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GERMANA GENTILE (Unisob, laurea in Comunicazione pubblica e d’impresa, 30.4.

2012)

1.1 Il cambiamento organizzativo e il valore sociale dell'impresa: oggetto, contenuto e contesto

Nella realtà, gli individui, i gruppi, le aziende e le reti di aziende che popolano i business system,

alla stregua di qualsiasi organismo vivente (biologico o sociale) sono inevitabilmente suscettibili ad

un cambiamento costante: “il divenire” insomma, che da sempre ha interessato la storia del pensiero

in tante sue manifestazioni, è una caratteristica intrinseca all’esistenza stessa e quando essa viene

meno l’entità scompare e muore. Pertanto, sia che ci si riferisca alle leggi di funzionamento

dell’universo, sia che ci si riferisca al più ristretto ambito delle scienze umane e sociali (ergo del

management e dell’organizzazione aziendale) si può ritenere errato contrapporre il concetto di

cambiamento a quello di stabilità o di immobilismo. La stabilità va quindi considerata come una

situazione ideal-tipica che può essere immaginata come un movimento così lento e con un così

basso livello di attrito/conflittualità che solo in superficie manifesta una stasi, illudendo lo sguardo

dell’occhio nudo. Anche un’entità stabile cambia, ma in modo inerziale, ovvero sulla base dei suoi

modi di comportamento consolidati e lungo traiettorie ben definite.

Al concetto di cambiamento, nel “senso comune” e nel linguaggio manageriale, viene quindi

attribuita una valenza che implica una modifica della traiettoria che non consiste in un semplice

passaggio da uno stato ad un altro, bensì presuppone un processo che vede una sequenza di

individui, eventi ed azioni muoversi nel tempo ed in un determinato contesto.

Il cambiamento è dunque la determinante di una serie di componenti, alcune delle quali sono sotto il

potenziale controllo del management (forze endogene), che, se capace, riuscirà ad orientare nella

direzione voluta, mentre altre emergono dal contesto esterno in cui l’entità è collocata, il macro-

ambiente di riferimento, e che non sono controllabili (forze esogene-ecologiche).

In un contesto, dunque, in cui il continuo divenire risulta inevitabile, il compito di chi si occupa

della progettazione dell’organizzazione consiste nel riuscire a gestire il cambiamento, attivando le


leve adeguate affinché gli individui, i gruppi, le aziende, i network, si evolvano lungo percorsi e

tracciati segnati dal management, tenendo conto delle turbolenze e dei mutamenti del contesto in

cui esse operano.

Secondo alcuni studiosi (Fauvet, Buhler, 1993), se manca questa capacità di indirizzare il

cambiamento, le entità che si governano rischiano un processo di involuzione, provocato da una

tendenza entropica che spinge l’assetto organizzativo verso l’invecchiamento e l’estinzione.

La comprensione della dinamica del cambiamento rappresenta quindi una competenza chiave per

chi intende apprendere le problematiche organizzative ed ha assunto crescente importanza nel corso

di questi ultimi decenni, rispetto ad un passato in cui le condizioni di stabilità economico-industriale

inducevano a considerare il cambiamento come un processo ispirato ad una “razionalità

strumentale” sotto l’assoluto controllo del management. Tale fenomeno era considerato infatti mera

eccezione, una perturbazione, una fase temporanea, concepito come un disturbo patologico in un

sistema (chiuso) che in situazione normale è in equilibro: compito del management consisteva

quindi nel ripristinare l’equilibrio ottimale della “macchina organizzativa”, rispetto a temporanee

variazioni di assetto etero-determinate.

Questa visione, precedente alla rivoluzione simoniana avvenuta con l’introduzione del concetto di

“razionalità limitata”, spingeva manager e professionisti delle organizzazioni a trascurare la natura

complessa dei fenomeni economico-sociali ed il ruolo determinante del contesto circostante in cui

prendono corpo e si sviluppano le realtà aziendali. Come sottolinea invece Sciarelli, in un’economia

sempre più globalizzata ed interconnessa da sistemi avanzati di telecomunicazione, i fenomeni

economici risultano influenzati in larga misura dalla stabilità politica e dalle condizioni di sicurezza

dell’economia mondiale. Questi fenomeni, contraddistinti dal dinamismo e dall’imprevedibilità, si

propagano difatti con immediatezza da un Paese ad un altro, determinando situazioni di crisi, di

prosperità, di incertezza, nello svolgersi dei rapporti economici. Si può infatti osservare che gli

eventi di politica economica internazionale che hanno contrassegnato l’ultimo ventennio, ed in

particolare l’inizio del terzo millennio, hanno radicalmente modificato le caratteristiche


dell’ambiente socio-economico. Per effetto dell’apertura dei mercati, dell’affermarsi di nuovi

importanti competitori (Cina, India), dell’intrecciarsi di lotte sul controllo delle risorse energetiche

mondiali, dei tassi di sviluppo delle economie nazionali, l’ambiente è divenuto più turbolento, cioè

meno prevedibile, più ostile alle imprese, che sono accusate del degrado fisico e della coartazione

degli interlocutori più deboli, più eterogeneo e complesso (soprattutto sotto il profilo tecnologico),

e, infine, più insicuro, per il moltiplicarsi dei fenomeni terroristici internazionali. Turbolenza,

ostilità, diversità, complessità e insicurezza, appaiono dunque i connotati ambientali che, ormai da

qualche tempo, l’impresa, intesa come sistema aperto in continua interazione con altri sistemi ed

entità esterne, deve imparare a fronteggiare per sopravvivere e svilupparsi all’interno di un scenario

sempre più complesso, competitivo e in continuo cambiamento1. In questo scenario assume

particolare rilevo, come già sottolineato da Sciarelli, il fenomeno della globalizzazione. Le imprese,

così come i cittadini, si trovano ad affrontare un contesto economico che tende a porre nuove sfide e

nuovi obiettivi. La globalizzazione ha certamente ridotto le distanze tra i paesi e gli uomini e

facilitato le relazioni economiche, ma ha anche evidenziato le difficoltà dei paesi meno competitivi

nei mercati internazionali. Molti hanno visto nel processo di globalizzazione una componente

negativa, come un processo destinato a rendere più poveri i paesi in via di sviluppo e a far

sopravvivere solo le imprese più grandi e più forti. Altri autori, come Anthony Giddens ne hanno

invece evidenziato anche le potenzialità, invitando a raccogliere la sfida che queste ponevano. Ha

detto Giddens, che «non si tratta, almeno per il momento di un ordine mosso da una volontà umana

collettiva: piuttosto esso cresce con modalità anarchiche e accidentali, sospinto da un misto di

fattori. Non è definitivo né sicuro, bensì carico di incognite, nonché segnato da profonde divisioni.

Molti di noi sentono l’azione di forze sulle quali non hanno potere. Riusciremo a ricondurle sotto la

nostra volontà? Io credo di sì. L’impotenza che proviamo non è segno di fallimento individuale ma

riflette l’inadeguatezza delle nostre istituzioni: è necessario ricostruire quelle che abbiamo o

crearne di nuove, perché la globalizzazione non è un incidente nelle nostre vite di sempre. E’
1
Sciarelli S. Elementi di economia e gestione delle imprese, CEDAM, Padova 2008
il cambiamento delle condizioni stesse della nostra esistenza. E’ il modo in cui oggi viviamo2».

Giddens non ha esitazioni a dire che la globalizzazione è sotto molti aspetti non solo nuova ma

“rivoluzionaria” perchè «la globalizzazione è dunque un complesso insieme di processi, non uno

soltanto, un insieme che opera in maniera contraddittoria e conflittuale. La maggior parte della

gente crede che la globalizzazione sia semplicemente il “trasferire” il potere o l’influenza dalle

comunità locali e dalle nazioni nell’arena globale, ma questa è una delle sue conseguenze: le

nazioni in realtà perdono parte del potere economico che avevano. Ma ciò comporta anche un

effetto opposto: la globalizzazione non spinge solo verso l’alto ma anche verso il basso, creando

nuove pressioni a favore dell’autonomia locale» (Giddens, p.31). Quindi spetta a tutti gli attori

sociali ed istituzionali cogliere le possibilità offerte da un mercato aperto e in espansione che non

necessariamente va a sacrificare le autonomie e le identità locali, ma anzi, può aiutare a rafforzarle.

Quali sono le condizioni che consentono ad una organizzazione complessa come l'impresa di essere

in grado di affrontare con successo i cambiamenti sociali ed economici in atto? E' possibile che

questi cambiamenti determinino anche una nuova filosofia delle imprese, più orientata al rispetto

dell'ambiente, alla valorizzazione delle risorse umane, a coniugare principi etici e valori economici?

Su questi interrogativi si è sviluppato un dibattito che, anche in questo periodo di crisi mondiale,

non è certo possibile qui sintetizzare. Quello che ci interessa, ai fini di questo lavoro di tesi, è

evidenziare come il tema delle risorse umane sia diventato sempre più centrale e che si è sviluppato

assieme all'esigenza delle imprese di avere sempre un maggior contenuto etico e sociale nella loro

azione quotidiana. Per quanto riguarda le risorse umane, di cui approfondiremo nel paragrafo

successivo l’importanza, vogliamo qui solo effettuare alcune considerazioni di insieme, in special

modo orientate al nostro caso studio, una piccola impresa, di alto profilo sociale, che lavora con

persone a rischio vulnerabilità ed emarginazione sociale.

Per quanto grande possa essere il sistema organizzativo, per quanto possa essere presente l'elemento

dell'organizzazione tecnologica, gli uomini continuano ad essere la risorsa fondamentale che fa

2 Giddens A, Cogliere l'occasione: le sfide di un mondo che cambia, Carocci, Roma 2000, pag 25
vivere una impresa, che le consente di raggiungere i propri obiettivi. Questo significa che chi ha

compiti di selezione del personale deve sempre valorizzare la qualificazione, anche misurata in

termini di competenze non riconosciute, e la professionalità, anche potenziale, di chi in quella

impresa andrà a lavorare. E' quindi necessario non solo formare i lavoratori in termini di capacità e

abilità (skills), ma renderli elemento chiave di tutti i processi produttivi e organizzativi.

Nell'economia della conoscenza il ruolo delle risorse umane nella costruzione del vantaggio

competitivo è fondamentale (Rullani, 2004). Questa consapevolezza si è diffusa anche nelle

imprese. Siamo passati, infatti, dalla fase di forte conflitto sindacale degli anni '70, (attraversando le

fasi di ristrutturazione, orientate alla qualità) agli anni '90 nei quali si è focalizzata l'attenzione

sulla valorizzazione dei bisogni e delle potenzialità delle risorse umane, attraverso una minore

sofisticazione e una maggiore enfasi sulla comunicazione interna. Si sono sempre più sviluppati

modelli di sviluppo del personale e valorizzazione delle risorse umane. Nella strategia delle

imprese, che consideravano strategiche solo le risorse finanziarie o tecnologiche, si presta dunque

maggiore attenzione alla componente umana, considerata vera risorsa per l’impresa, le cui

competenze ed esperienze rappresentano un vero e proprio capitale intangibile, fonte di vantaggio

competitivo. Specie nelle piccole e medie imprese le risorse umane fanno la differenza nel successo

aziendale e ogni decisione in materia di selezione e gestione del personale deve essere ben

ponderata.

Accanto allo sviluppo di modelli inclusivi che valorizzano il personale, si è molto sviluppato il

rapporto tra etica sociale e impresa. Questo rapporto può essere declinato in vari modi. Una prima

definizione è quella che fa riferimento alla responsabilità di una impresa verso i suoi stakeholders3

che non si limita al rispetto delle norme, ma che si da un codice etico di comportamento che

evidenzi le responsabilità sociali dell'impresa nel suo agire quotidiano. L'altro concetto è di impresa

sociale diffuso negli ultimi anni in Europa e in Italia, noto anche con la definizione di “terzo

3
Per stakeholders si intende “interlocutori dell’impresa o portatori di interessi che influenzano e sono influenzati dall’attività
dell’impresa stessa.”(cfr Sciarelli S. Elementi di economia e gestione delle imprese, CEDAM, Padova 2008 )
settore”. Con questo termine si intendono tutte quelle organizzazioni che nel sistema economico si

collocano tra lo Stato e il mercato, sono cioè soggetti di natura privata, ma volti alla produzione di

beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva. All’interno del Terzo settore esistono da tempo

diverse tipologie di organismi (APS Associazioni di promozione sociale, ONLUS - Organizzazioni

non lucrative di utilità sociale, Cooperative sociali ecc.) che – indipendentemente dalla

denominazione e dalla forma giuridica adottata – sono tutte caratterizzate dall’assenza di scopo di

lucro e dall’erogazione di servizi di pubblica utilità, anche attraverso attività di volontariato.

L’impresa sociale, pur rientrando a pieno titolo in questo contesto, rappresenta qualcosa di nuovo.

Unisce, infatti, due mondi finora separati, quello della produzione a carattere imprenditoriale e

quello della produzione di beni e servizi di utilità sociale. Quest’ultimo settore, tradizionalmente

affidato ad enti pubblici, è sempre meno efficiente, di scarso livello qualitativo ed è oggetto di una

spesa sociale divenuta quasi insostenibile. Da qui l’idea – da alcuni definita una scommessa – di

rendere produttivo ciò che per sua natura non lo è, attraverso organizzazioni private in grado di

offrire beni e servizi di utilità sociale, senza perseguire il profitto ma mantenendo l’azienda in

equilibrio economico e finanziario. In questo senso le imprese sociali vengono da alcuni definite

come un ibrido tra imprese “for profit” ed enti “non-profit”, cioè come organizzazioni private che

agiscono per finalità diverse da quelle del profitto (“not for profit”).

Le altre caratteristiche innovative dell’impresa sociale sono definite con decreto legislativo n.

155/2006 – Legge sull’impresa sociale - e possono essere così sintetizzate: 1) la democraticità della

gestione (ossia il coinvolgimento di tutti gli stakeholders o portatori d’interesse, sia interni (soci,

collaboratori, volontari) che esterni all’organizzazione (utenti finali, committenti, finanziatori o

donatori) nella gestione dell’impresa; 2) la partecipazione degli utenti finali alla valutazione dei

risultati (in tal modo i fruitori dei servizi divengono protagonisti attivi del proprio percorso di

emancipazione); 3) la rendicontazione sociale, effettuata soprattutto attraverso la redazione e

pubblicazione del bilancio sociale (documento che, al di là dei meri aspetti contabili, permette a

chiunque di verificare il raggiungimento dei risultati). Ma la novità più interessante della legge è
rappresentata dalla previsione della iscrizione della cosiddetta “impresa sociale” nel Registro

Imprese tenuto dalle Camere di Commercio, il che implica trasparenza, garanzia ed affidabilità

delle informazioni per il mondo economico e degli affari. L’impresa sociale è un particolare tipo di

impresa – dalle caratteristiche ben definite dalla legge – che opera nel settore non profit. In generale

si tratta di un’organizzazione: privata; senza scopo di lucro; che esercita una attività economica

(produzione o scambio di beni e di servizi) di utilità sociale; con finalità di interesse generale.

L’impresa sociale non si regge sulla beneficenza. Il fatto che un’organizzazione privata sia senza

scopo di lucro ed abbia finalità sociali non vuol dire che può vivere esclusivamente di sussidi.

L’impresa sociale va infatti considerata come un’impresa a tutti gli effetti, anche se con

caratteristiche particolari,come quella di adoperare al proprio interno manodopera proveniente da

contesti di disagio o marginalità sociale4.

1.2 L'importanza e il ruolo strategico delle risorse umane

L’intero sistema direttivo, fondato sull’efficienza dei processi di organizzazione, programmazione e

controllo, è destinato a produrre risultati limitati in assenza di un’efficace funzione di conduzione

del personale. Gli sforzi di razionalizzazione del sistema debbono cioè essere completati dalla

ricerca delle soluzioni migliori per il delicato problema della guida, a tutti i livelli, degli uomini

impegnati nell’impresa. La condizione del personale rappresenta uno dei nodi centrali del processo

di direzione. La funzione di conduzione ha per obiettivo l’ottenimento del miglior rendimento

dell’organizzazione e riguarda, in effetti, i problemi di impiego e di guida delle risorse umane

presenti in azienda. Al fine di comprendere l’importanza strategica delle risorse umane all’interno

dell’impresa è opportuno definire i punti chiave del processo di cambiamento che ha visto la

componente sociale assumere, nel tempo, una sempre maggiore rilevanza, fino ad essere

4
Guida all'impresa sociale. L’utile senza gli utili: guida alla creazione dell’impresa sociale, Camera di Commercio
Roma 2009
considerata come principale fonte di valore e di vantaggio competitivo. Fondamentale, ai fini

dell’analisi dell’evoluzione del processo di conduzione del personale, è il concetto di “uomo”,

assunto a base della costruzione dell’organizzazione. Sappiamo, infatti, dalla storia delle teorie

organizzative, che le tre fasi classiche di sviluppo della disciplina hanno rappresentato, in effetti,

successive evoluzioni di tale concetto. L’organizzazione scientifica del lavoro, di stampo taylorista,

che ha caratterizzato la storia dell’industria, è partita da una visione dell’uomo, che è stato visto più

come strumento o meccanismo da far funzionare all’interno della macchina aziendale, che come

individuo da motivare o far partecipare alle scelte. Queste due ultime concezioni sono state invece

tipiche di momenti o periodi successivi della storia dell’organizzazione, poiché hanno

contraddistinto la “scuola delle relazioni umane” e, successivamente, quella “sistemica”.

Nell’impresa tayloristica l’individuo è subordinato all’organizzazione la quale, concepita sistema

chiuso, caratterizzato da variabili esclusivamente “interne”, facilmente conoscibili a priori e

governabili, rappresenta lo strumento razionale ideale per il raggiungimento di fini predeterminati.

La vera raison d’etre delle organizzazioni è la realizzazione degli obiettivi, raggiunti perseguendo

la logica dell’efficienza e della massima produttività. Il sistema proposto da Taylor prende spunto

dalla convinzione che per ogni attività esista una sequenza operativa in grado di garantire il

massimo rendimento con il minimo sforzo (one best way5); compito dell’azienda è individuarla e

mettere gli operai in condizione di eseguirla. Di qui l’elevato grado di standardizzazione,

pianificazione, comando e controllo, che rappresentano le caratteristiche distintive dell’impresa

labour intensive, organizzazione razionale ad elevato grado di formalizzazione: 1) presenza di job

description, ossia regole, programmi operativi, procedure, norme chiaramente esplicitate che

disciplinano lo svolgimento del lavoro il quale viene frazionato e frammentato al fine di perseguire

una maggiore efficienza produttiva; 2) Studio dei tempi e utilizzazione di strumenti di rilevazione e

5
Elemento comune ai filoni teorici della prima metà del ‘900 è la logica universalista che li caratterizza: esiste un modello di
organizzazione, valido in assoluto, applicabile in qualsiasi situazione e per la combinazione di qualsiasi variabile tecnica e sociale;
questi studi sono anche etichettati, infatti come teorie della One best way, un unico ed universalistico modo per raggiungere i fini
dell’organizzazione.
controllo; 3) applicazione delle tariffe differenziali di cottimo come incentivo6; 4) direzione a

struttura funzionale, con responsabilità ripartite tra 8 capi in modo che ognuno abbia il minor

numero di funzioni da espletare. Nell’impresa di massa fordista, caratterizzata dalla

sopravvalutazione della ricerca dell’efficienza ad ogni costo, i membri dell’organizzazione si

configurano come le parti di questo modello meccanico, che riduce l’uomo a ingranaggio

dell’orologio organizzativo, subordinato alla macchina, concepito come elemento fungibile,

addestrato all’ esecuzione di job description, che ne disciplinano il lavoro rendendolo uniforme e

impersonale, un mero meccanismo, separato dagli altri: e se da questa concezione razionale

dell’organizzazione deve essere eliminato ogni elemento irrazionale ed emotivo, è ovvio che lo

stato d’animo o l’atteggiamento verso il lavoro non possano essere presi in considerazione. Ogni

dèfaillance nervosa viene concepita come uno stato di esaurimento da attribuire ad una utilizzazione

poco razionale della macchina umana.7 Il taylorismo trovò presto una diffusa applicazione in USA

e in Europa, ma anche grandi critiche e ostilità, se non violente reazioni che hanno sottolineato gli

effetti negativi della specializzazione, della standardizzazione e del cottimo sulla salute psico-fisica

del lavoratore, fenomeni di auto-estraneazione e di sfruttamento delle forze fisiche derivanti dalla

esasperata separazione delle attività esecutive da quelle decisionali, difficoltà di coordinamento tra i

diversi capi previsti dalla struttura funzionale. La scuola delle Relazioni umane segna il passaggio

ad una nuova visione dell’organizzazione: la visione “naturale” , che può considerarsi un

ampliamento del modello “razionale”. La novità apportata da questo nuovo approccio consiste

nell’importanza assunta dalla componente sociale all’interno dell’organizzazione. Le posizioni,

progettate e controllate “formalmente” nella prospettiva razionale, sono occupate da persone, con

interessi, bisogni e obiettivi che possono non coincidere con le finalità organizzative razionali. Le

posizioni sono infatti legate da sistemi relazionali, relative all’interazione tra i membri. Le persone

possono essere legate da relazioni di amicizia o inimicizia, simpatia o antipatia, rispetto e così via

che si formano sul posto di lavoro. Accanto ai sistemi di autorità formalmente pianificati agiscono
6
Cottimo: retribuzione in funzione della resa
7
Auteri E. Management delle risorse umane, V ed. Guerini, Milano 2009, pag 310, 311
sistemi di autorità basati sul carisma del leader o sulla stima; sono importanti gli stili di leadership,

l’affetto, la socialità dei membri, il potere, l’intuito, eventuali relazioni di parentela, o altri legami

esterni alla progettazione dell’organizzazione del lavoro. Con il modello “naturale” quindi, la

razionalità tecnica, con la quale si raggiunge il fine organizzativo, va arricchita sotto il profilo

“sociale”: assume importanza il comportamento dei membri dell’organizzazione e la loro

interazione. “La logica dei sentimenti” sconvolge la “logica dell’efficienza”, della regolarità e della

formalizzazione, centrali nel modello razionale. Mary Parker Follett (1868-1933), è considerata

pioniera dell’approccio delle relazioni umane, in quanto per prima ha considerato le persone come

risorse aziendali. Si colloca in una fase di passaggio tra la scuola classica, alla quale è legata per

l’attenzione dimostrata alla efficiente utilizzazione della componente umana nelle organizzazioni,

ed una fase successiva, caratterizzata da un processo di complessificazione del contesto aziendale.

Follett pone l’accento su alcune tematiche di grande attualità come il potere, inteso come capacità di

far accadere le cose, l’autorità della funzione aziendale che di per sé ha autorità (visione militare in

cui il potere coincide con il grado), il conflitto, concepito in chiave moderna, come condizione

esistenziale dell’essere umano. Peter Druker (1909-2005) segnala nel suo libro The practice of

management, del 1954, la discontinuità del taylorismo e la conseguente necessità di ripensare

all’applicabilità delle sue tecniche per la maturazione della società industriale e l’avvento della

società dei servizi. Egli, pur se inserito nelle teorie classiche, riflette un orientamento strategico

direzionale di pianificazione a fronte di una riduzione della specializzazione del lavoro, di stampo

taylorista, in funzione di una maggiore attenzione al contesto. Nell’ambito delle scuola delle

relazioni umane si afferma la corrente interazionista. Con il procedere dello sviluppo industriale,

che caratterizzò la prima metà del XX secolo, si verificarono profondi cambiamenti nelle condizioni

socio-economiche che avevano favorito la diffusione dello Scientific Management: espansione delle

dimensioni aziendali, con conseguente più complessa gestione delle risorse umane; crescente

sindacalizzazione delle masse lavoratrici; graduale deterioramento della situazione del personale

(alto assenteismo e bassa produttività), nonostante le migliorate condizioni retributive. Le grandi


imprese cominciano a cercare nuove soluzioni per migliorare il rendimento della forza lavoro. In

questa fase si pone l’accento sulla questione delle relazioni umane, terreno già esplorato dai teorici

classici che già parlavano di conflitto (Follett). Il cottimo funziona, nel breve termine, ma è

dispendioso, pertanto comincia ad essere progressivamente sostituito da forme di valorizzazione del

rendimento delle risorse. A partire dal 1927 la Western Electric avvia un vasto programma di

ricerche sulla produttività, attraverso la sperimentazione e con il coinvolgimento delle operaie dello

stabilimento di Hawthorne: vennero variate paghe, pause, ferie, orari e la produttività aumentò;

riportando le variabili ai valori precedenti la produttività continuò ad aumentare. Elton Mayo (1880-

1949), docente di ricerche industriali all’università di Harward, subentrato alla direzione del

programma di ricerche, attribuì questo fenomeno alla libera e spontanea collaborazione del gruppo

di lavoro sperimentale, alla partecipazione alle decisioni sulle condizioni dell’esperimento e

all’allentamento della supervisione gerarchica. Grazie ai programmi di ricerca sviluppati nei periodi

successivi, si costituì un’ampia base sperimentale che consentì a Mayo di affinare le sue

conclusioni: la produttività del personale e dell’organizzazione dipende, oltre che dalle condizioni

fisiche delle persone e dell’ambiente di lavoro, anche dalle condizioni dell’ambiente sociale

esistente e dalla cooperazione spontanea che vi si sviluppa; gli incentivi di tipo non economico sono

della massima importanza ai fini della produttività; l’elevato livello di specializzazione non è la più

efficiente forma di attribuzione dei compiti; infine il personale non manifesta solo atteggiamenti

individuali, ma anche atteggiamenti di gruppo: il piccolo gruppo spontaneo, che costituisce

l’organizzazione informale, soddisfa il bisogno di appartenenza ed ha un’azione positiva sul morale

e sulla produttività. Limite della scuola delle relazioni umane, le cui idee si diffusero rapidamente

negli Stati Uniti e in Europa, consiste nel fermarsi alla gestione delle relazioni con il personale,

senza mai incidere sul contenuto del lavoro. L’attenzione della sociologia organizzativa si è poi

soffermata sullo studio del comportamento del gruppo nelle organizzazioni. A tale proposito un

importante contributo è fornito da Kurt Lewin (1890-1947) i cui studi sul comportamento dei

piccoli gruppi hanno prodotto risultati in diversi campi ed in particolare negli studi
sull’organizzazione, conducendo allo sviluppo di tecniche di addestramento del tipo T-group,

strumentazione didattica largamente utilizzata dalle grandi organizzazioni per migliorare lo stile di

leadership e le capacità sociali. Gli studi e i contributi della scuola lewiniana sull’ atmosfera di

gruppo e sull’efficacia della leadership democratica hanno contribuito alla diffusione di varie forme

di partecipazione nelle imprese e nelle amministrazioni. In contrapposizione alla scuola di Mayo,

che si limita all’analisi delle relazioni senza entrare nel merito dei contenuti del lavoro, e prendendo

spunto dagli sviluppi delle teorie motivazionali a cui erano legati i contributi della scuola di Lewin,

il filone delle risorse umane tenta un approccio innovativo: cambiare l’organizzazione per creare le

condizioni che portino al soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori. L’uomo rimane al centro

dell’analisi, ma il campo di indagine viene esteso ai contenuti dei compiti, alla configurazione delle

strutture organizzative e agli stili di direzione. È intuibile che una differente visione del fattore

umano implica una differente attuazione della funzione di conduzione, cioè un diverso stile di

direzione. Sotto questo aspetto si passa infatti da una direzione tradizionale di tipo autocratico,

fondata sul principio dell’autorità, ad una direzione partecipativa, basata sul consenso, la prima

attuata mediante la gerarchia del comando, la seconda mediante la creazione della motivazione. In

altri termini, lo stile partecipativo si basa sul controllo legato alla motivazione, quindi

sull’autocontrollo; quello autoritario invece, si impernia sul controllo esterno e supervisorio8. Per

ottenere il più elevato rendimento del fattore umano, appare dunque necessario risolvere il problema

dell’integrazione tra gli obiettivi individuali e quelli aziendali: allorquando si realizzerà questo

processo di fusione non si avrà più un “problema” di conduzione degli uomini, i quali saranno

naturalmente motivati a fornire il loro migliore contributo. Il principio dell’identificazione con

l’organizzazione è allora alla base della motivazione delle risorse umane che lavorano nell’impresa.

Il problema motivazionale può essere utilmente scomposto in due parti: nella motivazione a

partecipare, che induce l’individuo ad accettare l’inserimento nell’organizzazione, e nella

motivazione a produrre, che spinge ad assicurare la produttività richiesta dall’organizzazione stessa.


8
Sciarelli S. Elementi di economia e gestione delle imprese, Ed. CEDAM, Padova 2008
I due tipi di motivazione rispondono, ovviamente, a stimoli diversi e richiedono, di conseguenza,

l’adozione di differenti politiche, tecniche ed incentivi. I problemi della motivazione presentano

aspetti soprattutto psico-sociologici perché riguardano l’indirizzo del comportamento organizzativo

sia sotto il profilo individuale sia sotto quello dei gruppi che si formano all’interno della struttura. È

pertanto necessario tornare all’excursus storico intrapreso al fine di fare riferimento ad alcuni

principi propri di queste discipline. Mi sembra pertanto utile citare una teoria che assume un ruolo

centrale nella comprensione delle teorie motivazionali: la teoria della gerarchia dei bisogni umani,

elaborata dallo psicologo Abraham Maslow. Secondo questa teoria l’individuo tenderebbe alla

soddisfazione di una serie di bisogni, che si ordinano lungo una scala crescente d’importanza. Si

tratta di una gerarchia di motivazioni che orientano il comportamento dell’individuo, che si muove

da quelle più basse (originate da bisogni primari-fisiologici) a quelle più alte (volte alla piena

realizzazione del proprio potenziale umano – autorealizzazione). Secondo Maslow bisogni e

motivazioni hanno lo stesso significato e si strutturano in gradi, connessi in una gerarchia di

prepotenza relativa; il passaggio ad uno stadio superiore può avvenire solo dopo la soddisfazione

dei bisogni di grado inferiore: base di partenza per lo studio dell’individuo è la considerazione di

esso come globalità di bisogni. Maslow sostiene che saper riconoscere i bisogni dell’individuo

favorisce un’assistenza centrata sulla persona. Ogni uomo è unico e irripetibile, invece, i bisogni

sono comuni a tutti, si condividono, si accomunano e fanno vivere meglio se vengono soddisfatti.

Maslow suddivide infine i bisogni in “fondamentali” e “superiori” ritenendo questi ultimi quelli

psicologici e spirituali. Di fatto però la non soddisfazione dei bisogni fondamentali, definiti anche

elementari, porta alla non soddisfazione di quelli superiori. Al fine di stimolare la motivazione, ai

primi gradini contano di più gli incentivi economici, mentre a quelli successivi assumono una

maggiore importanza gli stimoli psicologici ovvero le gratificazioni morali. La scala di Maslow

fornisce uno schema prezioso di riferimento per orientare le soluzioni del problema di motivazione.

Non sempre, infatti, si può indurre a lavorare pagando di più o stabilendo dei premi di produttività,

perché la retribuzione rappresenta uno degli elementi del rapporto di lavoro e, anche se importante,
non in tutti i casi è sufficiente a far migliorare il rendimento. È dunque necessario che chi dirige

sappia come orientare il rapporto con i subordinati e a quali leve fare ricorso per ottenere la

motivazione a produrre. Rispetto a questa teoria più generale è stato elaborato un approccio teorico

relativo non all’individuo in senso ampio, ma all’individuo che lavora nell’impresa. Frederick

Herzberg, psicologo americano, riprende un po’ l’approccio di Maslow, concentrandosi

prevalentemente sulle motivazioni dell’agire umano che, secondo l’autore, affondano le loro radici

nei cosiddetti bisogni superiori dell’uomo, intesi come qualcosa che opera per dirigere il

comportamento. Herzberg si concentra soprattutto sui processi che derivano dalla soddisfazione di

questi bisogni e trae la conclusione che esistono due tipi di fattori correlati alla soddisfazione sul

lavoro: bisogni correlati strettamente all’attività che una persona svolge, chiamati “fattori igienici”

e bisogni che ruotano attorno alla crescita e allo sviluppo personale, i “fattori motivazionali”.

Secondo Herzberg le due tipologie di fattori possono influenzare la motivazione in maniera diversa.

Egli distingue tra soddisfazione e non soddisfazione per il lavoro che, nella sua teoria, non sono

antitetici: l’opposto di soddisfatto è insoddisfatto, allo stesso modo l’opposto di non soddisfatto e

non insoddisfatto. Secondo Herzberg: i “fattori di igiene” sono efficaci nell’estinguere la non

soddisfazione al lavoro, comunque però essi non possono essere fonte di soddisfazione (condizioni

di lavoro, qualità del controllo, stipendio, condizione, sicurezza, lavoro, politiche e gestione

dell’azienda, rapporti interpersonali). I “fattori motivazionali” motivano la prestazione al lavoro e

possono portare soddisfazione, ma la loro assenza causa addirittura insoddisfazione (successo,

riconoscimento per il successo, responsabilità lavorativa, lavoro interessante, avanzamento a ruoli

di livello più alto, crescita). Conseguentemente esistono due tipi di popolazione: i “ricercatori di

soddisfazione”, i quali perseguono non solo il benessere economico, la sicurezza e il conforto

dell’ambiente, ma soprattutto realizzazione, riconoscimento e continua crescita psicologica; i

“ricercatori di igiene”, che si preoccupano invece solo della remunerazione, delle condizioni

ambientali in cui lavorano e della sicurezza, non percependo come necessari altri presupposti.

Herzberg quindi prende in considerazione le percezioni e le valutazioni individuali: dai suoi studi
emerge ancora una volta la necessità di andare incontro alle esigenze del lavoratore. Nell’ambito del

filone delle risorse umane, un contributo che, a mio avviso, risulta determinante per completare il

quadro teorico entro il quale si configura il cambiamento radicale del concetto di “uomo” nella

concezione organizzativa, è quello di Argyris, psicologo americano che ha dedicato gran parte dei

suoi studi all’apprendimento organizzativo. Rispetto a Maslow, Argyris mette in maggior evidenza

il contrasto tra le esigenze dell’individuo e quelle delle organizzazioni classiche. Per Argyris la

maturità non è una condizione solitaria e asociale, ma di reciproca interazione. Anche

l’organizzazione, dunque, deve essere strutturata in modo da favorire queste esigenze individuali e,

se organizzata secondo i principi tayloristici, è in aperto contrasto con quelle che Argyris considera

le esigenze di crescita e di maturazione dei soggetti. L’organizzazione classica non ricerca uomini

maturi, creativi, partecipativi, indipendenti e aperti alla collaborazione, ricerca invece uomini

conformisti, poco inclini al cambiamento, disciplinati ma schivi ad assumersi responsabilità

superiori al necessario, bisognosi dell’auotorità per sentirsi guidati e trainati: insomma

l’organizzazione tayloristica cerca degli uomini rimasti psicologicamente bambini. Questo contrasto

tra le esigenze di maturazione dell’individuo e le necessità organizzative dell’impianto tradizionale

hanno causato, secondo Argyris, una serie di conseguenze che vanno dal senso di frustrazione e di

fallimento nel lavoratore a stati di rivalità e di propensione al conflitto. Argyris sostiene che questo

stato di cose può essere cambiato solo a partire da un processo di ristrutturazione che consiste nella

creazione di gruppi informali, di forme di leadership non autoritaria, nella promozione di forme di

apprendimento non più solo individuali, ma anche e soprattutto organizzative. Egli intende

l’azienda come una struttura dove i soggetti non svolgono solo le azioni inerenti alla propria

mansione, ma sono anche agenti di cambiamento. Questo approccio teorico affonda su un terreno

fertile. Intorno agli anni ’70 si diffonde e si applica in numerosi ambiti disciplinari, compreso quello

degli studi sull’organizzazione, la teoria dei sistemi aperti. Al centro del modello vi è la forte

relazione di dipendenza della struttura oggetto di analisi, con l’ambiente esterno. La struttura non

può sopravvivere fisiologicamente in assenza di relazioni con l’esterno. La struttura di un sistema


importa energia (input) dall’ambiente esterno, adotta dei processi di trasformazione dell’energia

(troughput) e libera i suoi risultati nell’ambiente esterno (output). L’elemento fondamentale che

distingue un sistema aperto da un sistema chiuso lo si trova nel concetto di entropia9. I sistemi

chiusi sono caratterizzati, infatti, dalla dispersione di energia: il processo entropico porta il sistema

chiuso alla dissoluzione; il sistema aperto, invece, grazie all’interscambio di energia con l’ambiente,

riesce a sopravvivere. Essenziale ai fini del funzionamento della struttura è, quindi, il processo di

riattivazione energetica del sistema: gli output devono costituire la fonte per l’acquisizione di nuovi

input. Le organizzazioni, in un’ottica di sistema aperto, sono tanto più efficienti quanto migliori

sono i processi di mantenimento dell’equilibrio nel sistema e i processi che permettono al sistema di

evolvere e cambiare10. Secondo Argyris anche l’organizzazione in quanto sistema aperto, al pari di

un organismo vivente, è capace di apprendere, e, attraverso l’apprendimento, si evolve. La

considerazione dell’autore dell’organizzazione come sistema aperto, si contrappone alla concezione

razionale, deterministica, propria del modello meccanicistico di stampo taylorista. L’organizzazione

diventa essa stessa un’entità caratterizzata da un percorso evolutivo, che si muove dalla nascita e

che, a differenza di un organismo vivente, può perdurare nel tempo e portare ad una crescita

costante, in funzione della capacità di feedback continui con l’ambiente esterno e delle relazioni con

i soggetti che in essa lavorano. Argyris ha sempre messo in discussione i principi del taylorismo, in

particolar modo il “noleggio della manodopera” piuttosto che l’individuo nella sua totalità.

L’organizzazione classica, nonostante incoraggiasse i workers mediante incentivi che, come

abbiamo visto, non hanno portato a risultati positivi nel lungo periodo, concepiva il fattore umano

come mera componente fungibile della macchina organizzativa. Nell’organizzazione moderna il

fattore umano è visto come qualcosa di vivo che sfugge al controllo perché mosso da dinamiche

9
L’entropia è una grandezza termodinamica che consente di traslare in un modello matematico le conseguenza del secondo principio
della termodinamica, secondo il quale, è impossibile trasformare integralmente calore in lavoro meccanico (lo studio dell’entropia
nacque dall’osservazione del funzionamento delle macchine a vapore. È un concetto direttamente collegato al “disordine” di un
sistema (la disposizione casuale delle particelle che lo compongono): un sistema chiuso avrà uno stato di entropia massima non
superabile, pena la dissoluzione del sistema.
10
P.de Vita, R. Mercurio, F.Testa (a cura di) organizzazione aziendale: assetto e meccanismi di relazione, Ed. Giappichelli , Torino
2007
caratteriali complesse e non totalmente controllabili, tale verità spaventa se si rimane ancorati ad

una visione tayloristica caratterizzata dal controllo assoluto delle variabili interne e dalla

subordinazione dell’uomo all’organizzazione, rappresenta invece una risorsa, se si sfrutta la

capacità, ora propria dell’organizzazione intesa come organismo vivente, di adattarsi al

cambiamento, di apprendere ed evolversi nell’ambito di un contesto in continuo divenire.

L’impresa in questa nuova visione, non è più vista come una monade, ma come parte di un tutto più

ampio e complesso con il quale interagisce. In questo nuovo modo di concepire l’organizzazione

trova piena collocazione la considerazione dell’uomo quale risorsa dinamica. Argyris, con il proprio

contributo, ha il merito di portare il fenomeno del cambiamento da uno scenario esterno (fonte di

timore) ad uno scenario interno, riconoscendo il fenomeno in rapporto ai soggetti dinamici che

popolano l’organizzazione, e facendo del cambiamento organizzativo un fattore positivo, fonte di

vantaggio competitivo dell’impresa moderna. Il cambiamento, da fenomeno anomalo, da redimere e

controllare, diviene molla propulsiva all’orientamento verso il futuro. Le modifiche interne che si

verificano in risposta al cambiamento dell’ambiente esterno sono viste da Argyris come esigenza

fisiologica di adattamento dell’organizzazione, fondamentale ai fini della sopravvivenza e della

prosperità. Intorno agli anni ’50 si assiste alla diffusione della psicologia organizzativa la quale

riflette l’esigenza di supportare la gestione delle dinamiche psicologiche dei soggetti all’interno

dell’organizzazione, fenomeno che sgancia la psicologia dal ristretto ambito clinico-individuale. Pur

trattandosi di approcci orientati al supporto della funzione direttiva, la conseguenza da essi

apportata consiste nella diffusione dell’idea che migliorando le condizioni di sfruttamento del

potenziale umano, migliorano, di conseguenza, i risultati aziendali, in termini di efficacia ed

efficienza. Il supporto della psicologia organizzativa favorisce l’orientamento, lo sviluppo e la

valorizzazione di quella “energia psicologica” individuata da Argyris che fornisce la motivazione

necessaria a perseguire le finalità ultime dell’organizzazione. La sfida, egli afferma, non è trovare

modi artificiali per motivare le persone, ma riconoscere e incanalare questa energia. Ciò che emerge

con chiarezza è una modalità di guardare ai membri che popolano l’organizzazione e all’ambiente
circostante nell’ottica della complessità e del cambiamento.

Complessità del contesto esterno alle imprese, in cui la competizione globale e la necessità sottesa

di essere presenti nei vari mercati del globo ha stimolato la tendenza ad una riarticolazione

dell’assetto produttivo ed organizzativo delle imprese, sulla base della riduzione delle dimensioni

dei colossi imprenditoriali che si fanno sempre più snelli e flessibili, al fine di rispondere in

maniera tempestiva alle esigenze di un mercato sempre più dinamico e competitivo. Si passa da

organizzazioni di tipo piramidale, caratterizzate da numerosi livelli gerarchici e direzione top-down,

a strutture di tipo piatto, caratterizzate dalla riduzione del numero di livelli gerarchici in favore di

una maggiore rapidità del processo decisionale. Si afferma così l’impresa a rete, caratterizzata da

nuclei autonomi fra loro ma con strategie e obiettivi comuni. Secondo Giolitelli le organizzazioni a

rete possono formarsi seguendo due percorsi: 1) bottom-up: coincide con l’ipotesi di formazione di

reti spinta dal basso e si verifica quando nel mercato si istaurano relazioni che portano alla

formazione di imprese a rete, in questo caso vi è la presenza di organi di governo atipici di durata

circoscritta che si affermano in funzione della leadership tecnologica espressa; 2) Top-down:

procedimento che proviene dall’alto del vertice strategico dell’impresa e che comporta la presenza

di una forma di governo duraturo che definisce gli standard tecnici che devono essere rispettati dalle

altre imprese della rete. Le parti che compongono la rete sono capaci di autoregolarsi e collaborare

con le altre unità della struttura, queste ultime definite nodi o sistemi legati fra di loro da

connessioni rese possibili da un efficace sistema di comunicazione che svolge un ruolo centrale in

quanto consente tale connessione, determinando l’integrazione delle diverse componenti della rete

rispetto ad una strategia complessiva11.

La riarticolazione a rete delle macroimprese coincide pertanto con la scomparsa tendenziale del

modello tayloristico e rappresenta un fenomeno la cui crescita è da porre in relazione alle

condizioni di sempre maggiore instabilità delle economie dei paesi industrializzati caratterizzate

dall’abbreviarsi del ciclo economico. La stabilità del mercato è un ricordo del passato, compiti
11
Della Volpe M. Conoscenza Comunicazione Impresa, Ed. Carocci, Roma 2008
individuali e lavoro delle aziende cambiano oggi, più velocemente di quanto possano essere

riprogettati. Parola d’ordine dell’impresa di oggi e la reingegnerizzazione dei processi, un’attività

tesa a ripensare e riprogettare l’intero sistema d’impresa per quel che riguarda i processi di lavoro

(con la creazione di team interfunzionali), strutture organizzative, sistemi di controllo direzionale di

misura dei risultati (controllo inteso come strumento di supporto utile a verificare l’efficacia

dell’approccio impiegato e migliorarlo), valori e cultura d’azienda (in grado di dare orientamento e

coesione al comportamento del personale nell’adempimento dei compiti). Reingegnerizzare i

processi significa passare da una suddivisione del lavoro basata su passi separati, da svolgere in

sequenza, ad una visione unitaria del lavoro e dell’azienda che comporta una diversa organizzazione

interna, una diversa attribuzione delle responsabilità e, soprattutto, il totale coinvolgimento delle

persone che rispondono all’esterno dell’azienda, la cui missione di interfaccia dell’impresa nei

confronti dei clienti diventa un punto critico per l’affermazione dell’azienda sul mercato. Obiettivo

finale della reingegnerizzazione è il raggiungimento di obiettivi molto marcati nei parametri critici

che identificano le prestazioni dell’azienda: costi, qualità, livello di servizio, tempi di risposta verso

l’esterno (TTM = time to market). La gestione della complessità pertanto diventa la sfida delle

imprese che competono in un contesto caratterizzato da variabili quali turbolenza, incertezza e

instabilità, in cui la rapidità con la quale il mercato muta fa si che nulla resti uguale a lungo: il

cambiamento diventa una condizione di operatività costante e imprescindibile nella vita

dell’imprese, le quali assumono la forma di adaptive enterprise, ossia imprese adattive, che come

una nave affrontano la tempesta cambiando rotta in base ai venti e alle correnti, trasformando

continuamente la propria forma e contenuto, acquisendo pezzi e perdendone altri (acquisizioni ed

esternalizzazioni), continuando a navigare12. La gestione del cambiamento comporta, quindi, una

revisione totale del modo di fare impresa e della stessa cultura manageriale, che abbandona il

paradigma fordista, proprio della struttura verticale chiusa, orientandosi sulla valorizzazione della

dimensione orizzontale del lavoro, relazionale e interfunzionale. Questo nuovo modo di fare
12
Perillo F. L’insostenibile leggerezza del management, Guerini, Milano 2010
impresa parte da un rovesciamento completo del rapporto tra individuo e impresa, la quale

considera quest’ultimo non più clone, fungibile ma soggetto poliedrico, unico e irripetibile, risorsa

portatrice di competenze, conoscenze e differenze il cui sostegno, sviluppo e potenziamento, in

conformità con gli obiettivi dell’impresa, rappresentano la vera sorgente di valore e di successo

dell’impresa stessa. Scopo dell’impresa è creare valore, risultante non solo dai meri risultati

economici ma, soprattutto, dalla valorizzazione del capitale intangibile, il quale coincide con il

complesso di competenze, tecniche e trasversali e il potenziale, delle risorse umane. Il valore è la

finalità ultima di ogni scelta strategica la quale deve condurre al conseguimento di un vantaggio

competitivo stabile e duraturo, perché basato su competenze distintive dell’impresa le quali: 1)

producono performance di valore per il cliente in termini di benefici percepiti; 2) consentono

accesso potenziale ad un elevato numero di mercati; 3) sono difficilmente riproducibili e imitabili

da parte della concorrenza in quanto derivanti dallo sviluppo cooperativo autopoietico. Alla base

della produzione di valore vi è lo sviluppo delle competenze, laddove si intende per competenza la

capacità delle persone di sfruttare le risorse proprie (conoscenze: sapere tecnico specifico richiesto

dalla professione; capacità: abilità professionali connesse allo svolgimento del lavoro; qualità: doti

personali necessarie sia all’implementazione delle conoscenze che per l’orientamento delle

capacità), risorse dell’organizzazione e dell’ambiente, dando luogo a comportamenti che

consentono di affrontare la varietà e la complessità delle situazioni di lavoro. Le competenze sono

quindi elemento portante del sistema di gestione e il loro riconoscimento e valorizzazione porta allo

sviluppo delle competenze distintive dell’impresa che, come è stato precedentemente sottolineato,

costituisce la principale fonte di valore. Il processo strategico di gestione delle competenze prevede

diverse fasi: 1) la definizione delle competenze distintive richieste dal business, necessarie per

differenziarsi nel mercato; 2) la rilevazione delle competenze attuali possedute dall’organizzazione,

traducendo le competenze in comportamenti osservabili che consentono di misurare il livello di

competenze presenti mediante la realizzazione di una mappa delle competenze; 3) gestione delle

competenze in termini di diagnosi (atta ad effettuare un censimento delle competenze possedute) e


sviluppo (che consiste nell’attuazione di piani di azione allo scopo di colmare i gap di competenze

rilevati); 4) patrimonializzazione delle competenze, allo scopo di ampliarne le opportunità di

applicazione mediante una loro diffusione e condivisione con il gruppo. Da patrimonio personale

esse si trasformano così in patrimonio collettivo, capitale esperienziale, accessibile, che contribuisce

a determinare le best practies, ossia il miglior modo codificato di fare le cose. Il nuovo umanesimo

aziendale, fondato sulla centralità dell’individuo e sulla valorizzazione delle potenzialità e delle

competenze, al fine di garantire il miglioramento dei risultati e il successo dell’impresa, attesta il

verificarsi del passaggio dall’impresa Labour intensive, di stampo taylorista, all’impresa knowledge

intensive, nella quale le risorse immateriali, in particolare la conoscenza, assumono un peso

crescente ai fini dell’acquisizione e del mantenimento di una posizione di vantaggio competitivo. A

tale proposito, la diffusione di strumenti informatici e di nuove tecnologie, in primis le tecnologie

web-based, ha contribuito a porre sempre più in risalto il contributo che i sistemi informativi

possono fornire ai processi di gestione della conoscenza organizzativa o di Knowledge

Management. Secondo Sciarelli, il Knowledge Management può essere definito come un approccio

strategico che identifica nel capitale intellettuale la risorsa da gestire al fine di

accrescere/migliorare le capacità di azione di una persona e dell’intera organizzazione aziendale.

Il problema che le imprese si trovano a gestire è quello di far circolare/condividere la conoscenza

che viene a crearsi al proprio interno, evitando di relegarla a semplice abilità personale. In altre

parole, se è vero che le organizzazioni possono apprendere (e quindi arricchire/modificare la propria

base di conoscenze) nei limiti in cui gli individui che ne fanno parte sono in grado di apprendere a

loro volta, il problema che l’impresa si trova a gestire è quello di rendere la conoscenza accessibile

a persone diverse dai suoi creatori distribuendola, in funzione delle specifiche necessità, a individui

e gruppi impegnati nei loro compiti specifici. La sfida a cui le imprese sono chiamate, anche con il

supporto dei nuovi sistemi informatici, è dunque riuscire a capitalizzare la conoscenza presente al

loro interno per migliorare la gestione dei processi aziendali, a partire dalle conoscenze tacite
accumulate dalle persone che operano nell’organizzazione13. L’apprendimento deriva infatti da due

forme diverse, ma strettamente interrelate, di conoscenza: quella esplicita e quella tacita. La prima

può essere codificata, espressa in modo formale in documenti, archivi, database manuali; la

seconda è quella che risiede nella mente degli individui e deriva dalla loro esperienza personale,

dalle loro intuizioni. Il problema più grande che, sotto questo profilo, le imprese si trovano a gestire,

è accedere a tali conoscenze, fondamentali per la creazione di competenze distintive, difficilmente

imitabili, e riuscire a farle emergere, sintetizzarle, confrontarle con quelle esplicite così da arricchire

il patrimonio cognitivo dell’organizzazione. In tal modo si può riuscire ad attivare un processo

virtuoso, incrementale e continuo, grazie al quale le conoscenze esistenti vengono raccolte,

divenendo la piattaforma di base che alimenta il processo di ulteriore arricchimento del sapere

aziendale. Sotto questo profilo i sistemi informativi moderni sono chiamati non solo ad ottimizzare i

flussi informativi interni, facendoli convergere verso un punto che riassume le funzioni decisionali,

ma a mobilitare l’intelligenza di tutti, a prescindere dalla loro collocazione gerarchica, in modo da

attivare processi di apprendimento reciproco e, dunque, di co-generazione della conoscenza.. Il

Knowledge management da un lato mira a individuare, catturare, recuperare, condividere e

capitalizzare il capitale conoscitivo dell’impresa, dall’altro sostiene l’attività di apprendimento nelle

imprese, valutando costantemente lo stato dell’arte, ponendo obiettivi di miglioramento e creando le

condizioni indispensabili per attuarli attraverso interventi e l’uso di strumenti appropriati e coerenti,

raggruppabili in 1) interventi sulla cultura aziendale: sviluppo e formazione, leadership appropriate,

empowerment etc.; 2) interventi sull’organizzazione: ridisegno dei processi aziendali (nuove e più

integrate modalità di lavoro), alleanze, acquisizioni; 3) sviluppo e utilizzo delle tecnologie

dell’informazione: sistemi informativi, telematica, intranet etc14. L’adozione di un approccio al

Knowledge Management impone dunque più di una sfida manageriale all’impresa, rendendo

indispensabili il riallineamento dell’organizzazione, dei sistemi di formazione come incentivazione

13
Sciarelli S. Elementi di economia e gestione delle imprese, CEDAN, Padova 2008

14
Auteri E. Management delle risorse umane Guerini, Milano 2009
del personale, i quali devono essere finalizzati a “premiare” il contributo che il singolo fornisce alla

conoscenza organizzativa e, soprattutto, l’esplicitazione di una chiara visione strategica, in

mancanza della quale l’organizzazione corre il rischio di perdersi in una grande massa di

informazioni prive di qualunque significato. (Sciarelli, 2008). Aspetto fondamentale che

caratterizza l’impresa della conoscenza, è dunque la formazione, la quale, come leva specifica per

l’apprendimento, interviene per arricchire, sistematizzare e diffondere le competenze, che si

sviluppano nei singoli e più in generale nell’organizzazione. La formazione rappresenta un punto di

incontro tra le potenzialità e i bisogni dell’individuo e le potenzialità e i bisogni

dell’organizzazione, fra il sapere individuale e il sapere organizzativo. Se un tempo era possibile

tenere separati il momento dell’apprendimento da quello del lavoro, oggi questo non è più possibile,

i tempi dell’apprendere e del lavorare convergono e in parte si devono sovrapporre. Il tempo per

apprendere, inoltre, deve servire soprattutto ad apprendere ad apprendere: attraverso la formazione

le persone devono fare leva sulla propria flessibilità intellettuale e acquisire motivazioni e capacità

di guidare anche autonomamente il processo ininterrotto di aggiornamento e acquisizione del sapere

professionale (self-directed learning). “D’altra parte la necessità di votarsi ad un aggiornamento

continuo è divenuta vitale per la sopravvivenza stessa dell’individuo come dell’organizzazione cui

appartiene. Non c’è più l’azienda che possa fornire tutta la formazione (tecnica e comportamentale)

di cui essi potenzialmente necessitano: nell’ adaptive enterprise il piano di formazione diventa una

responsabilità personale, oltrepassa la formazione aziendale. Questa può solo creare le condizioni

perché questo processo avvenga: curarne l’allineamento con gli obiettivi dell’organizzazione,

spingere il management a motivare gli individui e gli individui a metterci del proprio per tenersi

allo stato dell’arte”15 Il fine della formazione nella learning organization, la quale si oppone

all’uni-formazione fordista basata sull’addestramento, è, infatti connesso alla maieutica socratica

del “tirar fuori la forma” mediante un processo esperienziale, con lo scopo di far emergere le

conoscenze tacite degli individui e renderle esplicite e condivisibili attraverso processi non invasivi
15
Perillo F. L’insostenibile leggerezza del management, Guerini, Milano 2010
di facilitazione. Questa nuova forma di learning non è più esercitata come training dall’alto verso il

basso, ma procede per connessioni interpersonali in cui ciascun punto della rete (ogni singolo

individuo), è un centro del network, corrispondente ad un processo di estrazione e contagio del

bagaglio di competenze di cui ciascuno è portatore, la cui condivisione e lo strutturarsi a sistema

rappresenta il fine ultimo del nuovo concetto di formazione. Gli studi più recenti sono orientati

all'analisi dei fattori che influenzano i modi in cui le persone apprendono, l'efficacia

dell'apprendimento individuale, la verifica dei bisogni di formazione. Essi sottolineano

l'importanza dell'allineamento fra gli obiettivi formativi dei singoli individui e la strategia di

business dell'azienda. La comprensione dell’importanza strategica della valorizzazione delle risorse

umane avviene in un momento in cui i continui cambiamenti obbligano a forme di apprendimento

continuo, tanto che il concetto di knowledge management nello sviluppo delle risorse umane è

diventato fondamentale a livello strategico e operativo16. In tutte le grandi organizzazioni i

responsabili delle risorse umane partecipano alle scelte strategiche dell'azienda e ne sono una parte

direttamente coinvolta. Anche se con diverse prospettive, molti autori indicano la correlazione tra

la formulazione della strategia dell’organizzazione e lo sviluppo delle risorse umane. Secondo altri,

invece, al contrario, la funzione risorse umane è ritenuta subordinata alla strategia definita a livello

aziendale. Secondo questa impostazione, una volta fissata la strategia aziendale, vengono effettuate

le scelte in tema di risorse umane. Ma, indipendentemente dal punto di vista da cui guardare le cose,

la correlazione tra strategia e gestione delle risorse umane rimane inscindibile. Certo la sua

formulazione può essere influenzata da numerosi fattori. Tra questi, l’ambiente può essere

considerata una variabile fondamentale poiché la strategia da perseguire nella gestione del personale

può essere condizionata da fattori di contesto, andamenti di mercato, innovazione tecnologica,

politiche di governo statali. C'è la necessità per le aziende di stabilire una stretta relazione tra la

strategia aziendale adottata verso l’esterno e le strategie interne in tema di risorse umane, in quanto

le politiche interne di un’organizzazione devono allinearsi con la strategia da essa perseguita e il


16
Juani Swart, Clare Mann, Steve Brown , Alan Price, Lo sviluppo delle risorse umane - Strategia e tattiche, Francoangeli 2010
proprio ambiente competitivo. Secondo questa impostazione sono due gli aspetti fondamentali di

un’integrazione: 1) collegare le politiche delle risorse umane con il processo di gestione strategica

dell’organizzazione 2) integrare la forza lavoro nell’organizzazione per incoraggiare l’impegno o

un’“identità di interesse” con gli obiettivi strategici. In questo schema, dunque, strategia e struttura

si susseguono l’un l’altro e vengono influenzati dall’ambiente circostante17. Il collegamento tra

strategia aziendale/organizzativa e le strategie in risorse umane è schematizzabile in tre differenti

modelli: a) il primo, fondato sul controllo dei dipendenti e sul comportamento adottato dai

manager per dirigere e monitorare le performance dei collaboratori. In questa prospettiva, le

strutture del management sono strumenti adoperati per controllare gli aspetti del lavoro e per

garantire un alto livello di produttività e di margini di profitto; b) il secondo, fondato sulla

valorizzazione delle risorse: esso è radicato sullo scambio sforzi-ricompense e, più

specificatamente, riferito al grado con il quale i manager guardano alle risorse umane come un

asset e non come una variabile di costo. La somma della conoscenza e l’esperienza delle persone, e

le relazioni sociali, hanno il potenziale di fornire capacità non sostituibili in modo da rappresentare

la fonte del vantaggio competitivo; c) il terzo, un modello integrativo che caratterizza la strategia

su due dimensioni principali, “acquisizione e sviluppo” e “luogo di controllo”. Il primo assunto

esprime il concetto di sviluppo del capitale umano interno, il secondo riguarda invece il grado con il

quale la strategia HR si focalizza sul monitoraggio della compliance dei dipendenti rispetto agli

standard dei processi e sullo sviluppo della fiducia reciproca. Le due dimensioni principali sulle

quali verte questo modello portano a quattro tipi ideali di strategia di gestione delle risorse umane,

che possiamo così definire: 1) commitment: si focalizza sullo sviluppo interno delle competenze dei

dipendenti e sul controllo del risultato; 2) collaborativo: coinvolge l’organizzazione subappaltando

il lavoro ad esperti indipendenti esterni e valutando le loro performance principalmente in termini di

risultati finali; 3) paternalistico: offre opportunità di apprendimento e promozione interna ai

collaboratori per la loro compliance rispetto al meccanismo di controllo basato sul processo; 4)
17
Solari L., La gestione delle risorse umane – Dalle teorie alle persone, Roma, Carocci editore, 2004
traditional: si focalizza sul recruitment esterno delle competenze e dei comportamenti e sul

controllo basato sul processo. Ogni strategia rappresenta un insieme di valori, pensieri e assunzioni

che guidano i manager sempre più consapevoli del ruolo fondamentale che assume la funzione

Risorse Umane per contribuire alla buona performance dell’azienda18. Come detto, oggi tutti

riconoscono che le politiche di selezione e gestione del personale sono fonte di vantaggio

competitivo. Sono in molti a ritenere che esse aumentino la produttività e le performance,

sviluppando competenze, promuovendo atteggiamenti positivi e attribuendo ai dipendenti

specifiche responsabilità, così da valorizzare le loro abilità. Perché ciò avvenga la gestione delle

Risorse Umane deve soddisfare diversi requisiti quali: 1) aggiungere valore ai processi operativi

dell’azienda e occuparsi dei livelli di perfomance individuali; 2) favorire la presenza di competenze

particolari e interessanti; 3) gli investimenti in capitale umano rappresentati dal personale

dell’azienda non devono poter essere copiati o imitati facilmente; 4) i progressi tecnologici o altri

investimenti in automazione non possono sostituire facilmente i collaboratori, in quanto essi sono

dotati di capacità uniche e insostituibili. Questi sono considerati prerequisiti che definiscono le

circostanze in cui il talento dei lavoratori può fare la differenza. Con la gestione delle risorse umane

bisogna: a) garantire equità di trattamento a parità di posizione; b) gestire la performance, la

successione e la progettazione organizzativa; c) offrire sicurezza ai lavoratori in materia di tutela

sanitaria, pensione di reversibilità e trattamento di fine rapporto; d) stabilire e comunicare i valori

aziendali che orientino e favoriscano la coesione dei comportamenti per il raggiungimento degli

scopi; e) creare e mantenere un buon clima sindacale; f) amministrare le retribuzioni e i benefit.

Questi sono elementi che interessano le tre aree di attività, reclutamento, motivazione/gestione e

risoluzione del rapporto di lavoro. Assumere o reclutare le persone giuste è vitale per costruire

un’organizzazione di successo, specie in una impresa di medie piccole dimensioni. Le

organizzazioni devono costruire dei profili adatti al tipo di persone che hanno o avranno successo al

18
Weizmann H. C., Weizmann J.K., Gestione delle risorse umane e valore dell’impresa, Milano, FrancoAngeli, 2010]
loro interno19. Francesco Perillo, nel testo L’insostenibile leggerezza del management, in tema di

selezione del personale, propone un’ipotesi di selezione “assoluta”, in opposizione ad una

“relativa”, centrata sulla persona piuttosto che sulla posizione, sulle competenze personali

indipendentemente da quelle organizzative richieste da una posizione o da un ruolo predefiniti.

“Nelle organizzazioni flessibili la capacità di adattamento continuo delle persone al contesto e alla

leadership personale nel saper interpretare il proprio lavoro contano di più della rispondenza ai

requisiti richiesti dall’organizzazione del lavoro. La selezione di un individuo dotato di intelligenza

del contesto (insight) e personal leadership richiede necessariamente una deroga ai principi del

management scientifico: come dice Spenser è qui richiesto uno sforzo ad adattare il lavoro alle

caratteristiche dell’individuo piuttosto che l’inverso”20. Come sottolinea Laura Borgogni, nel testo

La selezione: metodi e strumenti psicologici per scegliere le persone, le persone possiedono talenti

differenti, e in misura differente, che possono manifestarsi variamente all’interno di diversi contesti.

Così come l’uso che le persone fanno dei propri talenti dipende anche dai loro modi di essere,

motivazioni e convinzioni che essi sviluppano e spendono in relazione al tipo di contesto in cui si

vengono a trovare. La motivazione è la componente che spinge all’azione ed è radicata ma più

malleabile rispetto alla personalità. La riuscita nelle situazioni che la persona preferisce affrontare e

in cui si cimenta, invece, rappresenta il suo insieme di capacità. In conclusione, personalità,

motivazione e capacità rappresentano le risorse che la persona spende con maggiore o minore

convinzione in relazione alle sfide che il contesto propone. Per il selezionatore, quindi, è

fondamentale valutare il fit tra individuo e contesto. Ovvero su un versante più individuale,

comprendere, non solo la sfera delle competenze specifiche di cui la persona può essere più o meno

già in possesso, ma quanto è motivata a svolgere quell’attività, quanto è in sintonia con quello

specifico contesto per sviluppare un’appartenenza e collaborare ad un progetto professionale che

riguarda quella collettività, oltre al suo grado di citizenship con gli altri. Su un versante più legato al

19
Canonici A., La gestione delle risorse umane come chiave del successo aziendale, Milano, FrancoAngeli, 2004

20
Perillo F. l’insostenibile leggerezza del management, Guerini, Milano 2010
contesto, infine, è importante comprendere che tipo di valori possiede la persona, per verificare la

compatibilità con quelli promossi da quel contesto culturale. Il prodotto della selezione sarà quindi

l’anticipazione degli esiti dell’incontro tra persona e contesto lavorativo, tanto più reciprocamente

appagante sia per la persona che per l’organizzazione, quanto più efficacie è la predizione fatta dal

selezionatore21.

Per avere successo, una strategia di gestione delle risorse umane deve integrare le attività

tradizionali di gestione del personale con delle attività più avanzate. La funzione Risorse Umane è

investita di quattro importanti responsabilità manageriali: 1) gestione strategica delle risorse umane;

2) trasformazione e cambiamento; 3) ottimizzazione dell’infrastruttura aziendale; 4) analisi e

valorizzazione del contributo individuale. Perché siano efficaci, queste aree devono essere

funzionalmente integrate, e adattarsi ad una strategia di management delle risorse umane che

contribuisca al successo dell’organizzazione. L’importanza strategica di una corretta gestione delle

risorse umane si fonda, quindi, sulla convergenza tra sostegno e sviluppo individuale di ciascuna

risorsa, e lo sviluppo dell’organizzazione nel suo complesso; è questo il carattere proprio delle

imprese best in class, le quali considerano la gestione delle risorse umane come un complesso di

attività in stretto collegamento con gli obiettivi di competitività e di successo aziendale, la cui

eccellenza si traduce nel livello di qualità dei prodotti e servizi percepita dai clienti finali (customer

satisfaction), e nel grado di integrazione e collaborazione dei clienti interni all’impresa stessa in

termini di soddisfazione, clima interno, motivazione (people satisfaction). Il problema della

motivazione si pone al centro del cosiddetto “contratto psicologico” che lega il lavoratore

all’azienda22. Tale legame diviene produttivo allorché si perfeziona questo contratto psicologico,

ovvero quando si crea un buon grado di concordanza tra quello che il dipendente ritiene di dover

fare e ricevere dall’impresa e quello che corrispondentemente si aspetta l’organizzazione e, allo

21
Borgogni L., Consiglio C. (a cura di), la selezione: metodi e strumenti psicologici per scegliere le persone, FrancoAngeli, Milano
2008

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Questa espressione è stata coniata da Schein, La psicologia sociale nella società moderna.
stesso tempo, lo scambio prestazione-controprestazione si verifica conformemente al grado di

concordanza creato (Siarelli 2008). La motivazione al lavoro dei dipendenti è, in ultima analisi,

conseguenza delle nuovo modo di gestire le risorse umane, alle quali dedicare le medesime

attenzioni dapprima riservate ai clienti esterni. La fidelizzazione del cliente interno stimola in lui la

motivazione giusta per un più completo e maturo contributo professionale e personale, che risulta

profittevole per l’azienda e gratificante per lui. In conclusione, come è stato fin qui sottolineato, la

gestione delle risorse umane rappresenta il pilastro fondamentale dell’intera gestione aziendale e si

configura come una delle responsabilità più delicate per chi dirige l’impresa. Si tratta, infatti di

dotare l’organismo aziendale delle professionalità necessarie e di assicurarsi che gli individui

inseriti nell’organizzazione siano motivati al raggiungimento degli obiettivi gestionali. L’impiego di

uno stile di gestione partecipativo, che guardi alle persone non solo come soggetti da motivare ma

anche come individualità da valorizzare e coinvolgere nei processi decisionali aziendali dipende

dalla scelta dei dirigenti di optare per l’implementazione di una leadership diffusa, in modo da

sfruttare le motivazioni individuali a vantaggio anche dell’organizzazione. Necessario a tal fine, è la

promozione in azienda della cultura dell’empowerment, che consiste in uno stile di management

basato sul principio della delega, della cooperazione e della responsabilità condivisa. Conferire

potere per delega, attribuendo responsabilità decisionali a coloro che risultano avere specifiche

competenze personali, genera soggetti empowered, i quali diventano leader di se stessi. Fine ultimo

dell’empowerment è generare altri leader, valorizzare le doti di comunicazione, far crescere le

competenze sfruttando il potenziale degli individui, dando loro potere. La leadership diffusa

comporta infatti il disporre non solo di leader ad altro livello ma di una struttura composta da leader

posizionati a tutti i livelli dell'organizzazione che animi e orienti capillarmente le persone che

operano nei luoghi dove la responsabilità viene esercitata. La funzione di conduzione troverà minori

ostacoli in presenza sia di modelli organizzativi e direzionali più avanzati sia di una migliore

assegnazione del personale alle varie posizioni organizzative. Il ruolo di chi dirige, infatti,

dev’essere non solo quello di creare la massima coesione e il più elevato spirito di corpo nei gruppi
di lavoro, ma anche di valorizzare al meglio le risorse umane a disposizione. Nell’impresa, i

problemi della leadership, del lavoro di gruppo, dell’identificazione delle risorse con

l’organizzazione, saranno attenuati dalla più razionale e corretta utilizzazione del fattore umano,

cioè dalla ricerca della maggiore omogeneità possibile tra caratteristiche del lavoro e dei lavoratori.

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