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2012)
Nella realtà, gli individui, i gruppi, le aziende e le reti di aziende che popolano i business system,
alla stregua di qualsiasi organismo vivente (biologico o sociale) sono inevitabilmente suscettibili ad
un cambiamento costante: “il divenire” insomma, che da sempre ha interessato la storia del pensiero
in tante sue manifestazioni, è una caratteristica intrinseca all’esistenza stessa e quando essa viene
meno l’entità scompare e muore. Pertanto, sia che ci si riferisca alle leggi di funzionamento
dell’universo, sia che ci si riferisca al più ristretto ambito delle scienze umane e sociali (ergo del
situazione ideal-tipica che può essere immaginata come un movimento così lento e con un così
basso livello di attrito/conflittualità che solo in superficie manifesta una stasi, illudendo lo sguardo
dell’occhio nudo. Anche un’entità stabile cambia, ma in modo inerziale, ovvero sulla base dei suoi
Al concetto di cambiamento, nel “senso comune” e nel linguaggio manageriale, viene quindi
attribuita una valenza che implica una modifica della traiettoria che non consiste in un semplice
passaggio da uno stato ad un altro, bensì presuppone un processo che vede una sequenza di
Il cambiamento è dunque la determinante di una serie di componenti, alcune delle quali sono sotto il
potenziale controllo del management (forze endogene), che, se capace, riuscirà ad orientare nella
direzione voluta, mentre altre emergono dal contesto esterno in cui l’entità è collocata, il macro-
In un contesto, dunque, in cui il continuo divenire risulta inevitabile, il compito di chi si occupa
tracciati segnati dal management, tenendo conto delle turbolenze e dei mutamenti del contesto in
Secondo alcuni studiosi (Fauvet, Buhler, 1993), se manca questa capacità di indirizzare il
La comprensione della dinamica del cambiamento rappresenta quindi una competenza chiave per
chi intende apprendere le problematiche organizzative ed ha assunto crescente importanza nel corso
strumentale” sotto l’assoluto controllo del management. Tale fenomeno era considerato infatti mera
eccezione, una perturbazione, una fase temporanea, concepito come un disturbo patologico in un
sistema (chiuso) che in situazione normale è in equilibro: compito del management consisteva
quindi nel ripristinare l’equilibrio ottimale della “macchina organizzativa”, rispetto a temporanee
Questa visione, precedente alla rivoluzione simoniana avvenuta con l’introduzione del concetto di
complessa dei fenomeni economico-sociali ed il ruolo determinante del contesto circostante in cui
prendono corpo e si sviluppano le realtà aziendali. Come sottolinea invece Sciarelli, in un’economia
economici risultano influenzati in larga misura dalla stabilità politica e dalle condizioni di sicurezza
prosperità, di incertezza, nello svolgersi dei rapporti economici. Si può infatti osservare che gli
importanti competitori (Cina, India), dell’intrecciarsi di lotte sul controllo delle risorse energetiche
mondiali, dei tassi di sviluppo delle economie nazionali, l’ambiente è divenuto più turbolento, cioè
meno prevedibile, più ostile alle imprese, che sono accusate del degrado fisico e della coartazione
degli interlocutori più deboli, più eterogeneo e complesso (soprattutto sotto il profilo tecnologico),
e, infine, più insicuro, per il moltiplicarsi dei fenomeni terroristici internazionali. Turbolenza,
ostilità, diversità, complessità e insicurezza, appaiono dunque i connotati ambientali che, ormai da
qualche tempo, l’impresa, intesa come sistema aperto in continua interazione con altri sistemi ed
entità esterne, deve imparare a fronteggiare per sopravvivere e svilupparsi all’interno di un scenario
particolare rilevo, come già sottolineato da Sciarelli, il fenomeno della globalizzazione. Le imprese,
così come i cittadini, si trovano ad affrontare un contesto economico che tende a porre nuove sfide e
nuovi obiettivi. La globalizzazione ha certamente ridotto le distanze tra i paesi e gli uomini e
facilitato le relazioni economiche, ma ha anche evidenziato le difficoltà dei paesi meno competitivi
nei mercati internazionali. Molti hanno visto nel processo di globalizzazione una componente
negativa, come un processo destinato a rendere più poveri i paesi in via di sviluppo e a far
sopravvivere solo le imprese più grandi e più forti. Altri autori, come Anthony Giddens ne hanno
invece evidenziato anche le potenzialità, invitando a raccogliere la sfida che queste ponevano. Ha
detto Giddens, che «non si tratta, almeno per il momento di un ordine mosso da una volontà umana
collettiva: piuttosto esso cresce con modalità anarchiche e accidentali, sospinto da un misto di
fattori. Non è definitivo né sicuro, bensì carico di incognite, nonché segnato da profonde divisioni.
Molti di noi sentono l’azione di forze sulle quali non hanno potere. Riusciremo a ricondurle sotto la
nostra volontà? Io credo di sì. L’impotenza che proviamo non è segno di fallimento individuale ma
riflette l’inadeguatezza delle nostre istituzioni: è necessario ricostruire quelle che abbiamo o
crearne di nuove, perché la globalizzazione non è un incidente nelle nostre vite di sempre. E’
1
Sciarelli S. Elementi di economia e gestione delle imprese, CEDAM, Padova 2008
il cambiamento delle condizioni stesse della nostra esistenza. E’ il modo in cui oggi viviamo2».
Giddens non ha esitazioni a dire che la globalizzazione è sotto molti aspetti non solo nuova ma
“rivoluzionaria” perchè «la globalizzazione è dunque un complesso insieme di processi, non uno
soltanto, un insieme che opera in maniera contraddittoria e conflittuale. La maggior parte della
gente crede che la globalizzazione sia semplicemente il “trasferire” il potere o l’influenza dalle
comunità locali e dalle nazioni nell’arena globale, ma questa è una delle sue conseguenze: le
nazioni in realtà perdono parte del potere economico che avevano. Ma ciò comporta anche un
effetto opposto: la globalizzazione non spinge solo verso l’alto ma anche verso il basso, creando
nuove pressioni a favore dell’autonomia locale» (Giddens, p.31). Quindi spetta a tutti gli attori
sociali ed istituzionali cogliere le possibilità offerte da un mercato aperto e in espansione che non
Quali sono le condizioni che consentono ad una organizzazione complessa come l'impresa di essere
in grado di affrontare con successo i cambiamenti sociali ed economici in atto? E' possibile che
questi cambiamenti determinino anche una nuova filosofia delle imprese, più orientata al rispetto
dell'ambiente, alla valorizzazione delle risorse umane, a coniugare principi etici e valori economici?
Su questi interrogativi si è sviluppato un dibattito che, anche in questo periodo di crisi mondiale,
non è certo possibile qui sintetizzare. Quello che ci interessa, ai fini di questo lavoro di tesi, è
evidenziare come il tema delle risorse umane sia diventato sempre più centrale e che si è sviluppato
assieme all'esigenza delle imprese di avere sempre un maggior contenuto etico e sociale nella loro
azione quotidiana. Per quanto riguarda le risorse umane, di cui approfondiremo nel paragrafo
successivo l’importanza, vogliamo qui solo effettuare alcune considerazioni di insieme, in special
modo orientate al nostro caso studio, una piccola impresa, di alto profilo sociale, che lavora con
Per quanto grande possa essere il sistema organizzativo, per quanto possa essere presente l'elemento
2 Giddens A, Cogliere l'occasione: le sfide di un mondo che cambia, Carocci, Roma 2000, pag 25
vivere una impresa, che le consente di raggiungere i propri obiettivi. Questo significa che chi ha
compiti di selezione del personale deve sempre valorizzare la qualificazione, anche misurata in
impresa andrà a lavorare. E' quindi necessario non solo formare i lavoratori in termini di capacità e
Nell'economia della conoscenza il ruolo delle risorse umane nella costruzione del vantaggio
imprese. Siamo passati, infatti, dalla fase di forte conflitto sindacale degli anni '70, (attraversando le
fasi di ristrutturazione, orientate alla qualità) agli anni '90 nei quali si è focalizzata l'attenzione
sulla valorizzazione dei bisogni e delle potenzialità delle risorse umane, attraverso una minore
sofisticazione e una maggiore enfasi sulla comunicazione interna. Si sono sempre più sviluppati
modelli di sviluppo del personale e valorizzazione delle risorse umane. Nella strategia delle
imprese, che consideravano strategiche solo le risorse finanziarie o tecnologiche, si presta dunque
maggiore attenzione alla componente umana, considerata vera risorsa per l’impresa, le cui
competitivo. Specie nelle piccole e medie imprese le risorse umane fanno la differenza nel successo
aziendale e ogni decisione in materia di selezione e gestione del personale deve essere ben
ponderata.
Accanto allo sviluppo di modelli inclusivi che valorizzano il personale, si è molto sviluppato il
rapporto tra etica sociale e impresa. Questo rapporto può essere declinato in vari modi. Una prima
definizione è quella che fa riferimento alla responsabilità di una impresa verso i suoi stakeholders3
che non si limita al rispetto delle norme, ma che si da un codice etico di comportamento che
evidenzi le responsabilità sociali dell'impresa nel suo agire quotidiano. L'altro concetto è di impresa
sociale diffuso negli ultimi anni in Europa e in Italia, noto anche con la definizione di “terzo
3
Per stakeholders si intende “interlocutori dell’impresa o portatori di interessi che influenzano e sono influenzati dall’attività
dell’impresa stessa.”(cfr Sciarelli S. Elementi di economia e gestione delle imprese, CEDAM, Padova 2008 )
settore”. Con questo termine si intendono tutte quelle organizzazioni che nel sistema economico si
collocano tra lo Stato e il mercato, sono cioè soggetti di natura privata, ma volti alla produzione di
beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva. All’interno del Terzo settore esistono da tempo
non lucrative di utilità sociale, Cooperative sociali ecc.) che – indipendentemente dalla
denominazione e dalla forma giuridica adottata – sono tutte caratterizzate dall’assenza di scopo di
L’impresa sociale, pur rientrando a pieno titolo in questo contesto, rappresenta qualcosa di nuovo.
Unisce, infatti, due mondi finora separati, quello della produzione a carattere imprenditoriale e
quello della produzione di beni e servizi di utilità sociale. Quest’ultimo settore, tradizionalmente
affidato ad enti pubblici, è sempre meno efficiente, di scarso livello qualitativo ed è oggetto di una
spesa sociale divenuta quasi insostenibile. Da qui l’idea – da alcuni definita una scommessa – di
rendere produttivo ciò che per sua natura non lo è, attraverso organizzazioni private in grado di
offrire beni e servizi di utilità sociale, senza perseguire il profitto ma mantenendo l’azienda in
equilibrio economico e finanziario. In questo senso le imprese sociali vengono da alcuni definite
come un ibrido tra imprese “for profit” ed enti “non-profit”, cioè come organizzazioni private che
agiscono per finalità diverse da quelle del profitto (“not for profit”).
Le altre caratteristiche innovative dell’impresa sociale sono definite con decreto legislativo n.
155/2006 – Legge sull’impresa sociale - e possono essere così sintetizzate: 1) la democraticità della
gestione (ossia il coinvolgimento di tutti gli stakeholders o portatori d’interesse, sia interni (soci,
donatori) nella gestione dell’impresa; 2) la partecipazione degli utenti finali alla valutazione dei
risultati (in tal modo i fruitori dei servizi divengono protagonisti attivi del proprio percorso di
pubblicazione del bilancio sociale (documento che, al di là dei meri aspetti contabili, permette a
chiunque di verificare il raggiungimento dei risultati). Ma la novità più interessante della legge è
rappresentata dalla previsione della iscrizione della cosiddetta “impresa sociale” nel Registro
Imprese tenuto dalle Camere di Commercio, il che implica trasparenza, garanzia ed affidabilità
delle informazioni per il mondo economico e degli affari. L’impresa sociale è un particolare tipo di
impresa – dalle caratteristiche ben definite dalla legge – che opera nel settore non profit. In generale
si tratta di un’organizzazione: privata; senza scopo di lucro; che esercita una attività economica
(produzione o scambio di beni e di servizi) di utilità sociale; con finalità di interesse generale.
L’impresa sociale non si regge sulla beneficenza. Il fatto che un’organizzazione privata sia senza
scopo di lucro ed abbia finalità sociali non vuol dire che può vivere esclusivamente di sussidi.
L’impresa sociale va infatti considerata come un’impresa a tutti gli effetti, anche se con
del personale. Gli sforzi di razionalizzazione del sistema debbono cioè essere completati dalla
ricerca delle soluzioni migliori per il delicato problema della guida, a tutti i livelli, degli uomini
impegnati nell’impresa. La condizione del personale rappresenta uno dei nodi centrali del processo
presenti in azienda. Al fine di comprendere l’importanza strategica delle risorse umane all’interno
dell’impresa è opportuno definire i punti chiave del processo di cambiamento che ha visto la
componente sociale assumere, nel tempo, una sempre maggiore rilevanza, fino ad essere
4
Guida all'impresa sociale. L’utile senza gli utili: guida alla creazione dell’impresa sociale, Camera di Commercio
Roma 2009
considerata come principale fonte di valore e di vantaggio competitivo. Fondamentale, ai fini
assunto a base della costruzione dell’organizzazione. Sappiamo, infatti, dalla storia delle teorie
organizzative, che le tre fasi classiche di sviluppo della disciplina hanno rappresentato, in effetti,
successive evoluzioni di tale concetto. L’organizzazione scientifica del lavoro, di stampo taylorista,
che ha caratterizzato la storia dell’industria, è partita da una visione dell’uomo, che è stato visto più
come strumento o meccanismo da far funzionare all’interno della macchina aziendale, che come
individuo da motivare o far partecipare alle scelte. Queste due ultime concezioni sono state invece
La vera raison d’etre delle organizzazioni è la realizzazione degli obiettivi, raggiunti perseguendo
la logica dell’efficienza e della massima produttività. Il sistema proposto da Taylor prende spunto
dalla convinzione che per ogni attività esista una sequenza operativa in grado di garantire il
massimo rendimento con il minimo sforzo (one best way5); compito dell’azienda è individuarla e
description, ossia regole, programmi operativi, procedure, norme chiaramente esplicitate che
disciplinano lo svolgimento del lavoro il quale viene frazionato e frammentato al fine di perseguire
una maggiore efficienza produttiva; 2) Studio dei tempi e utilizzazione di strumenti di rilevazione e
5
Elemento comune ai filoni teorici della prima metà del ‘900 è la logica universalista che li caratterizza: esiste un modello di
organizzazione, valido in assoluto, applicabile in qualsiasi situazione e per la combinazione di qualsiasi variabile tecnica e sociale;
questi studi sono anche etichettati, infatti come teorie della One best way, un unico ed universalistico modo per raggiungere i fini
dell’organizzazione.
controllo; 3) applicazione delle tariffe differenziali di cottimo come incentivo6; 4) direzione a
struttura funzionale, con responsabilità ripartite tra 8 capi in modo che ognuno abbia il minor
configurano come le parti di questo modello meccanico, che riduce l’uomo a ingranaggio
addestrato all’ esecuzione di job description, che ne disciplinano il lavoro rendendolo uniforme e
dell’organizzazione deve essere eliminato ogni elemento irrazionale ed emotivo, è ovvio che lo
stato d’animo o l’atteggiamento verso il lavoro non possano essere presi in considerazione. Ogni
dèfaillance nervosa viene concepita come uno stato di esaurimento da attribuire ad una utilizzazione
poco razionale della macchina umana.7 Il taylorismo trovò presto una diffusa applicazione in USA
e in Europa, ma anche grandi critiche e ostilità, se non violente reazioni che hanno sottolineato gli
effetti negativi della specializzazione, della standardizzazione e del cottimo sulla salute psico-fisica
del lavoratore, fenomeni di auto-estraneazione e di sfruttamento delle forze fisiche derivanti dalla
esasperata separazione delle attività esecutive da quelle decisionali, difficoltà di coordinamento tra i
diversi capi previsti dalla struttura funzionale. La scuola delle Relazioni umane segna il passaggio
ampliamento del modello “razionale”. La novità apportata da questo nuovo approccio consiste
progettate e controllate “formalmente” nella prospettiva razionale, sono occupate da persone, con
interessi, bisogni e obiettivi che possono non coincidere con le finalità organizzative razionali. Le
posizioni sono infatti legate da sistemi relazionali, relative all’interazione tra i membri. Le persone
possono essere legate da relazioni di amicizia o inimicizia, simpatia o antipatia, rispetto e così via
che si formano sul posto di lavoro. Accanto ai sistemi di autorità formalmente pianificati agiscono
6
Cottimo: retribuzione in funzione della resa
7
Auteri E. Management delle risorse umane, V ed. Guerini, Milano 2009, pag 310, 311
sistemi di autorità basati sul carisma del leader o sulla stima; sono importanti gli stili di leadership,
l’affetto, la socialità dei membri, il potere, l’intuito, eventuali relazioni di parentela, o altri legami
esterni alla progettazione dell’organizzazione del lavoro. Con il modello “naturale” quindi, la
razionalità tecnica, con la quale si raggiunge il fine organizzativo, va arricchita sotto il profilo
interazione. “La logica dei sentimenti” sconvolge la “logica dell’efficienza”, della regolarità e della
formalizzazione, centrali nel modello razionale. Mary Parker Follett (1868-1933), è considerata
pioniera dell’approccio delle relazioni umane, in quanto per prima ha considerato le persone come
risorse aziendali. Si colloca in una fase di passaggio tra la scuola classica, alla quale è legata per
l’attenzione dimostrata alla efficiente utilizzazione della componente umana nelle organizzazioni,
Follett pone l’accento su alcune tematiche di grande attualità come il potere, inteso come capacità di
far accadere le cose, l’autorità della funzione aziendale che di per sé ha autorità (visione militare in
cui il potere coincide con il grado), il conflitto, concepito in chiave moderna, come condizione
esistenziale dell’essere umano. Peter Druker (1909-2005) segnala nel suo libro The practice of
all’applicabilità delle sue tecniche per la maturazione della società industriale e l’avvento della
società dei servizi. Egli, pur se inserito nelle teorie classiche, riflette un orientamento strategico
direzionale di pianificazione a fronte di una riduzione della specializzazione del lavoro, di stampo
taylorista, in funzione di una maggiore attenzione al contesto. Nell’ambito delle scuola delle
relazioni umane si afferma la corrente interazionista. Con il procedere dello sviluppo industriale,
che caratterizzò la prima metà del XX secolo, si verificarono profondi cambiamenti nelle condizioni
socio-economiche che avevano favorito la diffusione dello Scientific Management: espansione delle
dimensioni aziendali, con conseguente più complessa gestione delle risorse umane; crescente
sindacalizzazione delle masse lavoratrici; graduale deterioramento della situazione del personale
questa fase si pone l’accento sulla questione delle relazioni umane, terreno già esplorato dai teorici
classici che già parlavano di conflitto (Follett). Il cottimo funziona, nel breve termine, ma è
rendimento delle risorse. A partire dal 1927 la Western Electric avvia un vasto programma di
ricerche sulla produttività, attraverso la sperimentazione e con il coinvolgimento delle operaie dello
stabilimento di Hawthorne: vennero variate paghe, pause, ferie, orari e la produttività aumentò;
riportando le variabili ai valori precedenti la produttività continuò ad aumentare. Elton Mayo (1880-
1949), docente di ricerche industriali all’università di Harward, subentrato alla direzione del
programma di ricerche, attribuì questo fenomeno alla libera e spontanea collaborazione del gruppo
all’allentamento della supervisione gerarchica. Grazie ai programmi di ricerca sviluppati nei periodi
successivi, si costituì un’ampia base sperimentale che consentì a Mayo di affinare le sue
conclusioni: la produttività del personale e dell’organizzazione dipende, oltre che dalle condizioni
fisiche delle persone e dell’ambiente di lavoro, anche dalle condizioni dell’ambiente sociale
esistente e dalla cooperazione spontanea che vi si sviluppa; gli incentivi di tipo non economico sono
della massima importanza ai fini della produttività; l’elevato livello di specializzazione non è la più
efficiente forma di attribuzione dei compiti; infine il personale non manifesta solo atteggiamenti
e sulla produttività. Limite della scuola delle relazioni umane, le cui idee si diffusero rapidamente
negli Stati Uniti e in Europa, consiste nel fermarsi alla gestione delle relazioni con il personale,
senza mai incidere sul contenuto del lavoro. L’attenzione della sociologia organizzativa si è poi
soffermata sullo studio del comportamento del gruppo nelle organizzazioni. A tale proposito un
importante contributo è fornito da Kurt Lewin (1890-1947) i cui studi sul comportamento dei
piccoli gruppi hanno prodotto risultati in diversi campi ed in particolare negli studi
sull’organizzazione, conducendo allo sviluppo di tecniche di addestramento del tipo T-group,
strumentazione didattica largamente utilizzata dalle grandi organizzazioni per migliorare lo stile di
leadership e le capacità sociali. Gli studi e i contributi della scuola lewiniana sull’ atmosfera di
gruppo e sull’efficacia della leadership democratica hanno contribuito alla diffusione di varie forme
che si limita all’analisi delle relazioni senza entrare nel merito dei contenuti del lavoro, e prendendo
spunto dagli sviluppi delle teorie motivazionali a cui erano legati i contributi della scuola di Lewin,
il filone delle risorse umane tenta un approccio innovativo: cambiare l’organizzazione per creare le
condizioni che portino al soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori. L’uomo rimane al centro
dell’analisi, ma il campo di indagine viene esteso ai contenuti dei compiti, alla configurazione delle
strutture organizzative e agli stili di direzione. È intuibile che una differente visione del fattore
umano implica una differente attuazione della funzione di conduzione, cioè un diverso stile di
direzione. Sotto questo aspetto si passa infatti da una direzione tradizionale di tipo autocratico,
fondata sul principio dell’autorità, ad una direzione partecipativa, basata sul consenso, la prima
attuata mediante la gerarchia del comando, la seconda mediante la creazione della motivazione. In
altri termini, lo stile partecipativo si basa sul controllo legato alla motivazione, quindi
sull’autocontrollo; quello autoritario invece, si impernia sul controllo esterno e supervisorio8. Per
ottenere il più elevato rendimento del fattore umano, appare dunque necessario risolvere il problema
dell’integrazione tra gli obiettivi individuali e quelli aziendali: allorquando si realizzerà questo
processo di fusione non si avrà più un “problema” di conduzione degli uomini, i quali saranno
l’organizzazione è allora alla base della motivazione delle risorse umane che lavorano nell’impresa.
Il problema motivazionale può essere utilmente scomposto in due parti: nella motivazione a
sia sotto il profilo individuale sia sotto quello dei gruppi che si formano all’interno della struttura. È
pertanto necessario tornare all’excursus storico intrapreso al fine di fare riferimento ad alcuni
principi propri di queste discipline. Mi sembra pertanto utile citare una teoria che assume un ruolo
centrale nella comprensione delle teorie motivazionali: la teoria della gerarchia dei bisogni umani,
elaborata dallo psicologo Abraham Maslow. Secondo questa teoria l’individuo tenderebbe alla
soddisfazione di una serie di bisogni, che si ordinano lungo una scala crescente d’importanza. Si
tratta di una gerarchia di motivazioni che orientano il comportamento dell’individuo, che si muove
da quelle più basse (originate da bisogni primari-fisiologici) a quelle più alte (volte alla piena
prepotenza relativa; il passaggio ad uno stadio superiore può avvenire solo dopo la soddisfazione
dei bisogni di grado inferiore: base di partenza per lo studio dell’individuo è la considerazione di
esso come globalità di bisogni. Maslow sostiene che saper riconoscere i bisogni dell’individuo
favorisce un’assistenza centrata sulla persona. Ogni uomo è unico e irripetibile, invece, i bisogni
sono comuni a tutti, si condividono, si accomunano e fanno vivere meglio se vengono soddisfatti.
Maslow suddivide infine i bisogni in “fondamentali” e “superiori” ritenendo questi ultimi quelli
psicologici e spirituali. Di fatto però la non soddisfazione dei bisogni fondamentali, definiti anche
elementari, porta alla non soddisfazione di quelli superiori. Al fine di stimolare la motivazione, ai
primi gradini contano di più gli incentivi economici, mentre a quelli successivi assumono una
maggiore importanza gli stimoli psicologici ovvero le gratificazioni morali. La scala di Maslow
fornisce uno schema prezioso di riferimento per orientare le soluzioni del problema di motivazione.
Non sempre, infatti, si può indurre a lavorare pagando di più o stabilendo dei premi di produttività,
perché la retribuzione rappresenta uno degli elementi del rapporto di lavoro e, anche se importante,
non in tutti i casi è sufficiente a far migliorare il rendimento. È dunque necessario che chi dirige
sappia come orientare il rapporto con i subordinati e a quali leve fare ricorso per ottenere la
motivazione a produrre. Rispetto a questa teoria più generale è stato elaborato un approccio teorico
relativo non all’individuo in senso ampio, ma all’individuo che lavora nell’impresa. Frederick
prevalentemente sulle motivazioni dell’agire umano che, secondo l’autore, affondano le loro radici
nei cosiddetti bisogni superiori dell’uomo, intesi come qualcosa che opera per dirigere il
comportamento. Herzberg si concentra soprattutto sui processi che derivano dalla soddisfazione di
questi bisogni e trae la conclusione che esistono due tipi di fattori correlati alla soddisfazione sul
lavoro: bisogni correlati strettamente all’attività che una persona svolge, chiamati “fattori igienici”
e bisogni che ruotano attorno alla crescita e allo sviluppo personale, i “fattori motivazionali”.
Secondo Herzberg le due tipologie di fattori possono influenzare la motivazione in maniera diversa.
Egli distingue tra soddisfazione e non soddisfazione per il lavoro che, nella sua teoria, non sono
antitetici: l’opposto di soddisfatto è insoddisfatto, allo stesso modo l’opposto di non soddisfatto e
non insoddisfatto. Secondo Herzberg: i “fattori di igiene” sono efficaci nell’estinguere la non
soddisfazione al lavoro, comunque però essi non possono essere fonte di soddisfazione (condizioni
di lavoro, qualità del controllo, stipendio, condizione, sicurezza, lavoro, politiche e gestione
di livello più alto, crescita). Conseguentemente esistono due tipi di popolazione: i “ricercatori di
“ricercatori di igiene”, che si preoccupano invece solo della remunerazione, delle condizioni
ambientali in cui lavorano e della sicurezza, non percependo come necessari altri presupposti.
Herzberg quindi prende in considerazione le percezioni e le valutazioni individuali: dai suoi studi
emerge ancora una volta la necessità di andare incontro alle esigenze del lavoratore. Nell’ambito del
filone delle risorse umane, un contributo che, a mio avviso, risulta determinante per completare il
quadro teorico entro il quale si configura il cambiamento radicale del concetto di “uomo” nella
concezione organizzativa, è quello di Argyris, psicologo americano che ha dedicato gran parte dei
suoi studi all’apprendimento organizzativo. Rispetto a Maslow, Argyris mette in maggior evidenza
il contrasto tra le esigenze dell’individuo e quelle delle organizzazioni classiche. Per Argyris la
l’organizzazione, dunque, deve essere strutturata in modo da favorire queste esigenze individuali e,
se organizzata secondo i principi tayloristici, è in aperto contrasto con quelle che Argyris considera
le esigenze di crescita e di maturazione dei soggetti. L’organizzazione classica non ricerca uomini
maturi, creativi, partecipativi, indipendenti e aperti alla collaborazione, ricerca invece uomini
l’organizzazione tayloristica cerca degli uomini rimasti psicologicamente bambini. Questo contrasto
hanno causato, secondo Argyris, una serie di conseguenze che vanno dal senso di frustrazione e di
fallimento nel lavoratore a stati di rivalità e di propensione al conflitto. Argyris sostiene che questo
stato di cose può essere cambiato solo a partire da un processo di ristrutturazione che consiste nella
creazione di gruppi informali, di forme di leadership non autoritaria, nella promozione di forme di
apprendimento non più solo individuali, ma anche e soprattutto organizzative. Egli intende
l’azienda come una struttura dove i soggetti non svolgono solo le azioni inerenti alla propria
mansione, ma sono anche agenti di cambiamento. Questo approccio teorico affonda su un terreno
fertile. Intorno agli anni ’70 si diffonde e si applica in numerosi ambiti disciplinari, compreso quello
degli studi sull’organizzazione, la teoria dei sistemi aperti. Al centro del modello vi è la forte
relazione di dipendenza della struttura oggetto di analisi, con l’ambiente esterno. La struttura non
(troughput) e libera i suoi risultati nell’ambiente esterno (output). L’elemento fondamentale che
distingue un sistema aperto da un sistema chiuso lo si trova nel concetto di entropia9. I sistemi
chiusi sono caratterizzati, infatti, dalla dispersione di energia: il processo entropico porta il sistema
chiuso alla dissoluzione; il sistema aperto, invece, grazie all’interscambio di energia con l’ambiente,
riesce a sopravvivere. Essenziale ai fini del funzionamento della struttura è, quindi, il processo di
riattivazione energetica del sistema: gli output devono costituire la fonte per l’acquisizione di nuovi
input. Le organizzazioni, in un’ottica di sistema aperto, sono tanto più efficienti quanto migliori
sono i processi di mantenimento dell’equilibrio nel sistema e i processi che permettono al sistema di
evolvere e cambiare10. Secondo Argyris anche l’organizzazione in quanto sistema aperto, al pari di
diventa essa stessa un’entità caratterizzata da un percorso evolutivo, che si muove dalla nascita e
che, a differenza di un organismo vivente, può perdurare nel tempo e portare ad una crescita
costante, in funzione della capacità di feedback continui con l’ambiente esterno e delle relazioni con
i soggetti che in essa lavorano. Argyris ha sempre messo in discussione i principi del taylorismo, in
particolar modo il “noleggio della manodopera” piuttosto che l’individuo nella sua totalità.
abbiamo visto, non hanno portato a risultati positivi nel lungo periodo, concepiva il fattore umano
fattore umano è visto come qualcosa di vivo che sfugge al controllo perché mosso da dinamiche
9
L’entropia è una grandezza termodinamica che consente di traslare in un modello matematico le conseguenza del secondo principio
della termodinamica, secondo il quale, è impossibile trasformare integralmente calore in lavoro meccanico (lo studio dell’entropia
nacque dall’osservazione del funzionamento delle macchine a vapore. È un concetto direttamente collegato al “disordine” di un
sistema (la disposizione casuale delle particelle che lo compongono): un sistema chiuso avrà uno stato di entropia massima non
superabile, pena la dissoluzione del sistema.
10
P.de Vita, R. Mercurio, F.Testa (a cura di) organizzazione aziendale: assetto e meccanismi di relazione, Ed. Giappichelli , Torino
2007
caratteriali complesse e non totalmente controllabili, tale verità spaventa se si rimane ancorati ad
una visione tayloristica caratterizzata dal controllo assoluto delle variabili interne e dalla
L’impresa in questa nuova visione, non è più vista come una monade, ma come parte di un tutto più
ampio e complesso con il quale interagisce. In questo nuovo modo di concepire l’organizzazione
trova piena collocazione la considerazione dell’uomo quale risorsa dinamica. Argyris, con il proprio
contributo, ha il merito di portare il fenomeno del cambiamento da uno scenario esterno (fonte di
timore) ad uno scenario interno, riconoscendo il fenomeno in rapporto ai soggetti dinamici che
controllare, diviene molla propulsiva all’orientamento verso il futuro. Le modifiche interne che si
verificano in risposta al cambiamento dell’ambiente esterno sono viste da Argyris come esigenza
prosperità. Intorno agli anni ’50 si assiste alla diffusione della psicologia organizzativa la quale
riflette l’esigenza di supportare la gestione delle dinamiche psicologiche dei soggetti all’interno
dell’organizzazione, fenomeno che sgancia la psicologia dal ristretto ambito clinico-individuale. Pur
apportata consiste nella diffusione dell’idea che migliorando le condizioni di sfruttamento del
necessaria a perseguire le finalità ultime dell’organizzazione. La sfida, egli afferma, non è trovare
modi artificiali per motivare le persone, ma riconoscere e incanalare questa energia. Ciò che emerge
con chiarezza è una modalità di guardare ai membri che popolano l’organizzazione e all’ambiente
circostante nell’ottica della complessità e del cambiamento.
Complessità del contesto esterno alle imprese, in cui la competizione globale e la necessità sottesa
di essere presenti nei vari mercati del globo ha stimolato la tendenza ad una riarticolazione
dell’assetto produttivo ed organizzativo delle imprese, sulla base della riduzione delle dimensioni
dei colossi imprenditoriali che si fanno sempre più snelli e flessibili, al fine di rispondere in
maniera tempestiva alle esigenze di un mercato sempre più dinamico e competitivo. Si passa da
a strutture di tipo piatto, caratterizzate dalla riduzione del numero di livelli gerarchici in favore di
una maggiore rapidità del processo decisionale. Si afferma così l’impresa a rete, caratterizzata da
nuclei autonomi fra loro ma con strategie e obiettivi comuni. Secondo Giolitelli le organizzazioni a
rete possono formarsi seguendo due percorsi: 1) bottom-up: coincide con l’ipotesi di formazione di
reti spinta dal basso e si verifica quando nel mercato si istaurano relazioni che portano alla
formazione di imprese a rete, in questo caso vi è la presenza di organi di governo atipici di durata
procedimento che proviene dall’alto del vertice strategico dell’impresa e che comporta la presenza
di una forma di governo duraturo che definisce gli standard tecnici che devono essere rispettati dalle
altre imprese della rete. Le parti che compongono la rete sono capaci di autoregolarsi e collaborare
con le altre unità della struttura, queste ultime definite nodi o sistemi legati fra di loro da
connessioni rese possibili da un efficace sistema di comunicazione che svolge un ruolo centrale in
quanto consente tale connessione, determinando l’integrazione delle diverse componenti della rete
La riarticolazione a rete delle macroimprese coincide pertanto con la scomparsa tendenziale del
condizioni di sempre maggiore instabilità delle economie dei paesi industrializzati caratterizzate
dall’abbreviarsi del ciclo economico. La stabilità del mercato è un ricordo del passato, compiti
11
Della Volpe M. Conoscenza Comunicazione Impresa, Ed. Carocci, Roma 2008
individuali e lavoro delle aziende cambiano oggi, più velocemente di quanto possano essere
tesa a ripensare e riprogettare l’intero sistema d’impresa per quel che riguarda i processi di lavoro
misura dei risultati (controllo inteso come strumento di supporto utile a verificare l’efficacia
dell’approccio impiegato e migliorarlo), valori e cultura d’azienda (in grado di dare orientamento e
processi significa passare da una suddivisione del lavoro basata su passi separati, da svolgere in
sequenza, ad una visione unitaria del lavoro e dell’azienda che comporta una diversa organizzazione
interna, una diversa attribuzione delle responsabilità e, soprattutto, il totale coinvolgimento delle
persone che rispondono all’esterno dell’azienda, la cui missione di interfaccia dell’impresa nei
confronti dei clienti diventa un punto critico per l’affermazione dell’azienda sul mercato. Obiettivo
finale della reingegnerizzazione è il raggiungimento di obiettivi molto marcati nei parametri critici
che identificano le prestazioni dell’azienda: costi, qualità, livello di servizio, tempi di risposta verso
l’esterno (TTM = time to market). La gestione della complessità pertanto diventa la sfida delle
instabilità, in cui la rapidità con la quale il mercato muta fa si che nulla resti uguale a lungo: il
dell’imprese, le quali assumono la forma di adaptive enterprise, ossia imprese adattive, che come
una nave affrontano la tempesta cambiando rotta in base ai venti e alle correnti, trasformando
revisione totale del modo di fare impresa e della stessa cultura manageriale, che abbandona il
paradigma fordista, proprio della struttura verticale chiusa, orientandosi sulla valorizzazione della
dimensione orizzontale del lavoro, relazionale e interfunzionale. Questo nuovo modo di fare
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Perillo F. L’insostenibile leggerezza del management, Guerini, Milano 2010
impresa parte da un rovesciamento completo del rapporto tra individuo e impresa, la quale
considera quest’ultimo non più clone, fungibile ma soggetto poliedrico, unico e irripetibile, risorsa
conformità con gli obiettivi dell’impresa, rappresentano la vera sorgente di valore e di successo
dell’impresa stessa. Scopo dell’impresa è creare valore, risultante non solo dai meri risultati
economici ma, soprattutto, dalla valorizzazione del capitale intangibile, il quale coincide con il
finalità ultima di ogni scelta strategica la quale deve condurre al conseguimento di un vantaggio
da parte della concorrenza in quanto derivanti dallo sviluppo cooperativo autopoietico. Alla base
della produzione di valore vi è lo sviluppo delle competenze, laddove si intende per competenza la
capacità delle persone di sfruttare le risorse proprie (conoscenze: sapere tecnico specifico richiesto
dalla professione; capacità: abilità professionali connesse allo svolgimento del lavoro; qualità: doti
personali necessarie sia all’implementazione delle conoscenze che per l’orientamento delle
quindi elemento portante del sistema di gestione e il loro riconoscimento e valorizzazione porta allo
sviluppo delle competenze distintive dell’impresa che, come è stato precedentemente sottolineato,
costituisce la principale fonte di valore. Il processo strategico di gestione delle competenze prevede
diverse fasi: 1) la definizione delle competenze distintive richieste dal business, necessarie per
competenze presenti mediante la realizzazione di una mappa delle competenze; 3) gestione delle
applicazione mediante una loro diffusione e condivisione con il gruppo. Da patrimonio personale
esse si trasformano così in patrimonio collettivo, capitale esperienziale, accessibile, che contribuisce
a determinare le best practies, ossia il miglior modo codificato di fare le cose. Il nuovo umanesimo
aziendale, fondato sulla centralità dell’individuo e sulla valorizzazione delle potenzialità e delle
verificarsi del passaggio dall’impresa Labour intensive, di stampo taylorista, all’impresa knowledge
web-based, ha contribuito a porre sempre più in risalto il contributo che i sistemi informativi
Management. Secondo Sciarelli, il Knowledge Management può essere definito come un approccio
che viene a crearsi al proprio interno, evitando di relegarla a semplice abilità personale. In altre
base di conoscenze) nei limiti in cui gli individui che ne fanno parte sono in grado di apprendere a
loro volta, il problema che l’impresa si trova a gestire è quello di rendere la conoscenza accessibile
a persone diverse dai suoi creatori distribuendola, in funzione delle specifiche necessità, a individui
e gruppi impegnati nei loro compiti specifici. La sfida a cui le imprese sono chiamate, anche con il
supporto dei nuovi sistemi informatici, è dunque riuscire a capitalizzare la conoscenza presente al
loro interno per migliorare la gestione dei processi aziendali, a partire dalle conoscenze tacite
accumulate dalle persone che operano nell’organizzazione13. L’apprendimento deriva infatti da due
forme diverse, ma strettamente interrelate, di conoscenza: quella esplicita e quella tacita. La prima
può essere codificata, espressa in modo formale in documenti, archivi, database manuali; la
seconda è quella che risiede nella mente degli individui e deriva dalla loro esperienza personale,
dalle loro intuizioni. Il problema più grande che, sotto questo profilo, le imprese si trovano a gestire,
imitabili, e riuscire a farle emergere, sintetizzarle, confrontarle con quelle esplicite così da arricchire
divenendo la piattaforma di base che alimenta il processo di ulteriore arricchimento del sapere
aziendale. Sotto questo profilo i sistemi informativi moderni sono chiamati non solo ad ottimizzare i
flussi informativi interni, facendoli convergere verso un punto che riassume le funzioni decisionali,
condizioni indispensabili per attuarli attraverso interventi e l’uso di strumenti appropriati e coerenti,
empowerment etc.; 2) interventi sull’organizzazione: ridisegno dei processi aziendali (nuove e più
Knowledge Management impone dunque più di una sfida manageriale all’impresa, rendendo
13
Sciarelli S. Elementi di economia e gestione delle imprese, CEDAN, Padova 2008
14
Auteri E. Management delle risorse umane Guerini, Milano 2009
del personale, i quali devono essere finalizzati a “premiare” il contributo che il singolo fornisce alla
mancanza della quale l’organizzazione corre il rischio di perdersi in una grande massa di
caratterizza l’impresa della conoscenza, è dunque la formazione, la quale, come leva specifica per
tenere separati il momento dell’apprendimento da quello del lavoro, oggi questo non è più possibile,
i tempi dell’apprendere e del lavorare convergono e in parte si devono sovrapporre. Il tempo per
le persone devono fare leva sulla propria flessibilità intellettuale e acquisire motivazioni e capacità
continuo è divenuta vitale per la sopravvivenza stessa dell’individuo come dell’organizzazione cui
appartiene. Non c’è più l’azienda che possa fornire tutta la formazione (tecnica e comportamentale)
di cui essi potenzialmente necessitano: nell’ adaptive enterprise il piano di formazione diventa una
responsabilità personale, oltrepassa la formazione aziendale. Questa può solo creare le condizioni
perché questo processo avvenga: curarne l’allineamento con gli obiettivi dell’organizzazione,
spingere il management a motivare gli individui e gli individui a metterci del proprio per tenersi
allo stato dell’arte”15 Il fine della formazione nella learning organization, la quale si oppone
del “tirar fuori la forma” mediante un processo esperienziale, con lo scopo di far emergere le
conoscenze tacite degli individui e renderle esplicite e condivisibili attraverso processi non invasivi
15
Perillo F. L’insostenibile leggerezza del management, Guerini, Milano 2010
di facilitazione. Questa nuova forma di learning non è più esercitata come training dall’alto verso il
basso, ma procede per connessioni interpersonali in cui ciascun punto della rete (ogni singolo
rappresenta il fine ultimo del nuovo concetto di formazione. Gli studi più recenti sono orientati
all'analisi dei fattori che influenzano i modi in cui le persone apprendono, l'efficacia
l'importanza dell'allineamento fra gli obiettivi formativi dei singoli individui e la strategia di
continuo, tanto che il concetto di knowledge management nello sviluppo delle risorse umane è
responsabili delle risorse umane partecipano alle scelte strategiche dell'azienda e ne sono una parte
direttamente coinvolta. Anche se con diverse prospettive, molti autori indicano la correlazione tra
la formulazione della strategia dell’organizzazione e lo sviluppo delle risorse umane. Secondo altri,
invece, al contrario, la funzione risorse umane è ritenuta subordinata alla strategia definita a livello
aziendale. Secondo questa impostazione, una volta fissata la strategia aziendale, vengono effettuate
le scelte in tema di risorse umane. Ma, indipendentemente dal punto di vista da cui guardare le cose,
la correlazione tra strategia e gestione delle risorse umane rimane inscindibile. Certo la sua
formulazione può essere influenzata da numerosi fattori. Tra questi, l’ambiente può essere
considerata una variabile fondamentale poiché la strategia da perseguire nella gestione del personale
politiche di governo statali. C'è la necessità per le aziende di stabilire una stretta relazione tra la
strategia aziendale adottata verso l’esterno e le strategie interne in tema di risorse umane, in quanto
un’integrazione: 1) collegare le politiche delle risorse umane con il processo di gestione strategica
un’“identità di interesse” con gli obiettivi strategici. In questo schema, dunque, strategia e struttura
modelli: a) il primo, fondato sul controllo dei dipendenti e sul comportamento adottato dai
strutture del management sono strumenti adoperati per controllare gli aspetti del lavoro e per
specificatamente, riferito al grado con il quale i manager guardano alle risorse umane come un
asset e non come una variabile di costo. La somma della conoscenza e l’esperienza delle persone, e
le relazioni sociali, hanno il potenziale di fornire capacità non sostituibili in modo da rappresentare
la fonte del vantaggio competitivo; c) il terzo, un modello integrativo che caratterizza la strategia
esprime il concetto di sviluppo del capitale umano interno, il secondo riguarda invece il grado con il
quale la strategia HR si focalizza sul monitoraggio della compliance dei dipendenti rispetto agli
standard dei processi e sullo sviluppo della fiducia reciproca. Le due dimensioni principali sulle
quali verte questo modello portano a quattro tipi ideali di strategia di gestione delle risorse umane,
che possiamo così definire: 1) commitment: si focalizza sullo sviluppo interno delle competenze dei
collaboratori per la loro compliance rispetto al meccanismo di controllo basato sul processo; 4)
17
Solari L., La gestione delle risorse umane – Dalle teorie alle persone, Roma, Carocci editore, 2004
traditional: si focalizza sul recruitment esterno delle competenze e dei comportamenti e sul
controllo basato sul processo. Ogni strategia rappresenta un insieme di valori, pensieri e assunzioni
che guidano i manager sempre più consapevoli del ruolo fondamentale che assume la funzione
Risorse Umane per contribuire alla buona performance dell’azienda18. Come detto, oggi tutti
riconoscono che le politiche di selezione e gestione del personale sono fonte di vantaggio
specifiche responsabilità, così da valorizzare le loro abilità. Perché ciò avvenga la gestione delle
Risorse Umane deve soddisfare diversi requisiti quali: 1) aggiungere valore ai processi operativi
dell’azienda non devono poter essere copiati o imitati facilmente; 4) i progressi tecnologici o altri
investimenti in automazione non possono sostituire facilmente i collaboratori, in quanto essi sono
dotati di capacità uniche e insostituibili. Questi sono considerati prerequisiti che definiscono le
circostanze in cui il talento dei lavoratori può fare la differenza. Con la gestione delle risorse umane
aziendali che orientino e favoriscano la coesione dei comportamenti per il raggiungimento degli
Questi sono elementi che interessano le tre aree di attività, reclutamento, motivazione/gestione e
risoluzione del rapporto di lavoro. Assumere o reclutare le persone giuste è vitale per costruire
organizzazioni devono costruire dei profili adatti al tipo di persone che hanno o avranno successo al
18
Weizmann H. C., Weizmann J.K., Gestione delle risorse umane e valore dell’impresa, Milano, FrancoAngeli, 2010]
loro interno19. Francesco Perillo, nel testo L’insostenibile leggerezza del management, in tema di
“relativa”, centrata sulla persona piuttosto che sulla posizione, sulle competenze personali
“Nelle organizzazioni flessibili la capacità di adattamento continuo delle persone al contesto e alla
leadership personale nel saper interpretare il proprio lavoro contano di più della rispondenza ai
del contesto (insight) e personal leadership richiede necessariamente una deroga ai principi del
management scientifico: come dice Spenser è qui richiesto uno sforzo ad adattare il lavoro alle
caratteristiche dell’individuo piuttosto che l’inverso”20. Come sottolinea Laura Borgogni, nel testo
La selezione: metodi e strumenti psicologici per scegliere le persone, le persone possiedono talenti
differenti, e in misura differente, che possono manifestarsi variamente all’interno di diversi contesti.
Così come l’uso che le persone fanno dei propri talenti dipende anche dai loro modi di essere,
motivazioni e convinzioni che essi sviluppano e spendono in relazione al tipo di contesto in cui si
malleabile rispetto alla personalità. La riuscita nelle situazioni che la persona preferisce affrontare e
motivazione e capacità rappresentano le risorse che la persona spende con maggiore o minore
convinzione in relazione alle sfide che il contesto propone. Per il selezionatore, quindi, è
fondamentale valutare il fit tra individuo e contesto. Ovvero su un versante più individuale,
comprendere, non solo la sfera delle competenze specifiche di cui la persona può essere più o meno
già in possesso, ma quanto è motivata a svolgere quell’attività, quanto è in sintonia con quello
riguarda quella collettività, oltre al suo grado di citizenship con gli altri. Su un versante più legato al
19
Canonici A., La gestione delle risorse umane come chiave del successo aziendale, Milano, FrancoAngeli, 2004
20
Perillo F. l’insostenibile leggerezza del management, Guerini, Milano 2010
contesto, infine, è importante comprendere che tipo di valori possiede la persona, per verificare la
compatibilità con quelli promossi da quel contesto culturale. Il prodotto della selezione sarà quindi
l’anticipazione degli esiti dell’incontro tra persona e contesto lavorativo, tanto più reciprocamente
appagante sia per la persona che per l’organizzazione, quanto più efficacie è la predizione fatta dal
selezionatore21.
Per avere successo, una strategia di gestione delle risorse umane deve integrare le attività
tradizionali di gestione del personale con delle attività più avanzate. La funzione Risorse Umane è
investita di quattro importanti responsabilità manageriali: 1) gestione strategica delle risorse umane;
valorizzazione del contributo individuale. Perché siano efficaci, queste aree devono essere
funzionalmente integrate, e adattarsi ad una strategia di management delle risorse umane che
risorse umane si fonda, quindi, sulla convergenza tra sostegno e sviluppo individuale di ciascuna
risorsa, e lo sviluppo dell’organizzazione nel suo complesso; è questo il carattere proprio delle
imprese best in class, le quali considerano la gestione delle risorse umane come un complesso di
attività in stretto collegamento con gli obiettivi di competitività e di successo aziendale, la cui
eccellenza si traduce nel livello di qualità dei prodotti e servizi percepita dai clienti finali (customer
satisfaction), e nel grado di integrazione e collaborazione dei clienti interni all’impresa stessa in
motivazione si pone al centro del cosiddetto “contratto psicologico” che lega il lavoratore
all’azienda22. Tale legame diviene produttivo allorché si perfeziona questo contratto psicologico,
ovvero quando si crea un buon grado di concordanza tra quello che il dipendente ritiene di dover
21
Borgogni L., Consiglio C. (a cura di), la selezione: metodi e strumenti psicologici per scegliere le persone, FrancoAngeli, Milano
2008
22
Questa espressione è stata coniata da Schein, La psicologia sociale nella società moderna.
stesso tempo, lo scambio prestazione-controprestazione si verifica conformemente al grado di
concordanza creato (Siarelli 2008). La motivazione al lavoro dei dipendenti è, in ultima analisi,
conseguenza delle nuovo modo di gestire le risorse umane, alle quali dedicare le medesime
attenzioni dapprima riservate ai clienti esterni. La fidelizzazione del cliente interno stimola in lui la
motivazione giusta per un più completo e maturo contributo professionale e personale, che risulta
profittevole per l’azienda e gratificante per lui. In conclusione, come è stato fin qui sottolineato, la
gestione delle risorse umane rappresenta il pilastro fondamentale dell’intera gestione aziendale e si
configura come una delle responsabilità più delicate per chi dirige l’impresa. Si tratta, infatti di
dotare l’organismo aziendale delle professionalità necessarie e di assicurarsi che gli individui
uno stile di gestione partecipativo, che guardi alle persone non solo come soggetti da motivare ma
anche come individualità da valorizzare e coinvolgere nei processi decisionali aziendali dipende
dalla scelta dei dirigenti di optare per l’implementazione di una leadership diffusa, in modo da
promozione in azienda della cultura dell’empowerment, che consiste in uno stile di management
basato sul principio della delega, della cooperazione e della responsabilità condivisa. Conferire
potere per delega, attribuendo responsabilità decisionali a coloro che risultano avere specifiche
competenze personali, genera soggetti empowered, i quali diventano leader di se stessi. Fine ultimo
competenze sfruttando il potenziale degli individui, dando loro potere. La leadership diffusa
comporta infatti il disporre non solo di leader ad altro livello ma di una struttura composta da leader
posizionati a tutti i livelli dell'organizzazione che animi e orienti capillarmente le persone che
operano nei luoghi dove la responsabilità viene esercitata. La funzione di conduzione troverà minori
ostacoli in presenza sia di modelli organizzativi e direzionali più avanzati sia di una migliore
assegnazione del personale alle varie posizioni organizzative. Il ruolo di chi dirige, infatti,
dev’essere non solo quello di creare la massima coesione e il più elevato spirito di corpo nei gruppi
di lavoro, ma anche di valorizzare al meglio le risorse umane a disposizione. Nell’impresa, i
problemi della leadership, del lavoro di gruppo, dell’identificazione delle risorse con
l’organizzazione, saranno attenuati dalla più razionale e corretta utilizzazione del fattore umano,
cioè dalla ricerca della maggiore omogeneità possibile tra caratteristiche del lavoro e dei lavoratori.