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Propedeutica filosofica – Modulo 2

Docente: Gerardo CUNICO

Appunti per la comprensione della Metafisica di Aristotele e spunti di approfondimento

Il modulo mira a introdurre il concetto di metafisica indicando il suo ambito oggettuale (il tema) e
la sua specifica problematizzazione, prendendo come filo conduttore l’opera classica di Aristotele
(la Metafisica) con cui questa disciplina viene consapevolmente istituita e fondata; si preciserà così
anche l’origine e il significato del termine “metafisica”.
In questa stessa linea si darà un primo chiarimento dei concetti fondamentali della metafisica
classica nonché della sua articolazione principale in trattazione dell’essere (ontologia) e dei principi
o del principio primo dell’essere (teologia).
La filosofia va intesa fondamentalmente come domandare, come ricerca del perché, del senso. La
metafisica è il cuore originario e il punto culminante di questo domandare: è la ricerca del perché
primo (o ultimo per noi) della totalità delle cose, di ciò che è, dell’esistere di tutto ciò che esiste.

Aristotele, nel libro I (Alpha) della Metafisica, formula questo pensiero dicendo che la filosofia è
ricerca della “sapienza” come conoscenza del “perché” (dióti) [non solo del “che” (‘óti) come
l’empiria], e precisamente come conoscenza delle cause prime e dei principi primi di tutte le cose.
“Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. […] E tuttavia noi riteniamo che il sapere [eidénai] e
l’intendere [epaíein] siano propri più all’arte che all’esperienza e giudichiamo coloro che posseggono l’arte
più sapienti di coloro che posseggono la sola esperienza […]. E questo perché i primi sanno la causa, mentre
gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il puro dato di fatto [‘óti], ma non il perché [dióti] di esso; invece
gli altri conoscono il perché e la causa. […] E lo scopo del nostro discorso attuale è di mostrare che col
nome di sapienza tutti intendono la ricerca delle cause prime e dei principi” (980a21-981b29).
Queste domande sono comuni al mito e alle religioni; la filosofia però è indagine e discorso
razionale, che deve addurre ragioni e rispondere a obiezioni, è una ricerca metodica tramite
domande, tentativi di risposta e confutazioni delle risposte, attraverso un procedimento
argomentativo che a partire da Platone si è imposto come dialogo critico (dialettica come arte del
retto dialogare produttivo di conoscenza valida) che è rimasto il modello di ogni indagine
scientifica.
Se il problema è più antico della filosofia stessa e se la ricerca filosofica del perché ultimo è più
antica di Aristotele, resta il fatto che Aristotele è il primo che ha inteso costituire e che ha elaborato
questa ricerca come scienza speciale, che al contempo si presenta paradossalmente come la scienza
più universale, più fondamentale e più alta di tutte.

In nessuno dei suoi scritti tramandati Aristotele usa il termine “metafisica”, che è stato invece
impiegato sicuramente dal primo editore dei suoi scritti (originariamente non destinati alla
divulgazione, ma all’insegnamento interno alla scuola), Andronico di Rodi (I sec. a.C.), per dare un
titolo alla raccolta di scritti concernenti le questioni delle “cause prime”.
Ma che cosa voleva dire “metafisica”? tà metà tà phusikà <biblía>: i libri che vengono dopo quelli
dedicati alle cose fisiche.
Nell’uso del metà si è poi considerato implicito anche il riferimento alle realtà che sussistono oltre
quelle fisiche (mobili e sensibili), in base al secondo significato della preposizione greca.
Metà tà phusikà = dopo le cose fisiche (se la trattazione parte da ciò che è più vicino a noi e quindi
viene prima per la nostra conoscenza).
Metà = oltre le cose fisiche in quanto mobili e sensibili: elevazione al soprasensibile.
Nel libro VI (Epsilon) Aristotele dà alla nuova disciplina filosofica trattata in questi libri due nomi
altrettanto nuovi: “filosofia prima” e (filosofia) “teologica” (o “teologia” <filosofica>).
È innegabile un contrasto tra l’idea della “filosofia prima” e la collocazione del trattato “dopo” la
fisica (‘ē metà tà phusikà <méthodos>). Si può risolvere l’apparente incongruenza notando che, per
Aristotele, ciò che è primo e più noto (intelligibile) in sé deve essere il meno noto per noi, ossia
deve essere ciò che noi riusciamo a conoscere solo partendo dalle cose che vengono prima per noi,
ossia dalla sensazione, dall’esperienza e dalla scienza delle cose sensibili e mobili (= fisica). Del
resto, anche nell’ambito della metafisica, si può pervenire alla conoscenza del soprasensibile solo
partendo dal sensibile e interrogandosi sulle cause del suo movimento e del suo essere (che significa
divenire e mutamento).
Comunque per molti secoli la disciplina inaugurata da Aristotele non riesce ad imporsi con nessuno
di questi nomi. Il sistema delle scienze filosofiche rimane dominato fino alla tarda antichità dalla
tripartizione platonico-accademica, fatta propria anche dagli stoici, di dialettica (logica), fisica,
etica. Solo il lavoro e l’autorevolezza dei commentatori tardo-antichi (anche neoplatonici) e poi
islamici ha fatto sì che, a partire dal grandioso recupero di Aristotele nel mondo latino del XIII
secolo, l’opera e la disciplina ottenessero un posto di onore col titolo di Metaphysica.
Nella filosofia moderna, e in particolare nella scolastica del XVII e XVIII secolo, il contenuto e la
struttura della metafisica conoscono però importanti modifiche rispetto all’impostazione di
Aristotele. Le due parti che i due nomi aristotelici adombravano (la dottrina dell’essere in generale e
la dottrina del principio divino del tutto) diventano ora esplicitamente due sottodiscipline: una parte
generale (metaphysica generalis, detta anche ontologia) e una parte speciale (metaphysica
specialis), che però comprende non solo la “teologia razionale” (o “naturale”), ma anche la
cosmologia e la psicologia (razionali), ossia due discipline che in Aristotele appartenevano alla
fisica (in quanto dottrina generale della natura e dottrina dell’anima di ogni vivente).
Questa quadripartizione è fissata, per esempio, nella disposizione generale e nel §2 della
Metaphysica di Alexander Gottlieb Baumgarten (Halle 1740), il manuale più diffuso nelle
università tedesche del Settecento, e usato anche da Kant come testo base di quasi tutti i suoi corsi
di Metafisica.

Nel libro I (Alpha) della Metafisica Aristotele dice che la filosofia, come “ricerca della sapienza”
in senso proprio e primario, deve essere scienza teoretica (cioè un sapere fine a se stesso, senza
scopi pratici o utilitari) del “perché”, delle cause prime e dei principi primi della totalità delle cose,
che sono più difficili da cogliere in quanto più lontani dalle apprensioni sensibili; deve essere perciò
la scienza più produttiva di conoscenza (delle cause), quella più elevata, superiore e sovraordinata a
tutte le altre, e la più divina, sia perché la sapienza è un attributo massimamente attribuibile alla
divinità, sia perché ha per oggetto le cose divine (982a4-b10).
All’inizio del libro IV (Gamma) si trova la formula definitoria più originale della parte
fondamentale della filosofia (quella che noi chiamiamo metafisica) come scienza dell’essere, che si
distingue da tutte le scienze particolari, quindi anche anche da tutte le altre discipline particolari
della filosofia, che trattano ciascuna di un genere particolare di realtà:
“Esiste una scienza che considera l’ente in quanto ente e le proprietà che gli competono in quanto tale”
(1003a 21-22).
Considerare l’ente in quanto ente significa considerare tutto ciò che è (tutto ciò a cui attribuiamo il
predicato “essere”) non sotto l’aspetto del suo genere o modo particolare e specifico di essere (per
cui è questo o quel tipo di ente: numero, sostanza fisica, essere vivente, essere umano, prodotto
artificiale, qualità sensibile, quantità, relazione ecc.), ma sotto l’aspetto comune e universale del suo
puro e semplice “essere”. Questa definizione precisa l’ambito oggettuale proprio di tale scienza,
senza dimenticare che il suo obiettivo è la conoscenza delle cause e dei principi primi.

Nel libro VI (Epsilon) la filosofia (teoretica) che indaga le cause e i principi (primi) degli enti in
quanto enti riceve anche un nome, anzi due: “filosofia prima” e (filosofia) “teologica” (o teologia
[filosofica]).
“Filosofia prima” significa che è “anteriore” a tutte le altre scienze, anche filosofiche (ossia le
precede in dignità e “fondatività”).
L’accostamento dell’attributo “prima” con quello di “teologica” indica che tale anteriorità si radica
nel fatto che essa può interrogarsi sulle realtà prime in senso assoluto, ossia sulle sostanze immobili
(eterne e soprasensibili) e dotate di esistenza indipendente (“separate”), ossia divine. La fisica
invece può occuparsi solo delle realtà mobili ed esistenti per sé; la matematica solo di entità sì
immobili, ma non dotate di esistenza indipendente.
Tuttavia questo non significa che la filosofia prima o teologica sia una scienza particolare di un
determinato genere di enti, perché proprio la sua caratteristica di vertere sulle cose prime la mette di
in grado di conoscere le cause e i principi primi sia (del movimento) delle sostanze mobili (celesti e
terrestri), sia (dell’essere) di tutte le realtà in generale, e di essere quindi la scienza “universale”
dell’ente in quanto ente.
I due nomi indicano però due aspetti della metafisica che già nella trattazione Aristotelica vengono
a costituire due momenti distinti, per quanto non separati: quello della teoria universale dell’essere
in quanto essere (che col termine invalso a partire dal Seicento viene detta “ontologia”) e quello
della teoria delle sostanze soprasensibili e del principio primo in assoluto (teologia filosofica o
razionale).

Occorre ora chiarire i termini della definizione aristotelica canonica di metafisica come filosofia
prima che studia i principi primi e le cause prime dell’ente in quanto ente. Anzitutto un chiarimento
interno al vocabolario aristotelico.
“Principio” è un termine polivalente, desunto dalla lingua corrente (arché voleva comunemente
inizio, ossia ciò che viene prima, e quindi anche comando, magistratura, governo), che Aristotele
usa dichiaratamente per lo più come sinonimo di causa (libro V=Delta, cap. 1); qui però va
sottinteso un riferimento anche ai principi primi di ogni dimostrazione e anzi di ogni discorso
sensato, che sono chiamati anche “assiomi” universali e supremi, che sono i principi di non
contraddizione e del terzo escluso, e che è compito della metafisica formulare e difendere
(attraverso la confutazione dei tentativi di contestarli) nei loro termini ontologici (come avviene nel
libro IV=Gamma, cap. 3-8).
“Causa” (aitía, aítion) è un termine (probabilmente di origine giuridico-religiosa: colpa,
responsabilità) che Aristotele per primo analizza nei suoi diversi significati per l’uso filosofico e
scientifico, distinguendo quattro tipi di cause (libro I=Alpha, cap. 3; libro V=Delta, cap. 2; Physica,
II 3, 7):
la causa formale (l’essenza, il modo di essere o la determinazione essenziale del ‘che cos’è’ [tí esti,
tí ên eînai] la cosa);
la causa materiale (il substrato potenziale, ovvero ciò di cui [ex ‘oû] è fatto qualcosa);
la causa motrice o efficiente (ciò che produce il mutamento, facendo passare dalla potenza all’atto,
ossia ciò da cui o da dove [‘uph’‘oû, ‘óthen] inizia il movimento di qualcosa);
la causa finale (ciò in vista di cui [‘oû ‘éneka] avviene, si muove o è mosso qualcosa).
Le prime due cause sono considerate da Aristotele cause o principi immanenti delle cose, e perciò
sono chiamate anche “elementi”. Le ultime due sono considerate generalmente esterne alle cose in
movimento, ma possono essere anche interne.
Ora i principi e le cause prime degli enti soggetti al mutamento (ossia delle sostanze sensibili o
fisiche) sono indagati da Aristotele nella Fisica e negli altri trattati principali sulla natura. Nella
Metafisica la questione è ripresa in relazione al nesso tra il divenire e l’essere di questi enti e la loro
intelligibilità fondamentale nei libri VII-IX (Zeta, Eta, Theta), e poi sviluppata in relazione alla
dipendenza delle sostanze mobili e sensibili da sostanze immobili e sempre in atto, fino ad un primo
motore immobile, nel libro XII (Lambda).

Non si possono capire né l’oggetto né i temi né i termini né i metodi della metafisica senza capire i
problemi da cui parte e che affronta:
il perché (le cause, i principi) di tutto ciò che è nella sua totalità;
la molteplicità delle forme e la riconducibilità dei molti ad un uno;
il continuo mutamento delle cose e il nesso tra divenire ed essere;
il nesso tra essere e pensiero;
la pensabilità del molteplice e del divenire e le sue condizioni.
Di qui gli inizi e i primi passi della domanda metafisica in Grecia:
ricerca dell’arché (principio/fondamento) della phúsis (natura);
i principi come singoli elementi materiali (acqua, aria, terra, fuoco, infinito-indeterminato);
l’essere come intero, uno e immutabile (Parmenide), opposto e impermeabile al non-essere, al
divenire, all’apparente;
il dinamismo eracliteo come contrasto e armonia degli opposti;
il pluralismo pitagorico (opposizione fondamentale tra l’elemento indeterminato-determinabile e
determinato-determinante dei numeri), atomistico, empedocleo, anassagoreo;
la necessità di introdurre un movimento originario, una coppia di forze (amore-odio, attrazione-
repulsione) o una mente motrice per spiegare il divenire a partire da elementi primi essenti e
permanenti.
Ma la formulazione aristotelica del tema metafisico presuppone la svolta platonica, la “seconda
navigazione” illustrata nel Fedone, che comporta anche un “parricidio” nei confronti di Parmenide
(Sofista): il mondo plurale e differenziato delle idee è a fondamento di tutte le cose sensibili e
divenienti perché è il vero essere (costituente il mondo intelligibile), fondato a sua volta su un
principio anipotetico (Uno o Bene) al di là dell’essere stesso (Repubblica).
Ecco perché Aristotele, criticando la duplicazione del mondo ideale, è in grado di presentare un
nuovo inizio: la “filosofia prima” come scienza delle cause e dei principi primi dell’ente in quanto
ente, che non rinuncia a fondare il divenire su principi ingenerabili dell’essere delle cose, in parte
immanenti (forma e materia delle sostanze composte), in parte trascendenti (sostanze soprasensibili,
primo motore immobile). Di qui la duplice articolazione della Metafisica in un momento ontologico
(imperniato sulla teoria della sostanza e della potenza-atto) e in un momento teologico.

Veniamo ora a un primo chiarimento dei termini “ente” e “essere” che sono determinanti per la
metafisica.
Caratteristica di Aristotele è la tesi della plurivocità del concetto di essere: “ente” ha molti
significati, si dice in molti sensi (légetai pollachôs), irriducibili a un unico senso; se non è un
termine univoco (sunónumon), tuttavia non è puramente equivoco (‘omónumon): i diversi sensi
sono riferibili (come accade per es. per il predicato “sano”) ad un senso primario (pròs ‘én)
(IV=Gamma 2, 1003a33-b10), anche se non sono sue specificazioni (come avviene per la
suddivisione dei concetti univoci in generi e specie).
Ente (o “essente”, se vogliamo sottolineare il senso verbale del participio) significa dunque “ciò che
è”, in tutti i sensi possibili dell’“è”, ossia del verbo “essere”, che vanno determinati.
Aristotele distingue quattro significati (o gruppi di significati) principali di “essere” (VI= Epsilon
2; V=Delta 7):
l’essere come accidente (il predicabile non necessariamente né per lo più, ovvero la predicazione
non essenziale e costante, o la congiunzione fortuita e occasionale di termini eterogenei);
l’essere come vero e il non essere come falso (l’impiego del verbo essere al posto dell’asserzione
della verità o della falsità di un enunciato; secondo Berti: l’impiego del verbo essere come copula);
l’essere per sé, ovvero l’essere reale (categoriale o attributivo o predicativo), che si presenta nella
sua identificabilità (costante e non casuale) originariamente distinto nei generi supremi o categorie:
sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, azione, passione, avere (possesso), stare/giacere
(posizione);
l’essere come potenza e come atto (distinzione che si applica a tutte le categorie e a tutti i tipi di
ente).

Questi ultimi due significati dell’essere permettono di distinguere due aspetti fondamentali
dell’essere reale: l’essenza e l’esistenza effettiva (in atto); due modi di considerarlo che
corrispondono a due domande differenti, che costituiscono i due interrogativi principali delle
diverse scienze: che “cosa sia” un determinato ente e “se sia” (VI=Epsilon 1, 1025b 10-18).
Questa distinzione semplifica quanto Aristotele scrive nella sua teoria del sillogismo scientifico
(dell’inferenza capace di produrre conoscenza vera) negli Analytica Posteriora (II 1, 89b 21-35),
dove distingue, facendo alcuni esempi, quattro interrogativi o direzioni della ricerca scientifica:
il “fatto che” (tò ‘óti), ossia il sussistere di un fenomeno, ovvero: se sussiste o no uno stato di cose,
p. es. se il sole subisce un’eclissi o no (ossia risulta totalmente o parzialmente oscurato di giorno);
il “perché” (tò dióti), ossia la causa che spiega un dato fenomeno, p. es. l’eclissi;
“se è” (ei ésti), ossia se esiste effettivamente un determinato ente o no, p. es. il centauro o Dio;
“che cos’è” (tí esti), ossia qual è l’essenza specifica di quel determinato ente, ovvero quali concetti
la definiscono.
Va notato però che Aristotele non collega esplicitamente l’essere categoriale con la questione
dell’essenza né l’essere come atto con la questione dell’esistenza, perché stranamente, distinguendo
i significati di “essere”, non distingue, come fa in altri contesti (Soph. El. 5, 167a 2-6; An. Post. II 1,
89b 33) tra l’uso del verbo unito a un predicato (eînaí ti: essere questo o quello) e l’uso del verbo
senza altro predicato (eînai ‘aplôs: essere in senso assoluto).

L’essere nel senso di esistenza indica il sussistere della cosa (IX=Theta 6, 1048a 31) o dello stato
di cose. Di questo esistere o sussistere si può sottolineare l’aspetto puramente fattuale, rispondente a
una questione di fatto [ei ésti, ‘óti ésti, quodditas], oppure l’aspetto dell’essere in atto [enérgeia,
entelécheia] ossia dell’atto di essere (actus essendi, come diranno gli Scolastici medioevali).
Fattualità o attualità: non è dunque necessariamente una alternativa, può essere una duplice
prospettiva o una graduazione della nozione di essere come esistenza. Tuttavia i due momenti si
separano con l’acuirsi della crisi nominalistica e il tramontare della convinzione della intelligibilità
dell’essere. Di fronte all’esperienza della non evidenza, la ricerca esasperata della certezza
indubitabile conduce nella modernità (Descartes) alla riduzione dell’esistere al fattuale e alla sua
messa in questione senza eccezioni. L’atto di essere implica invece che l’essere sia attuazione di
una possibilità essenziale, che è appunto l’essenza dell’ente. Per questo Aristotele spesso, anzi per
lo più, intende con “essere” l’essenza della cosa (della sostanza individuale), che indica spesso con
l’espressione tecnica “che cos’era l’essere per questo o per quello” (tò tí ên <tò tinì> eînai); tende
anzi a identificare l’essenza con l’atto, intendendola come forma opposta alla materia che è la cosa
solo in potenza, sorvolando a volte sul fatto che anche la materia (in quanto prossima, ovvero
congrua) è parte dell’essenza e che la forma è “atto primo” (specificamente possibilitante e
determinante) e non ancora “atto secondo” (individualmente determinato ed esercitato); così come
spesso sottolinea che sostanza è primariamente essenza e forma, ossia che l’essere sostanziale è
primariamente l’essere essenziale.
L’essere nel senso di essenza è ciò che determina “che cos’è” (tí esti) l’ente, la sua quidditas, il
modo o la forma specifica di essere propria delle singole specie (o classi distinte) di cose.
Il problema dell’identificazione (che cos’è?) porta alla distinzione tra soggetto e attributi/predicati,
tra sostanza/substrato (che può sussistere per sé) e accidenti/affezioni che non hanno sussistenza
indipendente e che sono individuabili solo come inerenti alla sostanza, e che possono essere
suddivisi in generi che, insieme alla sostanza, costituiscono le classi o categorie fondamentali di
enti.

Categorie: concetti univoci più estesi o generi supremi dell’essere reale, ciascuno dei quali
comprende sotto di sé generi più ristretti, fino a giungere alle specie ultime, che comprendono sotto
di sé solo enti singoli e che sono distinte tra loro, all’interno dello stesso genere, dalle rispettive
differenze specifiche.
Tavola delle categorie secondo Aristotele (Categ. 4, 1b 25 - 2a 4):
Socrate è uomo (che cos’è?) SOSTANZA
è alto tre cubiti (quanto è grande?) QUANTITA’
è di pelle bianca (quale aspetto ha?) QUALITA’
è figlio di Sofronisco (in che rapporto è?) RELAZIONE
è nel Liceo (dove è?) LUOGO
è oggi nel Liceo (quando è?) TEMPO
è seduto (o in piedi) (in che posizione è?) STARE
è calzato (vestito, armato) (che cosa ha <addosso>?) AVERE
è parlante (parla) (che cosa fa?) AGIRE
è riscaldato dal fuoco (che cosa subisce?) PATIRE

Il rapporto tra essenza ed esistenza, non tematizzato esplicitamente nell’ontologia aristotelica,


riguarda dunque in primo luogo il problema della intelligibilità dell’essere e quindi della
pensabilità del divenire. L’intelligibilità dell’essere può essere chiarita con l’aiuto dell’antica
metafora della “leggibilità del mondo” visto come libro da decifrare e interpretare, all’interno del
quale i singoli enti esistenti possono apparire riconducibili a una ragione e un senso unitari.
Tale problema aveva condotto, già in Parmenide, anzitutto al nesso tra essere e pensare e
all’affermazione della necessità che l’essere sia permanente e unitario (in quanto opposto e
incompatibile col non essere). Se la negazione del molteplice e del movimento non poteva essere
sostenuta a lungo, l’esigenza della stabilità e unità porta, già con Platone, alla identificazione di un
“vero essere” contrapposto a un essere apparente e commisto al non-essere, ossia alle opposizioni
(dualistiche) tra essere (realtà, óntos ón, cosa in sé) e apparenza (fenomeno), tra mondo intelligibile
(noumenico) e mondo sensibile (fenomenico). La concezione platonica riconduce l’intelligibilità
degli enti alle cause proprie identificate nelle idee o essenze sussistenti per sé, che, essendo il vero e
perfetto essere, donano conoscibilità e essere alle cose singole, e da ultimo all’idea suprema del
Bene, che garantisce l’intelligibilità e l’essenzialità delle stesse idee o essenze, pur essendo
trascendente anche rispetto ad esse (al di là dell’essenza) come principio autosufficiente e non
ipotetico (cioè incondizionato, assoluto). Il male in senso morale viene attribuito non a una causa
divina, ma a una causa umana (all’errore dell’intelligenza e della volontà imperfetta) (Repubblica,
libro II) e l’imperfezione viene fatta risalire, nel quadro della “dottrina non scritta” di Platone, al
principio cooriginario (rispetto all’Uno o Bene) della diade (indeterminatezza, differenza, pluralità).
Così che il tutto può risultare sensato e ragionevole.
Il nesso essere-pensare conduce poi anche al tema dei trascendentali (essere, uno, vero, bene), che
emerge con l’estensione medioevale di un motivo aristotelico: la tesi della coestensività (identica e
simmetrica estensione o reciproca “convertibilità”) dei concetti di ente e uno, che sono applicabili a
tutte le categorie, e quindi sono “trans-categoriali” (Metafisica, libro IV= Gamma, cap. 2).
Tale tesi va vista in relazione alla determinatezza dell’essere che ne assicura l’intelligibilità e che è
garantita dal primo assioma della metafisica aristotelica, che è il principio di non contraddizione
(nella sua valenza ontologica):
“E’ impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa,
secondo lo stesso rispetto” (libro IV=Gamma, cap. 3).
Il nesso risulta chiaramente dal modo in cui (nel libro IV=Gamma, cap. 4) il principio viene difeso
contro le sue contestazioni: non “dimostrato” direttamente, ma giustificato “confutatoriamente”,
mostrando che anche chi lo nega deve essere costretto ad ammetterlo, purché conceda di dire
qualcosa che abbia un significato determinato (ossia che indichi qualcosa e non insieme il suo
opposto).
L’assioma di non contraddizione come principio comune a tutte le scienze; non dimostrabile, ma
giustificabile per via confutativa, stabilisce la determinatezza o determinabilità di ogni espressione
significante, e quindi fonda razionalmente la convinzione nell’intelligibilità dell’essere e nella
convertibilità tra ente e uno.
Il postulato metafisico classico (platonico-aristotelico) delle determinatezza, intelligibilità (e
correlativa finalità) dell’essere, viene intaccato alle radici nel tardo Medio Evo dalla sempre più
diffusa convinzione nominalistica (fortemente influente nella filosofia moderna anche quando non è
condivisa) che scalza il legame degli enti con essenze stabili e tende a considerare l’essere come
pura fattualità plurale, resa intelligibile solo dalla necessitazione causale (determinismo).
Infatti, mentre il collegamento dell’esistenza con l’atto realizzante una possibilità essenziale
garantisce un ancoramento intelligibile dell’esistenza, che rimane un fatto internamente dotato di
senso, lo sganciamento dell’esistenza dall’essenza rende possibile uno svuotamento di senso e di
intelligibilità e una sua riduzione a fattualità e attualità oscura, come avviene nel radicalizzarsi del
nominalismo e all’inizio della svolta moderna della filosofia.
Anche il problema della verità conosce una svolta nella modernità, perché qui la questione della
sicurezza-certezza-correttezza-fondatezza degli asserti, emersa fin dai tempi di Platone e Aristotele,
diventa la preoccupazione dominante se non unica: dal dubbio al cogito, ai criteri di evidenza, alle
condizioni trascendentali, al variegato convenzionalismo.

Il pensiero che tenta di render ragione dell’esperienza delle cose si trova fin dall’inizio nella
necessità di ricondurre il molteplice ad unità almeno relative, il differente a qualcosa di identico, il
singolare/particolare a ciò che è comune/universale. Tutto questo fa emergere, già forse con Socrate
e comunque a partire da Platone, la questione dell’essenza (quiddità), della sua nozione/definizione,
degli universali (concetti/nomi) rispetto alle cose.
Di qui nascerà nel Medio Evo la disputa sugli universali, ossia la questione se questi sono puri
nomi (flatus vocis), utili etichette collettive che semplicemente rappresentano (stanno al posto di)
una pluralità di cose individuali (nominalismo: concetti post rem), oppure se indicano le essenze
delle cose che sussistono per sé in una sfera dell’essere distinta da quella delle cose sensibili
(realismo estremo: idee ante rem), oppure se esprimono caratteri comuni e immanenti alle singole
cose (realismo moderato: forme in re, concetti astratti a partire dalle cose).
Questa disputa nasce da un’aporia formulata dal neoplatonico Porfirio nel suo commento alle
Categorie di Aristotele.

Aristotele aveva distinto tra sostanza prima e sostanza seconda, sia pure in sensi diversi nei vari
scritti:
nelle Categorie (cap. 5):
sostanza prima è il sinolo, la cosa individuale e sensibile (il singolo uomo); sostanza seconda è la
specie universale e la sua forma essenziale (l’umanità), comune ai molti individui;
nella Metafisica:
libro IV (Gamma), cap. 3: sostanza prima è il genere delle sostanze immobili; sostanza seconda è il
genere delle sostanze soggette al movimento, che a loro volta si suddividono in sostanze eterne e
incorruttibili (celesti) e sostanze corruttibili (terrestri);
libro VII (Zeta), capp. 7 e 11: sostanza prima, ossia sostanza in senso primario è l’essenza o la
forma (in quanto determinante il modo di essere).

Nel libro VII (Zeta) si tratta esplicitamente la questione della sostanza: che cosa è sostanza?
Va notato anzitutto che il termine greco ousía, un sostantivo derivato dal participio presente del
verbo eînai (essere), più o meno come i nostri sostantivi “entità” o “essenza”, può significare sia
“sostanza” (nel senso forte di ente realmente sussistente per sé) sia “essenza” (nel senso di ciò che
determina il modo specifico di essere di tale ente).
Ora, se il problema capitale della filosofia prima è quello di chiarire che cos’è l’ente in quanto ente,
e se tra i molteplici sensi dell’essere quello di essere reale (indicato nei generi sommi) è il senso
fondamentale, la sostanza è la categoria fondamentale, in quanto è il substrato di tutte le altre, che
non possono sussistere né essere concepite senza di essa, ossia senza essere considerate come suoi
attributi, come inerenti ad essa, mentre la sostanza sussiste per sé. Vi è infatti una distinzione ma
anche un nesso necessario tra sussistenza e inerenza, tra essere in sé (e per sé) ed essere in altro (e
in forza di altro).
Se sostanza dunque indica il substrato (del divenire e della predicazione), allora parrebbe essere
sostanza anzitutto la materia, come Aristotele stesso in parte rivendica contro l’esclusione platonica
(la materia è ciò che permane nel variare della forma, il substrato di forma e privazione).
Sostanza pare però essere ancor più a buon diritto l’essenza, ovvero la forma, esprimibile nella
nozione o nella definizione della specie.
Ma allora anche la specie è sostanza, e magari anche il genere? Aristotele invece esclude (contro i
platonici) che questi “universali” siano sostanza.
Piuttosto sostanza è il “sinolo”, la sostanza singolare, individuale, composta di materia e forma, di
potenza ed atto.
La conclusione del libro VII=Zeta è però che sostanza è primariamente l’essenza, che determina
l’essere (cioè il modo di essere specifico) della cosa, anche se esclude sempre recisamente che tale
essenza esista di per sé al di là e al di fuori della cosa singola.
Nel libro VII=Zeta Aristotele sottolinea dunque che sostanza è principalmente essenza e questa
principalmente forma (dato che possono esserci sostanze costituite da forma senza materia), anche
se riconosce (come fa poi specialmente nel libro VIII=Eta) la costitutività della materia per
l’essenza della sostanza composta, che va concepita come “sinolo” (súnolon), un tutto integrale in
cui la forma è immanente alla materia, non esterna e separata.

La riconduzione del divenire all’essere solleva le questioni del nesso tra permanenza (stabilità) e
caducità (generazione-corruzione), tra eternità e temporalità, e anzitutto di come concettualizzare il
mutamento.
Primo momento della soluzione: combinazione delle teorie degli elementi e dei contrari: forma-
privazione e substrato (materia o composto), ossia un substrato indeterminato diviene A da non-A
che era, e viceversa da A diviene non-A; di qui il nesso tra materia e forma ovvero la sintesi tra
indeterminato (determinabile) e determinante (determinazione) nel sinolo o composto unitario
(determinato).
Secondo momento della soluzione: distinzione e sintesi tra (essere in) potenza e (essere in) atto;
movimento/mutamento/divenire come passaggio da potenza all’atto, ovvero come atto (imperfetto)
di ciò che è in potenza in quanto è in potenza. Così Aristotele spiega la differenza tra atto e
potenza:
“L’atto è il sussistere della cosa, ma non nel senso in cui la diciamo essere in potenza […]. Ciò che vogliamo
dire diventa chiaro per induzione nei casi particolari, perché non bisogna cercare definizioni di tutto, ma ci si
deve accontentare di comprendere intuitivamente certe cose mediante l’analogia. L’atto sta alla potenza
come chi costruisce sta a chi può costruire, chi è desto a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi ma ha
la vista, e come ciò che ricavato dalla materia sta alla materia e ciò che è elaborato a ciò che non è elaborato”
(IX=Theta 6, 1048a 30-b4).
Il mutamento o movimento è possibile in quattro categorie (XII=Lambda 2):
mutamento sostanziale: generazione e corruzione (nascere e perire);
mutamento qualitativo: alterazione;
mutamento quantitativo: accrescimento e diminuzione;
mutamento spaziale: movimento di traslazione.
La tesi decisiva di Aristotele, esposta nel libro IX (Theta), è l’anteriorità dell’atto (per nozione,
sostanza, tempo/generazione) rispetto alla potenza.
“In base ai significati di anteriore sopra distinti, risulta evidente che l’atto è anteriore alla potenza […]
secondo la nozione e secondo la sostanza, mentre secondo il tempo in un senso è anteriore e in un altro non è
anteriore. […]
Ma l'atto (enérgeia) è anteriore alla potenza […] anche per la sostanza. In primo luogo, perché le cose che
nell'ordine della generazione sono ultime, nell'ordine della forma (eídei) e della sostanza sono prime [...]. In
secondo luogo, perché tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine ( télos): infatti ciò-
in-vista-di-cui (tò ‘oû ‘éneka) è un principio e il divenire (génesis) ha luogo in vista del fine. E il fine è l'atto,
e in grazia di questo si acquista (lambánetai) anche la potenza. Infatti gli animali non vedono allo scopo di
possedere la vista, ma possiedono la vista allo scopo di vedere; e similmente si possiede [...] la facoltà
speculativa (theoretikén) allo scopo di speculare (IX=Theta 8, 1049b 4 - 1050b 8)”.
La tesi è decisiva perché permette di dare la risposta finale e risolutiva alla domanda iniziale sui
principi primi dell’ente in quanto ente, che ora può essere formulata come questione del principio
primo dell’essere di tutto ciò che è in quanto (nell’ambito delle sostanze accessibili alla nostra
esperienza) è essere in movimento o soggetto al movimento.
Esistono infatti incontestabilmente due tipi di sostanze, quelle terrestri (sensibili e transitorie) e
quelle celesti (sensibili ma eterne) (XII=Lambda 1):
le sostanze soggette al movimento ma anche alla generazione e corruzione e
le sostanze che sono sempre in movimento e incorruttibili (corpi celesti).

Il problema è ora se esistono altre sostanze (soprasensibili, eterne e immobili) che siano principio
del movimento di quelle sensibili (immediatamente di quelle eterne, mediatamente anche di quelle
corruttibili).
La trattazione avviene nel libro XII (Lambda), specialmente nei capp. 6-7. Aristotele sostiene che
il movimento transitorio e mutevole dipende ed è causato dal movimento eterno e che il movimento
eterno deve dipendere da una causa altra rispetto a ciò che si muove, in base al principio
(sostanzialmente derivato dal primato dell’atto): tutto ciò che si muove è mosso da altro, e in ultima
istanza da qualcosa che non è più a sua volta in nessun modo soggetto al movimento e che perciò
deve essere atto puro, non commisto a nessun tipo di potenzialità. Concretamente ciò significa per
Aristotele che il movimento eterno di ciascuna delle sfere celesti, di tutte quelle che è necessario
ammettere per spiegare il movimento delle stelle fisse (primo cielo), del sole, dei pianeti e della
luna attorno alla terra, deve avere un suo principio motore separato, immobile ed eterno. In
particolare il movimento del primo cielo è originato da un primo motore immobile cui si devono
riconoscere gli attributi della divinità per eccellenza: intelligenza e conoscenza, perché atto puro
come pensiero pensante ciò che è più perfetto (cioè se stesso), ossia pensiero del pensiero, e quindi
vita eterna, perfetta e beata, autosufficiente.
In qualche modo (non precisato da Aristotele) subordinati ad esso sono i 55 motori immobili delle
altre sfere celesti.
Ma in che senso il primo motore muove il primo cielo (e analogamente gli altri)? Aristotele dice
succintamente: “muove come ciò che è amato” (kineî ‘ōs erómenon). Il che implica che le sfere
celesti siano esseri viventi, dotati di anima pensante che muove il loro corpo in virtù del pensiero
rivolto all’intelligenza “reggente” che riempie il loro desiderio di conoscenza di ciò che è più
perfetto.
Una soluzione che lascia molti interrogativi e che ha destato molte perplessità anche nella scuola e
nella tradizione aristotelica, che sostanzialmente l’ha lasciata cadere o che l’ha ripresa, in ambito
musulmano, ebraico e cristiano, solo con notevoli modifiche.
Vediamo così come la concezione della sostanza soprasensibile e divina sia la risposta finale alla
domanda sui principi primi dell’essere, risposta però che deve passare attraverso la trattazione dei
principi immanenti della sostanza come modo primario dell’essere dell’ente. Per questo la
metafisica (o filosofia prima) doveva articolarsi in trattazione dell’essere in generale (ontologia,
culminante nell’analisi della sostanza soggetta al divenire) e trattazione della sostanza
soprasensibile (teologia).

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