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CAPITOLO I

Cenni storici

I.1. Dagli stili di leadership all’approccio situazionale pag. 5

I.2. L’approccio situazionale: il “path-goal” e la teoria “LMX” pag. 6

I.3. La leadership trasformazionale pag. 8

I.4. Leadership empowering e team leadership pag. 10

CAPITOLO II

Le competenze del leader nell’organizzazione

II.1 Competenze e metacompetenze, ridefinizione nell’epoca

post-industriale pag. 11

II.2 Apprendimento della conoscenza: saper apprendere pag. 13

II.3. Saper essere

II.3.1 L’ottimismo e l’attribuzione causale pag. 14

II.3.2. L’assertività pag. 19

II.3.3. L’efficacia percepita e la leadership pag. 20

II.3.4. I valori nei livelli logici: il consenso che dura pag. 21

II.4. Saper comunicare

II.4.1. Le sette “C” della comunicazione pag. 26

II.4.2. Il metamodello pag. 27

II.5. Saper fare

II.5.1. Il problem solving creativo pag. 31

II.5.2. Motivare al successo attraverso gli obiettivi pag. 36

Conclusioni e Bibliografia pag. 41

2
In questa mia avventura alla ricerca di una verità
più alta, devo la mia gratitudine a tutti coloro che
mi hanno sostenuto e hanno reso possibile una
formazione costellata di esperienze uniche.
Ringrazio la mia famiglia per il supporto totale che
mi ha garantito in questi anni. Ringrazio Marzia,
che mi ha “obbligato” ad essere una persona
migliore e ringrazio gli amici che hanno gioito con
me proprio come io faccio con loro. Ringrazio
Danilo Carboni, formatore eccezionale e dotato di
grande umanità, la cui conoscenza è pietra miliare
nella mio percorso di ricerca continua di
consapevolezza. Con lui ringrazio tutti gli ispiratori
della mia vita, siano stati artisti e pensatori di fama
mondiale o bimbi entusiasti e curiosi. Ringrazio chi
ha taciuto se voleva ferirmi e chi ha parlato in mio
favore. Ma il mio ringraziamento maggiore va a chi
mi ha ostacolato, a chi mi ha messo in discussione,
a chi mi ha deriso e osteggiato e a chi non mi ha
creduto, perché è da loro che ho capito quanto
impegno la vita richieda per un risultato
straordinario.

3
In uno scenario internazionale contraddistinto da fenomeni di grande
cambiamento politico, sociale, economico sembra che ogni certezza possa essere
messa in discussione. Nulla appare più scontato, tantomeno la sopravvivenza di
realtà aziendali che fino a qualche tempo prima sembravano solidissime. Mai
come adesso i nuovi dirigenti devono rispondere all'ovvia esigenza di acquisire gli
strumenti necessari a diventare i fautori della crescita in maniera flessibile e
coraggiosa.
E' prioritario quindi trovare risposta alle domande anche sottese che ogni
situazione propone per raggiungere risultati concreti nella direzione migliore,
collaborando con onestà e lungimiranza con il team e contribuendo alla creazione
di un ambiente ideale al raggiungimento degli obiettivi preposti. Per avere
successo in tal senso si rivelano necessarie specifiche capacità e competenze,
come saper interpretare ogni variazione del sistema per poter contare su un
equipaggio preparato, affiatato e disciplinato.
Nella presente tesi si analizzeranno i costrutti di Programmazione Neuro-
Linguistica, Psicologia Sociale e Psicologia del Lavoro da cui provengono i
moderni paradigmi dei processi decisionali e comunicativi della dirigenza
moderna, generanti un’efficacia che individui e vinca i possibili ostacoli psicologici
al successo, che sia oggetto di una formazione mirata che sappia trascendere la
semplice informazione e che diventi veicolo di cultura. Questo grazie ai moderni
strumenti che nell’ultimo decennio sono diventati lo standard delle realtà
lavorative che abbiano scelto l’eccellenza e la modernità.
L'indagine si soffermerà inoltre sulle competenze della moderna
leadership, che prescindano il ruolo ma che ne orientino l’agire nella direzione
dello sviluppo. Si vuole quindi delineare le caratteristiche del leader ideale come
parte integrante dell'organizzazione intesa come sistema dinamico, aperto e
complesso, specialista del cambiamento e del problem-solving organizzativo,
capace di motivare a partire da metodi scientifici e che abbia in sé le qualità del
vero trascinatore carismatico.

4
ClAPITOLO I

Cenni storici
Uno dei temi più affrontati nel campo delle scienze che studiano i contesti
organizzativi è senza ombra di dubbio quello della Leadership. Lo scopo di questo
capitolo è quello di chiarire, dopo un brevissimo excursus storico, gli elementi
base di questo costrutto, superando le mere riflessioni teoriche per individuarne
sistematicamente l’accezione più moderna e il suo coniugarsi alle esigenze tipiche
di un’epoca di grande cambiamento come la nostra.

I.1 Dagli stili di leadership all’approccio situazionale


I primi studi sulla leadership all’inizio del secolo hanno cercato di mettere
in evidenza i tratti di personalità distintivi dei leaders che li distinguessero
spiccatamente dai non leader a prescindere dalla situazione di riferimento. I
risultati di tali studi costituirono sostanzialmente la base per interrogativi più
specifici a cui si riferirono diffusamente gli studi della metà del ‘900 e degli
approcci basati sul comportamento.
Una prima svolta in tal senso fu il “leadership pattern”1 elaborato da R.
Tannenbaum e W.H. Schmidt nella seconda metà degli anni ‘50, che più che un
vero e proprio modello di leadership, costituisce una rappresentazione dei vari stili
di leadership che il capo può adottare: dallo stile autoritario, incentrato sulla figura
del leader, a quello democratico partecipativo, incentrato sulla figura dei
subalterni. Da qui il nome della teoria, detta del “continuum”, nella quale vengono
individuati sette stili di leadership che prevedono una autorità decrescente del
capo, nei quali:
1) il manager prende le decisioni e le comunica. È lo stile di leadership
incentrato sul capo, il quale individua il problema, valuta tra le diverse soluzioni
alternative possibili, sceglie la soluzione ritenuta più adatta e la comunica ai
subalterni che si limitano a metterla in atto;
2) il manager “vende” le decisioni. Anche in questo caso il capo individua il
problema e le soluzioni possibili, decide quale soluzione adottare e mette al
corrente i subalterni di tale decisione. Tuttavia, in questo caso, egli cerca di
convincerli ad approvare la decisione adottata;

1 Tannembaum, A. S., Schmidt, W. H. (1958), “How to choose a leadership pattern” in Harvard


Business Review, 36, pp. 95-105.

5
3) il manager presenta le proprie idee e sollecita domande. Il capo
individua il problema e le soluzioni possibili, adotta la decisione ritenuta più
valida, la comunica ai subalterni e instaura con essi un dibattito in modo da
rendere più percepibili tutte le conseguenze della scelta adottata;
4) il manager presenta un'ipotesi di decisione suscettibile di cambiamento.
Il capo focalizza il problema e le possibili soluzioni e individua tra queste quella
ritenuta più valida che sottopone alle osservazioni dei dipendenti. La decisione
definitiva spetta ancora al capo;
5) il manager presenta il problema, ottiene suggerimenti e decide. Il capo
individua il problema e lo illustra ai subalterni che indicano una serie di possibili
soluzioni. Tra queste, è ancora il capo a decidere quale adottare;
6) il manager definisce i limiti e chiede ai subalterni di decidere. Il capo
individua il problema, ma lascia la definizione delle possibili soluzioni alternative e
di quella da adottare ai propri subalterni fissando, tuttavia, dei limiti: ad esempio
può stabilire dei limiti di spesa;
7) il manager permette ai subalterni di decidere entro i limiti definiti dal suo
superiore. L'individuazione del problema, la definizione delle possibili alternative
e la scelta della soluzione da adottare, sono di competenza del gruppo dei
subordinati, di cui può far parte anche il capo. Quest'ultimo si limita a fissare dei
limiti.
Pertanto, secondo il modello elaborato da Tannenbaum e Schmidt, il capo
ha a disposizione una serie di comportamenti diversi da adottare nei confronti dei
subalterni, che vanno dalla totale assunzione delle decisioni da parte del leader
alla completa partecipazione dei collaboratori alle scelte decisionali nel rispetto di
taluni vincoli organizzativi.


Ad influenzare la scelta dello stile di leadership concretamente adottato dal capo
sono soprattutto le caratteristiche personali del leader e quelle dei subalterni. Il
modello non trascura elementi che possono orientare la scelta dello stile come gli
atteggiamenti degli attori della relazione e gli aspetti legati al contesto.

I.2 L’approccio situazionale: il modello “path-goal”, la teoria LMX


Il secondo ambito di studio sulla leadership (ancora riferimento in
psicologia applicata) riguarda l’approccio situazionale, ambito che cerca di
definire cosa sia richiesto al leader rispetto alle circostanze ambientali. Ne è un
primo esempio la “teoria delle contingenze” di Fiedler 2 che parte dalla distinzione

2 Fiedler, F. E. (1967), Theory of Leadership Effectiveness. McGraw-Hill, New York

6
classica tra leaders centrati sul compito e leaders centrati sulla relazione,
considerando variabili chiaramente situazionali come la qualità della relazione
leader-followers, il grado di strutturazione del compito e la posizione del leader. Il
maggiore contributo fornito dall’approccio situazionale risiede nell’aver
riconosciuto che un unico stile di leadership risulta insufficiente e che il leader
debba adattarsi alle situazioni da affrontare per condurre il gruppo al successo.
Ma è il modello “path-goal”3 di Robert House che restituisce maggiormente
al leader la responsabilità di influenzare attivamente la prestazione, la motivazione
e la soddisfazione dei subordinati, attraverso una scelta di riconoscimenti che
siano incentivanti per il raggiungimento dell’obiettivo. In linea con l’approccio
situazionale alla leadership, il modello si concentra sulle modalità con le quali il
leader influenza la percezione dei collaboratori nei confronti degli obiettivi e del
percorso ideale da seguire per raggiungerli, tenendo conto della relazione in sé e
dei fattori situazionali riferiti:
1) ai collaboratori (necessità del gruppo della guida, abilità dei
collaboratori nel portarlo a termine, locus of control);
2) al compito (struttura del compito (ed eventuale ripetitività), autorità
formale del leader, il gruppo stesso).
Definita la situazione il modello consente al leader di scegliere lo stile di
conduzione più adeguato tra quattro livelli definiti in base alle necessità sopra
descritte:
- direttivo,
- di sostegno,
- partecipativo,
- realizzativo.
Per quanto il modello non possa del tutto essere eletto a manuale
operativo della classe dirigente a causa della sua complessità e specificità, esso
chiarifica la centralità della relazione leader-follower che contraddistinguerà i
modelli teorici successivi.
Ad incarnare la svolta appena descritta è la teoria leader-member
exchange (LMX) 4, il cui oggetto di studio è costituito dalla relazione diadica tra

3 House, R. J. (1971), “A path-goal theory of leader effectiveness”. In Administrative Science


Leadership Review, 16, pp. 321-339

4 Graen, G., Uhl-Bien, M. (1995), “Relationship based approach to leadership development of leader-
member exchange (LMX) theory of leadership over 25 years: Applying a multi-level multi-domain
perspective”. In Leadership Quarterly Summer, pp. 219-247.

7
leader e singolo collaboratore, dove l’aumentare della qualità della relazione di
scambio determina un incremento da parte del follower in termini di motivazione,
senso di appartenenza e conseguentemente delle prestazioni lavorative. Il
modello inoltre pone un accento sulla formazione implicita nella relazione diadica
di qualità, dove la trasmissione delle competenze non è solo una conseguenza,
ma diventa una delle finalità principali. L’approccio appena descritto integra
inoltre variabili situazionali come il numero dei followers e il supporto
organizzativo percepito dal leader, elementi che interferiscono sull’efficacia della
relazione/conduzione.

I.3 La leadership trasformazionale


Come abbiamo appena descritto, le teorie situazionali descrivono i
principali compiti dei leaders nel condurre e motivare i propri followers nella
direzione strategicamente definita, nel premiare gli sforzi in maniera mirata e
condivisa e correggere eventuali azioni non allineate all’obiettivo preposto; il tutto
in quadro transazionale che sottolinea la relazione leader-follower. Un ulteriore
passo in avanti rispetto alla leadership situazionale è costituito dalle teorie della
leadership trasformazionale 5.
James M. Burns coniò il termine nel 1978 con l'intento di reagire alla
definizione di leadership “transazionale” piuttosto in auge nelle due decadi
precedenti. Lo studioso, insieme ai suoi successori, criticò le teorie ed i modelli di
leadership degli anni Settanta ed Ottanta in quanto, “contrattuali”, meccanicistici e
privilegianti più le procedure che gli effetti. Burns ipotizzò la necessità di una
leadership unificante e supportiva piuttosto che meramente funzionale, e che
fosse in grado di formare tra i followers, nuovi leaders di successo.
La leadership trasformazionale viene concepita come “un modo per legare
leader e follower nella ricerca reciproca di scopi più alti”. I leaders trasformazionali
devono essere in grado di ampliare ed elevare gli interessi dei subordinati,
suscitando consenso e consapevolezza sugli obiettivi e sulla mission dell'impresa.
Secondo quanto sostiene Bernard Bass i leader aiutano i follower ad andare oltre
gli interessi e gli obiettivi personali 6 e li motivano a fare di più di quanto
inizialmente ci si aspetta da loro. Un efficace schema riassuntivo della teoria è
quello delle quattro i, o dei quattro profili delle azioni di leadership
trasformazionale:

5 Burns, J. M. (1978), Leadership. Harper Collins Publisher, New York.

6 Bass, B. M. (1985), Leadership and Performances Beyond Expectations. Free Press, New York.

8
- La considerazione Individuale, intesa come comunicazione
personalizzata ed esclusiva;
- La stimolazione Intellettuale, come via per la trasmissione di energia;
- La motivazione Ispirazionale, come accezione di sense-making;
- L’influenza Idealizzante, come creazione di un modello d’azione a cui
ispirarsi;
La capacità di creare, comunicare e condividere una visione comune fa
intuitivamente pensare al coinvolgimento degli altri attraverso attività eticamente
fondate o attraverso l'empowerment basato eminentemente sul carisma e sulla
personalità dei leader.
Ciò che contraddistingue questo modello di leadership è la possibilità da
parte dei leaders di poter influire sui desideri e le aspettative di coloro che
dirigono, in modo da poter andare oltre i bisogni immediati, per soddisfare,
invece, bisogni di livello più elevato; la leadership trasformazionale sarebbe in
grado, quindi, di incoraggiare la collaborazione da parte dei dipendenti poiché
pone enfasi sul bene dell’organizzazione e sulla maggiore soddisfazione che ne
deriva.
Secondo Edgar Schein, la figura del moderno manager nelle organizzazioni
è sempre più simile a quella del consulente, quanto meno sotto alcuni aspetti
principali. Rispetto ai manager tradizionali, “I manager competenti (…) sembrano
concepire il loro ruolo e impostare i loro rapporti con gli altri in modo molto
diverso: essi agiscono in maniera da fornire a subordinati, colleghi e superiori
l’aiuto di cui questi necessitano per svolgere con successo il proprio lavoro nel
quadro degli obiettivi prefissati”7 in maniera analoga a quanto farebbe un
consulente per il miglioramento della performance professionale. Il più
importante denominatore comune appare essere quello della “predisposizione
alla collaboratività”.
In questo senso il responsabile è principalmente un facilitatore, il cui
successo consiste nel successo altrui. Questa missione si afferma con atti
quotidiani quali il togliere dinanzi agli altri gli ostacoli che tradizionalmente
avevano un significato, ma che oggi non ne hanno alcuno. Utilizzare cioè il proprio
potere per aprire le porte, rimuovere ostacoli, essere anticipatori.

7 Schein, E. H. (1999), La consulenza di processo: come costruire le relazioni d’aiuto e promuovere lo


sviluppo organizzativo. Cortina Editore, Milano.

9
I.4 Leadership empowering e team leadership
Il termine “Empowerment” contiene accezioni e suggestioni che
promuovono una visione favorevole allo sviluppo. Il sostantivo racchiuso in questa
espressione è "power", che rimanda a significati come potenza, capacità, forza e
potere. Il verbo “to empower” significa dare pieni poteri, autorizzare, dare delega.
Le linee guida della “leadership empowering”,8 in sostanza, si ispirano ad una
radicale contrapposizione alla logica strategico-manipolativa delle prime
teorizzazioni in tema di leadership, specificando più approfonditamente il
comportamento del dirigente di successo: informare, formare, delegare, ispirare e
premiare i collaboratori.
Secondo Daft, tale descrizione va completata nell’ottica della conduzione
del team,9 ampliando la concezione diadica dell’empowerment per rivolgerne gli
effetti al gruppo come sistema. Nello specifico un team leader deve, in un’ottica di
trasferimento di conoscenze e competenze:
- Riconoscere i bisogni individuali e di gruppo;
- Identificare i punti di forza del team;
- Costruire e consolidare la fiducia;
- Sviluppare la capacità del team di anticipare e affrontare efficacemente
il cambiamento;
- Delegare e condividere le responsabilità;
- Ispirare e motivare il team a livelli di prestazione sempre maggiori;
- Riconoscere i risultati raggiunti dal gruppo;
La leadership oggi è un fenomeno di integrazione, coordinamento ed
armonizzazione di competenze e dunque di supporto. In una società
tecnologicamente avanzata come quella attuale, per manager e consulenti non è
più sufficiente né possibile impartire semplici ordini, ma più realisticamente creare
autonomia verso un’evoluzione che coinvolge anche il leader stesso, fautore e
oggetto delle dinamiche che ha favorito. Nel capitolo successivo, a partire dalle
teorie appena descritte, ci si occuperà di individuare le caratteristiche del leader
ideale in azione.

8 Bowen, D. E., Lawler, E. E. (1995), “Empowering service employees”. In Sloan Management


Review, Summer, pp. 73-84

9 Daft, R. L. (1999), Leadership. Theory and Practice. The Dryden Press, Orlando.

10
CAPITOLO II

Le competenze del leader nell’organizzazione


Oggi molto più che in passato le organizzazioni necessitano di persone in
grado di responsabilizzare, coinvolgere, creare una visione comune. Inoltre
devono saper abituare i membri al lavoro di squadra, trasformandoli da
“esecutori” a “partner” che operano impiegando tutte le risorse per risolvere nel
modo più intelligente i problemi e gli imprevisti. Essi devono dare il massimo per
raggiungere obiettivi e traguardi condivisi, costituendo un vero e proprio esempio
di motivazione allo sviluppo.
In questo capitolo osserveremo alcune delle sfide peculiari del leader
nell’organizzazione, i contributi teorici rispetto alle aree d’intervento e l’influenza di
una condotta orientata al successo rispetto agli obiettivi preposti.
Tale concezione non è affatto dicotomica da quella del manager, riferita alla
responsabilità delle risorse, all’organizzazione, alla pianificazione, all’assegnazione
dei ruoli, alla delega e al controllo. Integrare le due figure significa completare la
gestione con la guida, aggiungere senso al fare.
In sostanza, un sunto delle qualità che fanno di un dirigente un vero e
proprio leader che sappia trascendere dal classico saper essere, saper fare e
gestire le risorse umane, integrando in queste attività complesse un
comportamento fedele alle linee appena descritte.
II.1 Competenze e metacompetenze, ridefinizione nell’epoca post
industriale
All’interno del mercato del lavoro, il dibattito sul concetto di competenza si
è intensificato a partire dagli anni Novanta e l’argomento è stato confrontato con
concetti quali lavoro, mestiere, professionalità e qualifica. Questa intensificazione
ha coinciso con i marcati processi di cambiamento che, in questi ultimi anni, hanno
investito i sistemi produttivi imponendo nuove forme di organizzazione del lavoro
e nuove esigenze di competitività: flessibilità, mobilità, trasferibilità, innovazione,
internazionalizzazione.
L’orientamento e le disposizioni, sia europee sia nazionali, evidenziano
ampiamente il fatto che le competenze tecnico-professionali non costituiscono le
uniche competenze chiave nel contesto dei modelli organizzativi a partire dai
leader. Accanto alle componenti tecnico-professionali, risultano di primaria
importanza, (e in alcuni casi ne sono la precondizione necessaria), le capacità
relazionali e sociali, la capacità di cooperazione e quella di autosviluppo e
autodiagnosi, oltre alla capacità di apprendimento continuo e guida.

11
La sfida è quella di coniugare la formazione centrata sulle competenze
tecnico-professionali con la possibilità, per la persona, di collocarsi e adattarsi con
successo nelle organizzazioni in costante evoluzione. E questo è maggiormente
vero in riferimento alle figure dell’innovazione come quelle che sono descritte in
questo scritto.
E’ all’interno di questa prospettiva che Jacques Delors colloca la
definizione di competenza all’interno di uno dei quattro pilastri dell'educazione
per il XXI secolo: “l'imparare a fare”. Gli altri tre pilastri, cui il primo è fortemente
legato, sono l’imparare a conoscere, l’imparare a vivere insieme e l’imparare ad
essere. L’obiettivo di Delors è evidentemente quello di dare sostanza alle
coordinate strategiche della società della conoscenza ed in tal senso la
competenza è la materia prima dell’imparare a fare: di un imparare a fare che nel
terzo millennio sarà molto diverso da come lo abbiamo inteso in passato, in
quanto legato alla supremazia dell'elemento cognitivo e informativo come fattore
chiave dei sistemi di produzione. 10
Con la fine della società industriale è destinata a tramontare
definitivamente l'idea di abilità professionale, in relazione alla capacità astratta di
eseguire un compito, per fare spazio a quella di competenza essenzialmente
intesa sotto il segno della personalizzazione, della multilateralità e della
poliedricità. Il concetto di metacompetenza finisce per configurarsi nei termini
della capacità, propria ad ogni individuo, di adattarsi e riadattarsi alle dinamiche
evolutive del suo sistema ambientale e relazionale di riferimento, costruendo e
trasformando continuamente i propri modelli di conoscenza e di azione. Questa
interpretazione del concetto di metacompetenza, di natura strettamente
costruttivista, tende fortemente ad avvicinarsi a quel concetto di competenza
strategica che Aureliana Alberici definisce in termini del “saper apprendere
lifelong”.11 Competenza che, nelle sue molteplici dimensioni, si fonda sulla
categoria concettuale dell’apprendere ad apprendere e sulle sue implicazioni
formative.
La nozione di competenza strategica ha precise implicazioni sul piano
operativo, nella misura in cui chiama in causa quelle abilità/dimensioni che sono,
appunto, strategiche perché un individuo sia in grado di sapere apprendere in
diversi contesti e lungo tutto l’arco della vita. Da ciò deriva la qualità strategica che
si attribuisce a questo tipo di competenze-risorse. Da ciò emerge, egualmente, la
possibilità di indicare come nuovi contenuti dell’apprendimento non solo i
contenuti di conoscenze specifiche, non solo le procedure della “cognizione”, ma

10 Delors, J. (1997), Nell'educazione un tesoro, Armando, Roma.

11 Alberici, A. (1999), Imparare sempre nella società conoscitiva, Paravia, Torino.

12
gli stessi saperi taciti, che consentono lo sviluppo della dimensione proattiva delle
competenze, e cioè di quelle strategiche che permettono il lifelong learning.

La competenza strategica finisce dunque per evocare una pluralità di


dimensioni: cognitive, emotive, sociali, linguistico-narrative. Essa riguarda in
definitiva una disposizione fondamentale, flessibile e adattiva, legata a capacità
individuali relazionali, affettive, di responsabilità, orientamento, progettazione e
intervento sul reale.

Ovviamente quando la risorsa, in un ambiente che è sia cognitivo che


produttivo, richiede un alto livello di autonomia e libertà (si è già accennato ad
una leadership che crea leadership) la figura del capo diviene quella del
facilitatore, il quale si prende cura del team in termini di guida, sostegno e
riconoscimento del risultato. La leadership deve orientarsi verso obiettivi di
apprendimento reciproco attraverso attività di supporto e di guida, evitando di
enfatizzare le attività di controllo e di supervisione diretta.

Se il tipo di lavoro è organizzato orizzontalmente intorno ai flussi di lavoro,


diviene fondamentale assumere questa molteplicità di competenze come regola,
non più come eccezione. Lo stesso sistema premiante non può prescindere dalla
motivazione intrinseca originata dall’attività stessa della risorsa, dalle soddisfazioni
che ne derivano e dall’identificazione nei valori e nella missione dell’azienda. In
sostanza, come sostiene Butera, bisogna prendersi cura delle persone in quanto
attori, non oggetti della comunicazione, dei processi e delle strutture. Le capacità
empatiche assumono dunque un valore particolare all’interno del mondo delle
organizzazioni ed è sempre più richiesto il possesso di quelle metacompetenze
che eleggono il quadro a leader 12.

L’oggetto del capitolo vuole identificare delle qualità che riguardino abilità
cognitive che prescindano dal compito, dai contesti, dalla posizione e dai ruoli, e
che siano legate a processi riflessivi. Si intende sottolineare qualità che siano
fattori chiave della leadership che formi le risorse umane e che garantiscano la
flessibilità del profilo professionale di chi cambia e innova di mestiere.

II.2 Metacompetenze e apprendimento della conoscenza: saper


apprendere

Oggi emerge prepotentemente una concezione dell'apprendimento nei

12 Butera, F., Donati E., Cesaria R., (2000), I lavoratori della conoscenza, quadri, middle manager e
alte professionalità tra professione e organizzazione. Franco Angeli, Milano.

13
termini di un processo biologico e dinamico, grazie alla sua capacità di
confrontarsi con gli inputs del mondo esterno, di svilupparsi e di evolvere nella
scelta delle risposte ritenute più adeguate a questi inputs, considerata l’esigenza
di adattarsi alle mutevoli condizioni del mondo circostante.

Questa concezione appare ancor più amplificata se la si applica ai soggetti


oggetto di questa tesi, leaders che operano in organizzazioni complessissime e
anch’esse mutevoli come il contesto nelle quali esistono. L'immagine della
conoscenza che ne deriva non corrisponde ad un modello cristallizzato bensì ad
un modello dinamico che si definisce nel processo stesso della sua costruzione.

I temi dell’apprendimento organizzativo e, più in particolare, quelli legati


alle competenze, al valore delle forme intuitive del sapere, diventano motivi
dominanti del rinnovamento della cultura e delle pratiche formative. L'apprendere
(letteralmente afferrare e far proprio un oggetto in un contesto relazionale), come
osserva Lipari, diventa il concetto cruciale a partire dal quale non solo si rivaluta la
dimensione soggettiva di chi partecipa a un evento rendendosi protagonista di
una dinamica in cui agiscono altri soggetti, ma mette anche in luce la rilevanza
dell'interazione, dello scambio, del dialogo e dell’apprendere insieme.13

II.3 Saper Essere

II.3.1 Ottimismo e attribuzione causale


La definizione di ottimismo presa dal dizionario comprende due concetti
correlati. Il primo è una disposizione alla speranza, una convinzione che alla fine il
bene avrà la meglio. La seconda più generale convinzione si riferisce alla
credenza, o all’inclinazione a credere, che il mondo sia il “migliore dei mondi
possibili”.
Costante fondamentale in ogni leader di successo, l’ottimismo è stato
ambito fondamentale di ricerca in psicologia. Una prima ingenua valutazione
porterebbe a pensare che la persona ottimista abbia questa caratteristica
esclusivamente a causa del successo che l’ha investita, ma le ricerche sul campo
affermano che una valutazione del genere risulta quantomeno incompleta.

13Lipari, D., La comunità di pratica come contesto di apprendimento, in Personale e Lavoro 509, pp.
24-31.

14
M. Scheier e C. Carver, durante una ricerca condotta nel 1985,14 nella quale
studiavano i processi collegati all’autoregolazione del comportamento, hanno
rilevato come le azioni che un individuo intraprende siano influenzate dalle
aspettative che gli stessi individui hanno nei confronti delle possibili conseguenze
di tali azioni.
L’aspettativa, considerata come quel senso di fiducia o di dubbio riguardo
alla possibilità di raggiungere un particolare obiettivo, è basilare per il
raggiungimento degli stessi. L’ipotesi sostenuta da Scheier e Carver è quella
secondo la quale le persone si impegnano per raggiungere degli obiettivi finché li
considerano raggiungibili e fino a quando sono convinti che il loro perseverare
porterà agli esiti sperati. Quando le aspettative diventano sfavorevoli e il
raggiungimento dei propri scopi è fortemente compromesso, gli individui
riducono il proprio impegno o addirittura abbandonano il compito.15
L’ottimismo, fondamentalmente regolato dalle aspettative, sottende una
generalizzata disposizione ad aspettarsi esiti positivi, ed è fortemente implicato in
queste dinamiche. Gli ottimisti tendono ad avere e a mantenere aspettative più
positive nei confronti del futuro e aspettative più speranzose in una data
situazione, rispetto ai pessimisti e, di conseguenza, si sforzano maggiormente e
con più costanza per raggiungere gli obiettivi che si prefissano, ponendosi
positivamente di fronte all’esperienza e a quello che li attende. 16 I pessimisti, al
contrario, sono portati a sfuggire dagli impegni presi e a rifugiarsi in un
atteggiamento più passivo verso ciò che capiterà loro. In presenza di compiti
impegnativi, gli ottimisti tendono a mostrare maggiore fiducia e persistenza verso i
propri obiettivi, anche se il raggiungimento della meta finale dovesse prospettarsi
particolarmente ostico. I pessimisti attuano comportamenti più dubbiosi ed
esitanti. Anche quando le difficoltà diventano più serie, gli ottimisti tendono a
pensare che possono superarle con successo, mentre i pessimisti immaginano un
esito disastroso.
L’ottimismo è generalizzato e non limitato a specifiche aree del
comportamento o a specifiche circostanze; è una disposizione, e proprio per
questo viene chiamato ottimismo disposizionale (o grande ottimismo), da non
confondere con l’ottimismo situazionale (o piccolo ottimismo). Esso è da

14 Scheier, M. F., & Carver, C. S. (1985). Optimism, coping, and health: Assessment and implications
of generalized outcome expectancies. Health Psychology, 4, pp. 219-247

15 Scheier, M. F., & Carver, C. S. (1993). On the power of positive thinking: The benefits of being
optimistic. Current Directions in Psychological Science, 2, 26-30.

16 Scheier, M. F., & Carver, C. S. (1988). A model of behavioural self-regulation: Translating intention
into action. In Berkowitz, L., Advances in experimental social psychology, 21, pp. 303-346. San
Diego, Academic Press.

15
considerarsi come tratto relativamente stabile della personalità di un soggetto, ma
può derivare anche da fattori esterni e ambientali. L’ottimismo, secondo Scheier e
Carver, è un fattore che modula la motivazione ed incide sulle aspettative di
riuscita: spinge a persistere nella scelta dei propri obiettivi, anche nei casi in cui
sono presenti oggettive difficoltà. Esso caratterizza il sé dell’individuo e attribuisce
un profondo senso di coerenza interiore che gli consente di mantenere nel tempo
un’immagine favorevole, oltre che coerente. 17
L’ottimismo disposizionale è di tipo realistico, in quanto sa accettare le
situazioni per quello che sono e non si ostina a modificare condizioni impossibili.
Inoltre gli individui che ottengono alti punteggi nella misurazione del proprio
ottimismo disposizionale, riferiscono meno sintomi depressivi, miglior uso di
efficaci strategie di coping, e meno sintomi fisici di quanto facciano gli individui
pessimisti.
Una differente prospettiva sull’ottimismo è quella che si basa sull’analisi
dello stile esplicativo. Questa prospettiva si è sviluppata in parallelo con quella di
Scheier e Carver, ed evidenzia, prima di tutto, il fatto che sia l’ottimismo che il
pessimismo sono stili cognitivi di spiegazione degli eventi. Con questa definizione
si intende l’atteggiamento mentale generalmente adottato da una persona per
spiegare e interpretare gli eventi che accadono, attribuendo ad essi precise cause.
Seligman, in accordo con la riformulazione del modello dell’impotenza
appresa, 18 attraverso l’integrazione con la teoria dell’attribuzione19 di Kelley,
sostiene che ottimismo e pessimismo sono collegati a tre fattori che definiscono lo
stile esplicativo:
- la stabilità (contrapposta alla temporaneità)
- la globalità (universalità vs. specificità)
- la personalizzazione o locus (causa attribuita a se stessi, locus interno vs.
la causa attribuita ad altre persone o fattori ambientali, locus esterno).
Da questo inquadramento, risulta che gli ottimisti seguono uno stile di
attribuzione causale nello spiegare gli eventi negativi caratterizzato da tre fattori:
- forniscono una spiegazione provvisoria e momentanea (temporaneità)
come esito di un avvenimento fortuito ed occasionale;

17 Anolli, L. (2005). L’ottimismo. Il Mulino, Bologna.

18Abramson, L. Y., Seligman, M. E. P., & Teasdale, J. D. (1978). Learned helplessness in humans:
Critique and reformulation. Journal of Abnormal Psychology, 87, 49-74.

19Kelley H. H., (1967). Attribution theory in social psychology. In: Levine, D., Symposium on
Motivation. University of Nebraska Press, Lincoln.

16
- danno una spiegazione circoscritta e puntuale, connessa con quella
specifica situazione (specificità);
- attribuiscono la spiegazione dell’accaduto ad una causa esterna.
I pessimisti, d’altro canto, sono caratterizzati da uno stile cognitivo opposto
in riferimento agli eventi negativi, infatti:
- forniscono una spiegazione sistematica e stabile per quanto è accaduto
(permanenza);
- danno una spiegazione globale e universale, valida per tutte le
occasioni (universalità);
- attribuiscono a loro stessi la spiegazione di quanto è successo (causa
interna).
E’ naturale che se ottimisti e pessimisti si confrontano con eventi positivi, le
loro spiegazioni nell’attribuire le cause sono invertite. Gli ottimisti forniranno una
spiegazione caratterizzata da stabilità, permanenza ed internalità, mentre i
pessimisti forniranno uno stile esplicativo caratterizzato da temporaneità,
specificità ed esternalità.
E’ stata ipotizzata una relazione tra lo stile esplicativo ottimistico teorizzato
da Seligman e la disposizione ottimistica sostenuta da Scheier e Carver. Peterson
(1991), ha affermato che questi due costrutti sono molto simili tra di loro: entrambi
sono di natura cognitiva e sono collegati all’energia o alla passività con cui gli
individui affrontano le richieste ambientali. Entrambe le teorie, inoltre, si basano
sull’assunzione che gli effetti dell’ottimismo e del pessimismo derivino dalle
differenze nelle aspettative, e i dati ricavati dalle ricerche sullo stile esplicativo
tendono ad essere paralleli a quelli ottenuti per la disposizione ottimistica 20.
In realtà, esiste qualche differenza tra i due costrutti. L’approccio di Scheier
e Carver, ad esempio, tende a considerare le aspettative in maniera diretta e
generica, queste riguardano infatti approssimativamente l’intero spazio (e tempo)
di vita degli individui mentre l’approccio di Seligman risulta maggiormente
indiretto, in quanto le aspettative sono valutate in base all’analisi dello stile
attributivo, ovvero il modo in cui l’individuo tipicamente spiega gli eventi che gli
accadono. 21

20 Peterson, C., & Bossio, L. M. (1991), Health and optimism. New research on the relationship
between positive thinking and well-being. The Free Press, New York.

21Scheier, M. F., & Carver, C. S. (2000). Scaling back goals and recalibration of the affect system are
processes in normal adaptive self-regulation: Understanding "response shift" phenomena. Social
Science & Medicine, 50, 1715-1722

17
Nella letteratura riguardante l’ottimismo disposizionale, inoltre, ottimismo e
pessimismo sono spesso visti come due poli di uno stesso continuum. Termini
ottimismo, pessimismo, speranza e impotenza sono spesso utilizzati in maniera
intercambiabile. Anche nella letteratura riguardante lo stile esplicativo spesso si fa
confusione e tutte le ricerche che considerano ottimismo e pessimismo come due
dimensioni opposte di uno stesso continuum, assumono che le persone che
danno spiegazioni negative per eventi problematici lo faranno anche per spiegare
eventi positivi22.
Considerando ottimismo e pessimismo in questo modo, vengono però
offuscate importanti distinzioni degli stessi costrutti. Un individuo che si aspetta
che i propri desideri non verranno soddisfatti, non necessariamente si aspetta una
catastrofe. Chang et al. suggeriscono di usare il termine ottimismo per riferirsi alle
aspettative di risultati positivi e di utilizzare il termine pessimismo facendo
riferimento alle aspettative di risultati negativi. In questo modo, gli individui
possono nello stesso tempo possedere alti o bassi livelli di ottimismo e alti o bassi
livelli di pessimismo. Ottimismo e pessimismo, secondo questi autori, sono da
considerare costrutti distinti e non poli di un unico continuum.23
L’ottimismo è quindi un delle attitudini principali del leader oggetto di
questo scritto, che descrive un modo di affrontare le sfide e le situazioni della vita
che gli si propongono. E’ la capacità di cogliere gli aspetti positivi delle situazioni
(in ciò si sovrappone al pensiero positivo) e soprattutto nella convinzione che alla
fine andrà tutto bene, di sostenere con fermezza la propria capacità di trovare la
strada là dove non c’è ancora. Ottimista è colui che ha fiducia negli altri, che ha
fiducia nel fatto che lavorando con dedizione, passione e competenza i risultati
arriveranno.
Il leader ottimista è colui che crede nel miglioramento suo, dei suoi
collaboratori e del team nel suo insieme. L’atteggiamento ottimista è tipico di colui
che crede che dal confronto con i propri collaboratori possano emergere soluzioni
e idee nuove.
Ottimista è il dirigente che sa che prendersi cura del sistema è importante,
che così facendo il sistema si prenderà cura di lui e che lavorando sulla
motivazione dei collaboratori, sull’ascolto attivo e sui feedback, i risultati
arriveranno. L’ottimista ha in sé forza, autostima  e rispetto degli altri. Non è

22Gillham, J. E., (2000). The science of optimism and hope. Research essays in honor of E. P.
Seligman. Philadelphia & London: Templeton foundation press.

23 Chang, E. C., Maydeu-Olivares, A., & D’Zurilla, T. J. (1997), Optimism and pessimism as partially
independent constructs: Relations to positive and negative affectivity and psychological well-being.
Personality and Individual Differences, 23, pp. 433-440.

18
accondiscendente, ma è pronto a cambiare perché ascolta; è vivo ed è aperto al
miglioramento, da qualunque parte arrivi.

II.3.2 L’assertività
In ogni percorso formativo improntato sullo sviluppo della leadership, la
premessa prima per eccellenza è che le nostre rappresentazioni simboliche non
costituiscono la realtà oggettiva, che resta così inaccessibile se non attraverso la
nostra personale e sempre incompleta mappa mentale. Alfred Korzybski, padre
della semantica generale coniò a tal proposito la massima che recita “la mappa
non è il territorio”, in occasione di una sua lezione ad un gruppo di studenti.
Accettare l’altro è un compito indispensabile nella relazione d’aiuto, ma è
tutt’altro che semplice in quanto gli schemi di valutazione della realtà sono
personali e molto diversi da individuo ad individuo. Far sì che questo sia una realtà
però significa cercare di assimilare la sua visione del mondo e di comprendere il
significato che ha per lui un qualsiasi fenomeno. Inoltre il leader che sappia
sostenere con fermezza lo staff deve saper evitare errori che costituiscano veri e
propri ostacoli nella relazione, rifuggendo un’asimmetria che vada oltre la mera
posizione gerarchica.
In breve, il leader deve saper essere assertivo. “L'assertività è la capacità del
soggetto di utilizzare in ogni contesto relazionale, modalità di comunicazione che
rendano altamente probabili reazioni positive dell'ambiente e annullino o
riducano la possibilità di reazioni negative” 24. Tale qualità si basa su un
comportamento attivo e partecipe, caratterizzato da un forte senso di
responsabilità e di piena fiducia in sé e negli altri. Un comportamento tale,
permette all’individuo una piena e serena espressione delle proprie volontà, dei
propri diritti e delle proprie emozioni. Una persona assertiva inoltre evita
atteggiamenti e comportamenti censori o permeati da etichette, stereotipi o
pregiudizi, diventando un curioso scopritore e un attivo fautore della realtà che lo
circonda.
Presupposto fondamentale dell'assertività è il saper ascoltare, ovvero
prestare attenzione non solo al contenuto razionale ma anche a quello emotivo,
dimostrando capacità di riassumere, restituire feed-back e chiedere chiarimenti.

In pratica l’assertivo amplia la propria rappresentazione della realtà con le
conoscenze acquisite dall’ascolto e dall’empatia che instaura con l’altro. Il
comportamento assertivo, specie se favorito e allenato, è caratterizzato da alcune
espressioni corporali particolarmente aperte, cordiali e coerenti in tutti livelli della
comunicazione: contatto visivo, espressioni del volto, pause, volume, inflessione

24 Mauri, A., Tinti, C., (2002), Formare alla comunicazione. Erickson, Trento.

19
della voce, prossemica sostengono il messaggio verbale e costituiscono una
percentuale consistente dell’efficacia comunicativa dell’assertivo.
Per il leader, in estrema sintesi, è necessario utilizzare un linguaggio che sia
portatore di fiducia in sé e negli altri e che sappia descrivere il comportamento
altrui in maniera obiettiva ed aperta, evitando modalità censorie, ordini categorici
ed espressioni giudicanti. Il leader assertivo riesce ad essere un comunicatore
efficace in quanto seleziona i propri pensieri orientandoli al positivo e visualizza il
successo in modo da influenzare il proprio comportamento e quello dei membri
del gruppo in tale direzione. Inoltre la riduzione dell'ansia e l'emergere delle
convinzioni positive conseguenti al comportamento assertivo permettono uno
sviluppo personale e una crescita della propria efficacia percepita.

II.3.3 Efficacia percepita e leadership


Appare doveroso, quando si parla di leadership, sottolineare un aspetto
fondamentale di questa dimensione: la self efficacy, concetto centrale della teoria
socio-cognitiva di Bandura secondo cui il senso di efficacia personale esercita
effetti importanti nella salute su almeno due aspetti: nel fronteggiare gli eventi
stressanti e nella modificazione dei comportamenti nocivi. Le reazioni allo stress
sono interpretate come percezione di scarso controllo sulle minacce e le
condizioni ambientali sfavorevoli. Se un soggetto ha la ferma certezza di poter
affrontare efficacemente i fattori stressanti presenti nell’ambiente, questi ne
avvertirà meno l’effetto perturbante. In caso contrario il senso di angoscia e ansia
pregiudicheranno l’efficacia delle azioni che metterà in atto. 25
La percezione di autoefficacia rappresenta la credenza di poter modificare i
comportamenti meno produttivi o addirittura a rischio attraverso l’azione
personale. Le credenze nell’efficacia sono importanti in tutte le fasi del processo di
autoregolazione del comportamento. Numerose ricerche hanno dimostrato che
l’autoefficacia influenza notevolmente le intenzioni e il comportamento. Più le
persone sono convinte di poter agire efficacemente, più elevati saranno gli scopi
che si proporranno, e maggiore sarà l’impegno e la perseveranza che metteranno
nell’esecuzione delle azioni, anche di fronte alle difficoltà e ai fallimenti.
Un alto livello di self-efficacy risulta quindi essere una delle caratteristiche
più importanti che il leader deve avere. Bandura inquadra questo aspetto come il
primo punto fondamentale nell’esercizio dell’autocontrollo rispetto all’ansia. In
quest’ottica il leader deve:

25Bandura A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory. Prentice-
Hall, Englewood Cliffs.

20
- Creare le corrette aspettative, essere all’altezza delle scelte operate,
ragionare per obiettivi realistici nell’accettazione incondizionata delle
“regole” (self-efficacy);
- Saper osservare il proprio ruolo e i propri obiettivi (self-monitoring) ;
- Scomporre un obiettivo percepito come ansiogeno in sotto-obiettivi;
- Saper attribuire successi e insuccessi realisticamente, a se stesso o ai
suoi collaboratori (self-evauation);
- Saper auto-rinforzarsi per i comportamenti che hanno decretato un
successo, in modo da consolidarli (self-reinforcement).26
La parola “self” non deve far pensare ad un uomo che debba far tutto da
sé, ma a colui che sappia gestire la naturale ansia che accompagna le grandi sfide
e le decisioni determinanti, mantenendo un locus of control prevalentemente
interno e che, quanto e più degli altri, sia attento ad ogni feedback possa aiutarlo
a comporre una coscienza del reale obiettiva e orientata all’entusiasmo che ispira.

II.3.4 I valori nei livelli logici: il consenso che dura


Affrontando la delicata ricerca delle qualità del leader è abbastanza
scontato pensare al carisma. E’ il carisma a trasformare un individuo di talento in
un autentico leader. Con esso veniamo in contatto assai spesso, in ambiti
apparentemente lontanissimi. L'etimologia rimanda alla sfera religiosa: il carisma è
la “grazia” il dono divino che elegge e distingue. Ma troviamo leader carismatici in
politica come nello spettacolo o nelle arti, nell'industria o nei mass media. Il
carisma è uno degli elementi chiave del potere e della creatività. Proprio per
questa sua trasversalità, il fenomeno sembra sfuggire a definizioni e catalogazioni
rigide. Allora diviene spontaneo chiedersi: è questa una qualità innata o chiunque
può svilupparla? Se si come?
Un’indagine che si rispetti deve indagare sull’origine di un fenomeno e
un’interessante punto di vista in tal senso è quello della teoria dei livelli logici
formulata da Gregory Bateson e successivamente messa a punto da Robert Dilts
come vero e proprio paradigma operativo. 27 Essa consiste nel considerare ogni
struttura mentale come una serie di livelli gerarchici naturali. Ogni livello superiore
include tutti gli altri, collocati inferiormente.

26Bandura, A. (1997). Self-efficacy: the exercise of control. New York: W. H. Freeman and company.
Trad. it. Autoefficacia: teoria e applicazioni. Erickson, Trento.

27Dilts, R., (2003), Cambiare le convinzioni con la PNL (i livelli di pensiero). NLP Italy – Alessandro
Roberti Editore, Bergamo.

21
Pertanto ogni cambiamento ad un livello superiore si ripercuote sui
sottolivelli, provocando così un impatto maggiore sull'individuo e sul suo agire. 

Dilts ha distinto i livelli neurologici in sette categorie gerarchicamente ordinate:

- l'ambiente, rappresentato dai fattori esterni, del contesto, che possono


influenzare le reazioni della persona;

- il comportamento, costituito dall’insieme delle azioni compiute


nell’ambiente;

- le capacità, che sottintendono attitudini, capacità e competenze


impiegate nell’acquisire e mettere in opera i comportamenti;

- le credenze, ovvero ogni affermazione personale ritenuta vera.


Coscienti o incoscienti, esse guidano l’auto-percezione, la percezione
degli altri e del contesto;

- i valori, che costituiscono ciò che la persona ritiene importante. Valori e


credenze racchiudono inoltre le motivazioni;

- l'identità è la rappresentazione che ciascuno ha di sè stesso e influenza


tutti gli altri livelli logici. In base all’identità vengono messi in atto i
comportamenti, l’acquisizione di nuove capacità, l’adozione di valori
credenze e l’impegno nella propria missione;

- la visione, che corrisponde al senso della propria esistenza.

I livelli logici possono essere rappresentati come un cono di cui la base è


l’ambiente e la punta l’identità. Al di sopra di questo punto, un altro cono, punta in
basso e ha la base verso l’alto e rappresenta i diversi livelli "spirituali", cioè tutti i
livelli che trascendono l’individuo. Tali livelli comprendono l’appartenenza ai vari
gruppi sociali, il sentimento di far parte della specie umana o dell’universo.

Se l’agire di un uomo è ispirato dalla propria appartenenza, missione e identità e
guidato da forti valori, esso sarà contraddistinto da un’alta motivazione
riguardante anche l’acquisizione di competenze sempre nuove per agire
sull’ambiente in modo da migliorarlo.

E fuor di dubbio che quella magica sensazione che proviamo al cospetto


dei grandi uomini, e che identifichiamo col termine di carisma, sia riferita ad un
senso di estrema coerenza e allineamento di tutte le manifestazioni del loro
comportamento nell’ambiente in cui vivono, discendenti da valori altamente
morali e orientati al benessere e al successo.

22
Intorno all'idea di leadership, potrebbe essere utile ricordare il sociologo
Max Weber. Egli, già nella sua riflessione “La politica come professione”, ha
indicato nel possesso di un insieme di qualità personali, le ragioni generanti
l’autorità. «Un leader - diceva Weber - è colui che incarna un determinato insieme
di valori in un determinato ambito d'azione e che è ritenuto dagli altri capace di
indirizzare un gruppo di persone a compierli efficacemente» 28. Interessante è il
discorso di Goleman: «colui che possiede una leadership accende il nostro
entusiasmo e riesce a darci la giusta carica facendo leva sulle nostre emozioni» 29.
Sebbene sia possibile, in tal modo, far fare agli altri delle cose con facilità, far leva
unicamente sulle emozioni non costituisce la leadership che in questo scritto si
intende individuare. Anzi, senza ulteriori garanzie, presto un leader emotivo
spingerà i suoi followers a fare degli errori e questo creerà delusione, con un
connesso deteriorarsi della sua influenza. Sicuramente per un po’ egli rimarrà
capace di convincere il suo pubblico da egli stesso suggestionato, ma, con il
passare del tempo, in assenza di elementi razionali, anche una leadership
emotivamente forte si trasforma ben presto in un evento estemporaneo, debole e
inefficace. Basti pensare al funzionamento di certi network marketing orientati al
più al profitto che al benessere dei lavoratori.

Il leader deve allora essere credibile. Se la leadership è una relazione di


reciprocità, allora la credibilità è l’elemento capace di “fare la differenza”: il leader
credibile è colui che sa come comprendere, far propri e condividere un insieme di
valori con tutta l’organizzazione, contribuendo positivamente a costruire un
terreno comune entro cui è possibile sia la collaborazione sia il confronto. Per fare
questo al leader è chiesto di impegnarsi in un processo di costruzione della
credibilità che prevede tre fasi:30

- chiarezza – la credibilità nasce quando il leader sa anzitutto chiarire


bisogni, interessi, valori, ambizioni e aspirazioni dei follower così come
degli altri interlocutori organizzativi. Questa fase del processo richiede
al leader di conoscere in profondità i suoi collaboratori ma anche,
soprattutto, se stesso. Quando la chiarezza è presente, ciascuno
conosce e riconosce i principi guida e le competenze cruciali che
possono contribuire alla vitalità e al successo individuale e
organizzativo;

28 Weber, M., (ed. 2008), La politica come professione. Mondadori, Milano.

29 Goleman, D. (1998). Working with emotional intelligence. Bloomsbury, London.

30Kouzes, J. M., Posner, B. Z., (2011), Credibility: How Leaders Gain and Lose It, Why People
Demand It. Wiley & Sons, New York.

23
- unità – per costruire un’organizzazione forte e stabile è necessario sia
visibile e perseguibile uno scopo unitario, una “mission”. Ad essere
necessaria è l’unità d’azione nel portare a termine il proprio lavoro, ma
anche l’unità di intenti nel condividere le ragioni e i principi per cui si
agisce in un dato modo. L’unità esiste dunque quando il leader è
capace di costruire una comunità di valori condivisi, di supporto e
stimolo verso la realizzazione delle ambizioni individuali e collettive. È
altresì importante che ci sia condivisione rispetto alle modalità
adeguate di tradurre i valori in pratica;

- intensità – se le parole sono importanti, le azioni le rendono vere e


attendibili. Per questo è fondamentale che il leader per primo prenda
con serietà i principi cosicché le persone possano comprendere quanto
fortemente egli vi crede e possano avere indicazioni “operative” circa il
modo di realizzare i principi nella quotidianità.

Se questo è il processo di costruzione della credibilità, è anche possibile


identificare sei pratiche che possono essere definite le sei discipline della
credibilità:
- scoprire se stessi
- stimare i collaboratori
- affermare i valori condivisi
- sviluppare le capacità
- mettersi al servizio dell’obiettivo
- sostenere la speranza.
La credibilità è, in buona sostanza, l’elemento su cui si fonda la capacità del
leader di guadagnarsi la fiducia dei suoi collaboratori, ma anche dei colleghi e dei
capi: in questo senso è possibile affermare che la costruzione e il mantenimento
della fiducia siano compiti fondamentali per la leadership.
Malgrado la leadership sia l'arte di produrre il consenso, e questo lo si
vede anche nelle imprese economiche ed industriali in cui quest’abilità è
particolarmente necessaria, è chiaro come non sia possibile una valorizzazione
piena della leadership, se questa non è permeata da contenuti forti nella strategia
intrapresa. Perché, proprio questi contenuti forti, sono in grado di porre in essere
la vera affidabilità personale di chi guida gli altri verso determinati obiettivi. Erano
quell’insieme di valori di fondamento della leadership a cui si riferiva Max Weber.


24
La proposta di obiettivi e il successo futuro che ogni leadership offre,
rimane sempre interamente nel presente: cioè, il leader presenta sempre una
promessa per il futuro. Il non poter esaurirla o evitarne il rischio significa, in
definitiva, che tutti debbano fidarsi delle doti non tanto emotive o tecnicamente
geniali di un singolo, quanto piuttosto delle garanzie di consistenza umana di quel
singolo, il quale serenamente sappia “condurre i giochi” nelle difficoltà, essendo
come gli altri e più degli altri pronto, tra l'altro, a rinunzie e sacrifici.

Quanto più il rischio è grande, tanto più il valore delle scelte scivola nella
razionalità di chi si assume la responsabilità di decidere e far decidere. Non è
l'irrazionalità fideistica a mettere in moto il consenso duraturo, ma l'accertata
validità personale di chi decide. E’ questa la qualità specifica della vera leadership:
la fiducia.

Il leader è allora una persona che meriti fiducia grazie alla volontaria
disponibilità a rendersi responsabile delle proprie azioni e quindi vulnerabile al
giudizio di chi ha riposto in lui aspettative positive sulle sue intenzioni e proposte,
verso un grande intento, una “Missione”. E’ opportuno però distinguere
l'atteggiamento di chi, a qualsiasi costo, punta a vincere col consenso (ossia a
realizzare quel risultato comunicativo che Habermas chiama «agire strategico»31)
da chi punta, invece, a con-vincere gli altri della validità autentica di una strategia.
La coerenza, l’affidabilità, il rispetto, la discrezione e la competenza sono le qualità
che fanno del leader qualcuno di cui fidarsi 32.

La questione della leadership, dunque, è una questione di valori. O meglio,


di due tipi di valori: quelli impliciti nella proposta operativa, nei traguardi che la
leadership presenta, e quelli del leader, che sono legati indissolubilmente alla
persona e ne costituiscono parte integrante.

II.4 Saper comunicare

La comunicazione è l'insieme dei processi attraverso i quali condividiamo e


trasferiamo informazioni. Affinché si possa parlare di comunicazione efficace, è
necessario che l'emittente (ovvero colui che avvia la comunicazione) tenga in
considerazione vari elementi al fine di garantire il trasferimento efficace del
messaggio al ricevente (sia esso un individuo o un gruppo di persone).

31 Habermas, J., (1984), The Theory of Communicative Action, Vol 2: Lifeword & System: A Critique
of Functionalist Reason. Beacon Press.

32Cersosimo, D. (2002), Istituzioni, capitale sociale e sviluppo locale, p. 181. Rubbettino, Soveria
Mannelli.

25
II.4.1 Le sette “C” della comunicazione

Quali sono, dunque, le caratteristiche della comunicazione efficace? Nel


manuale Effective Public Relations (1953), il professor Scott M. Cutlip della
University of Winsconsin ne identificò sette. L'insieme di queste caratteristiche è
conosciuto in inglese come 7 C's of Communication (le 7 C della
comunicazione) 33. Eccole qui di seguito.

1) COMPLETEZZA (Completeness). Per essere efficace, è necessario che la


comunicazione sia completa, ovvero che contenga tutte le informazioni necessarie
al ricevente per valutare un'offerta o una situazione, o per risolvere un problema.
Comunicare in modo completo permette di raggiungere gli obiettivi di
comunicazione in modo più rapido, poiché il ricevente ha già a disposizione tutti i
dati per prendere le proprie decisioni e si riduce la quantità di domande e dubbi
nel ricevente.

2) CONCISIONE (Conciseness). Un messaggio breve ed un messaggio


conciso non sono la stessa cosa. Essere concisi infatti significa comunicare tutte le
informazioni pertinenti al contenuto del messaggio senza aggiungere dettagli
inutili o ridondanti. Anche un messaggio breve può, quindi, essere lacunoso o
troppo fiorito. La concisione è un elemento fondamentale della comunicazione
efficace, poiché permette tanto all’emittente quanto al ricevente di concentrarsi
solo sulle informazioni essenziali.
3) CONSIDERAZIONE (Consideration). Per comunicare in modo efficace, è
necessario che l'emittente prenda in considerazione il punto di vista del ricevente,
le sue necessità ed il suo stato d'animo. Modulando la comunicazione sulla base
dell'altro, l'emittente può trasmettere le informazioni e i concetti in modo più
efficace, poiché sarà in grado di utilizzare argomenti ed esempi più vicini
all'esperienza del ricevente e, di conseguenza, più facilmente assimilabili e
comprensibili.
4) CONCRETEZZA (Concreteness). La comunicazione efficace è concreta,
ovvero si basa su dati e fatti per supportare i contenuti del messaggio.
Comunicare in modo concreto significa anche rispondere in modo puntuale alle
domande, o sviluppare le proprie argomentazioni partendo dal caso specifico in
esame piuttosto che da teorie e casi generali. La concretezza aumenta l’efficacia
della comunicazione, perché permette al ricevente di comprendere il messaggio
in modo più circostanziato e completo.
5) CORTESIA (Courtesy). Comunicare in modo cortese, senza aggredire

33Cutlip, S. M., Allen, H. C., Broom, G. M., (2000), Effective Public Relations, Prentice Hall, New
York.

26
l'interlocutore e senza voler forzare una risposta, migliora il clima della
comunicazione e predispone emittente e ricevente ad una conversazione positiva
e costruttiva. La cortesia nella comunicazione implica anche il rispetto dei valori e
della cultura dell'altro, nonché l'uso di un registro linguistico adatto al pubblico di
destinazione.
6) CHIAREZZA (Clearness). Un'altra delle caratteristiche della
comunicazione efficace è la chiarezza, ovvero la specificità del messaggio.
Comunicare in modo chiaro significa concentrarsi su un solo obiettivo,
enfatizzandone così l'importanza e rendendo più semplice l’assimilazione del
messaggio da parte del ricevente. Un altro elemento importante per la chiarezza
del messaggio è l'uso di una terminologia appropriata, che riduce le possibilità di
confusione e l’ambiguità del messaggio.
7) CORRETTEZZA (Correctness). Per essere efficace, infine, la
comunicazione deve essere svolta in modo corretto. L'assenza di errori
grammaticali o sintattici migliora la chiarezza del messaggio e ne aumenta
l'impatto, influendo positivamente anche sull'impressione che il ricevente ottiene
dell’emittente durante la comunicazione. Comunicando in modo corretto,
l’emittente acquista credibilità e, di conseguenza, aumenta la credibilità del
messaggio.
Spesso il termine comunicazione efficace viene utilizzato come sinonimo di
comunicazione persuasiva. Si tratta, però, di un uso impreciso del termine, poiché i
due concetti presuppongono un diverso obiettivo: nella comunicazione
persuasiva lo scopo è produrre un cambiamento nei comportamenti, negli
atteggiamenti o nei valori del ricevente. Quando si parla di comunicazione
efficace si intende, invece, una comunicazione che ha come unico obiettivo il
successo del trasferimento dei contenuti del nostro messaggio.

II.4.2 Il metamodello
Il linguaggio ha il potere straordinario di costruire la realtà. Ciò che diciamo
ha la forza di una profezia autoavverante. Il linguaggio è anche il ponte fra due
sistemi, e fra il sistema e i suoi sottosistemi (es.: “organizzazione” e membri). È
infatti attraverso il linguaggio, che il leader può riconoscere le strutture del sistema
che ha di fronte e risalire al suo funzionamento. E’ ancora il linguaggio che gli
permette di prendere consapevolezza del proprio funzionamento per agire su se
stesso.
Il linguaggio utilizzato dal leader, analogamente a quello di un consulente
per il conseguimento dei risultati (coach), è una modalità comunicativa tutt’altro
che casuale, arricchita da immagini dal potere generativo. Tali immagini possono

27
essere similitudini o metafore, che riescano a tradurre fatti concreti in un
linguaggio più adatto all’insondabilità del mondo psichico delle emozioni.

Un’altra caratteristica che un buon dirigente deve includere nel suo


linguaggio è quella di far largo uso di domande che confermino il suo interesse
nei confronti dell’interlocutore e che gli permettano di aggirare quegli ostacoli
comunicativi che impedirebbero il corretto scambio di informazioni.

Bandler e Grinder si domandarono come psicologi del calibro di Fritz Perls


(creatore della Psicoterapia Gestalt) e Virginia Satir (terapista familiare) riuscissero
a produrre un cambiamento positivo e rapido nei loro pazienti. Da questa
semplice domanda nacque il metamodello. Si potrebbe definire schematicamente
il metamodello come una serie di domande scaturite da alcune situazioni
linguistiche, che portano il comunicatore a capire e aiutare l’interlocutore a trovare
nuove soluzioni ai propri problemi. Ma è opportuno prima chiarire che ognuno di
noi non percepisce la realtà direttamente, ma la filtra. L’essere umano infatti
percepisce il mondo con i propri sensi (sistema rappresentazionale primario), il
che lo porta a creare delle mappe mentali della realtà, che costituiscono
l’interpretazione degli eventi presenti, passati e futuri. Ogni volta che si è esposti
ad una nuova situazione, la mente torna a fare riferimento alle mappe, per capire il
valore dell’esperienza in atto. Le mappe sono necessarie, ma possono distorcere la
realtà percepita; la riassumono ma non possono definirla. Il processo di
mappatura della realtà avviene attraverso i tre “universali del modellamento
umano”.34

Il primo è la cancellazione: si tratta di un importante processo che permette


di ridurre la percezione del mondo esterno in “porzioni” gestibili. Quando la
mente “cancella” le informazioni, tralascia degli elementi lasciando spazio ad altre
dimensioni delle nostre esperienze, per noi più rilevanti. L’effetto di questo
processo è positivo nella misura in cui ci preserva dal rischio di essere
sovraccarichi di stimoli, ma opera a svantaggio quando vengono cancellate
informazioni significative, importanti nella gestione delle situazioni. La
cancellazione ha lo scopo di eliminare elementi che ad esempio disturbino
un’idea rassicurante o che minino la veridicità di credenze su cui sono fondati certi
comportamenti, altrimenti generanti incoerenza e confusione. La cancellazione
all’interno del linguaggio riguarda innanzitutto verbi, nomi, riferimenti e paragoni
non specificati.
Il secondo universale è la generalizzazione: consiste nel prendere in
considerazione parti di un’esperienza e utilizzarle per descriverla interamente. Essa

34 Bandler, R., Grinder, J., (1981), La struttura della Magia. Astrolabio, Roma.

28
si fonda proprio sul modo in cui i recettori sensoriali e il sistema nervoso si
relazionano con le manifestazioni esterne. Come con le cancellazioni, esse
nascono per ridurre la rappresentazione del mondo in categorie più maneggevoli.
Ad esempio, la prima volta che che si osserva aprire una porta abbassando la
maniglia, è probabile che chiunque generalizzi che tutte le porte si aprano in quel
modo. Si tratta di un quindi di un processo indispensabile che permette di non
affrontare da capo ogni fenomeno già esperito. Modellare il mondo per mezzo
delle generalizzazioni, però, impoverisce le mappe della realtà. Per questo motivo,
è necessario riconoscere le generalizzazioni operate ed effettuare dei “controlli di
qualità” su di esse per evitare che la creazione di nuove categorie divenga
limitante nel caso in cui la generalizzazione sia erronea: ad esempio, se si osserva
in un dipendente un comportamento antisociale, senza considerare che l’episodio
possa essere attribuibile a fattori passeggeri, si rischia di etichettare il suo
comportamento sulla base di pochi elementi.
Il terzo processo di modellamento è la deformazione: è un processo che
coinvolge la creatività. Le invenzioni e l’arte sono il frutto di questa abilità umana: è
l’arte di deformare la realtà per creare qualcosa che di nuovo e magari più
piacevole. Quindi, anche questo processo è fondamentale ma, ancora una volta
può generare complicazioni nella comunicazione. Attraverso le deformazioni si
rischia di acquisire convinzioni errate in maniera inconsapevole.
Per aggirare gli inconvenienti connaturati alla linguistica umana, il buon
comunicatore deve saper utilizzare gli strumenti più efficaci ad indagare la realtà in
modo da avere una mappa che comprenda quanti più elementi necessari a
decifrare le situazioni più complesse. Lo strumento più accurato a risalire la china
delle parole per giungere alle motivazioni che le hanno generate è costituito dalle
domande metamodello, altrimenti dette modello del “linguaggio di precisione”.
Esso consiste in una serie di domande che guidano l’interlocutore ad ottenere le
informazioni omesse, distorte o generalizzate. Eccone alcuni esempi:

1) Confronti (paragoni e giudizi): chi parla fa un confronto ma non specifica


in base a quale criterio lo stia facendo, ad esempio dicendo: “questa è la miglior
prestazione di tutte”. E’ opportuno chiedere: “in quale settore di riferimento?” e
“secondo quale metro di giudizio è migliore?”.
2) Quantificatori universali: comportano una drastica generalizzazione,
come ad esempio nella frase: “il lavoro d’ufficio non viene mai finito in tempo”. Per
specificare è utile domandare: “il lavoro d'ufficio non è mai stato finito in tempo,
neppure una volta?”.
3) Regole non discusse: chi parla vuole conformarsi a una regola che
sembra assoluta. Sono utili domande con lo scopo di aprire nuove strade, come:

29
“in quale altro modo si potrebbe fare?” e “che cosa succederebbe se lo si facesse
in maniera diversa?”.
4) Nomi non specificati: assenza di soggetto specificato. All’assunto “Alcune
persone si sono fatte male", sarà necessario chiedere: “chi si è fatto male?”.
5) Verbi non specificati: 

non vengono identificate azioni specifiche: tornando all'esempio precedente, una
domanda adatta è: “Come hanno fatto queste persone a farsi male?”.
6) Causa ed effetto: vengono arbitrariamente creati nessi fra fenomeni.
Eccone un esempio: “Mi innervosisco molto (effetto) quando le consegne
ritardano (causa)”. Si può indagare sul nesso con: “come può un ritardo avere un
effetto sulle tue emozioni?”.
7) Equivalenza complessa: vengono citati fenomeni distinti come
equivalenti e/o correlati: “il cliente non telefonato quindi non è interessato”.

Una possibile indagine è: “in che modo una telefonata implica che il cliente nutra
un sicuro interesse?.
8) Assenza d'indice referenziale. Ecco un esempio: “A loro non piacerà”. La
domanda che specifica potrebbe essere: “A chi di loro?”, “Cosa non piacerà a
loro?”.
9) Performativo mancante: chi parla riporta un giudizio senza specificarne la
fonte: “La gente dovrebbe esprimere opinioni solo se ben informata”. Domandare:
“Chi in particolare lo sostiene?”.
10) Lettura del pensiero (o lettura della mente): 

chi parla sottintende che la sua affermazione a proposito di un’altrui intenzione o
di un atteggiamento inespressi sia vera, ad es.: “Vuoi farmi sfigurare di fronte al
capo”. La possibile domanda è “Cosa te lo fa pensare?”.
11) Operatori modali: si riferisce ai modi in cui i verbi operano all’interno
dell’enunciato. A) Operatori modali di necessità, ad esempio nella frase: “Dovrei
iniziare dall'ABC”. Una domanda possibile è: ”Cosa accadrebbe se…?”)

B) Operatori modali di possibilità, ne è un esempio la dichiarazione: "Non posso
farlo". Si può ribattere: “Chi o cosa impedisce di farlo?”).
12) Nominalizzazione: sostituisce un sostantivo ad un verbo. Es.: “La nostra
relazione con il cliente non è buona”. Specificare con: “Quali aspetti
dell’interazione con questo particolare cliente non sono soddisfacenti?
13) Presupposizione (o presupposti): 

si afferma qualcosa che presuppone che una seconda affermazione, non espressa,
sia vera. Per superare una richiesta come: "Non creare “altri” problemi", è Possibile
chiedere: “quali altri problemi sono sono stati creati?”.

30
14) Semplice Cancellazione: chi parla omette alcune informazioni
essenziali, come nel caso si dichiari: “le cose hanno decisamente iniziato a
migliorare!”. Per indagare ulteriormente è utile chiedere: “in che senso sono
migliorate?” o “cosa, in particolare, inizia a migliorare?”.

Il graduale ma deciso avvicinamento della figura dei leaders a quella dei


consulenti, permette loro di attingere alla grande esperienza che questi ultimi
hanno nel campo dell’incremento delle performances umane. Il linguaggio di
precisione rappresenta uno strumento indispensabile per chi voglia migliorare la
qualità della propria comunicazione e abbia la volontà di allacciare rapporti di
reciproco impegno leale e focalizzato con tutti i membri dell’organizzazione, nel
raggiungere l’obiettivo prefissato, superando l’idea del compito, per raggiungere
il traguardo della cooperazione e del superamento dei limiti, a partire dalla
comunicazione
II.5 Saper fare

II.5.1 Il problem solving creativo


L’essere umano, anche quando non ne è consapevole, è costantemente
impegnato a risolvere problemi, a porseli, ad evitarli, a temerli. Molte azioni
ritenute automatiche, consistono in processi di soluzione di problemi che vengono
ripetute tante volte da perderne la cognizione diretta.
Altre volte invece si è ben consci di dover risolvere una situazione, tanto da
ricorrere a guide, procedure e consigli di esperti. E’ il caso della preparazione di
una strategia mirata ad un risultato, sia essa una banale e-mail o una delega
d’importanza vitale.
Il problem setting è una delle caratteristiche principali del top
management, il problem solving del management intermedio, dei quadri, dei
lavoratori. Una delle qualità ideali del leader è la capacità di ridefinire il problema
man mano che si procede nella sua soluzione 35.
Il leader deve essere dotato: di intelligenza analogica per saper trovare le
metafore utili ad impostare il problema; di intelligenza sistemica per sintetizzare
situazioni complesse e ridurle a strutture semplici; di intelligenza emotiva per
coinvolgere tutti i collaboratori nella soluzione del problema e di ottimismo per

35Chiappi, R., (2006), Problem Solving nelle organizzazioni: idee, metodi e strumenti da Mosè a
Mintzberg. Springer ed.

31
influenzare i propri atteggiamenti in maniera positiva.36
In tutti i casi il processo di soluzione di problemi ha una struttura ricorrente,
che è possibile schematizzare in cinque passi:
1) problem posing, o problem finding: consiste nel porsi un nuovo
problema o scoprire un problema nascosto;
2) problem setting: l’atto del definire la difficoltà o il bisogno come
problema;
3) problem solving: ovvero l’attivare un meccanismo di cambiamento che
riesca a portare ad una o più soluzioni;
4) decision making: nel caso di più soluzioni, è la scelta di quelle più adatte,
più importanti, più efficaci e meno costose;
5) decision taking: applicare le decisioni prese e sistematizzarle, in modo
da adottare il nuovo comportamento in maniera abituale, che realizzi il
cambiamento desiderato.
Ecco un’analisi in chiave creativa di ogni passaggio, che restituisca una
dimensione più umana e meno esecutiva al leader.

Problem finding
Il termine problem-finding che letteralmente significa “scoperta di un
problema”, è quella fase che comprende l’individuazione e la definizione di una
situazione problematica a partire proprio dalla decisione di fermarsi a pensare.
Interpretare segnali deboli, considerare in chiave problematica ogni situazione
abituale, immaginare i risvolti futuri per scoprire nuove frontiere da varcare,
cambiare punto di vista per riscoprire la realtà e affrontare nuovi eventi in modi
consueti, sono comportamenti tipicamente creativi e creativogenici.

Problem setting
L’atto dirigenziale di definire un bisogno o un disagio come problema
concreto da risolvere potrebbe sembrare qualcosa di pratico, dove la creatività ha
poco a che fare. Ma la creatività è anche concretezza, capacità di mettere in pratica
le fantasie, trasformarle in oggetti, movimenti e azioni. Provare disagio per la
mancanza di tempo è cosa ben diversa dall’inventarsi nuovi modi per
risparmiarne. Il leader impegnato nel problem setting prende atto del disagio, ma

36 Isen, A. M., Daubman, K. A., & Nowicki, G. P. (1987). Positive affects facilitate creative problem
solving. Journal of Personality and Social Psychology, 52, pp. 1122-1131.

32
lo concretizza, lo circoscrive, individua tutto ciò su cui è possibile intervenire e
pone le domande che guidano la ricerca della soluzione.
Già nei primi anni del ‘900 Taylor analizzò nei minimi particolari il modo di
lavorare degli operai e ritenne possibile, attraverso lo studio accurato dei singoli
movimenti del lavoratore, poter ottimizzare il tempo di lavoro. 37 Questo sembra
l’arido atteggiamento di un entomologo, ma in realtà fu uno spunto talmente
creativo da dare un deciso contributo alla civiltà industriale.
Per avere un’idea di quanto il setting del problema debba essere un atto
creativo, basta citare l’acronimo S.M.A.R.T. per la definizione di un obiettivo
(strumento ampiamente usato dai coach nel quale il problema viene
comunemente inteso come un ostacolo da rimuovere e l’obiettivo come una meta
da raggiungere, mai come problema: il fine è quello di giungere da uno stato
attuale ad uno stato desiderato). 38 Il consulente guida il cliente a definire il suo
obiettivo in modo:
- sfidante, stimolante (S),
- misurabile (M),
- attraente (A),
- raggiungibile, alla portata (R),
- tempificato (T).
Sembra che questo esercizio si contrapponga alla sognante e idealistica
concezione di “Vision”. In realtà trasforma qualcosa di nebuloso, di astratto e di
generico (migliorare, essere più felici, vendere di più) in qualcosa di concreto, di
reale. E trasformare un’idea vaga in un fatto concreto. Questo processo è la
quintessenza della creatività; è ciò che fanno gli artisti, gli imprenditori, gli
esploratori e gli innovatori, i cui sogni diventano quadri o sculture, prodotti nuovi,
conquiste di nuovi territori, scoperte di nuove tecnologie.

Problem solving
Risolvere un problema significa scoprire le leve di cambiamento e metterle
in moto. Per farlo bisogna cambiare i prpri consueti punti di vista. Un modo per
riuscirci è immaginare come si potrebbe volontariamente peggiorare la situazione.
Questo è un potente stimolo creativo, perché in antitesi all’educazione classica che

37 Taylor, F. W., (1911), The principes of Scientific Management. Saggio, New York.

38Doran, G. T., (1981). There's a S.M.A.R.T. way to write management's goals and objectives.
Management Review, Volume 70, Issue 11(AMA FORUM), pp. 35–36.

33
fin da bambini insegna a migliorare le cose, non a peggiorarle. Il chiedersi il modo
di peggiorare la situazione mette a disagio. Ma proprio questo cambiamento di
prospettiva porta a scoprire le forze che agiscono sull’autore del cambiamento,
sugli altri e sul sistema in cui si trova. Una volta trovato il modo di peggiorare la
situazione, rovesciare il comportamento per migliorarla diventa più semplice.
Spesso si arriva alla banale consapevolezza che comportamenti uguali nel tempo
portano a risultati uguali, se non peggiori.
Un altro espediente per stimolare l’immaginazione, dopo la fantasia
peggiorativa, è quello del miracolo o della palla di vetro. Consiste nell’immaginare
che una forza misteriosa abbia risolto al meglio il problema. Le domande da porsi
dopo la premessa possono essere: da che cosa in concreto ci accorgeremmo che
il problema è risolto? L’entità onnipotente non deve aver limiti durante l’esercizio e
serve a stimolare l’inventiva senza freni, senza impedimenti gerarchici, temporali o
economici. Le tecniche di visualizzazione creativa sono innumerevoli e la loro
applicazione genera una scossa che opera un cambiamento e favorisce la
creatività.

Decision making
Se gli stimoli creativi hanno operato in maniera efficace durante
l’individuazione della soluzione del problema, il risultato sarà costituito da più di
una soluzione. Avere alternative è la base di un comportamento libero, è
l’imperativo etico di Von Foerster, il famoso cibernetico: “Fa in modo da avere
sempre più di una alternativa”, recitava39. Egli osserva infatti che gli oggetti del
mondo vengono costruiti attraverso la nostra attività nel mondo, essendo il
sistema nervoso e quello motorio strettamente dipendenti. In tale prospettiva non
si può neppure affermare che il mondo abbia degli oggetti poiché, nel momento
in cui si utilizza il termine “mondo”, si sta già compiendo un’inferenza riguardo alla
nostra esperienza.
Tuttavia quando ci si trova di fronte ad un bivio o ad un incrocio è
necessario decidere quale via imboccare nel più breve tempo possibile. Anche in
questa fase è possibile esaminare tutti i dati, valutarli con strumenti specifici e
scegliere razionalmente l’alternativa più vantaggiosa. Ma disporre di tutti i dati è
praticamente impossibile, e il tempo di esaminarli e interpretarli in modo corretto
è insufficiente.
A tal proposito proposito, Daniel Goleman sottolinea l’importanza
dell’intuito e della creatività, che permette di scegliere in modo, spesso misterioso,
la soluzione giusta al momento giusto, o almeno ci dà la convinzione di averlo

39 Foerster, H. von, (1987), Sistemi che osservano. Astrolabio, Roma

34
fatto, migliorando la self-efficacy e incrementando il coraggio di andare avanti. 40

Decision taking
Ultima parte del processo di problem solving, la decisione è anche quella
più concreta, perché dopo aver trovato le soluzioni e dopo aver scelto quelle più
efficaci, è necessario metterle in pratica, un passo dopo l’altro, costantemente,
pena il rischio di tornare allo stato di partenza e l’aggravio del problema.
Inoltre, limitare la strategia d’azione al solo problem solving crea degli imprevisti a
lungo termine. La realtà dimostra che l’attitudine alla reattività estrema, al  “Quick
and Dirty”, porta invariabilmente a ingigantire le difficoltà anziché a risolverle. 
Come recita l’agenda di Murphy “sono le soluzioni che generano i problemi”.41   Il
perchè è presto detto e ha a che fare con tre dimensioni: la prima è matematica, la
seconda psicologica, la terza è strategica: in primo luogo il problem solving è
applicabile solo a sistemi lineari, e tralascia la logica sistemico-relazionale
orientata ai sistemi complessi. In seconda istanza, il continuo cercare problemi
genera immagini negative che non favoriscono l’ottimismo. La terza questione
riguarda il focus attenzionale sul problema e non sulla continua evoluzione che un
sistema orientato al successo dovrebbe aver connaturata in sé.

Bisogna allora passare da una mentalità problem-solving ad una goal-


setting, ovvero di progettazione per obiettivi. Pianificare l’attività per raggiungere
obiettivi, relegando i problemi a casi eccezionali, è lo snodo per avere un’azienda
sana che cresce e in cui la gente lavora con un’alta motivazione.

Per poter effettuare questo passaggio occorre però disporre di strumenti


adeguati e sviluppare una cultura interna  basata sulla delega, sul senso di
appartenenza e sulla creazione di valore.  Un esempio di griglia analitica per
trasformare i problemi ricorrenti in obiettivi è lo schema S.C.O.R.E.:42  Sintomi,
Cause, Obiettivi, Risorse, Effetto.  Il cuore di questo strumento è il punto tre, che
risponde ad una precisa domanda:  “se non voglio più questo problema, cosa
voglio invece?”  Un interrogativo cruciale a cui spesso, e in maniera del tutto
inattesa, è difficile rispondere.

40 Goleman, D., (1994), Intelligenza Emotiva che cos'è e perché può renderci felici. Rizzoli.

41Bloch, A., (1988), La legge di Murphy e altri motivi per cui le cose vanno a rovescio!, 7°Corollario,
Longanesi, Milano.

42 Del Vecchio, R., Moretti, I., Palma, V., (2013), PNL: applicazioni. De Vecchi.

35
II.5.1 Motivare al successo attraverso gli obiettivi
La parola motivazione racchiude l’insieme di processi psicologici che
spingono l’individuo a compiere un’azione volontaria. E’ lapalissiano come
l’argomento rappresenti esso stesso uno dei pilastri della psicologia. Quando però
i risvolti pragmatici dell’applicazione teorica costituiscono la chiave del successo
delle organizzazioni, la ricerca diventa impegno costante su più fronti verso un
modello incentivante la motivazione.
La ricerca durante il ‘900 ha tentato di descrivere il fenonomeno in un
continuum teorico che passa dalle teorie di contenuto della motivazione (Maslow
‘54, McLelland, ’61, nelle quali viene posto al centro l’oggetto della motivazione in
termini di bisogni) alle teorie di processo, nelle quali vengono codificate le
variabili alle quali sono sottesele relazioni tra condotte e bisogni.
Di queste ultime è un primo esempio la “teoria delle aspettative” di
43
Vroom , che suddivide il processo motivazionale in tre elementi:
- la sequenza comportamentale, ovvero lo svolgersi dell’azione;
- la motivazione, quindi le energie mosse in favore all’obiettivo;
- la ricompensa, cioè i benefici che derivano dal successo, siano essi
intrinseci od estrinseci.
La forza della motivazione sarà il risultato dell’interazione tra tre variabili:
- valenza, ovvero l’attrattività della ricompensa;
- aspettativa, legata alla probabilità percepita dell’effettivo
raggiungimento dell’obiettivo;
- strumentalità, che misura la relazione tra il raggiungimento
dell’obiettivo e l’effettiva ricompensa.
Questi tre elementi, moltiplicati fra loro generano un indicatore che misura
la forza della motivazione, tenendo conto ovviamente della soggettività dell’entità
di ogni valore. È forse questo il maggior passo avanti rispetto al passato,
un’attenzione finalmente all’atteggiamento soggettivo del dipendente rispetto alle
componenti della motivazione.
Da un punto di vista congnitivista, Locke introduce una tematica
importantissima: gli obiettivi (teoria del goal-setting 44). Questi sono in grado di
influenzare le azioni volontarie in diversi modi, incrementando l’intensità di fattori

43 Vroom, V. H. (1964), Work And Motivation. John Wiley & Sons, New York.

44Locke, E. A., Latham, G. P., (1990), Theory of Goal-Setting & Task Performances. Prentice-Hall,
Englewood Cliff.

36
importantissimi per lo svolgimento di un compito, come la concentrazione, la
curiosità, l’elaborazione delle strategie, l’impegno e quindi lo sforzo necessario. In
particolare, riguardo agli obiettivi, le componenti più influenti in tal senso sono:
- la consapevolezza dell’obiettivo stesso;
- il valore attribuitogli;
- l’aspettativa di successo rispetto all’obiettivo;
- la sua specificità;
- la sua difficoltà;
La teoria del goal-setting è un deciso passo avanti rispetto al passato in
quanto sposta il focus dal problema all’obiettivo. Ma la domanda che ogni capo si
pone fin da sempre è: come motivare? Alle porte degli anni ’60 Herzberg notò
come la motivazione potesse essere intrinseca all’attività lavorativa stessa. 45 E’
quindi una buona progettazione che permette a questo potenziale di liberarsi. In
particolare le strategie proposte sono:
- il job enlargement, (integrazione orizzontale), che consiste
nell’assegnare al lavoratore compiti diversificati fra loro ma con lo
stesso livello di discrezionalità;
- il job enrichment, (integrazione verticale), che prevede l’assegnazione
di compiti con più alti livelli di discrezionalità dei precedenti assegnati;
- la job rotation, (integrazione per fasi successive), che prevede
l’assegnazione di posizioni organizzative diverse ma con simili
caratteristiche quanto a dicrezionalità e competenza richieste.
Nei modelli appartenenti al filone cognitivista resta centrale la tematica
della delega e della fiducia dell’organizzazione nei confronti del lavoratore. Il “Job
Characteristic Model”46 di Hackman e Oldman, continua e completa il lavoro di
Herzberg, individuando nel significato del lavoro, nella responsabilità richiesta e
nella conoscenza dei risultati i fattori intrinseci motivanti di una mansione. Da ciò
deriva l’esigenza di riprogettare le mansioni con il fine di soddisfare le esigenze
che risultano primarie dalla lettura del modello.
Il modello che più di tutti riesce incarnare la logica degli obiettivi e del
coinvolgimento che ne deriva è il “Management by Objectives” 47 dell’economista

45 Herzberg, F., (1959), The Motivation to Work. John Wiley e Sons, New York.

46 Hackman, J. R., Oldman, G. R., (1980), Work Redesign, Addison Wesley, Reading.

47 Drucker, P. F., (1954), The Practice of Management. Harper & Row, New York.

37
Drucker: si tratta di un processo attraverso il quale l’alta direzione ed il
management intermedio stabiliscono congiuntamente gli obiettivi comuni,
definendo le proprie responsabilità in base ai risultati da raggiungere ed
utilizzando questi ultimi come riferimento nella gestione delle singole unità e nella
valutazione dei singoli individui.
In sintesi, se il leader ha definito collegialmente gli obiettivi e le date di
scadenza insieme ai collaboratori, unitamente alle successive modalità di preciso
riscontro intermedio e finale(in modo da modificare dinamicamente la strategia in
seguito a feedback), il livello di coinvolgimento dell’uno e degli altri sarà
superiore.
In tal senso è opportuno far riferimento al concetto di cittadinanza
organizzativa, un'espressione motivazionale che fa riferimento a quei
comportamenti discrezionali che favoriscono l'efficacia dell’organizzazione pur
non essendo specificati o imposti dal contratto di lavoro, né direttamente, nè
esplicitamente riconosciuti dal sistema di ricompense formali.
Il fenomeno è stato discusso da Dennis Organ, nell’opera “Organizational
citizenship behavior: the Good Soldier syndrome”48, con la quale ha offerto
un’interessante categorizzazione di questo fenomeno che rappresenta
un’importante risorsa organizzativa, quindi fonte di vantaggio competitivo per le
imprese. Organ li definisce come quei comportamenti discrezionali, non prescritti
direttamente dal ruolo e dalle norme organizzative, particolarmente favorevoli
verso l'organizzazione e di grande importanza ai fini dell'efficacia organizzativa
(Ocb: Organizational Citizenship Behaviour).
Tra questi comportamenti l’autore individua:
- la coscienziosità (particolare cura nello svolgimento del proprio lavoro),
- la virtù civica (forte senso di responsabilità nei confronti
dell'organizzazione),
- la sportività (atteggiamento positivo e di lealtà verso l’azienda),
- l'altruismo (disponibilità a supportare i colleghi nei loro compiti),
- la cortesia (premura nell'istaurare relazioni improntate alla gentilezza e
alla cooperazione).
Tali comportamenti hanno vantaggi evidenti: la coscienziosità di un
dipendente, ovvero il rispetto verso le regole aziendali anche in assenza di

48Organ, D.W. (1988) Organizational Citizenship Behavior: The Good Soldier Syndrome. Lexington
Books, Lexington, Mass.

38
controllo da parte del superiore, permette a quest’ultimo di indirizzare le proprie
energie verso attività più importanti; la cortesia e la sportività sono implicate nei
meccanismi di riduzione della conflittualità; gli Ocb, inoltre, consentono di
limitare gli investimenti in attività dirette a mantenere l’unità e la coesione del
gruppo di lavoro, così come a gestire i conflitti intra-gruppali.
La leva su cui intervenire per promuovere lo scambio sociale è anzitutto la
fiducia nella controparte organizzativa, sia essa rappresentata dai colleghi, dai
capi, dal management ecc.
Il quesito iniziale “Come sollecitare l’espressione di comportamenti extra-
ruolo?” può dunque essere riformulato in termini di “Come alimentare la fiducia
nei confronti dei colleghi, dei capi, del management?”. Podsakoff ha dimostrato
come uno stile di leadership trasformazionale, ed in particolare l’offerta di
supporto individualizzato, abbia un effetto positivo sulla fiducia e, di conseguenza,
sia in grado di promuovere comportamenti discrezionali.49
Allo stesso modo è importante che i leaders pongano l’accento sul
raggiungimento degli obiettivi di lavoro tramite feedback positivi. Bachrach,
Bendloy e Podsakoff hanno dimostrato come un feedback 50 positivo possa
favorire, tramite processi di auto-attribuzione con cui l’individuo costituisce la
propria immagine a partire dalla valutazione che riceve, la propensione a mettere
in atto comportamenti di cittadinanza organizzativa.
Anche un adeguato presidio dei processi di socializzazione organizzativa è
importante per sostenere la propensione a stabilire quelle relazioni di scambio
sociale che costituiscono una premessa dell’espressione degli Ocb. Per questa
ragione la probabilità di ottenere un positivo livello di cittadinanza organizzativa
sarà maggiore nei contesti in cui l’inserimento dei neoassunti viene gestito
mediante un efficace percorso di formazione, comprendente ad esempio
momenti di attività di gruppo e opportunità di mentoring: le prime potranno
alimentare la propensione a mettere in atto Ocb indirizzati ai colleghi, il secondo
potrà favorire gli Ocb indirizzati al management e all’organizzazione.
Più in generale, tutte le politiche indirizzate allo sviluppo del senso di
appartenenza all’organizzazione e al rafforzamento del contratto psicologico,
contribuiranno a creare un contesto favorevole allo stabilirsi di relazioni scambio

49Podsakoff, P. M., MacKenzie, S. B., Moorman, R. H., Fetter, R. (1990), Trasformational Leader
Behaviors and Their Effects on Follower’s Trust in Leader, Satisfaction and Organizational Citizenship
Behavior. The leadership Quarterly, 1, pp. 107-142.

50 Bachrach, D.G., Bendoly, E., Podsakoff, P.M. (2001). Attribution of the causes of group
performance as an alternative explanation of the relationship between organizational citizenship
behaviour and organizational performance. Journal of Applied Psychology, 86 (6), 1285-1293.

39
sociale e all’espressione di cittadinanza organizzativa.
Il valore della comunicazione interna e della formazione è stato in questo
senso evidenziato da Denise Rosseau, 51 che ha verificato come una cultura
organizzativa capace di enfatizzare i comportamenti di cooperazione in alternativa
ai comportamenti competitivi, costituisca un terreno indispensabile per
l’espressione di Ocb.
Va infine considerato come anche la variabile disposizionale, definita in
termini di propensione alla fiducia, possa modulare l’efficacia delle azioni sin qui
descritte: la sua analisi in fase di selezione può pertanto rivelarsi utile per rendere
più efficaci gli interventi messi in atto in seguito all’assunzione.

Conclusioni

Da questo scritto emergono i tratti ed i comportamenti della leaderhip


moderna ed efficace. Alla luce del contesto socio/economico/culturale odierno si
perviene alla constatazione che solo individui dotati di una forte leadership
possano creare il cambiamento atteso in azienda, e che solo i manager orientati
ad una leadership responsabile, possano ottenere un successo duraturo e
sostenibile nell’organizzazione di appartenenza.

La leadership, quindi, non è solo un’attitudine innata, ma può essere anche


sviluppata attraverso una formazione specifica, integrando le moderne figure di
consulenza che assicurano un feedback esterno continuo.

Si è evinta altresì la centralità delle qualità che fanno della leadership una
responsabilità: l’unitarietà d’intenti; la capacità di ascolto; l’intrattenere rapporti
trasparenti e diretti con i collaboratori; la capacità di realizzare un equilibrio stabile
fra orientamenti al compito ed alla relazione e la capacità di guidare le persone in
maniera adattiva anche grazie ad una comunicazione flessibile ed efficace.

Appare chiaro che una leadership vincente si fonda su una molteplicità di


pilastri che discendono da una chiarissima Missione organizzativa: valori, capacità
e comportamenti che possono garantire il successo di un’iniziativa e che ispirano
fiducia. I leader del futuro dovranno fondare il proprio lavoro su forti valori
individuali da condividere e comunicare agendo coerentemente alla propria
formazione e agli intenti dell’organizzazione in una integrazione ecologica che
genera appartenza e comportamenti di cittadinanza organizzativa.

51 Rousseau, D., (2004) Psychological Contract and Organizational Citizenship Behavior in China:
Investigating Generalizability and Instrumentality. Journal of Applied Psychology, 89, pp. 311-321.

40
Per un’azienda che vuole crescere e prosperare, è fondamentale assicurarsi
un management in grado di coniugare la produttività con le relazioni umane. Ciò
potrà generare un circolo virtuoso dove l’impresa investa sulle persone, e dove
queste ultime si leghino saldamente ad essa, allineandosi

più facilmente alla visione aziendale e perseguendo con più determinazione e
responsabilità gli obiettivi d’impresa.


41
Bibliografia

[1] Tannembaum, A. S., Schmidt, W. H. (1958), “How to choose a leadership


pattern” in Harvard.

[2] Fiedler, F. E. (1967), Theory of Leadership Effectiveness. McGraw-Hill, New


York.

[3] House, R. J. (1971), “A path-goal theory of leader effectiveness”. In


Administrative Science Leadership Review, 16, pp. 321-339.

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development of leader-member exchange (LMX) theory of leadership over
25 years: Applying a multi-level multi-domain perspective”. In Leadership
Quarterly Summer, pp. 219-247.

[5] Burns, J. M. (1978), Leadership. Harper Collins Publisher, New York.

[6] Bass, B. M. (1985), Leadership and Performances Beyond Expectations. Free


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