Sei sulla pagina 1di 20

GLI ATTREZZI DEL PENSARE, PARTE I

Aggiornamento: apr 5
Di Francesco Zevio1
*note a piè pagina
PREAMBOLO
Con questo articolo volevo delineare alcuni concetti impiegati da Agamben in un suo recente
intervento: concetti malintesi da qualche giornalista e che, così fraintesi, hanno portato a un generale
fraintendimento di quello che mi pare essere il fine degli interventi del filosofo. Volevo mostrare come
e perché tali concetti siano stati compresi erroneamente, rilevarne tanto alcune sottigliezze che li
rendono passibili di malinteso per un non addetto ai lavori, così come alcune premesse date per
scontate dal filosofo ma che invece scontate non sono, se ci si vuole rivolgere a una platea di non
specialisti. Volevo scrivere di tutto questo ma… ma non ce la faccio. Una sorta di impotenza, col
gravame di un terribile e opprimente senso di frustrazione, mi impedisce anche solo di cominciare. Non
è la prima volta che mi accade (questa coppia di sentimenti mi è anzi piuttosto familiare) ma in questo
clima, lo abbiamo notato un poʼ tutti, le cose hanno tendenza a farsi ancora più pesanti. Inoltre, se non
riesco a cominciare, è anche perché Agamben non necessita certo di un mio intervento. Quello che
scrive, come lo scrive, a chi lo scrive è lui a deciderlo.

Giogio Agamben
Sono un lettore di Gramsci. Gramsci non è lʼautore citato da Fusaro tra lo Hegel et Aristotile, ma è
prima di tutto un uomo che può ancora parlarci attraverso una serie di testi in cui egli ha registrato i
propri pensieri.
Uno dei punti cardine nella riflessione di questʼuomo consiste nella relazione tra alto e basso nel campo
della cultura: quindi nellʼazione di quella classe intermedia di intellettuali cui spetterebbe appunto il
ruolo di intermediari tra apice e base intellettuale, come pure un ruolo di rilievo nel compimento di
quella riforma del corpo sociale che, in un passaggio che apre le Noterelle su Machiavelli, Gramsci
definiva come “intellettuale e morale.” [1] Questi due termini ritornano anche altrove, in un altro
passaggio gramsciano espunto dalla Introduzione alla filosofia:

1 Francesco Zevio è nato a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, nel 1992. Ha studiato a Padova (lettere moderne)
e a Roma (Accademia Vivarium Novum), in Francia (Aix-Marseille Université) e in Germania (Universität Augsburg).
Ha pubblicato la raccolta di versi Suite dei mondi (Robin Edizioni, 2019), Liriche randagie (Puntoacapo, 2021) e il libro
Latino in cinque minuti (Gribaudo, 2019). Sono uscite alcune poesie e traduzioni nel quaderno internazionale
“Traduzionetradizione” (n.17). Con il pianista e compositore Jozef F. Pjetri ha dato vita a Cultura in Atto, associazione
culturale con sede a Padova. È inoltre cofondatore della compagnia di poesia, pantomima e musica Mime en Mi
Mineur, attiva in tutta Europa. Oltre che con Cultura in Atto, ha esordito con Ritorno a Capo, collabora con la rivista
Pangea, con Parentesi storiche, con AION-Linguistica e con il giornale online Ilsoleitaliano di Monaco di Baviera.
Antonio Gramsci
Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte originali,
significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte,
socializzarle per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di
coordinamento e di ordine intellettuale e morale. [2]

Se non riesco a scrivere questo articolo, se mi sento impossessare da questo senso dʼimpotenza e
frustrazione, è anche perché sento di avere fallito in questa opera di creazione di una “nuova cultura”.
Impotenza e frustrazione... ma non credo proprio di essere lʼunico ad avere sviluppato una certa
familiarità con la nostra affezionata coppia di sentimenti. È una intera categoria ad avere fallito, ed è
dunque una intera categoria che deve domandarsi: perché abbiamo fallito?
Perché abbiamo fallito? In questa nostra tuttora indocile età dell’informazione dobbiamo ammettere
che, proprio come è avvenuto e avviene per la redistribuzione della ricchezza, così anche per la
redistribuzione della cultura la “classe media” sia stata e stia venendo progressivamente spazzata via.
Quella che pare delinearsi con sempre maggiore chiarezza è una società senza alcun legame, senza
alcuna relazione e intermediazione possibile tra alto e basso: una società dove lʼapice, detenente del
99% della cultura, è divenuto ormai incapace di farsi comprendere dalla base; e dove la base a sua volta
è sempre meno disposta a prestare ascolto all'apice in un circolo vizioso e situazione da psicodramma
che, nel migliore dei casi, fa tornare in mente alcuni versi delle Ricordanze:
[...] intra una gente zotica, vil; cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo, son
dottrina e saper; che mʼodia e fugge per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma
perché estima chʼio mi tenga in cor mio [...]

Giacomo Leopardi
In tutto questo ognuno ha la sua parte di responsabilità. Io vorrei però concentrarmi sulle responsabilità
che mi pertengono, quindi sulle responsabilità di quanti siano a vario titolo impegnati nella
intermediazione culturale e, in particolare, di quanti dovrebbero setacciare la cultura per isolarne gli
elementi essenziali a sviluppare una lettura quanto più critica della realtà – così da proporli a chi
non abbia né il tempo, né la preparazione necessaria per passare egli stesso a setaccio lʼimmenso fiume
della cultura.
Mi voglio servire di una immagine.
Se possiamo immaginarci la realtà come una sorta di grande e complicato macchinario che dobbiamo
essere capaci di smontare e rimontare, se vogliamo autenticamente cominciare a comprenderlo, allora
dobbiamo immaginare la cultura come una cassetta degli attrezzi e i concetti come una serie strumenti,
con relative conoscenze al loro corretto impiego [3]. Inutile dire che, più strumenti si hanno, meglio è.
Il compito di chi siede allʼapice, infatti, è quello di analizzare e studiare il macchinario con la più
attenta minuzia e accuratezza – rifornendosi di più strumenti possibile ed eventualmente forgiandone
egli stesso di nuovi, sapendo perfettamente come servirsene così da smontare e rimontare tutto lo
smontabile con la maggior precisione ed efficacia possibile. Questo per lʼapice. Il problema è che non
tutti hanno queste stesse capacità e possibilità di rifornire la cassetta degli attrezzi, perché non tutti
fanno il suo mestiere. E qui entrano in gioco gli intellettuali che si pongono tra apice e base. Se uno di
essi nota che, nel macchinario, ci sono 20 viti a taglio ogni 2 bulloni, e che prima di poter smontare i
bulloni è il caso di svitare le viti, riconoscerà che è più urgente munirsi di un cacciavite che non di una
chiave o di una brugola, quindi suggerirà a chi abbia una cassetta ancora non molto capiente di
cominciare col procurarsi un cacciavite a taglio [4]. Un autentico intellettuale deve mostrare tre
capacità, ovvero i) la capacità di osservare e studiare il macchinario il più attentamente possibile,
quindi ii) la capacità di scegliere gli strumenti più utili e necessari, quelli più essenziali e infine iii) la
capacità di socializzarli: quindi di diffonderne criticamente la conoscenza.
Il problema è che spesso gli intellettuali non sono disposti a crearsi la loro propria cassetta degli
attrezzi tramite lʼattenta osservazione del macchinario e lo studio disciplinato del maggior numero di
strumenti escogitati da chi li ha preceduti, ma tendono a comprare cassette già preconfezionate. Queste
cassette pret-à-penser, sono le ideologie. Ancora una volta: se vediamo che è consigliabile saper
allentare viti prima di svitare bulloni e che 8 viti su 10 sono a taglio, è il caso di premunirsi di un
cacciavite a taglio.

Photo by Justin Bautista on Unsplash

Quello che spesso avviene tramite le ideologie, invece, è che alla gente venga rifilato o un mallet con
tappi di plastica e portachiavi a forma di pesce arcobaleno, o un turbocacciavite 8x200mm a trazione
atlantica PZ 0-1-2 sradicato e sradicante con impronta PODRIZ... a croce.
Nei prossimi articoli tenterò di presentare e proporre alcuni degli attrezzi che sono a mio avviso più
utili per smontare e rimontare il macchinario, avvalendomi di alcuni esempi dai fatti di attualità. Il
primo articolo verterà su un certo bias cognitivo chiamato pregiudizio di conferma.

Prima di concludere questo preambolo, voglio riportare altre parole di Gramsci:

Lʼarte di operare coi concetti non è alcunché di innato o di dato nella coscienza comune,
ma è un lavoro tecnico del pensiero, che ha una lunga storia, né più né meno della ricerca
sperimentale delle scienze naturali.[5]

Da quanto esiste, Cultura in Atto non ha mai cercato di nascondere questo fatto.
Una autentica socializzazione del sapere, una autentica diffusione delle “verità già scoperte” deve e non
può che avvenire criticamente. La trasmissione critica del sapere richiede uno scambio e uno sforzo
attivo da entrambe le parti, sia nel dare che nel ricevere. Infatuare individui con concetti e pensieri che
non riescono bene a delineare e dunque nemmeno a comprendere, non è il nostro mestiere.

In questo senso, noi proviamo a fare la nostra nonostante impotenza e frustrazione – sperando che
questi nostri sforzi, con quel tanto di valore che forse qualcuno riuscirà a intravvedervi, siano scintilla e
incitamento ad altri a sforzi paralleli.

NOTE

1. Quaderno XIII, §1.


2. Quaderno XI, §12.
3. Il problema è più complesso, certo: perché il macchinario non è propriamente qualcosa di
pienamente oggettivo e noi stessi siamo parte del macchinario, smontando lui smontiamo noi e
smontando noi smontiamo lui e così via – ma queste cominciano già ad essere riflessioni da apice.
4. Altra nota “da apice”. Ebbene sì: ogni intellettuale è responsabile per gli strumenti che sceglie. Se
penso che sia più utile andare a rifornirsi di strumenti provenienti dai campi dellʼecologia o della
semiologia che non da quello dei gender studies, è una mia scelta e una mia responsabilità. Per quanto
riguarda lʼatto educatico, è molto meglio assumere coscientemente la responsabilità di un giudizio di
valore, piuttosto che mascherarsi dietro pretese di oggettività scientifica o (brividi!) ideologica.
5. Quaderno XI, §44.

GLI ATTREZZI DEL PENSARE PARTE II


-PREGIUDIZIO DI CONFERMA
Aggiornamento: apr 5
Di Francesco Zevio
*note a piè pagina

Apriamo dunque la nostra cassetta.


Prima di tutto occorre mettere in luce come, volenti o nolenti, al di là di attrezzi veri e propri, tutti noi
disponiamo già di alcune specifiche conoscenze pregresse circa alcuni modi di servirsi degli attrezzi.
Per esempio: il modo in cui ci si serve di un martello; dunque i movimenti che consistono nel premere
la mano su un manico, nel sollevare il braccio per poi abbassarlo di nuovo con forza. Queste serie di
movimenti corrispondono più o meno a ciò che definisco come un modo: una conoscenza, una sorta di
manualità del pensiero, un saper-fare cognitivo andato formandosi e specializzandosi all'interno di una
relazione che lo lega a una certa funzione, a un certo attrezzo, a una certa funzionalità.
Ora: è abbastanza chiaro che occorre innanzitutto cominciare il lavoro da questi modi… perché sarebbe
inutile consegnare a qualcuno il celebre turbocacciavite a trazione atlantica se quello continua a usarlo
come un martello, se non ha acquisito la benché minima cultura relativa al suo corretto impiego [1].
Questi modi ci sono stati consegnati da millenni di esistenza biologica e sociale: sono le operazioni
base del nostro cervello e la loro messa in atto è per noi inevitabile, non possiamo in alcun modo
esimerci dal servircene. Certe volte queste conoscenze pregresse circa i modi ci permettono di
risparmiare un sacco di tempo (se so usare un cacciavite a taglio, per esempio, saprò anche usare un
cacciavite a croce e non dovrò imparare tutto daccapo) altre volte, invece, divengono automatismi
inconsci che ci impediscono ed ostacolano nelle delicate operazioni del pensiero. Il primo passo,
dunque, consisterà nel prendere coscienza di alcuni tra questi automatismi e modi consueti di
servirsi degli attrezzi. Voglio cominciare da una sorta di modo dei modi che è chiamato pregiudizio di
conferma (confirmation bias [2]).
Tramite questo concetto, si vuole mettere in luce la generale tendenza umana a confermare la propria
visione del mondo.
Dobbiamo renderci conto che, similmente a come le operazioni del nostro corpo sono programmate per
confermare la nostra esistenza biologica, ricercando gli elementi necessari alla sua sussistenza, così
molte operazioni del nostro cervello sembrano essere programmate per confermare ciò che compone la
nostra esistenza mentale. Il cervello è un organo: è quindi legato ad altri organi con cui forma una
comunità di interessi fisiologici e non è in alcun modo programmato per agire in solitario. La sua
funzione principale, in questa comunità di interessi, sembra consistere in questo: nell'interpretare la
realtà, nel selezionare e privilegiare le informazioni che permettono alla comunità fisiologica di cui fa
parte di sopravvivervi al meglio, quindi nel confermare questa realtà e continuare ad “abitarla”.

Arthur Rimbaud

Il pregiudizio di conferma ricade in questo ambito: tramite esso, il nostro cervello conferma uno stato
del mondo nel quale si è ambientato – nel quale le basi della propria esistenza e le modalità di
procacciarsele siano quanto più note e assicurate possibile – tramite esso, il nostro cervello privilegia
quelle informazioni che confermano uno stato del mondo dove egli si senta a casa, ovvero protetto e
in sicurezza [3].

Tale bias cognitivo è spesso rintracciabile e ben identificabile nelle cosiddette posizioni complottiste –
ma qui, tirando in ballo complotti e complottismo, occorre fare una precisazione.
Accade infatti molto spesso che, qualora una persona dia del complottista a qualcuno (o che tacci di
complottismo certe teorie), tale persona non stia solo dicendo o denunciando qualcosa di quel qualcuno
(o di quelle teorie), ma anche e soprattutto di sé stesso. Ovvero: l’impiego di questa parola può
parimenti segnalare la presenza, in chi la usa, di un certo pregiudizio di conferma: perché anche nel suo
caso può trattarsi in fondo di voler a tutti i costi confermare il proprio stato del mondo, servendosi di
questa parola che agisce, per chi la impiega, come una sorta di esorcismo contro quanto sia capace di
mettere più o meno radicalmente in discussione la propria visione del mondo. È per questo che, molto
spesso, complottisti e anticomplottisti vivono (intellettualmente e dialetticamente parlando) l’uno
dell’altro – in una sorta di odi et amo degli estremi. Quanto avviene per la parola complottismo vale
anche per altre parole, ovviamente [4].
Il pregiudizio di conferma ferma il mondo, per così dire, lo richiude su sé stesso ed è una trappola che
ci è sempre tesa, in cui possono cadere anche le persone più colte. Le quali sono magari per l’appunto
colte, ma non accorte. Se ciò accade, spesso è con danni decisamente superiori alla media: perché
anche la cultura di queste persone è superiore alla media e quindi possono confermare il proprio
mondo, sia a sé stessi che agli altri, basandosi su una capacità dialettica e su una forza di persuasione
molto maggiore rispetto alla media.

Martin Heidegger
Per concludere, voglio ricordare come in alcune pagine del suo Die Technik und die Kehre, Heidegger
identificasse il più profondo valore dell’uomo [Würde des Menschen] proprio nella sua capacità di
“concedere,” “custodire” e “accordare” [gewähren] una sorta di condizione di apertura riguardo ad ogni
“[…] essere su questa terra,” una condizione di apertura che è appunto l’esatto contrario di quanto
operato dal pregiudizio di conferma. Questa condizione è necessaria, vitale anche per il pensiero [5].

NOTE
[1] Piccola parentesi: a mio avviso, è proprio questo lavoro sui modi cui allude il termine criticamente
del passaggio gramsciano citato nel preambolo. Da questa linea prospettica, la ripresa del nazional-
popolare gramsciano nella concezione di Fusaro è perfettamente criticabile. [2] Bias deriva dal
provenzale e significa “inclinato”, “obliquo.” I bias cognitivi, in psicologia, sono definibili come delle
operazioni automatiche del pensiero che ci fanno inclinare verso un certo giudizio. Se ci immaginiamo
il movimento del pensiero come quello di una biglia su un tavolo, questi bias che fanno sì che il tavolo
sia inclinato e che dunque la biglia si muova irresistibilmente in direzione di un certo giudizio. La
situazione ideale per l’esercizio del pensiero critico, invece, sarebbe quella di un tavolo perfettamente
in bolla. [3] Quello che invece si rifiutano di fare alcuni individui come Rimbaud:
"O mondes! Et le chant clair des malheurs neouveaux!
Oh mondi! E il canto chiaro delle sventure a venire!"
Ammetto di avere sostituito l’originale monde (singolare) con mondes (plurale) così da rendere più
chiaro ciò che intenda – ma non credo di aver travisato quanto volesse esprimere l’autore delle
Illuminations, libro da cui è tratta questa frase (presente nell’ultimo testo della raccolta, intitolato
Génie).

[4] Per esempio, come rilevato da M. D’Eramo in un suo saggio intitolato Populism and the New
Oligarchy, con la parola “populismo.” In questo saggio, tra le altre cose, si nota come il termine
“populista” venisse spesso impiegato dai centristi in una sorta di strategia da terrorismo lessicale: così
da bollare preventivamente alcuni contenuti e poi rimuoverli in automatico dall’orizzonte del discorso
politico.

[5] Per chi conosca il tedesco e Heidegger, riporto il passo in questione:


"Das Gewährends, das so oder so in die Entbergung schickt, ist als solches das Rettende. Dann dieses
läßt den Menschen in die höchste Würde seines Wesens schauen und einkehren. Sie beruht darin, die
Unverborgenheit und mit ihr je zuvor di Verborgenheit alles Wesens auf dieser Erde zu hüten."
Purtroppo, una traduzione efficace di questo passo così fitto di termini specifici del lessico
heideggeriano richiederebbe un articolo a parte… e questo perché, proprio come scritto dallo stesso
Heidegger in un passaggio del suo Parmenides, la traduzione è riuscita solo quando ci tra-duca (quindi
ci guidi, ci conduca) nella medesima esperienza in base a cui il pensatore ha concepito certi termini.
Ma l’umiltà del pensiero è anche questo: riconoscere e accettare il fatto che, per certe cose, occorra
tempo.

GLI ATTREZZI DEL PENSARE PARTE III


di Francesco Zevio
*note a piè pagina

Cominciamo così: cominciamo con un biologo estone dal diciannovesimo secolo (e dal nome
particolarmente ostico, anche solo visivamente, in area linguistica neolatina) che s’appresta a svolgere
un esperimento sulle api.

Se non ricordo male, l’esperimento cominciava nel più puro idillio, con un’ape spensieratamente
intenta a succhiare miele. A un certo punto, nel corso di questa pacifica attività, le viene ahimè reciso
l’addome. L’ape, tuttavia, sembra quasi non accorgersene… continua impassibile, imperterrita a
succhiare e succhiare e succhiare miele come niente fosse, mentre il liquido già cola a terra scorrendo
lento fuori dal suo corpicino ormai mutilo dell’addome. Conclusione del biologo: le api sono
sopraffatte da alcuni stimoli ambientali tanto imperativi da assorbire la totalità dei loro sensi, al punto
da finire col stordirle in essi. Tali stimoli furono definiti da Uexküll (ecco l’ostico nome) con il termine
di disinibitori.

Questo esperimento e le sue supposte implicazioni furono a loro volta riprese prima da Scheler e in
seguito da Heidegger per sfociare nel concetto di Weltarmut, di povertà di mondo. Volendo
riassumere: secondo questo concetto le api, gli insetti, tutti gli animali, ogni singola pianta… tutti i
viventi sono sensibili a una gamma di stimoli estremamente ridotta che li acceca a tutto il resto. Solo
l’uomo ha la possibilità virtuale di lasciarsi attrarre e condurre da una rosa di stimoli molto più varia e
differenziata, solo l’uomo è autenticamente aperto al mondo.

Su queste considerazioni, un piccolo appunto.

Un piccolo appunto perché, a mio avviso, si può considerare che anche l’uomo abbia un suo
disinibitore. E questo disinibitore, del resto squisitamente umano, è il linguaggio. L’uomo costruisce il
mondo, ha esperienza del mondo, si stordisce nel mondo attraverso il linguaggio: quindi attraverso un
sistema simbolico. Ma cosa significa questo? Oltre al discorso generale sulle varie grandi narrazioni
(ideologiche, politiche, religiose…) reso ormai popolare per il frequente ricorso a concetti quali
narrazione e storytelling, ciò significa, più specificamente, che persino le idee ed i concetti che ci
appaiono come più immediati e trasparenti sono invece piuttosto complessi, torbidi, opachi: e questo
perché essi sono tramati e orditi di fatti di linguaggio [1]. Cosa, questa, inevitabile: stiamo infatti
parlando del disibinitore della nostra specie. Non essere coscienti di questa tramatura ci impedisce
nell’esercizio dell’intelligenza, esercizio individuale in cui si realizza l’esperienza della libertà,
preludio alla sua pratica [2].

Ludwig Wittgenstein, 1922


Vi sono due concetti, due “cose” o entità in senso lato che sono, in questo periodo storico,
particolarmente prone ad essere interpretate come semplici e immediate quando invece non lo sono
affatto. Queste due cose sono la vita e il corpo.

Il problema principale è il seguente: noi tendiamo a considerare quanto espresso rispettivamente dalle
parole vita e corpo come fatti estremamente limpidi e patenti, senza zone d’ombra. Ovvero: tutti sanno
cosa sia la vita – e dunque cosa non lo sia – tutti sanno cosa sia il corpo e nessuno potrebbe nutrire
dubbi, a riguardo, proprio come nessuno potrebbe nutrire dubbi su cosa siano una penna, una tazza, una
moka o un quaderno. Il punto è che l’uomo non vive in un tale Eden linguistico: un Eden in cui le
parole afferrano e rispecchiano realtà oggettive, riproponendo esaustivamente per tramite di una
traduzione linguistica una qualche loro supposta sostanza o essenza. Citando due concisi passi del
Tractatus di Wittgenstein: noi ci creiamo immagini dei fatti [wir machen uns Bilder der Tatsachen] e
l’immagine è un modello della realtà [das Bild ist ein Modell der Wirklichkeit]. Le parole – queste
nostre quotidiane forme d’incantesimo e malia – le parole attraverso cui l’uomo descrive e significa il
mondo non rispecchiano fatti o realtà oggettive, non catturano una “cosa” nella sua essenza o verità, ma
tendono piuttosto a organizzare significati, idee e valori intorno a un centro di gravità. Possiamo
immaginarle così: ogni parola come una sorta di sole che organizza e regola – tramite la propria massa,
quindi per azione della gravità – un sistema di altri corpi celesti “più leggeri”, di altre idee e significati.
Una parola è insomma una sorta di costellazione, di sistema stellare formato da un coagulo d’idee
organizzate intorno a una parola-idea di massa superiore, che attira e subordina a sé le altre. Un po’
come in questa poesia di Gottfried Benn:

Gottfried Benn, 1934

Ein Wort, ein Satz – aus Chiffren steigen

erkanntes Leben, jäher Sinn,

die Sonne steht, die Sphären schweigen,

und alles ballt sich zu ihm hin.

Ein Wort – ein Glanz, ein Flug, ein Feuer,

ein Flammenwurf, ein Sternenstrich –

und wieder Dunkel, ungeheuer


um leeren Raum um Welt und Ich.

Una parola, una frase – e dal segno

vita decifrata, fulmineo il senso…

il sole immoto, le spere in silenzio,

e tutto vi si addensa intorno.

Una parola – lampo, volo, incendio,

un getto di fiamme, uno squarcio d’astro…

e di nuovo il buio – immane, tremendo

intorno al mondo e all’Io, nel vuoto spazio.

Ora: il modo in cui tali sistemi si organizzano non è naturale, non sorge in alcun modo dal
rispecchiamento di una fatalità o di un qualche ordine oggettivo e veritiero. La loro formazione e il
valore che esse assumono nelle società umane segue piuttosto lo svolgersi e il modificarsi del
processo storico: questi sistemi non sono per nulla fissi.

Ovviamente non tutte le parole hanno la stessa massa, non tutte le parole hanno la stessa capacità di
organizzare sistemi attorno al loro centro di gravità: è abbastanza chiaro come le parole che esprimono
oggetti concreti, in particolare oggetti che sono prodotto dell’industria e del lavoro umano, non abbiano
un grande peso.

Le parole con massa maggiore sono le parole che esprimono entità astratte: parole come anima,
spirito, verità, dio… parole che hanno infiammato popoli e modificato la storia di continenti, nel cui
nome si sono compiuti gli atti più alti e straordinari come i più efferati e criminali. Ma queste parole
sono abbastanza facili da sgamare e smagare [3]. Non siamo nati nel liquido amniotico delle culture
che le ha prodotte, non ci vuole poi così tanto a capire che intorno a loro possono organizzarsi sistemi
piuttosto arbitrari: e in ogni caso, tali sistemi sono piuttosto inficiabili dall’azione caustica e
demistificante del pensiero critico come andato sviluppandosi in Occidente. Ben più subdole, ben più
ingannevoli sono quelle parole (e relative costellazioni) per così dire ibride: parole in cui non è così
agevole dissociare analiticamente tra concreto e astratto, tra materiale e immateriale. A questa
categoria pertengono un po’ tutte le grandi parole d’ordine ideologiche fuoriuscite dalla cultura
illuministica e razionalista – parole che vanno da popolo, nazione, uguaglianza fino a classe, razza,
benessere, progresso, salute – parole che questa stessa cultura ha contribuito storicamente a formare
tramite le modalità proprie del suo discorso e una sua particolare gerarchia epistemica [4].

Le parole che andremo a considerare nei prossimi articoli, i sistemi di senso gravitanti intorno ai
concetti di vita e corpo, fanno parte di questa categoria ibrida.

NOTE

[1] A proposito di idee e concetti si può senza dubbio affermare quanto Marx affermò a proposito delle
merci:

Una merce appare a un primo sguardo come una cosa ovvia, triviale. La sua analisi dimostra che è una
cosa estremamente complessa, piena di sofisticherie metafisiche e capricci teologici [eine Ware scheint
auf den ersten Blick ein selbstverständliches, triviales Ding. Ihre Analyse ergibt, daß sie ein sehr
vertracktes Ding ist, voll metaphysischer Spitzfindigkeit und theologischer Mucken].

[2] La libertà è prima di tutto un fatto di gusto, bisogna farcisi il palato… e l’esercizio dell’intelligenza
è precisamente questa educazione del palato.
[3] Sgamare e smagare: ovvero demistificare.

[4] Il concetto di gerarchia epistemica vuole riferirsi al rapporto di prestigio che intercorre, in un
dato periodo storico, tra il vario sapere prodotto dalle varie discipline. Ogni disciplina produce
infatti un sapere proprio secondo metodi propri: a questi metodi, a questo sapere è quindi accordato un
certo grado di prestigio che entra automaticamente in rapporto col grado di prestigio accordato a
metodi e sapere di altre discipline. I vari rapporti che vengono a definirsi in questo modo formano
quella che abbiamo definito come gerarchia epistemica, quindi una gerarchia di prestigio riguardo ai
metodi ed alla produzione di sapere (episteme, in greco).
Questo prestigio, questi “rapporti di forza” che intercorrono tra le diverse discipline impegnate nella
produzione di sapere variano storicamente. Per esempio: nel corso del Medioevo il sapere prodotto
dalla teologia godeva di un immenso prestigio rispetto a quello prodotto dalla disciplina medica, né un
fantomatico uomo medio medievale doveva considerare seriamente la possibilità che le cose dovessero
o potessero cambiare. Poi gli anni passano… gli anni cadono, cadono e si ammassano come foglie alle
radici dei millenni – nuove ruggenti generazioni di bipedi implumi s’industriano, s’ingegnano, si
riproducono, s’ammazzano, si fanno e disfanno e a poco a poco vanno modificandosi anche i sistemi di
valori… fino a che paf, nell’anno 41 dopo Chakrabarty (2021 d.C.) il rapporto di prestigio tra teologia e
medicina è completamente rovesciato.

GLI ATTREZZI DEL PENSARE PARTE IV -


IL MALATO ASINTOMATICO
ITA/ENG
di Francesco Zevio

Translation by the author

Guarda la fifa a cosa ci ha ridotto,

o mio compagno dalla grande bocca.


Guarda il tabacco nostro che si sbriciola,

Schiaccianoci, babbeo, caro amico.

Come uno storno fischiarsi la vita,

come torta di noci divorarla –

ma è un desiderio proibito…

Osip Mandel'štam

L’imporsi di una certa terminologia nel discorso pubblico, quindi il fatto che una popolazione si
assuefaccia all’uso di alcuni termini piuttosto che ad altri, non è cosa neutra e priva di conseguenze.

Il mondo non ha senso. O meglio: non produce senso. Nel mondo noi osserviamo prodursi e riprodursi
organismi in varie forme: vediamo venti, tempeste, alberi e animali, maree, eruzioni, cataclismi… mai
senso. È l’uomo che dice “pianta”, che dice “animale”, che dice Zeus, Poseidone, Efesto, teomachia,
colpa, castigo… è solo l’uomo che, intorno a questo, può organizzare il senso e così stabilire le leggi,
gli equilibri della sua vita individuale e sociale. È solo l’uomo che produce senso – è l’uomo che,
nominandolo, fa esistere qualcosa come e in quanto senso – è l’uomo che, attraverso le parole, evoca le
cose dal continuum dell’anonimato convocandole nell’universo del senso. Le parole veicolano idee e
concetti, contribuiscono a formare visioni del mondo. E questo perché i termini determinano la realtà –
ovvero ne pongono appunto i termini, ne tracciano i confini, la restringono e costringono, ne fanno una
figura a noi comprensibile – permettendoci così di organizzarvi la nostra vita sociale, di gestirvi la
nostra condotta. Idea in Greco significa “forma” e deriva da un verbo legato al senso della vista. Le
idee sono strumenti mentali di visione attraverso cui noi vediamo e quindi riconosciamo la realtà
come strutturata in un certo modo, secondo una certa organizzazione. Per questo motivo la definizione
di Dubbio come disseminazione di teorie è giusta: ricordando che anche teoria, in Greco, è termine
legato alla visione.

Ancora una volta: i termini veicolano idee e concetti. Sono entità che, sebbene astratte, hanno
un’influenza e un potere affatto concreti sulla realtà, essendo capaci di plasmarla secondo il loro senso
(qui da intendersi anche come direzione). Se fatti propri, se impiegati e ampiamente condivisi da buona
parte di un gruppo umano, i termini avvallano, giustificano forme di vita sociale: dagli usi più
semplici e quotidiani alle decisioni politiche, alle strutture cultuali, all’organizzazione del sapere, alle
pianificazioni economiche più complesse.

Ora, se considerata da quest’ottica, la pandemia ha scaricato sul mercato delle idee un nuovo concetto:
quello di malato asintomatico. In questo articolo voglio chiedermi: quali possono essere le
conseguenze dell’imporsi di tale termine nel discorso pubblico? Perché una cosa è che un termine
(come per esempio “razza”) venga impiegato in una ristretta cerchia di specialisti, ben altra cosa è che
venga dato in pasto alla stampa, alla politica, all’intero corpo di una popolazione (come per
esempio… “razza”).

Prima di tutto, va notato che il termine e il concetto di malato asintomatico deriva da una branca del
sapere particolare: la medicina. Nota non peregrina, perché più un sapere è capace di imporre i
propri termini nel discorso pubblico, più questo sapere è forte e capace di trasfondere la propria
lettura del mondo alla società, aumentando il prestigio del proprio sapere e il potere di istituzioni, con
relativi specialisti, detentrici di tale sapere, il quale pure servirà ad implementare / autorizzare decisioni
politiche. Passiamo ora ad alcune osservazioni più specifiche.

Prima osservazione: prima del concetto di malato asintomatico, in generale, si era soliti distinguere lo
stato di salute umana tra sano e malato. Dall’imporsi di questo termine, quindi da oltre un anno e
mezzo, gli occhi di buona parte di quel mondo che produce e fa girare le notizie sono focalizzati su dati
che riguardano anche questa terza categoria, instabile e sfuggente, della salute umana. Dobbiamo
dunque essere coscienti e non dimenticare che in base a tale concetto, quindi ai dati estratti dalla
realtà interpretata secondo tale concetto, sono programmati e messi in campo interventi politici,
scelte economiche, investimenti in settori specifici, mutamenti dei costumi.

Seconda osservazione: se “prima” la decisione in base all’essere sano o malato dipendeva ancora,
almeno in parte, dall’individuo – il quale esprimeva un giudizio sul suo stato di salute basandosi sulla
percezione autonoma del proprio corpo –, ora essa sta venendo sempre più monopolizzata dalla
strumentazione e dal sapere medico. Ciò è fatalmente legato, non solo alla natura e al decorso delle
malattie infettive, ma anche all’efficacia del metodo e della pratica del sapere medico: ovvero alla
strumentazione tecnica a sua disposizione, ai dati raccolti da tale strumentazione, al sapere strutturato a
partire da tali dati, all’azione intrapresa a partire da questo processo, ai risultati ottenuti da tale azione;
risultati che saranno a loro volta interpretati dalla medesima strumentazione e da questa ritradotti in
altri dati, dati riferiti al medesimo sapere, sapere sulla cui base si procederà a nuovi interventi… e via
daccapo. Ciò si avvicina al concetto di inscrizione come descritto da Woolgar e Latour in Laboratory
Life: “[…] concentriamo l’attenzione su schemi e figure e dati, dimenticandoci delle procedure
materiali che li hanno prodotti, o accordandoci per rigettarle nell’ambito della pura tecnica […]
sarebbe un errore quello di prendere come punto di partenza le differenze fra ciò che in scienza è
tecnica e ciò che non lo è […] assistiamo allora alla trasformazione di ciò che altro non è se non il
mero risultato di una inscrizione in oggetto che si inserisce e aderisce alla mitologia vigente […]
senza spettrometro, nessuno spettro: di fatto i fenomeni non solo dipendono dal materiale, ma sono
interamente costituiti dagli strumenti impiegati nel laboratorio. E così abbiamo costruito, grazie agli
strumenti d’iscrizione, una realtà artificiale, di cui chi impiega tali strumenti parla come di una entità
oggettiva. Questa realtà, che Bachelard chiama fenomenotecnica, assume l’apparenza del fenomeno
nel processo stesso della sua costruzione tramite tecniche materiali” (S. Woolgar / B. Latour,
Laboratory Life. The Social Construction of Scientific Facts).

Terza osservazione: a differenza dei sani e dei malati, i malati asintomatici non hanno uno stato
definito. Ognuno può esserlo: e questo indipendentemente da come egli si senta e percepisca,
indipendentemente dalla presenza, non tanto di una patologia, ma addirittura di una sintomatologia
percepibile dall’individuo. La diagnosi avviene attraverso strumenti e tecnologie sempre più complesse
su cui il paziente non ha il benché minimo controllo, la benché minima autonomia. Ora: non è che la
cosa sia sbagliata in sé. Il fatto di demandare la propria personale facoltà decisionale a strumentazioni e
a corpi di specialisti detentori di saperi ad esse relativi non è di per sé stesso negativo, anzi, è una cosa
che facciamo in continuazione prendendo aerei, mandando i bambini a scuola, eleggendo
rappresentanti.

Ciò detto, resta a mio avviso ragionevole – nonché opportuno, visto che oltre a rappresentativa si sente
anche parlare di democrazia – chiedersi se e fino a che punto questa espropriazione dell’uomo dalla
facoltà di decidere del proprio stato di salute sia cosa buona; proprio come resta ragionevole
chiedersi fino a che punto sia opportuno che qualcosa del genere avvenga anche in politica e nel
dibattito politico.
TOOLS OF THINKING PART IV - THE ASYMPTOMATIC
PATIENT

See what fear has forced us into,

o my big-mouth comrade.

See our tobacco crumbling apart,

nutcracker, doltish, dear friend.

To whistle life as a starling,

to eat it like a walnut pie –

but that’s a forbidden desire…

Osip Mandel'štam

The fact that a certain terminology gradually stands out in public discourse, so the fact that a population
becomes accustomed to the use of some terms rather than others, is not something neutral and without
consequences.

The world has no meaning. Or rather: it does not produce meaning. In the world we observe
organisms producing and reproducing themselves in various forms: we see winds, storms, trees and
animals, tides, eruptions, cataclysms… we never see meaning. It is the human being who says “plant”,
who says “animal”, who says Zeus, Poseidon, Hephaestus, theomachy, guilt, punishment… it is only
the human being who, by pivoting on this, can organize meaning and sense which allow him to
establish the laws, the balance of his individual and social life. Only the human being produces
meaning: it is the only creature who, by the act of naming it, makes something exist as meaning, the
only creature who evokes things from the continuum of anonymity, summoning them into the universe
of meaning. Words convey ideas and concepts: they contribute to form views of the world. And this is
because terms determine reality – that is: they set its terms, they draw its boundaries, they restrict and
force it, making it an understandable figure to us – thus allowing us to organize our social life and to
manage our conduct within reality. Idea means “form” in Greek and derives from a verb related to the
sense of sight. Ideas are mental tools of vision through which we see and therefore recognize reality as
structured in a certain way, according to a certain organization. For this reason, the definition of Doubt
as the dissemination of theories is correct: remembering that theory too, in Greek, is a term linked to
vision.

Once again: terms convey ideas and concepts. They are entities that, although abstract, have a rather
concrete influence and influence on reality, since they can shape it according to their meaning and
sense, here also to be understood as “direction”. If made their own, if used and widely shared by a large
part of a human group, the terms endorse and justify forms of social life: from the simplest and most
daily customs up to political decisions, cultural structures, organization of knowledge and most
complex economic planning.

If considered from this perspective, the pandemic has unleashed a new concept on the market of ideas:
that of asymptomatic patient. In this article I want to ask myself: what are the consequences of the
imposition of this term in public discourse? Since it makes quite a big difference if a term (such as
“race”, for example) is only used in a narrow circle of specialists or if it spread and thrown to press,
politics, to the whole population (such as… “race”).

First of all, it should be noted that the term and concept of asymptomatic patient derives from a
particular branch of knowledge: medicine. This is not an irrelevant remark: the more a certain branch
of knowledge manages to impose its own terms in public discourse, the stronger its knowledge is
and thus its faculty of transmitting to society its own view of the world, increasing the prestige of
its knowledge and the power of its institutions and specialists – the (stake)holders of its knowledge –
therefore its role and weight in political decision-making. Let us now turn to some more specific
observations.

First observation: before the concept of asymptomatic patient, in general, it was customary to
distinguish the state of human health between healthy and sick. Since this term has established itself,
that it to say for over a year and a half, the eyes of a large part of that world that produces and
circulates news have been focused on data that also concern this third unstable and elusive category of
human health. We must therefore be aware and not forget that on the basis of this concept (that is to
say: of the data extracted from reality interpreted according to this concept) political
interventions, economic choices, investments in specific sectors, changes in customs are planned and
implemented.

Second observation: if “before” the decision about being healthy or sick still depended, at least in
part, on the individual – who expresses a judgment on his state of health based on the autonomous
perception of his own body –, now it is becoming more and more monopolized by instrumentation and
medical knowledge. This is necessarily linked not only to the nature of infectious diseases, but also to
the efficacy of the methods and practices of medical knowledge: that is, to the technical
instrumentation at its disposal, to the data collected by this instrumentation, to the knowledge
structured out of these data, to the action undertaken having this whole process as starting point, to the
results obtained from this action; results that will in turn be interpreted by the same instrumentation
which will also retranslate them into other data, data which are to be referred to the same knowledge,
knowledge on the basis of which we will proceed to new interventions… and so on. This comes close
to the concept of inscription as described in Laboratory Life: “[…] the diagram or sheet of figures
becomes the focus of discussion between participants, and the material processes which gave rise to
it are either forgotten or taken for granted as being merely technical matters […] it would be wrong to
take differences between what is and is not technical in science as the starting point […] There thus
occurs a transformation of the simple end product of inscription into the terms of the mythology
which informs participants’ activities […] the spectrum produced by a nuclear magnetic resonance
(NMR) spectrometer would not exist but for the spectrometer. It is not simply that phenomena depend
on certain material instrumentation; rather, the phenomena are thoroughly constituted by the material
setting of the laboratory. The artificial reality, which participants describe in terms of an objective
entity, has in fact been constructed by the use of inscription devices. Such a reality, which Bachelard
terms the phenomenotechnique, takes on the appearance of a phenomenon by virtue of its
construction through material techniques” (S. Woolgar / B. Latour, Laboratory Life. The Social
Construction of Scientific Facts).

Third observation: unlike the healthy and the sick, asymptomatic patients do not have a definite state.
Everyone can virtually be it: and this regardless of how he feels and perceives himself, regardless of
the presence, not so much of a pathology, but of a symptomatology perceivable by the individual.
Diagnosis takes place through increasingly complex tools and technologies over which the patient does
not have the slightest control, not the least autonomy. It is not that the thing is wrong in itself. The fact
of delegating one’s personal decision-making faculty to instrumentations and to specialists who possess
knowledge relating to them is not negative in itself, on the contrary, it is something we do all the time
by taking planes, sending children to school, electing representatives.
That said, it remains in my opinion reasonable and appropriate – given that, in addition to
representative, we also hear about democracy – to ask ourselves whether and to what extent this
expropriation of the human being from making a decision on his own state of health is a good
thing; just as it remains reasonable to ask ourselves to what extent it is appropriate that something
similar occurs in politics and political debate.

Potrebbero piacerti anche