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Pio V 13
FOCUS
FRANCESCO ANGHELONE
che infatti è stato fortemente indebolito nel corso degli anni del
suo governo3.
Nei 23 anni di governo Ben Alì ha imposto un controllo totale
sui mezzi di informazione, dividendo di fatto il popolo tunisino in
compartimenti stagni così da impedire la nascita di qualsiasi forma
di opposizione organizzata. A ciò si deve aggiungere la creazione
di una macchina propagandistica molto efficiente. Ciò gli aveva
permesso di superare un’altra fase critica nel 2000, quando erano
scoppiate due rivolte, quella contro l’aumento dei prezzi del pane a
febbraio e quella degli studenti ad aprile.
Le cose questa volta sono però andate diversamente e il tentativo
di reprimere con la forza le proteste iniziate nel dicembre 2010 è fal-
lito. Ben Alì il 15 gennaio 2011 è stato costretto a fuggire dal paese
e a trovare rifugio in Arabia Saudita.
La fuga di Ben Alì può certamente essere considerata un evento
di portata storica e ciò per diverse ragioni: la prima è che si tratta
del primo leader arabo cacciato da una rivolta popolare negli ultimi
decenni; la seconda è che, ad esclusione di alcuni paesi del Golfo,
gran parte del mondo arabo ha condiviso le proteste tunisine; la ter-
za è relativa al fatto che la protesta ha mostrato la debolezza della
struttura su cui si reggeva il potere di Ben Alì4.
Intanto, mentre in Tunisia Ben Alì veniva cacciato, in Algeria
scoppiavano proteste per il brusco aumento dei prezzi dei generi
alimentari ad Algeri, ad Orano e ad Annaba. La storia recente del-
l’Algeria è in parte diversa da quella tunisina. Il paese ha, infatti,
attraversato un processo di democratizzazione che tuttavia è stato
messo in crisi nel 1991 a seguito della vittoria, al primo turno delle
elezioni legislative, del Fronte islamico di salvezza (Fis), che ha
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Cfr. S. Naïr, La lección de Túnez, «El País», 18 gennaio 2011. L’articolo può essere
consultato al seguente indirizzo: http://www.elpais.com/articulo/opinion/lec-
cion/Tunez/elpepiopi/20110118elpepiopi_10/Tes.
4
R. Khouri, Effetto Tunisia nel mondo arabo, «Internazionale», 21/27 gennaio
2011, n. 881 Anno 18, p. 30. Secondo l’autore gli eventi tunisini dimostrano
che i regimi dittatoriali, tenuti in piedi dalle forze armate e dai servizi segreti
si sgretolano non appena i cittadini dimostrano di non aver paura di morire
per la loro libertà.
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Il Fis, che aveva già vinto in 853 comuni su 1.541 e in 32 province su 48 nelle
elezioni amministrative, al primo turno delle legislative ottenne 188 seggi su
231. Il secondo turno venne dunque sospeso, con un vero e proprio colpo di
stato appoggiato dall’esercito, i principali leader del Fis arrestati e il partito
messo fuori legge. Ciò radicalizzò le posizioni del Fis e portò alla nascita dei
Gruppi islamici armati (Gia). Il paese precipitò in una lunga guerra civile che
ha fatto centinaia di migliaia di morti.
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S. Berkouk, Dove finiscono i soldi del petrolio algerino, «Internazionale»,
14/20 gennaio 2011, n. 880, Anno 18, tradotto da «El Watan», p. 16. L’autore
ricorda che il salario minimo in Algeria è di 15mila dinari algerini (152 euro)
e la disoccupazione è al 60% tra i giovani con meno di 30 anni. Uno studio del
2010 sul potere di acquisto nel Maghreb ha dimostrato che il salario minimo
in Algeria copre solo il 26% dei bisogni essenziali di una famiglia. Tali dati
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rendono chiaro come nel paese sia cresciuto un diffuso sentimento di ingiustizia
di fronte al modo in cui viene ripartita la ricchezza. Ciò è aggravato dal fatto
che negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi di appropriazione indebita di
fondi pubblici, di riciclaggio e di corruzione.
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Il 21 gennaio i principali movimenti di opposizione algerini hanno dato vita
al Coordinamento nazionale per la democrazia e il cambiamento (Cndc), un
movimento che comprende anche le associazioni per i diritti umani, quelle
femministe, quelle studentesche e i sindacati.
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In Marocco esiste un movimento istituzionalizzato dei laureati disoccupati.
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C. Ayad, V. de Filippis, op. cit. Tra i marocchini con meno di 25 anni uno su
cinque è disoccupato. La situazione per le donne è ancora peggiore. Sono sempre
di più i laureati che arrivano a trent’anni senza trovare un lavoro. Molti giovani
fanno lavori che non corrispondono alle loro aspettative e spesso lavorano nei
call center di multinazionali come Vodafone o Etisalat.
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Sono dunque ragioni molto simili quelle alla base della protesta
che il 25 gennaio 2011 ha attraversato le strade del Cairo14. Venti-
cinque mila manifestanti sono scesi in piazza per chiedere riforme
politiche e sociali, sul modello della “rivoluzione del gelsomino”
avvenuta in Tunisia, ma nonostante si trattasse di una protesta pa-
cifica, la dura reazione della polizia ha portato a scontri tra manife-
stanti e forze dell’ordine che si sono conclusi con ben quattro morti,
tra cui un poliziotto. Il tentativo di reprimere la protesta con la forza
non ha fatto altro che esasperare ancora di più la popolazione, la
quale nei giorni successivi ha continuato a scendere in piazza e a
chiedere riforme. Mubarak è intervenuto solo il 29 gennaio, quando
nel corso di un discorso alla nazione ha affermato che, pur compren-
dendo le preoccupazioni del popolo, non avrebbe tollerato il caos
nelle strade. Ha proseguito il suo intervento promettendo riforme
democratiche e lavoro e ha poi licenziato tutti i ministri del suo go-
verno. Le vaghe promesse e il tentativo di scaricare le responsabilità
politiche sul suo governo non hanno però dato i frutti sperati. Le
manifestazioni si sono anzi intensificate e la piazza, sfidando anche
il coprifuoco imposto dal regime, ha chiesto con forza l’abbandono
della scena politica da parte di Mubarak.
Mubarak ha allora nominato Omar Suleiman, il potente capo dei
servizi segreti, vicepresidente. In questo modo il leader egiziano ha
inteso tranquillizzare la piazza (aprendo la strada all’ipotesi che a
succedergli non fosse il figlio Gamal) e allo stesso tempo i paesi
alleati, soprattutto Stati Uniti e Israele.
Il neo vicepresidente ha immediatamente cercato di aprire un
dialogo con le opposizioni, le quali si sono però mostrate unite nel
chiedere le dimissioni di Mubarak dalla carica di presidente. Il pro-
seguire delle proteste e la compatta richiesta di dimissioni del presi-
14
Mubarak non ha compreso immediatamente la portata delle proteste, forse
convinto di poterle reprimere a differenza di quanto aveva fatto Ben Alì. Il
governo egiziano aveva detto di rispettare le scelte del popolo tunisino, ma
la stampa di governo non aveva mancato di sottolineare la differenza della
situazione egiziana rispetto a quella tunisina. Un estremo tentativo di nascon-
dere il fatto che l’onda rivoluzionaria partita da Tunisi potesse coinvolgere e
stravolgere lo stesso Egitto.
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fr/monde/01012320988-bahrein-une-grenade-degoupillee-au-c-ur-du-golfe.
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Il Consiglio di cooperazione del Golfo comprende Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein.
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La Libia al bivio
Giunto al potere giovanissimo, a seguito di un colpo di stato mi-
litare21, Gheddafi sembrava inattaccabile. Il suo potere, basato sul
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Il 12 agosto 1969, assieme ad altri ufficiali, mise in atto un colpo di Stato
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Il 23 marzo i ribelli hanno nominato Mahmoud Jabril a capo del governo di
transizione. Il Consiglio dei ribelli, al momento della stesura di questo articolo,
è stato riconosciuto anche dall’Italia e dal Qatar.
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che molti paesi sperano di evitare e che altri non sono assoluta-
mente disposti ad accettare.
Al momento è difficile poter delineare gli scenari che si deter-
mineranno nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, alcune
domande vanno tuttavia poste per comprendere cosa potrebbe ac-
cadere.
La prima domanda riguarda il modo in cui si potrà determinare
l’uscita di scena del Colonnello. Gheddafi ha ormai dimostrato che
non intende a nessun costo abbandonare il potere. D’altra parte, una
volta sconfitto, nella migliore delle ipotesi rischierebbe un’incrimi-
nazione per crimini di guerra e contro l’umanità da parte della Cor-
te penale internazionale dell’Aja. I ribelli, nonostante l’importante
sostegno militare della coalizione internazionale, al momento non
sembrano in grado di chiudere la partita in tempi brevi. Un interven-
to a terra da parte di truppe internazionali resta al momento da esclu-
dersi, sia perché costituirebbe una forzatura della risoluzione 1973,
sia perché incontrerebbe quasi certamente la decisa opposizione di
Russia e Cina. Se la guerra dovesse andare avanti per molti mesi ci
si potrebbe ritrovare di fronte a un paese letteralmente spaccato in
due, con la Cirenaica sotto il controllo dei ribelli e la Tripolitania
sotto il controllo dei fedeli di Gheddafi. Sarebbe una situazione mol-
to complessa da gestire e molto rischiosa. Se anche i ribelli doves-
sero riuscire a sconfiggere Gheddafi in tempi relativamente brevi, al
momento non vi è alcuna garanzia che ciò significhi la pacificazione
del paese né che si vada verso la costituzione di istituzioni democra-
tiche. È infatti difficile dire chi siano i ribelli che combattono contro
Gheddafi e quali siano i loro obiettivi. Si tratta probabilmente di
fazioni differenti con obiettivi differenti e ciò non permette di affer-
mare, allo stato attuale delle cose, che la Libia del dopo Gheddafi
sarà un paese stabile e democratico. Non da ultimo va considera-
to che alcuni paesi occidentali hanno forti interessi in Libia e che
dunque potrebbero essere interessati a sostenere una o l’altra delle
fazioni che usciranno eventualmente vincitrici dalla guerra26. Il pro-
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Basti pensare ai grandi interessi che ha l’Italia. Al momento della firma del
trattato di amicizia, associazione e cooperazione tra Italia e Libia, il 30 agosto
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Conclusioni
Gli eventi che stanno sconvolgendo gli assetti politici e sociali
del Nord Africa e del Medio Oriente hanno colto di sorpresa governi
e analisti di tutto il mondo. Sino a poco tempo prima dello scoppio
della rivolta tunisina era impensabile immaginare cambiamenti pro-
fondi come quelli a cui stiamo assistendo. Eravamo abituati a dare
per scontata l’obbedienza dei popoli arabi ai propri governi auto-
ritari, rassicurati dal fatto che molti di questi governi erano amici
dell’Occidente. Pur conoscendo i profondi limiti di governi come
quello tunisino o egiziano in termini di rispetto dei diritti umani,
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Disoccupa-
Tasso di di-
zione totale
15-19 20-24 25-29 15-29 soccupazione
(migliaia di
totale (2009)
persone)
Egitto
15,42% 47,46% 25,81% 88,69% 2135,20 9,40%
(2007)
Siria
19,20% 37,66% 22,45% 79,31% 450,80 8,50%
(2007)
Tunisia
13,92% 28,41% 27,14% 69,47% 486,40 12,63%
(2005)
Fonte: ILO, EIU
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re una continuità nella politica estera del paese, cosa che sta a cuo-
re agli Stati Uniti, all’Europa e a Israele. Probabilmente i Fratelli
musulmani svolgeranno un ruolo importante nel prossimo futuro,
tuttavia se non vorranno rischiare di trovarsi nuovamente isolati e
messi al bando dovranno probabilmente assumere posizioni meno
oltranziste rispetto al passato e far prevalere al proprio interno la li-
nea moderata. Un’evoluzione della Fratellanza musulmana sul mo-
dello dell’Akp turco guidato da Erdoğan potrebbe essere un’ipotesi
molto interessante, tale da garantire la presenza islamica in politica
impedendo al tempo stesso degenerazioni di tipo fondamentalista e
dunque lo scivolamento dell’Egitto su posizioni radicali e antiocci-
dentali.
Molto complessa è anche la situazione in Giordania e in Siria.
Se nella prima la monarchia può contare su un certo sostegno
popolare e dunque cercare di calmare la piazza attraverso sussidi
e una maggiore liberalizzazione del sistema politico e sociale, il
regime siriano, che ha sempre governato con il pugno di ferro si
trova per la prima volta di fronte a proteste di una certa porta-
ta. La Siria è un paese importante per gli assetti mediorientali,
come dimostra il ruolo svolto nelle vicende libanesi. Un crisi
dell’attuale regime potrebbe dunque avere effetti molto profondi
sull’intera area.
La situazione appare molto critica in Yemen. Il presidente Saleh
ha rifiutato un piano dell’opposizione che prevedeva le sue dimis-
sioni entro la fine del 2011. Dopo la sanguinosa repressione della
manifestazione del 18 marzo il sostegno di cui godeva si è progres-
sivamente ridotto. Il 21 marzo il generale Ali Mohsen Al Ahmar,
comandante della prima divisione corazzata dell’esercito, ha annun-
ciato la propria defezione ed è passato dalla parte dei manifestanti.
Altri generali hanno seguito il suo esempio così come oltre venti
ambasciatori e alcuni ministri. Saleh è tornato dunque a mostrar-
si possibilista in merito all’ipotesi di sue dimissioni entro la fine
dell’anno, ma le sue intenzioni non sembrano essere sincere. Se lo
Yemen dovesse precipitare in una guerra civile si porrebbe un serio
problema per l’Occidente e per la lotta al terrorismo. Il numero im-
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