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alfonso stiglitz

L’invenzione del “sardo pellita”


Biografia di una ricerca

L’intervento analizza l’utilizzo del termine “sardo pellita” in funzione dei


modelli storici utilizzati nelle varie epoche, per giungere alla proposta di un
nuovo modello di lettura. Nel Novecento il problema della romanizzazione
viene inquadrato nel quadro più ampio della resistenza al colonialismo, con
Giovanni Lilliu precoce nel proporre un modello resistenziale. Oggi emerge la
necessità di un ulteriore passo avanti reso possibile dalle riflessioni di Edward
Said e dalla riscoperta di Antonio Gramsci. L’utilizzo di alcune categorie
gramsciane (egemonia, gruppi sociali subalterni, trasformazione molecolare
ecc.) sarà proposto come utile strumentario dello storico dell’antichità.

Parole chiave: sardo pellita, Gramsci, Said, subalterni, egemonia.

Il titolo gioca sul duplice significato del termine invenzione, quello attuale
di “atto di concepire e ideare con l’immaginazione” e quello etimologico di
“ritrovamento” 1. È in questa ambiguità del termine che si è persa, nel tem-
po, la possibilità di dare una risposta alla complessità e fluidità delle identità
della Sardegna antica. L’origine ideologica del termine “sardo pellita”, co-
niato in età romana, ha trasformato quei gruppi sociali che abitavano l’isola
in entità astratte, metafisiche, impedendo il loro ritrovamento concreto sul
terreno attraverso indagini scientifiche.

L’occhio dello straniero


La denominazione compare per la prima volta in Cicerone con un senso
negativo più che descrittivo: sordidissimae, vanissimae, levissimae genti ac

* Alfonso Stiglitz, Museo Civico di San Vero Milis.


1. I trenta anni dei Convegni L’Africa romana, nati nel 1983, coincidono con la pubblicazione
del libro curato da Eric Hobsbawm e Terence Ranger dal significativo titolo: The Invention of
Tradition (Hobsbawm, Ranger, eds., 1983). Il mio intervento vuole essere un omaggio a que-
sti due eventi, ancora oggi di stretta attualità e un ricordo di Eric Hobsbawm, scomparso nel 2012
e del suo, lui gallese, “innamoramento” per Nino, sardo, inteso come il nostro Antonio Gramsci.
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prope dicam pellitis testibus condonetur?2 Che l’uso fosse dichiaratamente
dispregiativo era manifesto, come sottolineato da Quintiliano: mastru-
cam, quod est sardum irridens Cicero ex industria dixit3. Più tardi, ma sem-
pre nella stessa ottica dell’osservatore colonialista esterno, Tito Livio uti-
lizza la denominazione per indicare qualcosa di più preciso, anche se non
meno dispregiativo, come sostituto di un etnico o, comunque, del nome, a
lui ignoto, di una comunità abitante in un qualche luogo al di fuori di Cor-
nus: Hampsicora tum forte profectus erat in Pellitos Sardos ad iuventutem
armandam4. Acutamente Attilio Mastino ha posto in relazione la denomi-
nazione liviana di “sardi pelliti” con quella di Tolomeo che «nei pressi di
Cornus indica i Kornénsioi oi Aichilénsioi che può essere forse interpretato
con riferimento ai Cornensi coperti di pelli di capra, se il secondo compo-
nente contiene la radice della parola aix, aigós capra»5. Resta da capire, nel
caso dell’interpretazione “coperti di pelli”, se l’espressione tolemaica non
dipenda da quella liviana, perdendo quindi la veste di conferma del dato.
L’origine dell’espressione “sardo pellita” rientra nella definizione colo-
nialista dell’altro composto da genti barbare, incivili e, conseguentemen-
te, vestite di pelli che vivono «senza pensieri e travagli, contenti dei cibi
semplici»6 secondo la tipica immagine del “buon selvaggio”. Una creazione
dell’altro, sulla base di stereotipi, utile a trasformare l’alterità in etnie, in cui
la decostruzione/ricostruzione di queste diventa importante fattore ammi-
nistrativo di integrazione7.
In realtà, gli autori romani mostrano «una conoscenza epidermica del
paese reale visto con la lente della cultura superiore greco-latina»8. Sono
rappresentazioni che rientrano chiaramente nello strumentario descrittivo
dell’etnografia colonialista, nella quale la Sardegna, come l’Africa nei mo-
derni resoconti di viaggio, «evoca una natura possente e dominatrice, con
popolazioni che ne incarnano ai nostri occhi la primitività ancestrale»9;
una visione che ha condizionato l’immaginario dei visitatori dell’isola10 e
che giunge sino ai nostri giorni provocando, paradossalmente ma non tan-

2. Cic., Scaur., 22, 45.


3. Quint., inst., i, 5, 8.
4. Liv., xxiii, 40.
5. Ptol., geogr., iii, 6; Mastino (2005), p. 75.
6. Diod., v, 15.
7. Andreu Pintado (2009).
8. Lilliu (1990), p. 415.
9. Aime, Papotti (2012), p. xiv.
10. Stiglitz (2006).
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to, l’“adesione entusiastica” degli stessi sardi: «Sardinians are particularly
enthusiastic participants in the analysis and ‘ethno-orientalization’ of their
own culture […] a version of Stockholm syndrome, in which the culture
participates in extending the colonial rhetoric applied to it»11.

Invenzione di una tradizione


La riscoperta romantica moderna, con un fiorire di opere biografiche e
poetiche12, avviene soprattutto nell’Ottocento ed è connessa all’epopea di
Hampsicora, nell’immaginario intrinsecamente legato ai sardi pelliti al di là
degli effettivi rapporti intercorsi13. Una riscoperta che ha al suo centro la no-
biltà della sconfitta, con l’esaltazione romantica del personaggio, all’inter-
no di un quadro di forte patriottismo cittadino caratterizzato dalla costru-
zione di glorie locali e dalla necessità di creare una tradizione funzionale
alla costruzione di un passato comune, per rinsaldare un’identità di popolo
nel periodo successivo alla fallita rivoluzione angioiana14. Una costruzione
che, incardinandosi con le Carte d’Arborea, crolla miserevolmente con la
scoperta della falsificazione15, trascinando con sé anche aspetti storici non
necessariamente falsi – basti pensare alla sorte di molte iscrizioni latine oggi
ampiamente rivalutate16; i sardi pelliti o Hampsicora non sono la creazione
dei falsari delle Carte d’Arborea, ovviamente, è falso il modello che gli è
stato costruito intorno. Un modello che, pur con linguaggi più moderni, è
alla base dell’attuale interpretazione del sardo pellita.

La storia decolonizzata
Nel Novecento, col progredire della ricerca scientifica, il problema della
romanizzazione e dello studio delle molteplici comunità sarde dell’epo-
ca romana viene inserito nel quadro più ampio della resistenza al colo-

11. Carta (2012), p. 2.


12. Mastino, Ruggeri (1996), pp. 111-2.
13. Lilliu (1992), p. 33 nota 85: «netto rifiuto opposto all’ambasceria da lui guidata pres-
so i sardi pelliti dell’interno allo scopo di avere aiuto per la guerra».
14. Si tratta di moti antifeudali a carattere rivoluzionario che ebbero come guida Giovan-
ni Maria Angioy, magistrato della Reale Udienza e alternos del viceré di Sardegna, sfociati
nella sconfitta nel 1796, cfr. Lo Faso di Serradifalco (a cura di) (2008).
15. Marrocu (2009).
16. Mastino, Ruggeri (1996).
2126 Alfonso Stiglitz
nialismo, in sintonia con gli avvenimenti che dal secondo dopoguerra
caratterizzano le strutture coloniali moderne. Per la Sardegna è l’opera
di Giovanni Lilliu17, precoce nel proporre un modello resistenziale, che
troverà in Marcel Bénabou18 il corrispettivo per quanto riguarda l’Africa.
Per Lilliu le popolazioni sarde sono quelle che dovettero ritirarsi nella
montagna per sfuggire all’aggressione cartaginese tra la fine del vi e il v
secolo a.C.: «da una parte stettero i sardi liberi nella “riserva” montana,
in posizione antagonistica e talvolta aggressiva nei confronti di Cartagine
[…] dall’altra vi furono i sardi che accettarono il dominio cartaginese (i
c.d. sardo-punici)»19.
Nell’ambito dei convegni de L’Africa romana è stata l’edizione del 1989
a essere dedicata al tema20 con una bella introduzione dello stesso Bénabou
che, rileggendo il proprio modello, lo apre a nuove strade, a partire dalla
critica dei termini “sopravvivenze” e “persistenze”, ai quali nega la qualifica-
zione di categorie storiche utili: il primo ha una forte connotazione negati-
va che rende l’idea della morte più che della vita, mentre il secondo ha un
connotato conservatore di attaccamento ottuso a forme di vita arcaica: «Le
thème, on le voit, il n’est peut-être pas d’un maniement aussi simple, aussi
comode, ni aussi innocent qu’il peut paraitre à première vue»21.
Già il dibattito sorto con la pubblicazione del volume di Bénabou, La
résistence africaine à la romanisation22, aveva prodotto gli stimoli necessari
per il superamento del modello dualista, civiltà/barbarie, colonizzatore/
colonizzato. Questo avviene in particolare con le felici intuizioni di Yvon
Thébert che rifiuta l’esistenza di due Afriche (nel nostro caso intenderemo
le due Sardegne), una indigena e l’altra romanizzata. Per Thébert esiste una
sola Africa e le sue divisioni interne fanno parte della sua definizione, per
cui si rende indispensabile lo studio delle formazioni sociali, unica strada
per dare un’interpretazione coerente della realtà23. In altre parole, diversi-
ficazione sociale vs romanizzazione, per restituire agli africani, per lui, ai
sardi, per noi, il loro posto sulla scena storica.

17. Lilliu (1971); primi accenni al modello sono già presenti in nuce in Id. (1962).
18. Bénabou (1976).
19. Lilliu (1992), p. 32.
20. Sopravvivenze puniche e persistenze indigene nel Nord Africa e in Sardegna in età roma-
na, Sassari 15-17 dicembre 1989.
21. Bénabou (1990), p. 7.
22. Thébert (1978); Bénabou (1978); Leveau (1978).
23. Thébert (1978).
L’invenzione del “sardo pellita”. Biografia di una ricerca 2127

Le prospettive della biografia della ricerca, anche personale24, sui sardi


pelliti, ha in questa impostazione di Thébert il lievito naturale per il suo svi-
luppo, che trova un’accelerazione nell’incontro con gli studi postcoloniali
nati con le riflessioni di Edward Said sull’orientalismo25, destinate a rivolu-
zionare l’impostazione delle ricerche. Nel suo lavoro, Said analizza le abi-
tudini colonialiste «di operare ampie generalizzazioni, con cui suddividere
la realtà in varie categorie – lingue, razze, tipi, pigmentazione della pelle,
mentalità – ognuna delle quali esprimeva non tanto criteri neutrali, quanto
interpretazioni valutative. A tali categorie è sottesa la rigida opposizione
binaria “nostro” e “loro”»26. Il suo percorso s’incontra “naturalmente” con
la riscoperta di Antonio Gramsci e sulla scia del suo pensiero l’analisi non
si pone più come ricerca sui resistenti, sopravviventi, paleosardi, ma come
studio dei gruppi sociali subalterni e dei rapporti di potere connessi; una li-
nea di lettura che permette di dare conto della complessità del mondo sardo
del primo millennio a.C. e oltre. Subalternità nel senso pieno di Gramsci27,
espressione non di un indistinto mondo di oppressi – i resistenti della co-
stante resistenziale –, bensì di un complesso insieme di settori (o classi) so-
ciali da identificare con chiarezza senza generalizzazioni ma con attenzione
a differenziare i vari gradi di subalternità e di potere. Nel momento in cui i
gruppi sociali subalterni più attrezzati non riescono a spezzare il meccani-
smo di dominio, la risposta è la ribellione, di tipo organizzato, quando ve
ne sono le capacità, come nel caso delle grandi ribellioni degli Iliensi, Balari
e Corsi28 che, visto il fallimento, si trasformano nel tempo in forme disorga-
niche di ribellione; per usare un’espressione di Gramsci, «i subalterni sono
solo in istato di difesa allarmata»29.
Nella contrapposizione tra i gruppi dominanti e quelli subalterni si in-
serisce la capacità egemonica dei primi, che riescono a inglobare con spazi
di potere, spesso ridotti, esponenti delle classi subalterne e, contemporanea-
mente, a promuovere un processo di trasformazione molecolare, che por-
ta a un cambiamento culturale dei subalterni, senza per questo rinunciare
all’impiego della forza quando utile ai propri disegni, come nelle deporta-
zioni conseguenti la rivolta del 176 a.C.

24. Stiglitz (2004; 2010).


25. Said (1978).
26. Ivi, p. 18 (ed. it.).
27. Utile sintesi in Buttigieg (2009).
28. Mastino (2005), pp. 93-100.
29. Gramsci (1975), pp. 2283-4: Quaderno 25, 2.
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fig. 1  Cippo di Q(uintus) Volusius Nercau da fig. 2  Iscrizione di Nispeni (da Ga-
Prammas, nel territorio di Sedilo (da Gasperini, sperini, 1992, tav. iii).
1992, p. 586, fig. 8).

Il riconoscimento e il ritrovamento del sardo pellita si gioca, quindi, su una


pluralità di piani, nei quali la distinzione non si fonda più su basi etniche,
ma su livelli di potere e di subalternità, che possono essere visivamente illu-
strati dalle stele funerarie di Q(uintus) Volusius Nercau da Sedilo (fig. 1), cit-
tadino romano, e di Nispeni da Borore30, priva di tale status, assieme al ma-
rito Urseti (fig. 2)31: entrambi (Nercau e Nispeni) si affidano agli Dei Mani,
entrambi usano formulari romani, entrambi scrivono in latino, parzial-
mente dimentichi dell’origine “pellita”, sintomo della capacità egemonica,
in questo caso in campo culturale, del potere dominante romano. Ma allo
stesso tempo sono memori delle proprie identità “altre”, manifeste nei loro
nomi e non solo; ad esempio, nel caso di Q(uintus) Volusius Nercau, la stele
funeraria ostenta lo status di cittadino e, quindi, di partecipe al potere, ma è
anche luogo di travestimento delle altre identità di cui Nercau è portatore:

30. ILSard., i, 214.


31. Gasperini (1992), pp. 586-9.
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fig. 3  Cippo di Q(uintus) Volusius Nercau, particolare della parte superiore (cfr. fig. 1).

fig. 4  Mont’e Prama (Cabras), testa di pugilatore (da Bedini, Tronchetti, Ugas, Zucca,
2012, p. 138).
2130 Alfonso Stiglitz
la raffigurazione schematizzata del viso (fig. 3)32, che rimanda agli stilemi
per così dire archetipici delle antiche statue nuragiche di Mont’e Prama33,
«è una forma simbolica utilizzata per celare identità destinate all’alterità,
confinate nel silenzio e nell’invisibilità» (fig. 4)34.
Con questa schematica illustrazione si vuole proporre il superamento
dell’ideologia (nel senso dell’invenzione del sardo pellita) come schermo
che ha oscurato la realtà, impedendoci di discernere le varie forme che que-
sta ha assunto e ci ha lasciato nelle brume di quell’Oriente inventato dell’en-
tusiasta Albert Morcef, personaggio del conte di Montecristo, che davanti
al racconto di Haydee, la schiava del conte, esclama: «mi trovo in Oriente,
nel vero Oriente, non come l’avrei potuto vedere, ma come lo sogno»35. La
nostra ricerca ha, invece, il compito di restituire la loro storia a quelle donne
e uomini che abitavano in Sardegna in epoca coloniale, non come li sognia-
mo, ma come li avremo potuti vedere realmente.

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32. Per queste raffigurazioni schematiche di volti, A. Mastino rimanda al «ricordo di una
“maschera frontale”, espressione di un mondo magico-spiritico-funerario» che è alla base
di una tradizione (Mastino, Pitzalis, 2003, p. 664).
33. Stiglitz (2010), p. 25.
34. Proglio (2012), p. 5.
35. Dumas (1845), cap. 76.
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