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Rivista di Diritto delle Arti e dello Spettacolo

Rivista di Diritto delle Arti e dello Spettacolo


ISSN 2532-7461
fascicolo 2 – dicembre 2018
semestrale
Rivista di
Diritto delle Arti e
SOMMARIO

Maria Agostina Cabiddu

dello Spettacolo
Editoriale

Xenia Camerini
L’attuale quadro normativo internazionale della tutela del patri-
monio culturale mondiale
fascicolo 2
Alfonso Contaldo, Flaviano Peluso
Nota alla sentenza Corte di Cassazione – Sez. 1 a Civile Sent.
dicembre 2018
14 luglio 2017 n. 2039

Sara Del Grosso, Vincenza Ferraro


L’artista e gli adempimenti fiscali. Corte di Cassazione, ordi-
nanza 13 dicembre 2017, n. 29863

Fabio Ferrazza
La necessità di disporre di informazione statistica territoriale
inerente al settore culturale e il progetto PanoramaSpettacolo

Francesca Forgione
L’insegnamento della danza e le nuove regole: un’opera in-
compiuta

Antonio Mastrogiacomo

2/2018
Fare i conti con la storia: il caso del reimpiego

Eugenio Picozza
Tutela e promozione dell’arte e della cultura

ISBN 978-88-31222-05-1

euro 28,00
Antonio Mastrogiacomo
Fare i conti con la storia: il caso del reimpiego

Abstract: Il contributo propone un’indicazione metodologica sul reimpiego quale


operazione in grado restituire da un lato il valore della continuità col passato (in
epoca medioevale), dall’altro un principio di una progressiva definizione dell’i-
dea di bene culturale (in epoca rinascimentale). A partire da questa indicazione
storica sarà poi discussa l’attualità concettuale dell’operazione di reimpiego co-
me evidente dalla leva riproducibile dell’arte oggetto di montaggio cultorologico
- secondo una proporzione che individui come antecedenti reimpiego e found
footage, come conseguenti il patrimonio fisico e audio-visivo. Apre il contributo
un riferimento alla produzione del pensatore tedesco Walter Benjamin in virtù
della sua personalissima prassi operativa e tensione culturale.
Keywords: reimpiego – arte medievale – found footage – montaggio cultorologico
– Walter Benjamin.

1. Introduzione

Pochi autori come Walter Benjamin hanno intravisto la progressiva erosione


delle abitudini culturali in seno al moderno come portato di una braudelia-
na ridefinizione della percezione, forse depotenziata eppure ancora medium
dell’esperienza sensibile1 . Il lettore incuriosito potrà trovare riparo in alcuni
testi quali Esperienza e povertà2 o Piccola Storia della fotografia3 fino ad arri-
vare al saggio che più di altri celebra l’immortalità del pensatore tedesco -
al punto forse da dimenticarne il portato dinamitico che fonda la funzione
dell’arte sulla politica come contrappunto dialettico all’estetizzazione del-
la politica stessa – L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica4 , la
cui edizione a stampa del 1936 non può essere considerata l’originale5 . Sia

1. Resta opportuno indicare come medium la stessa percezione, secondo il portato benjaminia-
no proposto nel saggio sulla riproducibilità tecnica; nella vulgata viene solitamente inteso come
medium il dispositivo, quasi ad estendere questa riflessione: «la modalità in cui si organizza la
percezione umana – il medium in cui essa si realizza – non è condizionata solo in senso naturale,
ma anche in senso storico». W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
Donzelli, Roma, 2012, p. 51.
2. Si rimanda alla versione di Esperienza e povertà contenuta nel testo W. Benjamin, a cura di A.
Pinotti e A. Somaini, Aura e choc, Einaudi, Torino, 2012, pp. 364 – 369.
3. Si veda W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, Abscondita, Milano, 2015.
4. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit.
5. Per il dibattito sulle diverse versioni del saggio si rimanda al testo I Modern Times di Benjamin
di F. Desideri in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pp. VII
– XLV e al testo a cura di M. Montanelli, M. Palma, Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la

rivista di diritto delle arti e dello spettacolo / fascicolo 2, dicembre 2018


rivista di diritto delle arti e dello spettacolo

permesso per l’occasione di questo contributo il riferimento ad altro testo,


colossale a partire già dal piano dell’opera, vero e proprio work in progress
rimasto tale la cui metodologia collima in qualche modo con la definizione
di reimpiego come più avanti, laddove il materiale oggetto dell’attenzione
del montatore Walter Benjamin risiede negli elementi più nascosti, estrat-
ti con precisione quasi chirurgica da un esistente corpus di informazioni
bibliografiche.
Il saggio su Charles Baudelaire6 e gli stessi Passages7 dispongono infatti
una serie di immagini e motivi storici strappati al loro contesto origina-
le per essere attentamente rielaborati in un testo basato sui principii del
montaggio. In questo modo Benjamin si propone il compito di rifuggire la
storiografia dei vincitori per svelare l’autentico tempo storico, il tempo della
verità nascosto dietro il velo di una narrazione storica la cui continuità suoni
adeguata alle grandi strutture della classe dominante. In questo senso valga
esclusivamente il ricorso al montaggio di citazioni dichiarato più volte dallo
stesso Benjamin nella cartella N – teoria della conoscenza – come forma di
reimpiego testuale cultorologico8 .
Eppure lo studente di storia dell’arte avrà familiarizzato col reimpiego in
altra occasione, quasi sicuramente lontano dalle vicissitudini benjaminiane,
confrontandosi semmai con la voce del reimpiego quale interprete della con-
dizione storico-culturale dell’arte medioevale, semmai lasciando deflagrare
il significato di questa pratica a vantaggio di una pedissequa definizione
senza attrito. Una cattiva abitudine pronta ad isolare e separare le cose nel-
lo spazio e nel tempo senza lasciarne emergere il carattere profondamen-
te ricorsivo si beffa delle indicazioni vichiane sulla storia per concentrarsi
esclusivamente sul carattere nozionistico della conoscenza e, ad una prima
lettura, l’accostamento tra reimpiego e contemporaneità potrebbe sembra-
re piuttosto lontano, di certo ardito. Il presente confronto con la tradizione
del reimpiego delinea dunque una continuità d’azione nella contemporanei-
tà come occorre, ad esempio, nel found footage quale pratica di prelievo e
recupero in ambito audiovisivo; a partire da questa indicazione sarà inoltre
segnalato il ricorso al reimpiego come presa di coscienza nella definizione di
bene culturale secondo l’urgente modello proposto da Raffaello nella lettera
a papa Leone X.

riproduzione dell’opera d’arte, Quodlibet, Macerata, 2012.


6. W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza,
Vicenza, 2002.
7. W. Benjamin, I Passages di Parigi, Einaudi, Torino, 2010.
8. «Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non
sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti,
invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile:
usandoli. [N 1a, 8]» cfr. W. Benjamin, I Passages di Parigi, p. 512.

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fare i conti con la storia: il caso del reimpiego

2. Note a margine sul reimpiego

Il reimpiego nel senso della riutilizzazione di vecchi e, per lo più, antichi


pezzi in un contesto nuovo, analogo o differente, ovvero in un nuovo ordine
funzionale, è ravvisabile in tutti i generi di arte, dall’architettura alla scul-
tura, alle arti minori; abbraccia un vasto arco applicativo che arriva a com-
prendere sia la riappropriazione di antichi edifici nella loro interezza sia il
riutilizzo di antiche opere tramite calcinazione, dunque di forme comprese
nello spettro che va dal mero sfruttamento materiale fino alla riutilizzazione
mirata e alla sua complessa reinterpretazione.
Come segnalato da Renata Picone9 :
attraverso il complesso fenomeno del reimpiego di antichi manufatti edilizi o di
loro frammenti nella tarda età imperiale fino a tutto il secolo XIV prende avvio e
si manifesta – anche per motivi di tesaurizzazione – la rielaborazione del mondo
classico.

Una tale interpretazione dell’antichità, condotta sia in senso fisico che


simbolico, contribuirà a salvare almeno parte di questo patrimonio dal gran-
de collasso subito dall’Occidente dopo la caduta dell’impero romano nei
secoli dell’alto Medioevo. Purtroppo, a partire dal VII secolo, il reimpiego
venne meno a ogni regola, con una totale incomprensione del canone e la
più incompleta insensibilità per le proporzioni:
l’uso di elementi analoghi al contesto originario non costituì più la norma e si
rinunciò, per lo più, a ogni eventuale, necessario adattamento secondo un modo
di procedere non dipendente dalla mancanza di materiale antico: [...] i pezzi
antichi finirono per assumere il valore di puro materiale10 .

A partire dal IX secolo si fece inoltre largo un’esigenza inedita: i ponte-


fici non promossero più soltanto la spoliazione e la demolizione dei vecchi
edifici per costruirne di nuovi, ma elaborarono alcuni provvedimenti inte-
si a garantire la conservazione e il decoro delle architetture e dell’assetto
cittadino:
ad esempio, in alcune vie del centro storico di Roma sono sopravvissuti dei porticati
al pianterreno di case private, ad attestare l’abitudine a riutilizzare marmi antichi,
anche frammentati e casualmente assortiti come ornamento dei prospetti11 .

L’estrema libertà con cui si dava seguito a procedure di reimpiego dimo-

9. Si veda R. Picone, Reimpiego, riuso, memoria dell’antico nel medioevo in Verso una storia del restauro.
Dall’età classica al primo Ottocento, a cura di S. Casiello, Alinea, Firenze, 2008, pp. 31-60.
10. Aa.Vv., Enciclopedia dell’Arte Medioevale, Treccani, Roma 1998, vol. IX, pp. 876- 883. Si può
consultare la stessa voce “reimpiego” a cura di A. Esch al link http://www.treccani.it/
11. F. Bottari, F. Pizzicannella, I beni culturali e il paesaggio. Le leggi, la storia, le responsabilità,
Zanichelli, Bologna, 2007, pp. 92-93

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rivista di diritto delle arti e dello spettacolo

stra come non si avvertisse alcuna frattura con un passato legittimato a mo’
di opera aperta e dunque suscettibile di nuovi orientamenti.
A tal proposito, scrive Picone:
tale continuità con il passato s’innesta in una concezione del tempo non misura-
to, mutevole di luogo in luogo e caratterizzata dalla compresenza di percezioni
diverse come l’oscillazione quasi pendolare delle generazioni, il moto circolare
delle stagioni, dei mesi o dell’anno liturgico, il tempo locale dei regni, dei go-
verni, della guerra, della peste o della carestia, la segmentata sequenza delle ore,
segnata da rare clessidre, che serve sì a spezzare il tempo ma in tratti che non si
dispongono necessariamente l’uomo dopo l’altro12 .

In questo senso resta opportuno ravvisare come il passato sia stato reim-
piegato da un lato a livello fisico incorporando le vestigia entro le fondazio-
ni edilizie, dall’altro per finalità di pregio nell’osmosi tra sostegno fisico e
ideologico, permettendo a motivazioni di ordine economico di sugellarne
altre di carattere pratico: «il desiderio di far rifluire nelle nuove costruzioni
la forza e la gloria di quelle antiche implica la consapevolezza che queste
ultime costituiscono un riferimento ideale e culturale di alta qualità artisti-
ca»13 . Non deve sorprendere questo riferimento ideologico del reimpiego
se opportunamente comparato ai diversi casi della letteratura, che propone
in modo continuato e fortemente intermittente la ripresa di modelli come
elemento ad alto gradiente di riconoscibilità.
Il caso della letteratura ellenistica sembra offrire un rapido confronto lad-
dove i richiami callimachei ai telchinei sottendono l’esplicito riferimento al
mondo epico, la poesia teocritea resta chiaramente debitrice nei confronti di
Esiodo senza dimenticare l’andatura epica delle Argonautiche di Apollonio
Rodio come ripresa del modello omerico.
Qualora volessimo scendere nel dettaglio, sarebbe utile una analisi les-
sicografica per individuare quei lemmi che avrebbero conferito valore alla
scrittura grazie al reimpiego – è il caso di dirlo – di parole calde della tradi-
zione. Attraverso questo richiamo viene dunque segnalato come operazioni
di reimpiego possano essere riscontrate in ogni ambito della cultura qualora
depositarie di un certo equilibrio fra mezzi teorici e fini pratici. In conclu-
sione di paragrafo resta indicativo sottolineare, ai fini di una congrua conte-
stualizzazione storica, come questo uso del frammento si leghi ad una arte
della memoria tipicamente medioevale: un passato smembrato, frazionato e
solo in seguito inglobato in una nuova costruzione sembra suggerire quel
passaggio della Summa tomistica secondo cui le immagini della memoria
sono la conoscenza sensibile14 .

12. R. Picone, Reimpiego, riuso, memoria dell’antico nel medioevo, cit., p. 33.
13. Ibidem.
14. «Ci sono quattro cose che aiutano l’uomo a ben ricordare, la prima è che egli disponga le

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fare i conti con la storia: il caso del reimpiego

3. Verso il bene culturale

Se pertiene al Medioevo una visione dell’antico quale tradizione vivente


cui appartenere, la presa di conoscenza intellettuale della distanza tra pre-
sente e passato deve essere considerata quale esclusivo guadagno della
cultura rinascimentale laddove si comincia a organizzarne una certosina
conoscenza.
Proprio il XIV secolo consegna alla storia il grado di alterità dell’antico al
cospetto della cultura contemporanea, quasi parte di un vissuto tanto lonta-
no quanto contrapposto al nuovo: «è indubbio che l’intesse medioevale per i
resti del mondo classico prepari la strada per l’attenzione ben maggiore che
se ne avrà nel Rinascimento ma è pur vero che quest’ultimo avrebbe conse-
guito una visione dell’antichità forse più chiara se l’età di mezzo non avesse
riusato e manipolato i suoi resti»15 , sostiene Renata Picone. Ancora una vol-
ta può emergere una forte affinità testuale, come a dire che se tanti testi
sono stati conservati lo si deve proprio ad una tradizione indiretta così poco
neutrale nel consegnare alla storia la fortuna di un autore. In questo senso
la pratica del reimpiego svolse un ruolo doppiamente ’costruttivo’: dal lato
pratico nelle ridisposizioni architettoniche, dall’altro teorico proponendo la
necessità di una conservazione e tutela di quel che nel tempo sarebbe stato
codificato come bene culturale16 .
A tal proposito una lettera, ritrovata e resa nota solo nel 1733, scosse
in profondità la cultura e le coscienze del tempo col merito di avviare il
dibattito sul senso della conservazione delle antichità. Si tratta dell’accorato
appello che Raffaello indirizzò a papa Leone X affinché si ponesse fine alla
razzia che da secoli era perpetrata ai danni di Roma di cui segue un estratto:
Ma perché ci dolerem noi de’ Gotti, Vandali er altri (...) inimici se quelli che come
padri e tuttori deveano deffendere queste povere reliquie di Roma, essi medemi
hanno lungamento atteso a destruerle? Quanti pontifici, Padre Santissimo, quali
haveano el medemo officio che ha Vostra Santità, ma non già el medemo saper né
el medemo vallore e grandezza de animo, non quella clementia che vi sa simile a
Dio [...] hanno atteso a ruinare templi antiqui, statue, archi et altri aedifici gloriosi!
Quanti hanno comportato che solamente per pigliar terra pozzolana siansi scavati
fondamenti, onde in poco tempoi, poi, edificii li sono venuti a terra! Quanta calce
si è fatta di statue et altri ornamenti antiqui, che ardirei dire che tutta questa

cose che desidera ricordare in un certo ordine, la seconda è che aderisca ad esse con passione, la
terza è che le riporti a similitudini insolite, la quarta è che le richiami con frequenti meditazioni»T.
D’Aquino, De memoria et reminiscentia commentatiun, Ed. R. M. Spiazzi, Torino-Roma, 1949, p. 85.
15. R. Picone, Reimpiego, riuso, memoria dell’antico nel medioevo, cit., p. 33.
16. Per un approfondimento analitico si veda C. Menale, I beni culturali nell’ordinamento giuridico
italiano, in F. Dell’Aversana (a cura di), Manuale di diritto delle arti e dello spettacolo, PM edizioni,
Varazze, 2016.

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rivista di diritto delle arti e dello spettacolo

Roma nova che hor si vede, quanto grande ch’ella su sia, quanto bella, quanto
ornata di pallaggi, chiese [...], tutta è fabbricata di calce di marmi antichi! [...]17 .

Questa lettera, che si ritiene redatta da Baldassar Castiglione, amico e col-


laboratore dell’artista, dà conto di una delle condizioni fondamentali della
salvaguardia rendendo manifesto come da un gesto esemplare abbia tratto
conforto un’emergente e non più solo elitaria coscienza di tutela: la coscien-
za e conoscenza del passato come tesaurizzazione emerge come motivo fon-
dante di un’etica adeguata alla fruizione i cui valori avrebbero trovato riparo
nell’operazione di restauro18 , disciplina oggetto di una codifica secolare da
rileggere quale interprete della crescente tensione culturale dovuta all’illu-
minismo. Ci avviciniamo sensibilmente alla definizione di una teoria del
restauro come oggetto nei secoli a venire di una tempestiva valutazione in
termini storico-culturali, pronta ad intervenire sulla patina con valore docu-
mentario. Eppure questa storia sfugge ai limiti del seguente contributo, teso
com’è alla continuità storica del reimpiego nella contemporaneità.

4. Reimpiego altro

Come ribadito da Andrea Pinotti e Antonio Somaini nell’introduzione al te-


sto Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi che ha per oggetto le
forme della visualizzazione della spettatorialità, «studiare le immagini e la
visione assumendo come punto di riferimento il visibile significa prendere in
esame tutti gli aspetti formali, materiali, tecnologici e sociali che contribui-
scono a situare determinate immagini e determinati atti di visione in un con-
testo culturale ben deciso»19 . Tenere presente questa indicazione significa
rivolgersi con sguardo attento alla produzione e diffusione delle immagini
come incoraggiata da una crescente proliferazione permessa da dispositivi
in grado di moltiplicarne l’esposizione a partire dalla bassa definizione20 .
In aperta assonanza con quanto fino ad ora segnalato in riferimento al
reimpiego architettonico e facendo riferimento a questa singolare prospetti-

17. Il testo integrale della missiva di Raffaello a papa Leone X è disponibile al link
https://goo.gl/1Jxwdf.
18. «Il restauro architettonico, nell’accezione che ha dato al termine la cultura moderna, ha inizio
sul finire del XVIII secolo e precisamente nel 1794, anno del decreto con il quale la Convenzione
storica francese proclamava il principio della conservazione dei monumenti. A partire da questa
data, assistiamo a vari modi di esercitare la tutela dell’opera architettonica.» Si rimanda al testo di
S. Casiello, Conservazione e restauro nei primi decenni dell’Ottocento a Roma in S. Casiello (a cura
di), Verso una storia del restauro. Dall’età classica al primo Ottocento, Alinea, Firenze, 2008, p. 273.
19. A.Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Einaudi, Torino,
2016, p. XVI.
20. A tal proposito si veda il saggio di H. Steyerl, In defense of the poor image, in «e-flux journale»,
10, 11-2009, consultabile al sito http://www.e-flux.com/journal/in-defense-of-the-poor-image/

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fare i conti con la storia: il caso del reimpiego

va storico-culturale, resta decisivo cogliere una certa analogia a partire dalla


singolare differenza dei materiali considerati da proporre stavolta nell’am-
bito delle immagini riciclate, secondo un modello che potremmo definire
gioco delle immagini senza fili. Come suggerito dall’esperienza quotidiana, il
difficile controllo delle immagini – sia istantanee che in movimento – una
volta pubblicate ha inaugurato una pratica senza soluzione di continuità che
riserva loro un destino sconosciuto in origine riscritto dalla manipolazione
delle stesse: come all’inizio del gioco del telefono senza fili il messaggio
acustico sembra chiaro al mittente, meno lo è per il destinatario destinato
a confrontarsi con la sua personale ricezione che, nel caso specifico delle
immagini, può trovare riscontro nella sua personale manipolazione. Que-
sta urgenza sembra essere anticipata con sguardo profetico tanto da Laszlo
Moholy-Nagy21 quanto da Walter Benjamin, laddove individua uno spazio
di gioco22 aperto dal montaggio per l’opera d’arte riproducibile23 . A tal pro-
posito occorre segnalare come la trasformazione storica del pubblico e del
materiale nella mediazione dei dispositivi possa aver lasciato intatti i rap-
porti operativi: il cambiamento di patrimonio culturale e di orientamento
percettivo hanno imposto la ridefinizione di quelli che sono i materiali ed i
contesti in cui queste operazioni trovano spazio.
Allargando il campo alla storia della musica elettronica, consideriamo
ad esempio le operazioni di Cage nei suoi mix24 senza dimenticare la più
recente tradizione definita da John Oswlad plunderphonics, come dire “sac-
cheggiofonia”, parola che indica il realizzare musica manipolando fonti so-
nore ricavate da dischi di altri musicisti. Una definizione, ispirata in parte al
concetto di “cut up” dello scrittore William Burroughs. Senza far scemare la
nostra attenzione per il visuale, si potrebbe far riferimento alla proposta di
montaggio come scaturisce nella pratica situazionista del détournement25 , in

21. Per un approfondimento maggiore si veda il testo, L. Moholy-Nagy, a cura di A. Somaini,


Pittura fotografia film, Einaudi, Torino, 2010.
22. Da indagare se lo spazio di gioco coincida con la libertà di panorama. Si parta da G. De
Gregorio, Libertà di Panorama nel Digital Single Market: quali prospettive?, in «Rivista di diritto delle
arti e dello spettacolo», 2, 2017, pp. 59-74.
23. «Una volta per tutte – questa è stata la parola d’ordine della prima tecnica. Una volta non
conta – questa è la parola d’ordine della seconda tecnica. L’origine della seconda tecnica deve
essere ricercata nel momento in cui l’uomo, guidato da un’astuzia inconscia si apprestò per la
prima volta a prendere le distanze dalla natura. In altri termini: la seconda tecnica nacque come
gioco» W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 14.
24. Oltre agli Imaginary Landscape, è questo il caso di Williams mix (1952-3). «Ciò che trovavo
così affascinante nelle possibilità offerte dall’uso del nastro magnetico era che un secondo, che era
sempre stato concepito come uno spazio di tempo relativamente breve, equivaleva ora a quindici
pollici. Diventava qualcosa di così lungo da poter essere tagliato». J. Cage, Lettera ad uno sconosciuto,
a cura di R. Kostelanetz, trad. it. F. Masotti, Edizioni Socrates, Roma, 1996.
25. «Per quanto riguarda le azioni immediate che devono essere intraprese all’interno della
struttura che noi vogliamo distruggere, la critica d’arte può essere prodotta con un nuovo uso

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rivista di diritto delle arti e dello spettacolo

grado di attribuire agli estratti filmici originali un significato profondamen-


te diverso da quello iniziale: si pensi allo stesso montaggio che Guy Debord
realizza per la trasposizione cinematografica (1973) del suo testo La società
dello spettacolo (1967). La pratica del montaggio di materiale found footage sa-
rebbe stata in seguito esplorata in tutte le direzioni, finendo per diventare un
fenomeno culturale di vasta portata, un sintomo della nostra relazione con
i documenti visivi e audiovisivi di un passato archiviato in forme sempre
più accessibili e manipolabili26 . Una relazione fatta di ritrovamenti, appro-
priazioni, citazioni, riprese, slittamenti, migrazioni e che eredita dalla storia
dell’arte novecentesca le logiche del ready made e del collage, dei combine pain-
tings e dell’assemblage27 . A tal proposito mi sono riservato di elaborare una
singolare proposta in ambito musicale nel disco Suonerie28 (setola di maiale,
2017) quale ipotesi praticata e praticabile di sound footage in accordo ad una
definizione di mass music in grado di consegnare il suono al posizionamento
dispotico come regolativo della società dei consumi.

5. Conclusione

Resta da chiederci cosa muova il reimpiego, inteso tanto soggetto quanto


complemento oggetto. Infatti, la questione delle motivazioni del reimpiego
e della connotazione delle ’spoglie’ sono assai varie e possono coesistere tra
loro in diverse combinazioni e con differente accentuazione. Tra le ragioni
del reimpiego la prima è quella del puro valore materiale: quando si è cir-
condati dalle rovine è comodo poter disporre di pezzi già pronti per nuove
costruzioni e, in senso puramente materiale, il reimpiego è esistito in ogni
epoca. Oltre a questo motivo, pur se spesso in stretta connessione, sussisto-
no ragioni di valutazione estetica in base alle quali la bellezza della forma,
il pregio del materiale sono intenzionalmente esibiti ed ostentati nel reim-
piego. In ogni caso la semplice disponibilità del pezzo antico spesso non
ne spiega il reimpiego: essa è un presupposto necessario, ma il più delle
volte non sufficiente. Più interessante dell’offerta è, anche in questo caso, la

dei mezzi esistenti dell’espressione culturale, cioè a dire ogni cosa dal cinema fino alla pittura.
Questo è quello che i situazionisti riassumono nella loro teoria del détournement. Come è critica
del suo contenuto, così l’arte deve essere critica della sua forma assoluta. Tale lavoro è una sorta di
comunicazione che, riconoscendo i limiti della sfera specializzata della comunicazione egemonica,
conterrà ora la sua propria critica.» G. Debord, I situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica e
nell’arte, Nautilus, Torino, 1990.
26. Si veda a tal proposito il capitolo Montaggio ludico. Il cinema post moderno in F. Vitella, Il
montaggio nella storia del cinema. Tecniche, forme, funzioni, Marsilio, Venezia, 2009, pp. 150-182.
27. A tal proposito si veda il paragrafo Il montaggio come strumento analitico: dagli atlanti di
immagini al found footage, in Cultura visuale, op. cit., pp. 94-106 e M. Bertozzi, Recycled Cinema.
Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia, 2013.
28. Un rimando al lavoro è disponibile al link https://goo.gl/fSWP9X.

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fare i conti con la storia: il caso del reimpiego

domanda, poiché essa rende visibile la percezione, la sensibilità, il program-


ma che conferisce al reimpiego un significato, una dimensione spirituale:
l’antichità, una volta riusata, dona alle costruzioni, oltre alla bellezza e alla
sontuosa monumentalità, anche quella patina di antico che ne accresce il
rango. Se questo è vero per la storia dell’arte medioevale, è vero solo in par-
te per la storia dell’arte contemporanea, che ha visto insediarsi altri valori a
suo sostegno.

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