Sei sulla pagina 1di 5

Senza vergogna

di David Centanaro

Senza vergogna, sommessamente, tutti piangevano, mentre il carro funebre si faceva


strada a fatica su per la breve salita acciottolata e poi attraverso il piccolo spazio davanti
alla chiesa. C'era gente ovunque e il mezzo avanzava meno che a passo d'uomo,
fermandosi ogni momento e aspettando pazientemente che le persone si facessero da
parte, premendosi le une sulle altre.
Noi quattro eravamo arrivati fra i primi. La folla, affluendo senza interruzione sul sagrato,
ci aveva spinto sui gradini della chiesa e adesso ci trovavamo a fianco del prete, un sardo
basso e magro, di mezza età ma dai capelli ancora neri e lucidi.
Se ne stava ritto nella sua piccola statura, con i paramenti viola e il libro dell'ufficio dei
defunti in mano. Con il suo sguardo puntuto osservava il carro che lentamente faceva
manovra e si sistemava con il retro verso la chiesa.
I becchini scesero, aprirono il portellone e se ne stettero ai lati, chiusi nei loro abiti scuri,
con lo sguardo assente, come due angeli della morte.
Il prete scese i quattro gradini, toccò la bara aperse il libro rilegato in tela rossa
declamando a voce altissima e alzando lo sguardo sulle teste chine alla fine di ogni frase.
Poi si voltò con uno scatto e risalì i gradini, seguito dal feretro portato a spalla dai quattro
uomini neri. Il prete e i necrofori entrarono in chiesa attraverso la porta spalancata e
dietro di loro la folla si riversò per le navate, occupando in pochi momenti tutte le panche.
Nel primo banco di sinistra della navata centrale stavano già seduti Franz e la nipote di
Luciana. La schiena ossuta di lui aveva addosso una giacca nera e faceva un certo
effetto vederlo in abiti che non fossero quelli del lavoro.
Anche la nipote era vestita di scuro.
Noi ci sistemammo poco dietro di loro. Intanto i necrofori posarono la bara sul catafalco e
scomparvero, mentre la gente affluiva e la chiesa si riempiva. In breve tutti gli spazi a
sedere furono occupati e la gente iniziò a sistemarsi in piedi, primasul fondo della chiesa,
poi dagli altari minori, infine anche nel corridoio della navata centrale.
Non era una chiesa molto grande, poteva ospitare gisto un centinaio di persone, ma quel
giorno ce n'erano almeno il doppio.
Duecento persone in una messa feriale, senza parenti; era veramente un risultato
notevole per il funerale di una persona che non aveva mai contato nulla in questo mondo.
I pochi parrocchiani presenti, un vecchio e una manciata di vecchiette abbonate alla
messa quotidiana, si guardarono intorno stupiti, ma ancora più stupiti eravamo tutti noi.
Ognuno era venuto convinto di non trovare nessuno e adesso tutti si salutavano perplessi
efummo obbligati a renderci conto che la vecchia Luciana era stata una persona
significativa per molti in questa città.
Sono sicuro che anche il prete rimase stupito da quel gran succcesso di pubblico. I preti
sono molto sensibili alle platee, amano quelle affollate ma soprattutto quelle gremite, come
era in questo caso. Poco importa se è gente che non entra in chiesa da vent'anni, anzi
meglio; una vasta messe a cui mettere mano, una turba da evangelizzare.
La massa iniziò e andò avanti sui suoi binari e tutti tenevano lo sguardo fisso sui
parrocchiani, gli unici che rispondevano al prete, per capire quando bisognava alzarsi in
piedi e quando ci si poteva sedere. E siccome la cosa procedeva per imitazione ne
veniva fuori un coreografico movimento da stadio, un'onda che partiva dalle nonnette e si
spandeva rapida per il resto delle panche.
Il Vangelo era quello della resurrezione di Lazzaro, un brano potente, che a me faceva
sempre il suo effetto. Il riferimento realistico al cadavere che già manda cattivo odore e
l'uscita di Lazzaro dal sepolcro ancora avvolto nelle bende uniti al mistero della
resurrezione e al mistero grande dell'amore di Gesù per l'amico mi emozionarono anche
quella volta.
E pensavo a Luciana chiusa in quella cassa a cui qualche ora prima, nello squallore di una
camera ardente mercenaria un uomo senza affetto e senza compassione aveva avvitato il
coperchio. Nessuno sarebbe intervenuto al funerale per far aprire quel coperchio,
nessuno le avrebbe gridato "Esci fuori!" Anche lei avrebbe dovuto aspettare fino all'ultimo
giorno, come tutti noi.
Poi il Vangelo finì, si lodò debitamente il Cristo e il prete abbandonò la voce rituale e
uguale con cui aveva letto la Parola e riprese la sua voce naturale e con quella iniziò la
predica.
Tutti si disposero ad ascoltarlo per inerzia e per buona educazione, ma quel sardo aguzzo
aveva deciso di stupirci e non parlò della "nostra sorella Luciana che il Signore aveva
chiamato a sé da questa vita" e nemmeno della "fede che senz'altro anche lei aveva" e
neppure del "dolore dei familiari che trovano conforto nella speranza cristiana della
resurrezione". Raccontò invece della passione di quella indomabile vecchia per la vita,
per il mangiare e il bere, per gli amici -scoprivamo quel giorno che ne aveva così tanti- e
per l'amore, quello crasso e carnale, per il teatro e per la sua piccola scuola di teatro, a cui
aveva dedicato tanti anni e tante energie.
Più che una predica la sua fu una di quelle cose da anglosassoni in cui l'amico ricorda
l'amico. I toni invece erano poco britannici; quel prete era abituato ad alzare la sua voce
dura nel tentativo di riscuotere i parrocchiani e a sferzarli e a inveire contro la loro ipocrisia
e la durezza del loro cuore.
Finito il breve discorso il sacerdote invitò all'ambone chi volesse ricordare con qualche
parola l'amica scomparsa. Noi quattro ci guardammo perplessi, questa non ce la
aspettavamo. Era una mossa a sorpresa o l'aveva pianificata prima? Qualcuno dei
presenti avrebbe avuto il coraggio di intervenire?
Pallida, alta, troppo magra, con lunghi capelli castani che le ricadevano dritti come spaghi
sulle spalle, Maria Paola attraversò la chiesa, salì sul presbiterio, si sistemò il microfono
con le lunghe dita nervose mentre ci osservava con i suoi fanatici occhi chiari.
Poi contorse la sua lunga faccia asimmetrica in cui spiccava il lungo naso affilato e
avvicinando le labbra al microfono, iniziò a parlare con una voce impostata, una voce
dolente e sognante.
<La sua migliore allieva.> disse Massimo storcendo la bocca in un'espressione sarcastica.
<Se questa è la migliore allieva -gli rispose Gian Pietro a bassa voce- era meglio se
faceva qualcos'altro la vecchia. Era meglio se stava a casa a fare la calzetta, faceva
meno danni.>
In effetti, se fosse stata a teatro, come credeva di essere, si sarebbe presa dei fischi e
magari qualche lancio, ma per fortuna era in chiesa e le venne concessa la stessa
misericordia che era stata usata al prete.
Non ricordo cosa disse, era tutto centrato su un registro patetico e lacrimevole e lei stessa
si asciugò gli occhi più di una volta durante la sua esibizione.
Poi toccò a Mimmo, grasso e calvo, con i pochi capelli e la barba bianchi e un paio di
occhialetti rotondi di tartaruga.
Anche lui con il fazzoletto in mano, ma fu meglio; riuscì anche a farci sorridere.
Dopo altri interventi, più brevi e insignificanti, che non ricordo più, perché non ascoltavo
più.
Guardavo Franz e Lea, la nipote, seduti nella loro panca, stretti l'uno all'altra come due
fratelli ai funerali della madre. Li guardavo e pensavo a Luciana, che avevo visto l'ultima
volta ancora lunedì -quel giorno era il venerdì successivo, giorno perfetto per un funerale-
al solito bar, al solito tavolo, con l'immancabile Rocky fra i piedi.
<Chi cazzo mi avete messo in casa, voialtri senza cervello, ma lo sapete o no che tipo è
quello lì?>
Protestai che aveva fama di essere un bravo ragazzo, il povero Franz.
<Ma che bravo ragazzo! Tanto per incominciare è sempre sporco come un lume.> Si
trattenne dallo sputare per terra. Invece tirò fuori un fazzoletto di carta e ci sputò dentro.
Poi lo tenne chiuso nella mano, ma lasciando libero l'indice, con cui continuava ad
accusare.
<Fa schifo. Arriva a casa e nemmeno si fa una doccia, nemmeno si cambia. Si butta sul
divano, accende la tivù e mi chiede cosa c'è per cena. Ma per chi mi ha preso? Per sua
madre, per la sua domestica?>
Probabilmente non si rendeva bene conto, pensava di essere in famiglia; in fondo, in un
certo senso, era un complimento.
<Come fa a non rendersi conto, mica è un bambino. Quello è un gran furbo, te lo dico io.
Anche perché poi, cosa vuoi, finisce che gliene do da mangiare. Per quello che mi costa,
buttare un po' di pasta in più o allungare la minestra... Ma quel suo modo da finto scemo
mi fa venire un nervoso che non ti dico. Così lo mando fuori con il cane, che è già stato
fuori con me tutto il giorno e se ne starebbe tanto volentieri a casa, povero Rocky. Ti dico
che lo faccio solo per levarmelo dai coglioni, solo per quello.>
La solidarietà con quella povera vecchia oppressa dal giovinastro mi spinse a ordinare un
paio di bianchi, visto che il suo bicchiere era vuoto. Lei ringraziò e appena ce li portarono
ne bevve mezzo con un'unica, rapida golata. Si accese una sigaretta e riprese le sue
lamentazioni.
<Mangia con la testa nel piatto, come i cani. Ti assicuro che Rocky mangia meglio, è più
distinto. Tiene la testa talmente bassa che quei suoi luridi capelli gli finiscono nel piatto e
non si sporcano solo perché sono già troppo sporchi. Le prime volte a tavola si sedeva di
fronte a me, ma adesso me lo faccio sedere di lato, così lo vedo meno.>
Sorseggiavo il mio bianco piuttosto imbarazzato. Mi sentivo colpevole per averle infilato
Franz, che in fondo nemmeno conoscevo, in casa. Le chiesi se pagava.
<Per adesso ha pagato. Quei quattro soldi merdosi che gli ho chiesto me li ha dati. Ma,
cosa credi, ci pago giusto quello che mi mangia.>
Mi consolava che la frequenza fosse ridotta. Lui stava fuori tutto il giorno, non si
vedevano che alla sera.
>La sera e la notte. Dopo cena, quando non esce, si chiude in camera e attacca quella
musica da drogati. Si è portato un impianto stereo che non ti dico. Io, per come son
conciata, già di mio non riesco a dormire. Così mi guardo un po' di tivù, ma, se voglio
sentire qualcosa, mi tocca alzare il volume al massimo. E lui poi ha la faccia di dirmi che
sono io che lo disturbo e che lo obbligo a tenere alta la musica. Io, capisci? Io, che in
casa mia mi voglio vedere un film, lo disturbo. Che faccia di merda! Così poi ci si è
messa anche la vicina a rompere. "Santa donna, le dico, vuoi parlarci tu con quel
drogato?" Ma quella si lamenta con me perché le sono sempre stata sulle palle, dai tempi
che suo marito ci provava con me. Lei è sempre stata una figa di legno e del maschio
non voleva saperne. Poi però, se il marito si guardava intorno, erano tragedie. Come se
il suo uomo avesse qualche possibilità; non lo guardavo neanche, avevo il mio Raffaele
che mi bastava e avanzava. Così mi rompe ancora adesso e ogni scusa è buona. A lui,
però, a quel drogato, se lo vede lo saluta con il sorriso. Ci gode, che mi fa impazzire.>
Il quadro, a sentire lei, era veramente sconfortante, non c'era una cosa che non andasse.
Forse era il caso di chiudere quell'esperienza. Ognuno di nuovo a casa sua e non se ne
parla più.
<Ma cosa vuoi -fece lei allargando le braccia- tanto domani sono morta.>
Si accese un'altra sigaretta e mi guardò da sopra gli occhiali, alzando le sopracciglia con
aria furbesca, quasi cattiva.
<Morta, capisci? Ho un bastardo dentro che mi ha mangiato i polmoni e adesso è
dappertutto. Quanto tempo vuoi che mi resti da campare?>
Pensai che scherzasse o che esagerasse e glielo dissi. Un moribondo non sta al bar
bevendo e fumando mentre fa quattro chiacchiere con un giovane amico.
<E cosa vuoi che faccia? Che mi chiuda in casa a piangere o che vada in ospedale a
farmi macellare? Visto che ne ho pochi di giorni, tanto vale che me li passo come piace a
me.>
Luciana si accorse che mi aveva reso mortalmente triste e si commosse. Allungò una
mano attraverso il tavolo e la posò sulla mia. Avevo lo sguardo annebbiato e combattevo
per ricacciare indietro le lacrime.
<Ascolta -mi disse con voce insospettabilmente dolce- morire è una cazzata. Prima ci sei
e un attimo dopo non ci sei più. Tocca a tutti. Meglio farsene una ragione.>
Poi, con aria soddisfatta, aggiunse:
<Io la mia vita me la sono fatta ed è stata bella, anche con un sacco di soddisfazioni. Ho
fatto tante di quelle cose che non ne hai un'idea. Peccato che ormai non ho più
nemmeno il tempo di raccontarle.>
Sospirò un paio di volte poi riprese:
<Peccato che di figli non ne sono venuti. Però ho mia nipote, che il padre non l'ha mai
visto e mia sorella, quest'anno fanno undici anni che è mancata. Per cui posso ben dire
che l'ho tirata su io. Me le ha fatte girare ben bene. E anche a quella poveretta di mia
sorella. Quando se n'è andata di casa con quel mezzo delinquente non ti dico cosa ho
patito. Adesso ha una storia con Franz.>
Questo era veramente troppo. Non ci potevo credere. Battei una mano sul tavolino e
feci un balzo sulla sedia. La bella Lea, la bionda dagli occhi sornioni, con quei suoi modi
da gatta selvatica, con quel suo corpo asciutto, con quel suo seno tondo e alto, con quel
suo culetto sempre in mostra che a tutti noi ci faceva voltare ogni volta che passava per
strada, Lea si era messa con Franz, l'uomo più triste e apatico che avessi mai conosciuto.
Ed era pure brutto e basso.
<Ce li prendiamo altri due bianchini?> mi chiese la vecchia. E li ordinò, corretti al
Campari.
<Sì, con quell'altro ha chiuso, ma è una cosa da fare con calma. Lui è un violento, non
sai come può reagire, magari le tira il collo. Aspetta la prossima volta che finisce dentro,
le ho detto. Basta avere un po' di pazienza, neanche tanta. Certa gente non la impara la
lezione, è più forte di loro, vedrai che tra poco lo beccano di nuovo.> Sospirò e si fece un
sorso. <Ma lei non ne ha pazienza, adesso è tutta per Franz. Ma cosa ci avrà trovato in
uno così> disse a bassa voce, scuotendo la testa. Era quello che mi chiedevo anch'io,
mentre bevevo la mia ruota di bicicletta.
<Così mi tocca uscire di casa anche la domenica pomeriggio, mentre quelli se ne stanno
chiusi in casa mia a far cigolare il divano. Gliel'ho detto a Lea: "Se trovo un solo pelo di
cazzo nel mio letto gli taglio le palle, al tuo amico. Non provateci, non finché sono viva.">
Sospirò stanca e le vennero gli occhi malinconici.
<Tanto non dura. Faccio prima io ad andare sottoterra che quell'altro a tornare in galera.
E mi dispiace, mi dispiace davvero.>
Finimmo i nostri bicchieri in silenzio. Poi mi alzai per pagare.
<Lascia stare, non te lo permetto. Oggi tocca a me.>
Si alzò a fatica, allontanando rumorosamente la sedia dal tavolino, andò al banco e pagò.
Mentre metteva il resto nel borsellino mi disse:
<Vedrai che è l'ultima.>
Io negai, con un mezzo sorriso e le lacrime agli occhi, la voce alterata dalla gola chiusa.
Ma così fu.
All'uscita dalla chiesa era quasi mezzogiorno e l'aria s'era fatta calda.
In molti tirarono fuori gli occhiali scuri e il prete pronunciò un'ultima benedizione.
Poi il portellone fu chiuso e il carro funebre partì, muovendosi con lentezza.
Lea e Franz fecero un rapido saluto a noi e a pochi altri e poi salirono su un taxi che li
stava aspettando.
La folla si scompose in piccoli gruppi. Si accesero le sigarette, il brusio delle voci
aumentò e sorrisi e gesti sbocciarono fra la gente e tutti erano contenti di aver partecipato
a quella bella festa triste.

Potrebbero piacerti anche