Sei sulla pagina 1di 3

Iactatus ab undis.

Enea e gli altri, storie


di profughi alle origini di Roma
Michela Mariotti

Alle origini di Roma c’è una dolorosa storia di migrazione. Enea, l’eroe genealogicamente connesso con il
fondatore della città, Romolo, selezionato dalla tradizione per rafforzare il mito dell’origine troiana dei
Romani, è un profugo, un esule scampato alla caduta di Troia.

Il mito di Enea e la tradizione romana


Tra i molti eroi greci o troiani che il mito aveva fatto approdare sulle coste italiche e fondare città
nobilitandone le origini, la figura di Enea, importante ma non centrale nell’epos omerico (Enea e la sua
discendenza sono destinati a regnare sui Troiani dopo la fine di Priamo secondo la profezia di Poseidone
in Iliade 20, 307-308, ripetuta dalla madre divina dell’eroe, Venere, al padre Anchise nell’Inno ad Afrodite,
196 ss.) acquista un rilievo particolare nel Lazio antico, dove il culto di Enea come eroe fondatore è attestato
a Lavinio, a sud di Roma, a partire dal IV secolo a.C.
Non c’è nessuna testimonianza di un culto analogo a Roma, né risulta che nell’età arcaica Enea sia mai
stato considerato il fondatore della città, ma tra il II e il I secolo a.C. si istituisce un collegamento tra il mito
dell’eroe e la leggenda di fondazione di Roma. Le ragioni di questa operazione culturale sono
evidentemente politiche. È il periodo in cui Roma acquisisce l’egemonia sul Mediterraneo: affermare
l’origine troiana della potenza emergente significa rivendicare l’alterità e la parità di Roma rispetto
al mondo greco. Omero aveva consacrato i Troiani come antagonisti dei Greci: adesso Roma avrebbe
garantito la rivincita dei Troiani.

Enea, Augusto e Virgilio


Quando Virgilio rinuncia a comporre un poema storico dedicato alle imprese di Augusto, annunciato nel
proemio al terzo libro delle Georgiche (3, 46-48), optando invece per un epos sulle origini remote di Roma,
che narrasse il travagliato viaggio per mare di Enea e la guerra nel Lazio, la materia del mito si carica di
significati storici e politici, e non solo perché attraverso la figura del figlio troiano di Enea, Iulo/Ascanio,
rivendicava nobilissime origini la gens Iulia, la casata di Cesare e di Augusto suo figlio adottivo. Nello
spazio delle origini, infatti, Virgilio fa muovere tutte le grandi forze da cui sarebbe nata la Roma augustea:
la guerra tra Troiani e Latini si conclude con una storica alleanza, ma a quel risultato contribuiscono gli
Etruschi, alleati di Enea nella guerra, e i Greci, che forniscono ad Enea un prezioso alleato, l’arcade
Pallante, e soprattutto rappresentano la più remota preistoria di Roma (occupano infatti l’area alle pendici

1
del Campidoglio). Persino Cartagine, la terza grande potenza del Mediterraneo, attraverso la figura della
regina Didone è collegata al mito di Enea in una prospettiva (come vedremo) radicalmente nuova.

La fuga da Troia: Enea perde la moglie


Ma iniziamo dall’ultima notte di Troia. Quando tutto ormai è perduto, la città in fiamme, i nemici che
imperversano dentro le mura, Enea si carica sulle spalle il padre Anchise (a lui ha affidato i sacri Penati di
Troia), prende per mano il piccolo Iulo e, seguito dalla moglie Creusa, intraprende il suo nuovo destino (il
racconto è affidato alla voce del protagonista in Eneide 2, 721 ss. ). Già sono vicine le porte della città
quando qualcosa va storto, un rumore di passi, il bagliore delle armi nemiche: Enea, in preda all’ansia,
affretta il passo, imbocca vie traverse e solo quando ha raggiunto la salvezza, il tempio di Cerere fuori città,
si accorge di avere perso la tenera sposa. La tragedia personale si fonde così con la dolorosa esperienza
della fine di Troia. Infuriato, l’eroe si arma e ritorna in città, dove ormai non sono più che silenzio e rovine.
Qui sarà l’ombra di Creusa a consolarlo («A che giova abbandonarsi tanto a un dolore insano, o dolce
sposo? Questi fatti non accadono senza che gli dei lo vogliano», 2, 776-778), ad annunciargli il destino che
lo attende («Lunghi esili per te, e da solcare la vasta distesa del mare. E arriverai alla terra d’Esperia, dove
tra ricchi campi coltivati dagli uomini scorre con placida corrente l’etrusco Tevere. Lì ti sono già stati
preparati lieti eventi e un regno e una sposa regale…», 2, 780-784).

Il nuovo Enea, eroe della responsabilità


La morte di Creusa è un sacrificio necessario, imposto dal fato. Ed è anche il segno tangibile che la vecchia
vita di Enea è finita per sempre: il nuovo Enea, profugo alla ricerca di una terra promessa, dovrà trovare
una nuova sposa in terra straniera per dare inizio a un nuovo popolo e a un nuovo regno. Non a caso, la
perdita della sposa si consuma tutta in un gesto, quel «non voltarsi indietro» (Nec prius amissam respexi,
2, 741) che, rovesciando il tragico errore di Orfeo (immemor heu! … respexit, Georgiche 4, 487) in un testo
che mostra significative consonanze con il finale delle Georgiche, segna una distanza incolmabile tra i due
protagonisti: da una parte Orfeo, l’amante solipsisticamente ripiegato sulla propria sofferenza d’amore,
dall’altra Enea, l’eroe designato dal fato per una missione che trascende l’orizzonte individuale
dell’esistenza. Un enorme carico di responsabilità, che nella prospettiva della narrazione è messo in rilievo
icastico dal gesto di Enea che prende sulle spalle il padre, prima di fuggire: non un «mettere il carico sopra
le spalle», ma un «sottomettere se stesso» al carico del padre, con il collo subiectus, come un bue sottomesso
al giogo (latos umeros subiectaque colla / veste super fulvique insternor pelle leonis / succedoque oneri,
«distendo sulle larghe spalle e sul collo chinato una coperta, la pelle di un fulvo leone e mi metto sotto al
peso», Eneide 2, 721-723).

Un popolo di profughi, sbattuti dai flutti


Enea è l’eroe che il fato destina a raggiungere l’Italia, origine prima della gloriosa storia di Roma, ma è
anche l’eroe che il fato condanna all’esilio, al destino di profugo. Il lettore dell’Eneide ne è avvertito fin
dal proemio (Eneide 1, 1-4):
Arma virumque cano Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum…
«Canto le armi e l’eroe che per primo dalle terre di Troia giunse profugo per volere del fato in Italia
ai lidi di Lavinio, dopo essere stato a lungo sballottato per terra e per mare dalla volontà degli dei».
Un profugo, sbattuto dai flutti. E il destino di Enea si riflette su quello di tutti i sopravvissuti alla fine di
Troia: il participio iactatus, quasi un epiteto dei Troiani nell’Eneide, ritorna alla fine del proemio a
designare il destino di un popolo intero (Eneide 1, 29-30): iactatos… / Troas, reliquias Danaum atque
inmitis Achilli. Con un tratto tipico del suo stile “sentimentale”, Virgilio aggiunge alla designazione

2
un’apposizione piena di pathos («i resti della strage dei Danai e dello spietato Achille»), che spezza
l’oggettività del racconto e chiama il lettore a riflettere.

Un nuovo modo di guardare la storia


Al lettore dell’Eneide Virgilio chiede molto. L’epica non può essere più uno specchio senza tempo di
eroiche imprese, una narrazione che semplicemente “imita” la realtà dei fatti, rappresentando una verità
univoca da un unico punto di vista. Dopo Omero la letteratura ha conosciuto la forma del dubbio e
dell’interrogazione, ha scoperto la ragione critica e il linguaggio scisso della tragedia. Quando il mondo si
rivela complesso, e il torto si mescola con il diritto, non è più possibile un linguaggio oggettivo: ecco allora
che il testo virgiliano si fa policentrico, si apre cioè a una pluralità di punti di vista, e accanto alle ragioni
del vincitore ospita le ragioni dei vinti. La tradizione epica romana offriva una visione trionfalistica della
storia di Roma minimizzando su ciò che era stato sacrificato all’affermazione dell’imperium. Virgilio ora
lascia emergere nel suo testo gli elementi di crisi e le colpe del vincitore.
A partire dal conflitto con Cartagine, la tradizione epica e storiografica aveva sempre rappresentato il
conflitto romano-punico come un’irriducibile scontro tra popoli diversi. Virgilio invece vede l’origine della
guerra in un eccessivo amore tra simili: il progenitore troiano dei Romani e la regina fondatrice di Cartagine,
Didone.

Didone, compagna di Enea nella legge universale del dolore


Sbattuto da una tempesta sulle coste libiche, dove Didone, esule da Tiro, sta fondando Cartagine, Enea
giunge al tempio di Giunone e, celato da una nube, può liberamente ammirare i dipinti che ne adornano le
pareti: rappresentano la guerra di Troia, Priamo, Achille, gli Atridi. Commosso l’eroe esclama (Eneide 1,
461 s.): «Anche qui si rende onore alla gloria, ci sono lacrime per le cose accadute e le vicende dei mortali
toccano il cuore» (ad amplificare il pathos dell’affermazione ecco un altro tratto tipico dello stile
“sentimentale” virgiliano, un dicolon abundans, cioè una serie di due membri, di cui il secondo, mentem
mortalia tangunt, è una variazione patetica del primo, sunt lacrimae rerum). Ed è ancora assorto nella
contemplazione dell’opera in cui riconosce persino se stesso, quando, pulcherrima, sopraggiunge la regina.
La piena, solidale accoglienza offerta da Didone prima ai Troiani dispersi, che Enea ora scopre essere
sopravvissuti al naufragio («Sia che desideriate la grande Esperia … o le terre di Erice … vi congederò
sicuri di aiuto e vi soccorrerò di mezzi. Volete insieme con me risiedere in questo regno? La città che fondo
è vostra, tirate in secco le navi; Troiano o Tirio, per me non ci sarà nessuna differenza», 1, 569-574), e
quindi all’eroe finalmente uscito allo scoperto, dà piena conferma a quella prima intuizione di Enea: i
Cartaginesi sono davvero un popolo che ha compassione delle umane vicende, che sa essere partecipe alla
sofferenza dei mortali. È una solidarietà che nasce dalla condivisione di un comune destino di esuli: Me
quoque per multos similis fortuna labores / iactatam hac demum voluit consistere terra, «Un destino simile
ha voluto che anch’io, sballottata attraverso molte sventure, mi fermassi finalmente in questa terra», dice
la regina ad Enea (1, 628-629). È la solidarietà che si impara alla scuola della sofferenza: non ignara mali
miseris succurrere disco, «conoscendo la sofferenza, da essa imparo a soccorrere chi soffre» (1, 630). Così
conclude Didone, compagna ai troiani nella legge universale del dolore, vinta dal destino, come sarà vinta
Cartagine. Ma nelle parole del vinto è racchiusa una verità senza tempo.

Potrebbero piacerti anche