di sporco o
sporcizia, sembrava essere finalmente in potenza di completamento. Nelle nostre affollate città
multietniche, dopo la crisi pandemica, la distanza tra spazio esterno e spazio interno sembra essersi
notevolmente allargata. Ogni giorno si combatte una guerra snervante in cui le soglie sono diventate
moderne frontiere con igienizzanti, termometri e guanti a fare da attenti picchetti di guardia che
separano il dentro-pulito dal fuori-sporco tanto che spesso il dentro è una chimera irraggiungibile per
chi, restando sull’uscio di un bar, vorrebbe solo accomodarsi a prendere un caffè.
Il movimento moderno muoveva dall’idea domestica ed urbana di igiene per cercare un nuovo stile
estetico esportabile e vendibile, tanto che «il mondo intero diventa un ospedale» (Illich, 1974). In alcune
città del Nord, la natura entra a far parte del progetto architettonico prettamente per ragioni di
abbellimento o di marketing. Non è più solo il parco urbano ad essere un «Tappeto Arcadico sintetico»
(Koolhaas, 2015, p. 21) ma è la città tutta a illustrare «il dramma di una cultura che prende le distanze
dalla natura» (Koolhaas, 2015, p. 20).
L’ambiente domestico, d’altro canto, già dalla Cucina di Francoforte, e poi passando per la domotica,
fino all’internet-of-things, ha dimostrato un crescendo di asetticità germofobica. Partendo dal modello
della cella come spazio minimo perfetto, il pensiero moderno si è spinto quindi verso la definizione
della scatola minima che potesse accogliere, proteggere, isolare e ospedalizzare ogni individuo che
scegliesse di far parte della società civilizzata.
Quella contemporanea è una città priva di odori, di sporco e di mescolanza. Siamo circondati da
oggetti indistruttibili che non si deteriorano mai o che, se lo fanno, lo fanno in maniera programmata.
Per sapere se un prodotto è buono, invece di annusarlo, ci limitiamo a leggere l’etichetta sul retro del
pacchetto. Non dedichiamo più abbastanza tempo alla conoscenza dei materiali e delle tecniche, non ci
fidiamo di nulla che non sia stato recensito, non siamo più in grado di affidarci alle cure di una finestra
che non sia fatta di pixel e, invece di dare valore agli oggetti e ripararli, semplicemente, li gettiamo via. Il
progresso critico e scientifico sembra essere coinciso con una riduzione delle zone affrancate dal pulito.
Per sopravvivere abbiamo introdotto sempre nuove tecnologie col tentativo di liberarci da un ambiente
che, più o meno ostile, è stato sempre più spesso stimato come un oggetto da assoggettare piuttosto
che un soggetto con cui confrontarci.

Domestico con selvatico


Dovremmo iniziare a considerarci come una medusa che «vive nel, con e attraverso il mare che le
permette di essere ciò che è» (Coccia, 2019, p. 46). In effetti quando proviamo ad approfondire questa
immagine, ci rendiamo conto che ogni qualvolta cadiamo nell’errore di definirci come esseri che vivono

6 Le colonie microbiotiche benefiche superano di 10:1 le cellule umane.


“sulla” terra stiamo trascurando la verità che, come la medusa, viviamo in un fluido invisibile di cui noi
stessi siamo pieni. In quanto esseri immersivi (cioè immersi e non contigui), ci troviamo
nell’impossibilità di distinguerci - in quanto soggetto - dall’ambiente. In altre parole, possiamo dire che
«non c’è alcuna distinzione materiale tra noi e il resto del mondo» (Coccia, 2019, p. 46). Se stiamo alla
teoria di Gaia (Lovelock, 2020), secondo la quale la Terra è un unico grande essere vivente di cui gli
esseri umani e tutte le altre specie farebbero parte, allora dobbiamo accettare di mettere in discussione
qualsiasi canonica idea di distinguibilità e di abitare nel mondo e non con il mondo. Occorre superare
un’idea di natura come qualcosa di esterno o distaccato. In breve, citando Timothy Morton, «mettere
una cosa chiamata Natura su un piedistallo e venerarla da lontano ha lo stesso effetto che il patriarcato
ha sulla figura della Donna. È una forma paradossale di ammirazione sadica» (Morton, 2009, p. 5).
Nel 1983 Peter e Alison Smithson, che di certo sono conosciuti per progetti di altre dimensioni7,
iniziarono la ristrutturazione di una casa unifamiliare per Axel Bruchhäuser in una zona boscosa nelle
vicinanze del fiume Weser. Il progetto - che alla fine durerà più di vent’anni - sarà visto come
un’occasione di sperimentazione concreta dei temi dell’abitare che il duo inglese avevano teorizzato
negli anni precedenti8. La coppia faceva parte di quella generazione che, insieme a esponenti come Aldo
van Eyck e Georges Candilis, rifiutava l’estetica funzionalista della modernità e soprattutto l’idea di casa
come macchina perfetta senza difetti, preferendo una progettazione basata sulle relazioni tra ambiente e
società del consumo che potesse stimolare all’arte di abitare. Casa Bruchhäuser - poi rinominata
Hexenhous (Casa della strega) - è una sghemba capanna ibrida che mescola materiali e spazi attorno al
nucleo della costruzione esistente. L’ edificio originale consisteva in una tradizionale casa a pianta
rettangolare «con falde spioventi poggiate su un basamento in pietra, tamponate al piano superiore dalla
tipica trama del Fachwerk, con struttura in legno a vista e intonaco bianco» (Casabella 706, p. 6). Con
l’intento di stabilire una nuova relazione tra interno ed esterno, per sperimentare l’ambiente selvatico
del bosco con la sua ricca vegetazione e le diverse condizioni climatiche, gli Smithson dotarono
l’edificio di una serie di protuberanze vetrate, bow-windows, portici e finestre che connettevano il nucleo
principale al bosco e agli altri padiglioni del tè e del faro. L’intento era quello di far interagire l’ambiente
con l’abitazione tramite un continuo movimento delle aggiunte dall’interno verso l’esterno e dall’esterno
verso l’interno. L’architettura aveva il compito di evocare immagini, sentimenti, odori, sensazioni, di
permettere di viaggiare stando semplicemente a guardare e ad ascoltare il luogo. La veranda, rinominata
in seguito Axel’s Porch, è un vero e proprio look-out che si presenta come chiaro corrispondente
dell’esterno. I lucernari, Hexenhaus Holes, sono le branchie che permettono alla casa di respirare. Tutta la
casa con i suoi dispositivi e padiglioni è, a mio avviso, un organismo vivente che vive in una costante
illusione tra dentro e fuori combinando trasparenze multiple e riflessi sovrapposti, moltiplicando spazi
ibridi che ricercano e sperimentano una magnifica architettura della mescolanza.

Domestico per selvatico


Se c’è un luogo e un tempo in cui il domestico incontra il selvatico, quindi si sporca, questo è la
vacanza. Spesso considerata come una fuga dalla civiltà, la vacanza è la ricerca di quel confine in cui «il
buon gusto cede al senso ritrovato della libertà» (Skema, 1970, p. 23).
I reportage fotografici di Martin Parr9, quando hanno per soggetto i turisti, ci mostrano una fauna
vacanziera che si muove in branco alla ricerca del proprio habitat, che restringe le distanze forzando la
convivenza in spazi ridotti e che si adatta molto più tranquillamente all’ambiente di quanto non avrebbe
fatto se fosse stata in un artificiale parco pubblico urbano. Martin Parr, come in un safari, si muove
guardingo per catturare l’animale-turista mentre scorrazza sudaticcio allo stato brado sulle spiagge
polverose della costiera portandosi appresso oggetti consumati dal sole, ritrovando finalmente una
propria dimensione libera e selvaggia. In una civiltà così affannosamente alla ricerca di un’astratta ed

7 Vedi Hustanton School a Norfolk (1950-1954), la sede del giornale The Economist (1959-1964) e il complesso urbano Robin
Hood Gardens (1966-1972).
8 Vedi La casa del futuro presentata alla Daily Mail Ideal Home Exhibition nel 1965.
9 Vedi Parr, M. (2009), Playas, Chris Boot Ltd, Londra o Parr, M. (2009) The Last Resort, Dewi Lewis Publishing.
inquietante pulizia, la casa al mare resta quindi baluardo di mescolanza e sana sporcizia in cui le porte
sono spalancate e i confini rarefatti.
Quando nel 1962 Marco Zanuso venne incaricato di costruire, per due famiglie milanesi, una coppia
di case per vacanze ad Arzachena, si trovò di fronte un paesaggio ancora fortemente selvaggio, non
servito da gas o elettricità, in cui non era ancora iniziata la speculazione turistica che ha così fortemente
modificato il paesaggio sardo. A venti metri dal mare, Zanuso costruisce un recinto di 15 metri per lato
che racchiude due case gemelle. Tutto il progetto sarà estremamente semplice ed essenziale ma per
questo assolutamente vicino al genius loci della costa. Le camere, costruite sui quattro angoli del recinto,
comunicano tra di loro solo tramite il cortile centrale che è un teatro in cui si svolge la vita dei residenti
insieme a quella dell’ambiente naturale: luce, ombra, vento si alternano in una danza antica sotto un
graticcio leggero che ripara dal sole. Vista dal mare, essendo costruita in granito, con lo stesso materiale
della scogliera, e grazie ai due vuoti dell’ingresso, insieme alla posizione arretrata delle stanze rispetto al
perimetro del volume, la casa sembra quasi un recinto per la pastorizia a cielo aperto, tutt’uno con il
paesaggio e la natura. Tutto il progetto, arredi compresi, sembra essere stato intagliato in una roccia e
per via della sua posizione, della sua essenzialità ed interpretazione del genius loci, è selvaggio proprio
come doveva esserlo quella scogliera negli anni in cui era stata costruita.
Nelle case al mare come quella di Zanuso è piuttosto facile intuire il senso di un abitare che collassa
su quello di una mescolanza in e con la natura. Abitare in vacanza vuol dire ritrovare una certa
essenzialità che spesso sembra essere addirittura necessaria a catturare una simbiosi con il paesaggio in
cui si è immersi. Si potrebbe andare a cercare conferme ad Ibiza, nella casa vacanze che Ricardo Bofill
disegna nel 1970. Si tratta di una casa insieme organica e vernacolare che riesce a lavorare con estrema
maestria attraverso una giustapposizione di ambienti aperti e chiusi verso il paesaggio. Non
necessitando di inutili comodità, l'interno è austero e magicamente sobrio. Tutta la casa è un pezzo di
roccia addomesticata con un filo di intonaco bianco che si accomoda sulla spiaggia selvaggia dell’isola
spagnola.
Quello interpretato dalla casa per vacanze è il sogno di un abitante viaggiatore capace di fare di sé
stesso la propria casa abitando seguendo il corso delle stagioni. È un’affascinante concezione di abitare
ecologico per cui non c’è più la chiusura dell’uomo verso il mondo ma chiusura del mondo nell’uomo
stesso. L’alloggio, in vacanza, non rappresenta più l’idea di un interno ma piuttosto sembra fungere da
un ipotetico nucleo funzionale tascabile a servizio di un’immensa casa che è la terra. Il Cabanon che Le
Corbusier realizza in Costa Azzurra è in tal senso la più onesta delle rappresentazioni di un abitare
vacanziero interprete di una visione simbiotica del mondo e della natura: una casa al sacco concepita
come l’embrione di un’ipotetica casa trasportabile, come può essere una roulotte o una tenda ripiegatile
nello zaino. Il capanno 3,66 per 3,66 metri, costruito in adiacenza ad un ristorante a Roquebrune-Cap-
Martin, è per l’architetto il pretesto per fuggire da una vita umana “pulita” e rintanarsi in un’altra
«finalmente inoperosa, animale, pura» (Caffo, 2020, p. 159). Le Corbusier, che morirà proprio lì
nell’estate del ’65, realizzerà con i Cabanon il più estremo esercizio di mescolanza della sua vita: l’interno
compresso, con pochi arredi misurati ed essenziali è il pretesto per vivere la casa dall’esterno. Spesso
nudo, all’aria aperta, l’architetto svizzero sperimenterà un abitare sporco e selvaggio che non gli starà
per niente stretto. Il Cabanon era il pretesto per vivere la natura e il mare della Costa Azzurra. Era un
microcosmo di oggetti semplicissimi e complessissimi insieme che contribuivano, come accadrebbe
nella cabina di un treno, a comprimere l’interno per allargare il più possibile l’esterno. La sua storia, nel
vertice di un triangolo mediterraneo che va da Ibiza ad Arzachena, racconta bene il senso di una
vacanza come esercizio di mescolanza con il mondo, il suo sporco e il suo selvatico da cui la casa-
urbana post-pandemia potrebbe ripartire per inseguire la possibilità di un domestico abitare più
ecologico, giusto, equo e, quindi, inevitabilmente più sano.

Bibliografia
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Cazzolla Gatti, R. (2012), “E l’uomo creò lo sporco”, in Villaggio Globale.


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Molinari, L. (2020), Le case che saremo, Nottetempo, Milano.

Morton, T. (2009) Ecology without Nature, Harvard University Press, Cambridge.

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