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protettiva, affettiva, regolativa, normativa, predittiva, rappresentativa, significante, fantasmatica,
proiettiva, differenziale, triadica, transgenerazionale.
• Funzione PROTETTIVA: è la funzione tipica del caregiver che consiste nell’offrire cure adeguate ai
bisogni del bambino. Con Brazelton e Greenspan possiamo dire che le figure dei caregiver
rispondono soprattutto al bisogno di sviluppare costanti relazioni di accudimento e al bisogno di
protezione fisica e di sicurezza. Relazione di accudimento in quattro modalità:
1. presenza dentro lo stessa casa;
2. presenza che il bambino osservi e veda;
3. presenza che faciliti l’interazione con l’ambiente;
4. presenza che interagisce con il bambino;
E’ evidente il crescere dell’ intensità della “presenza” dal 1° al 4° punto che secondo gli autori
devono essere comunque tutti presenti per uno sviluppo sano del bambino
Le modalità di protezione fisica e sicurezza sono influenzate molto dalla cultura di una determinata
comunità sociale e quindi per questi autori è importante che una società definisca al suo interno le
condizioni sane dello sviluppo umano e che consideri questo come una priorità sociale. Come a dire
che le modalità protettive sono coltivate da una società attenta al benessere di ogni persona.
La funzione protettiva più di tutte determina il legame di attaccamento. Lo scopo dell’attaccamento
è infatti “la vicinanza della figura materna” e “il mantenimento di una relazione di attaccamento è
vissuto come fonte di sicurezza mentre una minaccia di perdita origina ansietà e spesso collera e,
una perdita effettiva, quel tumulto di sensazioni che è il dolore”. E’ evidente come la funzione
protettiva determini quell’esperienza fondamentale che Bowlby ha chiamato “base sicura”: “la
personalità sana non si rivela assolutamente indipendente. Gli elementi essenziali sono dati da una
capacità di far fiduciosamente conto sugli altri quando l’occasione lo richieda e sapere su chi è
giusto fare conto“;
• funzione AFFETTIVA: è soprattutto Daniel Stern che ha introdotto nelle sue ricerche sull’
interazione madre-bambino i colori e le tonalità di questo rapporto. Alcuni termini da lui usati
fanno parte ora del linguaggio psicologico “comune”. Come ad esempio la “sintonizzazione
affettiva“, che oggi ha assunto un significato più generalizzato di capacità di entrare in risonanza
affettiva con l’altro senza esserne inglobato.
Altro termine è “affetti vitali” il quale cerca di rappresentare il “colore” legato ad alcuni gesti, ad
alcune routines, a frasi, parole che contengono al loro interno un dimensione relazionale affettiva e
un sentimento che si traduce nel far sentire qualcosa di emotivo al bambino
Così il “mondo degli affetti” che definisce la qualità emotiva-affettiva dentro la quale il bambino è
inserito. In questo senso sono stimolanti le ricerche sulle EMOZIONI POSITIVE come il dato centrale
della spinta evolutiva del bambino. Non si parla più, quindi, di pulsioni come motore dello sviluppo
ma questo è rappresentato dalla ricerca di vivere e rivivere emozioni positive insieme ad un altro.
L’interazione con il mondo degli adulti è guidata in modo principale dalla ricerca di emozioni
positive da con-dividere. Il desiderio, in questo senso, “implica un’insieme di aspettative e uno
scenario immaginario all’interno del quale vi sono gli obiettivi e le azioni degli altri in relazione a sé
stesso e, spesso, gli esiti piacevoli e positivi di tali relazioni” . Questa frase riferita al bambino
potrebbe essere nel contempo riferita ai genitori e al loro desiderio di vivere emozioni positive con
il proprio figlio;
• Funzione REGOLATIVA: sempre di più nella psicologia dell’infanzia e in psicopatologia dell’età
evolutiva si fa riferimento al concetto di regolazione. La regolazione va intesa come la capacità che
il bambino possiede fin dalla nascita di “regolare” appunto i propri stati emotivi e organizzare
l’esperienza e le risposte comportamentali adeguate che ne conseguono . Ma le strategie per la
“regolazione di stato” sono inizialmente fornite dal caregiver. La difficoltà del caregiver a questo
livello porta a disturbi della regolazione (difficoltà nel regolare il comportamento, i processi
sensoriali, fisiologici, attentivi, motori o affettivi, nell’organizzare uno stato di calma, di vigilanza, o
uno stato affettivo positivo). La funzione regolativa genitoriale può avere un funzionamento iper
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(con risposte intrusive che non danno tempo al bambino di segnalare i suoi bisogni o i suoi stati
emotivi), ipo (quando vi è una mancanza d risposte), inappropriata (quando i tempi non sono in
sincronia con il bambino). Sulle difficoltà regolative del caregiver tuttavia non esistono per ora studi
in grado di correlare queste difficoltà a particolari aspetti dello sviluppo relazionale del caregiver
stesso. In ogni caso sempre di più ci si sta accorgendo come la capacità di regolazione sia la base
per poter decodificare le proprie esperienze e non sentirsi sopraffatti da queste. “Il processo
fondamentale sottostante alle esperienze di guardare, ascoltare, prestare attenzione, parlare,
modulare l’affetto e il comportamento, sentirsi calmi...è la capacità di regolazione”. Tanto che in
psicoterapia “il primo obiettivo terapeutico è aiutare la persona a sentirsi calma, regolata,
interessata al mondo che la circonda”. Il terapeuta quindi esercita in primis una funzione regolativa;
• Funzione NORMATIVA: conseguente all’evolversi della funzione regolativa o forse come funzione a
sé stante, sta la funzione normativa che consiste nella capacità di dare dei limiti, una struttura di
riferimento, una cornice e corrisponde a quel bisogno fondamentale del bambino che è il bisogno
di avere dei limiti, di vivere dentro una struttura di comportamenti coerenti. Al centro della
capacità di dare delle regole stanno come scrivono Brazelton e Greeenspan le aspettative e la
consapevolezza dei compiti evolutivi di quella determinata età. La funzione normativa riflette
l’atteggiamento genitoriale di fronte alle norme, alle istituzioni, alle regole sociali. E’ il “principio
della legge e dell’ordine che dà ad ognuno la sua parte di privilegi e di limitazioni, di doveri e di
diritti”. E’ forse questa una delle funzioni genitoriali che mette più a contatto la storia normativa
personale e la cultura dell’epoca nella quale si vive (genitore sociale);
• Funzione PREDITTIVA: è la capacità del genitore di prevedere il raggiungimento della tappa
evolutiva imminente. I genitori adeguati sanno percepire in modo realistico l’attuale stadio
evolutivo del bambino e sanno però nel contempo intuire quei comportamenti che promuovono e
sviluppano il nuovo comportamento. Come scrivono in modo poetico e psicologicamente profondo
Trad e Kernberg “una diade è un’unità al cui interno la crescita e il cambiamento di uno dei membri
implica la crescita e il cambiamento anche dell’altro”. Una difficoltà a questo livello può
comportare una serie di disturbi evolutivi sul piano somatico, cognitivo e motivazionale. La
funzione predittiva non è solo la capacità di intuire e facilitare lo sviluppo del bambino ma
soprattutto la capacità di cambiare modalità relazionali con il crescere del bambino e con
l’espandersi del suo mondo e delle sue competenze;
• Funzione RAPPRESENTATIVA: è ciò che ben ha descritto Stern e che possiamo definire lo “schema
di essere con” e che presuppone un insieme di interazioni reali con il bambino. Lo “schema di
essere con” infatti si basa sull’esperienza interattiva di essere con una persona particolare in un
modo specifico oltre ad essere una rete di molti “schemi di essere con” collegati da un tema
comune ( ad esempio <fare il bagnetto>). Oltre a queste rappresentazioni situazionali esistono poi
rappresentazioni dello “schema di essere con” più generalizzate e che corrispondono ad esempio a
“schemi della madre relativi alla propria madre”. Queste rappresentazioni generalizzate diventano
attive nel momento in cui entrano nell’interazione specifica con il bambino. La funzione
rappresentativa è poi continuamente arricchita da nuove rappresentazioni di “essere con” che
allargano il mondo interattivo del bambino e dei suoi genitori. Per funzione rappresentativa va
intesa proprio questa capacità di modificare continuamente le proprie rappresentazioni in base alla
crescita del bambino e dell’evolvere delle sue interazioni, facendo nuove proposte o sapendo
cogliere dal bambino i suoi nuovi segnali evolutivi. Infatti “finché le rappresentazioni del bambino
non vengono modificate, il bambino, per quanto gli è ancora possibile, agirà come faceva prima dei
cambiamenti avvenuti nei suoi genitori” . Lo sviluppo del mondo rappresentazionale del bambino,
sembra dire Stern, è conseguente ai cambiamenti delle rappresentazioni genitoriali;
• Funzione SIGNIFICANTE: Bion parla di “funzione alfa” della madre come capacità di dare un
contenuto pensabile e/o sognabile, in definitiva utilizzabile dall’apparato psichico, alle percezioni,
alle sensazioni del neonato che sono ancora prive di spessore psichico. La madre costituisce
attraverso la reverie un contenitore dentro il quale il bambino inizia a pensare poiché adattandosi
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ai bisogni del bambino aiuta il bambino stesso a com-prendere il suo bisogno. Questo postula un
complesso intreccio di proiezioni e identificazioni tra madre e bambino. Riprendendo uno dei
modelli cognitivi oggi utilizzati anche in ambito filosofico possiamo dire che la madre crea una
cornice che dà senso all’azione del bambino. Questo dare senso, ai suoi bisogni, ai suoi gesti
all’inizio casuali, ai suoi movimenti, alle sue espressioni, inserisce il bambino in un mondo di senso.
Il quale è diverso dal “semplice” senso legato alle singole rappresentazioni le quali, naturalmente,
hanno e forniscono una loro cornice. Ma questa funzione genitoriale sembra implicare un processo
ulteriore quasi un “pensare le rappresentazioni”, un inserirle in una cornice più ampia che è data
dal significato che ha per me la relazione con il bambino in questo particolare momento della mia
vita e delle mie relazioni. E in una cornice ancora più grande che è il senso della vita per me e del
pensare la mia vita, il senso delle relazioni che vivo e il pensare queste relazioni;
• Funzione FANTASMATICA: “nella stanza di ogni bambino ci sono dei fantasmi. Sono i visitatori del
passato non ricordato dai genitori. Gli ospiti inattesi al battesimo.” “Il genitore sembra essere
condannato a rappresentare nuovamente la tragedia della sua infanzia con il proprio bambino” . Se
la Fraiberg parla di fantasmi come di ricordi non elaborati possiamo però allargare il termine
fantasma a tutte le fantasie. Le fantasie servono non solo per conoscere la realtà (nel confronto tra
mondo fantasmatico e mondo reale che ci porta a dire “non è così”) ma le fantasie hanno
soprattutto la funzione di “fondare l’essere e costituirne l’identità“. Il bambino che nasce si
inserisce all’interno dei fantasmi familiari dei genitori. Ogni individuo ha un proprio romanzo
familiare costruito attorno alle proprie fantasie infantili, un mondo immaginario fatto di fantasmi
consci e preconsci. La nascita di un bambino implica un passaggio dei genitori ad uno stato nuovo.
Vi è un gioco di specchi tra quello che i genitori sono stati come bambini, quello che avrebbero
voluto essere, quello che i loro genitori sono stati, quello che vorrebbero che fossero stati, quello
che è il bambino reale, quello che è il bambino desiderato e fantasticato. E’ questa un’area che si
sta esplorando molto intricata ma anche molto intrigante. Un genitore sano vive questa ricca vita
fantasmatica. Infatti solo questa può favorire la nascita di una nuova identità che è appunto il
connubio tra fantasia e realtà;
• Funzione PROIETTIVA: vi è una mutualità psichica tra genitori e bambino all’interno della quale
occupa un posto fondamentale la proiezione. Riprendendo un’immagine utilizzata da Manzano,
Palacio Espansa e Zilkha “l’ombra dei genitori è caduta sul figlio” sia, come spiegano gli autori,
direttamente (ad esempio proiettando sul figlio l’immagine ideale del figlio che avrebbe voluto
essere) sia attraverso l’ombra degli oggetti interni (intendendo con questi parti di sé). Tali modalità
sono quindi narcisistiche nel senso che ciò che viene visto, amato, sognato, desiderato non è
l’oggetto esterno (che è sempre diverso da sé) ma parti di sé o immagini di sé. E’ ciò che gli autori
chiamano “scenari narcisistici della genitorialità”. Tali scenari possono dar luogo a psicopatologie
nel momento in cui tali proiezioni siano molto invasive e disturbanti della relazione reale con il
bambino. Ma esse fanno parte anche di una sana genitorialità il cui aspetto narcisistico è parte del
quadro relazionale. Questa funzione rientra nella più ampia funzione fantasmatica ma la si è
definita a parte per l’importanza che il narcisismo genitoriale ha nelle dinamiche proiettive. Il
narcisismo, sia materno che paterno, ha uno spazio fondamentale nel costruire l’immagine del
bambino e nel collocarla appunto dentro un particolare scenario di sviluppo. La relazione con il
bambino è sempre una relazione oggettuale come essere diverso da sé ma è sempre anche una
relazione narcisistica con parti di sé viste nel bambino. E’ la dinamica tra queste due relazioni co-
presenti a costituire il confine tra normalità e psicopatologia. Si veda ad esempio l’interessante
ricerca svolta da Carbonetto e Filingeri in cui risulta che già durante la gravidanza vi siano diverse
modalità fantasmatiche. Una che vede il feto come proiezione narcisistica, come parte di sé; una
che lo percepisce come essere a sé stante e lo considera come altro da sé, definendo da subito un
rapporto a due. Già durante la gravidanza quindi vediamo in azione il prevalere di una relazione
narcisistica o di una relazione oggettuale; del figlio come rappresentante di parti di sé o del figlio
come altro, con propri desideri, aspettative, con una sua vita affettiva e sociale. Va sottolineato
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inoltre come all’interno di questa funzione proiettiva si collochi la capacità di tollerare la
separazione, l’indipendenza, l’autonomia del figlio. Di considerarlo quindi come oggetto a sé stante
e non come oggetto narcisistico. Potremmo dire quindi che la funzione proiettiva va continuamente
rielaborata dal genitore per poter sempre di più dare spazio alla relazione oggettuale, alla relazione
con il figlio-altro-da-sé. Poiché solo quest’ultimo può vivere positivamente la propria autonomia, il
proprio unico modo di essere;
• Funzione TRIADICA: nei termini della scuola di Losanna potremmo definire la funione triadica come
la capacità dei genitori di avere tra loro un’alleanza cooperativa fatta di sostegno reciproco,
capacità di lasciare spazio all’altro o di entrare in una relazione empatica con il partner e con il
bambino. E’ un “gioco di squadra”. Questo presuppone la capacità del genitore di vedere il
bambino dentro una relazione dove esiste un terzo. La presenza del terzo, che può essere anche
solo percepita, dà al bambino un orizzonte molto più aperto dove collocarsi, e offre al bambino
possibilità di adattamento e di interazione molto maggiori. Esiste a livello di affetti un contatto
reciproco tra la coppia genitoriale e il bambino che mantiene viva e dinamica la relazione;
• Funzione DIFFERENZIALE: al suo interno la genitorialità ha due modalità di esprimersi attraverso la
modalità materna (maternalità) e attraverso la modalità paterna (paternalità). Non è semplice nella
fase attuale generalizzare attribuendo esclusivamente alla donna la funzione materna e all’uomo la
funzione paterna in quanto tali modalità entrambe presenti nel genitore interno, sia del padre che
della madre, possono esprimersi con accentuazioni e percentuali molto diverse. Va tuttavia
riconosciuto che all’interno di una coppia genitoriale entrambe le funzioni devono essere presenti
per permettere un gioco relazionale sano. In modo semplicistico possiamo dire che, nelle prime fasi
evolutive, la funzione materna si ancora in una modalità relazionale duale mentre la funzione
paterna ha da una parte il compito di proteggere la diade da interferenze esterne e dall’altra di
aprirla e riportarla in un ambito triadico. Ma in tutte le fasi evolutive del bambino il gioco tra le
diverse modalità genitoriali diventa essenziale per uno sviluppo psichico sano;
• Funzione TRANSGENERAZIONALE: potremmo definire questa funzione come l’immissione del figlio
dentro una STORIA, una narrazione, che appare reale e anche un po’ sognata. E’ la storia della
propria famiglia, è il continuum generazionale dove si inserisce la nascita. Nel Vangelo un’intera
pagina è dedicata alla genealogia di Gesù quasi a dire che nessuna nascita nemmeno la più
inconcepibile può avvenire se non è inserita in una storia generazionale. Questa funzione rimanda
ovviamente ai rapporti tra generazioni. Come si collocano i genitori dentro le rispettive storie
familiari e come si colloca la nascita dentro quel particolare momento della storia generazionale. E
quali sono gli intrecci tra le due storie familiari del padre e della madre, le relazioni tra le due
famiglie d’origine… E’ anche questa un’altra complessità che determina lo spazio storico in cui è
collocato il neonato e la sua immagine relazionale come essere che avrà un insieme di relazioni o
come essere in cui esiste un veto rispetto ad un ramo familiare o ad una particolare
persona. Muratori riporta una frase del Talmud che dice “ci vogliono tre generazioni per fare un
figlio” intendendo appunto la storia che sta dietro alla nascita di ogni bambino e che lo inserisce in
un “prima” e quindi, appunto perché c’è un prima con la possibilità che vi sia anche un “dopo”.
Si sono viste alcune funzioni genitoriali per sottolineare la complessità e la dinamicità del costrutto
di GENITORIALITA’. Come si è visto esso presuppone un insieme di funzioni dinamiche e relazionali che
rappresentano gli aspetti evolutivi del percorso maturativo della persona. “Prendersi cura di” e quindi
maturare il desiderio generativo è uno degli stadi della crescita umana. Esso non presuppone la nascita di
un figlio reale ma è uno spazio mentale e soprattutto relazionale dentro il quale convergono la mia storia
affettiva, il mio mondo degli affetti, i miei legami di attaccamento, il mio mondo fantasmatico, il mio
narcisismo, il senso che ha per me la mia esistenza, il mio sentirmi parte di una storia, la mia
differenziazione sessuale, la mia capacità di vivere relazioni pluri-dinamiche (e di non essere chiuso in una
relazione duale), il mio rapporto con le regole e il sociale, la mia capacità di contenere e regolare i miei stati
emotivi, la mia capacità di cambiare e di essere cambiato, il mio sentirmi unico e irripetibile, autonomo ed
indipendente e nello stesso tempo bisognoso di “essere pensato da qualcuno”.
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Con le parole di Bertolini e Neri: “essere radicati in qualcuno per poter mettere radici in un altro con cui
diventare coppia per poi poter offrire ancora ad un altro l’intreccio di queste radici”.
La relazione madre-bambino
Madre e bambino hanno entrambi un ruolo attivo nell’instaurare una relazione: essi sono alla costante
ricerca di interazione, in particolar modo nelle prime fasi di sviluppo. Tale interazione è molto importante,
in quanto influenza lo sviluppo emotivo, cognitivo e la personalità adulta dell’infante.
Come ogni altro tipo di interazione, le distinte attività dei partecipanti devono coordinarsi tra di loro, ed è
quindi necessario il contributo di entrambi per la buona realizzazione della stessa. Contrariamente a quanto
si potrebbe comunemente pensare, anche il neonato fin dalla nascita non dipende completamente dalla
madre, ma ha un ruolo attivo nell’intraprendere e mantenere la relazione madre-figlio.
Recenti studi hanno infatti dimostrato la presenza di meccanismi fisiologici innati, biologicamente basati e
reciproci che si attivano in maniera automatica nella madre, che risponde ai segnali del piccolo ma anche
nel bambino che richiama la sua attenzione e vicinanza.
In particolare, dopo una breve introduzione sul tema dell’attaccamento madre-bambino e le relative teorie
si parlerà di allattamento, Transport Response e del pianto, in quanto essi mettono in evidenza il ruolo
attivo di entrambe le parti della diade.
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bambino incrementa in quanto la libido non viene scaricata e il bambino la percepisce come angoscia
(Freud, 1938).
Nella teoria Kleiniana, le pulsioni di cui Freud parlava, appaiono legate indissolubilmente a un oggetto:
secondo l’autrice il primo oggetto con cui il bambino instaura una relazione è il seno materno, che il
bambino può idealizzare attribuendo allo stesso piacere e amore (seno buono) oppure trasformarlo in un
oggetto che porta dolore o angoscia (seno cattivo) in funzione del comportamento dell’oggetto verso il
bambino.
In base a quanto vengono soddisfatti i suoi bisogni, il bambino potrà stabilire buoni rapporti con la madre
mentre, la presenza di frustrazioni orali farà percepire il rapporto come negativo (M. Klein, 1932).
Ricerche successive hanno però dimostrato che il bambino ha un ruolo attivo nell’instaurare una relazione
grazie ad una dotazione genica, ovvero a schemi di comportamento innati, efficaci sin dalla nascita a
promuovere vicinanza e contatto con la madre. Data questa osservazione, l’attaccamento può essere
considerato come una motivazione primaria del bambino, nonché un suo bisogno primario e non più una
conseguenza del soddisfacimento di bisogni alimentari o fisici (Lis et al., 1999).
L’importanza di altre variabili quali la vicinanza e il contatto fisico con la madre, a scapito della
soddisfazione dei bisogni primari come ad esempio la fame è stata proposta da Bowlby grazie agli studi di
altri due importanti studiosi: l’etologo Konrad Lorenz e lo psicologo Harry Harlow. Lorenz (1935), con la
scoperta del fenomeno dell’imprinting nei pulcini, ha dimostrato come i piccoli tendono a mantenere un
contatto visivo e uditivo con il primo oggetto cospicuo con cui fanno esperienza subito dopo la schiusa dalle
uova (solitamente la madre) a prescindere dal bisogno di nutrizione: ciò è dimostrato sia dal fatto che
queste specie di animali sono in grado di cibarsi autonomamente sin dalla nascita sia perché il
comportamento si manifesta indipendentemente anche da qualunque altro tipo di ricompensa
convenzionale (Bowlby, 1989). Harlow (1958), grazie agli studi sulle scimmie Rhesus, ha dimostrato come i
piccoli passassero più tempo in corrispondenza di una madre calda e morbida ma che non fornisce cibo,
rispetto a una madre fredda e metallica che invece lo fornisce.
Sia dagli esperimenti di Lorenz che da quelli di Harlow, emerge quindi che, altre due necessità, anch’esse
geneticamente programmate così come lo è il bisogno di nutrimento, spingono il cucciolo a ricercare
ininterrottamente la vicinanza e il contatto fisico con la figura di attaccamento primario: il bisogno di
protezione dai predatori e dai pericoli esterni con lo scopo di garantire il benessere e la sopravvivenza della
specie e la sicurezza, rispettivamente funzione biologica e psicologica dell’attaccamento.
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“comportamenti di segnalazione” in cui possiamo trovare anche altri comportamenti quali il richiamo e
tutti i gesti classificabili come segnali sociali.
Tutti questi comportamenti vengono emessi dal bambino in circostanze diverse: il pianto può essere
suscitato da svariate condizioni, quali ad esempio la fame, il dolore e la separazione dalla madre. Il sorriso,
come anche la lallazione, si manifesta invece in situazioni diverse, ossia quando il bambino è contento, non
ha fame né prova dolore. Nonostante il sorriso non susciti nella madre l’azione del proteggere, nutrire o
confortare, esso fa comunque sì che ella risponda, parlando al bambino accarezzandolo o prendendolo in
braccio, garantendo dunque stabilità alla relazione madre-figlio. Il sorriso funge anche da rinforzo per la
madre in quanto tende a far aumentare la probabilità che in futuro ella risponda ai segnali del proprio
bambino in modo pronto e tale da favorire la sua sopravvivenza. L’altra classe di comportamenti
individuata da Bowlby è quella dei ‘comportamenti di accostamento’, in cui rientrano l’aggrapparsi, il
seguire e il raggiungere il genitore che hanno la funzione di avvicinare il bambino alla madre. Tali
comportamenti tuttavia possono essere effettuati dal bambino solamente una volta che egli ha raggiunto
un certo livello di sviluppo motorio.
Come abbiamo appena potuto notare quindi, entrambe le parti della diade nella relazione madre-
figlio svolgono ruoli attivi nell’ambito della loro relazione. Studi recenti, hanno dimostrato la presenza di
determinati meccanismi fisiologici che permettono al bambino di richiamare, in maniera quasi automatica,
l’attenzione della madre (o caregiver) che a sua volta ha meccanismi fisiologici per cui, sempre
automaticamente, le consentono di rispondere ai richiami e ai segnali del bambino.
È molto interessante notare, che oltre a basarsi su meccanismi fisiologici attivi sia nella madre che nel
bambino l’evoluzione ci ha modellato in maniera che tali meccanismi si reciprochino a vicenda e, esempi di
ciò sono: l’allattamento, il Transport Response e il pianto.
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quello per cui l’allattamento le permette di aumentare l’ empowerment e la fiducia in sé stesse oltre ad
essere l’antagonista della depressione port-partum (Bisceglia et al., 2010); vantaggio per entrambi è il
rinforzarsi del loro legame e lo stabilire un vincolo affettivo importante per tutta la vita.
Il Transport Response
Il Transport Response (TR), studiato attraverso tecniche comparative tra specie diverse, riguarda la capacità
del bambino (o cucciolo animale) di adattarsi al trasporto materno. Questo fenomeno è stato osservato
inizialmente da Eibl-Eibesfeldt nel 1951, quando notò che prendendo un topino con un dito nella parte
dorso-laterale del corpo esso assumeva una specifica postura, caratterizzata da estensione e adduzione di
entrambe le zampe anteriori verso il corpo e una flessione delle zampe posteriori e della coda verso il
corpo. Il topo, durante la presa, rimaneva inoltre fermo e passivo. Questa regolazione posturale venne
studiata sperimentalmente in laboratorio con il nome di Transport Response da Brewster e Leon (1980).
Questi autori confermarono che il topo assumeva la specifica posizione compatta sopra descritta e ne
studiarono il valore ecologico. Il Transport Response si verifica in una precisa finestra temporale: finché il
topino è piccolo, la madre lo può afferrare ovunque per spostarsi da un posto all’altro ed egli può
permettersi di muoversi anche durante il trasporto. Tuttavia, dall’ottavo/nono giorno, il cucciolo inizia a
divenire pesante e siccome ancora cieco, deve affidarsi completamente alla madre e facilitarla nel trasporto
restando fermo. La sua risposta, automatica, è elicitata dalla madre, la quale lo afferra con i denti proprio
nella zona dorso-laterale. Gli autori notarono infatti che, il gruppo di topini a cui era stata anestetizzata
questa parte non erano in grado di esibire il Transport Response e ciò si rivelava pericoloso, in quanto se il
cucciolo era abbastanza grande e pesante la madre si trovava in difficoltà, rallentando, inciampando spesso
nel piccolo e rischiando di cadervici sopra o ferirlo.
Il Transport Response, diminuisce gradualmente per estinguersi poi del tutto al diciottesimo giorno, quando
il cucciolo è indipendente. Tale risposta è quindi messa in atto dal cucciolo nel periodo in cui è abbastanza
pesante ma non ha la motricità sufficiente per muoversi autonomamente. Il significato funzionale di questo
comportamento è quello di facilitare la madre nel trasporto e garantirsi una maggior probabilità di
sopravvivenza.
Anche nell’uomo è possibile trovare il Transport Response: allo stesso modo in cui il riflesso di suzione
reciproca il riflesso della madre di produzione del latte nel corso dell’allattamento, nel Transport Response,
il trasporto della madre (che può avvenire per esempio quando il bambino piange e la madre
automaticamente lo prende in braccio e cammina), è reciprocato dalla risposta del bambino. Già a partire
dalla presa in braccio, sia la madre che il bambino mettono appunto automaticamente una serie di
aggiustamenti posturali che gli permettono maggiore confort: la madre solitamente poggia il bambino
sull’anca, così che il peso di quest’ultimo viene distribuito su avambraccio e anca; il bambino a sua volta,
quando viene sollevato flette e divarica le gambe (Kirkilionis,1992;1997). Tale posizione del piccolo sul
fianco della madre è anche benefica per lo sviluppo dell’anca (Kirkilionis, 2001).
Altra risposta del bambino, che si verifica una volta che egli si trova in braccio alla madre che cammina, è
quella di smettere di piangere, almeno nella maggior parte dei casi, riuscendo addirittura ad
addormentarsi. Gli effetti calmanti sul bambino dovuti all’essere preso in braccio sono una questione nota
agli adulti di tutte le culture, ma attualmente ne sono stati studiati anche i meccanismi fisiologici e
neuronali che stanno alla base del fenomeno: nell’esperimento di Esposito et al. (2013) è stato dimostrato
come il battito cardiaco del bambino che piangeva diminuiva improvvisamente nel momento in cui la
madre si alzava tenendolo in braccio per cominciare a camminare. Quando la madre tornava a sedersi, il
battito cardiaco tornava a crescere nuovamente e ricomparivano inoltre i movimenti volontari e il pianto.
Questo pattern di comportamento è visibile fino ai sei/sette mesi, in quanto dopo tale periodo il bambino
non ha più bisogno di una stimolazione motoria e vestibolare per calmarsi bensì di una stimolazione sociale.
Gli autori notarono inoltre che, nel caso il bambino in braccio durante il trasporto continuasse a piangere, il
battito cardiaco diminuiva. Inoltre, analizzando le componenti acustiche del loro pianto si scoprì anche che
la frequenza fondamentale del pianto diminuiva. La frequenza fondamentale è un indicatore che più è alto,
più acuto e disagevole risulta essere il pianto. Questo studio è riuscito così a dimostrare, per la prima volta,
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che il tranquillizzarsi del bambino in risposta al trasporto materno è un set coordinato di regolazioni di tipo
centrale, motorio e cardiaco ed è una componente che si è conservata nella relazione madre-figlio di tutti i
mammiferi. Il significato funzionale di questa risposta cooperativa del piccolo umano (e non) è sempre
quello di garantirsi maggior sopravvivenza.
Altro comportamento, che si reciproca nella relazione madre-figlio, anch’esso importante evolutivamente
parlando, come lo sono gli altri due di cui abbiamo discusso sopra, necessario, a garantire protezione e
benessere al bambino, è il pianto.
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La presa in braccio, che è la risposta iniziale più frequente al pianto, indipendentemente dalla cultura e
anche dallo stato parentale, offre oltre alla stimolazione vestibolare, anche contatto fisico e calore ed è la
più efficace per porre termine al pianto. Uno studio longitudinale di Bell e Ainsworth (1972) ha dimostrato
che la prontezza di risposta del caregiver promuovono un comportamento desiderabile nel bambino alla
fine del primo anno, dove frequenza e durata del pianto saranno inferiori. Una madre sensibile sarebbe in
grado di ridurre temporaneamente il pianto in termini di durata fornendo anche le condizioni che tendono
a prevenire l’attivazione o riattivazione del pianto, non solo nei primi mesi ma anche successivamente.
Le autrici affermano inoltre che la responsività materna promuove lo sviluppo della comunicazione: i
bambini che piangono meno all’età di un anno, appunto grazie alla sensibilità delle loro madri, avevano
maggiore probabilità di sviluppare altre strategie comunicative, quali ad esempio le espressioni facciali,
gesti corporei e vocalizzazioni rispetto a quelli che piangevano di più. Anche altri autori, concordano con
questo e aggiungono che la reattività di un caregiver, svolge un ruolo importante nello sviluppo della
personalità, temperamento e capacità cognitive e linguistiche del bambino (Esposito e Venuti, 2009).
E’ stato dimostrato che la risposta materna si attiva in maniera automatica e, per tale ragione, è inoltre
possibile ipotizzare che l’evoluzione abbia permesso di sviluppare nelle donne, in particolare quelle in età
fertile, particolari meccanismi fisiologici per percepire e rispondere appropriatamente al pianto.
Oltre alle attivazioni cerebrali, il pianto risulta in grado di modificare il battito cardiaco come conferma ad
esempio lo studio di Weisenfeld et al. (1981): l’ascolto del pianto del proprio bambino, registrato su un
nastro, causa nelle madri una decelerazione cardiaca seguita da una rapida accelerazione: tale risposta è
associata alla preparazione all’azione o ad intervenire.
Infine, il pianto è in grado di elicitare anche risposte endocrine: uno studio di Fleming et al.(2005), ad
esempio, condotto su persone di sesso maschile ha mostrato che padri, che ascoltavano gli stimoli di
pianto, mostravano un incremento percentuale maggiore nel testosterone rispetto ai padri che non
ascoltavano tali stimoli. Inoltre, i padri con esperienza, ascoltando i pianti, mostravano un incremento
percentuale maggiore nei livelli di prolattina rispetto ai neo-padri o a qualsiasi gruppo di padri che
ascoltavano stimoli di controllo.
Osservando fenomeni quali l’allattamento, il Transport Response e il pianto, si è notato come la relazione
madre-figlio è interdipendente e biologicamente basata: la madre possiede meccanismi fisiologici che
vengono attivati solo con il contributo del suo piccolo che, grazie ai propri meccanismi fisiologici innati
agisce in maniera tale da richiamare la sua attenzione, assicurarsene la vicinanza, nonché far in modo che
gli venga data una risposta pronta e adeguata alle sue esigenze garantendogli la sopravvivenza e il
benessere fisico e psicologico.
Sviluppo affettivo
Un sano sviluppo della personalità dipende sia dall'adeguato sviluppo della sfera cognitiva, affettiva e
sociale, sia dalle interazioni che la persona stabilisce con l'ambiente esterno nel corso della sua evoluzione.
L'analisi degli aspetti affettivi include esperienze psichiche relative alla soggettività, che si connotano
secondo la polarità antitetica piacere-dispiacere, in base all'intensità, alle modalità di insorgenza, ed alla
durata. In base agli elementi suddetti i fenomeni affettivi si dividono in: sentimenti, emozioni ed umore. I
sentimenti sono i componenti basilari dell'affettività, sono persistenti ed esprimono la risonanza affettiva
con la quale la persona vive la realtà corporea, la sua socialità ed i suoi processi psicologici. Le emozioni
sono stati affettivi spesso intensi, ad insorgenza acuta e di rapido esaurimento; influenzano i processi
psichici ed il comportamento e si esprimono sul versante corporeo e neurovegetativo. L'umore è la tonalità
affettiva di base, va a costituire il temperamento abituale di una persona e lo stato affettivo temporaneo.
Studiare lo sviluppo affettivo significa analizzare il tipo di rapporti che il soggetto instaura con l'ambiente e
le caratteristiche individuali, evidenziando i fattori che influenzano l'evoluzione.
Aspetti di ordine ambientale che condizionano la qualità delle relazioni affettive possono essere:
- il comportamento dei genitori, in modo specifico quello della madre nei primi anni di vita;
- l'atteggiamento di accettazione o di rifiuto dell'ambiente;
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- la possibilità di sperimentare esperienze sociali positive.
Particolarmente importante è la relazione madre-figlio, infatti la madre offre la prima relazione oggettuale
del bambino, sull'esperienza della quale egli costruirà le successive relazioni interpersonali. Se questo
rapporto manca o viene significativamente alterato precocemente, nel bambino si genereranno, dal punto
di vista emozionale, stati carenziali che influenzeranno negativamente e spesso irreversibilmente, il suo
sviluppo psicofisico.
Per carenza affettiva si intendono diverse sindromi caratterizzate da una condizione prolungata di non
soddisfazione dei bisogni primari del bambino nel rapporto diadico con la madre.
I bambini che sperimentano una condizione di carenza affettiva sono quelli istituzionalizzati, ospedalizzati,
o quelli che sono allontanati per lungo tempo dalla famiglia senza la possibilità di godere di un sostituto
materno valido.
Autori quali Spitz, Bowlby e la Bender hanno studiato approfonditamente molti casi clinici di bambini
cresciuti in condizioni affettivamente deprivanti, hanno conseguentemente evidenziato come questo stato
carenziali produca effetti diversi, sempre negativi, a seconda del tipo di separazione, dell'età del bambino,
della presenza o assenza di un precedente rapporto con la madre.
Fra questi effetti si trova: un progressivo rallentamento delle funzioni psicofisiche, difficoltà o impossibilità
di stabilire adeguate relazioni interpersonali fino ai casi più gravi di deterioramento irreversibile delle
funzioni cognitive, gravi alterazioni della sfera affettiva. Spitz fece studi sulla carenza da insufficienza grazie
ai quali osservò che bambini di sei/diciotto mesi che si trovavano in tale stato passavano attraverso tre
stadi: piagnucolamenti, grida acute con perdita di peso ed arresto nello sviluppo, ritiro e rifiuto del contatto
(depressione analitica).
La teoria di Spitz fa capo alla psicoanalisi genetica e si colloca nel filone della psicologia dell'Io di Hartmann.
Questa corrente distingue la crescita in due processi: i processi di maturazione, che riguardano il
patrimonio ereditario e non dipendono dall'ambiente; i processi di sviluppo, che dipendono invece
dall'ambiente e dalle relazioni oggettuali. Spitz, per formulare la sua teoria sull'evoluzione psicogenetica, ha
osservato direttamente il bambino: nei primi anni di vita ci sono tre organizzatori dello psichismo che
caratterizzano alcuni livelli essenziali dell'integrazione della personalità, in essi i processi di sviluppo e di
maturazione si combinano.
Lo stabilirsi di un organizzatore dipende dalla comparsa di indicatori, ossia nuovi schemi di comportamento
di seguito illustrati. La comparsa del sorriso di fronte al volto umano si stabilisce intorno ai due/tre mesi,
quando si ha la prima relazione preoggettuale indifferenziata e la comparsa della percezione esterna. La
comparsa della reazione d'angoscia di fronte all'estraneo, intorno agli otto mesi, periodo in cui c'è la
capacità di distinguere fra Io e non Io, c'è relazione con oggetti diversificati. La comparsa del No, al secondo
anno di vita, in cui il bambino sa distinguere perfettamente fra sé ed oggetto materno e quindi ha relazioni
sociali; qui compare anche la capacità di concettualizzare in modo astratto, simbolico.
Anche Bowlby studiò le carenze affettive dal punto di vista quantitativo, focalizzando l'attenzione sulla
carenza da discontinuità dei legami o separazione. I problemi maggiori insorgono in presenza di una
carenza affettiva fra i cinque mesi ed i tre anni. Come Spitz, anche Bowlby individua tre fasi attraversate dal
bambino privato delle cure materne: fase di protesta, al momento della separazione il bambino piange o si
agita per due giorni; fase di disperazione, il bambino smette di mangiare, non si veste e pare depresso; fase
del distacco, il bambino accetta le cure ma potrebbe non riconoscere la madre. E' stato costruito un
percorso evolutivo caratteristico dei primi due, tre anni di vita, che comprende 4 momenti distinti: il
bambino attraversa dapprima una fase di preattaccamento, in cui i suoi comportamenti puramente istintivi
e riflessi avrebbero lo scopo di sollecitare risposte di protezione da parte della madre; successivamente,
intorno al secondo-sesto mese si viene a determinare un interesse privilegiato del piccolo verso la madre
che non comporterebbe però ancora ansia e paura nei confronti di questa.
L'attaccamento vero e proprio si evidenzia a partire dall'ottavo mese e per tutto il secondo anno: il
bambino oltre a manifestare in modo spiccato comportamenti caratteristici quali, per es. seguire la madre,
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aggrapparsi ad essa, toccarla, evidenzia una netta reazione di paura, di ansia se non addirittura angoscia, in
presenza di individui estranei e durante la separazione dalla madre.
Questa inoltre costituisce con la sua presenza in un luogo non conosciuto, una base sicura che permette
l'esplorazione dell'ambiente. Nella fase successiva, durante il terzo anno il piccolo instaura una relazione
reciproca con la mamma; il suo pensiero ormai è di tipo simbolico, gli consente di rappresentarsi
mentalmente il suo ritorno o la sua presenza anche in sua assenza.
Di particolare interesse i comportamenti innati specie specifico, importanti dal punto di vista evolutivo
perché favoriscono la sopravvivenza del bambino permettendogli di essere in grado di badare a se stesso o
di attirare l'attenzione dell'adulto con comportamenti quali piangere, succhiare, sorridere e afferrare. Molti
riflessi, come quelli che controllano la respirazione, rispondono ad esigenze vitali. Altri riflessi essenziali
rendono possibile la nutrizione: succhiare, inghiottire, ecc. Alcuni di questi riflessi rimangono tutta la vita,
mentre altri svaniscono.
I riflessi sono ereditari e di tipo adattivo, stereotipati nella loro forma; sono movimenti del corpo che
orientano l'organismo verso un particolare stimolo, azioni a schema fisso. Nella prima infanzia lo sviluppo
motorio è cefalo-caudale: i bambini riescono a controllare occhi e testa prima delle mani.
Lo sviluppo è anche prossimo-distale: esso procede dal centro del capo alle estremità, dai muscoli più
grandi ai più piccoli. La maggioranza di bambini normali attraversa la stessa successione fondamentale
nell'acquisire le abilità motorie: sedere, procedere a carponi, stare in piedi (9-16 mesi) e camminare(9-
17mesi). Lo sviluppo motorio dei bambini segue lo stesso percorso in tutti i membri della specie.
La teoria di Bowlby appartiene alle teorie etologiche assieme a quelle di Harlow: queste teorie studiano il
soggetto nel proprio ambiente naturale. Bowlby è stato il primo ad integrare gli studi dell'etologia con la
psicologia dello sviluppo; egli infatti, studiando i neonati, si accorse che molti dei loro comportamenti innati
si ritrovavano anche nei piccoli degli animali. Le sue osservazioni sui neonati lo portarono a sostenere che
l'attaccamento sociale tra il piccolo e la madre era necessario per uno sviluppo normale. In questo ambito
la teoria dell'attaccamento di Bowlby è la prospettiva teorica di riferimento.
Attaccamento sociale: il 1° anno di vita è critico perché si formi un fondamentale senso di fiducia negli altri
e di speranza nel futuro. Ed in ciò le esperienze che coinvolgono il padre e la madre sono le più importanti.
Se che si prende cura del bambino risponde ai suoi bisogni in modo affidabile ed attento, il bambino sarà
più felice e piangerà di meno rispetto a quelli ignorati (1° anno di vita). Bowlby ritiene che l'attaccamento si
sviluppi fra i sei ed i nove mesi, questa particolarissima relazione, fra bambino e madre, si sviluppa in base
ad alcuni principi da lui elencati: la tendenza innata a guardare le cose in movimento e certe forme a
preferenza di altre; l'apprendimento per esposizione, grazie al quale il bambino riconosce le cose che gli
sono familiari e la sua tendenza ad accostarglisi; il rinforzamento di alcuni risultati e l'indebolimento di altri.
Verso i 7 mesi i bambini sviluppano un forte legame nei confronti della madre e di una o due persone con
cui ha familiarità. I bambini che hanno sviluppato questo attaccamento, piangono quando la madre li lascia
e si aggrappano a lei quando hanno paura o si fanno male.
La forza dell'attaccamento può variare molto: alcuni formano relazioni sicure, altri meno fortunati, formano
relazioni insicure. Poiché l'attaccamento sociale dipende dalle interazioni sociali, la qualità della relazione
madre-figlio è cruciale.
Sfortunatamente anche le madri meglio intenzionate non possono controllare pienamente le qualità delle
loro interazioni con le altre persone, compresi i propri figli, così è inevitabile che certe relazioni di
attaccamento madre-figlio siano meno sicure di altre. I bambini il cui legame con la madre è insicuro,
possono sviluppare problemi emotivi e di comportamento. Negli ultimi anni, gli impegni lavorativi delle
donne, hanno fatto emergere l'importanza della figura del padre nell'educazione quotidiana dei figli.
Questo può provocare un legame verso i padri, non meno forte che verso le madri, specialmente se anche il
padre nutre il bambino, lo lava, ecc. Fra i nove ed i diciotto mesi i primi comportamenti di attaccamento,
soprattutto succhiare, seguire, piangere, aggrapparsi e sorridere, si fondono con comportamenti più
complessi perché si ha un collegamento tra componenti innate ed apprese. Sempre secondo Bowlby
l'individuo agisce spontaneamente per soddisfare le richieste dell'ambiente, non come sostengono Lorence
e Freud perché spinto da impulsi biologici a cacciare cibo, a fuggire per salvarsi o per cercare un compagno.
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La critica di Bowlby alla teoria psicoanalitica si rivolge anche al principio secondo il quale lo stabilirsi della
relazione con l'oggetto libidico avvenga per soddisfare il bisogno orale. Bowlby era in contrasto anche con
la teoria dell'apprendimento centrata sul rinforzo, che vede la madre come rinforzo secondario; l'autore
ritiene che l'attaccamento del bambino alla madre sia in funzione di comportamenti tipici della specie,
innati; la prova di quanto dice si ritrova nell'osservazione di bambini nati ciechi o sordi che acquisiscono
ugualmente il sorriso sociale all'età di sei settimane. Questi comportamenti hanno la funzione di
mantenere il piccolo vicino alla madre e viceversa. Le descrizioni di Spitz e Bowlby del normale sviluppo
evolutivo partendo dall'osservazione di situazioni di deprivazione sono state molto utili; attualmente
l'attenzione è però rivolta all'ospitalismo intrafamiliare, ossia alla carenza affettiva che può instaurarsi in
senso alla qualità della relazione, in seguito ad un alterato rapporto con la madre senza che avvenga una
separazione fisica. Spesso la madre, in famiglie multiproblematiche, può essere inaffidabile ed
imprevedibile, di conseguenza, il rapporto che instaura con il suo bambino è inadeguato o patogeno; ciò
può determinare una condizione di fragilità dell'Io deteriorandone il successivo sviluppo della personalità.
Una madre non accogliente, non contenitiva, che non sa offrire un adeguato maternale, sia per una sua
condizione emotiva sia per difficoltà oggettive di vita, fa sì che il bambino non sperimenti un adeguato
attaccamento.
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Si tratta di una forma di intersoggettività primaria, come Trevarthen la definisce, una competenza le cui
basi sono geneticamente determinate, che si esprime nel bambino in molti modi ed è testimoniata dalla
capacità di imitazione precoce che ha il neonato (C. Trevarthen, 1997).
Allora il comportamento sociale del bambino sin dalle prime fasi è già organizzato e compito della madre è
proprio quello di adattare il suo comportamento ad un’organizzazione comportamentale già esistente.
Un esempio di questo lo si può ritrovare nella madre che tiene in braccio e culla il piccolo durante
l’allattamento: qui l’abbraccio della madre fornisce un contesto sociale stabile ove il bambino può
abbandonarsi e sentirsi sicuro nei vari cicli e sperimentare così con sicurezza i ritmi di attività e paura legati
a tale momento. In tal caso la madre funge da cuscinetto che protegge e fornisce struttura per la psiche
emergente del bambino. Alcuni aspetti del comportamento della madre come la voce, il sorriso, gli occhi
sempre disponibili divengono, infatti, punti fermi per permettere al bambino di conoscere l’ambiente che lo
circonda e renderlo sempre più capace di esercitare un controllo su cicli che fino a quel momento erano
inflessibili (fame-sonno).
Il comportamento materno col suo fluire continuo, col rispetto dei ritmi attività/pausa, con l’alternanza del
turno nelle vocalizzazioni, fornisce al bambino la prima esperienza della struttura di base delle
comunicazioni. È proprio attraverso questi dialoghi primari che il bambino imparerà le nozioni
di reciprocità e di intenzionalità che stanno alla base del linguaggio e delle relazioni sociali vere e proprie.
Lo stesso D. Stern afferma che l’esperienza di essere con l’altro e di interagire con lui può costituire una
delle più importanti esperienze della vita sociale. Ancora di più se il senso di essere con l’altro è considerato
una modalità attiva di integrazione di due unità distinte –il Sé e l’altro- ove il bambino è parte integrante di
una matrice sociale e ove gran parte della sua esperienza consegue alle azioni degli altri. Pertanto Stern ha
evidenziato che il bambino è attivo nella relazione fin dalla nascita, rivelandosi in grado di stimolare
interazioni, di parteciparvi e di rispondere (D. Stern, 1984). In altre parole, il neonato nasce competente e
con un’innata predisposizione a fare esperienze affettive.
In tutto questo, l’altro (madre, caregiver) ha il delicato compito di fungere da Io ausiliario del bambino (D.
Winnicott, 1987), di metà esterna del Sé (R. Spitz, 1973), di self-object (H. Kohut, 1982); è colui che deve
aiutarlo ad ampliare e connettere le varie esperienze: da quelle sensoriali a quelle emozionali. Il caregiver
deve, inoltre, fornire al bambino un ambiente di contenimento (holding environement) tale che, il bambino
senta assicurata al propria continuità di essere e di esistere (D. Winnicott, 1970).
Molto importante sarà, a tale scopo, lo sviluppo delle qualità emozionali ed umane, l’empatia e,
soprattutto, la competenza di sintonizzazione affettiva e di vicinanza emozionale che forniscono in maniera
autentica e spontanea una base sicura (J. Bowlby, 1989) e un oggetto costante (M. Mahler, 1970).
Da quanto bene procede il primo anno di vita da un punto di vista affettivo, dipende l’evoluzione di tutta la
vita psichica e relazionale futura. Se, infatti, la libera espressione del Sé e degli affetti incontra
l’incomprensione, l’umiliazione, la disapprovazione o il rifiuto, il bambino imparerà molto presto a
controllare le emozioni bloccando i muscoli espressivi dell’emozione negata (D. Stern, 1987).
Solo con un Vero Sé l’individuo avrà un senso di unità e interezza rendendo spontanei i suoi gesti, aperto il
suo cuore, libere e personali le sue idee. Il vero Sé è fonte di autenticità, vivacità fisica e psichica ed è
l’assicurazione della continuità del progetto vitale innato in ogni essere umano. Il vero Sé, quando è fatto
crescere in una relazione genitoriale stimolante, rispettosa e protettiva, rende la persona veramente
socievole, costante nelle relazioni, in sintonia col mondo.
Solo il vero Sé, dice Winnicott, può essere creativo e farci sentire reali. Infatti il vero Sé è il luogo della prima
azione creativa del bambino che Winnicott chiama gesto spontaneo e può essere un sorriso, una
vocalizzazione, un movimento del corpo: la cosa importante è che sorge dal bambino, dal suo nucleo
emozionale. Egli non sta solo rispondendo o imitando il suo caregiver: sta, bensì, creando qualcosa di
spontaneo e di assolutamente originale. Questo è l’inizio delle appercezioni creative e il compito del
genitore è di guardare, gioire, incoraggiare ogni gesto spontaneo e creativo, guardandosi bene dal bloccarlo
o dall’interferire col suo controllo o il suo giudizio o col modello di riferimento, visto che tutto dipende dalla
qualità e quantità del suo sostegno affettivo.
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Questo significa anche che il bambino, libero dal dover strutturare e aderire ad un’immagine ideale si se
stesso imposta dall’esterno, può vivere nel suo essere reale, spontaneo e creativo, facilitando così la
possibilità di sviluppare la costanza dell’oggetto, dell’immagine reale del genitore il quale potrà a sua volta
mostrarsi in tutti i suoi aspetti, senza essere idealizzato o accettato solo in parte dal bambino. In tal modo il
bambino diverrà un adulto capace di vivere con creatività e spontaneità, amando la vita così come è stata
affettivamente nutrita la sua vitalità e dando grande valore all’esistenza. Perché il vero Sé è la somma del
Sé innato con le rappresentazioni dell’altro indotte dalle esperienze sensoriali vissute nella relazione con
l’altro, con gli stati affettivi caldi ed empatici ad essa correlati.
Stern ha proposto l’esistenza di una capacità di sintonizzazione affettiva che rende possibile una forma di
imitazione trans-modale e selettiva e che, questa capacità di sintonizzazione degli affetti, renda possibile la
condivisione degli stati affettivi interni, ma è qualcosa che ovviamente va al di là del comportamento
osservabile (D. Stern, 1989). Tutti gli psicologi evolutivi sottolineano che esiste un sistema molto efficiente
di scambi emozionali che è essenzialmente non verbale; un sistema che rimane attivo, poi, per il resto di
tutta l’esistenza e che rende possibile le comunicazioni affettive sentite intuitivamente e che nascono,
appunto, nell’ambito delle relazioni basate sull’intimità.
L’evento chiave dell’infanzia sta proprio nello sviluppo di questa capacità di sperimentare, comunicare e
regolare le emozioni le quali, all’inizio della vita, sono regolate dai partner adulti ma poi, nel corso dello
sviluppo, diventano auto-regolate anche in rapporto allo sviluppo del sistema nervoso del bambino.
Appare pertanto evidente quanto una buona relazione sia fondamentale per creare una condizione
psichica, per quanto possibile, felice. La relazione mentale non è un’astrazione ma un’operazione che
avviene fra due o più persone. Infatti, gli avvenimenti psichici, le azioni di ogni persona sono, per così dire,
sempre incompleti: essi si completano solo nell’interazione e al cospetto dell’altro a partire dall’ambiente
familiare, con particolare rilevanza data alla diade madre-bambino, fino ad arrivare alla considerazione
dell’ambiente sociale (D. Stern, 1987). Fondamentale è, a tale scopo, la qualità dell’interazione al fine di
poterne stabilire le variabili condizionanti e affrontare le determinanti inconsce della relazionalità degli
esseri umani nel gioco dell’evoluzione psichica di ogni persona.
Stern ritiene che, per una definizione qualitativa della relazione madre-bambino, si debba tener conto di
diversi elementi: il primo di questi riguarda l’importanza del dare spazio in riferimento allo spazio
interpersonale quale area definita dallo stesso autore di rispetto, che esiste attorno ad ogni essere umano,
bambino o adulto che sia. Quest’area è, secondo Stern, predisposta geneticamente e gli strumenti affinché
si realizzi sarebbero innati, ma dipenderebbe da un lavoro da svolgersi in comune. Molti studi hanno infatti
evidenziato come, già i bambini piccoli, siano dotati di strumenti idonei a manifestare avversione nei
confronti della violazione di questo spazio che la madre ha la possibilità di comprendere, anche se con le
normali difficoltà della situazione, aiutata –peraltro- dal fatto che il bambino comunica con lei per mezzo di
un codice che madre e bambino hanno in comune.
È rilevante perciò, in una buona relazione, la capacità della madre di raffigurarsi il bambino come entità
mentale autonoma. Kohut ha descritto in modo articolato come, per lo sviluppo del Sé, sia indispensabile
l’esperienza vitalizzante e coesiva del rispecchiamento; inoltre il comprendere l’altro in termini di stato
mentale, permette di dare senso e anticipare le azioni (H. Kohut, 1982).
Psicoanalisti come Sandler, Emde, Stern, Fonagy e studiosi dell’attaccamento come Bowlby, hanno
esplorato lo sviluppo del mondo rappresentazionale del bambino e lo sviluppo delle sue capacità meta
cognitive a partire dalla qualità della relazione madre-bambino in riferimento ai fattori che rendono
possibile il costituirsi di un attaccamento sicuro. Essi hanno sottolineato che il rafforzamento progressivo
della funzione meta cognitiva corrisponde all’aumento della coerenza della propria narrativa personale e
che, per far ciò, sia di fondamentale importanza una buona capacità di sintonizzazione
emotiva (attunement) e la capacità di rispondere in modo sensibile e accurato (sensitive responsiveness), da
parte del genitore, ai bisogni di vicinanza, protezione e contatto del bambino.
Attunement e sensitive responsiveness sono in correlazione con l’accuratezza della rappresentazione
mentale del bambino, nella madre. A sua volta la madre riflette al bambino sia la sua comprensione del
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disagio sia la percezione corretta dello stato affettivo. Pertanto è necessario sottolineare l’importanza di un
altro elemento al fine di una “buona relazione”: il compito della madre di dare contenimento.
Il compito della reverie, come afferma Bion, è fondamentale per unificare gli elementi che circolano attorno
al bambino: è quella funzione materna attraverso la quale le proiezioni mortali prodotte dalle parti
psicotiche del piccolo, sono bonificate e trasformate (W. Bion, 1972). Le diverse identificazioni proiettive, le
angosce primitive trovano, con tale funzione, uno spazio, una mente capace di accoglierle e trasformarle sì
da poter essere restituite depurate. Ovviamente tutto questo segue alla relazione con l’Altro-
disponibile che possiede la capacità di accogliere, lasciar soggiornare, metabolizzare e restituire il prodotto
dell’elaborazione permettendo al bambino di introiettare la tollerabilità alla frustrazione, la capacità di
lutto, del tempo, del limite (W. Bion, 1972).
Tutto ciò passa attraverso il mentale che si attiva nella relazione col caregiver e, senza il quale, il processo di
sviluppo della mente fallisce dando luogo a diverse patologie che non sono altro che vie di scarico e di
evacuazione di angosce primitive non elaborate. La mente diviene così fonte di sofferenza che disturba il
comportamento armonicamente funzionante della persona. Per contro, una mente che funziona è una
mente che crea continuamente immagini (elementi alfa) dalle proto-emozioni e dalle proto-sensazioni: è
una mente che metabolizza tutti gli apporti che riceve (W. Bion, 1972).
Una mente che non ha modalità assuntive-trasformative-creative, inverte il proprio funzionamento e
evacua all’esterno contenuti non pensabili e contenibili nella mente.
Chiaramente per una buona relazione è fondamentale avere una buona comunicazione nel senso di avere
un linguaggio condiviso da entrambi i partners e di dare spazio alle diverse possibilità comunicative.
Tutto questo andrà a costituire quell’intersoggettività primaria nella quale la madre (ma anche il padre o il
caregiver) si impegna tramite comunicazioni intuitive non consapevoli, fornendo una strutturazione della
mente del bambino il quale, a sua volta, diviene consapevole di essere in grado, egli stesso, di intervenire
nei proto-dialoghi con l’adulto che con il tempo, il corpo e le espressioni gestuali occupano un ruolo
crescente nei loro rapporti. È un processo regolato reciprocamente durante il quale il bambino impara a
mandare messaggi sociali specifici ai quali l’adulto deve rispondere.
In tal modo si crea il legame di attaccamento che avviene precocemente tra il bambino e la madre. Grazie a
questo legame il bambino può fare riferimento ad una sorta di base sicura per esplorare l’ambiente e un
rifugio che funga da punto di ritorno. Da questo punto riceverà indicazioni per muoversi nel mondo sociale
e tanto più il legame è forte e sicuro maggiore sarà la possibilità di autonomia.
Ogni conoscenza, dunque, si origina da esperienze primitive di carattere emotivo; pertanto la relazione
madre-bambino è la base del primo rapporto di comunicazione col mondo.
Nell’infanzia succedono al bambino molte cose buone e cattive che sfuggono al suo controllo per il fatto
che nella prima infanzia la capacità di far rientrare queste nel proprio mondo psichico e, quindi, nella sua
onnipotenza, è ancora in via di formazione. Winnicott sostiene che in questo periodo il sostegno dato all’Io
prematuro dalla madre e dalla sua assistenza, permette al piccolo di vivere e svilupparsi anche se non è
ancora in grado d’essere responsabile di ciò che di buono o cattivo c’è nell’ambiente.
Le cure materne date all’infante sono, per l’autore, fondamentali perché senza queste non può esserci
infante. Di conseguenza la madre avrà la funzione di curare il bambino mediante l’empatia materna
piuttosto che attraverso la comprensione di ciò che è o dovrebbe, essere appreso verbalmente. È il periodo
dello sviluppo dell’Io il cui tratto principale è l’integrazione. Le cure materne si rivelano, allora,
indispensabili anche per evitare che si sviluppi un Io malato, minimo o nel quale l’Id resta incompleto o
quasi esterno all’Io, fino ad arrivare a forme di difesa psicotiche (D. Winnicott, 1970).
Egli parla, così, di madre sufficientemente buona la quale si preoccupa non solo di fornire cibo ma anche di
soddisfare i bisogni di relazione. È il genitore quasi perfetto di cui parla Bettelheim, il genitore che
commette errori perché non è infallibile ed è in grado di imparare dagli errori, riflettere e riparare, sapendo
che il suo lavoro è destinato a molteplici frustrazioni.
Per Winnicott, infatti, l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che
bisogna ripartire quando si incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che
serve per ri-programmare altre scelte.
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L’ipersensibilità materna primaria, di cui riferisce Winnicott, è quella sorta di preoccupazione sana della
madre che nutre lo sviluppo della mente del suo bambino.
La good enough mother, come l’autore la definisce, è quella madre che sa concedersi di regredire, di
diventare piccola, piccola come il suo bambino, per meglio potersi sintonizzare su di lui, sul suo mondo
interno e sui suoi bisogni.
È proprio tale sensibilità materna che andrebbe, secondo molti autori, a nutrire la mente dei bambini.
Appare allora evidente, in tale contesto, che lo sviluppo di una mente che pensa, di una mente che è,
perciò, capace di cogliere e sviluppare un apprendimento di tipo cognitivo, ha inevitabilmente bisogno di
una mente emozionale capace di sentire le esperienze della vita intorno a sé e di godere del piacere di un
ambiente a lei esterno.
Nel bambino in età precoce, ma non solo, lo sviluppo di una mente emozionale è fondamentale per lo
sviluppo di una mente capace di pensare. Da ciò si evince che molte forme di ritardo cognitivo o di difficoltà
di apprendimento presenti nei bambini, potrebbero essere “curate” meglio se fosse presente -o di
sviluppare qualora non fosse presente- la capacità materna di prendersi cura dei bisogni emozionali dei
figli.
Una madre in grado di godere delle gioie dell’allattamento, di comunicare con amore al suo bambino
mentre si prende cura di lui, che lo guarda in modo particolare, è una madre che sta creando le basi
affinché avvenga lo sviluppo della “mente emozionale” che garantisce lo sviluppo di una “mente cognitiva”.
Winnicott, al pari di Bion, afferma che una madre sufficientemente buona permette al bambino di
esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo ella
restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.
Appare evidente, allora, che un bambino che ha avuto un attaccamento sicuro e che nutre fiducia nella
disponibilità e nell’appoggio dell’adulto, esprime i propri sentimenti, positivi e negativi. Sarà, altresì, un
bambino che saprà separarsi per un tempo sempre più lungo al fine di esplorare l’ambiente, accrescendo in
tal modo le sue conoscenze e le sue sicurezze in una realtà oggettiva condivisa senza esserne traumatizzato
ma permettendo l’espressione della sua originalità e della sua passione.
BIBLIOGRAFIA:
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Bion W., Apprendere dall’esperienza, A. Armando, 1972
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Bowlby J., Attaccamento e perdita, vol. 3°: La perdita della madre, Boringhieri, Torino, 1983
Emde R.N., Sameroff A.J., Relationship disturbances in early childhood, Basic Book, New York, 1989
Fonagy P., Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento, Cortina, 2002
Fonagy P., Psicopatologia evolutiva, Cortina, 2005
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Kohut H., La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1982
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Winnicott D. W., La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, A. Armando, Roma, 1968
Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, A. Armando, Roma, 1970
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Vincolo madre-figlio/a: l'amore che rende liberi
Purtroppo capita spesso che la madre non riesca a separarsi mai realmente dal figlio/a. Questo impedisce la
formazione della personalità del bambino/a, che diventerà una sorte di satellite della figura materna. Un
rapporto sano infatti è di fatto liberatorio. L'amore vero se da un lato fornisce radici salde, dall'altro deve
dare la possibilità di spiccare il volo, di essere liberi, altrimenti non è amore, è costrizione.
Conseguenze di una rapporto tossico madre-figlio/a: la madre simbiotica
Il bambino che cresce con una madre simbiotica diventerà un adulto privo di autonomia in tutti i sensi,
dalle cose più futili a quelle più serie.
Si potrebbe incorrere in:
• Scarsa autostima;
• Problemi relazionali e sessuali;
• Ansia;
• Frustrazione;
• Difficoltà nel prendere decisioni.
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Questue due figure sono due archetipi che ricorrono con frequenza nell’inconscio collettivo dei popoli, e le
ritroviamo nei miti e nelle fiabe sottoforma di strega, mostro, drago, la donna-vampiro, l’arpia ecc. Ma,
oltre a risiedere nell’inconscio collettivo, questa madre risiede anche nell’inconscio personale di tutti quei
figli maschi dai quali essa non si è mai realmente voluta separare, fagocitandoli. Questa madre, infatti, non
è la buona madre che dona libertà al figlio, essa prende da esso, succhia il sangue, ne ha bisogno in modo
quasi ossessivo e viscerale: e così facendo fagocita il nascente sé del bambino.
L’amore vero, difatti, è una relazione liberante: proprio per questo oggi assistiamo a tanti amori malati,
perché l’amore, quello vero, è una relazione che dona radici ma anche ali, è liberante, dona respiro al sé. Gli
amori di queste madri, così come i falsi amori di tante coppie di oggi, sono invece amori castranti, bloccanti:
imprigionano dentro uno spazio angusto, costringono la persona “amata” a vedere solo quell’orizzonte che
l’altro è disposto a dare, ma capiamo bene qui che questo è un donare falso, perché in realtà si tratta di un
prendere: chi “dona” una visione parziale del mondo all’altro, si serve di lui per confermare sé stesso
egoisticamente e narcisisticamente.
Chi ama realmente invece mostra il mondo in tutta la sua ampiezza, anche a costo di perdere la persona
amata, il figlio amato, che magari sceglie un altro orizzonte per sé stesso, invece che quello scelto da altri
per lui. Mi viene a mente a tal proposito lo scempio di tanti figli che inseguono il sogno del genitore per la
sua vita, piuttosto che il loro sogno personale.
È così inevitabilmente aperta a queste menti la via della nevrosi, o prima o dopo, quando la vita mette di
fronte a inevitabili crisi. Vediamo quindi come la relazione con la madre sia il corrispettivo delle altre
relazioni affettive che saranno vissute in futuro: vivere bene la prima e fondamentale relazione sarà quindi
basilare per far si che un figlio possa vivere realmente bene la sua relazione di coppia futura.
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integrazione del sé non è avvenuta, mancano delle parti, non si è liberi di essere, perché si è imprigionati
nella rete della madre invischiante.
Di fatto essa ha ristretto gli orizzonti vitali del figlio, il quale non sarà mai veramente adulto in quanto
ricerca ancora quell’appagamento materno “sano” che non ha mai avuto, quell’amore liberante che non ha
mai sperimentato. Vediamo spesso degli eterni bambini in questi uomini non cresciuti, che hanno paura di
assumersi responsabilità adulte, che rifuggono da una relazione seria perché ancora sono bambini
disorientati alla ricerca dell’abbraccio liberante della madre. Perché i troppi baci della madre simbiotica non
donano libertà, la tolgono. Essi identificheranno l’amore, a livello conscio, con quello che la loro madre gli
ha donato: se gli ha donato una prigione vedranno nell’amore una prigione da cui fuggire, vedranno nella
donna quella stessa madre-vampira, madre-carceriera, che ti butta dentro una gabbia e butta via la chiave.
Nessuna relazione futura sarà per loro veramente liberante se non si esporranno al rischio di soffrire,
riaprendo così la vecchia ferita di quell’amore non ricevuto.
La ferita va richiusa, ma visto che indietro nel tempo è impossibile tornare, è necessario esporsi nel
presente al rischio della delusione narcisistica: se questo non succede rimarrà divorato dalla madre e
perennemente un figlio la cui capacità di rapporto è fissata all’incubo della dipendenza infantile. Quando
supera le passate ferite del rapporto con una madre simbiotica e invadente, l'uomo è libero di sviluppare il
lato femminile della sua natura, che Jung ha definito Anima.
Essa mette l'uomo in contatto con i suoi lati più profondi. Solo così l'uomo potrà stabilire un rapporto
maturo con una donna: fintantoché ciò non avverrà si avrà o una fuga dal mondo delle responsabilità
adulte, ovvero un rifugiarsi nel mondo dei balocchi e della spensieratezza adolescenziale anche ad età in cui
ciò è oramai fuori luogo, o, addirittura, nei casi più gravi, una totale incapacità di avere rapporti sani con le
donne, vissute o come autentiche castratrici (come lo è stata la propria madre), o come esseri pericolosi
sempre pronti a fare un tiro mancino, quindi da usare solo in senso narcisistico, di appagamento sessuale e
del proprio ego. E' proprio così che alcuni uomini si sottraggono alla loro madre-drago (madre divorante): si
costruiscono una specie di regno solo maschile, solo mentale, razionale, difeso e sicuro, dove le madri non
possono seguirli.
E rifiutano il lato femminile, intuitivo, romantico e un po' irrazionale, per la paura di essere sopraffatti dalla
madre-drago...un drago che preferiranno continuare a combattere magari nei loro giochi, piuttosto che
affrontare davvero il drago crescendo e reintegrando il lato femminile nel loro sé. Del resto, come il mito di
Edipo ci dice, non è affatto sufficiente un atteggiamento intellettuale, tipicamente maschile, per
sconfiggere il potere divorante dell’archetipo della madre castrante.
La lotta deve essere condotta attraverso la vita, l’integrazione delle parti, maschile e femminile, razionalità
e intuizione, sentimento e ragione. L’uomo che non ha sviluppato la sua parte femminile infatti, è
generalmente narcisistico: è innamorato della sua idea di amore, delle sue fantasie, del suo eros, della sua
capacità di dare piacere erotico, ma non sa amare nel senso adulto del termine, che invece implica la
capacità di esporsi alla vulnerabilità del rischio e della ferita narcisistica.
L’amore non è quello distorto ricevuto dalla relazione con la madre, ma deve divenire una relazione che
dona radici e ali, dove non esistono ristretti orizzonti, non esistono gabbie, bensì un donare una visione
autentica del mondo pur correndo il rischio di perdere la persona amata: nessuna madre, del resto, che non
sappia concedersi il rischio di perdere il figlio, potrà mai affermare di averlo amato davvero.
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Quindi, missione principale del genitore è quello di non creare e sviluppare dipendenze affettive.
Prendiamo ad esempio una coppia che decide di diventare tale convivendo oppure sposandosi. Entrambi
vedono nell’altro un rifugio ove ripararsi, ricaricarsi, consolarsi etc. Quando tutto ciò non funziona, tensioni
e conflitti entrano nella loro dinamica. Con l’arrivo dei figli la situazione si complica perché il peso di questa
nuova situazione grava quasi sempre sulla donna e il padre, anche con le migliori intenzioni, si coinvolge
meno generando, fortunatamente non sempre una minor fiducia sulla complicità di coppia e di
conseguenza sulla loro stabilità.
Anche se si diventa genitori dal momento della nascita, chissà perché l’uomo pensa che la donna sia più
esperta (e delega volentieri) e la donna pensa che lei è la figura di attaccamento primario. Se il padre
assume un ruolo attivo, può essere visto come una minaccia dalla madre; al contrario invece come un
menefreghista, etc. Insomma le dinamiche possono essere infinite e non è il caso di elencarle tutte.
Come risolvere questo aspetto importantissimo e spesso trascurato?
E’ fondamentale essere soddisfatti di se e della propria vita, chiarirsi da subito, i proprio ruoli e le proprie
responsabilità, invece di ignorarli e lasciare tutto alla singola buona volontà; immancabilmente tendiamo a
dare ai nostri figli ciò che non abbiamo avuto dai nostri genitori – immancabilmente potremmo fare lo
stesso errore: non dare ciò di cui hanno realmente bisogno. Cerchiamo di fare un salto ‘quantico’ nella
relazione che abbiamo avuto con i nostri genitori, cerchiamo di capire cosa avrebbero dovuto fare, quando
e perché non siamo stati compresi, etc. potrebbe essere un buon sistema per …. Fare meno errori.
Il lavoro è indispensabile per mille cose che tralascio ma cerchiamo di trovare un punto di equilibrio. Se
abbiamo deciso che la nostra vita si completa con la famiglia, dedichiamole tutto il tempo e la cura dei
dettagli che impieghiamo altrove, ad esempio nel lavoro. Cerchiamo di essere sempre in sintonia con il
nostro partner in merito alle cose da fare o da non fare per la sua educazione e per i suoi bisogni.
Il rapporto di coppia deve funzionare, è la ‘conditio-sine-qua-non’ affinchè vada tutto il resto. Curiamolo,
sempre e comunque. Evitiamo di far accumulare tensioni sperando che si risolvano da sole. Se vediamo il
nostro partner rabbuiato, chiediamo e non accontentiamoci della classica risposta:’no, tutto bene
tranquillo’. Se ci accontentiamo, pensando che veramente va tutto bene, quando il nostro intuito ci
suggerisce altro, insistiamo. Parliamone fino allo sfinimento, fino alla risoluzione reale. Se tutto fila liscio,
anche la cura della prole fila liscia.
Tutto questo non risolve ma aiuta a fare meno errori.
Proviamo a vedere le cose da un’altra prospettiva, non la nostra, non quella del vostro partner ma da quello
di vostro figlio.
Proviamo quindi a metterci dal suo punto di vista, capire chi è, cosa desidera, cosa fa e di che tipo di
rinforzo può aver bisogno; mettendovi nei suoi panni, come apparite? Troppo severi oppure troppo
permissivi? Non cercate di raggiungere tramite loro i vostri obbiettivi, ma fate tutto solo ed esclusivamente
nel loro interesse anche se potrebbero esserci cose che ritenete inutili. Come ultima cosa mi sembra sia
opportuno mettere in evidenza quanto importante è ascoltare, comprendere, discutere se serve ma non
solo con la testa … anche con l’anima.
Problemi tipici
Una delle cause più frequenti dei litigi va attribuita ad una dipendenza, spesso reciproca. Questo, in
ossequio al complesso edipico si verifica tra il bambino e il genitore dell’altro sesso. Se è vero che un
genitore può pensare con il partner del proprio figlio/figlia sia indegno, la stessa cosa accade nei figli
attaccati in modo patologico ad uno dei genitori. Va ricordato inoltre il problema dei conflitti tra madre e
figle.
Se poi i genitori si separano oppure la loro relazione è fragile, l’attaccamento verso i figli diviene più
esclusivo.
Ecco che quindi potremmo avere genitori che esigono un amore esclusivo (ottenendo spesso il contrario).
Entrano in crisi quando il figlio se ne va da casa, sono gelosi quando si laureano (contrariamente a loro che
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non hanno raggiunto questo traguardo) o fanno frequenti viaggi all’estero. Tutti i sentimenti di gelosia e di
richiesta di esclusività ottengono il risultato contrario, l’allontanamento del figlio.
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Indovina quanto bene ti voglio - Letture per i genitori
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colpa e godersi il bello
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Tutte le cose da Il
Greenberg Martin Il mestiere di papà imparare Milano Castello
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Gliori Debi Ti voglio bene anche se… Carminati C. Milano Mondadori 2014
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McGhee Alison Un giorno Reynolds P.H. Milano Salani 2014
Panzieri Lucia Una mamma albero Cerretti C. Roma Edizioni Lapis 2008
Tullet Hervé Come papà ha incontrato la mamma Blanchaert J. Milano Salani 2004
Waber Bernard Chiedimi cosa mi piace Lee S. Milano Terre di mezzo 2016
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