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Non c’è nessun dio quassù: L'autobiografia di Gagarin. Il primo uomo a volare nello spazio
Non c’è nessun dio quassù: L'autobiografia di Gagarin. Il primo uomo a volare nello spazio
Non c’è nessun dio quassù: L'autobiografia di Gagarin. Il primo uomo a volare nello spazio
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Non c’è nessun dio quassù: L'autobiografia di Gagarin. Il primo uomo a volare nello spazio

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«Poechali», cioè, in russo, «andiamo». Fu questa l’ultima, semplicissima parola pronunciata da Jurij Gagarin il 12 aprile del 1961 alle 9 e 07, ora di Mosca. Poi ci fu tempo soltanto per i reattori del Vostok 1, l’astronave che avrebbe consentito al ventisettenne Gagarin di compiere un’impresa mai tentata prima: raggiungere lo spazio e – finalmente – riuscire a vedere la Terra dalla Luna. Tutto il mondo restò allora con il fiato sospeso, come dubitando che il figlio di un carpentiere si trovasse nelle condizioni di portare a compimento una simile missione. C’era in gioco, in quel momento, il senso stesso della Rivoluzione d’ottobre: un’aspirazione alla giustizia e all’uguaglianza che Gagarin racconta attraverso la sua stessa vita, dall’infanzia, trascorsa al tempo della resistenza contro l’invasore nazista e alla vittoria della «grande guerra patriottica», fino al duro addestramento riservato ai piloti dell’aeronautica, passando per la vita nel colcos e per gli studi preliminari all’ammissione nel Partito comunista. Una grande avventura dove in primo piano c’è l’uomo, le sue aspirazioni e i suoi sogni. Perché quello che è certo è che Jurij Gagarin – nome in codice Kedr (cedro) – riuscì a trovare la via del cosmo, riportando dalle orbite spaziali frasi di meraviglia e stupore destinate a restare famose per sempre: «Non c’è nessun Dio quassù».
LanguageItaliano
Release dateApr 6, 2014
ISBN9788867180417
Non c’è nessun dio quassù: L'autobiografia di Gagarin. Il primo uomo a volare nello spazio

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    Non c’è nessun dio quassù - Jurij Gagarin

    Gagarin

    Il mio paese natale: la regione di Smolensk

    Vengo da una famiglia comune, una famiglia di lavoratori come ce ne sono a milioni nella mia patria socialista. I miei genitori sono due semplici russi ai quali la Rivoluzione d’ottobre ha dato una vita piena e dignitosa.

    Mio padre, Aleksej Ivanovič Gagarin, era figlio di un contadino povero della campagna di Smolensk. La sua istruzione si limitava alle nozioni elementari apprese nelle prime due classi della scuola parrocchiale. Ma, curioso per natura, mio padre s’è dato da fare in seguito per allargare da solo le sue conoscenze. Nel nostro villaggio, non lontano da Gžatsk, Aleksej Ivanovič era conosciuto come un maestro in ogni genere di mestieri perché sapeva costruire con le sue mani tutto ciò che può essere necessario in campagna. Ma non c’è dubbio che la sua specialità fosse il mestiere di falegname. Vedo ancora la spuma gialliccia dei trucioli dove affondava le sue grandi mani di lavoratore e so ancora distinguere, dall’aroma, le diverse qualità di legno che gli servivano per costruire i più svariati attrezzi: il dolciastro dell’acero, l’amarognolo della quercia e il gusto sottilmente aspro del pino.

    Per me, dirò che stimo in uguale misura sia il legno che il ferro. Del ferro me ne ha parlato a lungo mia madre, Anna Timofeevna, raccontandomi di Timofej Matveev, suo padre, aggiustatore alle officine Putilov di Pietroburgo. Da quel che ne so attraverso mia madre, Timofej Matveev era uno di quegli uomini dai piedi ben piantati in terra, fiero della sua qualità di operaio d’élite, capace – come diciamo noi – di «ferrare una pulce» o di forgiare un fiore con un pezzetto di ferro.

    Non ho mai conosciuto mio nonno Timofej, morto tragicamente in una sciagura sul lavoro, ma il suo ricordo, nella nostra famiglia, è vivo come quello delle tradizioni rivoluzionarie degli operai dell’officina Putilov. Come mio padre, anche mia madre, da ragazza, non aveva potuto studiare, ma le sue letture successive le permettevano di soddisfare tutte le curiosità dei suoi quattro figli: Valentin, il maggiore, nato l’anno della morte di Lenin; Zoja, di tre anni più giovane, io e Boris, il beniamino della famiglia.

    lo sono nato il 9 marzo 1934. I miei genitori lavoravano al colcos, mio padre come carpentiere e mia madre come mungitrice. Responsabile della produzione colcosiana del latte, mia madre passava alla fattoria la maggior parte delle sue giornate e, per la verità, il lavoro non le mancava: oggi il parto di una vacca, domani una malattia dei vitelli, un altro giorno i problemi della fornitura dei foraggi.

    Amavo molto il mio villaggio, annegato nel verde d’estate, sepolto sotto la neve d’inverno. E il nostro colcos era un buon colcos che ci procurava una vita agiata. La nostra casa era la penultima prima della staccionata, sulla strada per Gžatsk. Avevamo un giardino con meli e ciliegi, arbusti d’uva spina e ribes. Dietro la casa s’apriva un prato, terreno di gioco di tutti i bambini del villaggio, dove noi ci affrontavamo a piedi nudi in lunghe partite di iapta¹ o in altri giochi.

    Mi ricordo benissimo che un giorno – dovevo avere non più di tre anni – mia sorella Zoja mi portò con sé alla festa scolastica del Primo Maggio. Salii su una sedia e recitai una poesia:

    «E il gatto dal finestrino ci sorride birichino…».

    Gli scolari applaudirono. Ne fui fiero: erano i primi applausi della mia vita.

    Ho un’ottima memoria che mi permette di ricordarmi di un sacco di cose. A volte, di nascosto, salivo sul tetto di casa: sotto, a perdita d’occhio, immensi come il mare, si stendevano i campi colcosiani. Un vento dolce faceva ondulare il grano dorato; sulla mia testa il cielo, di un azzurro intenso, senza fondo. E allora mi prendeva il desiderio di affondare in quell’azzurro, di volare fino all’orizzonte: dove il cielo e la terra si toccano… E le nostre tenere betulle, i nostri orti, e il fiume dove nuotavamo, bambini, e pescavamo il persico e il ghiozzo!

    A volte, con tutta la banda dei ragazzi del villaggio, arrivavamo in tromba alla fattoria di mia madre e lei ci metteva davanti una grande scodella di latte appena munto e un pezzo di pane nero. Poi, guardandoci a lungo, diceva: «Monellacci, voi non sapete di avere un’infanzia felice. La mia o quella di vostro padre è stata molto diversa». E diventava silenziosa e triste. Allora il suo viso diventava dolcissimo, come in certi quadri. Voglio un gran bene a mia madre. A lei devo tutto ciò che sono riuscito a fare di buono.

    Mio padre aveva un fratello, Pavel Ivanovič, di professione assistente veterinario. Noi ragazzi eravamo felici quando zio Pavel passava da noi e restava a dormire a casa nostra. Gettavamo sul fieno una grossa cerata, ci sdraiavamo accanto allo zio e chiacchieravamo a lungo guardando le costellazioni sopra le nostre teste.

    In queste occasioni, mio fratello Valentin aveva l’abitudine di chiedere:

    – Credi che quei mondi siano abitati da uomini come noi?

    E zio Pavel rispondeva con un sorriso:

    – Chissà. Io penso che su certe stelle esistano forme di vita. Non è possibile che soltanto la Terra, tra milioni di pianeti, abbia questa fortuna.

    Avevo una gran voglia di andare a scuola. Volevo poter fare i miei compiti, avere un portapenne, una lavagna, dei quaderni come mio fratello e mia sorella. Spesso, con gli altri ragazzi della mia età, spiavo l’interno di un’aula dove gli scolari componevano intere parole alla lavagna o scrivevano cifre per noi complicate. Come tutti i bambini della mia età, avrei voluto crescere più in fretta.

    Il giorno dei miei sette anni, mio padre mi annunciò:

    – Questo autunno, Jura², andrai a scuola.

    In famiglia la parola di mio padre era legge. Severo ma giusto, ci ha impartito le prime lezioni di disciplina, ci ha insegnato a rispettare gli anziani, ad amare il lavoro. Mai l’ho udito minacciare o ingiuriare, mai l’ho visto alzare la mano sui suoi figli. Per contro, non ci ha mai prodigato carezze superflue. I vicini lo stimavano, la sua opinione aveva un peso alla direzione del colcos. Del resto tutte le attività di mio padre erano legate al colcos che è sempre stato un pò come la sua seconda casa. Invalido (aveva una gamba fuori uso) non aveva partecipato alla guerra civile.

    Una domenica lo vidi affrettarsi verso casa. Era uscito qualche istante prima dal soviet del villaggio e mai avevo visto mio padre così sconvolto. Sull’uscio mormorò in un soffio:

    – È scoppiata la guerra!

    Colpita dalla terribile notizia, mia madre s’accasciò su una panca, nascose il viso nel grembiule e cominciò a piangere silenziosamente. L’orizzonte si riempì di nuvole. Sulla strada il vento sollevò un mulinello di polvere. Le canzoni della domenica morirono in tutto il villaggio. Perfino noi, bambini, avevamo interrotto i nostri giochi. Lo stesso giorno, una cassetta di legno in mano, le giovani reclute lasciarono il villaggio dirette a Gžatsk e la gente del colcos s’ammassò sulla strada per salutare i suoi ragazzi che partivano, sui carri o in camion, verso il fronte.

    Come l’acqua dei nostri fiumi all’epoca delle grandi piene, la guerra avanzava rapidamente verso la nostra regione. Passavano colonne di profughi, silenziosi come ombre. Dietro venivano i feriti. Tutti ripiegavano verso l’interno del paese. Si diceva che i nazisti avessero raso al suolo Minsk, che sanguinosi scontri erano in corso davanti a Elnja e Smolensk. Ma noi continuavamo ad avere fiducia, a pensare che i nazisti sarebbero stati fermati. E venne settembre. Come tutti i miei coetanei, cominciai a frequentare la scuola. Quanto tempo avevamo aspettato quel giorno! Ma eravamo appena riusciti a familiarizzarci con l’aula, a tracciare la lettera A e a contare le aste quando arrivò la notizia sinistra: i nazisti erano vicinissimi, nella zona davanti a Vjazma.

    Proprio quel giorno vedemmo due aerei con la stella rossa sulle ali volare sui tetti del villaggio. Non avevo mai visto prima d’allora un aeroplano e non avrei saputo dire di che tipo erano quei due. Ora lo so: uno era uno Jak e l’altro un Lagg. Quest’ultimo doveva essere stato colpito nel corso di una battaglia aerea perché il suo pilota cercava un atterraggio di fortuna nella zona paludosa coperta di ninfee e di giunchi. Non vi riuscì: l’aereo si fracassò al suolo mentre il pilota, giovanissimo, si salvava saltando dalla carlinga, senza paracadute, pochi istanti prima dell’urto.

    L’altro aereo, lo Jak; toccò terra in un prato, vicino alla palude. Il pilota non aveva voluto abbandonare il suo compagno in pericolo. Ci precipitammo tutti nella zona di atterraggio, non foss’altro che per toccare gli aviatori, per entrare nella carlinga di un aereo. Respiravamo a pieni polmoni l’aroma sconosciuto della benzina, contavamo i fori dei proiettili nelle ali degli apparecchi. I piloti, furibondi, si consolavano pensando che la fine del Lagg era costata cara ai tedeschi. Quando le loro giubbe di cuoio si aprirono, vedemmo brillare sulle loro uniformi le decorazioni. Erano le prime che vedevo ma sapevo ormai che non era facile guadagnarle.

    Al villaggio, gli abitanti si contendevano i piloti.

    Tutti volevano ospitarli a casa loro per quella notte. Ma quelli, niente. Restarono vicini al loro Jak, e noi con loro, senza dormire, tremanti di freddo, vegliammo fino all’alba. Quando se ne andarono, non c’era uno di noi che non volesse diventare aviatore, che non volesse essere forte e bello come quei piloti. Provavamo dei sentimenti indefinibili e nuovi.

    Poi gli avvenimenti precipitarono. Lunghi convogli di camion carichi di feriti attraversarono il villaggio. La parola «evacuazione» corse di casa in casa.

    Bisognava andarsene senza indugi. Zio Pavel fu il primo a partire col gregge del colcos. Poi toccò a mio padre e a mia madre fare i preparativi per la partenza. Non ne ebbero il tempo. Un giorno udimmo rombare il cannone, riflessi d’incendio striarono il cielo e un gruppo di soldati tedeschi in bicicletta fece irruzione nel villaggio. In una confusione indescrivibile cominciarono le perquisizioni. I nazisti cercavano i partigiani ma non trascuravano di mettere le mani su tutto ciò che avesse un qualche valore, indumenti e scarpe compresi.

    Fummo cacciati dalla nostra casa, trasformata in caserma tedesca e dovemmo scavarci un rifugio sottoterra. Le notti erano spaventose, col rombo lugubre degli aerei nazisti che facevano rotta verso Mosca. E i miei genitori, più tristi della notte, temevano per le sorti della famiglia, del colcos e della nostra gente. Mio padre vegliava a lungo ogni notte e tendeva l’orecchio, cercando di distinguere il rombo dei cannoni sovietici, di cogliere il passo delle nostre truppe lanciate alla controffensiva. Spesso bisbigliava qualcosa a mia madre: erano preoccupati per Valentin e Zoja, già grandi, perché nei villaggi vicini i tedeschi avevano deportato dei giovani.

    Non sapevamo più nulla di ciò che accadeva in Russia: radio, posta e giornali tacevano. Poi un giorno avemmo la percezione che i tedeschi avessero subito una prima disfatta. Sempre più numerosi, arrivarono al villaggio soldati hitleriani feriti o congelati.

    Ricordo benissimo che una notte, dopo aver riattizzato il fuoco, mio padre uscì e tornò poco dopo per dire a mia madre:

    – Sparano, qui vicino…

    – Partigiani? – domandò mia madre.

    – No, è l’esercito regolare. Le cannonate rimbombano da ogni parte.

    All’alba il villaggio cominciò a essere attraversato da una colonna interminabile di carri tedeschi carichi di soldati, di cannoni e di mezzi corazzati: non era più lo stesso esercito che qualche mese prima era passato avanzando verso est. Solo più tardi sapemmo di aver assistito alla ritirata dei resti di una divisione SS schiacciata sotto Mosca. Per tutti gli abitanti del villaggio non c’erano più dubbi: l’ora della liberazione si stava avvicinando. Ma non fu così, perché i nazisti riuscirono a tenere ancora per molto tempo le loro posizioni avanzate nei pressi di Mosca. E il nostro villaggio era situato nelle immediate retrovie del fronte.

    Adesso la nostra casa era occupata da un nazista violento, un bavarese che, se non sbaglio, si chiamava Albert. Caricava gli accumulatori delle automobili e detestava i bambini. Un giorno che mio fratellino Boris s’era messo a curiosare nella sua officina lo agguantò e lo sospese a un ramo d’albero per la sciarpa che Boris aveva annodata attorno al collo: poi scoppiò in una risata cavallina.

    Mia madre si precipitò a soccorrere Boris ma il bavarese, che si divertiva, le impedì di avvicinarsi. Cosa potevo fare? La vista di mia madre e di mio fratello mi spezzava il cuore. Avrei voluto gridare aiuto, ma mi si era bloccata la parola, come se, invece di Boris, fossi stato io a essere mezzo impiccato all’albero. Se soltanto fossi stato un po’ più grande quel dannato fascista avrebbe smesso di divertirsi.

    Fortunatamente il bavarese fu chiamato da un ufficiale e mia madre poté liberare Boris. Lo portammo nel nostro rifugio sotterraneo e dopo molti sforzi riuscimmo a farlo tornare in sé.

    Imitando gli adulti, anche noi ragazzi cercavamo di danneggiare i tedeschi con tutti i mezzi a nostra disposizione. Seminavamo la strada di chiodi e di cocci di bottiglia per tagliare gli pneumatici delle loro automobili, approfittavamo di ogni distrazione di Albert per otturare con stracci e immondizie il tubo di scappamento del motore del suo gruppo elettrogeno. Albert mi odiava. Per molti giorni mi impedì di rientrare a casa e fui costretto a trascorrere la notte dai vicini. Così mi resi conto che in ogni casa non si faceva altro che studiare il modo migliore per danneggiare i nazisti.

    Molto lentamente il fronte si riavvicinava al villaggio. Lo capivamo anche noi bambini dal rullare costante, e sempre più alto, dei nostri cannoni. Poi la prima linea tedesca non fu che a soli otto chilometri da casa nostra. Il villaggio era pieno di soldati nazisti e i nostri li martellavano a cannonate e con le incursioni aeree. I bombardieri notturni tipo Po-2 erano diventati le bestie nere dei tedeschi. Per tutta la notte, come grossi grilli, riempivano il cielo del loro cri-cri innaffiando generosamente di bombe le posizioni nemiche. Giorno e notte gli incendi divoravano qualcosa.

    Niente sfuggiva ai nostri occhi di bambini. Un giorno sei aerei sovietici sorvolarono il villaggio e, dopo il fracasso di un bombardamento, li vedemmo tornare. Ci accorgemmo subito che la formazione era incompleta: un aereo mancava. Dirò che a quell’epoca sapevo contare soltanto fino a dieci e che ignoravo il meccanismo della sottrazione. Ma non potevo sbagliarmi: un nostro aereo mancava. Dove poteva essersi cacciato? Quasi allo stesso momento lo vedemmo arrivare. Bruciava come una torcia radendo la strada formicolante di tedeschi e sparando con tutti i suoi pezzi. I nazisti, presi dal panico, cercavano scampo gettandosi ai lati della strada.

    Cominciammo a soffrire per il nostro aereo. Purché riuscisse a rientrare nelle nostre linee… Ma il pilota aveva un’altra idea in testa. Virò bruscamente per riprendere d’infilata la colonna tedesca e questa volta mollò le sue bombe. Poi, d’un tratto, picchiò deciso dove erano più fitte le schiere naziste.

    S’alzò una colonna di fuoco che consumò in un attimo aereo e pilota. Non abbiamo mai saputo, al villaggio, chi fosse e da dove venisse quell’aviatore che s’era battuto fino all’ultimo soffio di vita. Parlammo di quell’eroe sconosciuto, di

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