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Sfiguramento e trasfigurazione. Un apporto teologico per comprendere la


«Body Art»?
di M. Benedetta Selene Zorzi (2 marzo 2009)

Alcune delle immagini illustrative di questo articolo possono urtare la sensibilità. Di esse sono stati inseriti i
collegamenti in modo che le possano visionare solo coloro che lo desiderano.

1. Sfiguramento e trasfigurazione: la deformità del Messia crocifisso nella riflessione cristiana dei
primi secoli
Che aspetto aveva Gesù? Era affascinante? Aveva occhi magnetici, come qualcuno sarebbe disposto ad affermare
in base a Lc 11, 27?[1] Aveva forse i capelli corti come ce lo mostra il Vangelo secondo Matteo di P.P. Pasolini? O
era bello e con gli occhi azzurri come il Gesù di F. Zeffirelli? Forse non tutti, ma certo la curiosità credente e
amante prima o poi si spinge a questa indiscrezione sull'umanità di Gesù chiedendosi che aspetto abbia mai avuto
Gesù di Nazareth. Ma deve arrendersi al fatto che non lo possiamo sapere. I vangeli canonici non ci dicono nulla
sull'aspetto di Gesù, tanto meno gli apocrifi e nemmeno abbiamo raffigurazioni artistiche di Gesù prima del IV
secolo (eccetto le raffigurazioni prese in prestito da antichi modelli pagani: Gesù pastore, Gesù-Orfeo, Cristo-Elios,
Gesù filosofo o taumaturgo...).[2]

Ovviamente anche i primi cristiani si sono posti questa domanda, ma quando ormai era troppo tardi per
recuperare qualche informazione a riguardo.[3] La tradizione giudaica del resto aveva vietato nel decalogo di farsi
immagini destinate ad essere adorate come divinità (Es 20, 4; Lv 26, 1; Dt 6, 13ss; Sal 96).[4]
Ad un certo punto però la questione dell'aspetto di Gesù diventa teologicamente importante. Perché se il corpo
che Cristo ha assunto è vero, e non apparente, allora sapere qualcosa del suo aspetto corporeo diventa
significativo: vuole dire prendere sul serio l'incarnazione. Secondo un assioma filosofico antico Dio non può
nascere e non può patire, la divinità è impassibile. Per gli gnostici il Cristo divino si è quindi incarnato in una
carne finta, apparente (docetismo).[5] In questo ambito emerge una tradizione che parla di vari aspetti della figura
di Gesù, della sua bellezza o bruttezza, perché appunto la sua carne era un'apparenza. All'interno di questo
universo doceta c'è un'implicita identificazione tra divinità, spirito, bontà e bellezza da una parte e materia, corpo,
male, bruttezza dall'altra. Benché certi testi gnostici siano i primi a trattare della bellezza di Gesù, il riferimento
alla bellezza di Cristo non riguarda il Gesù storico, corporeo, ma la sua forma gloriosa di risorto, la forma Dei. La
bruttezza di Gesù viene invece spiegata come un «inganno» del Salvatore divino:

... perché ti assimili a Dio tuo Signore che nascose la sua maestà, apparve in un corpo e noi, vedendolo, credemmo che
fosse mortale, ma poi egli si voltò e ci precipitò nell'abisso. Noi non lo conoscevamo avendoci egli ingannato con il suo
aspetto umile (te morphe autou dyseidestates), con la sua indigenza e povertà. Al vederlo pensammo che fosse uno dei
figli degli uomini, ignorammo che egli era il datore di vita di tutta l'umanità... (Atti di Tommaso, 45).

Il Cristo ha nascosto la sua splendente divinità dietro un aspetto umano misero. Nel contesto dualista in cui lo
spirito è bene, e la materia è male -- in quanto opera del demiurgo -- destinata alla perdizione, il brutto è l'aspetto
peggiore della materia. Nel brutto quindi non c'è possibilità di rimando al vero, al divino, alla bellezza. La
bruttezza è un falso, un inganno. Il brutto non ha possibilità di salvezza, perché non ha alcuna funzione
rimandante. Laddove tra corpo e spirito non viene concepita alcune connessione, come nello gnosticismo, il brutto
è una scheggia impazzita di un mondo lasciato a se stesso. Insomma, se può avvenire che la bruttezza rilanci verso
una ricerca del Bello e del Vero, vuol dire che alla corporeità (anche quella brutta!) viene riconosciuto
implicitamente un valore positivo (come laddove si suppone un Creatore buono).
I testi biblici che gli autori cristiani antichi fondamentalmente citano per risalire all'aspetto di Gesù sono, oltre
all'episodio evangelico della Trasfigurazione, due testi dell'AT: il Sal 44, «Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo /
sulle tue labbra è diffusa la grazia», e Is 53, 2, che dice: «non ha bellezza né apparenza da attirare i nostri sguardi,
non splendore per provare in lui diletto». Questi due testi presuppongono l'applicazione a Gesù della messianicità.
Is 53 in particolare fu determinante perché i discepoli potessero comprendere come un messia 'senza gloria'
rientrasse nell'economia divina e fosse stato anche preannunciato. In seguito tale testo divenne decisivo anche per
risalire all'aspetto corporeo di Gesù, tanto da avviare una vera e propria tradizione di Gesù brutto.[6] I primi a
rivendicare una positività della bruttezza di Gesù sono Ireneo e Tertulliano[7] che contro gli gnostici rivendicano la
totale umanità della carne di Cristo tanto che... «era brutto», «non aveva niente di straordinario»:

Tutti questi indizi di un'origine terrena esistettero anche in Cristo, e queste sono quelle proprietà che hanno tenuto
nascosto il Figlio di Dio, considerato solamente uomo non per altro motivo se non perché consisteva di una umana
sostanza nel suo corpo. Altrimenti mostratemi in Lui qualcosa di celeste... tutto quello che abbiamo enumerato è
testimonianza di una carne terrena non diversa dalla nostra... Infatti solamente delle parole e delle azioni, solamente
della dottrina e della potenza di Cristo, che era uomo, i giudei si stupivano; sarebbe stata notata anche la novità della
carne, se in Lui ci fosse stata, e considerata una cosa straordinaria. Ma questa non straordinaria condizione della
carne terrena (sed carnis terrenae non mira condicio ipsa erat) era proprio quella che rendeva mirabili tutte le altre
cose che Cristo faceva, quando ad esempio dicevano: 'donde viene a costui questa dottrina e questi miracoli? '. Queste
erano le parole di coloro che anche disprezzavano il suo aspetto (despicientium formam eius): a tal punto il suo corpo
non era dotato di una particolare dignità umana, figurarsi se era dotata di uno splendore celeste (adeo nec humanae
honestatis corpus fuit, nedum caelestis claritatis). Dal momento che anche presso di voi non hanno voce i profeti che
parlano del suo ignobile aspetto (de ignobili aspectu), ne parlano le stesse passioni che ha subito e le stesse offese che
ha ricevuto: le passioni hanno dimostrato che la sua carne era umana, le offese hanno mostrato che essa non era
nobile. O forse uno avrebbe osato sfiorare col sommo dell'unghia un corpo mai visto, uno avrebbe osato contaminare di
sputi la sua faccia, se non fosse sembrato che essa lo meritava? Perché definisci celeste una carne, che non hai motivo
di intendere celeste, perché neghi che sia terrena quella carne che sai in base a che cosa tu devi riconoscere terrena?
Ha fame in presenza del diavolo, ha sete in presenza della Samaritana, si duole sopra Lazzaro, trepida vicino alla morte
(ché la carne è debole) e alla fine effonde il suo sangue: sono questi, davvero, i segni di una carne celeste! Ma come, io
dico, avrebbe potuto essere disprezzato e aver patito così come ha anche detto, se da quella sua carne si fosse irradiato
qualcosa di una celeste nobiltà (si quid ex illa carne de caelesti generositate radiasset)? In questo modo, quindi, noi
dimostriamo che in quella carne non ci fu niente che provenisse dal cielo, proprio perché potesse essere disprezzata e
potesse patire (Ca Chr. IX, 4-8 = SCh 219, 248-254).

Qui però questi due aspetti sono riferiti alla sua condizione rispettivamente umana e divina e sono affermazioni
soteriologiche: un aspetto si riferisce alla sua venuta nella carne (nella bruttezza) e l'altro quando egli tornerà nella
gloria. Is 53 è applicato a Gesù sulla Croce mentre il Sal 44 al suo ritorno nella gloria:

Noi sosteniamo che due aspetti (habitus) di Cristo furono mostrati dai profeti e preannunciavano altrettanti avventi
suoi: l'uno nell'umiltà (evidentemente il primo), quando come una pecora doveva essere condotto al sacrificio e come
un agnello senza voce davanti a chi lo tosa, così non aprendo bocca, onorevole neppure a vedersi. «Annunziammo di lui
-- dice la scrittura -- come un fanciullo, come una radice in una terra assetata, e non vi è in lui né bellezza né gloria
(species neque decorem), ma il suo aspetto (species) era disonorevole (inhonorata), inferiore (deficiens) a quello dei
figli dell'uomo, uomo sotto i colpi, e che sa sopportare la sua debolezza», s'intende, in quanto posto dal Padre come
pietra d'inciampo, fatto dal Padre un po' più piccolo degli angeli (modicum citra angelos), mentre si nominava verme e
non uomo, ignominia d'uomo e disprezzo del popolo. Queste testimonianze di miseria (ignobilitatis) competono al suo
primo avvento, così come quelle di sublimità (sublimitatis) competono al secondo...[8]

Sembra sia Giustino[9] il primo ad applicare la profezia di Is proprio all'aspetto storico di Gesù: «Giunse dunque al
Giordano Gesù, che era ritenuto figlio del carpentiere Giuseppe. Era brutto di aspetto (aeidous), come avevano
annunciato le Scritture...»[10] (Dial. 88, 8). Lo stesso elemento della bruttezza, entrando in contesti culturali e
metafisiche diverse, assume diversi significati. Clemente[11] è molto platonizzante: la bellezza sensibile che
partecipa quale lontana ombra di quella vera e ultrasensibile, rischia di fermare a se stessa e di non rimandare alla
Bellezza invisibile del Creatore stesso di questa bellezza sensibile. L'esteriorità è legata al sensibile e quindi al
transitorio: è l'interiorità il vero luogo della virtù e della sapienza. Insomma Gesù era brutto perché sennò ci
saremmo distratti!

Ecco che il Signore volle assumere un corpo di forme meschine (somatos morphe) non invano, ma allo scopo che
nessuno, apprezzando l'aspetto avvenente (oraion epainon), ammirando la bellezza fisica (tou kallos thaumazon), si
distogliesse dalle sue parole e restasse escluso dalle realtà intelligibili (noeton) solo per aver posto attenzione alle cose
che poi vanno lasciate [su questa terra]» (Str. 6, 17, 151, 3 = SCh 446, 364).
Mentre Egli stesso, il 'capo della chiesa', venne sulla terra nella carne, benché 'brutto (aeides) e malformato nell'aspetto
(amorphos)', insegnandoci così a volgere lo sguardo alla natura invisibile (aeides) e incorporea (asomaton) della
Causa divina (theias aitias) (Str. 3, 17, 103, 3).

Sappiamo che Celso[12], filosofo pagano del II sec., scagliò un duro attacco all'incarnazione di Cristo proprio sulla
base del testo di Is 53. Di qui ricaviamo che la tradizione di un Gesù brutto era ben radicata. L'attacco a livello
filosofico è rigoroso: Se Gesù era Dio, il suo corpo doveva essere particolarmente straordinario e bello, munito di
caratteristiche portentose, invece era perfino brutto!

Dal momento che uno spirito divino era in un corpo, esso avrebbe dovuto superare completamente gli altri corpi in
grandezza, bellezza, vigore, voce, sublimità o persuasione. Infatti è impossibile che un corpo in cui si trovava qualcosa
di più divino degli altri non fosse per niente differente da un altro. Questo invece non era per niente differente da un
altro, ma, come dicono, era piccolo, deforme e ignobile (mikron kai dyseides kai agennes) (CC VI, 75).

La metafisica di Celso presuppone infatti una continuità tra mondo divino e mondo sensibile, dunque tra bellezza
divina e bellezza fisica, ed è chiaro che si pretende dalla materia la trasparenza della vera bellezza, senza iato. A
Celso risponderà Origene[13] con una delle dottrine più delicate della sua cristologia. Si tratta della cosiddetta
cristologia polimorfa,[14] che emergere e si sviluppa proprio dalla connessione tra le affermazioni di Is 53, Sal 44 e
quelle circa la trasfigurazione. Origene riprende gli gnostici che parlavano di varie forme del Logos, ma su due
punti prende le distanze:

1. A livello antropologico non è determinista come gli gnostici, cioè non ammette le «nature». Le persone non
sono divise o destinate alla salvezza «per natura» (perché hanno o non la scintilla divina), ma si distinguono
tra loro per progresso spirituale:

Per quelli che erano ancora in basso e non erano ancora preparati a salire, il Logos 'non aveva forma né bellezza'.
Per uomini del genere 'il suo aspetto è disonorevole e inferiore'... tuttavia per quelli che hanno ricevuto, grazie al
fatto di andargli dietro, un potere per seguirlo anche quando sale 'verso un monte elevato', Gesù ha una forma
più divina (CC VI, 77, 19-26; 32-35).

2. Dall'altra in relazione ad una idea diffusa secondo la quale la manna si adattava ad ogni gusto, Origene dice
che il Logos per condiscendenza si adatta al livello in cui l'uomo è, alla capacità dello sguardo di ciascuno. Il
corpo di Gesù è stato straordinario, ma non come pensa Celso. Gesù in quanto Dio poteva imprimere
modificazioni al corpo che aveva assunto, come il Creatore alla materia:

La superiorità del suo corpo era in relazione alla capacità di quelli che lo vedevano e per questo si rivelava come
doveva essere guardata da ciascuno. E non è sorprendente che la materia, la quale per natura può cambiarsi,
alterarsi, mutarsi in tutto ciò che vuole il Creatore e può accogliere ogni qualità che il suo artefice desidera,
possieda ora una qualità in conformità alla quale viene detto: 'Non aveva forma, né bellezza', ora invece una
qualità così gloriosa, impressionante e sorprendente, che gli spettatori di siffatta bellezza, i tre apostoli che
andavano insieme a Gesù, caddero 'con la faccia a terra'? (CC VI, 77, 4-13).

Le varie epinoiai del Logos quindi trovano corrispondenza con le varie forme del corpo di Gesù:

Infatti esistono, se così possiamo dire, varie forme del Logos, allorché il Logos appare a ciascuno di quelli che
sono condotti verso la scienza della nostra dottrina in relazione alla condizione di chi è appena introdotto in essa,
o è progredito un po' o molto, o è ormai vicino alla virtù, o vi è già pervenuto. (CC IV, 16, 1ss).

«Gesù non appariva sempre lo stesso» (CC II, 64), ma appunto bello o brutto in relazione al progresso
spirituale e alle diverse tappe del cammino del credente:

Il Logos ha in realtà diverse forme e a ciascuno si manifesta in modo proporzionato a chi vede, a nessuno appare
al di là delle sue capacità (CMt XII, 36, 57-61).

La sua bruttezza è una condiscendenza: farsi simile a loro per farli simili a lui [6. 4]:

Ma egli verrà anche nella gloria, dopo aver preparato i discepoli con la sua venuta senza apparenza e senza
bellezza, facendosi come loro per farli diventare come lui, conformi all'immagine della sua gloria, essendo prima
lui diventato conforme al corpo della nostra umiliazione, quando spogliò se stesso assumendo la condizione di
servo, si ristabilì nella condizione divina e ve li rese conformi (CMt XII, 29 = GCS 40, 133).

Egli diventa perfino una facoltà per ogni singolo senso spirituale:

Per ogni singolo senso Cristo diventa una singola facoltà. Infatti egli è detto vera luce, perché gli occhi
dell'anima abbiano di che vedere; è detto parola, perché le orecchie abbiano di che udire; è detto pane di vita,
perché il gusto dell'anima abbia di che gustare. Analogamente è detto profumo e nardo perché l'odorato
dell'anima percepisca la fragranza del Verbo. Perciò di lui si dice che è palpabile e che può essere toccato con
mano e che il Verbo è diventato carne, perché la mano dell'anima interiore possa toccare la parola di vita. Ma
tutte queste facoltà sono il solo e lo stesso Verbo di Dio, che trasformandosi per loro mezzo in grazia degli affetti
della preghiera non lascia alcun senso dell'anima privo della sua grazia (CCt 178-179).

Gesù viene visto «senza forma né bellezza», dai semplici, ma dai discepoli più progrediti viene visto nel suo
splendore, nella sua bellezza.

Agostino sovrapporrà completamente i due testi e dirà che Gesù è bello perfino sulla croce perché manifesta la
bellezza di un amore che dona tutto se stesso per la salvezza dell'umanità:

Bello è Dio, Verbo presso Dio [...] È bello in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori, bello nei
miracoli, bello nei supplizi; bello nell'invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte; bello nell'abbandonare la vita
e bello nel riprenderla; bello nella Croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo. Ascoltate il cantico con intelligenza, e la
debolezza della carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza (En. in Ps. 44, 3).

Richiamiamo brevemente i punti che hanno permesso ai primi Padri della chiesa di rivendicare una certa
positività della bruttezza di Gesù, aprendo il varco alla riabilitazione del brutto nell'arte occidentale. Anzitutto vi è
la sostanziale fede nella bontà della creazione, la quale benché -- a differenza della metafisica pagana -- preveda
uno iato tra Creatore e creatura, permette un implicito riconoscimento della bontà di «ogni» manifestazione
creaturale, foss'anche quella brutta e sfigurata dal peccato. In secondo luogo, se Dio deve mostrarsi all'uomo
peccatore, il quale -- direbbe Platone -- ha organi deboli per vedere le realtà divine, deve adattarsi a lui. Per la
condizione divina di Cristo quindi ciò ha implicato -- come dice Fil 2, 6-11, una «kenosi», una inaudita riduzione.
Di qui prenderà corpo, in campo latino, l'idea di una deformitas come deiformitas. Laddove infatti c'è in una
qualche forma di collegamento tra corpo e idea, materia e senso, anche il brutto ha un suo senso.
Le primissime raffigurazioni del crocifisso dei primi secoli mostrano un Gesù sulla croce impassibile, senza i segni
della sofferenza.[15]

La croce costantiniana come crux invicta sarà separata dal corpo di Gesù sofferente, che invece si farà largo
nell'arte molto più tardi, con il Christus patiens stranamente riscoperto dall'arte del Novecento.

Un apporto teologico per comprendere la «Body Art»?


Il Novecento ha creato un netto strappo rispetto ai criteri di bellezza precedenti. La risposta alla famosa domanda
di Dostoevskij ne I Fratelli Karamazov: «Quale bellezza salverà il mondo?», è che solo la bellezza che prende sul
serio le atrocità della storia e lo sfiguramento dell'uomo può salvare.[16] Oltre al crollo della metafisica e di un
orizzonte univoco, il Novecento ha decretato con Nietzsche la morte di Dio: prima l'uomo si comprendeva e si
cercava a partire da Dio che era l'orizzonte come il Tu. L'uomo contemporaneo ha escluso questo orizzonte
iniziando un processo di ricerca di sé a partire da sé, un sé infinitamente profondo e abitato da mostri (S. Freud
scopre l'inconscio e i «mostri» che ciascuno di noi si porta dentro.[17]
Cambiano così anche i canoni estetici. Il Novecento pittorico inizia con le Demoiselles d'Avignon di P. Picasso
1907 e l'Urlo di Munch.[18]

L'estetica contemporanea esprime la lacerazione, il dolore, il dramma tra l'uomo e se stesso. Morto Dio, il corpo,
come sbloccato, riaffiora e perde il suo carattere misterico; diventa territorio di esplorazione, sperimentazione,
quasi a sondarne le profondità per farne uscire il mistero. «Nei primi anni 70 l'arte accetta la sfida dell'azione e del
corpo e comincia l'esplorazione di questo ultimo sacro avamposto della condizione umana.»[19]
La Body Art (di seguito BA) è una corrente artistica diffusasi negli anni Sessanta in cui l'opera è costituita dal
corpo umano esposto, spesso quello proprio dell'artista. Si tratta di un'arte performativa anche come richiesta di
una partecipazione attiva del pubblico; ma anche un'arte-denuncia che contesta la società borghese, il
consumismo che anestetizza e fa del corpo una merce.
C'è da notare una doppia relazione della BA allo sfiguramento di Gesù sulla Croce. Da una parte la crocifissione di
Cristo è per questi artisti un cult, un mito.[20] Non c'è autore che in qualche modo non vi alluda e non la riproduca,
anche se spesso in forme oltraggiose o dissacranti. Dall'altra la crocifissione di Cristo è capace di aprire l'orizzonte
alla comprensione profonda dello spirito di questa arte. L'arte infatti è sintomo di un'epoca e ne coglie i misteri più
intimi: esplicita il profondo, inconscio, inesplicitato sentito di una cultura.
Solo per dare un'idea guardiamo brevemente alcuni autori.[21]

Gina Pane (1939- 1990): un'artista che decise di rischiare la vita ad ogni sua esibizione. Le sue performance
volevano rappresentare il dolore interno, psichico, all'esterno: così o si tagliava la pelle, le orecchie o la
lingua con delle lamette, si conficcava le spine di rosa per esprimere l'angoscia di un amore doloroso. Mette
in scena il dolore fisico come metafora del disagio dell'uomo contemporaneo, un dolore privo di senso che
dice il disorientamento dell'uomo contemporaneo.[22]

Dice Arnulf Rainer (1929): «sono andato alla ricerca dei miei confini, dei miei contorni... ma ho trovato
soltanto che mi potevo espandere infinitamente per ogni verso»;[23]

Rudolf Swarzkogler (1940-1969): si avvolgeva in fasce bianche come una mummia; come a scandagliare la
linea di confine tra vita/morte, dissanguava e mutilava il suo corpo, quasi corpo sacrificale; morì suicida in
seguito ad una dieta dimagrante.
[Immagine] [Immagine]
Andrea Serrano (1950) espone il corpo senza nessuna mediazione; un corpo inteso come involucro; entra in
obitori e ritrae i cadaveri spogliandoli da ogni identità.
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Mona Hatoum (1952) esplora il suo corpo con sonde e amplificatori acustici introdotti in tutti gli orifizi. Ne
produce video che interagiscono con gli spettatori.
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La globalizzazione mette in crisi le coordinate del mondo e i limiti del corpo: emergono nuovi linguaggi come
estrema forma di comunicazione che denunciano le solitudini nel mondo globalizzato: tatuaggi, piercing, scaring,
branding. La pelle diventa importante come limite (apertura/limitazione) dell'io, superficie. Il taglio diventa un
modo per ridefinire se stessi, per denunciare che non si è solo superficie: «mi tagliavo per sentirmi viva», dice
Veronica, una delle ragazze che uccisero la suora a Chiavenna in un'intervista rilasciata alla rivista Panorama.[24]
Un fenomeno di massa è quello dei cutters: provocarsi dolore per arrivare forse a capire dove sono i confini dell'io.
Col Piercing si sfida il tabù di una carne intesa come sacra; nei Tatuaggi la pelle viene intesa come schermo e
dunque si fa luogo di un messaggio. Tali pratiche, incluse quelle sadomasochiste, invadono il mondo dell'arte,
trovando riferimenti colti e precedenti famosi nella Body Art estrema degli anni Settanta.

Ron Athey (1961) vuole provare tutte le possibilità di conoscenza del proprio corpo: si infila di tutto
dappertutto (meglio evitare le immagini più crude): aghi da calza nella fronte come una corona di spine.
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Si tratta ancora di arte o solo di un abuso ingiustificato del proprio corpo?
Franko B. (1960) si presenta nudo in scena , dipinto di bianco e grondante del suo sangue che sgorga da
siringhe e cateteri: «mi ferisco il corpo per sentirmi libero», dice. Intende così liberare il corpo paralizzato
dai rapporti sociali. Ci si chiede se la liberazione del proprio sangue sia davvero la forma della propria
libertà.
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L'identità non appare più né consegnata né ricevuta e diventa oggetto di ipotesi,[25] anzi un sistema aperto:
Michael Jackson e David Bowie trapassano di genere (femminile-maschile) e di etnia.

Orlan (1947) nel 1990 inaugura la cosiddetta Arte Carnale: «Il mio corpo è la mia opera», dice. Un corpo che
ella plasma utilizzando la chirurgia plastica in modo che esso possa evolvere con la sua evoluzione
psicologica.

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Un corpo inteso come un territorio da esplorare; qui va ricordata la bella frase finale di un film:

... Moriamo, moriamo ricchi di amanti e di tribù, di gusti che abbiamo inghiottito, di corpi che abbiamo
penetrato, risalendoli come fiumi, di paure in cui ci siamo nascosti come in questa caverna stregata senza
memoria. Qualunquismo. Indifferenza. Mediazioni e ripensamenti. Voglio che tutto ciò resti inciso sul mio corpo.
Siamo noi i veri paesi non le frontiere tracciate sulle mappe con i nomi di uomini potenti.[26]

«Orlan spinge l'infinito negli squarci sanguinosi del corpo», dice FAM. Ma l'esperienza all'infinito non è
propriamente l'esperienza di infinito. Questa continua uscita da sé «a che porta» (o frate, l'andar su che
porta?, Dante, Commedia, Purg., IV, 127)? L'uscita da sé ha senso se avviene un incontro con un'alterità che
si consegna a me. Qui invece l'immagine (come in A. Warhol) ha perso il referente, senza che il corpo possa
disilludere il limite della morte.[27]

Il Novecento riscopre la figura medievale del Christus patiens.[28] Ma la crocifissione di Cristo nella BA
spesso è banalizzata.
La risurrezione in Emergence 2002 di Bill Viola (cfr. Masolino e Bellini) è descritta come una deposizione:
un battesimo senza risurrezione! La morte torna alla morte. Il Risorto risorge morto. Non a caso il titolo non
è Resurrection ma Emegence: emerge... un morto.

[Video]
Il percorso di B. Viola porta dall'io all'io, come i percorsi della contemporaneità.[29] Nella recente mostra
romana, la collezione The Passions descrive il dolore come semplicemente collegato alla gioia quasi per un
flusso continuo. I due volti speculari drammaticamente divisi dai generi, ma anche dalla loro solitudine e dal
loro dolore, si volgono l'uno verso l'altro, ma non c'è mai incontro; uomo e donna non si incontrano mai; si
specchiano forse, sono speculari, ma è il mito di Narciso[30] a ridarli a se stessi e quindi a lasciarli nella loro
vuota tristezza nella ricerca di un senso.

La croce si fa motivo di denuncia dei vari sfiguramenti contemporanei (Beecroft). L'arte infatti non può
scordarsi della vera sofferenza. Ma indubbiamente l'interpretazione resta molto superficiale.

Serrano fa bellissimi crocifissi ma realizzati con tecniche che sanno dell'oltraggio: Piss Christ (1989); Blood
cross (1985).

Hermann Nitsch (1938) dal 1958 realizza un «teatro delle orge e dei misteri», una sorta di happening di sei
giorni: simula una crocefissione di un personaggio che viene cosparso del sangue di animali. Scopo delle sue
azioni è l'impatto shockante, così da «coinvolgere totalmente i partecipanti». Ma anche qui la
catarsi/redenzione non supera i confini della morte.
[Immagine] [Immagine]
Come non ricordare qui il film The Passion di M. Gibson? C'è chi ha tentato di delineare il volto di un'epoca a
seconda del modo in cui si è rappresentato Cristo (P.P. Pasolini epoca della rivolta/contestazione; M. Gibson
epoca della violenza). La crudeltà appare evidentemente una chiave di lettura dell'attualità.
[Immagine]
Cerchiamo ora di leggere alla luce della «bruttezza» di Gesù sulla croce i sintomi di questa arte. Sembra che il
corpo messo in scena come mero pezzo di carne assediato dalla morte (Zhang Huan, 1965; Bacon, 1909-1992) non
ha ancora consegnato all'arte il proprio mistero.[31]

[Immagine]
Questo bucare la pelle-superficie indica un desiderio di andare oltre (come in un quadro di L. Fontana) perché pur
entrando dentro il corpo con ogni sorta di sonde o penetrazioni non se ne scova il mistero.

Lo shock che la BA vuole provocare intende stimolare una riscoperta delle relazioni più autentiche contro un
mondo che le riduce al profitto. L'aggressività del resto è un'altra forma di delusione affettiva. In questa ricerca di
sé a partire da sé, l'uomo contemporaneo trova uno scacco: l'io torna all'identico della morte senza «oltraggiarla»
(nel senso di Dante).[32] Scrive E. Montale «Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!»
(In Limine).
Tutto sommato il mondo occidentale contemporaneo è affetto da uno strisciante nuovo ultra-gnosticismo. Mentre
gli gnostici separavano la materia dallo spirito fiduciosi di trovare almeno il divino, nell'ultragnosticismo attuale il
percorso arriva ad un binario morto: si dispera perfino che tale separazione netta tra porti oltre. Il corpo staccato
da una trascendenza, che si suppone assente, non conduce oltre nulla e a nulla. Di qui il bisogno di crudeltà che
tradisce il desiderio, magari deluso, di un intimo rapporto tra corpo e spirito, o il tentativo di andare oltre il corpo
stesso (anche nell'arte cyber). C'è come sconcerto nel constatare che questo corpo sia solo un pezzo di carne,
perché fondamentalmente si spera che esso sia più profondo e qualcosa di più complesso della sua semplice
superficie. In queste performance che lo porta ai limiti delle sue possibilità, non si sta forse chiedendo al corpo di
superare il suo massimo limite costituito dalla morte, nella speranza che le ferite possano essere guarite
(diventando cicatrici), che l'uscita da sé incontri un'alterità, che l'espressione dell'io trovi il riconoscimento di un
altro, che il dolore possa essere attraversato, che l'io anche più sfigurato sia abbracciato? Insomma attraverso
cicatrici e tagli questi artisti sembrano urlare la nostalgia che il corpo trasudi e riveli il mistero di una sua
trascendenza.
D'altra parte si è voluto mostrare che solo una prospettiva che suppone uno stretto legame tra corpo, anima e
spirito (quale quella teologica che suppone i dati dell'Incarnazione e della Risurrezione) può leggere oltre, scovare
profondità e senso ad ogni bruttezza e sfiguramento, tra i quali qualcuno sarebbe disposto a mettere le opere della
BA, e che altre prospettive interpreterebbero come privi di senso.

Conclusione
Gli asceti e i mistici medievali operavano anche loro spesso dolorosamente sul proprio corpo. Tali performances
erano motivate dalla ricerca di una relazione con un'alterità personale e trascendente, quella di Dio. Se il Cristo
brutto, sofferente, è il luogo in cui la BA trova il suo punto di fuga, non è forse perché la deformitas di Cristo dice
la forma di Dio come via discensiva, kenotica? In un'epifania rovesciata, l'esodo di Dio verso l'uomo. Allora la
deformità esibita dalla BA va letto come un inconfessato desiderio di una dei-formitas:

La carne di Cristo infatti è quell'inter che costituisce la soglia, il luogo di trapasso tra Dio e uomo, in essa soltanto
l'essere divino ri-velandosi quale viscerale inter-esse per l'uomo, e viceversa l'essere umano quale viscerale inter-esse
per Dio: nella carne trafitta del crocifisso si compie infatti la trasgressione dei propri limiti da parte della natura divina
al fine di farsi una con quella umana, così come attraverso la compunzione, la trafittura del cuore conseguente alla
contemplazione delle ferite del trafitto, la trasgressione dei limiti della natura divina si fa carne nella carne di ogni
uomo, che a sua volta desidera allora diventare anch'egli carne trafitta al fine di poter così trasgredire i limiti della
propria natura e unirsi al proprio Dio. La carne di Cristo è quella soglia, quel limite in cui il logos si fa carne e la carne
logos, la separazione unione e l'unione generazione, al parole silenzio e il silenzio preghiera: quel limite e quella soglia
in cui si realizza quel fertile cortocircuito di logica e/o mistica in cui consiste il mistero del dire, come pure del vivere e
del pensare.[33]

L'Ascensione di Bill Viola è un tuffo e immersione in greco si diceva baptismós.

Il battesimo dei cristiani è l'immergersi nella morte di Cristo per poter risorgere, risalire con lui ad una vita nuova.
Il corpo nel tuffo di Viola (riprodotto virtualmente al contrario) invece scompare. Non c'è una vera e propria ri-
generazione o trasfigurazione. Non c'è attraversamento e superamento della morte, ma il virtuale gioco del
processo (rewind), reso possibile dalle nuove realtà virtuali, che non elude però la realtà della morte, né la
trasforma (come non la risolvono il ridiventare giovani del film Vecchio per diventare giovane o il mito del non
invecchiare dal Ritratto di Dorian Gray alle chirurgie plastiche odierne). Ma non è questa l'«esclusiva» che il
cristianesimo aggiunge in bellezza e senso a tutte le altre forme di ricerca di salute, progresso, passaggio,
maturazione, iniziazione: l'incontro vero con un Altro, che non schiaccia l'uomo, ma lo fa fiorire perché lo chiama
ad una relazione in cui solo l'io trova senso e crescita? Il nucleo radicale della teologia cristiana non separa anima
e corpo, anzi prende così sul serio entrambi da annunciare il fatto di una resurrezione possibile per tutti, perché
già avvenuta storicamente in un uomo. Qui la gioia non è il contrario del dolore, ma della tristezza, perché la gioia
può invece esplodere inaspettata anche dal dolore più profondo. La croce trasforma le ferite in sorgenti di energia.
Su questo punto si innesta l'impegno etico dell'estetica. È vero: l'unica arte possibile è quella che trasforma il reale
(performance), ma se ciascuno di noi in fondo non può che trasformare il territorio della propria persona, la vita
può diventare un'opera d'arte in quel processo continuo di plasmazione della nostra identità aperta verso-ad
immagine di Dio. E l'immagine di Dio non è Adamo, ma Gesù Cristo (1Cor 15, 45: «il primo uomo, Adamo,
divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita»). Egli «è morto per tutti, perché
quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5, 15).

E Dio che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della bellezza
divina che rifulge sul volto di Cristo (2 Cor 4, 6).
[Il testo è tratto dall'intervento tenuto il 29 aprile 2008 all'Università La Sapienza di Roma, nell'ambito delle
conferenze del Dipartimento di Studi storico-religiosi Neg/Otia Nostra sul tema: Il volto di Cristo tra arte e
letteratura]

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1. L'esclamazione ammirata della donna in Lc 11,27 («Mentre diceva questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla
e disse: 'Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!'), spesso riportata come un apprezzamento
dell'avvenenza di Gesù (cfr. V. Bertone, «Una ricerca interdisciplinare», in: Aa. Vv., Il volto dei volti. Cristo, Istituto
Internazionale Ricerche volto di Cristo, Gorle 1997, 16) non è chiara in questo senso; né la frequenza con cui gli
evangelisti pongono rilievo sullo sguardo o sugli occhi di Gesù rivelerebbe nulla del fascino dei suoi occhi, essendo
piuttosto un elemento teologico (JHWH che «vede» e «guarda», quindi si muove a pietà e interviene per salvare:
cfr. Gen 1; Es 3,4; Dt 26,7; Gio 3,10; Sal 33,13; 14,2; 53,3; 113,6 etc.). Per un dettagliato resoconto sul significato
teologico della bruttezza di Gesù mi permetto di rimandare al capitolo «Un messia senza bellezza: (quasi una) storia
dell'interpretazione patristica di Is 53,2-3 dalle origini a Celso» del mio Desiderio della Bellezza (eros tou kalou) da
Platone a Gregorio di Nissa. Tracce di una rifrazione teologico semantica, (Studia Anselmiana 145), Roma 2007,
269-292. [Testo]
2. Cfr. J. Kollwitz, Das Christusbild des dritten Jahrhunderts, Münster 1953, 5; cfr. anche W. Bauer, Das Leben Jesu
im Zeitalter der neutestamentlichen Apokryphen, Tübingen 1909, 311; A. Grabar, L'arte paleocristiana (200-395),
Milano 1967 (tit. or.: La premier art chrétien [200-395], Paris 1966), 286 menziona erroneamente la Vita di
Alessando Severo che tuttavia è un falso risalente al IV secolo. [Testo]
3. Cfr. A. Grillmeier, Der Logos am Kreuz. Zur christologischen Symbolik der älteren Kreuzigungsdarstellung,
München 1956, 33-55, qui 40; A. Orbe, La teologia del Espiritu Santo, (Estudios Valentinianos 4 - Analecta
Gregoriana 158), Roma 1966, IV, 291-295. [Testo]
4. Cfr. J. Plazaola, Arte cristiana nel tempo. Storia e significato. I. Dall'antichità al medioevo, a cura di M.A. Crippa,
(Storia della Chiesa, A. Fliche - V. Martin edd., Nuova serie, a cura di E. Guerriero), Cinisello Balsamo 2001 (tit. or.:
Historia y sentido del Arte Cristiano, Madrid 1996), 38-44 che discute anche la tesi dell'aniconismo dei primi
secoli, ultimamente criticata, e soprattutto 100-108 con antologia di interessanti testi patristici (rilevanti quelli di
Eusebio di Cesarea ed Epifanio di Salamina) sul divieto di immagini di persone. [Testo]
5. Cfr. M. Simonetti, «La cristologia prenicena», in: E. dal Covolo (ed.), Storia della teologia. I: Dalle origini a
Bernardo di Chiaravalle, Bologna 1995, 147-177, qui 160. [Testo]
6. Cfr. J. Taubes, «La giustificazione del brutto nella tradizione cristiana delle origini», in : ID., Messianismo e
cultura. Saggi di politica, teologia e storia, a cura di E. Strimilli, Cernusco 2001, 255-281, qui 278-279. Grillmeier
dice che la tradizione del Gesù brutto restò nella pietà piuttosto impopolare e dovette ben presto essere riconciliata
con un'idea di bellezza di Gesù anche se nell'umiltà della passione e nella deformità della sofferenza (anche la
terminologia si sfuma), cfr. Logos, 47. [Testo]
7. Cfr. Zorzi, Desiderio della bellezza, 280-284. [Testo]
8. Ma si veda tutto Adv. Iud. 14. [Testo]
9. Cfr. Zorzi, Desiderio della bellezza, 284-286. [Testo]
10. La fine del testo ricorda il testo di Metodio sull'interpretazione di Sal 2,7: «Veniva così ad affermare che per gli
uomini la sua nascita avrebbe avuto luogo a partire dal momento in cui avrebbero cominciato a conoscerlo...», Dial.
88,8. [Testo]
11. Cfr. Zorzi, Desiderio della bellezza, 286-291. [Testo]
12. Cfr. Zorzi, Desiderio della bellezza, 291-292. [Testo]
13. Cfr. Zorzi, Desiderio della bellezza, 295-319. [Testo]
14. Cfr. cfr. Ménard J.E., «Transfiguration et polymorphie chez Origène», in: J. Fontaine - C. Kannengiesser (éd.),
Epektasis. Mélanges patristiques offerts au Cardinal Jean Daniélou, Paris 1972, 367-372; J. McGuckin, «The
Changing Forms of Jesus», in: Origeniana Quarta : die Referate des 4. Internationalen Origeneskongresses
(Innsbruck, 2-6 September 1985), L. Lies (Hrsg.), Innsbruck - Wien 1987, 215-222; P. Foster, «Polymorphic
Christology: its Origins and Development in Early Christianity»: Journal of Theological Studies 58/1 (2007) 66-99.
[Testo]
15. La prima rappresentazione della crocifissione è scolpita in un bassorilievo d'avorio, ora al British Museum, cfr. M.
Gough, The Origins of Christian Art, London 1973, 130, ill. 117, proveniente dal sud della Gallia e secondo Gough di
poco precedente (400 ca.) rispetto al bassorilievo ligneo della crocifissione sulla formella della porta di S. Sabina a
Roma. A differenza di quest'ultima, il pannello d'avorio, che mette in scena anche l'impiccagione di Giuda ed è più
legata ai particolari del racconto dei vangeli, ha un'atmosfera in generale più cruenta e orribile rispetto al crocifisso
di S. Sabina (121, ill. 106), ma il Cristo sempre vi ha un aspetto sereno e trionfante. Gough dedica in generale grande
attenzione al sorgere della croce come simbolo cristiano. [Testo]
16. Cfr. C.M. Martini, «Quale bellezza salverà il mondo?». Lettera pastorale 1999-2000. [Testo]
17. Cfr. il film Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs1991) di J. Demme con J. Foster, S. Glenn, A.
Hopkins, in cui il cannibale (Hannibal!) è un intelligente psicologo e uomo raffinatissimo e il mostro è il vicino di
casa un po' impacciato. [Testo]
18. Cfr. A. Dall'Asta, «La bellezza della croce»: La civiltà cattolica 159 (2008) 457-470, qui 364; ID. «La ricerca
artistica contemporanea» 387. [Testo]
19. F. Alfano Miglietti (FAM), Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee,
Mondadori 2004, 121; cfr. anche Ead., Nessun tempo, nessun corpo ... - Arte, Azioni, Reazioni e Conversazioni,
Skira, Ginevra - Milano 2001. [Testo]
20. Cfr. FAM, Identità, 51, per esempio in Pierre et Gilles. [Testo]
21. Cfr. C. Caneva, «Il post-umano nell'arte», in I. Sanna (ed.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di
esistenza?, Studium, Roma 2005, 255-268. [Testo]
22. Cfr. Dall'Asta, «La bellezza della croce», 366; Id, «La ricerca artistica contemporanea», 393. [Testo]
23. Dall'Asta, «La ricerca artistica contemporanea», 391. [Testo]
24. Cfr. Panorama 3.4.2008. [Testo]
25. Cfr. A. Dall'Asta, «La ricerca artistica contemporanea»: La civiltà cattolica 156 (2005) 386-398, qui 387. [Testo]
26. Cfr. film Il paziente inglese, (The English Patient, 1996) regia di A. Minghella, con R. Fiennes, J. Binoche, W.
Dafoe. [Testo]
27. Cfr. Dall'Asta, «La ricerca artistica contemporanea», 389. [Testo]
28. Cfr. Dall'Asta, «La bellezza della croce», 470. [Testo]
29. Cfr. A. Dall'Asta, «La ricerca artistica contemporanea del corpo umano», in: R. Repole (ed.), Il corpo alla prova
dell'antropologia cristiana, Milano 2007. [Testo]
30. Cfr. A. Boatto, Narciso infranto. L'autoritratto moderno da Goua a Warhol, Laterza, Bari 1997. [Testo]
31. Cfr. Dall'Asta, «La ricerca artistica contemporanea», 397. [Testo]
32. Si pensi al film Into the Wild (2007) di S. Penn, in cui il protagonista (purtroppo tragicamente la storia vera di Ch.
McCandless) per trovare la sua identità e la sua libertà, fugge dal suo ambiente familiare che lo ha deluso, alla
ricerca di se stesso, e eludendo sistematicamente tutte le possibili relazioni (nuove) che il cammino gli offre - legami
in cui egli potrebbe davvero trovare la sua rinnovata libertà - compie un suicidio al dettaglio relazionalmente forse
ancora prima di morire avvelenato. [Testo]
33. M. Zupi, Incanto e incantesimo del dire. Logica e/o mistica nella filosofia del linguaggio di Platone (Cratilo e
Sofista) e Gregorio di Nissa (Contro Eunomio), (Studia Anselmiana 143), Roma 2007, 696. [Testo]

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