Sei sulla pagina 1di 32

Rivista di Studi Politici - S.

Pio V 13

FOCUS

FRANCESCO ANGHELONE

Il risveglio del mondo arabo

Il Nord Africa che cambia


Mohamed Bouazizi, il giovane tunisino che il 17 dicembre
2010 si è dato fuoco nella cittadina di Sidi Bouzid, non poteva
certamente immaginare che il suo gesto avrebbe scosso in modo
così violento il proprio paese prima e l’intera regione poi, dando
inizio a un’ondata di proteste di cui al momento è difficile preve-
dere la portata.
Giovane laureato, Bouazizi si è dato fuoco davanti alla prefettura
della propria città per protestare contro le autorità che avevano con-
fiscato i prodotti che vendeva come ambulante. Il suo gesto è stato
seguito da una serie di proteste sempre più accese che sono cresciute
a seguito della dura repressione messa in atto dalla polizia tunisina.
Il 28 dicembre gli avvocati tunisini sono scesi in piazza in segno di
solidarietà, ma ancora una volta la polizia è intervenuta ottenendo
così l’effetto di spingere l’intera categoria a proclamare lo sciopero
generale il 30 dicembre successivo1.
Quello di Bouazizi non era dunque un gesto isolato determinato
dalle dure condizioni di vita di un giovane laureato, frustrato dalla
difficoltà di trovare un lavoro adeguato alle proprie ambizioni e alla
propria preparazione. Era qualcosa di molto più forte, la punta del-
l’iceberg di un sentimento che da tempo evidentemente albergava
1
C. Ayad e V. de Filippis, Tunisie, Algérie: la jeunesse se mutine, «Libération»,
8 gennaio 2001. L’articolo è consultabile all’indirizzo http://www.liberation.
fr/monde/01012312431-tunisie-algerie-la-jeunesse-se-mutine.
14 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

nella società tunisina e che il disperato gesto di Bouazizi ha fatto


esplodere in modo dirompente. Le proteste, infatti, hanno sin dal-
l’inizio visto coinvolti diversi settori della società: avvocati, studen-
ti liceali, studenti universitari e lavoratori.
L’intera società tunisina ha mostrato la propria esasperazione per
le forti diseguaglianze sociali, per la diminuzione del potere di ac-
quisto, per la repressione del dissenso e per una disoccupazione che
i dati ufficiali danno al 14%, ma che in realtà in alcune regioni tocca
punte di ben oltre il 30%. Il paese, ritenuto uno dei più tranquilli e
stabili del Maghreb, ha avuto una crescita economica squilibrata,
visto che il governo guidato dal presidente Zine El-Abidine Ben Alì2
ha destinato la maggior parte degli investimenti alle zone della costa
interessate dal turismo.
La crescita dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità e
l’alta disoccupazione sono stati certamente fattori importanti nel-
l’avvio delle proteste contro il regime di Ben Alì. A manifestare
sono stati soprattutto giovani laureati disoccupati, ma sin dall’inizio
il fenomeno si è esteso a molti altri strati della popolazione. Nel pae-
se il tasso di disoccupazione dei giovani laureati si aggira attorno al
35% (a dispetto di stime ufficiali che lo danno al 23,4%, una cifra
comunque alta). Ciò è accaduto anche perché la Tunisia di Ben Alì
era il paese dell’area dove la libertà di espressione era repressa con
maggiore durezza.
L’ampia partecipazione popolare ha scosso dalle fondamenta il
regime del leader tunisino che si basava sostanzialmente su tre fat-
tori: il sostegno della classe media; il sostegno dei dirigenti e dei
militanti del Raggruppamento costituzionale democratico (Rcd)
che controllava tutti gli ingranaggi e il diffuso sistema di corru-
zione del paese; la polizia e la guardia nazionale, istituzioni di cui
Ben Alì, ex ministro dell’Interno, si fidava molto più dell’esercito,
2
Ben Alì aveva preso il potere nel 1987, durante l’esplosione delle cosiddette
rivolte del pane, deponendo con un colpo di stao il presidente Habib Bourguiba.
Fin dalla presa del potere Ben Alì ha imposto l’omertà e la legge del silenzio.
Il controllo sui mezzi di informazione è stato totale. Vd. T. Ben Brik, La garde
blanche d’El Jazira, «Libération», 14 gennaio 2011, http://www.liberation.
fr/monde/01012314185-la-garde-blanche-d-el-jazira.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 15

che infatti è stato fortemente indebolito nel corso degli anni del
suo governo3.
Nei 23 anni di governo Ben Alì ha imposto un controllo totale
sui mezzi di informazione, dividendo di fatto il popolo tunisino in
compartimenti stagni così da impedire la nascita di qualsiasi forma
di opposizione organizzata. A ciò si deve aggiungere la creazione
di una macchina propagandistica molto efficiente. Ciò gli aveva
permesso di superare un’altra fase critica nel 2000, quando erano
scoppiate due rivolte, quella contro l’aumento dei prezzi del pane a
febbraio e quella degli studenti ad aprile.
Le cose questa volta sono però andate diversamente e il tentativo
di reprimere con la forza le proteste iniziate nel dicembre 2010 è fal-
lito. Ben Alì il 15 gennaio 2011 è stato costretto a fuggire dal paese
e a trovare rifugio in Arabia Saudita.
La fuga di Ben Alì può certamente essere considerata un evento
di portata storica e ciò per diverse ragioni: la prima è che si tratta
del primo leader arabo cacciato da una rivolta popolare negli ultimi
decenni; la seconda è che, ad esclusione di alcuni paesi del Golfo,
gran parte del mondo arabo ha condiviso le proteste tunisine; la ter-
za è relativa al fatto che la protesta ha mostrato la debolezza della
struttura su cui si reggeva il potere di Ben Alì4.
Intanto, mentre in Tunisia Ben Alì veniva cacciato, in Algeria
scoppiavano proteste per il brusco aumento dei prezzi dei generi
alimentari ad Algeri, ad Orano e ad Annaba. La storia recente del-
l’Algeria è in parte diversa da quella tunisina. Il paese ha, infatti,
attraversato un processo di democratizzazione che tuttavia è stato
messo in crisi nel 1991 a seguito della vittoria, al primo turno delle
elezioni legislative, del Fronte islamico di salvezza (Fis), che ha

3
Cfr. S. Naïr, La lección de Túnez, «El País», 18 gennaio 2011. L’articolo può essere
consultato al seguente indirizzo: http://www.elpais.com/articulo/opinion/lec-
cion/Tunez/elpepiopi/20110118elpepiopi_10/Tes.
4
R. Khouri, Effetto Tunisia nel mondo arabo, «Internazionale», 21/27 gennaio
2011, n. 881 Anno 18, p. 30. Secondo l’autore gli eventi tunisini dimostrano
che i regimi dittatoriali, tenuti in piedi dalle forze armate e dai servizi segreti
si sgretolano non appena i cittadini dimostrano di non aver paura di morire
per la loro libertà.
16 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

portato all’annullamento del secondo turno e all’inizio di una duris-


sima e sanguinosissima guerra civile5. L’attuale situazione algerina
ha tuttavia diversi punti di contatto con quella tunisina, innanzitutto
l’alta disoccupazione tra i giovani laureati, il 20% dei quali non ha
lavoro, e forti diseguaglianze sociali.
Nel corso degli ultimi dieci anni il Pil algerino è cresciuto di ben
tre volte, ma solo grazie all’esportazione di idrocarburi. La crescita
è dunque legata esclusivamente alle risorse naturali di cui il paese
è in possesso. I guadagni che tale ricchezza porta con sé non sono
tuttavia stati utilizzati per sviluppare altri settori economici né per
ridurre il grande divario sociale esistente. Nonostante l’Algeria ab-
bia ben 150 miliardi di dollari di riserve valutarie e un ricco fondo
creato per investire nel futuro delle giovani generazioni, tali risorse
negli ultimi anni sono state utilizzate in prevalenza per coprire i bu-
chi del bilancio pubblico. Anche i soldi che sono stati spesi in pro-
grammi di sviluppo, circa 200 miliardi di dollari negli ultimi dieci
anni, non hanno portato a un miglioramento delle condizioni di vita
né all’aumento del potere di acquisto dei cittadini algerini. Il 70% di
questi fondi è stato destinato a costruire infrastrutture e alloggi, ma
una gran parte è stata usata per ridurre il debito estero che in effetti,
negli ultimi dieci anni, è calato di oltre il 40%. Ciò ha senza dubbio
portato a un miglioramento dell’immagine internazionale del paese,
ma ha fatto sì che gran parte della popolazione continuasse a vivere
in condizioni difficili6.

5
Il Fis, che aveva già vinto in 853 comuni su 1.541 e in 32 province su 48 nelle
elezioni amministrative, al primo turno delle legislative ottenne 188 seggi su
231. Il secondo turno venne dunque sospeso, con un vero e proprio colpo di
stato appoggiato dall’esercito, i principali leader del Fis arrestati e il partito
messo fuori legge. Ciò radicalizzò le posizioni del Fis e portò alla nascita dei
Gruppi islamici armati (Gia). Il paese precipitò in una lunga guerra civile che
ha fatto centinaia di migliaia di morti.
6
S. Berkouk, Dove finiscono i soldi del petrolio algerino, «Internazionale»,
14/20 gennaio 2011, n. 880, Anno 18, tradotto da «El Watan», p. 16. L’autore
ricorda che il salario minimo in Algeria è di 15mila dinari algerini (152 euro)
e la disoccupazione è al 60% tra i giovani con meno di 30 anni. Uno studio del
2010 sul potere di acquisto nel Maghreb ha dimostrato che il salario minimo
in Algeria copre solo il 26% dei bisogni essenziali di una famiglia. Tali dati
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 17

Il potere e la ricchezza restano dunque nelle mani di una ristretta


elite politico-militare, cui si aggiunge il fatto che la libertà di stampa
e di espressione è fortemente repressa, determinando così una forte
compressione degli spazi per la società civile7.
Le proteste algerine, come quelle tunisine, nascono dunque da
una forte insoddisfazione popolare, determinata da un’alta disoccu-
pazione (in particolar modo giovanile) e da marcate diseguaglianze
sociali. Cause molto simili sono alla base delle proteste verificatesi
in Marocco, dove la situazione è però rimasta sotto il controllo delle
autorità come in Algeria8. Anche il Marocco si trova a dover fare i
conti con seri problemi di carattere economico e con una corruzione
sempre più dilagante. Nonostante ciò e nonostante le forti limitazio-
ni alla libertà di stampa le autorità sono riuscite a contenere le prote-
ste grazie al fatto che (come in Giordania) la monarchia può contare
su un forte sostegno popolare. Ciò non ha impedito il verificarsi di
episodi molto cruenti, come il tentativo di sei giovani di darsi fuoco
davanti al Ministero del Lavoro a Rabat9. Il movimento del 20 feb-
braio ha promosso manifestazioni pacifiche che hanno interessato
le principali città del paese, quali Rabat, Casablanca, Tangeri, Te-
touan, Agadir, Marrakech e altre più piccole. I più importanti uomi-
ni d’affari del paese hanno mantenuto un atteggiamento prudente di
fronte alle manifestazioni popolari, tuttavia non sono mancate voci
autorevoli a sostegno dei manifestanti. Il presidente della Banca ali-

rendono chiaro come nel paese sia cresciuto un diffuso sentimento di ingiustizia
di fronte al modo in cui viene ripartita la ricchezza. Ciò è aggravato dal fatto
che negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi di appropriazione indebita di
fondi pubblici, di riciclaggio e di corruzione.
7
Il 21 gennaio i principali movimenti di opposizione algerini hanno dato vita
al Coordinamento nazionale per la democrazia e il cambiamento (Cndc), un
movimento che comprende anche le associazioni per i diritti umani, quelle
femministe, quelle studentesche e i sindacati.
8
In Marocco esiste un movimento istituzionalizzato dei laureati disoccupati.
9
C. Ayad, V. de Filippis, op. cit. Tra i marocchini con meno di 25 anni uno su
cinque è disoccupato. La situazione per le donne è ancora peggiore. Sono sempre
di più i laureati che arrivano a trent’anni senza trovare un lavoro. Molti giovani
fanno lavori che non corrispondono alle loro aspettative e spesso lavorano nei
call center di multinazionali come Vodafone o Etisalat.
18 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

mentare, Karim Tazi, è sceso in piazza con i manifestanti a Rabat,


mentre il principe Hicham Alaoui, cugino del re, ha espresso il suo
appoggio al movimento in un’intervista rilasciata alla tv francese
France 24. A lui si è aggiunto lo storico Hassan Aourid, ex porta-
voce del palazzo, il quale si è espresso a favore di una monarchia
costituzionale.
Gli slogan dei manifestanti, tuttavia, non hanno mai messo in di-
scussione la monarchia, ma si sono limitati a denunciare un sistema
di corruzione sempre più diffuso e le limitazioni alla libertà. Le loro
richieste, in sostanza, sono circoscritte a riforme di carattere econo-
mico e istituzionale10.
Dopo le proteste i capi di stato arabi si sono affrettati ad abbas-
sare i prezzi dei prodotti di prima necessità per evitare altre manife-
stazioni. Ciò però non elimina alla radice lo scontento della popola-
zione e ciò perché le cause strutturali che ne sono alla base possono
essere risolte solo con riforme politiche complessive.
Il problema risiede fondamentalmente nel fatto che i paesi del
Maghreb sono (o sono stati) governati da sistemi autoritari, con
leader che hanno detenuto e detengono il potere da decine di anni.
Ciò è avvenuto anche grazie al fatto che questi leader hanno potuto
contare sull’appoggio di Stati Uniti ed Europa, soprattutto dopo gli
attentati alle torri gemelle dell’11 settembre 2001. A partire da quel
momento l’Occidente ha infatti ritenuto prioritario arginare il feno-
meno del fondamentalismo islamico e non si è posto il problema se
a farlo erano regimi autoritari. Questo atteggiamento è stato eviden-
te al momento delle prime proteste in Tunisia, allorché solo gli Stati
Uniti hanno convocato l’ambasciatore del paese per esprimergli la
propria preoccupazione11 e chiedere che venisse rispettata la libertà
10
L. Lalami, Rocking the Casbah: Morocco’s Day of Dignity, 20 febbraio 2011.
L’articolo può essere consultato all’indirizzo web, www.thenation.com/
blog/158751/rocking-casbah-moroccos-day-dignity.
11
Particolarmente significativo è stato l’atteggiamento del ministro degli Esteri
francese, la signora Michèle Alliot-Marie, la quale ha addirittura offerto la
propria consulenza al regime di Ben Alì per mettere fine alle proteste. La stessa
è stata poi costretta a rassegnare le dimissioni per aver usato un volo messole
a disposizione da un imprenditore vicino al regime mentre era in vacanza in
Tunisia nei giorni delle proteste. Sull’atteggiamento dell’Occidente vd. E.H.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 19

di riunione. Sia l’Unione europea sia i singoli paesi europei sono


invece rimasti in silenzio12.
Concentrati sulla lotta al radicalismo islamico e al terrorismo, i
paesi occidentali hanno appoggiato tutti quei governi che potesse-
ro garantire un sostegno sicuro a tale lotta, non comprendendo che
spesso il fanatismo è il risultato di una forte ingiustizia sociale e
della corruzione.

L’Egitto dopo Mubarak


L’esito delle proteste tunisine, con la cacciata di Ben Alì, ha cer-
tamente costretto i paesi occidentali a una profonda riflessione sulla
loro politica nell’area. Gli eventi, succedutisi con una straordinaria
rapidità, hanno dimostrato l’incapacità di leggere i mutamenti che
stavano avvenendo nelle società nordafricane, mutamenti capaci di
ridisegnare l’assetto politico interno ai singoli stati ma anche quello
dell’intera regione. Il peso di paesi come la Tunisia e il Marocco è
tuttavia relativo sul piano regionale e internazionale. Parzialmente
diversa è la situazione per l’Algeria, dove tuttavia il governo ha di-
mostrato di essere più capace di tenere sotto controllo la situazione.
Quando le proteste si sono però spostate in Egitto la situazio-
ne è cambiata. Il peso specifico del paese è certamente superiore a
quello degli stati vicini e la possibilità di un cambio di governo è
stata sin da subito avvertita con grande apprensione, in primis da-
gli Stati Uniti. L’Egitto, infatti, è da decenni il più fedele alleato di
Washington e di Israele nell’area. È il leader naturale e il paese più
Majdoubi, La revolución tunecina amenaza los otros regímenes del Magreb
y Egipto, «El País», 15 gennaio 2011. L’articolo è consultabile al www.elpais.
com/articulo/internacional/revolucion/tunecina/amenaza/otros/regimenes/Ma-
greb/Egipto/elpepuint/20110115elpepuint_12/Tes
12
L’Europa ha certamente molte responsabilità relativamente alla situazione
maghrebina, visto che, a partire dagli anni Novanta, Bruxelles ha basato i
propri rapporti con i regimi africani sul metodo del do ut des. In cambio di
aiuti economici e di un riconoscimento politico internazionale, i regimi auto-
ritari della regione si impegnavano a contrastare l’immigrazione clandestina
e a reprimere l’Islam radicale.
20 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

popoloso del mondo arabo e dunque un eventuale cambio di guardia


alla guida del paese è stato immediatamente ritenuto preoccupante.
Non a caso il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, nei
primi giorni delle proteste si era affrettata ad affermare che la loro
“[…] valutazione è che il governo egiziano è stabile e sta cercando
il modo di rispondere alle legittime necessità e agli interessi del
popolo egiziano”. Un atteggiamento certamente differente rispetto
a quello tenuto nei primi giorni delle proteste contro Ben Alì. Una
posizione dettata certamente dall’importanza strategica dell’Egitto
e dai pericoli legati a un eventuale cambio di governo per la stabilità
dell’intera area13.
Anche in Egitto, come in Tunisia, le proteste hanno visto coin-
volti ampi strati della popolazione: studenti, giovani disoccupati,
operai, intellettuali e donne. Alla base delle proteste popolari an-
che in questo caso vi sono state ragioni di carattere economico e
sociale. Negli ultimi anni l’economia egiziana è cresciuta, come
dimostra il fatto che, dal 2005, il valore dei titoli quotati alla
borsa del Cairo è salito di ben tre volte. Molti imprenditori han-
no potuto beneficiare di questa crescita, grazie anche all’arrivo
di ingenti capitali stranieri. La crescita economica, tuttavia, non
ha migliorato le condizioni della maggior parte della popolazio-
ne, il 40% della quale vive con meno di due dollari al giorno. Il
tema della diseguaglianza è molto forte nella società egiziana.
L’aliquota fiscale unica fissata al 20% è, secondo molti cittadini
egiziani, la causa dell’inefficienza del sistema sanitario naziona-
le, oltre al fatto che i cittadini debbano pagare circa il 70% delle
loro cure mediche.
Il salario minimo fissato da Mubarak era di 400 sterline egiziane,
ma i sindacati ritengono che una famiglia, per vivere in modo di-
gnitoso, abbia bisogno di almeno 1.200 sterline egiziane (150 euro
circa).
13
Vd. S. Tisdall, «The Guardian», 25 gennaio 2011, www.guardian.co.uk/com-
mentisfree/2011/jan/25/egypt-protests?INTCMP=SRCH, “[…] if Mubarak
were to fall, the consequences would be incalculable – for Israel and the peace
process, for the ascending power of Iran, for US influence across the Middle
East, and for the future rise and spread of militant, anti-western Islam”.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 21

Sono dunque ragioni molto simili quelle alla base della protesta
che il 25 gennaio 2011 ha attraversato le strade del Cairo14. Venti-
cinque mila manifestanti sono scesi in piazza per chiedere riforme
politiche e sociali, sul modello della “rivoluzione del gelsomino”
avvenuta in Tunisia, ma nonostante si trattasse di una protesta pa-
cifica, la dura reazione della polizia ha portato a scontri tra manife-
stanti e forze dell’ordine che si sono conclusi con ben quattro morti,
tra cui un poliziotto. Il tentativo di reprimere la protesta con la forza
non ha fatto altro che esasperare ancora di più la popolazione, la
quale nei giorni successivi ha continuato a scendere in piazza e a
chiedere riforme. Mubarak è intervenuto solo il 29 gennaio, quando
nel corso di un discorso alla nazione ha affermato che, pur compren-
dendo le preoccupazioni del popolo, non avrebbe tollerato il caos
nelle strade. Ha proseguito il suo intervento promettendo riforme
democratiche e lavoro e ha poi licenziato tutti i ministri del suo go-
verno. Le vaghe promesse e il tentativo di scaricare le responsabilità
politiche sul suo governo non hanno però dato i frutti sperati. Le
manifestazioni si sono anzi intensificate e la piazza, sfidando anche
il coprifuoco imposto dal regime, ha chiesto con forza l’abbandono
della scena politica da parte di Mubarak.
Mubarak ha allora nominato Omar Suleiman, il potente capo dei
servizi segreti, vicepresidente. In questo modo il leader egiziano ha
inteso tranquillizzare la piazza (aprendo la strada all’ipotesi che a
succedergli non fosse il figlio Gamal) e allo stesso tempo i paesi
alleati, soprattutto Stati Uniti e Israele.
Il neo vicepresidente ha immediatamente cercato di aprire un
dialogo con le opposizioni, le quali si sono però mostrate unite nel
chiedere le dimissioni di Mubarak dalla carica di presidente. Il pro-
seguire delle proteste e la compatta richiesta di dimissioni del presi-
14
Mubarak non ha compreso immediatamente la portata delle proteste, forse
convinto di poterle reprimere a differenza di quanto aveva fatto Ben Alì. Il
governo egiziano aveva detto di rispettare le scelte del popolo tunisino, ma
la stampa di governo non aveva mancato di sottolineare la differenza della
situazione egiziana rispetto a quella tunisina. Un estremo tentativo di nascon-
dere il fatto che l’onda rivoluzionaria partita da Tunisi potesse coinvolgere e
stravolgere lo stesso Egitto.
22 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

dente venuta dalle opposizioni ha dunque convinto le forze armate,


vere detentrici del potere in Egitto, ad abbandonare definitivamente
Mubarak che l’11 febbraio 2011 ha così rassegnato le proprie di-
missioni.
Diversi fattori hanno contribuito a segnare la fine del leader egi-
ziano. Innanzitutto i manifestanti hanno sfidato il coprifuoco, grazie
anche all’atteggiamento di polizia ed esercito che hanno da subito
chiarito che non avevano intenzione di sparare sulla folla. Il secondo
evento è stata la nomina di Suleiman alla carica di vicepresidente,
un uomo molto stimato e rispettato nelle forze armate. Il terzo even-
to determinante è stato l’annuncio da parte del presidente del Parla-
mento egiziano, Fathi Surour, che sarebbero stati presi in considera-
zione i ricorsi presentati dopo le le elezioni politiche del novembre
2010, nelle quali il Partito nazionale democratico (Pnd) di Mubarak
aveva ottenuto l’81% dei voti. Tali eventi hanno segnato un isola-
mento progressivo del presidente egiziano. Molto importante è stata
anche la presa di posizione dell’associazione dei giudici, la quale ha
espresso la propria solidarietà nei confronti dei manifestanti. Signi-
ficativo è stato poi il fatto che le opposizioni abbiano annunciato la
nascita di una coalizione per il cambiamento, dando mandato a El
Baradei di negoziare la successione a Mubarak15.
Gli Stati Uniti, così come molti governi europei, dapprima incerti
sulla posizione da prendere, sono dunque stati costretti ad allinearsi
alle richieste dei manifestanti e a chiedere a Mubarak di fare un
passo indietro. Come nel caso della Tunisia, forse ancora di più,
l’Occidente è stato dunque incapace di leggere per intero la portata
degli eventi e i suoi governi sono stati spesso costretti a seguire gli
avvenimenti.
La stabilità del paese per il momento è assicurata dalle forze ar-
mate, il cui ruolo è stato determinante nel trovare una soluzione tutto
sommato rapida alla crisi e che da una parte si sono fatte garanti nei
confronti delle opposizioni, promettendo loro libere elezioni entro
il mese di settembre e dall’altra nei confronti dei paesi alleati. Le
15
R. Khouri, Tutto il Medio Oriente guarda agli egiziani, «Internazionale», 4/10
febbraio 2011, n. 883 Anno 18, p. 27.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 23

forze armate egiziane non intendono certo modificare il sistema di


alleanze di cui fa parte l’Egitto e in special modo la natura dei loro
rapporti con gli Stati Uniti, i quali ogni hanno versano nelle casse
egiziane ben 940 milioni di euro in aiuti militari.
Le future elezioni rappresentano certamente un’incognita soprat-
tutto in merito al ruolo che potranno svolgere i Fratelli musulmani.
Pur non essendo stati all’origine della protesta sono quelli che forse
hanno ricavato i maggiori vantaggi da essa. Sono infatti la forza
più organizzata e anche se non rappresentano la maggioranza degli
egiziani è difficile pensare a un loro ruolo defilato dopo le prossime
elezioni, anche perché stanno dimostrando un atteggiamento molto
pragmatico. Hanno infatti dichiarato che non presenteranno un loro
candidato alle presidenziali affermando, da subito, che l’obiettivo
principale era quello di veder legalizzato il proprio movimento.
L’organizzazione è gestita dai discepoli di Sayyid Qutb, impiccato
nel 1966 durante il governo di Nasser, il quale era un sostenitore
della teocrazia integrale. Nell’organizzazione ci sono però anche i
salafiti, che vogliono restaurare la comunità musulmana delle origi-
ni, mentre una terza componente, al momento minoritaria, è quella
dei musulmani democratici che vogliono conciliare la sharia con
la democrazia. Oggi il controllo del movimento è in mano ai con-
servatori anche a causa delle dure repressioni cui è stato sottoposto
durante gli ultimi decenni, le quali hanno favorito l’ala più conser-
vatrice. Un’ampia parte del movimento non ha abbandonato i propri
obiettivi teocratici, tuttavia molti giovani militanti non si riconosco-
no nella ideologia “ufficiale”16.
16
La Fratellanza musulmana è fuorilegge in Egitto da oltre sessanta anni, ma è
stata tuttavia tollerata nel corso di questi decenni. I Fratelli musulmani sono
nati negli anni Trenta come movimento legalista, anticoloniale e non violento.
Il fondatore, Hassan al Banna, in una serie di testi scritti tra il 1930 e il 1945,
esprimeva posizioni anticolonialiste ed era critico verso i governi fascisti di
Italia e Germania. Rifiutava l’uso della violenza in Egitto, ma lo considerava
legittimo in Palestina. Era convinto che il modello più vicino ai principi islamici
fosse quello parlamentare britannico. Il suo scopo era però quello di dare vita a
uno “stato islamico” attraverso un programma graduale di riforme scolastiche
e sociali. Con l’arrivo al potere di Gamal Abdel Nasser, nel 1952, la Fratellanza
subì una violenta repressione e ciò spinse alcuni affiliati, vittime del carcere e
24 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

A svolgere un ruolo di primo piano nei giorni delle proteste è


stato certamente Mohammed El Baradei, ex Capo dell’Agenzia in-
ternazionale per l’energia atomica (Aiea), premio Nobel per la pace
nel 2005, il quale ha avanzato la propria candidatura alla presiden-
za. Molto conosciuto all’estero, non è però un uomo del popolo né
un politico capace di arringare le folle. Dialoga con i Fratelli mu-
sulmani e considera quello degli islamisti un movimento legittimo.
Non è forse il più gradito agli Stati Uniti, visto che in passato non
ha mancato di criticare l’Occidente e la Clinton in particolare per
il supporto a Mubarak. In ogni caso al momento lui e il suo Movi-
mento nazionale per il cambiamento non sembrano poter dare per
scontato un loro successo alle elezioni. L’altra figura di spicco ad
aver annunciato la propria candidatura alle prossime elezioni presi-
denziali è Amr Moussa, Segretario generale della Lega araba ed ex
ministro degli Esteri egiziano. Al momento sembra il candidato più
accreditato, anche perché sembra più in grado di rappresentare i ri-
voluzionari di piazza Tarhir. Dato per favorito dai sondaggi è anche
ben visto a livello internazionale.
Intanto il 19 marzo gli egiziani sono stati chiamati alle urne per
la prima volta nell’era post-Mubarak. Il referendum costituzionale
ha visto prevelare il sì, sostenuto dai Fratelli musulmani e dal Partito
democratico nazionale (il partito dell’ex rais), con il 77,2% dei voti.
Una netta sconfitta per i giovani di piazza Tarhir e per i partiti che li
sostengono, oltre che per El Baradei e Amr Moussa, i quali si erano
schierati per il no. La vittoria del no avrebbe consentito di prolungare
la scadenza di sei mesi prevista per il passaggio del potere nelle mani
di un governo civile attraverso libere elezioni, permettendo così ai
nuovi partiti di potersi organizzare meglio in vista della consultazio-

delle torture, ad assumere posizioni più radicali. Alcuni andarono in esilio in


Arabia Saudita, dove furono influenzati da un’ideologia che si basava sulla lettura
letterale dei testi sacri, altri in Turchia e Indonesia, dove invece coesistevano
diverse religioni accanto a quella musulmana maggioritaria. Altri andarono
in Occidente, entrando in contatto con la tradizione liberl-democratica. Oggi
all’interno della Fratellanza musulmana convivono tutte queste anime. Vd.
T. Ramadan, Who will fill Egypt’s power vacuum?, «New Statesman», 10 febbraio 2011,
www.newstatesman.com/middle-east/2011/02/muslim-brotherhood-egypt-saudi.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 25

ne elettorale. Ovviamente diversa è stata la posizione espressa dal


Partito nazionale democratico e dai Fratelli musulmani i quali posso-
no contare su una rete organizzativa rodata ed efficiente.
Anche se è ancora difficile capire che strada prenderà nel prossi-
mo futuro il paese dei faraoni, una cosa è certa: ciò che è successo
in Egitto era stato previsto da pochi e ha smentito le opinioni degli
esperti. La rivolta è stata ampia, in essa si sono potuti identificare
molti cittadini egiziani. Altrettanto importante è sottolineare che si è
trattato di un appello universale alla libertà e alla giustizia, tanto da
costringere i Fratelli musulmani ad adottare un linguaggio secolare
per le loro rivendicazioni. La rivolta inoltre è stata sostanzialmente
non violenta.
Quali saranno gli effetti profondi della rivolta egiziana potremo
saperlo solo nei prossimi mesi, quando le elezioni riconsegneranno
il potere, oggi nelle mani del Consiglio militare supremo, nelle mani
di un governo civile.

Le proteste raggiungono il Golfo


La Tunisia e l’Egitto hanno visto i manifestanti portare a termine
con successo la propria battaglia riuscendo, in entrambi i casi, a cac-
ciare i leader che da decenni li governavano. L’ondata di proteste,
tuttavia, non si è limitata a investire il Nord Africa, ma ha coinvolto
molti altri paesi arabi, le cui popolazioni si sono sollevate, con mo-
dalità ed esiti diversi e ancora incerti, contro i rispettivi governi.
Il 27 gennaio 2011 migliaia di persone sono scese in piazza nella
capitale yemenita, Sana’a, e in altre città del paese per chiedere con
forza un cambio di governo. Il presidente Alì Abdallah Saleh per
anni è stato considerato da Washington, assieme a Mubarak, uno
dei più fedeli alleati nella lotta contro Al Qaeda17. Il paese vive però
17
Il presidente Saleh governa il nord dello Yemen dal 1978. Nel 1990 lo Yemen
del nord e quello del sud si riunirono in un unico Stato, l’attuale Yemen, e Saleh
ne divenne il presidente. Alcuni ufficiali e politici di ispirazione marxista pro-
clamarono la secessione dello Yemen meridionale nel 1994, il quale assunse il
nome di Repubblica democratica dello Yemen, con capitale Aden. Lo stato non
26 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

da anni gravi difficoltà. Il nord è attraversato da una rivolta sociale


profonda mentre al sud si sono diffusi movimenti che chiedono la
secessione. Intere aree del paese, nonostante le misure del governo,
sono inoltre state infiltrate da Al Qaeda18. Washington è preoccupata
dal fatto che il paese possa sprofondare in una situazione di grave
instabilità e dunque sin dall’inizio ha cercato di fare pressioni sul
governo per aprire un dialogo con le opposizioni. Ciò è stato riba-
dito dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton, nel corso di
una sua visita a Sana’a a gennaio. Il presidente Saleh ha raccolto in
parte l’invito di Washington, annunciando in un discorso al parla-
mento tenuto il 1° febbraio 2011 la sua intenzione di non ricandi-
darsi nel 2013.
Ciò non è però bastato a riportare la calma. D’altra parte il presi-
dente Saleh, sin dall’inizio delle proteste, ha alternato atteggiamenti
concilianti a repressioni durissime. Il 18 marzo, mentre migliaia di
persone si radunavano nella capitale San’a per protestare contro il

venne tuttavia riconosciuto a livello internazionale e, dopo poche settimane,


le forze governative repressero il tentativo di secessione.
18
La situazione è resa particolarmente grave dalla grande diffusione di armi
nel paese. Nello Yemen possedere armi è considerato un simbolo di virilità.
Molte tribù hanno addirittura scorte di granate a razzo, mortai e in alcuni
casi anche carri armati. Da alcuni dispacci diffusi da Wikileaks è emersa con
chiarezza la preoccupazione degli Stati Uniti per il proliferare delle armi in
un paese dove è molto attiva Al Qaeda. Dal 2004 il governo di Washington
ha collaborato con quello yemenita per ricomprare i missili terra-aria sparsi
sul territorio. Il vicepremier Rashad al Alimi, a conferma della gravità della
situazione, ritiene le armi una delle quattro minacce alla sicurezza del paese;
le altre sono il terrorismo, la difesa dei confini e la scarsa fedeltà allo Stato.
Nelle campagne è ancora molto diffusa l’usanza di farsi giustizia da sé. Secondo
l’agenzia di stampa ufficiale dello Yemen, «Saba», dall’agosto 2008 il ministero
dell’Interno ha sequestrato circa 600 mila armi. La situazione è dunque molto
complessa, anche perché il presidente Ali Abdallah Saleh ha sempre avuto
interesse a conservare buoni rapporti con gli sceicchi tribali, ovvero con i
principali detentori delle armi. A tale proposito si veda l’interessante articolo
di Laura Kasinof, la quale ricorda che, con sessanta armi ogni cento abitanti,
lo Yemen è secondo solo agli Stati Uniti per possesso di armi pro capite. L.
Kasinof, Yemen, awash in guns, wary about unrest, «The Christian Science
Monitor», www.csmonitor.com/World/Middle-East/2011/0218/Yemen-awash-
in-guns-wary-about-unrest.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 27

governo, le forze di sicurezza e i sostenitori del presidente hanno


aperto il fuoco contro i manifestanti. Almeno cinquanta persone
sono rimaste uccise negli scontri e oltre 100 ferite. Il presidente ha
immediatamente dichiarato lo stato di emergenza, negando che le
forze di sicurezza avessero aperto il fuoco.
Saleh, nonostante la dure repressioni e le promesse di non rican-
didarsi, sembra ormai incapace di mantenere sotto controllo la si-
tuazione, come dimostra il fatto che il 21 marzo 5 comandanti delle
forze armate e uno dei più importanti capi tribali si sono schierati
al fianco dei manifestanti, chiedendo le sue immediate dimissioni.
Molti funzionari yemeniti hanno abbandonato i propri incarichi,
compreso il sindaco di Aden, il governatore di una provincia e di-
versi ambasciatori. Le opposizioni hanno presentato nel frattempo
un piano che prevede l’uscita di scena del presidente alla fine del-
l’anno, ma è stato respinto con forza dai manifestanti, i quali chie-
dono dimissioni immediate.
La crisi è particolarmente preoccupante per gli Stati Uniti, che
negli scorsi cinque anni hanno fornito allo Yemen aiuti militari per
circa 250 milioni di dollari; pur chiedendo a Saleh di evitare le vio-
lenze, Washington teme un vuoto di potere nel paese il quale potreb-
be lasciare spazio a una maggiore presenza di Al Qaeda.
Altrettanto preoccupante per Washington è la situazione venutasi
a creare nel Bahrein. Nel piccolo stato il potere è nelle mani del-
l’antica dinastia degli Ali Khalifa, imparentata con la casa regnante
saudita. Si tratta di una dinastia sunnita che regna tuttavia in un
paese a maggioranza sciita (gli sciiti costituiscono il 70% della po-
polazione) la quale, oltre a protestare in diverse occasioni nei con-
fronti del governo, è seguita con attenzione da Teheran. Lo sceicco
Hamad bin Issa al Khalifa, al potere dal 1999, durante il proprio
regno ha trasformato l’emirato in una monarchia dotata di un con-
siglio consultivo, ha concesso riforme e permesso in parte la libertà
di espressione. Ha anche prestato maggiore attenzione alle esigenze
degli sciiti, in media più poveri dei sunniti19. Si è trattato tuttavia
19
J-P. Perrin, Bahreïn, une grenade dégoupillée au cœur du Golfe, «Libéra-
tion», 19 gennaio 2001. L’articolo è consultabile all’indirizzo www.liberation.
28 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

di riforme di facciata che non hanno certamente cambiato la situa-


zione discriminatoria in cui vivono gli sciiti. Le proteste in Bahrein
pongono un problema di stabilità nell’intera area del Golfo. Gli altri
paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc)20 sono entrati
immediatamente in apprensione a seguito delle proteste esplose nel
paese. Per l’Arabia Saudita è inconcepibile il crollo della dinastia
degli Ali Khalifa, considerando il paese la naturale estensione della
regione di Hasa, a maggioranza sciita, dove si concentra gran parte
della ricchezza petrolifera del regno.
In ogni caso l’articolo 1 della Carta del Consiglio di cooperazio-
ne del Golfo permette agli alleati del Bahrein di intervenire militar-
mente qualora le sue forze armate non fossero in grado di affrontare
la rivolta, cosa che è puntualmente avvenuta. Alcune migliaia di sol-
dati sauditi e degli Emirati Arabi Uniti sono arrivati nel regno-arci-
pelago per contribuire a mantenere l’ordine pubblico su richiesta del
governo di Manama. Ufficialmente lo scopo dell’intervento è quel-
lo di mantenere l’ordine e garantire la sicurezza delle infrastrutture
strategiche del paese, tra cui le centrali petrolifere ed elettriche, ma
anche degli importanti centri finanziari e bancari, considerato che il
Bahrein è una delle piazze commerciali più importanti dell’area del
Golfo. L’arrivo di truppe straniere è stato definito dall’opposizione
sciita un vero e proprio atto di guerra.
Non sono però solo i paesi dell’area a temere un cambiamento
in Bahrein. Gli Stati Uniti sono in apprensione per ciò che sta ac-
cadendo, visto che il paese ospita il quartier generale della Quinta
flotta statunitense, responsabile delle operazioni nel Mar Rosso, nel
Golfo Persico e nel Mare Arabico. Nelle basi americane, che si tro-
vano nella parte meridionale dell’isola, sono presenti 4 mila soldati
e 4 navi sminatrici.
La situazione è molto delicata anche perché si teme un effetto
domino sui paesi vicini, i quali non sono certo rimasti immuni dal-
l’ondata di proteste. In Oman le proteste, iniziate il 17 gennaio, sono

fr/monde/01012320988-bahrein-une-grenade-degoupillee-au-c-ur-du-golfe.
20
Il Consiglio di cooperazione del Golfo comprende Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 29

proseguite nel mese di febbraio. Alla base del malcontento, oltre


all’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, vi
è la dilagante corruzione e la richiesta di conoscere come vengano
utilizzati gli ingenti introiti del petrolio. Le proteste, inizialmente
pacifiche, sono degenerate in scontri tra la polizia e i manifestanti il
27 febbraio a Sohar, a circa duecento chilometri dalla capitale Mu-
scat. Il sultano Qabus ha cercato di riportare la situazione alla calma
incaricando propri emissari di aprire un dialogo con i manifestanti
e promettendo loro la creazione di posti di lavoro, un sussidio di
circa 380 dollari mensili per i disoccupati in cerca di occupazione e
maggiori poteri per il consiglio legislativo. Le promesse non hanno
tuttavia sortito l’effetto desiderato e il sultano il 7 marzo ha attuato
il terzo rimpasto di governo nel giro di 10 giorni, rimuovendo 12
ministri, tra cui quello dell’economia Ahmad Mekk. La decisione è
stata accolta con soddisfazione dai manifestanti che tuttavia attendo-
no che vengano attuate misure più concrete da parte del governo.
Anche l’Arabia Saudita, il paese certamente più importante del-
l’area, non è stata esente dalle proteste. Nonostante la stretta messa
in atto dalle autorità saudite, l’11 marzo del 2011 alcune migliaia di
persone hanno protestato nella capitale e nelle province a maggio-
ranza sciita. Nelle settimane precedenti il re saudita aveva cercato
di scongiurare le proteste utilizzando la carta delle riforme e pro-
mettendo interventi sociali per circa 36 miliardi di dollari. L’Arabia
Saudita è di fondamentale importanza sia per gli interessi strategici
degli Stati Uniti, cui è legata da una solida alleanza, ma anche per
l’intera economia europea visto che Riyadh è l’unico paese del-
l’Opec in grado di compensare in tempi rapidi un eventuale blocco
delle esportazioni del petrolio dalla Libia.

La Libia al bivio
Giunto al potere giovanissimo, a seguito di un colpo di stato mi-
litare21, Gheddafi sembrava inattaccabile. Il suo potere, basato sul
21
Il 12 agosto 1969, assieme ad altri ufficiali, mise in atto un colpo di Stato
30 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

populismo e sulla spietata repressione di ogni forma di dissidenza,


non era stato intaccato dai bombardamenti americani22, né dal lungo
embargo che aveva fatto seguito all’attentato di Lockerbie23.
Nessun leader arabo più di lui si è scagliato, attraverso la pro-
paganda e attraverso il finanziamento al terrorismo internazionale,
contro il mondo occidentale. I lunghi anni di embargo non han-
no piegato il leader della rivoluzione verde, il più eccentrico tra i
leader nordafricani, ma anche il più pragmatico. Ha infatti capito,
dopo l’attacco all’Iraq di Saddam, che erano cambiati i tempi, che
occorreva una svolta politica e, con un colpo di scena tipico del
personaggio, ha rinunciato al programma nucleare libico. Ciò ha
permesso alla Libia di riaprire le relazioni, soprattutto economiche
e commerciali, con molti paesi occidentali (prima tra tutti l’Italia)
grazie alla forza contrattuale derivante dalle grandi risorse naturali
di cui il paese dispone.
Capace di resistere ad anni di isolamento internazionale, il co-
lonnello non è però riuscito a salvarsi dall’ondata di protesta che
ha avuto avvio in Tunisia a dicembre e che ha travolto ogni paese,
o per meglio dire ogni regime autoritario, abbia trovato sulla pro-
pria strada. Una rivolta che lo ha inizialmente preso alla sprovvi-
sta, quasi non potesse concepire per sé la sorte toccata agli altri
leader dell’area. Dopo una prima fase di stordimento, tuttavia,
Gheddafi si è riorganizzato, ha serrato le fila dei suoi fedelissimi e,
militare nei confronti di re Idris I. Aveva solo 27 anni. Il primo settembre
dello stesso anno venne proclamata la Repubblica, guidata dal Consiglio del
Comando della Rivoluzione, con a capo Gheddafi.
22
Il presidente americano Ronald Reagan ordinò, il 15 aprile del 1986, un at-
tacco aereo nei confronti di Gheddafi, allo scopo di uccidere il leader libico.
Gheddafi riuscì a salvarsi perché venne avvisato dei piano americani dall’allora
presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi. Nel corso dell’attacco venne
uccisa la figlia adottiva di Gheddafi.
23
Il 21 dicembre 1988 il volo Pan Am 103 esplose sopra i cieli della cittadina
scozzese di Lockerbie. Con la risoluzione 748 le Nazioni Unite, a seguito del
rifiuto di Gheddafi di consegnare due cittadini libici accusati di essere coinvolti
nell’attentato, diedero avvio a un pesante embargo economico nei confronti
della Libia. L’embargo venne ritirato nel 1999, dopo che Tripoli accettò che i
due venissero sottoposti a giudizio oltre al pagamento dei danni provocati alle
vittime.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 31

con l’apporto di un esercito di mercenari, ha ricominciato a guada-


gnare terreno, costringendo i ribelli a una ritirata che ha rischiato
di terminare in una tragica disfatta. Così però non è stato. I suoi
nemici di ieri, infatti, negli ultimi anni lo hanno tollerato, ma mai
amato né perdonato per il sostegno dato per decenni al terrorismo
internazionale. Molti governi hanno allora deciso di congelare i
beni del raìs, ma non è bastato. L’occasione di disfarsi del più sco-
modo tra i leader del Nord Africa non poteva però essere sprecata,
pur essendo da subito chiaro che i ribelli da soli non sarebbero
riusciti nell’impresa.
È allora iniziata una febbrile attività diplomatica, che ha visto Pa-
rigi in prima fila, ma alla quale hanno partecipato in modo convinto
anche Londra e Washington, per cercare di impedire al colonnello
di superare l’ennesima crisi e riaffermare così il proprio potere in-
discusso sulla Libia. La Francia, scottata dagli errori commessi nel
caso della Tunisia, è stata la più attiva nel dare sostegno al Consi-
glio nazionale libico, governo provvisorio degli insorti stabilitosi
a Bengasi. Il 10 marzo, dopo aver incontrato alcuni esponenti del
Consiglio all’Eliseo, il presidente Sarkozy ha annunciato che Parigi
avrebbe inviato un proprio rappresentante a Bengasi, riconoscendo
così di fatto un governo libico alternativo a quello del colonnello24.
L’azione del presidente francese non si è però fermata a un atto for-
male. Volenteroso di rilanciare la propria popolarità sempre più in
calo, Sarkozy ha fatto di tutto perché si arrivasse a una risoluzione
del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che decretasse una
no-fly zone sul territorio libico, così da impedire alle forze di Ghed-
dafi di reprimere la rivolta. Le truppe del colonnello erano ormai
alle porte di Bengasi e la loro entrata in città sarebbe stata certamen-
te seguita da una sanguinosissima repressione nei confronti degli
abitanti della città.
Intervenire il Libia poneva tuttavia una serie di problemi e neces-
sitava di almeno due condizioni. La prima era ottenere un’autoriz-

24
Il 23 marzo i ribelli hanno nominato Mahmoud Jabril a capo del governo di
transizione. Il Consiglio dei ribelli, al momento della stesura di questo articolo,
è stato riconosciuto anche dall’Italia e dal Qatar.
32 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

zazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, evitando dunque che


Cina o Russia ponessero il proprio veto. Altrettanto importante era il
sostegno della Lega araba, per non correre il rischio che l’intervento
venisse letto come un atteggiamento neocolonialista da parte dei
paesi occidentali.
La prima condizione è stata realizzata il 17 marzo, quando il
Consiglio di sicurezza Onu ha approvato la risoluzione 1973, con
la quale si chiedeva un immediato cessate il fuoco tra i combattenti
e autorizzava al tempo stesso la comunità internazionale a istituire
una no-fly zone in Libia e a utilizzare tutti i mezzi necessari per pro-
teggere i civili e imporre un cessate il fuoco. Nel caso della Libia
esistevano tutte le condizioni, sulla base del capitolo 7 della Carta
delle Nazioni Unite, per autorizzare un intervento teso a difendere
la popolazione civile da crimini di guerra o contro l’umanità25. An-
che la seconda condizione è stata realizzata: la Lega araba ha infatti
appoggiato la decisione di stabilire una no-fly zone sui cieli libici e
alcuni paesi arabi, il Qatar e gli Emirati Arabi, hanno anche messo a
disposizione alcuni aerei per le azioni militari.
Il giorno dopo la decisione del Consiglio di sicurezza i leader
mondiali si sono riuniti a Parigi per discutere dell’attacco militare
alla Libia, mentre Gheddafi, pur avendo proclamato il cessate il
fuoco a seguito della decisione Onu, non ha interrotto le opera-
zioni militari contro i ribelli. Gli attacchi della coalizione inter-
nazionale sono iniziati il 18 marzo. Hanno fortemente indebolito
e indeboliranno ulteriormente le forze di cui dispone Gheddafi,
tuttavia un problema non può essere ignorato, ovvero se le forze
ribelli, disorganizzate sul piano militare, potranno da sole vincere
la battaglia a terra. Appare poco probabile. Non è infatti sconta-
to che la supremazia tecnologica e militare messa in campo dalla
coalizione internazionale e il controllo dello spazio aereo bastino,
da soli, a determinare la caduta del colonnello. Se la guerra doves-
se proseguire a lungo si porrebbe un problema molto serio, ovvero
quello di prevedere un eventuale impiego di truppe di terra, cosa
25
Il testo è consultabile all’indirizzo www.un.org/en/documents/charter/chapter7.
shtml.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 33

che molti paesi sperano di evitare e che altri non sono assoluta-
mente disposti ad accettare.
Al momento è difficile poter delineare gli scenari che si deter-
mineranno nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, alcune
domande vanno tuttavia poste per comprendere cosa potrebbe ac-
cadere.
La prima domanda riguarda il modo in cui si potrà determinare
l’uscita di scena del Colonnello. Gheddafi ha ormai dimostrato che
non intende a nessun costo abbandonare il potere. D’altra parte, una
volta sconfitto, nella migliore delle ipotesi rischierebbe un’incrimi-
nazione per crimini di guerra e contro l’umanità da parte della Cor-
te penale internazionale dell’Aja. I ribelli, nonostante l’importante
sostegno militare della coalizione internazionale, al momento non
sembrano in grado di chiudere la partita in tempi brevi. Un interven-
to a terra da parte di truppe internazionali resta al momento da esclu-
dersi, sia perché costituirebbe una forzatura della risoluzione 1973,
sia perché incontrerebbe quasi certamente la decisa opposizione di
Russia e Cina. Se la guerra dovesse andare avanti per molti mesi ci
si potrebbe ritrovare di fronte a un paese letteralmente spaccato in
due, con la Cirenaica sotto il controllo dei ribelli e la Tripolitania
sotto il controllo dei fedeli di Gheddafi. Sarebbe una situazione mol-
to complessa da gestire e molto rischiosa. Se anche i ribelli doves-
sero riuscire a sconfiggere Gheddafi in tempi relativamente brevi, al
momento non vi è alcuna garanzia che ciò significhi la pacificazione
del paese né che si vada verso la costituzione di istituzioni democra-
tiche. È infatti difficile dire chi siano i ribelli che combattono contro
Gheddafi e quali siano i loro obiettivi. Si tratta probabilmente di
fazioni differenti con obiettivi differenti e ciò non permette di affer-
mare, allo stato attuale delle cose, che la Libia del dopo Gheddafi
sarà un paese stabile e democratico. Non da ultimo va considera-
to che alcuni paesi occidentali hanno forti interessi in Libia e che
dunque potrebbero essere interessati a sostenere una o l’altra delle
fazioni che usciranno eventualmente vincitrici dalla guerra26. Il pro-
26
Basti pensare ai grandi interessi che ha l’Italia. Al momento della firma del
trattato di amicizia, associazione e cooperazione tra Italia e Libia, il 30 agosto
34 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

blema che occorre porsi, dunque, è se sarà possibile controllare la


situazione che si determinerà dopo Gheddafi, impedendo che la Li-
bia cada nel caos e diventi un altro paese ingovernabile come l’Af-
ghanistan27. Una situazione di perdurante instabilità, oltre ad avere
effetti politici imprevedibili, avrebbe certamente effetti sociali ed
economici devastanti, sia per la Libia che per l’Europa28.
del 2008, il volume di affari ha superato i 40 miliardi di dollari annui. Gli
affari riguardano tutti i più importanti settori quali energia, banche, edilizia,
accordi militari, intelligence. Per l’Italia il rifornimento di gas libico è fon-
damentale, oltre al fatto che ci sono in gioco accordi su autostrade, calcio,
elicotteri, radar, treni, televisioni, banche, auto e addirittura un hotel di lusso
di cui è prevista la costruzione a Tripoli. Sono forti anche gli interessi libici
in Italia. Nell’estate del 2009 la Libian investment authority ha acquistato
il 2,59 per cento di Unicredit che si aggiunge al 7 per cento in possesso
della Banca centrale libica. Di fatto Gheddafi è, con il 7 per cento, il primo
azionista di Unicredit, il cui statuto prevede che ogni singolo azionista non
possa possedere oltre il 5 per cento. L’Eni ha previsto di investire oltre 18
miliardi di euro nei prossimi venti anni in Libia. La Astaldi e la Impregilo, le
due più grandi imprese edili italiane, hanno firmato contratti per 5 miliardi
per costruire l’autostrada che deve unire Tripoli all’Egitto. Finmeccanica
invece ha vinto un appalto da milioni di euro per dei radar da piazzare nel
deserto al fine di controllare l’immigrazione. La Libian investment authority
possiede il 2 per cento di Finmeccanica. Gheddafi è inoltre proprietario del
7,5 per cento della Juventus.
27
L’ampiezza del territorio libico, per giunta, lo renderebbe molto difficile da
controllare se si determinasse una situazione politicamente instabile.
28
La crisi libica non piace ai mercati. Dal momento del suo inizio il prezzo del
petrolio ha superato i 100 dollari al barile. In una difficile fase per l’economia
mondiale, alle prese con una lenta e complessa ripresa, l’aumento del costo
dell’energia potrebbe avere gravi ripercussioni sia per le economie più avanzate
che per quelle emergenti. La Libia, prima dello scoppio della rivolta, produceva
1,7 milioni di barili al giorno. La crisi pone dunque una questione importan-
te, ovvero la dipendenza dal petrolio. Ciò significa che si rende sempre più
necessario lo sfruttamento delle energie alternative. L’instabilità del prezzo
del petrolio, nel corso degli ultimi anni, è stata una costante. Si deve dunque
ritenere che questo non sia più, come fu nel caso della crisi petrolifera del
1973, un evento eccezionale, ma un dato strutturale. I paesi produttori che
oggi sono in grado di compensare la mancata produzione libica, sono o sono
stati tutti politicamente a rischio (Arabia Saudita, Nigeria, Angola, Venezuela).
Per l’Occidente sarebbe dunque necessario, sulla scorta degli eventi di queste
settimane, ridurre la propria dipendenza dal petrolio e investire sempre più
intensamente nelle altre fonti energetiche.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 35

L’onda raggiunge la Siria e la Giordania


All’indomani della cacciata di Ben Alì dalla Tunisia e di Muba-
rak dall’Egitto, Bashar al Assad aveva affermato che la Siria era un
paese stabile. Le cose non stavano evidentemente così. Dopo che la
polizia ha sparato contro i manifestanti in una cittadina di provin-
cia, Daraa, uccidendone tre, le proteste sono montate e ai funerali
delle vittime oltre ventimila persone hanno sfilato contro il gover-
no. Le richieste sono simili a quelle avanzate negli altri paesi scossi
dall’ondata di proteste, ovvero l’eliminazione delle diseguaglianze
economiche, della corruzione e, certamente non meno importante,
la fine di un regime repressivo e illiberale.
Dalla città di Daraa le manifestazioni si sono estese in altri cen-
tri, Enkhel, Nawa e Jassem, con la conseguenza di accentuare il
carattere repressivo della reazione del governo. Decine di persone
sono state arrestate e circa venti sono morte.
Nessuno poteva immaginare, ancor meno che altrove, che i cit-
tadini siriani potessero alzare forte la loro voce contro il proprio go-
verno. Mai era accaduto in modo così evidente da quando il partito
Baath nel 1963 aveva decretato lo stato d’emergenza e soprattutto
da quando Hafez al Assad aveva preso il potere nel 1970. Sono evi-
dentemente profondi, come dimostrano gli eventi delle ultime set-
timane, i motivi di insoddisfazione tra i cittadini. Quando era salito
al potere nel 2000, Bashar al Assad, aveva promesso di moderniz-
zare il paese, tuttavia ancora nulla è stato fatto. A ciò si aggiunge la
totale mancanza di qualunque libertà politica o di espressione e una
situazione economica che ha visto progressivamente peggiorare le
condizioni di vita di molti cittadini siriani.
Il regime ha cercato di reagire alla situazione promettendo
l’aumento dei salari e la revoca dello stato d’emergenza, ma le
promesse non sono bastate a calmare la piazza. La sfida ai ser-
vizi di sicurezza rappresenta certamente un fatto nuovo in Siria,
di cui il governo non può non tenere conto. I manifestanti hanno
apertamente chiesto un deciso ridimensionamento degli apparati
di sicurezza e la fine della loro ingerenza nelle questioni politiche
e sociali.
36 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

A differenza dell’Egitto il governo siriano può però contare su


un elemento: la società siriana non è omogenea. Ciò rende molto
difficile giungere a un’unità di intenti, anche se transitoria, da parte
delle opposizioni, come avvenuto in Tunisia e in Egitto. Partico-
larmente delicata è la questione curda. Le rivendicazioni curde, in
merito al riconoscimento della loro identità e specificità culturale,
sono viste con sospetto dal resto della popolazione, la quale teme
che esse possano trasformarsi in aspirazione all’indipendenza, spe-
cie dopo che i curdi hanno di fatto ottenuto una grande autonomia
nel nord dell’Iraq. A questo elemento ne va aggiunto un altro, non
meno importante, ovvero il fatto che alcune minoranze religiose si
sentano complessivamente garantite dall’attuale regime.
Ciononostante le proteste di queste ultime settimane non pos-
sono non allarmare il governo e spingerlo a prendere delle misure
concrete. Nonostante il divieto di manifestare la gente ha infatti
continuato a scendere in piazza. Buthaina Shaaban, una consiglie-
ra molto vicina al presidente Assad, ha affermato che è in prepara-
zione una legge per porre fine al monopolio del Baath, allentare i
controlli sui media, combattere la corruzione e garantire ai dipen-
denti pubblici stipendi più alti. Il bastone e la carota sembra essere
il metodo usato dal regime per contenere le proteste. Se ciò avrà
successo è difficile da prevedere. Il governo siriano e innanzitutto
il presidente Assad, tuttavia, non sono più così certi che la Siria sia
stabile. La situazione è tutt’altro che sotto controllo. Gli esempi
della Tunisia e dell’Egitto sono una forte spinta al cambiamento e
certamente hanno contribuito a dare un grande coraggio ai citta-
dini siriani.
Gli eventi andranno certamente seguiti con grande attenzione
dato il peso della Siria nella regione. L’eventuale uscita di scena
di Assad potrebbe determinare grandi cambiamenti negli equilibri
regionali, alcuni dei quali difficilmente prevedibili al momento. La
Siria ha svolto un ruolo importante nelle vicende libanesi degli ulti-
mi anni e nonostante le sue truppe abbiano abbandonato il paese dal
2005, Damasco resta un fondamentale alleato per Hezbollah e può
vantare ancora un’ampia influenza nel paese dei cedri.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 37

Diversa, sul piano dei rapporti internazionali, è la situazione della


Giordania, da molti anni vicina agli Stati Uniti e all’Occidente. An-
che qui, tuttavia, non sono mancate proteste che si sono andate via
via intensificando sino agli scontri avvenuti ad Amman, nel corso di
una manifestazione indetta dai “Giovani del 24 marzo”, un’alleanza
tra vari movimenti di opposizione, compresi gli islamisti. Nel corso
degli scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine una persona è
rimasta uccisa e oltre cento sono rimaste ferite. Ciò dimostra come
la situazione rischi di degenerare anche in Giordania. Le richieste
avanzate dalla piazza sono simili a quelle che vengono avanzate
in Siria e prima ancora in altri paesi. Le difficoltà economiche, la
corruzione, le diseguaglianze sociali sono gli elementi scatenanti ai
quali si aggiungono richieste di carattere più specificatamente poli-
tico.
Il re ha cercato di contenere il fenomeno creando un comitato per
il dialogo nazionale già a febbraio, al quale ha dato mandato di tro-
vare una soluzione in tempi rapidi. Tuttavia i lavori non procedono
in modo spedito, soprattutto per il fatto che gli islamisti non hanno
fiducia nelle buone intenzioni del re e del primo ministro. Nonostan-
te la fiducia di cui gode tra la popolazione, la monarchia, se vuole
riportare la calma, sarà probabilmente costretta a mettere in atto una
serie di riforme economiche, sociali e politiche.

Conclusioni
Gli eventi che stanno sconvolgendo gli assetti politici e sociali
del Nord Africa e del Medio Oriente hanno colto di sorpresa governi
e analisti di tutto il mondo. Sino a poco tempo prima dello scoppio
della rivolta tunisina era impensabile immaginare cambiamenti pro-
fondi come quelli a cui stiamo assistendo. Eravamo abituati a dare
per scontata l’obbedienza dei popoli arabi ai propri governi auto-
ritari, rassicurati dal fatto che molti di questi governi erano amici
dell’Occidente. Pur conoscendo i profondi limiti di governi come
quello tunisino o egiziano in termini di rispetto dei diritti umani,
38 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

di libertà di espressione e di libertà di informazione, ritenevamo


che ciò era accettabile perché personaggi come Ben Alì o Mubarak
garantivano all’Occidente un fronte comune nei riguardi del radi-
calismo islamico e del terrorismo. Per anni questa è stata la priorità
dei governi occidentali, oltre al fatto che governi “amici” potevano
assicurare le forniture di gas e di petrolio di cui molti paesi europei
hanno bisogno.
Non ci si è però resi conto – o forse non ci si è voluti rendere con-
to – di come stavano gestendo il potere i governi considerati “ami-
ci”. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari è stata la classica
goccia che ha fatto traboccare il vaso. La realtà è che, al di là delle
pur importanti motivazioni di carattere economico e sociale, vi era
un’insoddisfazione sempre più diffusa tra le popolazioni arabe nei
confronti dei propri governanti. Le cause di questa insoddisfazio-
ne sono da ricercarsi nelle profonde disuguaglianze sociali interne
alle società arabe, nell’alta disoccupazione che colpisce soprattutto
i giovani, nella corruzione dilagante, nel mancato rispetto delle li-
bertà fondamentali e, soprattutto, nel grande divario esistente tra le
aspettative dei giovani (i quali rappresentano la maggioranza della
popolazione di quei paesi) e le condizioni in cui sono costretti a vi-
vere. Ma forse la spiegazione è più complessa.
Un’interessante analisi sulle ragioni che sono alla base dell’esplo-
sione di proteste nel mondo arabo è quella che ci viene offerta da
alcuni studiosi del Tepav (Economic Policy Research Foundation
of Turkey)29, i quali spiegano le rivolte sulla base della teoria della
“Deprivazione relativa” di Gurr30. Il sentimento di insoddisfazione
di un popolo, secondo tale teoria, non è il semplice riflesso di con-
dizioni sociali “oggettive”. Si tratta in realtà di una discrepanza tra
ciò che si crede di meritare e quello che si può ottenere, ovvero una
discrepanza tra lo standard di vita e le aspettative. Maggiore è la
29
Vd. H. E. Cunedioğlu, Ö. Fazlıoğlu, Ü. B. Urhan, Riot and Rebellion from
Maghreb to Egypt. What do Arab Streets want from the Palaces?, Tepav Evalu-
ation Note, Febbraio 2011, Tepav (Türkiye Ekonomi Politikaları Araştırma
Vakfı). Il testo è consultabile all’indirizzo web www.tepav.org.tr/upload/fi-
les/1297420434-0.Riot_and_Rebellion_from_Maghreb_to_Egypt.pdf.
30
T. Gurr, Why Men Rebel, Princeton University Press, Princeton 1970.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 39

discrepanza, maggiore sarà il disagio percepito e la probabilità che


una popolazione dia vita a proteste.
Si tratta di un’analisi interessante, la quale mette in risalto come
alcuni elementi, ritenuti fondamentali per l’avvio delle proteste, in
realtà non bastano da soli a spiegarle. Se si considera l’indice dei
prezzi al consumo, infatti, si nota che in Egitto l’inflazione è stata
del 32,4% nel biennio 2007-2009, ma nello stesso periodo in Tunisia
è stata solo dell’8,6%. L’aumento dei prezzi può dunque essere con-
siderata una causa importante per lo scoppio delle proteste in Egitto,
ma non in Tunisia. Lo stesso discorso può essere fatto per l’aumento
dei prezzi dei generi alimentari, visto che in un paese come la Tur-
chia negli ultimi anni sono cresciuti più che in Egitto e in Tunisia.
Un altro fattore ritenuto di fondamentale importanza per lo scoppio
delle proteste è l’aumento del tasso di disoccupazione, ma anche
in questo caso, se si prende in esame il periodo 2001-2009, si vede
come l’aumento è stato dello 0,86% in Egitto, dello 0,52% in Siria,
mentre in Tunisia è addirittura diminuito del 2,31%. Se si prende in
esame la disoccupazione giovanile tuttavia il discorso cambia, come
si nota nella tabella che segue.

Tabella 1: Percentuale della disoccupazione giovanile rispetto


alla disoccupazione totale.

Disoccupa-
Tasso di di-
zione totale
15-19 20-24 25-29 15-29 soccupazione
(migliaia di
totale (2009)
persone)

Egitto
15,42% 47,46% 25,81% 88,69% 2135,20 9,40%
(2007)

Siria
19,20% 37,66% 22,45% 79,31% 450,80 8,50%
(2007)

Tunisia
13,92% 28,41% 27,14% 69,47% 486,40 12,63%
(2005)
Fonte: ILO, EIU
40 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

L’analisi dei ricercatori turchi ci fa dunque riflettere sul fatto che,


molto probabilmente, a causare lo scoppio delle proteste nei paesi
arabi sono stati una serie di fattori di carattere economico e sociale,
i quali da soli non potrebbero però spiegare perché le proteste sono
esplose ora e non prima. La ragione risiede probabilmente nel fatto
che, anche attraverso la rete, il processo di globalizzazione sociale
ha raggiunto i paesi arabi. I modelli di sviluppo economico, sociale
e politico che l’Occidente ha presentato al mondo hanno potuto es-
sere recepiti dai giovani, i quali hanno vissuto con sempre maggiore
frustrazione l’enorme divario tra le loro aspettative e il contesto so-
ciale, politico ed economico in cui si ritrovavano a vivere. Ciò deve
far riflettere profondamente i governi occidentali e spingerli a com-
prendere che la velocità con cui circolano le informazioni al gior-
no d’oggi rende sempre più difficile essere democratici all’interno
dei propri confini, accettando di venire a patti con regimi autoritari
all’esterno. Le aspettative delle giovani generazioni arabe vanno
comprese e sostenute, affinché anche in quei paesi possa svilupparsi
un autonomo e peculiare percorso democratico. È necessario com-
prendere che il modello democratico non può essere esportato da
una paese all’altro con la forza, ma che ogni paese può sviluppare
istituzioni politiche e strutture socio-economiche democratiche sul-
la base della propria cultura e della propria storia. La Turchia, che
molti oggi guardano come a un modello, rappresenta senza dubbio
un esempio in questo senso. Pur con molti limiti, non si può infatti
negare che la Turchia sia oggi una democrazia. D’altra parte biso-
gna considerare che è nell’interesse stesso dell’Occidente sostenere
un processo di sviluppo democratico nel mondo arabo. Sostenere
regimi autoritari nel breve periodo può certamente fornire maggiori
garanzie sul piano della lotta al fondamentalismo islamico e al terro-
rismo. Tali regimi, basati sulla corruzione e su una forte ingiustizia
sociale, nel lungo periodo determinano però una forte crescita del
radicalismo che può fare più facilmente presa sull’insoddisfazione e
sulla frustrazione dei cittadini.
Al momento è impossibile prevedere quali saranno gli esiti del-
l’ondata di proteste che ha sconvolto il mondo arabo.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 41

In Tunisia la situazione è ancora molto instabile. Dopo la fuga di


Ben Alì la situazione non è tornata alla calma. Il governo di unità
nazionale presieduto da Mohammed Ghannouchi, nonostante avesse
al suo interno diversi esponenti dell’opposizione e il giovane blog-
ger Slim Amamou (uno dei volti principali della protesta), è stato
ben presto costretto a fare i conti con nuove proteste. Considerato
troppo legato al passato regime, Ghannouchi ha dovuto rassegnare
le dimissioni e al suo posto ha assunto l’incarico Béji Caïd Essebsi,
ministro degli Esteri durante gli anni della presidenza Bourguiba. Il
nuovo governo ha abolito il ministero dell’Informazione e la polizia
segreta. Nel frattempo il presidente ad interim, Fouad Mebazza, ha
annunciato la data in cui i cittadini tunisini voteranno per eleggere
un’Assemblea costituente che avrà il compito di riscrivere la Costi-
tuzione e definire un piano di transizione per il paese. Il partito del-
l’ex presidente Ben Alì, il Raggruppamento costituzionale democra-
tico, non prenderà parte alle consultazioni, visto che il 9 marzo una
decisione del tribunale di Tunisi ha decretato il suo scioglimento e
la liquidazione dei suoi beni. Prenderà parte invece alle elezioni il
Partito Ennahda il cui leader, Rachid Ghannouchi, è tornato nel pae-
se dopo un esilio di oltre venti anni31. Si discute molto sul ruolo che
il partito avrà nei futuri assetti politici tunisini. Una cosa è certa, i
membri del partito Ennahda, così come i Fratelli musulmani, hanno
ormai compreso che prendere il potere attraverso una rivoluzione
può portare alla guerra civile o alla dittatura. Da questo punto di
vista il modello turco ha certamente insegnato molte cose.
In Egitto la transizione è gestita direttamente dalla forze armate.
Principale sostegno dell’ex presidente Mubarak, sono oggi l’istitu-
zione in grado di garantire un passaggio ordinato verso un nuovo
assetto politico. Anche nel caso egiziano, come in quello tunisino,
bisogna attendere le prossime elezioni per capire quali saranno gli
assetti politici interni. Le forze armate sembrano comunque garanti-
31
Il partito Ennahda (Rinascita), nato nel 1981 si ispira al modello dei Fratelli
musulmani. Inizialmente tollerato, fu messo al bando nel 1989, dopo aver ot-
tenuto il 17 per cento dei voti alle elezioni. Il governo di transizione tunisino
il 20 gennaio ha annunciato un’amnistia generale per tutti i prigionieri politici,
compresi quelli del partito islamico Ennahda.
42 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

re una continuità nella politica estera del paese, cosa che sta a cuo-
re agli Stati Uniti, all’Europa e a Israele. Probabilmente i Fratelli
musulmani svolgeranno un ruolo importante nel prossimo futuro,
tuttavia se non vorranno rischiare di trovarsi nuovamente isolati e
messi al bando dovranno probabilmente assumere posizioni meno
oltranziste rispetto al passato e far prevalere al proprio interno la li-
nea moderata. Un’evoluzione della Fratellanza musulmana sul mo-
dello dell’Akp turco guidato da Erdoğan potrebbe essere un’ipotesi
molto interessante, tale da garantire la presenza islamica in politica
impedendo al tempo stesso degenerazioni di tipo fondamentalista e
dunque lo scivolamento dell’Egitto su posizioni radicali e antiocci-
dentali.
Molto complessa è anche la situazione in Giordania e in Siria.
Se nella prima la monarchia può contare su un certo sostegno
popolare e dunque cercare di calmare la piazza attraverso sussidi
e una maggiore liberalizzazione del sistema politico e sociale, il
regime siriano, che ha sempre governato con il pugno di ferro si
trova per la prima volta di fronte a proteste di una certa porta-
ta. La Siria è un paese importante per gli assetti mediorientali,
come dimostra il ruolo svolto nelle vicende libanesi. Un crisi
dell’attuale regime potrebbe dunque avere effetti molto profondi
sull’intera area.
La situazione appare molto critica in Yemen. Il presidente Saleh
ha rifiutato un piano dell’opposizione che prevedeva le sue dimis-
sioni entro la fine del 2011. Dopo la sanguinosa repressione della
manifestazione del 18 marzo il sostegno di cui godeva si è progres-
sivamente ridotto. Il 21 marzo il generale Ali Mohsen Al Ahmar,
comandante della prima divisione corazzata dell’esercito, ha annun-
ciato la propria defezione ed è passato dalla parte dei manifestanti.
Altri generali hanno seguito il suo esempio così come oltre venti
ambasciatori e alcuni ministri. Saleh è tornato dunque a mostrar-
si possibilista in merito all’ipotesi di sue dimissioni entro la fine
dell’anno, ma le sue intenzioni non sembrano essere sincere. Se lo
Yemen dovesse precipitare in una guerra civile si porrebbe un serio
problema per l’Occidente e per la lotta al terrorismo. Il numero im-
Rivista di Studi Politici - S. Pio V 43

pressionante di armi che circolano nel paese e le forti infiltrazioni di


Al Qaeda rischiano di trasformare lo Yemen in un rifugio ideale per
il radicalismo islamico.
Delicata è anche la situazione nei paesi del Golfo, primo fra tutti
il Bahrein. L’intervento delle truppe del Consiglio di cooperazione
del Golfo ha contribuito a radicalizzare la situazione. Se le cose
dovessero precipitare si porrebbero seri problemi per l’Occidente.
A preoccupare è soprattutto il fatto che le proteste potrebbero de-
stabilizzare l’Arabia Saudita, un paese di importanza fondamentale
per gli interessi USA nella regione. Il pericolo di ritrovarsi in una
situazione critica ha spinto il governo di Riyadh a promettere in-
genti sussidi economici agli abitanti, al fine di placare le proteste.
Il governo saudita ha poi fissato al 23 aprile prossimo la data per le
elezioni amministrative, ribadendo però che le donne non potranno
votare. È difficile stabilire se le misure prese dal governo basteran-
no a tenere calma la situazione, in ogni caso le proteste debbono
spingere l’Occidente a una profonda revisione delle proprie poli-
tiche nell’area. Le recenti proteste, e la velocità con cui si sono
diffuse, dimostrano come sia sempre più forte nelle società arabe
l’esigenza di una maggiore libertà e di maggiori diritti politici eco-
nomici e sociali. Pensare di essere portatori di valori democratici
e al tempo stesso stretti alleati di regimi autoritari per garantire i
propri interessi diventa sempre più difficile. Ritenere la democrazia
un modello istituzionale non attuabile nei paesi arabi è un grave
errore, come è stato un errore volerla imporre con la forza in alcuni
di essi.
A destare le maggiori preoccupazioni, al momento, è però la crisi
libica. Lo scontro accesosi tra i paesi della coalizione internazio-
nale, all’indomani dell’avvio delle operazioni militari, con Roma e
Parigi in forte contrasto, dimostra come non ci sia una comunanza
di vedute su come portare avanti le operazioni, ma soprattutto su
quali siano gli obiettivi reali dell’intervento. Appare evidente che
alcuni governi sono ormai decisi a sbarazzarsi di Gheddafi a ogni
costo, ma gli interessi dei partecipanti alla coalizione non sono as-
solutamente coincidenti. La guerra è ormai iniziata, ma il timore
44 Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011

è che la comunità internazionale, al momento, non sia in grado di


prospettare la pace futura.
L’Europa sarà particolarmente condizionata da ciò che accadrà
dall’altra parte del Mediterraneo e in Medio Oriente. L’ondata di
immigrazione che si è abbattuta sull’Italia, e che rischia di coinvol-
gere molti paesi europei, è la prova lampante di ciò.
Di fronte agli scenari che si stanno delineando occorre tuttavia
essere cauti e seguire gli eventi con molta attenzione. Una cosa è
però certa, ovvero che le rivolte nel mondo arabo rappresentano un
cambiamento epocale, la cui portata non siamo ancora in grado di
definire.

Potrebbero piacerti anche