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Corso di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche

PATOLOGIE SOCIALI E RICONOSCIMENTO


HONNETH E LA FILOSOFIA SOCIALE CONTEMPORANEA

Relatore: Chiar.mo Prof. Carmine DI MARTINO


Correlatore: Chiar.mo Prof. Marco GEUNA

Elaborato Finale di:


Simone TURCONI
Matr. n. 921515

Anno Accademico 2019/2020


A Valeria,
ai miei genitori
INDICE

AVVERTENZA

Capitolo I
LA FILOSOFIA SOCIALE E LA TEORIA DEL RICONOSCIMENTO

1.1. Il compito e il metodo della filosofia sociale 5


1.2. La teoria del riconoscimento di Axel Honneth 11
1.3. Decentrare l’autonomia: i fondamenti intersoggettivi del Sé 18
1.4. L’invisibilità sociale 22
1.5. Le tendenze patologiche del gruppo 26
1.6. Il potere ideologico del riconoscimento 31

Capitolo II
LE PATOLOGIE SOCIALI E IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO

2.1. Il «nuovo spirito del capitalismo» di Boltanski e Chiapello 36


2.2. Il modello antropologico dell’«uomo flessibile» 45
2.3. I paradossi del capitalismo: autonomia, responsabilità, autorealizzazione 50
2.4. La «funzione» della divisione sociale del lavoro 54
2.5. Sul fenomeno dei «lavori senza senso» 59
2.6. Lavoro, redistribuzione e riconoscimento 64
2.7. «Ecce robot»: la rivoluzione digitale del mondo del lavoro 68

Capitolo III
L’ESPRESSIONE INDIVIDUALE DELLA PATOLOGIA SOCIALE

3.1. La «fatica di essere se stessi»: depressione e società 74


3.2. L’«ordine-della-vita» del Typus Melancholicus 78
3.3. L’«individualizzazione» della patologia sociale 83
3.4. Soffrire di indeterminatezza 86
Capitolo IV
LE PATOLOGIE DELLA RAGIONE E DELLA LIBERTÀ

4.1. La «patologia della ragione» e l’eredità della Teoria critica 89


4.2. La reificazione come «oblio del riconoscimento» 94
4.3. Per una teoria della giustizia come analisi della società 103
4.4. Tre differenti modelli di libertà: negativa, riflessiva, sociale 106
4.5. La «possibilità» della libertà: libertà giuridica e libertà morale 111
4.6. La «realtà» della libertà: la libertà sociale e il mercato del lavoro 114

FONTI BIBLIOGRAFICHE 124

SITOGRAFIA 132
AVVERTENZA

Occorre aiutare il genere umano a uscire dai


primitivi stadi della paura e della paziente
ottusità e avviarlo alla fase dell’attività
sagace. Bisogna fargli capire che gli effetti,
dei quali prima si avvistano e poi si annullano
le cause, non hanno alcun vigore, e quasi tutte
le sofferenze del singolo sono malattie
dell’organismo sociale. Bene! Queste sono le
intenzioni della patologia sociale.1

Thomas Mann, Der Zauberberg

Il presente lavoro ha come oggetto di studio le fonti sociali della sofferenza, ciò
che il filosofo tedesco Axel Honneth ha definito patologie sociali. Alla luce delle
molteplici ed inedite forme di disagio che condizionano negativamente la nostra vita
individuale e collettiva, in queste pagine mi sono proposto di esaminare la qualità del
tessuto sociale nelle società capitalistiche, interrogandomi sugli esiti patologici legati
in primo luogo all’organizzazione neoliberista del mercato del lavoro. Il metodo
d’indagine che ho adottato è debitore della proposta filosofica di Honneth, o più in
generale, della tradizione della teoria critica, dunque si presenta essenzialmente un
metodo negativo. Per quanto concerne la letteratura di riferimento ho scelto di
attingere da un repertorio eterogeneo e multidisciplinare, offerto in prevalenza da
ricerche in ambito sociologico e psicologico-sociale. Infine, il contesto filosofico in
cui mira ad inserirsi questo lavoro è quello proprio della filosofia sociale
contemporanea, almeno per come è stata delineata dallo stesso Honneth, il cui fine
prioritario risiede proprio nell’identificazione delle fonti sociali della sofferenza.2

1
T. Mann, Der Zauberberg, trad it. La montagna incantata, Corbaccio, Milano 2012. cit., p. 242.
2
A. Honneth, Patologie del sociale (1994), in La liberà negli altri, Saggi di filosofia sociale, a cura di
B. Carnevali, Il Mulino, Bologna 2017.

1
Nel primo capitolo ho presentato due concetti chiave della riflessione di Axel
Honneth, i quali hanno guidato l’intero svolgimento della presente tesi: il concetto di
patologia sociale e quello di riconoscimento. Ho mostrato il legame che intercorre tra
questi concetti iscrivendoli all’interno del discorso della filosofia sociale. Questa
istanza di riflessione critica ha il compito di diagnosticare sviluppi distorti, derive o
patologie della realtà sociale che precludono ai soggetti la possibilità di condurre una
“vita buona”, nei termini di una vita riuscita. In tale contesto, la teoria del
riconoscimento di Honneth assume un ruolo normativo fondamentale: in gran parte di
questo lavoro operare una diagnosi delle patologie sociali ha infatti significato rilevare
le cause strutturali e socialmente determinate della distorsione dei rapporti di
riconoscimento. Ho inoltre dedicato il seguito del capitolo ad un approfondimento
ulteriore della teoria del riconoscimento, concentrando l’attenzione sugli elementi
patologici individuati da Honneth nella sfera dei rapporti interpersonali, nelle
dinamiche di gruppo, e nelle istituzioni delle società contemporanee.
Da queste analisi sono emersi alcuni elementi che definiscono le caratteristiche
metodologiche della diagnosi di una patologia sociale. In primo luogo, una diagnosi
sociale – pur partendo dalla sofferenza soggettivamente vissuta – deve spingersi a
ricercare le cause di tale sofferenza al di fuori dei confini individuali, nella dimensione
delle interazioni sociali. In secondo luogo, attraverso gli standard normativi offerti
dalla teoria del riconoscimento di Honneth, una diagnosi sociale deve poter essere in
grado di valutare qualitativamente le modalità attraverso le quali gli individui si
rapportano tra loro e le pratiche sociali a cui essi partecipano e che al contempo
costituiscono. In terzo luogo, una diagnosi sociale poggiante sul paradigma del
riconoscimento deve saper distinguere forme di riconoscimento positive da forme di
riconoscimento ideologiche, le quali mirano a ingenerare nei soggetti forme di
assoggettamento volontario.

Lo studio di Honneth sull’ideologia del riconoscimento in relazione al mercato


del lavoro capitalistico mi ha permesso in seguito di collegare le istanze
antropologiche del riconoscimento all’intento critico della filosofia sociale. Ho dunque
dedicato il secondo capitolo ad un’analisi critica dell’ideologia del capitalismo
contemporaneo e alle patologie sociali ad esso collegate, mostrando come il mercato
del lavoro neoliberista sfrutti meccanismi ideologici fondati su un riconoscimento
meramente simbolico al fine di regolare le condotte dei soggetti. Ho esaminato alcune

2
problematiche legate alla configurazione che il mercato del lavoro è venuto ad
assumere negli ultimi decenni, concentrando l’attenzione sulle conseguenze che tali
trasformazioni hanno avuto sulla qualità e sulla gestione della nostra vita individuale
e collettiva. In tale contesto, ho riflettuto sul significato ideologico che oggi si suole
attribuire ai concetti di autonomia, responsabilità ed autorealizzazione. Nel seguito
del capitolo ho esaminato diverse patologie sociali legate al mercato del lavoro
capitalistico. Partendo dalle riflessioni di Durkheim sulla divisione del lavoro sociale,
ho voluto approfondire le ragioni che stanno alla base dell’insensatezza percepita nei
confronti del proprio lavoro, appoggiandomi alle recenti pubblicazioni
dell’antropologo statunitense David Graeber. In seguito mi sono concentrato sul
rapporto che intercorre tra redistribuzione materiale e riconoscimento sociale. Infine
ho riservato un’analisi alle trasformazioni che la rivoluzione digitale sta apportando
nel mondo del lavoro. Dalla disamina complessiva è emersa l’immagine di un mercato
del lavoro deregolamentato, flessibile, svuotato di senso ed ideologicamente protetto,
le cui pressanti richieste aumentano proporzionalmente alla rimozione sistematica di
tutele e sicurezza, e sotto le quali gli individui sembrano più soffrire che prosperare.

Nel terzo capitolo mi sono occupato dunque dell’espressione individuale della


patologia sociale, spostando l’attenzione sulle forme di sofferenza sociale vissute in
prima persona dai soggetti. Ho scelto di esaminare due diverse letture dei disturbi
depressivi, una sociologica (A. Ehrenberg), l’altra psichiatrico-fenomenologica (H.
Tellenbach), al fine di mostrare come in entrambe sia ravvisabile un richiamo alla
qualità del tessuto sociale e normativo in cui si muovono i soggetti. Tale analisi ha
avuto lo scopo di evidenziare la parzialità di quelle letture che tendono ad
individualizzare la sofferenza mentale, trascurando il potenziale ruolo patogeno che
può assumere l’ambiente esterno al soggetto. Queste letture sono infatti da considerarsi
il prodotto di un medesimo discorso ideologico, il quale le rende incapaci di
riconoscere l’orizzonte sociale della patologia.

Nel quarto ed ultimo capitolo ho preso in esame diverse patologie sociali


evidenziate da Honneth, arricchendone il contenuto con del materiale offerto da altri
autori. In primo luogo il concetto di patologia della ragione, il quale assume una
posizione centrale nell’itinerario teorico della filosofia sociale e conferisce maggiore

3
unitarietà alla tradizione della teoria critica. In secondo luogo ho esaminato l’audace
tentativo di Honneth di riattualizzare il concetto di reificazione all’interno di una teoria
del riconoscimento, evidenziandone pregi e criticità. Infine ho riservato il resto della
trattazione all’ultima grande opera di Honneth Il diritto della libertà. Seguendo il suo
tentativo di ricostruzione normativa della vita etica, ho voluto dedicare particolare
attenzione alle patologie sociali legate all’interpretazione erronea della libertà
negativa e morale, entrambe le quali riflettono e incentivano comportamenti
desolidarizzanti e meramente individualistici. Tornando infine a riflettere sulla sfera
dell’agire economico – e in modo particolare sul mercato del lavoro capitalistico – è
emersa con maggiore chiarezza l’impossibilità di rintracciare in tale sfera una
dimensione etica che ponga l’accento su una liberta sociale fondata sulla cooperazione
intersoggettiva del riconoscimento.

Scrivere sulle fonti sociali della sofferenza ha voluto dire confrontarsi con un
interrogativo nodale, la cui urgenza e complessità richiama all’attenzione i molteplici
campi del sapere: l’economia, la politica, le scienze sociali, la filosofia. Parafrasando
le parole di Ludwig Wittgenstein, ho voluto riassumerlo in questo modo: «Questo
gioco» – il mondo sociale che si è venuto a configurare e a cui volontariamente o meno
tutti ci troviamo a dover partecipare – «lo possiamo giocare davvero? E soprattutto, è
davvero quello giusto?»3.

3
«Tutto è diventato talmente complicato che, per raccapezzarsi, ci vorrebbe uno spirito eccezionale.
Non basta più, infatti, giocare bene il gioco. La questione è un'altra e torna incessantemente a riproporsi:
questo gioco, ora, lo possiamo giocare davvero? Ed è davvero quello giusto?» L. Wittgenstein, Ricerche
filosofiche (1937), Einaudi 2009. cit., p. 121.

4
Capitolo I

LA FILOSOFIA SOCIALE E LA TEORIA DEL RICONOSCIMENTO

Il filosofo non è un medico: il suo lavoro non


è guarire gli individui ma comprendere il
mondo in cui vivono; capirlo nei termini di ciò
che esso ha fatto all’uomo, e di ciò che può
fare all’uomo.4

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione

1.1. Il compito e il metodo della filosofia sociale

Il primo scritto che Axel Honneth dedica al tema delle patologie del sociale risale
al 1994 e porta il titolo Patologie del sociale: tradizione e attualità della filosofia
sociale. Nel saggio in questione Honneth si propone di ricostruire storicamente
l’ambizione e il compito della filosofia sociale, chiarendo come la funzione attuale di
tale disciplina sia da ricercarsi propriamente nel «determinare e interpretare certi
processi di sviluppo della società che si possono intendere come derive o
perturbazioni», o in altri termini, come «patologie del sociale» (Pathologien des
Sozialen)5. Il compito peculiare di questa disciplina consiste dunque nella diagnosi di
derive patologiche, ossia nell’individuazione e nella comprensione di quei «processi
di sviluppo sociale che precludono agli esponenti di una data società la possibilità di
condurre una “vita buona”»6. In tal senso, la filosofia sociale si presenta come un
indirizzo di ricerca originale in grado di rivendicare un proprio spazio di legittimità,
sebbene resti profondamente connesso alle istanze della filosofia politica e della
filosofia morale.

4
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (1964), Einaudi,
Torino 1967, cit., p. 197.
5
A. Honneth, Patologie del sociale (1994), in La liberà negli altri, Saggi di filosofia sociale, a cura di
B. Carnevali, Il Mulino, Bologna 2017, cit., p. 38.
6
Ivi, p. 39.

5
Per meglio comprendere il compito, le ambizioni e gli strumenti concettuali a
disposizione della filosofia sociale, Honneth ricostruisce in questo saggio la genesi e
lo sviluppo della disciplina, evidenziando quegli elementi di continuità rintracciabili
nel suo dispiegarsi storico che hanno contribuito a definirne i contorni.
Nonostante sia stato Thomas Hobbes a coniare il termine “filosofia sociale”7,
Honneth in questo saggio ritiene che il vero padre fondatore della disciplina sia il
ginevrino Jean-Jacques Rousseau.8 La scelta di Honneth è motivata dal fatto che,
mentre la filosofia politica di Hobbes mirava a indagare quei presupposti giuridici che
garantissero la sopravvivenza dello Stato assoluto nell’atmosfera di un guerra civile di
matrice religiosa; Rousseau, un secolo più tardi, si interessava a ricercare i fattori
causali della degenerazione della società borghese dell’epoca, nella quale «la crescente
pressione della concorrenza politica e sociale aveva indotto una proliferazione di
pratiche di condotta e orientamenti fondati sull’inganno, la simulazione e l’invidia»9.
Questo cambio di rotta, secondo Honneth, non solo segna l’atto di nascita della
filosofia sociale, ma ne delimita anche i compiti e le ambizioni: agli albori del processo
di modernizzazione capitalistica, scrive Honneth: «Rousseau cercava di capire se
quella forma di vita sociale, presa nel suo insieme, potesse ancora garantire i
presupposti pratici dai quali dipendeva la capacità degli esseri umani di condurre una
vita buona, cioè una vita riuscita»10.
Già nel suo Discorso sulle scienze e le arti del 1750, Rousseau affermava che le
scienze e le arti, lungi dal purificare i costumi, avevano contribuito a corromperli,
rispondendo negativamente al quesito proposto dall’Accademia di Digione.11 Le cause
della corruzione risiedevano, tra le altre, negli schemi comportamentali artificiali e
omologanti imposti dalla società, nella quale – secondo Rousseau – «regna una vile e
ingannevole uniformità e tutti gli spiriti sembrano usciti dallo stesso stampo: senza
posa la civiltà esige, la convenienza ordina; senza posa si seguono gli usi e mai il
proprio genio»12.

7
T. Hobbes, Leviathan (1651), 3 vol. Oxford, Clarendon Press 2012; trad. it. Leviatano, Rizzoli, Milano
2013.
8
Nelle prime pagine di Lotta per il Riconoscimento (1992) la nascita della filosofia sociale moderna
viene a coincidere con l’idea della vita sociale come lotta per l’autoconservazione. In questo contesto il
riferimento esplicito è a Machiavelli e Hobbes.
9
A. Honneth, op. cit., p. 40.
10
Ivi, p. 71.
11
«Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi».
12
J. J. Rousseau, Discours sur les sciences et les arts (1750); trad. it. Discorso sulle scienze e sulle arti,
in Discorsi, BUR, Milano 2007, cit., p. 44.

6
Alcune delle intuizioni presenti nel primo Discorso di Rousseau assumono
maggior spessore argomentativo nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della
disuguaglianza tra gli uomini del 1754, dove egli delinea la celebre condizione
primigenia dell’uomo: lo stato di natura anteriore a ogni successivo sviluppo sociale.
Nella Prefazione del testo Rousseau afferma che per conoscere l’origine della
disuguaglianza tra gli uomini occorre prima conoscere l’uomo “naturale”, in modo da
comprendere cosa nell’essere umano deve considerarsi “originario” e cosa invece
“acquisito” dal processo di civilizzazione. Scrive Rousseau:

Altri potranno agevolmente andar più innanzi sulla stessa via, senza che ad alcuno
sia facile pervenire al termine, perché non è lieve impresa districare ciò che v’è
d’originario e d’artificiale nella natura attuale dell’uomo, e conoscer bene uno stato
che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai,
di cui pertanto è necessario aver nozioni giuste, per giudicar bene del nostro stato
presente.13

Quanto scritto nella Prefazione è fondamentale per comprendere le ragioni alla


base del suo progetto filosofico-sociale: l’idea di fondo non è quella di ricostruire
attraverso un procedimento storico-antropologico le condizioni reali dell’uomo
antecedenti al processo di civilizzazione («conoscer bene uno stato che non esiste più,
che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai»), bensì quello di
costruire un’ipotesi teorica razionalmente fondata che abbia come fine quello di
sottoporre a una critica radicale la società esistente, affinché si possa «giudicare bene
del nostro stato presente» attraverso “nozioni giuste”. In questi termini si comprende
come lo stato di natura e le caratteristiche dell’uomo naturale diventano la pietra di
paragone attraverso la quale egli può addurre a quei criteri di valutazione necessari
alla sua diagnosi critica della società civilizzata.
Ciò che qui importa maggiormente non riguarda però il contenuto effettivo della
diagnosi di Rousseau – le cause e le modalità del trapasso dall’uguaglianza primitiva
dello stato di natura, alla disuguaglianza propria della società progredita – ma
l’originalità nel modo in cui egli pone il problema e la metodologia adottata nella
ricerca di una soluzione. Infatti, l’operazione critica di Rousseau nel diagnosticare
patologie sociali che si oppongono al fine dell’autorealizzazione del soggetto, diviene
possibile solo avendo a disposizione la forma dell’essere umano presociale, senza la

13
J. J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondaments de l’inègalitè parmi les hommes (1755); trad
it. Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini, in Discorsi, BUR, Milano 2007, cit., p. 92.

7
quale egli non può appellarsi a un criterio di giudizio che – trascendendo la datità
presente – permette legittimamente di criticarne le condizioni. Secondo Honneth, lo
sforzo di Rousseau di concepire la vita dell’epoca come una sorta di “alienazione”
dalla forma di esistenza primitiva, è ciò che consente di legittimare la sua operazione
critico-diagnostica.
Honneth sostiene che il tentativo di diagnosi sociale intrapreso da Rousseau abbia
fatto scuola agli altri esponenti della tradizione della filosofia sociale, ponendo le basi
metodologiche della disciplina; egli scrive: «Anche in epoche successive, del tutto a
prescindere dai mutamenti occorsi nel frattempo sul piano dei rapporti sociali, il
richiamo a una forma ideale di condotta umana radicata nella conformazione
antropologica di base della specie avrebbe costituito una delle forme di legittimazione
teorica della disciplina»14. Sin dalle sue origini storiche la filosofia sociale non si è
limitata a perseguire finalità meramente descrittive nei confronti di un determinato
assetto sociale; in essa è da sempre ravvisabile un orientamento critico-diagnostico, il
quale ha richiesto la costruzione di standard normativi di riferimento sui quali
poggiare l’operazione diagnostica.
Continuando la ricostruzione del dispiegarsi storico della filosofia sociale,
Honneth elenca numerosi tentativi diagnostici che, seppur sostanzialmente differenti,
condividono la medesima struttura di fondo: il resoconto diagnostico di Hegel sulle
patologie della libertà negativa e l’accrescere del particolarismo individuale, il quale
presuppone un condizione di unità sociale; la critica di Marx all'alienazione dei
lavoratori causata dal modo di produzione del sistema capitalistico, la quale poggia su
importanti assunti antropologici; l’analisi di Nietzsche sul nichilismo e la perdita
dell’impalcatura valoriale che ha dissolto la capacità del singolo di conferire un senso
alla propria esistenza; la critica di Lukács alla reificazione del mondo sociale
quotidiano causata dai meccanismi strutturali del capitalismo industriale; e la diagnosi
di Horkheimer e Adorno della deformazione patologica della razionalità operata delle
logiche strumentali del sistema capitalistico. Inoltre, in numerose e più recenti diagnosi
sociologiche delle patologie del mondo contemporaneo troviamo il motivo ricorrente
di autorealizzazione umana compromessa dagli sviluppi del neoliberismo.
Da questo breve excursus storico, abbozzato in modo impressionistico, emerge che
il compito spettante alla filosofia sociale – almeno per come Honneth lo presenta

14
A. Honneth, op. cit., p. 48.

8
attraverso le riflessioni di Rousseau, Hegel, Marx, Adorno e molti altri15 – è quello di
«sottoporre a critica una fattispecie sociale percepita come estraniata, svuotata di
senso, reificata o addirittura malata»16. I concetti utilizzati nelle diagnosi storicamente
determinate (“alienazione”, “reificazione”, “nichilismo”, “mercificazione”,
“disincanto”, ecc.) si riferiscono indirettamente nel loro complesso a una
rappresentazione di “normalità” costituita da precondizioni sociali modellate sulle
condizioni di possibilità dell’autorealizzazione dell’essere umano. La possibilità di
diagnosticare una patologia sociale, e dunque la legittimità della filosofia sociale
stessa, viene a dipendere strettamente dalla presenza di questi assunti di base.
Traducendo tale concetto nel vocabolario medico utilizzato da Honneth, possiamo
riassumere che la diagnosi, intesa come comprensione di una malattia che affligge un
corpo, per essere legittima, necessita di standard di normalità – o meglio di sanità – a
cui fare riferimento. Senza comprendere quali sono i prerequisiti che permettono di
giudicare un corpo come sano, diventa di fatto impossibile legittimare a fondo il
tentativo diagnostico della filosofia sociale.
Prima di proseguire all’ultima importante questione è necessario precisare alcuni
importanti passaggi del ragionamento svolto fin qui. Ogni teorico preso in analisi da
Honneth ha indicato una patologia sociale che turba la società in cui vive,
identificando la società stessa come causa di quel particolare disturbo. Il disturbo
identificato viene considerato una “patologia” in quanto ostacola la capacità di
autorealizzazione degli individui. Ogni teoria ipotizza che la patologia evidenziata
insorga in un preciso momento storico e utilizza questo punto di riferimento
storicamente determinato per sottoscrivere la storia causale della deriva patologica in
questione, dimostrandone al contempo la natura contingente e dunque la possibilità
effettiva di un suo superamento attraverso una diversa forma di vita sociale. Si è
mostrato inoltre come il metodo diagnostico è sempre un metodo negativo, debitore
della filosofia hegeliana: la filosofia sociale non parte da standard normativi ideali,
bensì dall’analisi di particolari pratiche reali storicamente situate.
Ciò detto, rimane in ultima istanza da chiederci come Honneth giustifica le pretese
normative della filosofia sociale senza appellarsi ad una riflessione propriamente

15
Nell’elenco di Honneth sono presenti anche Plessner, Tocqueville, Mill, Freud, Simmel, Tönnies,
Durkheim, Weber, Spengler, Dewey, Fromm, Marcuse, Bataille, Gehlen, Heller, Marcuse, Habermas,
Foucault e Taylor.
16
Ivi, p. 70.

9
morale. Egli rifiuta, giudicandolo fallimentare, il richiamo a norme ideali di moralità
e giustizia che possano fungere da criteri normativi validi in una società multiculturale
come quella contemporanea, sostenendo che solo la ricerca di standard normativi
transculturali possono oggi giustificare la distinzione tra ciò che è patologico e ciò che
non lo è. Ne consegue che solo una concezione puramente formale della vita etica può
adempiere a un simile compito. Piuttosto che articolare specifici valori sostanziali,
Honneth considera le condizioni sociali generali richieste per la realizzazione di
qualsivoglia modo di vita. Come scrive Christopher Zurn a riguardo: «In un colpo solo
la teoria è in grado di adattarsi a gran parte della diversità del pluralismo etico
contemporaneo poiché non mira a scegliere o difendere alcuna particolare forma di
autorealizzazione. È più orientato verso le strutture e le relazioni sociali che
consentono – o impediscono – ogni opportunità di realizzazione»17.
Honneth non intende certo ricostruire lo spettro completo delle caratteristiche
universali della vita umana, bensì concentrarsi su quelle determinazioni che incidono
sull'opportunità di ognuno di condurre una “vita buona”. In tal modo, la concezione
formale e non sostanziale della vita etica assume la forma di «un’antropologia debole
puramente formale» che tenta di «ricostruire alcune, poche, ma elementari, condizioni
della vita umana»18, senza riflettere usi e costumi di una specifica forma di vita
culturale. È dunque solo facendo rifermento a un’antropologia filosofica debole – nei
termini sopra descritti – e supportata empiricamente, che la filosofia sociale è
legittimata ad adempiere al compito diagnostico che le è proprio.
Il tentativo di Honneth di fondare un’etica formale o post-tradizionale insiste sulla
natura intersoggettiva dell’identità umana, la quale deve la sua esistenza, il suo
mantenimento e le condizioni di possibilità del suo sviluppo, ai rapporti di
riconoscimento reciproco (Anerkennung). Se il tentativo di fondazione etica di
Honneth nei termini di una teoria del riconoscimento potrà dirsi riuscito, la diagnosi
di patologie sociali consisterà – almeno inizialmente – nel rilevare le cause strutturali
e socialmente determinate della distorsione dei rapporti di riconoscimento.19

17
C. F. Zurn, ‘Social Pathologies and Second-Order Disorders’, in Axel Honneth: Critical Essays. With
a Reply by Axel Honneth (ed. D. Petherbridge, Leiden-Boston: Brill), 2011, cit., p. 123. trad. mia.
18
A. Honneth, op. cit., p. 84.
19
Honneth utilizza il concetto formale di “vita buona” per indicare l’insieme delle condizioni
intersoggettive che fungono come presupposti necessari per l’autorealizzazione.

10
1.2. La teoria del riconoscimento di Axel Honneth

Un’etica formale nei termini di una teoria del riconoscimento deve rispettare
alcuni importanti requisiti se vuole adempiere alla funzione di standard di giudizio
normativo. Come riassume Honneth nelle pagine conclusive di Lotta per il
riconoscimento del 1992:

Le determinazioni ricercate devono perciò essere tanto formali o astratte da non


suscitare il sospetto che si tratti di mere deduzioni da interpretazioni concrete di vita
buona; d’altra parte, devono avere sufficiente concretezza materiale e determinazione
di contenuti da aiutare a conoscere le condizioni dell’autorealizzazione meglio di
quanto ci sia reso possibile dal riferimento kantiano dell’autonomia individuale.20

Un’etica puramente formale deve attingere dunque alle condizioni trascendentali della
costituzione dell’identità, cogliendo gli elementi strutturali e imprescindibili che
riguardano tutte le forme di vita umane, e al contempo, mantenendo un saldo legame
di concretezza con il particolarismo storico e culturale in cui si realizzano tali
condizioni. La scommessa di Honneth è quella di ricavare da più mondi della vita
quella struttura invariante, transculturale e formale che presiede alla formazione
dell’identità umana.
La premessa generale su cui fondare un’etica formale di questo tipo è dunque di
carattere essenzialmente antropologico, in quanto essa riguarda la dipendenza
propriamente umana dai rapporti di riconoscimento intersoggettivo. È infatti nel
bisogno di riconoscimento che Honneth individua quella “costante antropologica” che
– seppur manifestandosi in modi storicamente e culturalmente determinati –
caratterizza ogni forma di vita umana. In questi termini la teoria del riconoscimento si
colloca in una posizione intermedia tra un’etica di matrice kantiana e un’etica di
matrice comunitarista, stabilendo una certa equidistanza da entrambi i fronti: se con la
prima essa ha in comune l’interesse verso un respiro il più possibile universalistico,
con la seconda condivide l’attenzione verso la possibilità concreta
dell’autorealizzazione individuale, la quale dipende strettamente da concrete pratiche
di vita sociale. Ne consegue che un concetto di etica formale così delineato deve

20
A. Honneth, Lotta per il riconoscimento: Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano
2002, cit., p. 202.

11
fondarsi su «l’insieme delle condizioni intersoggettive che fungono da presupposti
necessari dell’autorealizzazione individuale»21.
I due principali autori di rifermento di Honneth sono Hegel e Mead, entrambi –
seppur in modi sostanzialmente differenti – hanno dimostrato come soggetti capaci di
agire quali noi siamo devono alle esperienze del riconoscimento reciproco la
possibilità di stabilire un rapporto positivo con sé stessi, e dunque la possibilità
effettiva di un’autorealizzazione. L’innovazione intersoggettivistica presente nel
progetto filosofico-sociale di Hegel e l’attualizzazione empirica nella psicologia
sociale di Mead guidano la costruzione dell’intera teoria del riconoscimento, o almeno
del suo impianto teorico presentato in Lotta per il riconoscimento.
Il metodo adottato da Honneth per ricercare le forme di riconoscimento che
fungono da presupposti necessari per l’autorealizzazione ricalca il metodo diagnostico
della filosofia sociale, il quale è sempre un metodo negativo. Attraverso una
«fenomenologia delle ferite morali»22, Honneth analizza in prima istanza le esperienze
percepite dai soggetti come “ingiuste”, ovvero le esperienze di negato riconoscimento.
È attraverso l’analisi dei diversi modi con cui una persona può venire disprezzata che
noi possiamo a posteriori dedurre l’insieme delle esperienze di riconoscimento
positive, fondamentali e necessarie a un essere umano per costituirsi come individuo.
Scrive Honneth: «Se il concetto di dignità umana nella sua completa integrità, si lascia
evincere solo approssimativamente dal ricorso alla determinazione dei modi
dell’offesa e del dispregio personali, ciò vuol dire, rovesciando il discorso, che
l’integrità delle persone umane dipende in maniera costitutiva dall’esperienza del
riconoscimento intersoggettivo»23. Quei comportamenti che noi definiamo “ingiusti”
non sono legati al solo danno fisico o materiale, ma sono giudicati tali in quanto ledono
in profondità il rapporto che ciascuno di noi intrattiene con sé stesso, in altri termini,
categorie come quelle dell’offesa e dell’umiliazione minacciano la nostra dignità di
persone. Queste esperienze negative rivelano il nucleo della teoria
dell’intersoggettività di Honneth: l’autocomprensione – ma anche la stessa integrità
personale degli esseri umani – è in un costitutivo rapporto con l’approvazione degli
altri.

21
A. Honneth, Disprezzo e Riconoscimento, Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, Rubbettino
Editore, Messina 1993, cit., p. 33.
22
A. Honneth, Riconoscimento e riproduzione sociale. Sui fondamenti normativi di una teoria della
società, in Capitalismo e riconoscimento, University Press, Firenze 2010, cit., p. 20.
23
Ibid.

12
Le esperienze di negato riconoscimento vengono indicate da Honneth con la
categoria dello «spregio»24 e articolate in tre diversi gradi di violenza, ognuno dei quali
minaccia una diversa forma di rapporto che ciascuno intrattiene con sé. La prima forma
di misconoscimento minaccia l’integrità fisica di una persona: «Le forme di
maltrattamento che con la violenza tolgono a una persona qualsiasi possibilità di
disporre liberamente del proprio corpo rappresentano la forma più elementare di
umiliazione personale»25. Honneth, sulla scia delle ricerche psicologiche che
esaminano le conseguenze di episodi traumatici di violenza, definisce morte psichica
l’esperienza che nega alla persona la possibilità di disporre pienamente del proprio
corpo a causa dal controllo esercitato da un altro soggetto. In atti di violenza come la
tortura o lo stupro, al dolore subìto dal soggetto si combina un senso di vulnerabilità
nel quale egli si sente esposto al volere altrui senza alcuna possibilità di difesa. Ogni
tentativo di imporre il controllo sul corpo di una persona contro la sua volontà incide
in modo distruttivo sull’autorelazione personale, in quanto l’impossibilità di disporre
pienamente di sé mina il senso di fiducia primario nei confronti di noi stessi e
dell’ambiente sociale circostante.
Mentre la prima forma di misconoscimento concerne l’esperienza del singolo in
relazione a episodi di maltrattamento e violenza fisica, il secondo grado riguarda il
rapporto che intercorre tra il singolo e la comunità. Appartengono a questa seconda
ferita morale – scrive Honneth – «quelle forme di spregio personale che colpiscono
un soggetto escludendolo strutturalmente dal possesso di determinati diritti
nell’ambito di una società»26. In quella che Honneth definisce morte sociale è infatti
in gioco la comprensione normativa di sé come «un membro integrato in una comunità
che partecipa con diritto pari agli altri all’ordinamento istituzionale della stessa»27. In
tal senso, se a una persona vengono negate quelle pretese individuali che essa può
legittimamente far valere nei confronti della comunità, essa percepirà questo
comportamento come “ingiusto”, in quanto si vedrà negata una capacità di intendere e
di volere pari a quella degli altri membri della comunità. Forme di emarginazione
sociale o di privazione dei diritti ricalcano questa logica di mancato riconoscimento,
in quanto, impedendo ai soggetti di partecipare al funzionamento della comunità, li

24
Ivi, p. 19.
25
Ivi, p. 20.
26
Ivi, p. 21.
27
Ivi, p. 22.

13
collocano in una posizione gerarchicamente inferiore, negandogli di fatto una capacità
morale o cognitiva pari a quella degli altri membri. Secondo Honneth questa ferita
morale colpisce il rispetto di sé elementare, minando la capacità della persona di
autocomprendersi come un soggetto uguale a tutti gli altri.
L’ultima forma di negato riconoscimento è considerata da Honneth “valutativa”,
in quanto si riferisce a forme di svalutazione sociale nei confronti di determinati
modelli di autorealizzazione perseguiti dal singolo o da un gruppo. Solo qui infatti si
può parlare propriamente di “disprezzo”, in quanto questa terza forma di negato
riconoscimento colpisce lo “status” di una persona, ovvero «il grado di considerazione
sociale che, nell’orizzonte culturale di una società, attiene al modo di autorealizzazione
che una persona persegue»28. Svilire socialmente alcuni modelli di autorealizzazione
significa impedire ai soggetti di comprendere il loro ideale di vita come dotato di
significato. Questa forma di spregio viene definita da Honneth malattia, in quanto la
minaccia sempre presente di umiliazione sociale che colpisce alcune forme di vita, è
analoga a quella esercitata da un agente patogeno nei confronti di un corpo. Ciò che
comporta una siffatta forma di spregio è una lesione della stima di sé, la quale emerge
solamente dall’approvazione solidale e dal riconoscimento della propria peculiare
forma di vita.

Le tre ferite morali esaminate da Honneth minacciano la possibilità di


autorealizzazione individuale in quanto colpiscono tre corrispondenti forme di
autorelazione. A queste forme negative devono corrispondere altrettante forme di
riconoscimento positivo, le quali andranno a costituire l’infrastruttura intersoggettiva
che sta a fondamento di ogni individualità. Egli infatti sostiene che le tre forme di
spregio contengono già un riferimento indiretto ai presupposti intersoggettivi
dell’autorealizzazione.
Il rapporto di riconoscimento corrispondente alla prima forma di spregio viene
definito – con riferimento al lessico hegeliano – con il termine amore. Esso denota
l’investimento emotivo necessario al singolo per raggiungere un primo grado di fiducia
in sé: «Il livello fondamentale di sicurezza emotiva, legata al corpo, nell’esprimere
bisogni e sentimenti propri, che costituisce il presupposto psichico dello sviluppo di
tutti gli ulteriori atteggiamenti di stima verso sé stessi»29. La sfera del riconoscimento

28
Ivi, p. 23.
29
Ivi, p. 27.

14
affettivo dell’amore si presenta dunque come un’esperienza fondamentale per ogni
soggettività, in quanto realizza quel “movimento della vita” – direbbe Jan Patočka –
caratterizzato dell’accettazione e dall’approvazione affettiva da parte dell’altro, che
attraverso forme di dedizione e di incoraggiamento, pone le basi per la costituzione di
un’identità.30 Il carattere fondativo di questa sfera del riconoscimento non può che
riguardare l’ambito delle relazioni primarie – famigliari, amicali e amorose –
risentendo dunque di un «particolarismo morale» che resiste ad ogni tentativo di
generalizzazione, in quanto poggiante su premesse indecidibili di attrazione e
simpatia.

Si è visto in precedenza come la seconda ferita morale riguarda forme di


emarginazione sociale e privazione di diritti, le quali possono considerarsi meccanismi
che comportano una negazione della capacità di riconoscersi come un soggetto di
diritto a pieno titolo. È proprio con il termine diritto che Honneth definisce la relazione
di riconoscimento positivo deducibile dalla seconda forma di spregio. Questa sfera di
riconoscimento presenta un carattere essenzialmente cognitivo, in quanto concerne la
possibilità del singolo di autocomprendersi come un soggetto portatore di diritti
attraverso l’assunzione della prospettiva dell’«altro generalizzato». «Ego e Alter» –
scrive Honneth – «si riconoscono reciprocamene come persone giuridiche in quanto
possiedono una comune conoscenza di quelle norme attraverso le quali vengono
regolati i diritti e i doveri che loro competono in misura eguale nell’ambito delle
rispettive comunità»31. Il rapporto di riconoscimento giuridico conferisce un
elementare senso di rispetto di sé, in quanto il soggetto, attraverso il rispecchiamento
nell’Altro, si autocomprende come un attore moralmente capace di intendere e di
volere. Diversamente dalla precedente, questa sfera di riconoscimento non risente di
un particolarismo morale, bensì in essa è insito un universalismo di principio che si
sviluppa mediante battaglie storiche di gruppi sociali che lottano per l’acquisizione o
per l’ampliamento della sfera dei diritti individuali e sociali.

La terza e ultima sfera di riconoscimento individuata da Honneth riguarda


direttamente l’attribuzione di valore a forme di autorealizzazione individuale e si

30
In proposito cfr. J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, Mimesis, Milano – Udine 2003;
J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 2002.
31
Ivi, p. 28.

15
manifesta nella forma di «un rapporto di approvazione solidale verso stili di vita
alternativi»32. Il rapporto positivo con sé che il soggetto può esperire mediante questa
sfera di riconoscimento è niente di meno che la stima di sé stesso. Infatti, solo se il
soggetto viene stimato dai propri partner della comunicazione come una persona
«biograficamente individuata»33, sarà in grado di identificarsi pienamente nelle sue
qualità e nelle sue capacità peculiari. In questa terza forma di riconoscimento, definita
da Honneth solidarietà, vi è un ritorno alla dimensione individuale e all’aspirazione
del singolo di essere riconosciuto nella sua unicità. Se dunque la prima sfera è
riconducibile ai rapporti affettivi primari, e la seconda ai rapporti giuridici vigenti in
una determinata società, la terza sfera dipende da forme di riconoscimento
istituzionalizzate, le quali determinano il valore delle scelte di vita individuale
mediante standard di riferimento socialmente condivisi.
Le tre sfere di riconoscimento individuate da Honneth, riassunte nei termini
dell’amore, del diritto e della solidarietà, assumono la forma di condizioni necessarie
alla costituzione di una soggettività integra, in quanto:

Senza una certa misura di fiducia in sé, di autonomia garantita giuridicamente e di


sicurezza nel valore delle proprie capacità non si può presupporre la riuscita
dell’autorealizzazione, posto che la si intenda nei termini di un processo di
realizzazione non forzato di obbiettivi esistenziali scelti in modo autonomo.34

Dalla connessione esistente tra l’esperienza delle tre forme di riconoscimento


intersoggettivo e la possibilità di una relazione positiva con sé stessi emerge la struttura
intersoggettiva dell’identità personale. La teoria del riconoscimento delineata da
Honneth mostra infatti come il processo di soggettivazione è intersoggettivamente
condizionato, sia per quanto riguarda il ruolo fondativo della sfera delle relazioni
affettive primarie, sia per quanto concerne il mantenimento della propria identità
individuale e l’estensione delle proprie capacità, dal momento in cui «l’estensione di
tali qualità e il grado di positività dell’autorelazione cresce con l’accedere ad ogni
nuova forma di riconoscimento che il singolo può riferire a sé come soggetto»35. Se
nelle relazioni affettive primarie della sfera dell’amore è contenuta la possibilità della

32
Ivi, p. 29.
33
Ivi, p. 30.
34
Ibid. (corsivo mio).
35
Ivi, p. 33.

16
fiducia in sé, in quella dei rapporti giuridici del diritto la possibilità del rispetto di sé,
e nella sfera della solidarietà la possibilità della stima di sé, allora queste tre sfere di
riconoscimento possono considerarsi come i presupposti intersoggettivi necessari a
qualsiasi forma di autorealizzazione individuale.
Una delle difficoltà che però emerge nei tre modelli di riconoscimento presentati
da Honneth è che due di essi – ciò che è stato definito diritto e solidarietà – implicano
in sé stessi il potenziale per un ulteriore sviluppo normativo. La relazione giuridica,
quanto la comunità solidale, generano infatti processi che mirano a estendere principi
di universalità e eguaglianza, i quali si presentano legati a un preciso sviluppo storico.
Questo, se da un lato implica la rinuncia di una quota di formalismo da parte di
Honneth, dall’altra articola il senso in cui è possibile concepire un progresso normativo
attraverso il dispiegarsi dialettico dei rapporti di riconoscimento. In questi termini
l’avanzamento normativo in questione assume la forma di una lotta perpetua per il
riconoscimento. Per questi motivi il tentativo di fondazione etica di Honneth viene da
lui stesso definito quasi-universale.

Si è mostrato come la prima fondazione fenomenologica della teoria del


riconoscimento è stata raggiunta in via negationis. Attraverso le tre ferite morali prese
in esame, Honneth ha dedotto tre rapporti di riconoscimento positivi corrispondenti,
concludendo che senza una piena fiducia in sé, un rispetto di sé garantito
giuridicamente, e una stima di sé, del proprio valore e delle proprie capacità, non può
esserci una piena autorealizzazione individuale. Le condizioni intersoggettive
dell’autorealizzazione dipendono infatti da presupposti che non ci appartengono e che
non sono a disposizione del singolo, ma che sono contenute nei rapporti di
riconoscimento con una cerchia sempre maggiore di partner sociali. La teoria del
riconoscimento, diversamente dalle etiche sostanziali, delinea dunque le condizioni
formali e quasi-universali di una “vita buona”, evitando la dipendenza da ideali
normativi storicamente determinati. In questo senso, scrive Honneth: «I diversi
modelli di riconoscimento rappresentano le condizioni intersoggettive che
necessariamente dobbiamo assumere ogni qualvolta dobbiamo descrivere le strutture
generali di una vita che sta riuscendo bene»36.

36
Ivi, p. 35.

17
Da quanto detto sin qui emerge una condizione antropologica di base fondata sul
bisogno di riconoscimento, dipendente da rapporti intersoggettivi e da pratiche sociali,
le quali si presentano come presupposti necessari per l’autorealizzazione di qualsiasi
forma di vita umana. A questo punto, prima di entrare nel vivo dell’analisi delle
patologie del sociale esaminando le distorsioni socialmente determinate dei rapporti
di riconoscimento, resta da affrontare un’ultima questione preliminare: chiarire come
interpretare l’autorealizzazione individuale alla luce della teoria del riconoscimento di
Honneth, in modo da mostrare come l’ideale dell’autorealizzazione perseguito nelle
nostre società, svuotato della dimensione intersoggettiva che ne costituisce il
fondamento, sia da considerarsi una concezione fuorviante, dal momento in cui
«l’autorealizzazione del soggetto individuale» – scrive Honneth – «riesce unicamente
quando si combina con l’autorealizzazione di tutti i membri della società, attraverso
principi o finalità universalmente accettate»37.

1.3. Decentrare l’autonomia: i fondamenti intersoggettivi del Sé

L’ideale dell’autorealizzazione, almeno per come viene perseguito e propagandato


nelle società contemporanee, appare decisamente ego-centrato. Di fatto
l’autorealizzazione, come ricorda Charles Taylor, è oggi innalzata a «valore principale
della vita, sembra riconoscere pochi imperati morali esterni, o seri impegni verso gli
altri»38. Questa diffusa concezione dell’ideale dell’autorealizzazione viene considerata
dallo stesso Taylor una «modalità deviante»39 – potremmo dunque dire patologica –
che alimenta crescenti livelli di narcisismo individuale, indebolendo legami sociali e
rigettando vincoli solidali e comunitari.
Nonostante i pericoli insiti nell’ideale dell’autorealizzazione, in particolare la sua
deriva egocentrico-narcisistica in cui si manifesta prevalentemente nelle società
contemporanee, siamo d’accordo con Taylor che condannarlo in toto sarebbe un grave
errore. Egli ritiene dunque corretto:

intraprendere un’opera di ripristino, di identificare e articolare l’ideale superiore


dietro pratiche più o meno degradate, e criticare quindi queste pratiche dal punto di
vista dell’ideale medesimo che le anima. In altre parole, anziché liquidare in blocco

37
A. Honneth, Patologie del sociale, cit., p. 38.
38
C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma 1994, cit., p. 49.
39
Ibid.

18
questa cultura, o avallarla così com’è, noi dobbiamo tentare di innalzare la sua prassi
rendendo più chiare agli occhi di quanti ne sono partecipi le implicazioni dell’etica
cui aderiscono.40

Il tentativo di ripristino proposto da Taylor ricalca la metodologia operativa della


filosofia sociale, in quanto l’articolazione di un «ideale superiore», nella forma di uno
standard normativo di riferimento già implicato nelle pratiche sociali, può condurci
alla critica delle medesime pratiche, mostrandone i presupposti etici a cui i soggetti
partecipanti già aderiscono. In breve, scrive Taylor: «Dobbiamo persuadere la gente
che l’autorealizzazione, lungi dall’escludere rapporti incondizionati e imperativi
morali che trascendono l’Io, li presuppone, in una forma o nell’altra»41.
Un modo per mostrare i presupposti etici che stanno a fondamento
dell’autorealizzazione è quello di appellarsi ad una filosofia dell’intersoggettività. La
prospettiva intersoggettivistica permette infatti di salvare il concetto di
autorealizzazione dalle derive patologiche ego-centrate, portando alla luce quei
presupposti intersoggettivi che ne determinano la sua reale possibilità di attuazione.
Non si tratta dunque di proporre un’immagine di autorealizzazione alternativa a quella
dominante, bensì di mostrare la dimensione etica già implicata in questa categoria.
Per comprendere il significato intersoggettivo di tale concetto è necessario, in
primo luogo, ridiscutere attraverso alcune riflessioni di Honneth l’immagine classica
della soggettività, appoggiandosi a due prospettive che più di altre hanno minato alle
fondamenta la concezione del soggetto capace di autodeterminazione: la «prospettiva
psicologica», riconducibile alla psicanalisi freudiana, e la «prospettiva strutturalistico-
linguistica», legata ai lavori di Wittgenstein e Saussure.42 La «prospettiva psicologica»
tenta di decostruire la soggettività classica insistendo sul carattere inconscio delle forze
pulsionali che muovono il soggetto; mentre la «prospettiva linguistica» insiste sulla
dipendenza del soggetto da significati linguistici preesistenti: in quest’ottica egli non
è mai “autore” di senso, in quanto non può mai istituire significati a partire da sé, bensì
è sempre un “erede”, la cui attribuzione di senso al mondo risiede in pratiche
linguistiche precostituite. Ne consegue che sia la dimensione inconscia che quella
linguistica co-determinano ogni forma di agire individuale, delegittimando qualsiasi
appello all’autonomia e all’autorealizzazione classicamente intesa. A questi tentativi

40
Ivi, p. 64.
41
Ibid.
42
A. Honneth, Autonomia decentrata, in La libertà negli altri, Il Mulino, Bologna 2017.

19
di decostruzione dell’Io individuati da Honneth, potremmo aggiungere il contributo –
o meglio il lascito intellettuale – del postmodernismo filosofico, ad esempio di
pensatori quali Michel Foucault, nonostante l’impatto delle loro riflessioni sulla natura
della soggettività sia stato a tratti paradossale. Infatti, la decostruzione della nozione
stessa dell’Io e di ogni determinazione a esso rivolta, ha ingenerato un senso di
scetticismo e di rifiuto indifferenziato verso qualsiasi standard normativo che non sia
quello autoimposto dal soggetto, finendo per giustificare pratiche meramente
individualistiche ed ego-fondate.43
Cercando di preservare il concetto di autonomia, senza però ignorare l’influenza
dei fattori esterni all’io, seguiremo con Honneth una via alternativa: quella di una
teoria della soggettività capace di interpretare le potenze esterne che condizionano il
soggetto – in particolare le sue pulsioni inconsce e «l’accadere linguistico» in cui esso
è già da sempre calato – come condizioni costitutive della sua autonomia. Honneth
infatti “decentra” l’idea di autonomia in modo che «l’autodeterminazione degli
individui non appaia più come un’antitesi delle potenze sottratte al controllo dell’io,
ma come una specifica forma di organizzazione»44 delle medesime. Attraverso questa
operazione teorica Honneth sposta l’attenzione verso una concezione intersoggettiva
del soggetto e delle condizioni della sua autorealizzazione.
Il concetto di «autonomia», come Honneth lo intende nel saggio Autonomia
decentrata, vuole significare il raggiungimento di «un certo grado di maturità psichica,
tale da consentire ai soggetti di organizzare la propria vita tenendo conto delle proprie
inclinazioni e dei propri personali bisogni, fino a plasmare una biografia originale»45.
In questi termini il concetto di autonomia utilizzato da Honneth viene a caratterizzarsi
attraverso due proprietà essenziali: «Un certo grado di conoscenza dei propri bisogni
personali e uno specifico sapere intorno al significato delle proprie condotte»46.
Honneth trova nella filosofia sociale di George Herbert Mead la base empirica in grado
di mostrare come i fattori esterni all’Io, considerati inizialmente come limiti
all’autodeterminazione individuale, costituiscano al contrario le sue stesse condizioni
di possibilità. Ad esempio, Mead mostra come il singolo soggetto può giungere a
un’autocoscienza riflessiva soltanto trasponendosi nella prospettiva dell’altro

43
Vedi A. Zhok, Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente, Meltemi, Milano
2020. cit., sez. 6, par. 27, ‘Ragione liberale e postmodernismo filosofico’ [versione Kindle].
44
A. Honneth, Autonomia decentrata, cit. p. 217.
45
Ivi, p. 221.
46
Ibid.

20
generalizzato, ossia «nella comunità intesa come sintesi di tutte le norme, aspettative,
consuetudini, valori e significati che dominano in una determinata area»47. È solo da
questo “rispecchiamento” che il soggetto apprende a guardare sé stesso come l’attore
di un’interazione sociale. Mead utilizza il termine «Me» per indicare l’immagine di
me stesso che assumo attraverso il punto di vista degli altri. Infatti, se diventare
coscienti di sé significa soprattutto disporre del significato dei propri gesti, allora il
contesto intersoggettivo in cui il soggetto è da sempre calato – tutt’altro dall’essere un
limite per la formazione dell’individualità – diviene una delle sue condizioni di
possibilità.
Ovviamente il Sé non si esaurisce nel Me. In questa dimensione di autocoscienza
oggettivata non si esprime ancora la soggettività privata, ma solo la soggettività
condivisa, sociale. Ciò che ci distingue propriamente dagli altri è infatti l’«Io», da
Mead inteso come la riserva pulsionale e creativa del soggetto che ne definisce la
peculiarità irriducibile. Se il Me appare come la dimensione socialmente dipendente
del Sé, l’Io – nel lessico di Mead – assume la forma imprevedibile e inarticolata dell’Es
freudiano. Affinché i bisogni pulsionali dell’Io possano venire ascoltati e articolati
coscientemente senza essere appiattiti sul Me, è necessario che il soggetto faccia
affidamento su un contesto linguistico intersoggettivo preesistente e su stabili rapporti
di riconoscimento. Dunque non solo il significato della propria condotta può essere
afferrato solo attraverso il rispecchiamento nell’altro generalizzato, ma anche
l’articolazione cosciente dei propri bisogni peculiari necessita di un contesto
intersoggettivo di riferimento. In questi termini, quelle componenti della soggettività
che sembravano delegittimare qualsiasi appello all’autonomia del soggetto si
dimostrano essere i presupposti fondamentali della sua costituzione.

Contrariamente alla prospettiva adottata dall’individualismo dominante,


l’approccio intersoggettivo mostra come qualsiasi ideale di autorealizzazione non può
essere perseguito in completo isolamento, ma che esso dipende strutturalmente da
presupposti di natura relazionale. Sembra dunque lecito concludere che l’ideale di
autorealizzazione “ego-centrato” esaminato da Taylor sia da considerarsi come una
forma patologica di autorealizzazione, in quanto, oscurando la natura “de-centrata”
della soggettività e i presupposti intersoggettivi che ne costituiscono il fondamento,

47
Ivi, p. 222.

21
nega la sua stessa possibilità di esistenza. Un frammento tratto dai Minima Moralia di
Adorno racchiude in poche righe il nucleo dell’argomento fin qui discusso:

Non solo l’io è strettamente intrecciato alla società, ma le deve la propria esistenza
nel senso letterale della parola. Tutto il suo contenuto proviene da essa. […]
L’individuo diventa tanto più ricco, quanto più si dispiega liberamente nella società
e la rispecchia, mentre la sua definizione e cristallizzazione, che esso rivendica come
origine, non fa che limitarlo, ridurlo e impoverirlo.48

Le parole di Adorno non si limitano a evidenziare il profondo legame che unisce


l’individuo alla società in cui vive, bensì ne mostrano la costitutiva dipendenza. Se da
un lato l’individuo, con i suoi comportamenti e il suo stile di vita, contribuisce a
produrre e riprodurre un certo tipo di società, dall’altro la società costituisce il
paesaggio di sfondo in cui esso già da sempre si muove, la cornice interpretativa che
permette di giustificare il nostro agire e di conferire senso alle nostre azioni. Questa
dimensione può però essere attraversata da tendenze patologiche, le quali non
garantiscono ai membri della società le precondizioni necessarie per costituirsi come
soggetti autonomi.

1.4. L’invisibilità sociale

L’esperienza del riconoscimento dell’altro è sempre accompagnata da un certo tipo


di comportamento, il quale si radica in un complesso di valori culturalmente situati e
socialmente condivisi. Honneth dedica un saggio del 2003 dal titolo Invisibilità al
tentativo di elaborare un’epistemologia e una morale degli atti primari di
riconoscimento, indagandone la dimensione performativa.49 Egli introduce
l’argomento poggiandosi su alcune espressioni utilizzate da Ralph Ellison nel suo
romanzo Invisible Man, nel quale la sofferenza vissuta dal protagonista viene descritta
nei termini di una peculiare condizione di “invisibilità”. Tale invisibilità, si dice, non

48
Th. W. Adorno, Minima Moralia, Meditazioni della vita offesa (1951), trad. it. di R. Solmi, Torino,
Einaudi 1994, cit., p. 181.
49
A. Honneth, Invisibilità (2003), in La libertà negli altri, Il Mulino, Bologna 2017, cit., pp. 122-140.

22
riguarda alcuna forma di deficienza visiva, bensì è imputabile alla «struttura degli
occhi interni» ed è legata ad «una intima disposizione»50 degli individui.
Le efficaci formule utilizzate da Ellison dipingono una forma di invisibilità di
carattere prettamente “sociale” che si traduce sul piano emotivo del protagonista in un
sentimento di negato riconoscimento. Espressioni come «attraversare da parte a parte
con lo sguardo»51, sono tutt’altro che espressioni innocue o semplici modi di dire, esse
riportano a una forma di disprezzo ostentato, come si può riscontrare nei numerosi
esempi storici in cui i soggetti dominanti esibiscono la propria superiorità
manifestando la loro non-percezione dei soggetti dominati. «Vi sono atteggiamenti
performativi» – spiega Honneth a tal proposito – «incaricati di rendere esplicito il fatto
che l’invisibilità dell’altro non è dovuta al caso, ma a una deliberata intenzione di non
vederlo»52. Comprendiamo quindi come si possa guardare intenzionalmente l’altro
come se egli fosse trasparente ai nostri occhi solo a patto di vederlo fisicamente. Questa
forma di invisibilità sociale presuppone dunque un piano percettivo primario, ma si
consuma su un piano differente: paradossalmente, per non essere visti, in senso
metaforico, bisogna essere visti.
Al contrario, la visibilità sociale deve essere sempre accompagnata da segni ed
espressioni volte a dimostrare l’avvenuto riconoscimento dell’altro. Tali dimostrazioni
assumono la forma di gesti e mimiche che riportano a un significato di accettazione e
di accoglienza. Infatti, ogniqualvolta assistiamo al mancato prodursi di queste forme
performative di riconoscimento primario ci sentiamo in qualche modo mancare di
rispetto. Ciò significa che “vedere” l’altro, nel senso di riconoscerlo come soggetto
morale, comporta l’adesione a un codice morale condiviso, il quale esige la presenza
di gesti e mimiche che “certifichino” pubblicamente l’avvenuto riconoscimento. Tale
codice, il quale riflette usi e costumi storicamente determinati e presuppone l’esistenza
di una sfera di significati condivisi, ci permette di interpretare il venir meno di alcuni
atti performativi come gesti volontari di negato riconoscimento.
Honneth si appella alle ricerche sul riconoscimento originario di Daniel Stern per
mostrare l’importanza del ruolo che il gesto e la mimica svolgono nei rapporti
intersoggettivi.53 Stern, nella sua opera Il mondo interpersonale del bambino, studia la

50
Ivi, p. 121.
51
Ivi, p. 126.
52
Ibid.
53
Cfr. D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, B. Boringhieri, Torino 1987.

23
modalità di interazione del neonato prima dei tre mesi d’età, mostrando come le sue
prime forme di interazione sociale – le quali non sono di natura meramente ricettiva –
si realizzano nello schema alternato di mutua regolazione di affetti e attenzioni con la
madre. Questo primo e fondamentale processo di interazione sociale, il quale contiene
il fulcro interpersonale dello sviluppo psicologico del bambino, passa in misura
significativa attraverso una comunicazione di tipo mimico-gestuale. Ad esempio, il
sorriso semivolontario suscitato nella madre dalla vista del suo bambino è un gesto
originario che segnala in forma sintetica e irriflessa la partecipazione emotiva
dell’adulto, predisponendo il bambino all’interazione.
Un meccanismo analogo, seppure in un contesto relazionale differente, si riscontra
nei comportamenti che adottiamo nell’incontro diretto con l’altro. Qui però,
diversamente da quanto avviene nel rapporto affettivo tra madre e infante – nel quale
gli atteggiamenti della madre sono risposte spontanee connesse allo schema corporeo
e alle movenze del piccolo –, il gesto e la mimica sono calibrati culturalmente e spesso
determinati dal tipo di rapporto sociale che intercorre tra gli interlocutori. Come le
precedenti, anche queste reazioni performative non sempre dipendono da forme
riflessive mediate, bensì appaiono spesso come manifestazioni spontanee di un
complesso di codici espressivi culturalmente condiviso volto a segnalare la presa
d’atto del valore altrui, o in altri termini, a riconoscerlo come «soggetto morale»,
predisponendolo positivamente all’eventuale interazione.
A questo punto si comprende come il problema dell’invisibilità sociale viene a
dipendere strettamente dall’assenza di un certo complesso di gesti – culturalmente
determinato ma universalmente esistente – volto a confermare l’avvenuto
riconoscimento dell’altro. Tale mancanza non si presenta come una casuale
dimenticanza, bensì come un atto volontario che ha come obbiettivo specifico la
svalutazione dell’altra persona. Se chiamiamo «invisibilità sociale» la condizione di
mancato riconoscimento del soggetto legata alle dinamiche espressive prese in esame,
allora il processo di volontaria negazione di riconoscimento può essere definito con il
termine «invisibilizzazione» («invisibilization»)54, per meglio caratterizzare la
dimensione attiva di quella che si presenta al soggetto come una forma di umiliazione.

54
C. F. Zurn, ‘Social Pathologies and Second-Order Disorders’, in Axel Honneth: Critical Essays. With
a Reply by Axel Honneth, ed. D. Petherbridge, Leiden-Boston: Brill, 2011, cit., p. 101. trad. mia.

24
Resta ora da chiedersi in quali termini l’invisibilizzazione sia da concepirsi
propriamente come una patologia sociale. Seguendo il lessico utilizzato da Zurn, e poi
accolto da Honneth nelle pagine de Il diritto della libertà, l’invisibilizzazione può
essere considerata un «second-order disorder»55 (disturbo di secondo-ordine). Cosa
Zurn intende con questa espressione si mostrerà meglio in seguito, qui basta introdurre
il suo utilizzo in rapporto alla patologia in esame. La struttura concettuale di un
second-order disorder viene rintracciata nella dissociazione che si opera tra la prima
e la seconda forma di riconoscimento, ovvero tra la dimensione percettivo-cognitiva
del riconoscere e quella propriamente morale del riconoscimento; scrive Zurn: «Esiste
una disconnessione costitutiva tra i contenuti del primo ordine – la conoscenza delle
persone come individui umani – e la comprensione del secondo ordine di tali contenuti
– il riconoscimento morale dovuto alle persone come individui umani»56. Secondo
Zurn l’aspetto patologico dell’invisibilizzazione emergerebbe dal mancato
riconoscimento morale del secondo ordine, il quale assume per il soggetto la forma di
un’aspettativa.
Le cause di tale dissociazione sono però da ricercarsi su un piano differente,
altrimenti non sarebbe corretto definire con l’aggettivo “sociale” la patologia in
questione. Per essere considerata tale la patologia non può riguardare l’atteggiamento
di un singolo soggetto, ma deve riferirsi all’utilizzo denigratorio e gerarchizzante di
codici performativi diffusi e socialmente condivisi, i quali non solo vengono a
dipendere dal complesso di valori dominanti in una determinata società, ma ne sono
di fatto la manifesta rappresentazione. Ritornando al romanzo di Ellison, la sofferenza
del protagonista è sì percepita individualmente dal soggetto, ma riguarda una
sofferenza socialmente diffusa legata a forme di discriminazione razziale. Patologie
sociali di matrice analoga a questa forma di invisibilità sono diffuse in contesti sociali
in cui persistono suddivisioni gerarchiche in classi, discriminazioni a sfondo sessuale,
o ancora, forme di dis-rispetto nei confronti di attori sociali le cui mansioni lavorative
non vengono riconosciute come dotate di valore.
Nelle società contemporanee è in crescente aumento una condizione peculiare di
invisibilità sociale legata ai cambiamenti epocali delle nostre economie del lavoro: la
condizione del disoccupato. Il disoccupato è oggi considerabile alla stregua di un
“invisibile sociale”, in quanto la sua condizione improduttiva, all’interno dell’odierno

55
Ivi, p. 99.
56
Ivi, p. 102.

25
assetto socio-economico, lo priva di qualsiasi accesso a forme di riconoscimento
sociale che possano contribuire ad accrescere – o almeno a mantenere – un senso
elementare di stima di sé, come rappresenta magistralmente il registra britannico Ken
Loach nel suo film del 2016 Io, Daniel Blake. La condizione del disoccupato è oggi il
sintomo evidente di una patologia sociale che minaccia di relegare chi ne è colpito a
una condizione di invisibilità, la quale comporta molto spesso lesioni dirette
all’autorelazione dei soggetti.

L’analisi della patologia sociale dell’invisibilità mostra come le ragioni della


sofferenza individuale legate al negato riconoscimento siano da ricercarsi in sistemi di
pratiche sociali condivise, legate dunque ai sistemi di valori dominanti, le quali
possono colpire un ampio numero di individui, un gruppo, una categoria o l’intera
collettività. Una diagnosi sociale deve dunque ricercare le cause della sofferenza del
singolo al di fuori dei suoi confini individuali, guardando alla qualità delle pratiche
sociali a cui partecipa e ai sistemi di valori comunemente accolti.

1.5. Le tendenze patologiche del gruppo

La più diffusa pratica intersoggettiva è probabilmente quella dell’associarsi in


gruppi. Le dinamiche di gruppo sono state interpretate perlopiù negativamente dalle
filosofie dello scorso secolo. Gli studi di Le Bon e Freud, ad esempio, hanno spesso
esaltato i fattori spersonalizzanti e regressivi del gruppo, adombrandone gli aspetti
positivi. Nel contesto di una teoria del riconoscimento questa lettura unilaterale non
può funzionare, in quanto trascura l’importanza del ruolo svolto dalle dinamiche
intersoggettive nella costituzione dell’identità individuale. Senza dunque trascurare le
tendenze patologiche che attraversano le dinamiche di gruppo, diventa necessario
mostrare quelle che sono le ragioni che portano gli individui ad associarsi, le quali
devono essere in qualche modo legate ai vantaggi che comporta al singolo il sentirsi
parte di un gruppo.
Honneth introduce nel saggio l’Io nel Noi due diffuse letture del concetto di
gruppo.57 Da un lato, la concezione di matrice freudiana del gruppo come fonte di

57
A. Honneth, L’Io nel Noi (2010), in La libertà negli altri, Il Mulino, Bologna 2017, cit., pp. 162-181.

26
regressione psichica dell’individuo; dall’altro l‘immagine positiva del gruppo come
dimensione comunitaria e culturale che contribuisce al potenziamento personale del
soggetto membro. Il difetto che secondo Honneth risiede in entrambi gli orientamenti
in questione consiste nell’unilateralità con la quale essi prendono in considerazione le
proprietà del gruppo. Più precisamente, entrambe le letture mancano di un’attenta
analisi complessiva, in quanto assolutizzano una determinata proprietà elevandola a
caratteristica fondante e totalizzante. Honneth, al contrario, mira a inglobare entrambi
gli aspetti in una teoria più comprensiva che si radica nel bisogno di riconoscimento
dei singoli. Egli sostiene che le ragioni di fondo che portano gli individui ad associarsi
in gruppi siano da ricercarsi «nell’interesse psichico dei singoli, in quanto rappresenta
il gruppo una condizione di stabilizzazione e di ampiamento della condizione di
persona»58. Le ragioni dell’associarsi in gruppi sono dunque rintracciabili nella natura
intersoggettiva del soggetto emersa dal paradigma del riconoscimento di Honneth.
Abbiamo visto in precedenza come l’approvazione affettiva primaria gioca un
ruolo determinante nella costituzione dell’identità, ma che non esaurisce di fatto il
fabbisogno di riconoscimento dell’essere umano. Il Sé non solo necessita di rapporti
di riconoscimento per costituirsi, ma anche per mantenersi e rinnovarsi. Ne consegue
che la ricerca di esperienze di riconoscimento ricopre tutto l’arco della vita
dell’individuo e non solo il periodo della prima infanzia. Ciò dipende dal fatto che la
qualità del rapporto che intratteniamo con noi stessi non è mai fissata definitivamente,
ma sempre oscillante e instabile: se da un lato siamo sempre aperti a possibilità di
crescita e maturazione personale, dall’altro siamo sempre minacciati dalla caduta e
vulnerabili alla regressione. A tal proposito le parole di Hubertus Tellenbach sul
rapporto «Io - Mondo» catturano le implicazioni profonde di un’apertura di questo
tipo:

L’io ha sempre il «suo» mondo e sta entro di questo, come viceversa il mondo si
protende nell’io. Nella misura in cui «io» mi depaupero in possibilità di sviluppo
anche il mio «mondo» diventa più povero e più vuoto; d’altro lato, anche io rimango
indietro rispetto alle mie possibilità di essere quando siano sottratte al mio mondo
quelle possibilità di «aver cura» per le quali io ci sono.59

58
Ivi, p. 166.
59
H. Tellenbach, Melancolia. Storia del problema, endogenicità, tipologia, patogenesi, clinica, Il
pensiero Scientifico Editore, Roma 2015, cit., p. 175.

27
L’io è dunque sempre in un rapporto dialettico con il proprio mondo. Dire che «il
mondo si protende nell’io» e viceversa, significa disegnare un’identità mai definita ma
sempre suscettibile di crescita e di regressione, legata alle «possibilità di sviluppo»
offerte dal “proprio” mondo. Il «mondo» del soggetto è un ambiente sociale, costituito
in gran parte da rapporti interpersonali di riconoscimento, i quali devono
riconcretizzare di continuo il suo proprio valore attraverso l’interazione e la conferma
per allontanare il rischio sempre presente di un impoverimento dell’io.
Tornando ad Honneth, egli ritiene che il motivo per cui si formano i gruppi risiede
in questo bisogno di perpetua riconferma, «nel cui ambito l’individuo possa vedere
approvati in situazioni di interazione diretta i propri bisogni, i propri giudizi e le
proprie capacità», in breve, il «sentimento del proprio valore»60.

Il nesso che intercorre tra il bisogno di riconoscimento e le ragioni che stanno alla
base della costituzione dei gruppi non spiega ancora le cause delle tendenze
patologiche che hanno spesso caratterizzato negativamente le interpretazioni di questi.
Infatti, secondo Honneth, la situazione comincia a mutare quando iniziamo a
considerare «lo strato profondo del desiderio che sfugge al controllo del soggetto»61,
dunque quando ci interessiamo alle dinamiche psichiche inconsce dei singoli membri.
Per comprendere il significato di questa dimensione inconscia del desiderio di
riconoscimento, Honneth ripercorre la “grandiosa idea” degli oggetti transizionali di
Donald Winnicott, tracciando il percorso evolutivo di alcune esigenze psichiche che
accompagnano il neonato dalla prima infanzia fino all’età adulta.
Secondo Winnicott gli oggetti, o fenomeni, transizionali sono volti a consentire
all’infante di affrontare senza angoscia il processo di separazione che dallo stato
fusionale primario porta alla relazione oggettuale, definito da Winnicott: «Il viaggio
del lattante dal puramente soggettivo all’oggettività»62. Gli oggetti transizionali sono
quello che noi vediamo di questo viaggio; oggetti dallo statuto ontologico peculiare, i
quali non sono esclusivamente frutto dell’immaginazione soggettiva del bambino, ma
nemmeno appartengono totalmente alla realtà oggettiva esterna. Questi particolari
oggetti vengono investiti in senso affettivo e utilizzati dal bambino per compensare «il

60
A. Honneth, op. cit., p. 170.
61
Ivi, p. 171.
62
D. Winnicott, Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Gioco e realtà, Roma, Armando
1974, cit., pp. 23-60.

28
dolore causato dalla “spaccatura” apertasi tra la realtà interiore e quella esterna»63. In
questo senso si comprende come la funzione degli oggetti transizionali sia quella di
far fronte al problema della separazione, o altrimenti definito, di «accettazione-di-
realtà»64, problema che, secondo Winnicott, non è mai realmente risolto e si perpetua
nel corso dell’età adulta.
Così gli oggetti transizionali assumono nel corso della vita del soggetto le
sembianze di oggetti di tipo culturale che provvedono anch’essi ad adempiere allo
stesso compito: quello di costituire «un’area intermedia di esperienza»65 tra interno ed
esterno. Tra questi ambiti di mediazione, ricondotti da Winnicott all’arte e alla
religione – le quali si presentano come esperienze di mediazione in diretta continuità
con il gioco – Honneth aggiunge l’esperienza intersoggettiva del gruppo:
«L’intuizione degli oggetti transizionali» – scrive Honneth – «sfocia così nell’idea che
per poter tollerare la crescente distanza che lo separa dall’originaria condizione
simbiotica, l’essere umano conservi per tutta la vita una tendenza a lasciarsi ricadere
al di qua dei confini che di volta in volta definiscono il suo Io»66.
Ciò significa che se da un lato il gruppo sociale è originariamente finalizzato a
revitalizzare il riconoscimento intersoggettivo, dall’altro rimane pur sempre percorso
da tendenze di ricaduta in uno stato di indifferenziazione, le quali vengono conservate
dal soggetto per tutto l’arco della sua vita. Tali tendenze fusionali, che secondo
Honneth percorrono costitutivamente la vita dei gruppi, non sono necessariamente il
sintomo di ricadute patologiche, anzi, aiutano a rinnovare l’esperienza di
riconoscimento attraverso l’esaltazione di sentimenti comuni o forme di
coinvolgimento collettivo che rafforzano i legami affettivi tra i membri del gruppo (si
pensi ad esempio all’effervescenza collettiva di Durkheim)67. Gli aspetti propriamente
patologici, dunque, non sono né da ricercarsi nel bisogno di riconoscimento che sta
alla base dell’associarsi in gruppi, né nelle tendenze regressive “sane” che percorrono
i gruppi stessi, bensì in forme di regressione negativa che ledono l’identità individuale,
ossia che vengono meno alla promessa di riconoscimento che il singolo ricerca nel
gruppo. Secondo Honneth, il rischio di una regressione negativa dipende dalla

63
A. Honneth, op. cit., p. 174.
64
Ibid.
65
Ibid.
66
Ivi, p. 175.
67
In proposito cfr. É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Il sistema totemico in
Australia (1912), Edizioni Di Comunità, Milano 1963, pp. 263-271.

29
presenza di «tipi patologici», i comportamenti dei quali rischiano di far deflagrare la
vita del gruppo. Ad esempio, individui che tendono a investire affettivamente il loro
leader conferendogli attributi di irreale onnipotenza, oppure atteggiamenti dogmatici
di chiusura e di negazione nei confronti della realtà esterna al gruppo, rischiano di
compromettere la funzione “umanizzante” dei gruppi, aprendo la porta a dinamiche
psichiche incontrollabili.
Affinché «l’infiltrazione di disturbi individuali della personalità» nei gruppi possa
dare esito a derive patologiche è però necessario che il numero dei tipi patologici risulti
superiore al numero di membri sani, i quali «offrono un servizio di sostegno quasi
terapeutico»68 agli altri membri. All’aspetto qualitativo delle pratiche intersoggettive
tendenti al patologico viene ora a intrecciarsi la dimensione quantitativa dei membri
che vi partecipano. In tal modo, la diagnosi di una patologia della vita di gruppo viene
a dipendere dal rapporto che intercorre tra queste due variabili.
Gli esiti patologici della vita di gruppo non vogliono però oscurare l’importanza
della sua funzione primaria: quella di essere una condizione per l’autonomia
individuale. Come riassume Honneth:

L’io ricerca il noi nella vita comune che si realizza nei gruppi perché anche gli adulti
dipendono da forme di riconoscimento sociale che presentano il carattere intimo di
un incoraggiamento e una conferma diretti all’autostima e al senso del proprio valore,
che non possono venire conservati a lungo nel tempo senza il sostegno di un gruppo
dedito alla concretizzazione rinnovata del riconoscimento.69

In conclusione, Honneth sostiene che «lo stato di salute dei gruppi di una certa
società non è mai peggiore né migliore delle condizioni di socializzazione che in essa
prevalgono»70. Ciò significa che esiste un legame tra le derive patologiche del gruppo
e il più ampio tessuto relazionale di una società. Le cause di una patologia sociale
possono infatti essere legate a posture comportamentali adottate da un numero
consistente di individui, i quali ingenerano circostanze patologiche che tradiscono a
loro insaputa la promessa di riconoscimento reciproco. Tali comportamenti sono
spesso orientati da “sistemi di convenzioni” socialmente condivisi, che possono
spingere gli attori sociali ad adottare determinati comportamenti dietro false narrazioni

68
Ivi, p. 178.
69
Ivi, p. 181.
70
Ibid.

30
sul funzionamento della società in cui si muovono. L’insieme delle narrazioni
utilizzate da istituzioni di potere per mobilitare gli individui dietro false promesse di
riconoscimento è uno dei significati storicamente attribuibili al termine «ideologia».

1.6. Il potere ideologico del riconoscimento

La diagnosi sociale del riconoscimento ideologico svolge un ruolo cruciale nella


costellazione delle patologie sociali, tanto da essere stata considerata da Christopher
Zurn alla stregua di un “archetipo concettuale” dal quale è possibile desumere la
struttura di fondo comune a tutte le patologie sociali individuate da Honneth. Secondo
Zurn, qui più che altrove, emerge la configurazione delle patologie sociali come
second-order disorder: tra la promessa valutativa di riconoscimento (first-order) e le
condizioni materiali necessarie per il suo concretizzarsi (second-order), permane una
disconnessione socialmente causata.71 Inoltre, la diagnosi sociale in questione
introduce alcuni elementi determinanti che ci permettono di allacciare il discorso
svolto sinora a questioni più strettamente legate al generale funzionamento del
capitalismo neoliberista e alle criticità insite in esso.

Il discorso sull’uso ideologico del riconoscimento prende le mosse dall’analisi di


una forma di relazione sociale che non è ancora emersa dalle precedenti riflessioni: la
relazione di potere. Numerose sono state le obiezioni mosse alla teoria del
riconoscimento di Honneth riguardo la sua presunta disposizione acritica nei confronti
dell’uso strategico del riconoscimento da parte di istituzioni di potere, il cui obiettivo
è quello di «introiettare negli individui un rapporto con se stessi strutturato in modo
tale da spingerli a sobbarcarsi volontariamente impegni o doveri funzionali agli
interessi della società».72 In tal senso, i rapporti di riconoscimento, lungi dall’estendere
le prerogative di libertà del soggetto, mirano al suo assoggettamento.
Nell’importante saggio Riconoscimento come ideologia del 2010, Honneth
risponde ai suoi critici con una ricca analisi volta a distinguere forme di

71
C. F. Zurn, Axel Honneth, ‘Social Pathologies and Second-Order Disorders’, in Axel Honneth:
Critical Essays. With a Reply by Axel Honneth, cit., p. 109-ss.
72
A. Honneth, Riconoscimento come ideologia (2010), in La libertà negli altri, Il Mulino, Bologna
2017, cit., pp. 184-211.

31
riconoscimento positive, il cui fondamento normativo risiede nella funzione
soggettivante propria dei rapporti di riconoscimento, da forme di riconoscimento
ideologiche, le quali si mostrano al contrario come promesse di riconoscimento che
mirano ad assoggettare gli individui: da un lato, inducendoli a conformarsi
volontariamente ad un determinato sistema di regole; dall’altro, predisponendoli a
costruire un’immagine di sé conforme alla volontà altrui.
Forme ideologiche di riconoscimento sono individuate da Honneth in tre episodi
storicamente determinati la cui funzione è stata quella di consolidare rapporti di
dominio esistenti dietro false promesse di riconoscimento: l’elogio sulle virtù di servo
docile di Uncle Tom ha l’obiettivo di predisporre volontariamente l’individuo a
riconoscersi nel ruolo di suddito di una società schiavista; l’appello alla moglie e
madre esemplare ha favorito il perpetuarsi di un’organizzazione del lavoro basata sulla
distinzione di genere; e le manifestazioni di stima pubblica dei soldati eroici hanno
prodotto una disponibilità maggiore all’arruolamento volontario in guerra. In questi
esempi lo scopo primario delle manifestazioni di riconoscimento è stato quello di
«disporre motivazioni e risorse funzionali a forme di assoggettamento volontario»73,
affinché le persone coinvolte potessero accogliere la loro posizione subordinata
attraverso meccanismi di natura non coercitiva.
Oggi possiamo giudicare retroattivamente gli esempi presi in esame da Honneth
come forme ideologiche di riconoscimento, in quanto l’avvenuto progresso sul piano
morale ci ha permesso di prendere le distanze dalla schiavitù, dal patriarcato e dal culto
della guerra. Serie difficoltà insorgono nel momento in cui la distinzione tra un
riconoscimento positivo e un riconoscimento ideologico deve essere operata nel
proprio tempo presente, concentrando dunque l’analisi sul solo materiale che si ha a
disposizione hic et nunc. Come distinguere dunque forme di riconoscimento positivo
da forme ideologiche senza effettuare alcuno scostamento su scala temporale? La
risposta al seguente interrogativo porta a considerare nuovi aspetti della teoria del
riconoscimento.
Innanzitutto il riconoscimento ideologico non ha alcun legame con le «ferite
morali» discusse in precedenza. Le forme di misconoscimento venivano recepite dai
singoli come tali, il che semplificava enormemente la diagnosi. Qui siamo dinanzi a
forme di riconoscimento più subdole, le quali, pur rispettando tutti i requisiti richiesti

73
Ivi, p. 186.

32
affinché un rapporto di riconoscimento possa essere giudicato positivo, mirano ad una
funzione diametralmente opposta.
Un primo elemento necessario per comprendere gli elementi di diversità tra le due
forme è quello di qualificare l’atto di riconoscimento come un «atto attributivo» o
come un «atto ricettivo»74, ossia comprendere se l’approvazione che si esplica nel
riconoscimento conferisce di fatto una nuova proprietà all’individuo, oppure si limita
a rilevarla, presupponendola dunque nella controparte. Entrambe le prospettive
incorrono in serie difficoltà. Ad esempio, se si trattasse di un atto attributivo come
possiamo discriminare la correttezza o la scorrettezza dell’attribuzione in questione?
Mentre se fosse un atto ricettivo ciò implicherebbe una forma di realismo dei valori.
Chiederci se il riconoscimento genera o rispecchia una proprietà diviene una questione
cruciale per l’intera teoria del riconoscimento, in quanto optare per la prima risposta
significherebbe di fatto rendere impossibile discernere il riconoscimento positivo da
quello ideologico.
La soluzione proposta da Honneth è allora quella di optare per il modello ricettivo,
supportato da una «versione moderata di realismo dei valori»75. Ciò significa che il
riconoscimento deve essere inteso come un comportamento per mezzo del quale
rispondiamo in modo razionale ad alcune caratteristiche valoriali che il nostro mondo
della vita ci ha insegnato a percepire negli altri individui. In questo senso, le proprietà
del soggetto preesistono all’atto del riconoscimento e tramite questo vengono fatte
valere pubblicamente. Ciò significa che una caratteristica fondamentale dell’atto del
riconoscimento è quella di risultare credibile, appellandosi a qualità esistenti.
Oltre alla credibilità altre due caratteristiche qualificano l’atto del riconoscimento:
la positività e la contrastività. In primo luogo il riconoscimento deve sempre
manifestarsi come un’approvazione; in secondo luogo deve far emergere un merito
particolare nel soggetto in modo tale da esaltare il suo valore peculiare. Le tre
caratteristiche del riconoscimento ricalcano le funzioni delle tre sfere presentate in
precedenza e si applicano indistintamente anche alle forme considerate ideologiche.
Da ciò è possibile dedurre come il criterio che permette di distinguere queste ultime
dalle forme di riconoscimento positive non può ricercarsi nell’irrazionalità,
nell’arbitrarietà o nell’infondatezza delle forme ideologiche, in quanto queste godono

74
A. Honneth, op. cit., pp. 192-193.
75
Ivi, p. 196.

33
di tutte le proprietà necessarie a produrre un’autopromozione del soggetto,
predisponendolo ad aderire volontariamente a determinati diktat.
Il criterio di demarcazione deve essere ricercato su un piano differente. Il
riconoscimento deve essere sempre accompagnato da conseguenze pratiche che
traducano in forme concrete il valore del soggetto, sia nella forma di comportamenti
intersoggettivi, sia attraverso operazioni istituzionalizzate. È infatti indispensabile che
la nuova configurazione renda giustizia alla promessa di riconoscimento. Questa
dimensione materiale è secondo Honneth il criterio di demarcazione che permette di
distinguere tra le due forme. Siamo dinanzi a un riconoscimento ideologico quando la
promessa di riconoscimento fallisce il test delle «precondizioni materiali», ovvero non
riesce a generare le condizioni di possibilità per un reale riconoscimento positivo.
Questa inadempienza si traduce in un «deficit di razionalità di secondo livello»76,
il quale non colpisce la razionalità del primo livello valutativo, ma emerge
dall’impossibilità di superare questo piano meramente simbolico. Honneth non vuole
giungere ad una «ermeneutica del sospetto»77, egli è consapevole che non si può mai
escludere a priori che il divario di una promessa valutativa e il suo adempimento
materiale sia dovuto a un mero sfasamento cronologico, il quale può determinare un
ritardo della concretizzazione del valore proclamato. Nonostante questa apertura
Honneth ritiene che il criterio materiale sia l’unico strumento pratico a disposizione
per distinguere l’ideologia da ciò che ideologia non è: «I modelli istituzionali di
promozione valutativa sprovvisti di qualunque prospettiva di realizzazione materiale
possono venire bollati in buona fede come ideologie del riconoscimento»78.

A questo punto non resta che trasporre le riflessioni perlopiù teoriche


sull’ideologia del riconoscimento sul piano concreto delle pratiche di vita a noi più
vicine, esaminando il profondo mutamento strutturale in corso nella sfera del mercato
del lavoro neoliberista. Sulla scorta delle ricerche di Boltanski e Chiapello, Honneth
evidenzia un avvenuto cambio di designazione nei confronti dei lavoratori dipendenti:
oggi non si parla più di «salariati», bensì di «imprenditori di sé stessi»79. Tale
designazione si serve dell’ideale dell’autorealizzazione individuale per mobilitare le

76
Ivi, p. 211.
77
Ibid.
78
Ibid.
79
Ivi, p. 207.

34
riserve motivazionali dei lavoratori dipendenti, in modo che questi possano ricondurre
la propria attività ad «un’autonoma estrinsecazione di competenze acquisite nel corso
di un percorso biografico»80. Conferire ai dipendenti un riconoscimento di questo
genere, fondato su un maggiore grado di autonomia individuale, significa indurli a
percepire ogni cambiamento a cui sono soggetti come l’esito di una scelta libera e
autonoma, legata dunque alle proprie preferenze individuali. È indubbio che un
riconoscimento di questo tipo eserciti un potere regolativo sulle condotte dei
lavoratori. Esso infatti promuove nel dipendente un diverso rapporto con sé stesso che
lo induce a sobbarcarsi volontariamente gli oneri di un mondo del lavoro
sostanzialmente mutato.
Le trasformazioni in direzione neoliberista del mercato del lavoro hanno di fatto
comportato una crescente flessibilizzazione e deregolamentazione dei rapporti di
lavoro, così da smantellare gradualmente quelle prerogative che conferivano sicurezza
e stabilità ai lavoratori dipendenti. In un contesto di questo genere, il riconoscimento
di una maggiore autonomia individuale mira a predisporre i lavoratori a contribuire
volontariamente alla riproduzione di un sistema del lavoro privo di tutele, il quale non
contiene alcuno dei requisiti necessari a realizzare il nuovo valore a loro attribuito.
L’autonomia individuale rimane infatti soggetta all’esigenze di mobilità del capitale,
dunque a fattori strutturalmente impermeabili alla volontà del singolo individuo. Allo
stesso modo, la ricchezza nelle società capitalistiche non può dipendere interamente
dall’iniziativa individuale del singolo, opportunamente incentivata da retoriche
meritocratiche81, in quanto è il capitale pregresso ad essere il miglior predittore degli
incrementi di capitale futuro.82 Per quanto un tale riconoscimento celebri nuove qualità
nel lavoratore dipendente, le condizioni strutturali del mercato del lavoro neoliberista
rimuovono i presupposti materiali necessari a tradurre concretamente quella promessa
di riconoscimento e per questo motivo esso deve considerarsi ideologico.

80
Ibid.
81
«Per l’ideologia meritocratica, chiunque, indipendentemente dal gruppo di provenienza, è considerato
in grado di salire nella scala sociale se lavora abbastanza duramente e/o se ha sufficiente talento, con la
conseguenza che individui e gruppi sono considerati responsabili dei risultati che ottengono e le
disuguaglianze di status appaiono giustificate». C. Volpato, Le radici psicologiche della
disuguaglianza, Editore Laterza, Bari 2019. cit. p. 54.
82
In proposito cfr. T. Piketty, Il capitale del XXI secolo, Bompiani, Milano 2018.

35
Capitolo II

LE PATOLOGIE SOCIALI E IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO

Diversamente ci comportiamo con la terza


fonte, con la fonte sociale del dolore. Questa,
non vogliamo riconoscerla, non riusciamo a
comprendere perché le istituzioni da noi stessi
create non debbano essere, invece, una
protezione e un beneficio per tutti.1

Sigmund Freud, Il disagio della civiltà

2.1. Il «nuovo spirito del capitalismo» di Boltanski e Chiapello

Le prime frasi che introducono l’importante studio sociologico di Luc Boltanski


e Ève Chiapello Il nuovo spirito del capitalismo, pubblicato in Francia nel 1999,
spiegano le ragioni di fondo per le quali – tra l’immensa bibliografia esistente sul tema
– si è scelto di soffermarsi proprio sull’opera in questione: «Il libro ha come oggetto i
cambiamenti ideologici che hanno accompagnano le recenti trasformazioni del
capitalismo. […] Non vuole essere solo descrittivo, ma intende proporre un quadro
teorico più generale per comprendere come si modificano le ideologie associate alle
attività economiche»2. L’opera si propone infatti di esaminare la «componente
ideologica» del capitalismo, ossia «l’insieme di credenze legate all’ordine
capitalistico, che contribuiscono a giustificare tale ordine e a sostenere, legittimandole,
le modalità d’azione e le disposizioni coerenti con esso»3.
Attraverso un ampio repertorio di ricerca costituito in gran parte dai manuali di
management, gli autori esaminano le trasformazioni avvenute nelle retoriche e nelle
pratiche del mondo del lavoro capitalistico, denunciando al contempo le nuove forme
di sfruttamento che si sono venute a configurare negli ultimi decenni. L’opera non ha
dunque un mero interesse descrittivo, ma si presenta come un importante tentativo di

1
S. Freud, Il disagio della civiltà (1930), Newton Compton Editori, Roma 2010, cit., p. 103.
2
L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo (1999), Mimesis, Milano 2014, cit., p. 67.
3
Ivi, p. 80.

36
critica sociale volto a una comprensione approfondita del legame che intercorre tra
l’assetto socio-economico vigente e le ideologie che ne giustificano la riproduzione.

Innanzitutto si ritiene necessario partire da una definizione minimale di


capitalismo. Gli autori scelgono una definizione sintetica che pone l’accento
sull’«esigenza di accumulazione illimitata di capitale attraverso mezzi formalmente
pacifici»4, evidenziando in tal mondo la dimensione dinamica e trasformativa del
capitalismo, legata al processo di perpetua immissione di capitale nel circuito
economico allo scopo di trarre profitto. Un altro elemento caratterizzante tale sistema
è il lavoro salariato dipendente, una specifica organizzazione del lavoro che vede una
parte della popolazione ricavare il proprio reddito dalla vendita della propria forza-
lavoro. Questa, non disponendo dei mezzi di produzione, viene a dipendere dalle
decisioni di coloro per cui lavora. Una siffatta organizzazione del lavoro viene
interpretata come una forma di sottomissione volontaria, ben diversa dalla schiavitù,
in quanto il lavoratore è sempre teoricamente libero di rifiutare di lavorare sotto le
condizioni imposte dal datore di lavoro, nonostante la consapevolezza che
quest’ultimo non possa sopravvivere a lungo senza lavorare. «I lavoratori salariati» –
scrivono gli autori:

hanno perso la proprietà del risultato del loro lavoro e la possibilità di condurre una
vita attiva al di fuori di un rapporto di subordinazione. Quanto ai capitalisti, si
ritrovano incatenati a un processo senza fine, insaziabile, totalmente astratto e
dissociato del soddisfacimento dei bisogni di consumo. […] Per questi due tipi di
protagonisti, l’inserimento nel processo capitalistico è singolarmente privo di
giustificazioni.5

Il passo citato è di particolare importanza in quanto solleva il problema centrale della


giustificazione del e nel capitalismo. Secondo gli autori, il processo di accumulazione
capitalistica è strutturalmente incapace di mobilitare le risorse di cui necessita per
funzionare, perciò abbisogna di un impianto giustificativo “esterno” a sé per motivare
all’impegno e alla partecipazione al sistema.
La risposta più ovvia sembrerebbe quella di attribuire al compenso materiale il
ruolo mobilitante che si sta cercando, ma Boltanski e Chiapello sostengono che la
remunerazione è da considerarsi un fattore insufficiente a suscitare impegno,

4
Ivi, p. 74.
5
Ivi, p. 75.

37
coinvolgimento e passione: «Lo stipendio costituisce tuttalpiù un motivo per
conservare l’impiego, non certo uno stimolo per la partecipazione»6. Anche l’ipotesi
di un coinvolgimento forzato viene reputata irrealistica, in quanto incapace di generare
l’impegno attivo richiesto, impegno più facilmente ottenibile attraverso metodi e
tecniche non coattive fondate su diverse forme di coinvolgimento personale. Più che
dalla somma di questi aspetti, secondo gli autori, la qualità dell’impegno sembra
dipendere «dagli argomenti che consentono di dimostrare non solo i benefici di
carattere individuale che possono scaturire dalla partecipazione ai processi
capitalistici, ma anche i vantaggi collettivi, definiti in termini di bene comune per
tutti»7. Sono questi argomenti a comporre «l’ideologia che giustifica l’impegno nel
capitalismo»8, a conferire ad esso uno spirito.
Lo «spirito del capitalismo», nella concezione di Boltanski e Chiapello, prescinde
dai contenuti sostanziali che il medesimo concetto comprendeva nell’accezione
weberiana. Esso deve considerarsi alla stregua di una “forma” riempibile con contenuti
diversi in tempi diversi, seppur sempre legati ai processi di estrazione di profitto
capitalistico. Uno spirito così inteso, spinge quindi a ricercare sul piano storico gli
elementi che di volta in volta ne hanno determinato il contenuto.
Oggigiorno il più vasto bacino argomentativo a sostegno della causa del
capitalismo viene fornito dalla scienza economica neoclassica. La convinzione diffusa
che vede l’economia costituire una sfera autonoma, una scienza positiva indipendente
dall’ideologia, dalla politica e dalla morale, ha di fatto impedito di cogliere
l’operazione ideologica alla base di una siffatta separazione, spingendo ad adottare una
postura acritica nei confronti del funzionamento reale del mercato e dell’economia
stessa. Un esempio paradigmatico di questa logica di “naturalizzazione” del mercato
e della sfera economica nel suo complesso è ben illustrato nella prima tesi dell’opera
23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo dell’economista Ha-Joon Chang,
che porta il titolo #1. Il libero mercato non esiste. Riportiamo il passo nella sua
interezza:

Riconoscere che i confini del mercato sono ambigui e non possono essere determinati
in modo oggettivo ci permette di capire che l’economia non è una scienza pura, ma
un fatto politico. Gli economisti liberisti potrebbero far credere che è possibile
determinare scientificamente i limiti esatti del mercato, ma non lo è. E se i limiti esatti

6
Ibid.
7
Ivi, p. 76.
8
Ibid.

38
del mercato non possono essere determinati scientificamente, non si sta facendo
scienza. In questa prospettiva, opporsi a una nuova regolamentazione equivale a dire
che lo stato delle cose, pur se ingiusto, non va cambiato. Dire che una regola esistente
deve essere abolita equivale a dire che lo spazio del mercato va ampliato, ovvero che
chi ha più denaro avrà più potere. [...] Così, quando gli economisti liberisti affermano
che una certa normativa non deve essere introdotta perché limita la "libertà" di un
determinato mercato, stanno semplicemente esprimendo un’opinione politica
contraria ai diritti che la legge proposta vuole tutelare. Il pretesto ideologico consiste
nel sostenere che la loro non sia una posizione politica, ma una verità economica
oggettiva, mentre quella degli altri avversari sì che è politica. Ma non è vero: anche
essi sono politicamente motivati. Emanciparsi dall'illusione dell’oggettività del
mercato è il primo passo per capire il capitalismo.9

L’operazione ideologica che sta alla base della “scienza economica” consiste nel
conferire oggettività a decisioni che risultano de facto politiche, dunque portatrici di
interessi particolari. Questa operazione è legata alla convinzione che vi siano delle
“leggi economiche” da un lato e delle “opinioni politiche” dall’altro, quando si tratta
essenzialmente di due posizioni politiche differenti portatrici di differenti interessi.
Senza dubbio tale ideologia ha influenzato e continua a influenzare fortemente
l’opinione pubblica e l’azione politica, ma la generalità degli argomenti da essa
adottati ha influito forse meno sulle concrete scelte di vita degli individui. Ad esempio,
scrivono gli autori: «Non è affatto certo che un lavoratore dipendente si rallegri perché
il suo lavoro contribuisce a far crescere il Pil della nazione e a migliorare il benessere
dei consumatori. […] Se non altro perché ha difficolta a mettere in relazione questi
benefici generali con le condizioni di vita e di lavoro sue e delle persone che gli stanno
accanto»10. Le espressioni dello spirito del capitalismo, così come le forme di
riconoscimento ideologico, devono riuscire a “sensibilizzare” coloro a cui si
indirizzano, dimostrandosi credibili e vicine, parlando direttamente al quotidiano.
Per quanto concerne il mondo del lavoro queste condizioni sembrano rispettate
dalle retoriche meritocratiche e dal discorso manageriale, il quale si rivolge anzitutto
ai quadri dirigenziali – figure che più di altre devono essere in grado di giustificare la
loro posizione anche nei confronti dei loro sottoposti –, per poi allargarsi al bacino
assai più ampio dei lavorati dipendenti. Tale discorso si mostra più funzionale degli
argomenti utilizzati dalla scienza economica, in quanto si rivolge allo «spazio di
calcolo locale dell’impresa», con diretto riferimento a pratiche specifiche esistenti in

9
Ha-Joon Chang, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, #1. Il libero mercato non esiste.
Il Saggiatore, Milano 2012. cit. pp. 22-23.
10
Ivi, p. 85.

39
un preciso momento storico. La letteratura di management si dimostra quindi una
preziosa fonte, in quanto contiene i riferimenti valoriali e gli argomenti giustificatori
del capitalismo.
L’apparato ideologico che sostiene il processo di accumulazione non è mai una
costruzione ad hoc, esso si serve di produzioni culturali già esistenti che possiedono
un forte potere persuasivo. Ciò comporta il fatto che non è mai del tutto possibile
separare «le costruzioni ideologiche impure, destinate a servire l’accumulazione
capitalistica, dalle idee pure, libere da ogni compromissione, che permetterebbero di
criticarla»11. L’ideologia, dunque, non si mostra come un fattore contingente del
capitalismo, essa è indissolubilmente legata alla natura “amorale” del sistema, il quale
trova la sua finalità nell’accumulazione di capitale, dunque in se stesso, senza alcun
riferimento a un bene comune o agli interessi di una entità collettiva.

Per comprendere le trasformazioni avvenute nello spirito del capitalismo è


necessario volgere lo sguardo alle critiche ad esso rivolte. È infatti da queste ultime,
dai suoi “nemici”, che il capitalismo trae i fondamenti morali di cui necessita. La
critica costringe i portavoce del capitalismo a giustificarsi, e lo fa incorporando e
mettendo a disposizione del processo di accumulazione una parte dei valori in nome
dei quali è stato criticato.12 Questa capacità di inglobare qualsiasi forma di protesta
che non rappresenti un salto laterale nei confronti del sistema, determina il carattere
“rivoluzionario totale” del capitalismo, carattere già riconosciuto dal suo più grande
critico, Karl Marx.13 Ne consegue che per comprendere lo spirito del capitalismo è
necessario definire il contenuto delle critiche anticapitalistiche, nonché le ragioni
dell’indignazione nei confronti delle ingiustizie che ha prodotto e che tuttora produce
tale sistema.
L’eterogeneità dei contenuti normativi presenti nelle critiche mosse storicamente
al capitalismo rende necessaria almeno una differenziazione interna alla critica.
Boltanski e Chiapello distinguono dunque una critica artistica e una critica sociale,

11
Ivi, p. 95.
12
Ivi, p. 108.
13
«La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare di continuo gli strumenti della
produzione, e ossia, in ultima analisi, tutto l’insieme di rapporti sociali. [...] Questo continuo
sovvertimento della produzione, questo ininterrotto scuotimento delle condizioni sociali, questo moto
perpetuo, con l’insicurezza che assidua l’accompagna, contraddistingue l’epoca borghese da tutte le
altre che la precedettero». K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), Barbera
Editore, Siena 2007. cit. p. 7.

40
entrambe parti integranti della critica marxiana al capitalismo, in quanto si riferiscono
rispettivamente alla sovrastruttura e alla struttura della società. In breve, la prima si
oppone al capitalismo in quanto fonte di oppressione e alienazione che limita
l’autonomia, l’autenticità e la creatività degli esseri umani; la seconda, denuncia
l’egoismo opportunista e la miseria crescente delle classi popolari operata dal
capitalismo. Essa coincide con l’eredita rivoluzionaria del movimento operaio, la
quale rivendica istanze di giustizia sociale contro lo sfruttamento sul lavoro e
l’aumento delle disuguaglianze.
Gli anni Sessanta dello scorso secolo sono stati caratterizzati da una forte crescita
delle contestazioni nei confronti dell’organizzazione capitalistica del mondo del
lavoro, con l’apice raggiunto dalla Contestazione del ’68. In quegli anni assistiamo da
un lato, alla crescente richiesta di autonomia e di partecipazione al controllo
dell’impresa da parte della gioventù universitaria; dall’altro, alle rivendicazioni
operaie volte ad ottenere maggiori garanzie e tutele per i lavoratori salariati. In un
primo momento le rivendicazioni della critica sociale hanno ottenuto reali conquiste,
in termini di salari e sicurezza, per poi essere successivamente smantellate dalle
politiche neoliberiste degli anni Ottanta. Si può quindi affermare che, diversamente
dalla critica sociale, la critica artistica ebbe un successo più lento, ma anche più
duraturo.14
Secondo i due autori entrambe le istanze della critica sono state svuotate del loro
potenziale emancipativo, seppure attraverso meccanismi differenti: la critica artistica
è stata assorbita nella nuova organizzazione del lavoro capitalistico, «una larga
maggioranza di rivoluzionari di allora» – scrive Carlo Formenti – «si sono convertiti
al credo liberale; le pratiche di fuga volontaria dal lavoro salariato degli anni Settanta
finiscono per accreditare il mito del ruolo progressivo del lavoro “autonomo” e
l’esaltazione dell’individuo “imprenditore di se stesso”»15, mentre la critica sociale ha
di fatto perduto ogni capacità di far presa su una realtà sociale fortemente mutata che
non si trova più in grado di interpretare.
La componente artistica, culturalmente formata, della critica, approda nel nuovo
mondo del lavoro portando con sé le sue rivendicazioni innovative, così che la sua
componente trasgressiva ed individualistica finisce per incarnarsi in una serie di

14
Cfr. T. Vitale, Leggeri, flessibili e poco autoritari. I manager ed i quadri d’azienda nell’epoca della
valutazione continua, in id. Itinerari d’impresa, 2007, cit., pp. 219-229.
15
C. Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo! Meltemi, Milano 2019, cit., p. 38.

41
trasformazioni del mondo del lavoro fondate sui valori dell’autonomia e della
flessibilità, trovandosi a servire paradossalmente la causa del capitalismo. Da un lato,
in nome dell’ideale dell’autonomia si è operato uno smantellamento sistematico delle
conquiste sociali ottenute in precedenza in materia di salari e sicurezza sul lavoro;
dall’altro, in nome della flessibilità – la quale ha rappresentato «la possibilità per le
aziende di adattare in tempo reale l’apparato produttivo e, soprattutto, i livelli
occupazionali, alle evoluzioni della domanda»16 – si è compiuta una
deregolamentazione totale del mondo del lavoro.
Tali trasformazioni hanno condotto a una strutturale precarizzazione del lavoro
fondata su forme di lavoro temporaneo, a chiamata, interinale e part-time, che hanno
permesso alle imprese di organizzare il lavoro e gestire il personale in base alle
esigenze della produzione, producendo un esercito di contingent workers.17 I benefici
della flessibilità del lavoro sulla produzione hanno comportato una netta preferenza e
una conseguente crescita vertiginosa di posti di lavoro precari, dunque di «manodopera
instabile, poco qualificata, sottopagata e debolmente protetta»18, con pesanti
conseguenze sulla vita di gran parte dei lavoratori, i quali si vedono costantemente
minacciati dallo spettro della disoccupazione. Il modello che meglio rappresenta
questa oramai diffusa organizzazione del lavoro è quello della sharing economy – o
meglio, della gig economy – l’economia dei “lavoretti”, come viene definita da
Riccardo Stiglianò: un modello lavorativo dipendente da piattaforme digitali che sotto
la maschera della flessibilità e dell’autonomia sta istituzionalizzando prestazioni
lavorative prive di garanzie e tutele, contribuendo alla demolizione delle strutture
sindacali e all’indebolimento del sentimento di solidarietà collettiva tra i lavoratori, i
quali si vedono competere hobbesianamente l’uno contro l’altro per aggiudicarsi un
posto di lavoro o un maggiore stipendio.19

Boltanski e Chiapello, come accennato poco sopra, scelgono di attingere dal


repertorio offerto dalla letteratura manageriale per definire il contenuto sostanziale di

16
L. Boltanski, E. Chiapello, op. cit., p. 373.
17
Cfr. R. Stiglianò, Lavoretti. Così la “sharing economy” ci rende tutti più poveri, Einaudi 2018, cit.,
pp.14-17; A. Krueger, F. Katz, The Rise and Nature of Alternative Work Arrangements in the Unites
States, 1995-2015; Mostrano come il celebrato recupero dell’occupazione dopo la Grande recessione
negli USA sia avvenuto grazie a lavori precari, i quali hanno visto 9,4 milioni di nuovi assunti; contro
le 400 mila unità a tempo indeterminato.
18
L. Boltanski, E. Chiapello, op. cit., p. 380.
19
Cfr. R. Stiglianò, op. cit., pp. 6-30.

42
questo nuovo spirito del capitalismo. Essa non si compone unicamente di ricette volte
a migliorare il rendimento aziendale, ma si presenta carica di riferimenti di valore,
assolvendo dunque una funzione di tipo prescrittivo: non descrive ciò che è, ma
prescrive ciò che deve essere, quali devono essere le finalità personali e condivise
dell’impresa e come si deve agire per conseguirle. Il discorso manageriale del nuovo
capitalismo è a tutti gli effetti una forma di riconoscimento ideologico, in quanto –
come evidenzia Carlo Formenti – «suggerisce di non motivare la forza lavoro
attraverso incentivi materiali, ma di far si che i dipendenti si riconoscano
spontaneamente negli obiettivi e nei valori di un’impresa da vivere come luogo dove
ciascuno può al contempo sviluppare la propria autonomia personale e contribuire al
progetto collettivo»20.
Gli autori evidenziano come i problemi affrontati nel discorso manageriale degli
anni Novanta presentano importanti differenze dalla manualistica degli anni Sessanta.
Uno degli aspetti che ha maggiormente influenzato il nuovo spirito del capitalismo
degli anni Novanta riguarda il «rifiuto della gerarchia» – intesa come forma di
organizzazione sociale fondata sul dominio – da parte di tutti i salariati, in nome di
un’organizzazione flessibile e creativa che ponga la libera iniziativa individuale come
valore assoluto. I propositi degli autori dei manuali di management degli anni Novanta
si sono tradotti in importanti trasformazioni nell’organizzazione dell’impresa, visibili
nel proliferare numeroso di «aziende snelle che lavorano in rete con una moltitudine
di soggetti»21 dove si assiste a un’organizzazione reticolare del lavoro strutturato in
équipe, fondato su forme contrattuali a progetto e prestazioni lavorative svolte sotto la
supervisione di un manager. Quest’ultimo rappresenta il prototipo dell’uomo delle
reti, il quale incorpora il valore della mobilità e il cui comportamento non autoritario
è volto a una direzione morbida dell’équipe di lavoro. Egli deve diventare “nomade”,
libero da ogni attaccamento, rinunciando a qualsiasi possibilità di stabilizzarsi in un
luogo fisso e accettando l’impossibilità di perseguire progetti di vita duraturi.22 Egli è
inoltre un soggetto depoliticizzato e cosmopolita il cui «unico valore è mantenere la
tolleranza verso tutti i valori»23. Il modello manageriale ricalca il già citato
“imprenditore di sé stesso”, il quale ben si accosta al modello sociale promulgato del

20
C. Formenti, op. cit., p. 39.
21
L. Boltanski, E. Chiapello, op. cit., p. 154.
22
Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 2000.
23
L. Boltanski, E. Chiapello, op. cit., p. 224.

43
neoliberismo, secondo il quale – per usare le celebri parole di Margaret Thatcher –
non esiste alcuna società, bensì solo individui.24
Il contratto a progetto, modello inizialmente introdotto per le classi apicali, è oggi
ampiamente diffuso nel mondo dei lavoratori subordinati, i quali sono oramai costretti
ad accettare una situazione di precariato costante che richiede una continua messa alla
prova delle loro capacità, nel difficile contesto in cui la perdita accidentale della
propria occupazione può spesso determinare l’estromissione permanente dal mondo
del lavoro.25
La ristrutturazione antigerarchica e antiautoritaria dell’impresa solleva però il
problema del controllo del personale, il quale viene superato spostando la coercizione
esterna verso l’interiorità dei soggetti. L’assidua attenzione nei confronti del
«coinvolgimento personale» e delle «motivazioni intrinseche» è un chiaro esempio
dell’importanza che il nuovo spirito del capitalismo attribuisce al “disciplinamento
interiore” del lavoratore. L’impresa penetra a fondo nell’interiorità dei soggetti,
mirando a un coinvolgimento totale nella loro attività. Scrive Honneth a riguardo:

Tematizzando sempre più decisamente il lavoro nei termini di una «vocazione», è


divenuto possibile avanzare delle richieste ai lavoratori radicalmente differenti: la
loro motivazione deve conformarsi intrinsecamente ed esclusivamente al profilo
dell’attività richiesta; debbono essere tacitamente disponibili a presentare
qualsivoglia cambiamento del posto di lavoro come se fosse un frutto della loro
propria iniziativa; il loro impegno deve essere fondamentalmente rivolto al bene
dell’intera impresa. Nel corso di soli due decenni si è così formato un nuovo sistema
di richieste che ha permesso di subordinare l’occupazione ad una presentazione
convincente della volontà dei lavoratori di mirare a realizzare sé stessi nel lavoro.26

Tali trasformazioni mirano ad una sovrapposizione delle qualità della persona


alle caratteristiche della sua forza lavoro, sfumando il confine tra la sfera
privata/domestica e quella pubblica/lavorativa. In tale contesto, i soggetti premiati
sono coloro che si dimostrano capaci di riconoscersi in tutto e per tutto nel loro lavoro.
Come descritto poco sopra, non si tratta però di un lavoro stabile e duraturo. L’idea
stessa di una carriera lavorativa all’interno di una stessa azienda è stata rimossa dalla
ristrutturazione reticolare del mondo la lavoro, che si vede concentrata sul “breve

24
Margaret Thatcher Foundation, Intervista del 1987 per Women’s Own.
25
A. Honneth, Autorealizzazione organizzata, cit., p. 80.

44
termine” e sulla mobilità perpetua della forza-lavoro. Un tale contesto richiede che i
lavoratori posseggano precise caratteristiche, tali da poter rispondere alle richieste del
sistema. Essi devono rendersi disponibili a lavorare con un sempre maggior numero di
individui, dimostrando apertura, flessibilità, attitudine al cambiamento. Il sistema
richiede inoltre il possesso di una serie competenze che passano sotto il nome di soft
skills, riportate negli annunci di lavoro pubblicati sui maggiori siti web di recruiting
del personale: adattabilità, resilienza, senso di responsabilità, capacità di adeguarsi a
nuove situazioni, capacità di assumersi rischi, di stabilire contatti sempre nuovi, di
sapersi coinvolgere e di lavorare in ambienti stressanti (sic!).27 Come riassume Mark
Fisher nel suo Realismo Capitalista:

Se in passato i lavoratori potevano acquisire un singolo bagaglio di capacità e da lì


aspettarsi di progredire verso l’alto sui binari di una rigida gerarchia organizzativa,
adesso ai lavoratori viene richiesto di apprendere periodicamente capacità nuove, a
seconda di come si muovono da un’organizzazione all’altra, da un ruolo all’altro. E dal
momento che l’organizzazione del lavoro viene decentralizzata, e che le vecchie
gerarchie piramidali vengono sostituite da nuove reti trasversali, a essere premiata è la
«flessibilità».28

La «componente ideologica» del “nuovo” capitalismo, dunque, oltre a


giustificare, sostenere e legittimare quelle disposizioni che risultano essere coerenti
con la riproduzione del sistema, forza i soggetti a perseguire un’ideale di vita flessibile
e sradicato, capace di modificare sensibilmente il modo che abbiamo di rapportarci
con noi stessi e con gli altri.

2.2. Il modello antropologico dell’«uomo flessibile»

«Tutti i miei spostamenti, sono altrettante ricerche di identità»29, scrive Michel


Houellebecq nel suo romanzo Estensione del dominio della lotta, riassumendo nello
spazio di una frase quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti l’odierna condizione
umana.

27
In proposito vedi Monster, https://www.monster.it; LinkedIn: https://it.linkedin.com; Infojobs:
https://www.infojobs.it.
28
M. Fisher, Realismo Capitalista, Nero, Roma 2009, cit., pp. 76-77.
29
M. Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, Bompiani, Milano 2000.

45
Nell’organizzazione flessibile del capitalismo neoliberista l’identità degli
individui sembra essere continuamente messa alla prova, testata nelle sue capacità di
torsione e di adattamento e al contempo privata di solidi punti di riferimento ai quali
ancorarsi.30 Ciò disturba l’organizzazione della nostra vita individuale, modifica il
modo in cui ci rapportiamo a noi stessi e agli altri, influisce sulla nostra stabilità
personale.
Abbiamo visto come il lavoro non offre più alcun quadro stabile, e ciò si riversa
necessariamente sulla vita privata dei soggetti, la quale è sempre meno lineare e
sempre meno programmabile. Il contratto a progetto ha sostituito il progetto di vita; il
“breve termine” ha spazzato via il “lungo termine”: il presente rimane l’unica
dimensione temporale ad essere in qualche modo programmabile31: «La società
moderna non “ha futuro” e per questo qualunque cosa trascenda i bisogni immediati
non viene presa in considerazione»32, scrive Christopher Lasch.
I benefici di natura non economica conferiti da un’occupazione stabile sono stati
gradualmente rimossi, lasciando spazio a un senso di insicurezza generalizzata.
«L’individuo» – scrive Andrea Zhok – «diviene precario in un senso più profondo di
quello semplicemente economico: non si tratta semplicemente di non poter contare su
introiti certi, ma di non poter contare più in generale su punti di riferimento di valore
autonomo»33. Di fatto, i problemi implicati nella richiesta di flessibilità oltrepassano
l’ambiente lavorativo, intaccando sfere assai più delicate come quella dell’identità
personale.
Il problema dell’identità – o del «carattere» – in relazione alle trasformazioni del
capitalismo flessibile, è affrontato da Richard Sennett in The Corrosion of Character
del 1998. L’autore attribuisce però un significato peculiare al concetto di «carattere»,
ben più ampio di quello che siamo abituati ad attribuirgli. Spiega Sennett:

Il “carattere” indica soprattutto i tratti permanenti della nostra esperienza emotiva, e


si esprime attraverso la fedeltà e l’impegno reciproco, o nel tentativo di raggiungere
obiettivi a lungo termine, o nella pratica di ritardare la soddisfazione in vista di uno
scopo futuro. Insomma, tra la moltitudine dei sentimenti in cui tutti ci troviamo

30
Un’«identità situazionale» che tende a «cavalcare l’onda». Cfr. H. Rosa, Accelerazione e alienazione.
Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità. Einaudi, Roma 2015. cit., pp. 43-45.
31
Secondo H. Rosa è il presente stesso a contrarsi in tutte le sue dimensioni a causa del regime temporale
accelerato che qualifica il mondo contemporaneo. Cfr. H. Rose, Accelerazione e alienazione. cit., pp.
12-ss.
32
C. Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive,
Bompiani, Milano 1981, cit., p. 21.
33
A. Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo, JacaBook, Milano 2006, cit., p. 315.

46
costantemente immersi, siamo sempre impegnati nel tentativo di salvarne e
rafforzarne qualcuno. Sono questi sentimenti confermati che plasmeranno il nostro
carattere, definendo i tratti personali cui attribuiamo valore di fronte a noi stessi e in
base ai quali ci sforziamo di essere valutati da parte degli altri.34

Il «carattere», così inteso, è dunque costituito da quei sentimenti che decidiamo di


salvare e rafforzare e dai tratti personali a cui attribuiamo valore, e perciò vogliamo
conservare. Entrambe queste operazioni richiedono però delle coordinate esterne di
riferimento. Abbiamo visto come i rapporti di riconoscimento svolgono questo ruolo
primario, ma anche i legami intersoggettivi duraturi, i sistemi di valori, il radicamento
territoriale e culturale sono punti di ancoraggio per l’identità, la quale «è sempre
identificazione, soggettivazione, movimento di realizzazione»35 che necessita di un
costante rinforzo da parte dell’ambiente circostante. Al contrario, l’indebolimento dei
legami sociali, del senso di identificazione con il proprio lavoro, e del senso di
appartenenza in luoghi e contesti sociali, indebolisce gli individui, «corrode il
carattere» e normalizza l’incertezza, la quale non è la conseguenza accidentale di un
disastro incombente, né si presenta legata a un fattore contingente: incerta è la
configurazione stessa delle nostre società.

Vivere nell’incertezza significa fare del rischio una dimensione esistenziale ed


uno stile di vita obbligatorio. L’uomo contemporaneo, in quanto detentore del suo
«capitale umano», è soggetto ai pericoli, alle crisi, alle perdite e alla bancarotta, che
colpiscono le imprese. Vive nell’incerto di una «società del rischio» dove gli individui
possono contare sempre meno su meccanismi di mutua assistenza.36 Non solo, correre
rischi è oggi diventato una vera e propria prova di carattere, in quanto il mancato
spostamento viene recepito come un indicatore di fallimento e «la stabilità sembra
quasi una morte in vita», scrive Sennett.37 L’importante è fare lo sforzo, scommettere
se stessi, andare incontro al cambiamento senza accoccolarsi nella propria zona
comfort, anche se la nostra scelta si dimostra a conti fatti irrazionale.

34
R. Sennett, op. cit., p. 41.
35
C. Di Martino, Figure della relazione, Saggi su Ricoeur, Patocka e Derrida, Edizioni di Pagina 2018,
cit., pos. 870-882. [versione Kindle]
36
Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica alla razionalità neoliberista,
DeriveApprodi 2019, cit., pp. 438-ss.
37
R. Sennett, op. cit., p. 91.

47
L’avversione nei confronti della routine quotidiana è anch’essa un riflesso
ideologico del “nuovo” capitalismo. Ciò che non si considera è che la routine e il ruolo
possono avere una funzione stabilizzante per l’identità: se da un alto è certamente vero
che la routine può indebolire l’individuo attraverso un’alienante ripetizione, dall’altro
può consolidare abitudini in cui l’individuo può “rilassarsi” e riconoscersi, può aiutare
a comporre una vita omogenea. «Immaginare una vita» – scrive Sennett – «di impulsi
momentanei, di azioni a breve termine, priva di routine sostenibili, una vita senza
abitudini, è più o meno come immaginare un’esistenza priva di senso»38.

L’organizzazione neoliberale delle nostre società minaccia quindi di «corrodere il


carattere» sotto molteplici aspetti, e più in particolare, quei tratti del carattere che
«legano gli esseri umani tra di loro e li dotano di una personalità sostenibile»39.
L’ideologia del self-help disintegra il legame sociale fondato su doveri di reciprocità
verso gli altri, in quanto un mondo del lavoro fondato sul “breve termine” non può che
impedire l’istaurarsi di un sentimento di fiducia reciproca. I legami sociali fondati sulla
fiducia richiedono condizioni stabili e necessitano di molto tempo per svilupparsi. Un
contesto di cambiamento continuo può solo ospitare legami deboli, fugaci e
superficiali, sgravando i soggetti da un senso del dovere reciproco, i quali risultano al
contempo più adatti e funzionali per muoversi tra i nodi della rete.
In sostituzione al sentimento di fiducia reciproca, l’esigenza di “tenere insieme” i
soggetti è stata sapientemente gestita introducendo numerose tecniche di team-
building, le quali, attraverso attività ludiche e creative, sono volte a rafforzare i legami
tra i membri all’interno del team di lavoro, con l’obbiettivo di aumentarne la
produttività. Tali ricette sono molto distanti dal costruire un sentimento di reciproca
solidarietà, il quale si fonda sulla consapevolezza di avere interessi comuni e dal vivere
comuni situazioni. Al contrario, esse spostano l’interesse verso l’interiorità degli
individui, e – seguendo i diktat ideologici del capitalismo neoliberista – non motivano
la forza lavoro attraverso incentivi materiali, ma spingono i soggetti a riconoscersi
negli obiettivi dell’impresa.40 Nonostante questi palliativi, «accettare l’ideologia del
cambiamento continuo» – si legge ne Le particelle elementari di Houellebecq –

38
Ivi, p. 41.
39
Ibid.
40
Cfr. C. Formenti, op. cit., p. 39.

48
«significa accettare che la vita di un uomo sia strettamente ridotta alla sua esistenza
individuale»41.

Un altro importante elemento esaminato da Sennett riguarda la dilagante


ossessione del fallimento, la quale può essere intesa nei termini di una paura per il
mancato riconoscimento. In una società in cui proliferano ricette sul successo, il
fallimento è di fatto un tabù. La preoccupazione di non riuscire a raggiungere la
posizione lavorativa ambita, la serenità di coppia, o la sicurezza economica, è divenuta
per certi versi un’ossessione generalizzata al confine col patologico. Con lo sfumarsi
del confine tra vita lavorativa e vita privata, il fallimento professionale è venuto a
sovrapporsi al più profondo fallimento esistenziale, in un contesto sociale in cui non
“riuscire” professionalmente significa “non aver fatto abbastanza”. La distinzione tra
lavoro e non-lavoro tutelava in parte i soggetti dai rischi di questa sovrapposizione: le
ragioni di una vita riuscita potevano facilmente essere cercate in contesti sociali diversi
da quello lavorativo, ad esempio in quello famigliare, ma una volta deciso che
l’autorealizzazione personale e professionale dovevano considerarsi la medesima
cosa, il circostante ha perso valore e tutte le risorse a disposizione del singolo sono
state incanalate verso la sua professione, la quale è interpretata come la sola garanzia
per il riconoscimento di rispetto e stima sociale. Per queste ragioni una sfera del lavoro
così intesa dovrebbe essere salvaguardata maggiormente, in quanto non ne va solo di
se stessa, ma di gran parte di ciò che le ruota attorno. Paradossalmente però, stiamo
assistendo alla sua sistematica deregolamentazione.
Il timore di un mancato riconoscimento è senz’altro alimentato dalla rapidità con
cui avvengono i cambiamenti nella vita individuale e i mutamenti sociali più in
generale, i quali comportano molto spesso una rapida svalutazione di quei traguardi ai
quali si guardava con soddisfazione e appagamento solo poco tempo prima. Come è
stato ben evidenziato da Hartmut Rosa nel suo Accelerazione e alienazione:

Il riconoscimento non è più un punto di forza acquisito una volta per tutte nella vita,
ma qualcosa che va riconquistato ogni giorno. I trionfi e le imprese di ieri contano poco
domani. Il riconoscimento non si accumula più, è sempre in pericolo di venire
completamente svalutato dal fluire costante degli eventi e dallo slittamento dei
panorami sociali.42

41
M. Houellebecq, Le particelle elementari, Bompiani, Milano 2015, cit., p. 141.
42
H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità.
Einaudi, Roma 2015. cit., p. 57.

49
Generalmente vivere nella società dell’incertezza significa inseguire una domanda
di riconoscimento che resta inevitabilmente inevasa. L’impossibilità di prefissare degli
obiettivi sul medio-lungo periodo, le difficoltà di conservare rapporti sociali e affettivi
durevoli, dunque di sviluppare un’auto-narrazione della propria vita nella forma di un
tutto coerente e dotato di senso, sono tutti elementi che rendono impraticabile al
soggetto condurre una “vita buona” che si fondi sui rapporti di riconoscimento
reciproco. Il modello antropologico di riferimento capace di vivere nella società
dell’incertezza può essere solo quello di un «uomo flessibile», individualizzato e de-
politicizzato, la cui identità – scrive Sennett – «somiglia a un collage di frammenti
sottoposti ad un incessante divenire»43.
L’ideologia del capitalismo neoliberista sta modificando sensibilmente le condotte
dei soggetti facendosi portavoce di uno stile di vita sradicato, flessibile e
profondamente individualizzato.

2.3. I paradossi del capitalismo: autonomia, responsabilità, autorealizzazione

Un tentativo di comprensione critica dei fenomeni sin qui esaminati è stato


intrapreso da Axel Honneth e Martin Hartmann nel saggio Paradossi del capitalismo.
Un programma di ricerca del 2004, nel quale gli autori riflettono su come interpretare
gli esiti contraddittori della critica al capitalismo, le quali idee-guida – contrariamente
ai loro propositi di partenza – si sono trasformate in fonti di legittimazione di una
nuova fase dell’espansione capitalistica, generando veri e propri paradossi.
Le importanti conquiste storiche ottenute sul piano normativo vengono collocate
da Honneth nell’«era socialdemocratica», collocata storicamente tra gli anni Sessanta
e gli anni Ottanta dello scorso secolo. Le trasformazioni culturali dell’epoca e
l’aumento dei redditi su larga scala hanno infatti permesso di ampliare l’ideale di una
condotta di vita autonoma alla maggioranza della popolazione, comportando
importanti conquiste in materia di diritti sociali e civili, una maggiore autonomia

43
R. Sennett, op. cit., pp. 145-146.

50
giuridica a ogni membro della società, e riconoscendo “prestazioni” fino ad allora non
valorizzate socialmente.44
All’inizio degli anni Ottanta le conquiste normative dell’«era socialdemocratica»
e del «capitalismo regolato dallo Stato» incontrano però una serie di sviluppi
economici che ne modificano radicalmente i propositi. Con l’avvento della cosiddetta
rivoluzione neoliberale45 vengono indebolite quelle forme di tutela sociale che lo Stato
garantiva negli anni del dopoguerra, aprendo la strada al capitalismo disorganizzato e
reticolare esaminato poco sopra. Honneth sostiene che l’avvento di questo “nuovo”
capitalismo abbia non solo rimosso gran parte delle conquiste normative acquisite in
precedenza, ma ne abbia persino rovesciato gli intenti emancipatori di fondo,
producendo «contraddizioni paradossali», nelle quali il tentativo di realizzare
determinate intenzioni è andato a diminuire la probabilità concreta di realizzazione
delle medesime.46
Ad esempio, in materia di autonomia, scrive Honneth: «Ciò che prima si sarebbe
potuto inequivocabilmente analizzare quale incremento della sfera dell’autonomia
individuale nel quadro della nuova forma organizzativa del capitalismo assume invece
la forma di pretese eccessive, di disciplinamento o di insicurezza che nell’insieme
conducono a una desolidarizzazione sociale»47. L’autonomia è diventata sì la
condizione del lavoro, ma ha cambiato radicalmente il suo significato sociale:
«Doveva generare meno costrizioni» – scrive il sociologo Alain Ehrenberg – «ma si è
prodotto il contrario». Non è dunque l’autonomia come indipendenza ciò che si è
venuto a concretizzare, ma l’autonomia come competizione.48
Anche la promessa di maggiore responsabilità nel mondo del lavoro si è tradotta
in esiti paradossali. Se inizialmente possedeva caratteri emancipatori, legati al
superamento dell’organizzazione aziendale fondata sul controllo e sulla rigidità
gerarchica in nome della libertà e dell’autogestione del soggetto, viene ora a tradursi
in un sistema di richieste che costringe quest’ultimo ad assumersi responsabilità e
colpe su materie fuori dalla sua possibilità di controllo. Questo rovesciamento deve

44
Ivi, p. 95.
45
«Le vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e di Ronald Reagan negli Stati
Uniti nel 1980 hanno dato l’avvio all’età del neoliberismo, che ha rotto l’accordo keynesiano del
dopoguerra, fondato sul controllo dei movimenti del capitale, sulle restrizioni all’azione della finanza,
sulla contrattazione con sindacati forti, sul ruolo attivo dello Stato nel redistribuire il reddito e fornire
servizi di welfare». C. Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza, cit. p. 18.
46
Ivi, p. 104.
47
A. Honneth, Autorealizzazione organizzata, cit., p. 80.
48
A. Ehrenberg, la società del disagio. Il mentale e il sociale, Einaudi, Torino 2010, cit., pp. 281-ss.

51
considerarsi in parte legato alla nuova fisiologia che ha assunto il capitalismo
contemporaneo, dove l’assenza strutturale di un “soggetto” concreto e identificabile a
cui attribuire la responsabilità dei malfunzionamenti del sistema ha comportato un
“riorientamento” della responsabilità sul singolo individuo, spostando la ricerca della
“causa” dalla dimensione sistemica alla dimensione individuale. Inoltre,
l’individualizzazione di prestazioni, meriti e insuccessi, caratteristica del capitalismo
neoliberista, tende a rimuovere l’orizzonte sociale in cui i lavoratori già da sempre si
muovono, impedendo loro di interpretare il proprio e l’altrui contributo sociale come
interdipendenti, e ingenerando un senso di diffidenza e un’incomprensione
generalizzata nei confronti di mansioni diverse da quella praticata e conosciuta. Pierre
Dardot e Christian Laval ne La nuova ragione del mondo, Critica della razionalità
neoliberista, sostengono a tal proposito che «le patologie mentali come lo stress sono
in rapporto con l’individualizzazione della responsabilità nel raggiungimento di
obbiettivi»49 e al contesto di competizione totale che inasprisce l’isolamento del
lavoratore dal gruppo di lavoro.
Le conseguenze di questi paradossi sulla vita dei lavoratori sono illustrate
magistralmente dal registra anglosassone Ken Loach, nel recente film Sorry We
Missed You, uscito nelle sale del Regno Unito nel novembre del 2019. Il film si
presenta come un ritratto di una “vita offesa”, quella di una famiglia del New Castle,
appartenente alla working class britannica, che a causa della crisi economico-
finanziaria del 2008 si trova costretta a rinunciare al sogno di acquistare una casa
propria e di condurre una vita indipendente. Ricky, il padre di famiglia, stanco di
passare da un lavoretto ad un altro, sceglie di mettersi in proprio, trovando occupazione
come corriere freelance per una grossa ditta di consegne. Quello che viene descritto a
tutti gli effetti come un lavoro autonomo – «Non lavori per noi, ma con noi!», intona
il boss della ditta –, si rivela nel corso della vicenda una forma di sfruttamento
legalizzato. «Sarebbero 14 ore al giorno per sei giorni alla settimana», sottolinea
preoccupata la moglie Abby dopo un attento calcolo dell’impegno richiesto a Ricky
dal nuovo lavoro. Ricky capisce presto di essere schiavo di un’apparecchiatura
elettronica che scandisce le tempistiche di consegna e che decide la direzione di ogni
suo spostamento, perdendo qualsiasi possibilità di gestire autonomamente il proprio
lavoro e la propria vita. Ricky deve però ritenersi responsabile di alcune cose: dei

49
P. Dardot, C. Laval, op. cit., p. 454.

52
giorni di lavoro persi, dei ritardi delle consegne, dei reclami della clientela, dei danni
ai prodotti e alla costosissima apparecchiatura elettronica che egli dovrà pagare di
tasca sua. Non essendoci alcun sistema tutelare e assicurativo a sua difesa, Ricky si
trova costretto a doversi indebitare per ripagare i danni subiti dopo un’aggressione.
L’eccessiva responsabilizzazione e la promessa di un lavoro svolto in piena
autonomia, nella vicenda raccontata da Loach, sono rovesciati paradossalmente in una
perdita di controllo totale sulla propria vita e nel conseguente peggioramento delle
proprie condizioni: la responsabilità è eccessiva, la libertà nulla, l’autonomia
organizzata. La storia di Ricky rappresenta la condizione reale in cui versano numerosi
lavoratori, i quali sotto l’etichetta del “lavoro autonomo” e le incentivanti retoriche del
self-made man, assistono a uno svuotamento progressivo di diritti, sicurezze e tutele.
In conclusione, ai paradossi dell’autonomia e della responsabilità, si vuole
ricondurre il paradosso dell’autorealizzazione, di cui si è già discusso nei precedenti
capitoli. Senza dunque riprendere quanto detto, si vuole aggiungere il risvolto
paradossale di un’autorealizzazione divenuta «organizzata»50, in quanto i soggetti, per
assicurarsi un successo professionale, sono spinti a presentare se stessi come dotati di
quelle caratteristiche pretese dal sistema e funzionali alla sua riproduzione, in quanto
«i soggetti intraprendenti» – scrivono Dardot e Laval – «una volta “prodotti”,
riproducono a loro volta, allargano, e rafforzano rapporti di reciproca competizione,
imponendosi così, nella logica di un processo di autorealizzazione, un adattamento
soggettivo crescente alle condizioni sempre più dure che essi stessi hanno prodotto»51.

Attraverso la promessa di un maggiore riconoscimento in materia di autonomia e


responsabilità individuale, l’ideologia del nuovo capitalismo ha rimosso
sistematicamente le condizioni materiali e le garanzie giuridiche che permettono ai
lavoratori dipendenti di concretizzare quelle stesse promesse di riconoscimento,
ottenendo di fatto gli esiti opposti: «L’individualismo dell’autorealizzazione» – scrive
Honneth – «affermatosi gradualmente nel corso dell’ultimo mezzo secolo è stato nel
frattempo talmente strumentalizzato, standardizzato e reso fittizio da essersi rovesciato
in un sistema di richieste, emotivamente sempre più gelide, sotto la cui pressione i
soggetti, ai nostri giorni, sembrano più soffrire che prosperare»52.

50
A. Honneth, op. cit., pp. 63-81.
51
P. Dardot, C. Laval, op. cit., p. 422.
52
A. Honneth, op. cit., p. 81.

53
Questo «capitalismo paradossale» – così viene definito anche da Alain Ehrenberg
– ha dato origine a nuove e preoccupanti forme di sofferenza sociale.53

2.4. La «funzione» della divisione sociale del lavoro

Axel Honneth, nel saggio Lavoro e riconoscimento del 2000, giunge a constatare
che le problematiche che affliggono il mondo del lavoro contemporaneo stanno
trovando scarsa risonanza nel vocabolario di una teoria critica della società.54 Mentre
proliferano numerose le analisi sociologiche sull’impatto che la rivoluzione digitale
sta avendo sul mondo del lavoro – dal celebre scritto di Jeremy Rifkin al più recente
di Martin Ford, passando per alcuni importanti contributi sul tema da parte di nostri
connazionali, come il già citato Riccardo Stiglianò e il sociologo Domenico de Masi
–, la teoria critica sembra avere rinunciato all’intento emancipatorio che da sempre la
caratterizzata, lasciando alle forze globalizzanti del mercato capitalistico la gestione
totale del mondo del lavoro.55 In parte la critica all’organizzazione del lavoro
contemporaneo è stata depotenziata dalle rapide trasformazioni sociali che abbiamo
esaminato in precedenza, alcune delle categorie utilizzate risultano oramai poco idonee
– se non del tutto fuorvianti – a leggere e interpretare i processi sociali in atto,
richiedendo così alla critica una doverosa riflessione su se stessa e sui suoi standard
normativi di riferimento.
Storicamente la critica sociale del lavoro ha utilizzato come paradigma
interpretativo dell’attività lavorativa il «modello estetico-artigianale», il cui valore
normativo risiedeva nell’auto-oggettivazione non alienata del lavoro. Una
rappresentazione del lavoro basata sul modello estetico-artigianale presuppone però
un’idea di lavoro eccentrica e artistica, slegata dalle reali condizioni materiali della
società, in quanto poggiante su un ideale meramente esterno alle strutture della
riproduzione sociale. Una critica esterna alla sfera lavorativa fondata sul modello
dell’«attività compiuta» – dunque su un modello ideale costruito a priori – si è rivelata

53
Infra, Cap. III.
54
A. Honneth, Lavoro e riconoscimento. Una ridefinizione, in Capitalismo e riconoscimento, Firenze
2010, cit., p. 34.
55
In proposito vedi J. Rifkin, La fine del lavoro (1995), Mondadori, Milano 2014; M. Ford, Il futuro
senza lavoro, Il Saggiatore 2015; D. De Masi, Il lavoro nel XX secolo, Einaudi, Torino 2018; R.
Stiglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro. Einaudi, Torino 2016.

54
incapace di esercitare un impatto concreto sui processi storici, non riuscendo di fatto
a ottenere un sostanziale miglioramento delle condizioni di lavoro.
Oggi, la crescita vertiginosa del settore dei servizi e di attività senza “opera” ha
reso del tutto fuorviante interpretare l’attività lavorativa univocamente in base alla
relazione tra lavoratore e prodotto del suo lavoro, in quanto, in gran parte delle attività
«non viene costruito un prodotto nel quale si potrebbero riflettere le abilità acquisite;
piuttosto, in esse [le attività] si reagisce con quanta più intraprendenza è possibile alle
richieste personali o anonime corrispondenti alle prestazioni richieste dal servizio
offerto»56. A ciò deve unirsi la crescente e sostanziale differenziazione avvenuta nella
sfera del lavoro, la quale impedisce a qualsivoglia critica di formulare un concetto
unitario e totalizzante in merito alla forma e al contenuto dell’attività lavorativa.
Abbandonare il tentativo di operare una critica esterna significa per Honneth
distogliere lo sguardo dalla «struttura dell’attività lavorativa» per considerare invece
«le norme inerenti all’organizzazione del lavoro», spostando l’attenzione della ricerca
verso le condizioni morali già insite nella divisione del lavoro sociale, senza appellarsi
a modelli ideali esterni ad essa: «Soltanto dalla realtà» – scrive a tal proposito
Durkheim – «si può apprendere quali miglioramenti essa reclama»57. Questo tentativo
di «critica immanente» è giustificato dal fatto che Honneth adotta una prospettiva di
«integrazione sociale» del mercato del lavoro capitalistico, la quale presuppone che
nel mercato, considerato parte integrante della vita sociale, si manifestino alcune
implicazioni morali radicate nel mondo della vita sociale: «La soglia per una critica
immanente dell’organizzazione esistente del lavoro sociale» – scrive Honneth – «viene
superata anzitutto nel momento in cui ci si richiama a norme morali che sono già
insiste, come pretese razionale, nello scambio sociale di prestazioni»58.
L’autore che più d’ogni altro ha orientato la sua ricerca in questa direzione è stato
Émile Durkheim, nel suo celebre studio sociologico del 1893 La divisione del lavoro
sociale. Seppur siano passati diversi decenni dalla pubblicazione dell’opera, alcune
riflessioni proposte da Durkheim sembrano superare le profonde trasformazioni
avvenute nelle società contemporanee, dimostrandosi valide e attuali ancora oggi.
La principale questione affrontata dal sociologo francese riguarda la possibilità
concreta che ha la divisione del lavoro capitalistico di «generare tra i propri membri

56
A. Honneth, op. cit., p. 41.
57
É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni Di Comunità, Milano 1989, cit., p. 65.
58
A. Honneth, op. cit., p. 39.

55
un senso di solidarietà e di appartenenza sociale»59. «Durkheim» – continua Honneth
– «si misura con il tentativo di identificare nelle strutture stesse della nuova
organizzazione del lavoro capitalistica le condizioni che potrebbero condurre a una
mutata coscienza dell’appartenenza sociale»60. Durkheim legge dunque la solidarietà
sociale come una pretesa normativa insita allo scambio di prestazioni, dipendente dalla
realtà economica stessa e non da ideali esterni al funzionamento “reale” della società.
Scrive Honneth, riprendendo Durkheim: «Con la divisione del lavoro mediata dal
mercato si formano dei rapporti sociali nei quali i membri della società possono
sviluppare una particolare forma di solidarietà, chiamata “organica”, perché essi
sanno, nel reciproco riconoscimento dei loro rispettivi contributi al bene comune, di
richiamarsi l’un l’altro»61. È proprio il concetto di «solidarietà organica» legato alla
divisione del lavoro sociale a svolgere un ruolo determinante nella ricerca di
Durkheim.
Innanzitutto per Durkheim la divisione del lavoro sociale non è un “fatto” sociale
moralmente neutro, bensì si presenta come un fenomeno «moralmente normativo»,
capace quindi di rispondere a un bisogno reale della società.62 Egli sostiene che la
divisione del lavoro non produce necessariamente la dispersione e l’incoerenza di cui
è ingiustamente accusata, viceversa, essa è il fondamento principale di un certo tipo di
solidarietà sociale, definita appunto «organica». La «solidarietà organica», prodotta
dalla divisione del lavoro, prevale in quelle società che presentano una struttura in cui
«gli individui sono raggruppati non più in base ai loro rapporti di discendenza, ma in
base all’attività sociale alla quale si consacrano»63. Quindi, contrariamente dalla forma
di «solidarietà meccanica» tipica delle società primitive in cui il senso di appartenenza
al gruppo assorbiva l’individualità dei singoli membri, essa scaturisce dalla sostanziale
differenziazione e dalla crescente complessificazione del tessuto sociale. «Solidarietà
meccanica» e «solidarietà organica» sono il prodotto di due strutture sociali e di due
forme di socializzazione differenti:

Nel primo caso l’individuo è socializzato perché, non avendo un’individualità


propria, si confonde con i suoi simili in seno allo stesso tipo collettivo; nel secondo
caso perché, pur avendo una fisionomia e un’attività personale che lo distinguono

59
Ivi, p. 51.
60
Ivi, p. 52.
61
Ibid.
62
É. Durkheim, op. cit., p. 73.
63
Ivi, p. 192.

56
dagli altri, dipende da essi proprio nella misura in cui da essi si distingue, e perciò
dipende dalla società che risulta dalla loro unione.64

La divisione del lavoro sociale non si risolve nell’immagine di una società costituita
da una «miriade di atomi giustapposti», ma in una «rete di obbligazioni» strutturata
che unisce i membri che vi partecipano, vincolandoli reciprocamente. Tale funzione
di «integrazione sociale» è legata alla consapevolezza del singolo individuo di non
essere autosufficiente, bensì di dipendere necessariamente dalla società di cui è
membro, potendo ricevere ciò che gli è necessario solo grazie al contributo degli altri
membri.
In questo modo, la divisione del lavoro sociale riproduce la funzione di
integrazione svolta in passato dai vincoli familiari e tradizionali: «In virtù di essa [la
divisione del lavoro]» – scrive Durkheim – «l’individuo ridiventa consapevole del suo
stato di dipendenza nei confronti della società, e dal fatto che da questa provengono le
forze che lo trattengono e lo frenano. In una parola, diventando la fonte eminente della
solidarietà sociale, la divisione del lavoro diventa anche la base dell’ordine morale»65.
La solidarietà sociale (organica) derivante dalla divisione del lavoro è dunque legata
al «sentimento vivissimo dello stato di dipendenza»66 in cui non solo l’individuo si
trova e si riconosce, ma al contempo accresce la sua individualità e la sua autonomia
in accordo con l’intero sviluppo della società.
Il proposito di studiare la «funzione» della divisione del lavoro sociale non implica
la rinuncia a volerla migliorare: «Se le nostre ricerche non avessero che un interesse
speculativo» – scrive Durkheim nella Prefazione alla prima edizione dell’opera – «non
meriterebbero un’ora di lavoro»67. Egli sostiene infatti che alcune «cause anormali»
abbiano impedito alla moralità della divisione del lavoro sociale di raggiungere «il
grado di sviluppo sociale che il nostro stato sociale reclama già ora»68. Come tutti i
fatti sociali, anche la divisione del lavoro è infatti soggetta a forme patologiche che si
presentano come perturbazioni dello sviluppo della solidarietà sociale, «se
normalmente la divisione del lavoro produce la solidarietà sociale accade però che essa
abbia risultati completamente diversi o perfino opposti»69.

64
Ivi, p. 231.
65
Ivi, p. 391.
66
Ivi, p. 233.
67
Ivi, p. 4.
68
Ivi, pp. 199-200.
69
Ivi, p. 347.

57
Sono tre i tipi possibili di patologia della divisione del lavoro individuati da
Durkheim. La prima forma patologica è ciò che egli definisce «la divisione coercitiva
del lavoro»: laddove non vi sia un’uguaglianza delle condizioni di partenza tale da
permettere al lavoro di dividersi “spontaneamente” in base alla diversità delle capacità
dei soggetti, si ha uno stato patologico in cui gli individui soffrono, in quanto «la
distribuzione delle funzioni sociali, […] non corrisponde alla distribuzione dei talenti
naturali»70. La seconda forma concerne l’insufficiente coordinamento delle prestazioni
individuali e la conseguente consapevolezza parziale della loro mutua dipendenza. La
terza forma patologica riassume le precedenti in un concetto che avrà molta fortuna
nel pensiero sociologico: il concetto di anomia.
«Anomia» significa “carenza di regole”, Durkheim ha però in mente regole
morali, le quali hanno il ruolo di chiarire i fini sociali, ovvero i contenuti della
«coscienza collettiva». La regola non è perciò ciò che crea lo stato di reciproca
dipendenza tra i membri che partecipano alla divisione del lavoro, ma è ciò che emerge
dalla divisione del lavoro stessa. La mancanza di una siffatta regola impedisce
l’armonia delle diverse funzioni, in quanto, affinché l’armonia risulti possibile,
dev’essere necessario che «da ogni singolo posto di lavoro si possa avere una visione
di quel tipo di correlazione cooperativa sussiste tra la propria attività e quella di tutti
gli altri»71, così da permettere di esperire e riconoscere le proprie prestazioni lavorative
e quelle altrui come uno «sforzo cooperativo in vista di un bene comune». «La
divisione del lavoro» – scrive Durkheim a riguardo:

suppone che il lavoratore, lungi dal restare chino sul suo compito, non perda di vista
i suoi collaboratori, agisca su di essi e riceva la loro azione. Egli non è quindi una
macchina che ripete movimenti dei quali non scorge la direzione, ma sa che essi
tendono da qualche parte verso un fine che comprende più o meno indistintamente.
Egli è consapevole di servire a qualcosa.72

In questo contesto l’individuo scorge abbastanza orizzonte sociale per capire che
le proprie azioni hanno uno scopo che le trascende. «Da allora» – conclude Durkheim
– «la sua attività è l’attività di un essere intelligente, perché ha un senso ed egli lo
sa»73.

70
Ivi, p. 366.
71
Ivi, p. 54.
72
Ivi, p. 364.
73
Ibid.

58
2.5. Sul fenomeno dei «lavori senza senso»

Operare una «critica immanente» del mondo del lavoro contemporaneo significa
dunque guardare alle norme inerenti alla divisione del lavoro sociale, il cui fine si
traduce nel sentimento di «solidarietà organica» tra i membri della società. Affinché
ciò possa accadere è necessario che i soggetti che partecipano alla riproduzione sociale
possano esperire la loro attività come parte di uno sforzo cooperativo comune in vista
di uno scopo condiviso.
Un paesaggio sociale del tutto differente da quello delineato sembra emergere da
un recente studio del 2018 dell’antropologo americano David Graeber dal titolo
Bullshit Jobs, il quale ha sollevato un nuovo ordine di problemi che spingono a
ripensare il concetto stesso di lavoro e la sua «funzione» nelle società
contemporanee.74 L’opera in questione nasce dall’enorme risonanza avuta da un
saggio dello stesso autore pubblicato nel 2013, intitolato The Modern Phenomenon of
Bullshit Jobs, il quale ha aperto un acceso dibattito online dove numerosi partecipanti
hanno descritto il loro disagio personale in riferimento all’inutilità o all’insensatezza
del proprio lavoro. Successivamente, nel 2016, Graeber ha raccolto attraverso il suo
account Twitter un impressionante numero di testimonianze provenienti da ogni parte
del mondo – anche se prevalentemente dal mondo anglosassone – contenenti «una
sequela di lavori senza senso, con ipotesi sulle dinamiche organizzative o sociali che
li avevano prodotti e descrizioni delle loro conseguenze del punto di vista sociale e
psicologico»75, intercettando un sentimento di insoddisfazione diffuso che non era
ancora riuscito a trovare visibilità nella sfera pubblica e mediatica. Questo database di
informazioni ha spinto Graeber alla stesura di Bullshit Jobs, nel quale egli si propone
come principale obiettivo quello di «comprendere le conseguenze psicologiche, sociali
e politiche del fatto che così tanti fra noi lavorino pur essendo segretamente convinti
di svolgere compiti privi di utilità o valore sociale»76.
Il timore dell’autore è che ci sia qualcosa di molto sbagliato nell’organizzazione
della sfera lavorativa nelle società contemporanee. Il lavoro, anziché finalizzato alla
produzione, sembra diventato fine a se stesso, privo di qualunque valore e utilità
sociale. I sintomi di questa transizione si mostrano nella proliferazione di «lavori privi

74
D. Graeber, Bullshit Jobs, Garzanti, Milano 2018.
75
Ivi, p. 92.
76
Ibid.

59
di senso». Graeber definisce «lavoro senza senso» un’occupazione retribuita «che è
così totalmente inutile, superflua e dannosa che nemmeno chi la svolge può
giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così»77.
Secondo l’autore è possibile delineare inizialmente cinque categorie di lavoro
senza senso, le quali spaziano dai flunkers, figure il cui scopo principale è far sembrare
o sentire importante qualcuno, ai goons, il cui lavoro manipolatorio e aggressivo è
quello di convincere altri a fare qualcosa contro il buon senso comune; passando per i
cosiddetti duct tappers, gli addetti a risolvere problemi legati a un difetto o una
mancanza di organizzazione del proprio luogo di lavoro; i box tickers, dipendenti che
esistono principalmente per consentire a un’organizzazione di affermare che essa sta
facendo qualcosa che in realtà non sta facendo; fino ai taskmaster, quei superiori che
impiegano il loro tempo inventando incarichi superflui da assegnare ai propri
sottoposti78. Ma al di là della simpatica quanto parziale tassonomia proposta da
Graeber, ciò che importa maggiormente sono le conseguenze morali e psicologiche
che derivano dall’eseguire questi lavori.
Il fatto che un’occupazione senza senso, seppur dignitosamente retribuita, possa
avere delle conseguenze negative sui soggetti occupati non è affatto scontato, in quanto
è pensiero comune presupporre che qualcuno pagato per non fare nulla debba infondo
considerarsi fortunato. In realtà, le prove che abbiamo a disposizione ci indicano che i
presupposti “minimax” (minimizzazione dei costi e massimizzazione dei benefici) non
incidono così positivamente quanto si pensa. In primo luogo, gli studi di psicologia
dell’età evolutiva di Karl Groos e Francis Broucek79, citati da Graeber a sostegno delle
sue tesi, mostrano come l’essere umano già dalla prima infanzia trovi gratificante
l’esperienza di causare consapevolmente effetti prevedibili nella realtà circostante, e
al contrario, risenta di conseguenze traumatiche ogniqualvolta viene negata ad esso
questa possibilità di influenzare l’ambiente. In secondo luogo, ritorna l’importanza dei
rapporti intersoggettivi di riconoscimento, nei quali la conferma da parte dell’altro
rimane il presupposto fondamentale per autocomprendersi come soggetto capace di
esercitare un impatto significativo sulla realtà: «Se è vero» – Scrive Graeber – «che
l’integrità della psiche umana, e persino quella fisica, si consegue nelle relazioni con

77
Ivi, p. 31.
78
Ivi, pp. 51-95.
79
Ivi, pp. 113-114.

60
gli altri e grazie alla sensazione di poter agire sul mondo, allora lavori come questi non
possono essere altro che violenza spirituale»80.
Egli utilizza il termine «violenza spirituale» per definire le ripercussioni
psicologiche che questo genere di lavori riversano sui soggetti, sostenendo in base al
materiale raccolto che «i lavori senza senso suscitano abitualmente sentimenti di
disperazione, depressione e disprezzo di sé», spingendosi ad affermare che questi sono
da considerarsi «forme di violenza spirituale rivolte contro la sostanza stessa di ciò che
significa essere umani»81.
A scopo esemplificativo si vuole riportare un’esperienza menzionata da Graeber,
ma molto simile a quella vissuta in prima persona da chi sta ora scrivendo. Si tratta del
sentimento di insensatezza provato da un’assistente di vendita durante un turno di
lavoro domenicale, la quale scrive:

Il turno della domenica pomeriggio, quando nessuno entra nel supermercato, era
orribile. I gestori erano fissati sul fatto che non potessimo stare lì a far nulla, anche
se il negozio era vuoto. […] Il manager inventava invece per noi compiti totalmente
insensati, come andare in giro a verificare che i prodotti non fossero scaduti o a
risistemarli sugli scaffali in un ordine ancora più impeccabile di quanto già non
fossero. La cosa in assoluto peggiore di quel lavoro era che ti lasciava tanto tempo
per pensare, non richiedendo alcun impegno dal punto di vista intellettuale. Perciò
riflettevo moltissimo su quanto fosse senza senso. […] Pensavo in continuazione a
quanto mi rendesse infelice.82

La testimonianza in questione non si presenta come un caso isolato, ma rispecchia


una situazione vissuta da numerosi giovani educati a una cultura del lavoro svuotata
di ogni contenuto di senso, che ha portato a considerare un’occupazione avvilente e
superflua comunque moralmente superiore al non lavorare. L’aggravante, secondo
Graeber, si ha «quando prima si fa scorgere l’intero mondo delle possibilità sociali e
politiche a una giovane mente facendole frequentare l’università e poi le si dice di
smettere di pensare e mettere invece a posto scaffali già in ordine»83. Tale situazione
amplifica il senso di svuotamento e inutilità percepito dal soggetto, finendo per
assorbire anche il proprio percorso biografico, il quale viene percepito anch’esso come
un’inutile perdita di tempo. Conclude amaramente Graeber: «I giovani europei e
nordamericani, in particolare, ma sempre più anche nel resto del mondo, vengono

80
Ivi, p. 170.
81
Ibid.
82
Ivi, p. 106.
83
Ibid.

61
preparati psicologicamente ad avere lavori senza senso, addestrati a simulare di
lavorare e spinti con diversi mezzi a fare lavori che praticamente nessuno considera
sul serio funzionali a uno scopo sensato»84.

La proliferazione di lavori senza senso sembrerebbe legata alla struttura stessa


dell’odierno sistema socio-economico: «C’è ragione di credere» – scrive sempre
Graeber – «che il numero complessivo dei lavori senza senso e, ancor di più, la
percentuale totale delle occupazioni considerate senza senso da chi le svolge siano
aumentate rapidamente in anni recenti»85, e questo spinge a ricercare le cause nelle
trasformazioni avvenute nell’organizzazione neoliberista del mondo del lavoro.
L’aspetto forse più paradossale della questione – motivo per il quale il fenomeno
che stiamo affrontando ha riscosso scarsa attenzione pubblica – è che i lavori privi di
senso sono esattamente ciò che il capitalismo avrebbe dovuto eliminare, in nome
dell’efficienza e della razionalizzazione della produzione. Eppure, come abbiamo
visto in precedenza, proprio alcune delle dinamiche burocratico-organizzative delle
moderne aziende – il cosiddetto «feudalesimo manageriale»86 – svolgono un
importante ruolo nella produzione di occupazioni insensate.
Ciò che secondo Graeber merita particolare attenzione è il fatto che quest’epoca
ha segnato l’ascesa del capitalismo finanziario e la crescita vertiginosa del settore
cosiddetto FIRE (finanza, assicurazioni, proprietà immobiliare) il quale può essere
considerato un modello per la creazione di lavori inutili: «L’intero settore FIRE» –
scrive l’autore – «crea denaro mediante prestiti, e poi lo fa girare in modi spesso
estremamente complessi, ritagliandone una parte per sé a ogni transazione», ne
consegue che «i dipendenti di banca ne ricavano spesso l’impressione che l’intera
impresa sia priva di scopo»87. Il settore FIRE non ha alcun legame con la produzione,
la manutenzione, la costruzione o la riparazione, ma è costituito principalmente da
processi di distribuzione e allocazione di risorse che sembrano operare su un piano di
realtà differente da quello in cui si svolge “innanzitutto e per lo più” la vita sociale.
Sebbene la crescita del settore FIRE eserciti un’influenza non indifferente sulla
crescita dei lavori senza senso, dinamiche strutturali sembrano orientare l’intero

84
Ivi, p. 180.
85
Ivi, p. 181.
86
Ivi, pp. 216-ss.
87
Ivi, p. 201.

62
mondo del lavoro verso la direzione dell’insensatezza. Già Durkheim, esaminando le
forme «anomiche» di divisione del lavoro, menzionava alcune di queste dinamiche:
«la fusione dei mercati in un unico mercato che comprende pressappoco tutta la
società»; «l’industria produce per consumatori che sono dispersi su tutta la superfice
del globo»; «il lavoro della macchina sostituisce quello dell’uomo»88. Queste tendenze
delle economie contemporanee, assieme ai fattori esaminati nei precedenti capitoli,
dissolvono strutturalmente la solidarietà sociale: la divisione del lavoro sociale si
risolve ora nell’immagine di una società costituita da una «miriade di atomi
giustapposti», e non nella «rete di obbligazioni» strutturata che unisce e vincola
reciprocamente i membri che vi partecipano. Senza un orizzonte collettivo capace di
offrire una cornice interpretativa che inserisca i contributi sociali dei singoli soggetti
all’interno di un disegno cooperativo più vasto, la patologia sociale del lavoro «privo
di senso» sembra destinata a crescere.

Tornando a Graeber, quella che egli definisce «violenza spirituale» ad opera dei
lavori senza senso sembra ricalcare in parte la seconda forma di estraneazione
esaminata da Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, dove alla domanda
«in che cosa consiste l’alienazione del lavoro?» Marx stesso risponde: «Consiste prima
di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere,
e quindi nel suo lavoro egli non si afferma ma si nega, si sente non soddisfatto, ma
infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo copro e
distrugge il suo spirito»89. Se infatti la prima forma di estraneazione esaminata da
Marx si riferisce all’oggettivazione del lavoro nel prodotto, la seconda dinamica
riporta al rapporto tra il lavoratore e l’attività lavorativa stessa, la quale – non
appartenendo ad esso – contribuisce a svilirne lo spirito. Questa forma di estraneazione
sembra essere una conseguenza diretta della divisione patologica del lavoro osservata
da Durkheim, il quale scrive:

Se egli [l’individuo] non sa a che cosa tendono le operazioni che gli sono richieste,
se non le collega a nessun fine, non può assolverle che per abitudine. Tutti i giorni
egli ripete i medesimi movimenti con monotona regolarità, ma senza comprenderli.
Non è più la cellula vivente di un organismo vivente, […] è soltanto un ingranaggio

88
É. Durkheim, op. cit., pp. 360-362.
89
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, cit., p. 71.

63
inerte al quale una forza esterna dà l’avvio e che si muove sempre nel medesimo
senso e nello stesso modo.90

2.6. Lavoro, redistribuzione e riconoscimento

Le patologie sociali finora esaminate non esauriscono certo le numerose ed


eterogenee problematiche che affliggono il mondo del lavoro contemporaneo. In
particolare, non sono ancora state affrontare questioni cruciali come quelle inerenti
alla redistribuzione materiale e alla disuguaglianza sociale. Non è casuale che la teoria
del riconoscimento di Honneth sia stata bersaglio di numerose accuse in materia, in
quanto considerata incapace di far fronte a questa tipologia di problematiche. A detta
dei critici, concentrarsi sulle dinamiche del riconoscimento rischia infatti di trascurare
l’importanza delle rivendicazioni e delle lotte sociali combattute per la conquista di
una maggiore eguaglianza sociale e di una più equa distribuzione delle risorse
materiali.91
Storicamente il problema della disuguaglianza sociale non è stato affrontato
utilizzando la categoria del riconoscimento, bensì attraverso la più idonea categoria
della redistribuzione. Oggigiorno le cosiddette “politiche del riconoscimento” si
riferiscono maggiormente alle rivendicazioni di minoranze etniche, razziali, sessuali e
di genere, le quali hanno acceso una costellazione di richieste che ruotano attorno al
«riconoscimento delle differenze», più che all’idea di uguaglianza sociale sostanziale
tra i membri di una comunità. Tali mobilitazioni tendono oggi a prevalere sulle lotte
sociali che riguardano la redistribuzione, tanto da spingere numerosi studiosi a tornare
a riflettere sul peso che la disuguaglianza sociale e la gerarchia di status esercitano
rispettivamente sul significato da attribuire al concetto di giustizia sociale.
Nancy Fraser ha definito questa transizione nei termini di un passaggio dal
«paradigma della redistribuzione» al «paradigma del riconoscimento»92. Se il primo
rimane ancorato a un concetto di giustizia inteso come uguaglianza sociale prodotta
da una redistribuzione materiale, il secondo si appella ai criteri di giustizia connessi

90
É. Durkheim, op. cit., pp. 362-363.
91
Il problema della disuguaglianza sociale meriterebbe una trattazione più estesa e articolata. Esemplari
sono i contributi di Thomas Piketty (2013; 2020) e di Chiara Volpato (2019). In questa sede si è scelto
di trattare il problema solo in relazione alla teoria del riconoscimento di Honneth.
92
N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica,
Meltemi, Roma 2007, cit., pp. 15-122.

64
alla dignità personale di ciascun individuo. D’altro canto, Honneth definisce questo
passaggio nei termini di un «riorientamento normativo» in grado di mobilitare gruppi
sociali al conflitto attorno a beni «non distribuibili»93. Contrariamente a coloro che
sostengono che le ragioni di fondo di questo riorientamento siano da ricercarsi in una
qualche forma di “disinganno politico” che, mostrando irraggiungibile un maggiore
stato di equità sociale invita ad appellarsi ad un concetto di giustizia in chiave di
riconoscimento, Honneth sostiene che deve considerarsi un effetto dovuto a «un
affinamento della sensibilità morale»94, il quale ha contribuito alla presa di coscienza
del valore che il riconoscimento della dignità degli individui occupa nel nostro tempo
presente.

Redistribuzione e riconoscimento sono i due concetti fondamentali attorno ai quali


ruota un’importante controversia politico-filosofica tra Axel Honneth e Nancy Fraser.
Tale confronto, raccolto nel volume Redistribuzione o riconoscimento? del 2007, oltre
a chiarire le posizioni degli autori sull’argomento, mira a rinnovare la tradizione della
teoria critica, confrontando linguaggi teorici differenti al fine di comprendere quali
possono considerarsi oggi più idonei a interpretare coerentemente le rivendicazioni
sociali e politiche contemporanee.
Se Honneth concepisce il riconoscimento come la categoria morale fondamentale
e sovraordinata, trattando di conseguenza la redistribuzione come derivata, Nancy
Fraser, negando che la redistribuzione possa essere sussunta sotto la categoria del
riconoscimento, propone un «dualismo di prospettiva», ponendo le due categorie come
«dimensioni equi fondamentali e reciprocamente irriducibili della giustizia»95.
Fraser teme giustamente che uno spostamento unilaterale verso la teoria del
riconoscimento possa adombrare le richieste di redistribuzione economica, per questo
cerca di salvaguardarle sostenendo che il criterio normativo attraverso il quale leggere
e interpretare le rivendicazioni del mondo contemporaneo richiede sia la
redistribuzione, sia il riconoscimento, e che nessuna delle due sfere può reggersi da
sé. Fraser propone dunque una concezione bidimensionale della giustizia «in grado di
ospitare tanto rivendicazioni accettabili di eguaglianza sociale quanto di

93
A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Il Mulino, Bologna, 2017, cit., pp. 102-119.
94
Ivi, p. 102.
95
N. Fraser, A. Honneth, op. cit., p. 11.

65
riconoscimento della differenza»96, superando la falsa antitesi tra i due paradigmi.
Anche Honneth, da parte sua, condivide il tentativo di armonizzazione della Fraser,
con la differenza che egli è intenzionato a superare la dicotomia in questione attraverso
una via differente, incentrata sul monismo normativo del riconoscimento.
In primo luogo, scrive Honneth:

La tendenza verso il crescente impoverimento di ampie parti della popolazione;


l’emergenza di una nuova “sottoclasse”, a cui manca l’accesso sia a risorse
economiche, sia a risorse socio-culturali; il costante arricchimento di una ristretta
minoranza – tutte queste scandalose manifestazioni di un capitalismo quasi
totalmente senza limiti rendono oggi scontato che il punto di vista normativo della
giusta distribuzione di beni debba raggiungere la priorità più alta.97

Ciò significa che egli è ben consapevole che leggere i conflitti redistributivi come lotte
per il riconoscimento non significa negare la priorità alle ingiustizie sociali causate
dalla maldistribuzione, bensì sostenere che «le ingiustizie distributive devono essere
interpretate come espressioni istituzionali di disprezzo – o meglio, di relazioni
ingiustificate di riconoscimento»98. Da questa prospettiva consegue che ognuna delle
ingiustizie contemporanee può essere criticata solo a partire da una concezione di “vita
buona” fondata sugli standard normativi di una teoria del riconoscimento,
disuguaglianza sociale compresa.
La distribuzione dipende secondo Honneth dalla valutazione. Se quest’ultima
risulta iniqua, lo sarà anche la distribuzione. Questo perché la stima sociale e il suo
corrispettivo materiale dipendono dai sistemi di valori vigenti nella società, «da griglie
di classificazione e schemi di valutazione ancorati profondamente nella cultura della
società capitalistica»99. In tal contesto, solo una teoria del riconoscimento
«sufficientemente diversificata» può adempiere al compito di fondare una teoria della
giustizia sociale all’altezza dei tempi.
Tralasceremo una ricostruzione puntuale dell’interessante e articolato dibattito tra
i due autori, concentrando l’attenzione sulla proposta di Honneth, il quale, riprendendo
e sviluppando ulteriormente la seconda e alla terza sfera del riconoscimento, tenta di

96
Ivi, p. 17.
97
Ivi, p. 138.
98
Ivi, p. 140.
99
Ivi, p. 187.

66
articolare una risposta che vede i conflitti redistributivi sussunti sotto le lotte per il
riconoscimento.
All’inizio del seguente lavoro si è affermato che i soggetti che partecipano al
mondo sociale nel quale le tre sfere del riconoscimento vengono garantite, trovano
l’opportunità concreta e le condizioni necessarie per relazionarsi a se stessi nelle
modalità positive della fiducia in sé, del rispetto di sé e della stima di sé. Ne consegue
che in un contesto sociale che non garantisce tali condizioni risulta impossibile
perseguire obiettivi di vita liberamente scelti, in quanto a venir meno è la sicurezza nel
proprio valore e nei propri talenti. In particolare, si è mostrato come la terza sfera del
riconoscimento viene a dipendere da forme di riconoscimento istituzionalizzate, le
quali determinano il valore delle scelte di vita individuale attraverso standard di
riferimento socialmente condivisi.
Attorno a quest’ultimo elemento ruota l’intero discorso di Honneth sul rapporto tra
riconoscimento e redistribuzione, spiega Honneth: «Le regole di distribuzione non si
possono semplicemente desumere dai rapporti di produzione, ma vanno piuttosto
considerate come l’espressione istituzionale di un dispositivo socioculturale che
determina il grado di stima sociale del quale certe attività godono in un dato momento
della storia»100. In questo senso, la lotta per il riconoscimento assume la forma di «un
conflitto intorno alla gerarchia valoriale istituzionalizzata che stabilisce quali gruppi
sociali abbiano il diritto di esigere un certo specifico volume di beni materiali sulla
base del loro status e della stima di cui godono»101. Se dunque i conflitti distributivi
sono sempre lotte per il riconoscimento del valore specifico di attività, attributi e
contributi sociali, la questione di fondo verterà sulla «definizione culturale di ciò che
rende un’attività socialmente necessaria e dotata di valore»102.
La conclusione del ragionamento di Honneth merita particolare attenzione.
L’attenzione unilaterale nei confronti dei “dispositivi socioculturali di valutazione”,
dai quali dipendono secondo lo stesso Honneth le regole di distribuzione vigenti in un
determinato contesto storico, rischia di adombrare quelle problematiche che
colpiscono coloro che non partecipano a tale cooperazione, ovvero gli estromessi dal
mondo del lavoro.

100
A. Honneth, op. cit., p. 118.
101
Ivi, p. 119.
102
Ibid.

67
Se guardiamo alle società contemporanee assistiamo di fatto a un crescente
aumento della disoccupazione, la quale è divenuta oramai un fenomeno strutturale103.
La perdita del lavoro e i periodi di inattività prolungata costringono i soggetti ad
accettare impieghi precari e sottopagati, tollerando condizioni estremamente
svantaggiose per i lavoratori stessi. È senz’altro vero che tali situazioni privano i
soggetti dell’opportunità di accedere a quella forma di riconoscimento definita nei
termini di stima sociale, la quale è oggi strettamente legata al prestigio della propria
occupazione e alla retribuzione che ne deriva, ma è difficile esaurire queste
problematiche entro l’ottica valutativa in esame.
Per far fronte a questa patologia sociale del lavoro, Honneth pronostica «una
intensificazione delle lotte per il riconoscimento incentrate sulle definizioni e sulle
modalità di misure istituzionalizzate di stima sociale che stabiliscono quali attività e
abilità debbano avere diritto a un riconoscimento materiale e simbolico»104. In altre
parole, egli sostiene l’esigenza di operare «un ampliamento semantico del concetto di
“lavoro” e quindi del ventaglio di situazioni che appare ragionevole e giustificato
ricondurre a quel concetto»105. Ciò non deve di certo limitarsi al piano del
riconoscimento meramente simbolico o ideologico, ma deve concretizzarsi sul piano
materiale attraverso forme redistributive e compensi adeguati.
In quale misura la proposta di Honneth possa realmente incidere sui processi
sociali in atto resta una questione aperta. Quel che possiamo limitarci a constatare è
che le trasformazioni del lavoro che abbiamo sotto gli occhi avvengono con una tale
rapidità che sembrano condannare ad un inevitabile ritardo qualsiasi tentativo di
comprensione critica del fenomeno in questione e delle conseguenze che comporta
sull’intera società.

2.7. «Ecce robot»: la rivoluzione digitale del mondo del lavoro

Gli operai del colosso automobilistico tedesco Daimler riservano un nomignolo


emblematico a un grande cantiere in costruzione nei pressi di Stoccarda, lo chiamano

103
Ivi, pp. 118-120. Vedi anche J. Rifkin, La fine del lavoro (1995), Mondadori, Milano 2014; M. Ford,
Il futuro senza lavoro, Il Saggiatore 2015; D. De Masi, Il lavoro nel XX secolo, Einaudi, Torino 2018;
R. Stiglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro. Einaudi, Torino 2016.
104
Ibid.
105
Ibid.

68
Fear Factory, la fabbrica della paura.106 Si tratta di Factory 56, progetto di Daimler
che prevede la realizzazione della fabbrica di auto più moderna al mondo dove i robot
costruiranno automobili in piena autonomia come mai prima d’ora. Nel nuovo
stabilimento le macchine comunicheranno tra loro, organizzeranno il lavoro e
distribuiranno automobili ai consumatori senza l’intervento dell’essere umano.
Attraverso i progressi avvenuti nella digitalizzazione della produzione (industria 4.0),
all’Intelligenza artificiale e all’analisi dei Big Data, la Factory 56 sarà in grado di
ottimizzare ogni aspetto della produzione di automobili. Ma c’è dell’altro, il secondo
trend globale inseguito dall’azienda è la digitalizzazione della mobilità, la quale vedrà
i robot intelligenti di Factory 56 produrre automobili a guida autonoma, nonché altri
robot intelligenti.107
Quello di Factory 56 è solo uno dei più interessanti esempi che mostrano come la
rivoluzione digitale in atto stia modificando radicalmente il mondo del lavoro,
relegando ai margini il ruolo svolto finora dal lavoro manuale e minacciando gran parte
delle mansioni altamente qualificate che hanno resistito agli effetti sostitutivi della
prima ondata di automazione. Nonostante la storia delle invenzioni tecnologiche sia di
fatto la storia di sostituzioni e di deleghe di mansioni umane a utensili e macchinari, il
lavoro senza umani è un’idea che continua ad allarmare numerosi studiosi, i quali
premoniscono l’avvento di una «seconda età delle macchine» che potrebbe
rivoluzionare il mondo del lavoro e le nostre società.
Nel 1964 un comitato composto da un gruppo di accademici, giornalisti e
tecnologi, tra cui figuravano il premio Nobel per la chimica Linus Pauling e
l’economista Gunnar Myrdal, presentò un report al presidente americano Johnson, al
Ministro del Lavoro e ai media statunitensi, su tre tendenze rivoluzionarie che
avrebbero stravolto il futuro imminente. Assieme al ruolo svolto dalle armi nucleari e
dalle nuove lotte sui diritti civili, compariva lo spettro di una terza rivoluzione: la
«cibernetizzazione», ovvero l’automazione. Il documento generò un’ondata di timori
sull’impatto rivoluzionario dell’automazione e sulla sostituzione generalizzata della
forza lavoro umana da essa prodotta. Già nel 1946, anno di creazione di Eniac
(Eletronic Numerical Integrator and Computer), Norbert Wiener, pioniere delle

106
Cfr. U. J. Heuser, C. Lobenstein, K. Rudzio, H. Wefing, Die Zeit, trad. it. “Liberi dal lavoro o
schiavi dei robot?” in “Internazionale” n. 1275 – 28 settembre 2018, anno 25.
107
In proposito vedi presentazione Factory 56 in https://www.mercedesbenz.com/en/innovation/
vehicle-development/significant-increase-in-flexibility-and-efficiency-with-factory-56/.

69
tecnologie dell’informazione, sostenne che se siamo in grado di fare una cosa in modo
chiaro e intelligibile, possiamo farla mediante le macchine, aprendo anch’esso allo
scenario di un futuro distopico simile a quello descritto da Kurt Vonnegut nel suo
primo romanzo Piano Meccanico.108
Le preoccupazioni sull’automazione del lavoro nel dopoguerra restavano in gran
parte infondate. Le nuove tecnologie applicate al mondo del lavoro causarono di fatto
aumenti di produttività che permisero ai lavoratori statunitensi di accaparrarsi gran
parte del reddito aggiuntivo – il «plusvalore» generato dalle macchine – sotto forma
di salari più elevati, tali da allontanare idee “neoluddiste” sull’impatto negativo
dell’automazione del lavoro. Ma oggi siamo di fronte a tendenze economiche e sociali
molto diverse da quelle del secondo dopoguerra e i timori sollevati dal Comitato della
Triplice Rivoluzione sembrano essere più fondati di allora: «Oggi» – scrive Martin
Ford:

la correlazione storica quasi assoluta tra maggiore produttività e redditi più elevati è
venuta meno: i salari della maggior parte dei cittadini statunitensi sono rimasti
stagnanti e per molti lavoratori sono addirittura scesi, la disuguaglianza dei redditi ha
raggiunto livelli mai toccati dalla vigilia del crollo azionario del 1929; e una nuova
espressione, jobless recovery, (ripresa senza lavoro), ha conquistato un posto di
rilievo nel vocabolario politico-economico.109

Ristagno dei salari, calo della creazione di posti di lavoro, crescita della
disoccupazione di lungo termine, forte aumento della disuguaglianza, polarizzazione
e impieghi part-time, sembrano tutte tendenze collegate direttamente o indirettamente
alla rivoluzione tecnologica in atto che spingono a ripensare seriamente l’impatto delle
tecnologie sulle nostre economie e sulle nostre vite. Nel 2016 l’Agenzia federale del
lavoro di Norimberga ha sviluppato Job-futuromat.iad.de un portale web che permette
di stimare il futuro che il progresso tecnologico riserva alla nostra mansione.110
Digitando il proprio lavoro è possibile avere un pronostico su quanto l’essere umano
apparirà «antiquato» – per usare la celebre espressione di Günther Anders – nello
svolgere il medesimo lavoro tra qualche decennio. Inoltre, la rivoluzione digitale e
l’Intelligenza Artificiale minacciano lavori sui quali le precedenti rivoluzioni

108
M. Ford, Il futuro senza lavoro, Il Saggiatore, Milano 2017, cit., p. 48.
109
Ivi, p. 49.
110
Vedi https://job-futuromat.iab.de.

70
tecnologiche si sono mostrate inefficaci. Le nuove tecnologie dell’informazione hanno
infatti raggiunto il settore dell’istruzione, della giurisprudenza, della medicina, e altre
numerose mansioni che prevedono alte qualifiche e competenze mirate.
Le tecnologie che hanno permesso e accelerato le trasformazioni rivoluzionarie
in atto passano sotto l’etichetta di “tecnologie dell’informazione” e sono dotate di
intelligenza a un livello mai raggiunto prima nella storia del progresso tecnologico. I
computer diventano sempre più abili nello svolgere mansioni che un tempo erano
prerogativa dell’essere umano, inoltre, l’iperspecializzazione richiesta dal mondo del
lavoro moderno aumenta paradossalmente la possibilità di automazione di
numerosissimi settori. Oggi i Big Data stanno avendo un impatto rivoluzionario in
svariate aree, tra cui la medicina, la politica, le scienze naturali e sociali. La natura non
strutturata di queste abnormi raccolte dati ha portato allo sviluppo di strumenti in grado
di organizzare e dare un senso a informazioni raccolte da fonti definite «non
omogenee». Grazie ai metodi di apprendimento automatico (Machine Learning),
tecnica con cui un computer scandaglia un campione di dati e scrive autonomamente
un programma basato sulle correlazioni statistiche scoperte, un algoritmo può venire
addestrato con dati già noti, per poi risolvere problemi analoghi in base a nuove
informazioni. Algoritmi di apprendimento automatico e analisi dei Big Data sono alla
base dei processi operativi di Amazon, Netflix e Match, e permettono di programmare
proposte di acquisto personalizzate sulla base degli interessi di un cliente rispetto a
quelli di milioni di altri. L’utilizzo di Big Data e di Algoritmi intelligenti comporta
importanti conseguenze sulle occupazioni lavorative basate sulla conoscenza. La
strategia applicabile a numerosi ambiti è la seguente:

Prima si impiegano enormi quantità di dati storici per creare una “mappa”
generale che permetta agli algoritmi di orientarsi in attività di routine,
successivamente si incorporano sistemi di autoapprendimento in grado di
adattarsi alle variazioni o agli imprevisti. Il risultato, probabilmente, sarà un
software intelligente capace di svolgere molti lavori basati sulla conoscenza con
alta affidabilità.111

Oggi il settore dei servizi è sotto attacco su tutti i fronti: dal progetto di Google
del 2008 sulle automobili a guida autonoma alle possibilità vagliate da Walmart
sull’introduzione di una maggiore automazione nei negozi tradizionali di vendita al

111
Ivi, p. 105.

71
dettaglio, fino ai Chatbot e agli algoritmi finanziari che decidono chi può ottenere un
prestito bancario. Nessuno sembra veramente al riparo dall’ondata rivoluzionaria,
nemmeno il settore sanitario e quello dell’istruzione superiore, che essendo due dei
principali sbocchi occupazionali per gli individui altamente qualificati hanno sempre
goduto di una relativa protezione.112
Se l’uomo da produttore e protagonista diviene collaboratore o supervisore
dell’operato di macchinari, il numero di lavoratori necessari diminuirebbe
radicalmente. Inoltre, il ritmo in cui nuovi lavori nascono non regge il confronto con
la potenza sostitutrice delle nuove tecnologie. Il problema di fondo del passaggio a
nuove occupazioni è che queste richiederanno competenze di alto livello che possono
risultare difficilmente acquisibili da chi proviene da mansioni più semplici e meno
professionalizzate. Questo elemento è una caratteristica peculiare della rivoluzione
digitale in atto, caratteristica che la differenzia dalle precedenti rivoluzioni
tecnologiche. Lo dimostrano le numerose pubblicazione sul tema proliferate negli
ultimi decenni, le quali, spesso con toni apocalittici, annunciano l’imminente «fine del
lavoro», o almeno, la fine del lavoro per come siamo abituati a conoscerlo.
Tra i timori e le perplessità sul futuro prossimo che attente il mondo del lavoro
emerge un’attenzione condivisa nei confronti di ciò che accadrà al di fuori di tale sfera,
nella sfera del tempo libero, sulla quale aveva già concentrato l’attenzione uno dei più
importanti economisti del Novecento, John Maynard Keynes. Ragionare su quello che
chiamiamo comunemente «tempo libero» richiede però alcune chiarificazioni.
Possiamo considerare il tempo libero dal lavoro in un duplice senso: il primo
strettamente pragmatico, il tempo liberato dal lavoro è il tempo del non-lavoro, il
tempo libero dal lavoro in cui potersi dedicare ad attività che trascendono l’attività
lavorativa. Una seconda accezione del termine è collegata maggiormente ai frutti del
lavoro – compenso economico in primis – i quali sono utili fattori per dare un
contenuto effettivo al tempo libero dal lavoro (ad esempio, la mia retribuzione mi
permette di organizzare una vacanza nel weekend). Il tempo libero, in questa seconda
accezione, è tale perché è reso utilizzabile dai frutti del lavoro. Il lavoro “libera” il
tempo, nel senso che apre alla possibilità di fare qualcosa di quel tempo. Questa
precisazione è utile per sollevare un problema profondo: esiste un tempo libero dal
lavoro, ma costretto nelle esigue possibilità che le società contemporanee aprono a chi

112
Ivi, pp. 139-183.

72
non possiede capitali pregressi o entrate economiche. In tal senso non si può parlare di
«liberazione dal lavoro» senza prendere in considerazione quali sono le effettive
possibilità di chi oggi si “libera” del lavoro. La vita di un disoccupato, tecnologico o
meno che sia, è stracolma di tempo libero, ma di un tempo libero reso inutilizzabile,
dunque affatto libero.113 Viene da sé che è compito dello Stato e della politica garantire
misure compensative che permettano di superare questa fase ipoteticamente
transitoria. L’obbiettivo di nuove politiche sociali potrebbe essere riassumibile nello
slogan «Salviamo i lavoratori, non il lavoro».114

La rivoluzione tecnologica in atto, oltre a esigere una serie di riflessioni


sull’educazione al tempo libero e sugli eventuali strumenti di compensazione
economica extra-lavorativi – come può essere un reddito minimo universale – ci
obbliga a ripensare il significato sociale del lavoro. Oggi, non solo la disoccupazione
è esperita come un «marchio sociale stigmatizzante»115 e un deficit individuale, ma la
maggioranza della popolazione àncora persino la propria identità alla propria attività
lavorativa, si riconosce in essa e vive per essa. Ciò significa, malgrado le conseguenze
sociali apportate dalla rivoluzione digitale, che il valore sociale del lavoro – il suo
essere fonte di riconoscimento sociale – è rimasto sostanzialmente immutato ed è
ancora fortemente radicato nelle nostre società.
Di fatto stiamo assistendo a trasformazioni asimmetriche: alla rapidità con cui sta
avvenendo la sostituzione di forza lavoro umana sembra non corrispondere alcuna
trasformazione del significato socialmente condiviso del lavoro, perlopiù del lavoro
inteso come dispositivo sociale di riconoscimento. Questa asimmetria ci coglie
impreparati, e costituisce un terreno fecondo per l’insidiarsi di una nuova patologia
sociale legata agli effetti dell’automazione del mondo del lavoro.

113
Questa casistica è sicuramente minoritaria – ma non per questo trascurabile – se si tiene conto
dell’analisi del tutto condivisibile di H. Rosa sull’accelerazione del ritmo di vita. Egli sostiene con
ottime ragioni che all’accelerazione tecnologica non si sia accompagnato alcun aumento del tempo
libero, bensì una nuova «carestia temporale». Cfr. H. Rosa, Accelerazione e Alienazione, cit., pp.13-18.
114
Vedi D. Graeber, Bullshit Jobs; D. De Masi D., Il lavoro nel XX secolo.
115
Cfr. A. Honneth, Lavoro e riconoscimento. Una ridefinizione, cit., p. 34.

73
Capitolo III

L’ESPRESSIONE INDIVIDUALE DELLA PATOLOGIA SOCIALE

«Ah, la felicità cerca la luce, sicché


pensiamo che il mondo sia allegro, ma
la sofferenza si nasconde e si apparta,
sicché pensiamo che essa non esista».1

Herman Melville, Bartleby lo scrivano

3.1. La «fatica di essere se stessi»: depressione e società

Nei discorsi in merito alle trasformazioni del mondo del lavoro apportate dal
capitalismo neoliberista, alla sua componente ideologica e ai risvolti pratici
nell’organizzazione complessiva delle nostre vite, è emerso a più riprese il riferimento
a forme di sofferenza sociale. Invisibilità sociale, insensatezza, anomia, insicurezza,
disgregazione della dimensione identitaria e collettiva, vengono considerate dalla
filosofia sociale patologie sociali diagnosticabili attraverso il richiamo al concetto di
riconoscimento. Tali patologie emergono e si esprimono in primo luogo sotto forma
di sofferenza psichica vissuta in prima persona dagli individui, ma la loro profonda
ragion d’essere appartiene ad una dimensione esterna, incontrollabile dal singolo,
legata alla configurazione propria del suo ambiente sociale.
Per evitare semplificazione indebite nel trattare il complesso rapporto che
intercorre tra patologie sociali e psicopatologie individuali si vuole partire da
un’importante premessa: «È necessario evitare» – scrive Eugenio Borgna – «da un
lato, di cadere nelle sacche positivistiche che riconducono i disturbi psichici a semplici
deragliamenti biologici e, dall’altro, di assolutizzare la prospettiva delle scienze sociali
non tenendo presente la dimensione biologica dell’umano e dissolvendo la realtà della
patologia nell’area di funzioni semplicemente sociali»2. Ad esempio, se è vero che
nella depressione si esprime la patologia di una società, come sostiene il sociologo
francese Alain Ehrenberg, ciò non significa imputare unicamente alla dimensione del

1
H. Melville, Bartleby lo scrivano, e altri racconti di terraferma, Mondadori, Roma 2019.
2
A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e Società, Einaudi, Torino 1999, cit., p. XVIII.

74
sociale il ruolo di “agente patogeno”. Per questo motivo si è scelto di riportare due
letture del problema: una sociologica, ponendo l’accento sulla dimensione del sociale,
e l’altra psichiatrico-fenomenologica, prestando maggiore attenzione alla dimensione
del vissuto individuale. Attraverso queste brevi e necessariamente parziali analisi si
vuole rivedere l’utilizzo del concetto di causalità efficiente nel trattare la patogenesi
dei disturbi depressivi, preferendo adottare di conseguenza la categoria esplicativa del
situativo, considerata più idonea a interpretare la complessità del problema.

Innanzitutto la sofferenza sociale, o psicosociale, viene definita da Alain


Ehrenberg come «una sofferenza psichica di origine sociale che può ridurre a niente
la stima che l’individuo ha di se stesso, e condurlo agli estremi peggiori»3. Il concetto
di sofferenza sociale – sostiene sempre Ehrenberg – è interconnesso a quello di
«precarietà». Un sentimento di precarietà collettivo e privo di specificazione, un
atteggiamento e uno stato mentale fondato sull’insicurezza che coinvolge qualsiasi
aspetto della realtà sociale, manifestandosi negli individui in sentimenti di perdita,
angoscia, insufficienza e svuotamento personale: «La precarizzazione dell’esistenza»
– scrive l’autore – «è il riflesso dell’idea che nella società non esistano più ruoli sociali,
ma solo prove individuali»4.
Questo primo elemento sull’origine sociale dei disturbi depressivi si inserisce
chiaramente nel discorso svolto nei precedenti capitoli, in quanto la precarietà
generalizzata è di fatto la traduzione di ciò che sul piano dell’ideologia neoliberista
viene presentato come flessibilità. Ma non solo i fattori considerati da Ehrenberg
riguardano le medesime trasformazioni sociali descritte poco sopra, anche alcuni
termini cari alla teoria del riconoscimento di Honneth trovato spazio nella diagnosi
sociologica: in primo luogo, la menzione della stima di sé.
Se a queste riflessioni uniamo quelle presenti nella diagnosi sociale di Dardot e
Laval, iniziamo ad avere un quadro esplicativo che riconduce i sintomi presenti nella
letteratura clinica contemporanea ad alcune dinamiche sociali, in particolar modo a
quelle legate alla già esaminata «precarizzazione dell’esistenza» e «all’indebolimento
dei quadri istituzionali e delle strutture simboliche in cui i soggetti trovavano posizione
e identità»5. La sofferenza psichica di matrice depressiva viene in tal modo ad

3
A. Ehrenberg, La società del disagio, Il mentale e il sociale, Einaudi, Torino 2010, cit., p. 257.
4
Ivi, p. 325.
5
P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista, cit., p. 459.

75
intrecciarsi con la patologia sociale connessa all’organizzazione capitalistica e
neoliberista delle nostre società. La sofferenza psichica individuale, intesa come una
forma attraverso cui si esprime una patologia sociale più profonda, diventa un
importante indicatore clinico che deve essere letto anche come cartina tornasole dello
stato di salute delle nostre società. A tal riguardo, i dati disponibili sulla crescita dei
disturbi depressivi hanno portato numerosi studiosi ad iscrivere il discorso depressivo
in un contesto sociologico più ampio.
Le principali motivazioni che portano ad inserire i disturbi depressivi all’interno
di un discorso sulle patologie sociali, riguardano in primo luogo il fatto che essi sono
considerati la quarta maggiore causa di morte prematura e disabilità al mondo; in
secondo luogo, la loro costante e preoccupante crescita;6 in terzo luogo, la complessa
eziologia dei suddetti disturbi, poiché in essi il ruolo giocato dalla componente
genetica sembra essere ampiamente inferiore di quello di altre psicopatologie.7 Ciò
non vuole certamente sottovalutare la rilevanza genetica, ma può spiegare in parte il
maggior peso che si attribuisce all’ambiente sociale negli studi sui disturbi depressivi.
«La fatica di essere sé stessi» è il titolo scelto da Ehrenberg per il suo imponente
studio sulla depressione, dove egli presenta una ricostruzione storica e critica delle
diverse classificazioni nosografiche che si sono succedute dopo il 1975 – anno di
scoperta dell’Imipramina da parte dello psichiatra svizzero Roland Kuhn –, dalla quale
emerge una storia sociale della malattia mentale che consegna importanti elementi per
leggere il significato sociale che assume la depressione ai giorni nostri. Affrontare
l’intera ricostruzione della storia sociale e clinica dei disturbi depressivi e del
complesso problema della farmacoterapia depressiva ci porterebbe assai lontano dagli
obiettivi di questo lavoro. Perciò si ritiene opportuno concentrare l’attenzione sulle
trattazioni dedicate principalmente a ciò che Ehrenberg definisce l’«immagine sociale
della depressione», ovvero il senso tutt’altro che innocuo che l’esser-depressi assume
nell’orizzonte socio-culturale della società in cui viviamo, ma soprattutto,
all’influenza negativa che questo stesso orizzonte sociale esercita sulla salute psichica
degli individui.
L’ipotesi di partenza di Ehrenberg consiste nel sostenere che nella depressione si
esprima una «patologia sociale profonda», quella di una società la cui norma è

6
In proposito cfr. M. A. Taylor, M. Fink, Melancholia. Cambridge University Press, Cambridge 2006;
A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi.
7
Cfr. A. Zhok, Identità della persona e senso dell’esistenza, pp. 178-179.

76
radicalmente mutata: «La depressione» – scrive l’autore – «ci illumina sulla nostra
attuale esperienza personale, poiché essa è la patologia di una società in cui la norma
non è più fondata sulla colpa e sulla disciplina, bensì sulla responsabilità e
l’iniziativa»8. La depressione si presta bene a rappresentare i nuovi dilemmi dell’uomo
contemporaneo, anche se, paradossalmente, oggi come ieri la psichiatria non sa come
definirla.9 Il primato della depressione sembra essere quello di mostrare il frutto
marcio di una combinazione di elementi, o meglio, di «modificazioni normative» che
hanno interessato e interessano tuttora il nostro modo di vivere. Dunque, seguendo le
premesse di Ehrenberg, la depressione può dirci qualcosa sulla qualità del tessuto
normativo delle nostre società.
«La persona» – scrive l’autore – «non è più mossa da un ordine esterno (o da una
conformità alla legge), ma occorre che faccia appello a risorse interne, a competenze
mentali proprie»10. Come si è mostrato in precedenza, non è l’obbedienza disciplinare
a primeggiare nell’organizzazione delle nostre società liberali, bensì l’appello
all’iniziativa individuale e all’intraprendenza mentale. La relativizzazione della
nozione di divieto, l’impianto teorico alla base del liberalismo democratico, è secondo
Ehrenberg uno dei principali sintomi dell’avvenuto trapasso dal cosiddetto
«paradigma della colpa» al «paradigma della responsabilità». Questo cambio di
paradigma ha rimodulato il rapporto tra individuo e società. Ora è lo stesso individuo
emancipato dai divieti ad essere depresso, in un mondo sociale dove – come scrivono
Dardot e Laval – «nessun principio etico, nessun divieto sembra tener testa
all’esaltazione di una scelta infinita e sconfinata»11. Scrivono gli autori:

Il fenomeno depressivo è entrato oramai a far parte della normatività come elemento
negativo: il soggetto che non sopporta la concorrenza generata dal contatto con gli
altri è un essere debole, dipendente, sospetto di non essere all’altezza. Il discorso
della “realizzazione di sé” e del “successo nella vita” induce a una stigmatizzazione
dei falliti, di quelli che dormono e degli infelici, ovvero dei soggetti incapaci di
adempiere alla norma sociale della felicità. Il “fallimento sociale” è al confine con la
patologia.12

8
A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, depressione e società, cit., p. 10.
9
Ivi, p. 4.
10
Ivi, p. 9.
11
P. Dardot, C. Laval, op. cit., p. 460.
12
Ivi, p. 458.

77
Come scrive Christopher Lasch ci troviamo ancora immersi nella difficoltà di
«mantenere l’equilibrio psichico in una società che pretende il rispetto delle regole di
rapporto sociale, ma che si rifiuta di fornire un codice di condotta morale su cui
fondarle»13. A tale mancanza l’individuo deve sopperire con le proprie forze, facendo
leva sulle sue risorse interiori, da qui il richiamo alla responsabilità individuale.
La depressione diviene dunque secondo Ehrenberg una «patologia dell’azione».
Basta osservare lo spostamento avvenuto nella sintomatologia depressiva per
comprendere la portata esplicativa di questa nuova denominazione: dalla tristezza
melancolica rappresentata da Dürer, all’inibizione, alla panne, al sentimento di
insufficienza di un individuo «stanco di dover diventare sé stesso» 14. Ehrenberg
conclude sostenendo che:

l’alta (inesausta) efficienza e la capacità di decisioni e di iniziative pragmatiche,


che la società richiede a ciascuno di noi, non siano conciliabili, e abbiano anzi una
funzione patogena, con la fragilità e con la indecisione, con la responsabilità
vissuta come un «peso» non di rado intollerabile e con la fatica di essere se stessi,
che fanno parte di ogni condizione depressiva.15

3.2. L’«ordine-della-vita» del Typus Melancholicus

Alla lettura sociologica della depressione di Alain Ehrenberg si vuole ora


affiancare la lettura psichiatrico-fenomenologica di Hubertus Tellenbach, in modo da
porre l’accento sulla dimensione del vissuto individuale, illuminando un aspetto della
questione rimasto finora inesplorato: le caratteristiche tipiche dei soggetti melancolici.
Si ritiene anzitutto necessaria un’analisi preliminare di cosa Tellenbach, nel suo
celebre studio fenomenologico sul male della bile nera del 1961 intende con Typus
Melancholicus (d’ora in avanti TM)16: «Noi intendiamo con Typus Melancholicus» –
scrive Tellenbach – «il modo di essere, che s’incontra empiricamente, costituito da una
certa struttura che, per le sue possibilità, inclina verso il campo gravitazionale della
melancolia»17. Tellenbach richiama in questa definizione il potenziale ruolo patogeno

13
C. Lasch, op. cit., p. 20.
14
A. Ehrenberg, op. cit., p. 27.
15
Ivi, p. XX.
16
H. Tellenbach, Melancolia. Storia del problema, endogenicità, tipologia, patogenesi, clinica, Il
Pensiero Scientifico Editore, Roma 2015.
17 Ivi, p. 64.

78
di una peculiare organizzazione del carattere, un medesimo “modo di essere” che egli
ha osservato nei suoi 119 pazienti melancolici sottoposti a controllo dopo la remissione
nella sua clinica di Heidelberg nel 1959. È importante chiarire sin da subito che il
Typus di Tellenbach non si riferisce alla persona depressa, bensì – sulla scorta delle
riflessioni presenti nel Corpus Hippocraticum – a una configurazione caratteriale
tipica che si presenta incline alla caduta nella melancolia, o in altri termini, ad un
«orientamento disposizionale» in cui sono rintracciabili tratti caratteristici.18
Il primo dei tratti che definiscono la tipicità dei soggetti melancolici è riscontrabile
nella tendenza all’ordine. Questa caratteristica, riscontrata da Tellenbach nella totalità
dei pazienti da lui esaminati19, si manifesta nella forma che assumono le relazioni
interpersonali, il rapporto con il proprio lavoro, e la complessiva gestione della vita
del TM. L’ordine è qui un concetto profondo, categoriale, che si estende inglobando
l’intero spettro esperienziale del soggetto, divenendo non solo l’esigenza primaria del
TM, ma persino la condizione di possibilità del suo agire nel mondo.
I melancolici, già secondo la descrizione consegnatoci da Enrico da Gand,
costituiscono il loro spazio d’azione entro precisi e ben poco modificabili limiti,
circoscrivendo in tal modo lo spazio della loro autonomia ai soli fattori su cui possono
avere un diretto controllo20. Al di fuori di questa sfera rassicurante in cui il TM si
protegge, permane una dimensione confusa e impossibile da controllare, dalla quale il
TM non può che rifuggire.
L’«essere-ancorato-all’ordine» proprio dei melancolici è necessariamente un
«essere-ancorato-all’ordine-presente». Perciò, la sfera del futuro, trascendendo la
dimensione del presente controllabile, assume l’aspetto minaccioso e limitante
dell’imprevedibile. In tal modo il futuro viene spogliato dalla funzione di «apertura
possibilizzante» che gli è propria, precludendo al contrario ogni tentativo di
avanzamento e di azione da parte del soggetto. L’immagine riflessa del futuro non
retroagisce più come promessa motivante, bensì come minaccia, tanto da spingere il
melanconico a rimanere ancorato alla dimensione presente – «in panne» direbbe
Ehrenberg –, pur di affrontare l’incertezza di quel “nulla” che lo separa dal futuro.
Risulta allora comprensibile come un qualsiasi tipo di cambiamento nella vita del

18
Cfr. A. Zhok, Identità della persona e senso dell’esistenza, Meltemi editore, Milano 2018, cit.,
p. 182.
19 H. Tellenbach, op. cit., p. 78.
20 Ivi, p. 150.

79
soggetto – come può essere un “semplice” trasloco –possa diventare un fattore
destabilizzante per l’ordine-della-vita del TM.21
Il «racchiudersi-in» un ordine stabilito e limitato, scrive Tellenbach, assume
anche la forma di un «comprendersi-in» tale ordine. Ciò significa che l’ordine
essenziale in cui si rinchiude il TM lo costringe a una pianificazione assidua della
propria vita entro l’orbita ristretta di un “possibile” determinato a priori. In tale orbita
non c’è alcuno spazio per l’immaginazione di traguardi futuri sul lungo periodo, né
per una dimensione progettuale che si discosti troppo dalla situazione presente. I
traguardi sono sempre «traguardi a portata di mano», raggiungi giorno per giorno, con
passi lenti e lineari. Nessun passo falso può essere accettato, come nessun salto nel
vuoto può essere desiderato; solo una forte repulsione nei confronti del rischio e nei
confronti del caso pervade l’immaginario del soggetto melancolico analizzato da
Tellenbach.
Questo rifiuto nei confronti del “correre rischi” si rende manifesto soprattutto in
casi che richiedono l’assunzione di grosse responsabilità da parte del TM. Dal
momento in cui ogni scelta implica una forma di libertà del soggetto, il TM rifuggendo
dalla prima, rinuncia all’esercizio della seconda, autolimitando la sua sfera dell’agire
possibile. Questi e altri elementi mostrano come al TM manchi un «senso di misura
dell’ordine», una capacità di ammorbidire la rigidità che lo immobilizza dinanzi al
fiume carsico e imprevedibile nel mondo sociale con cui si trova a convivere.
La routine quotidiana conferisce una dimensione sicura al melancolico; così come
la tendenza all’identità di ruolo, in ambito famigliare o lavorativo, diviene un perno a
cui esso possa ancorare il proprio sentimento di ordine e in cui possa liberarsi della
fatica che comporta la sopportazione e la gestione dei cambiamenti a cui è
naturalmente soggetto. “Stabilizzando” la propria identità personale attraverso azioni
abituali e riconoscendosi in contesti a lui familiari, il melancolico si “rilassa”, mentre
qualsivoglia evento in cui traspare il rischio di una destabilizzazione di tale ordine,
viene interpretato minacciosamente. È infatti quando l’ordine trapassa in disordine che
si hanno i presupposti per quella che Tellenbach definisce «situazione pre-
melanconica», ovvero la possibilità concreta di una caduta nella melancolia.
Deve essere però chiaro che la situazione pre-melanconica non è “causata” da una
precisa esperienza vissuta; essa non deriva causalmente da quanto esperito, ma dal

21 Ivi, p. 151.

80
valore – si potrebbe dire dalla forma – che l’esperienza vissuta assume all’interno
dell’ordine-nella-vita del TM, quella di un vero e proprio disturbo dell’«ordinatezza».
Come riassume Tellenbach:

Il fatto che essa [l’esperienza del trasloco] si trasformi in una situazione pre-
melanconica solo per questi e non per quelli – ancor meno per ognuno – è deciso in
prima linea dalla costituzione a priori della sua essenza, sulla base della quale la
costituzione è ciò che è, poiché se situazioni con eguale contenuto di significato
oggettivo rappresentano un pericolo di deviare psicoticamente solo i melanconici,
allora ci deve essere qualcosa di tipico nella persona stessa che fa diventare
patogena la situazione trasloco.22

Si comprende dunque come il vero pericolo di una «deriva psicotica» del soggetto
risiede nell’incontro tra la personalità tipica e l’evento esterno, il quale viene ad
assumere una «valenza patogena» per il soggetto coinvolto.
Nonostante la preminenza dell’ordinatezza, questa non è la sola caratteristica
individuata da Tellenbach. Un secondo tratto peculiare riscontrato nella totalità dei
suoi pazienti è l’elevato livello di «coscienziosità» presente nei soggetti e l’eccessiva
pretesa di essi sulle proprie prestazioni.23 Il melancolico presenta infatti una sensibilità
sopra la media nei confronti del rispetto delle norme sociali, e agisce
coscienziosamente per evitare ogni elemento che possa disturbare l’ordine intimo della
sua persona, rifuggendo da qualsiasi azione che presenti il rischio di un’attribuzione
di colpevolezza nei suoi confronti. Non sentendosi all’altezza di adempiere al compito
attribuitogli, né credendosi in grado di rispettare le aspettative degli altri, una richiesta
costante di prestazioni può minare la stabilità del TM, scatenando una crisi
melancolica sotto un carico di richieste che egli non è in grado di sopportare.
Possiamo dunque affermare che l’ordine-della-vita del melancolico è minacciato
da “situazioni” di varia natura, le quali includono sia episodi trasformativi di ampia
portata (un cambio di residenza, la perdita di lavoro o un divorzio); ma anche questioni
inerenti al microcosmo personale, come può essere un litigio o una promessa non
mantenuta. In ogni caso, ogniqualvolta “l’accadere del mondo” sconvolge la tendenza
all’ordine tipica del melancolico, la sua sicurezza e la sua coscienza, si apre una
potenziale «crisi melancolica».

22 Ivi, p. 152.
23 Ivi, p. 99.

81
Da questi brevi cenni sulle caratteristiche tipiche del TM riscontrate da Tellenbach
emerge un forte contrasto tra quelle che sono le richieste di ordine congenite nei
melancolici e la dissoluzione sistematica delle medesime da parte delle trasformazioni
sociali operate dal capitalismo neoliberista. Se da un lato la tipicità delle personalità
melancoliche è da considerarsi una condizione primaria per il verificarsi di cadute
nella depressione, dall’altro non si può ignorare come le trasformazioni destabilizzanti
avvenute del nostro mondo della vita aumentino il rischio di ripercussioni
psicopatologiche nei soggetti tipici. Non solo, le caratteristiche richieste dal sistema,
riassunte nel modello antropologico dell’«uomo flessibile», si collocano in una
posizione diametralmente opposta alle caratteristiche congenite dei melancolici, in
quanto propongono un modello di soggettività irrealizzabile per le identità più fragili.
In un sistema che predilige personalità che siano capaci di adattarsi alle circostanze,
che possiedano un'attitudine al cambiamento, che si dimostrino flessibili, resilienti e
permeabili alle fonti di stress, lo studio di Tellenbach ci consegna strumenti utili a
riflettere sulla possibilità e sugli esiti patologici di queste caratteristiche predilette, dal
momento in cui veniamo informati che un modello del genere non è implementabile
in ogni individualità e può risultare dannoso per la salute mentale degli individui.
Stando a quanto detto, la categoria guida introdotta all’inizio di questa trattazione
e capace di descrivere al meglio la patogenesi depressiva, non può dunque essere
quella di una causalità efficiente, la quale deve essere sostituita con la più idonea
categoria del situativo, introdotta dallo stesso Tellenbach. Il vantaggio esplicativo di
questa categoria permette di non cadere nella tentazione di interpretare alcune
dinamiche sociali come le cause dirette dei disturbi depressivi. Una lettura causale dei
disturbi depressivi andrebbe contro non solo ai dati che abbiamo a disposizione, ma
persino al buon senso. La depressione non colpisce chiunque effettui un trasloco, come
non colpisce chiunque si ritrovi vittima di un licenziamento improvviso: è la tipicità
del singolo che – nell’incontro con il fatto – da forma alla «situazione pre-
melancolica». La categoria del situativo permette quindi di riconoscere la specificità
tipica del melancolico senza sottovalutare il ruolo potenzialmente patogeno
dell’ambiente sociale che lo circonda, ruolo emerso in precedenza anche nelle
riflessioni di Ehrenberg.

82
3.3. L’«individualizzazione» della patologia sociale

Diversamente dalle due prospettive esaminate «l’ontologia oggi dominante» –


scrive Mark Fisher nel suo Realismo Capitalista – «nega alla malattia mentale ogni
possibile origine di natura sociale»24. Un sistema che opera alla dissoluzione
sistematica di qualsiasi struttura collettiva dell'esistenza, di qualsiasi forma identitaria,
di qualsiasi senso di appartenenza, tende a individualizzare anche la sofferenza
mentale, negando i fattori sociali che spesso svolgono un ruolo patogeno
concomitante.
Questo atteggiamento non può essere scisso dall’evoluzione paradossale che ha
riguardato i concetti di autonomia, responsabilità e autorealizzazione esaminati nei
precedenti capitoli: «Quando il riferimento all’autonomia domina le menti» – scrive
Ehrenberg – «quando l’idea che ciascuno, da solo, può diventare qualcuno
progredendo per sua propria iniziativa diventa un ideale inserito nei nostri usi
quotidiani, la domanda è di tipo depressivo: sono capace di farlo?»25. L’accento sul
contenuto semantico assunto da questi concetti, assieme il valore ad essi attribuito,
comporta l’insorgere di nuove domande che l’individuo si trova a dover porre a sé
stesso.
Ehrenberg affronta queste tematiche in un'altra sua opera: La società del disagio,
Il mentale e il sociale. Egli compara due modi di pensare la sofferenza psichica
poggiandosi ai diversi significati che ha assunto il concetto di autonomia individuale
in Francia e negli Stati Uniti d’America. In Francia – egli scrive – la sofferenza
psichica si inserisce in una cornice sociologica, venendo ad assumere la forma di una
«patologia del legame sociale», il quale si indebolisce proporzionalmente
all’accrescere del carico di responsabilità che viene attribuito al singolo individuo.
Dall’analisi del discorso francese sulla sofferenza psichica emerge un costante
riferimento alla vita sociale e alle trasformazioni normative in atto nelle istituzioni. La
“visione” francese della sofferenza sociale viene dunque riassunta nell’equazione
«ascesa dell’individualismo = declino della società».
Per quanto concerne l’interpretazione americana della sofferenza mentale,
Ehrenberg pone l’attenzione su due elementi caratterizzanti: la prima è riscontrabile

24
M. Fisher, Realismo capitalista, p. 84.
25
A. Ehrenberg, La società del disagio, p. XI.

83
nel valore assoluto che viene riconosciuto all’autonomia e all’iniziativa individuale, il
quale «divide i francesi mentre unisce gli americani», mentre il secondo aspetto
riguarda il ruolo attribuito alla personalità, il cui richiamo assume in Francia una
valenza de-istituzionalizzante, mentre viene considerata dagli americani come
un’istituzione fondamentale.
Ora, al di là della ricostruzione operata da Ehrenberg di quelli che egli stesso
considera «due giochi linguistici che uniscono il male individuale al male comune»26,
ciò che preme rilevare da queste riflessioni è che la comprensione e il significato che
viene attribuito alla sofferenza psichica è legato alle trasformazioni del significato
normativo delle istituzioni e dell’autonomia individuale. Dalla comparazione tra le due
diverse modalità di interpretare la sofferenza psichica – nonché il legame che
intercorre tra la dimensione del mentale e quella del sociale – emerge un punto
fondamentale e decisivo per il nostro discorso: «L’uomo non vive in società, ma in
una società particolare che forma un tutto concreto e significativo entro cui l’uomo si
costituisce come essere sociale e contemporaneamente come essere personale»27.
Questi brevi accenni all’opera di Ehrenberg, unitamente alle riflessioni svolte in
precedenza, suggeriscono un diverso modo di porre il problema sulla relazione tra
sofferenza individuale e patologia sociale. Prima di domandarci «qual è la causa di
queste patologie?» – che come abbiamo già visto con Tellenbach è un modo legittimo
ma fuorviante di impostare il problema –, dovremmo inizialmente chiederci: quando
parliamo di sofferenza sociale, «a che cosa cerchiamo di dare forma?»28.

Pensare oggi la sofferenza psichica in relazione alla patologia sociale significa


attuare un cambio di paradigma rispetto a quanto sostenuto dall’individualismo
dominante. Se è vero ed appurato che numerose sofferenze individuali hanno origine
dall’organizzazione del corpo sociale, ciò significa che è in quest’ultimo che si devono
ricercare i possibili rimedi. Risulta dunque doveroso interrogarsi sulla qualità delle
relazioni personali e istituzionali, sulle cornici valoriali in cui si iscrivono le nostre
azioni individuali e collettive, sui fini ultimi che la società nel suo complesso persegue.
Il concetto di patologia sociale mira a offrire resoconti rigorosi che spingano a
intervenire su problematiche innanzitutto e perlopiù di origine sociale.

26
Ivi, p. XXI.
27
Ivi, p. XX.
28
Ivi, p. XXV.

84
L’individualismo dominante cerca di ricondurre entro la dimensione psichica del
singolo problematiche che si radicano all’esterno di esso, “individualizzando” in tal
modo la dimensione del patologico e ignorando che alcune delle ragioni profonde del
malessere generalizzato risiedono nell’organizzazione del contesto sociale. Il sistema
di valori del nuovo spirito del capitalismo cancella l’orizzonte comune della sofferenza
dietro pratiche di psicologia positiva che mirano a ricondurre le cause della sofferenza
all’incapacità dell’individuo di far leva sulle proprie risorse personali, così da spingere
il soggetto a trovare dentro di sé la cura ai suoi mali: «Privatizzare questi disturbi» –
scrive Fisher – «trattarli come se fossero provocati da null’altro che qualche squilibrio
chimico o neurologico dell’individuo, o come se fossero il semplice risultato del
retroterra famigliare, significa escludere a priori qualsiasi causa sociale sistematica»29.
Come abbiamo visto la natura intersoggettiva del soggetto smentisce la validità di
questi tentativi. L’essere umano necessita di condizioni intersoggettive per costituirsi
in un’identità sana. Egli è costitutivamente dipendente dallo stato di salute del contesto
sociale in cui vive. A mostrare il legame che intercorre tra il bisogno di riconoscimento
insito nell’essere umano e la sfera dei disturbi depressivi è ancora una volta un passo
illuminate dell’opera di Dardot e Laval, i quali scrivono:

La sintomatologia depressiva è spesso associata alla non soddisfazione di una


domanda di riconoscimento […]. Eppure, lungi dall’essere ignorata, la dimensione
della dignità umana, dell’autostima dell’attestazione del merito è onnipresente, come
abbiamo visto, nella retorica manageriale. Ma il bisogno di riconoscimento riflette
senza dubbio un fenomeno maggiore, quello del rapporto del soggetto con istituzioni
che non sono più in grado di fornirgli le identità e gli ideali che lo farebbero dubitare
meno del proprio valore.30

Se volessimo accennare ad altri elementi di disturbo – i quali richiederebbero


comunque una trattazione più estesa – troveremmo in Erich Fromm numerosi spunti.
Fromm nella conferenza tenuta nel 1953 dal titolo La patologia della normalità
dell’uomo contemporaneo, si spinge a sostenere che la possibilità di sviluppo
individuale non dipende solo dalla prassi sociale esistente, ma anche dalla dimensione
storica e temporale in cui essa è situata. Egli concepisce infatti l’individuo non solo
come un mero prodotto della società presente in cui vive, ma come una manifestazione

29
M. Fisher, op. cit., p. 59.
30
P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista, cit., p. 459.

85
del passato e del futuro della medesima società: «La salute psichica di un individuo»
– scrive Fromm – «in ogni sua forma, può essere compresa solo tenendo presente il
fine cui si dirige quella società, e il passato che l’ha plasmata»31. La diagnosi sociale
di Fromm rivela quindi il bisogno psichico di avere un quadro di riferimento che possa
orientare le azioni individuali, e dal bisogno di avere un oggetto di devozione che ci
permetta di «investire le nostre energie su qualcosa che vada al di là della produzione
materiale di oggetti destinati al nostro sostentamento»32.
Una condizione che sembrerebbe ancora molto distante in un frangente storico in
cui – con le lapidarie e sempre attuali parole di Lasch – «stiamo perdendo rapidamente
il senso della continuità storica, il senso di appartenenza a una successione di
generazioni che affonda le sue radici nel passato e si proietta nel futuro»33.

3.4. Soffrire di indeterminatezza

L'Aleph, la celebre raccolta di racconti di Jorge Luis Borges, comprende al suo


interno la narrazione in prosa di un breve episodio, intitolato I due re e i due labirinti.
In poche righe viene raccontata la vendetta che il Re d’Arabia impartì al Re di
Babilonia dopo essere stato rinchiuso da quest’ultimo in un intricato labirinto dal quale
egli riuscì ad uscire solo implorando il soccorso del Divino. La vendetta impartita al
Re di Babilonia fu senza dubbio figlia di un gran conoscitore dell'animo umano. Al Re
degli Arabi non servì adoperarsi di un ingegnoso dedalo, egli scelse di abbandonare il
nemico in mezzo al deserto, pronunciando queste ultime parole: «Ora l'Onnipotente
ha voluto ch'io ti mostrassi il mio [labirinto] dove non ci sono scale da salire, né porte
da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo. Poi gli
sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove quegli morì di fame e di
sete»34.
Gli elementi presenti nel racconto di Borges possono essere utilizzati
metaforicamente per delineare due diverse tipologie del tessuto normativo di una
società e due corrispettive reazioni possibili da parte degli individui. Da un lato vi è il

31
Ivi, p. 100.
32
E. Fromm, La patologia della normalità dell’uomo contemporaneo (1953), in I cosiddetti sani.
Patologie della normalità, Mondadori, Milano 1996. cit. p. 21.
33
C. Lasch, La cultura del narcisismo, p. 13.
34
J. L. Borges, I due re e i due labirinti, in L’Aleph, Feltrinelli, Milano 2013.

86
tessuto normativo rigido del labirinto, il quale si potrebbe associare a quello dei regimi
totalitari; dall’altro, vi è quello del deserto, associabile questa volta alle società di
stampo ultraliberale. Il deserto, seppur stracolmo di insidie, presenta un margine di
libertà potenzialmente infinito, in quanto non sono ravvisabili ostacoli ad occhio nudo.
Nel deserto, inoltre, non vi sono punti di riferimento attraverso i quali orientare la
propria azione, bensì un orizzonte mutevole che impedisce di fatto qualsiasi tentativo
di orientamento. La somma di questi due elementi determina la reazione del soggetto
nella forma di una stasi.35 Ciò che si può trarre da questo accostamento è la
raffigurazione del deserto come paesaggio sociale fondato sul valore assolutizzato
della libertà negativa: il soggetto si presenta alla stregua di una monade isolata che
gode di una libertà potenzialmente infinita, però, non avendo a disposizione alcun
sistema di valori a cui fare rifermento, essendo immerso nella totale indeterminatezza,
egli rimane immobile e incapace di direzionare la propria azione, in panne, direbbe
Ehrenberg.
Sotto un diverso punto di vista, la condizione qui rappresentata può essere letta in
modo analogo alla condizione umana moderna descritta da Hartmut Rosa: «Il soggetto
moderno può essere descritto come condizionato in maniera minima da regole e
sanzioni etiche, e quindi considerato “libero”, sebbene sia strettamente regolato,
dominato e oppresso da un regime temporale per lo più invisibile, depoliticizzato,
indiscusso, sottoteorizzato e inarticolato»36.

Tornando alle parole di Honneth potremmo definire questa condizione «soffrire


di indeterminatezza», formula centrale nel suo studio del 2001 sui Lineamenti di
Filosofia del Diritto di Hegel dal titolo Il dolore dell’indeterminato.37 Il testo
hegeliano offre a Honneth l’occasione per attualizzare alcuni dei concetti di Hegel in
vista della formulazione di una «diagnosi del tempo», la quale – spiega Piromalli –
«dovrebbe dare contorni definiti e attribuire precise cause a tendenze di sviluppo che
si stanno affermando nella modernità, e che sembrano determinare mutamenti nei
rapporti sociali tali da ingenerare nei soggetti una varietà di forme di malessere e

35
Alla condizione di stasi come esito depressivo si vuole accostare l’originale espressione di H. Rosa
stasi iperaccelerata, ad indicare «la condizione di attori sociali che percepiscono la propria vita come
un qualcosa di volatile e privo di direzione», ma al tempo stesso in perpetuo movimento. Cfr. H. Rosa,
Accelerazione e alienazione. cit., pp. 43-44.
36
Ivi, cit., p. 2.
37
A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di Hegel,
Manifesto Libri, Roma 2003.

87
disagio emotivo»38. Egli identifica queste forme di sofferenza sociale in un senso
vissuto di “incompiutezza”, “vuotezza”, “depressione”, “solitudine” della vita, il quale
sarebbe in primo luogo legato all’assunzione di un’interpretazione erronea della
propria libertà – in questo caso l’«unilateralità totalizzante» della libertà negativa –
nella quale non è più ravvisabile alcun riferimento ad una prospettiva
intersoggettivamente fondata, né dunque ad una dimensione valoriale condivisa che
sia in grado di dotare di significato le azioni dei singoli individui. L’interpretazione
meramente negativa della libertà, la quale corrisponde sul piano teorico al diritto
astratto hegeliano, rischia di condurre il soggetto all’inazione.39
La sofferenza dell’indeterminato è considerata da Honneth una patologia sociale
di estrema rilevanza che si manifesta in primo luogo nella forma del malessere
individuale. Già in questo testo Honneth va a delineare un modello di
autorealizzazione cooperativa che si pone come “liberazione” da questo stato di
indeterminatezza, nei termini di un modello di libertà sociale in cui la libertà di
ciascuno diviene condizione della libertà di tutti, e nel quale il concetto di
riconoscimento reciproco torna ad avere un ruolo centrale. Egli svilupperà tale idea
nella sua importante opera Il diritto della libertà, Lineamenti per un’eticità
democratica, la quale verrà discussa nel prossimo capitolo.

38
E. Piromalli, Axel Honneth. Giustizia sociale come riconoscimento. Mimesis, Milano – Udine,
2012, cit., p. 154.
39
Infra, par. 4.5.

88
Capitolo IV

LE PATOLOGIE DELLA RAGIONE E DELLA LIBERTÀ

Certo, egli conquistava libertà; ma soltanto


libertà da qualcosa, non libertà di fare
qualcosa. Apparentemente, egli conquistava
la libertà di fare qualunque cosa – perché essa
era appunto puramente negativa –, ma di
fatto, proprio per questo, si trattava di una
libertà priva di qualsiasi direttiva, di
qualunque contenuto determinante e
determinato e pertanto in grado di aprire la
strada a quella vacuità e a quella incostanza
che dà a ogni impulso casuale, stravagante o
seducente la possibilità di espandersi senza
incontrare resistenza. Analogo è il destino
dell’uomo privo di legami, che ha
abbandonato i suoi dèi e al quale la libertà
così conquistata concede soltanto di fare un
idolo qualsiasi valore momentaneo.1

Georg Simmel, Filosofia del denaro

4.1. La «patologia della ragione» e l’eredità della Teoria critica

Nella raccolta di saggi Patologie della ragione, Storia e attualità della teoria
critica, Honneth intraprende un tentativo di ricostruzione dell’eredità filosofica della
Scuola di Francoforte al fine di mostrare gli elementi che la contraddistinguono dalle
altre tradizioni di pensiero e di proporre al contempo un’attualizzazione dei suoi
concetti fondamentali: «Indicare l’eredità della teoria critica per il nuovo secolo» –
scrive a riguardo Honneth – «dovrebbe perciò significare portare in salvo la carica
dirompente che c’è nel pensamento di una patologia della ragione, una carica trattenuta
anche nel tempo presente»2.
Il concetto di «patologia della ragione», secondo Honneth, conferisce unità alla
teoria critica. Esso conserva ancora un potenziale dirompente racchiuso «nell’idea

1
G. Simmel, Filosofia del denaro, UTET, Novara 2013, cit., p. 572.
2
A. Honneth, Patologie della ragione, Storia e attualità della teoria critica, Pensa Multimedia Editore,
Lecce 2012, cit., p. 49.

89
fondamentale secondo cui le condizioni di vita nelle moderne società capitalistiche
generano pratiche sociali, atteggiamenti e strutture della personalità che si abbattono
sotto forma di deformazioni patologiche sulla nostra capacità di ragionare» 3. Il
compito storico della teoria critica è dunque quello di comprendere quanto il
capitalismo debba essere considerato la causa di una tale deformazione della ragione
e di ricercare un genere di prassi sociale capace di superare le sofferenze sociali.
In primo luogo Honneth muove dall’idea – condivisa da tutti gli esponenti della
teoria critica francofortese – che le cause della «negatività» della società, ovvero delle
sue patologie sociali, debbano essere ricercate in una forma di «razionalità deficitaria».
Ad esempio, se per Horkheimer le patologie sociali sorgono da un’organizzazione
della società che non riflette il potenziale di razionalità già presente nelle forze
produttive, per Marcuse la patologia sociale è legata alla repressione della razionalità
presente nel mondo della vita ad opera della società; e ancora, per Habermas la
patologia sociale emerge quando la riproduzione simbolica della società non riflette il
livello di razionalità incarnato dalle forme dell’«intesa linguistica».
Tutte queste formulazioni hanno in comune il medesimo presupposto normativo
implicato nella filosofia sociale di Honneth: «La costituzione di rapporti societari il
cui senso rimane integro se a tutti i membri della società viene accordata l’opportunità
di una propria autorealizzazione andata a buon fine»4. La peculiarità di questo modello
di patologia della ragione risiede nel nesso che intercorre tra la patologia sociale e la
razionalità sociale deficitaria, dove il deficit di ragione sociale viene considerato come
la “causa” della condizione di negatività in cui verte la società, dunque delle sue
patologie sociali.
Questa tesi – dice Honneth – è debitrice della filosofia del diritto di Hegel, il quale,
«supponeva esserci, nel suo presente, una pluralità di tendenze foriere di una perdita
di senso, le quali potevano essere spiegate solamente come l’appropriazione di una
ragione “oggettivamente” invece già disponibile»5. Fondamentale da comprendere è il
presupposto su cui poggia l’intera diagnosi hegeliana: «La ragione si dispiega nel
processo storico in modo da rinnovarsi in generale a ogni nuovo stadio [del suo
sviluppo], creando così istituzioni «etiche» universali, che, se prese in considerazione
dagli individui, consentono loro di progettare le proprie vite in base a scopi

3
Ivi, p. 25.
4
Ivi, p. 51.
5
Ibid.

90
socialmente riconosciuti e quindi di esperirle in quanto sensate»6. Ciò significa che
ogniqualvolta i soggetti non riescono a determinare la loro vita in base a scopi
condivisi e riconosciuti – dunque alle cosiddette «finalità oggettive della ragione» –
sviluppano sintomi di disorientamento, svuotamento e perdita, i quali si traducono in
ciò che Honneth ha definito «soffrire di indeterminatezza», formula introdotta per la
prima volta nel saggio Il dolore dell’indeterminato, già menzionato in precedenza.7
Secondo l’interpretazione hegeliana, le patologie sociali devono essere concepite
come «il risultato di una incapacità di portare a espressione, nella maniera appropriata,
il potenziale razionale già riposto nelle istituzioni, nelle pratiche e nelle consuetudini
di tutti i giorni»8. Tale potenziale razionale è dunque già presente nella realtà, ma è
oscurato da sistemi di pensiero e dalle ideologie che ne impediscono l’emersione e
l’ulteriore sviluppo. Il presupposto alla base di questa posizione è che una “forma
riuscita” di società è pensabile solo mediante il raggiungimento di alti standard di
razionalità, in quanto, scrive Honneth, «solo l’universale razionale poteva accordare
ai membri della società, di volta in volta, il punto di orientamento storico grazie al
quale indirizzare il significato delle proprie vite»9.
Questa tesi ritorna sistematicamente nelle diagnosi storiche operate dagli
esponenti della Scuola francofortese, i quali condividono l’idea per la quale a causare
la patologia sociale del capitalismo sia stato un deficit di razionalità sociale che
impedisce di orientarsi secondo quei principi che hanno come proprio fine razionale
quello dell’autorealizzazione intersoggettiva, sostenendo quindi che «ogni deviazione
da questa idea non può che portare a patologie sociali, riconoscibili dalla sofferenza
che i soggetti provano per la perdita di fini comuni, universali»10. Ciò, ricordiamolo, è
possibile solo attraverso il richiamo a una prassi razionale che funga da criterio
normativo della diagnosi delle patologie sociali, ovvero di quelle deviazioni dall’ideale
che si traducono nell’impossibilità di un’autorealizzazione intersoggettiva riuscita. A
tal proposito, chiarisce Honneth:

Con Hegel, gli esponenti della teoria critica giungono alla convinzione che
l’autorealizzazione dell’individuo riesca solamente intrecciandone gli scopi,
mediante principi o fini universalmente accettati, con quelli dell’autorealizzazione di
tutti gli altri membri della società. […] Nella rappresentazione di un universale

6
Ibid.
7
Infra, par. 3.4.
8
Ivi, p. 52.
9
Ivi, p. 51.
10
Ivi, p. 53.

91
razionale è contenuto un concetto di bene comune sul quale i membri di una società
devono aver razionalmente convenuto per essere in grado di riferire, con
atteggiamento cooperativo, la propria libertà individuale a quella di chiunque altro.11

Il modello di prassi razionale legata alla rappresentazione dell’«universale razionale»


che emerge da queste riflessioni è ciò che avviene entro le condizioni di una prassi
sociale condivisa nei termini di una libertà sociale, cooperativa.
Honneth prosegue la ricostruzione dell’eredità intellettuale della teoria critica
mostrando come il modello proposto dalla Scuola di Francoforte sia da considerarsi
critico tanto nei confronti del liberalismo quanto del comunitarismo. Per quanto
concerne la tradizione liberale, l’ideale normativo di società proprio della teoria critica
risulta incompatibile con le premesse individualistiche del liberalismo, in quanto il
primo sostiene che l’attualizzazione della libertà individuale debba essere legata
dall’assunzione di una prassi condivisa, la cui importanza possa giustificare il venir
meno del mero interesse individuale. Per quanto concerne il rapporto con il
comunitarismo la questione risulta più sfumata; scrive Honneth: «Nel modo in cui la
Scuola di Francoforte si differenzia del liberismo, orientandosi verso un’universale
dell’autorealizzazione, arriva a distinguersi anche dal comunitarismo agganciando
ogni universale alla ragione»12. Ciò significa che la teoria critica non riconduce a
legami affettivi o sentimenti di appartenenza il suo potenziale emancipativo, ma la
realizzazione di quest’ultimo è da considerarsi come l’esito di «visioni razionali» della
realtà.
Quello che contraddistingue la teoria critica dalle due correnti di pensiero è secondo
Honneth il suo perfezionismo etico: «La perfezione della società che hanno in mente
tutti i membri della teoria critica deve essere intesa come il risultato di un
rischiaramento dell’analisi»13. Ma di quale analisi si tratta? In primo luogo, l’analisi
dei processi costitutivi degli esseri umani; in secondo luogo, l’analisi delle circostanze
che hanno incrinato il processo di attualizzazione della ragione all’interno di un quadro
sociologico di riferimento. Mentre il primo aspetto concerne direttamente la teoria del
riconoscimento elaborata da Honneth, il secondo aspetto della teoria critica mira a

11
Ivi, p. 54.
12
Ivi, p. 57.
13
Ivi, p. 58.

92
chiarire il processo di deformazione patologica della ragione attraverso un’analisi
perlopiù sociologica del capitalismo contemporaneo.
La premessa di partenza di questa seconda tipologia di analisi è la seguente: «Le
circostanze sociali che costituiscono la patologia capitalistica delle società esibiscono
la particolarità strutturale di dissimulare esattamente quella fattispecie che, viceversa,
sarebbe motivo di una significativa critica pubblica»14. Questa patologia, seppur in
termini differenti, è stata ampiamente discussa in questo lavoro e può essere
considerata il fil rouge dell’intero discorso. L’ideologia del capitalismo, ovvero il suo
sistema di convenzioni e di pratiche sociali, mira a distogliere l’attenzione dei soggetti
dalle condizioni strutturali che producono e riproducono il sistema stesso, dunque dai
quei fattori che più di altri determinato le loro condizioni di vita. In tale contesto, il
compito della teoria critica diviene quello di chiarire questo processo di dissimulazione
ideologica, il quale viene a corrispondere con ciò che è stato in precedenza definito
«processo storico di deformazione della ragione» legato alla perdita dell’«universale
razionale». Tale perdita, abbiamo visto, è da considerarsi a sua volta il frutto di una
distorsione del processo di razionalizzazione della socialità operata dalla struttura
peculiare del capitalismo, la quale ingenera inevitabilmente patologie sociali. La
struttura del sistema capitalistico diviene in quest’ottica una limitazione della
razionalità, ovvero – dice Honneth – una limitazione di quei principi razionali che sono
già a disposizione dei soggetti in quanto possibilità cognitive, ma che l’organizzazione
capitalistica delle relazioni sociali ne impedisce l’impiego e l’ulteriore sviluppo.
Vedremo nel prossimo paragrafo come Honneth sviluppi esattamente questo punto
attraverso l’attualizzazione del concetto lukácsiano di reificazione.

Prima di proseguire si vuole sollevare un ultimo importante argomento sull’eredità


della teoria critica francofortese. Se finora Honneth si è soffermato sullo schema
formale della diagnosi, condiviso da tutti gli esponenti della Scuola di Francoforte,
nell’ultima parte del suo discorso affronta il complicato rapporto tra la dimensione
teorica della teoria critica e la sfera della prassi che ne dovrebbe conseguire, in altre
parole, ciò che concerne la terapia, dunque il superamento effettivo della patologia
sociale. Lo schema comune della terapia consisterebbe «nell’idea che le forze che
contribuiscono al superamento della patologia sociale scaturiscano precisamente da

14
Ibid.

93
quella ragione la cui realizzazione è ostacolata dalla forma di organizzazione della
società capitalistica»15, il che significa concentrare l’attenzione sulla sofferenza
individuale dei singoli soggetti, i quali si vedono compromessa la possibilità di
un’autorealizzazione soddisfacente. Honneth evidenzia in questo passo la connessione
tra la razionalità deficitaria della società e la sofferenza vissuta individualmente; tra
l’organizzazione sociale e l’autorealizzazione ostacolata del singolo, spingendosi a
sostenere che l’interesse emancipatorio del superamento della patologia sociale non
può che risiedere nella volontà del soggetto stesso. «A prescindere dal singolo caso»
– spiega Honneth:

la teoria critica presuppone che la sofferenza tra i membri della società, sia essa
soggettivamente esperita che oggettivamente attribuibile, debba comunque
condurre a quello stesso desiderio di cura e liberazione dagli abusi sociali che
l’analista è obbligato ad attribuire al suo paziente. In entrambi i casi, si deve
registrare l’interesse a rimettersi in salute attraverso la disponibilità del soggetto a
riattivare […] quelle potenzialità razionali deformate dall’intervento di patologia
sia individuali che sociali.16

Il metodo psicanalitico diviene dunque il modello metodologico della teoria critica,


fondato sul presupposto freudiano che «l’individuo che soggettivamente soffre di una
malattia nevrotica, desidera altresì essere liberato dalla sofferenza correlata»17.
L’interesse emancipatorio dei soggetti diviene quindi una condizione determinante per
il futuro di quel progetto teorico che passa sotto il nome di teoria critica, o filosofia
sociale.

4.2. La reificazione come «oblio del riconoscimento»

Certamente i concetti utilizzati dalla teoria critica richiedono oggi di essere


riformulati per potersi applicare a una realtà sociale fortemente mutata, poiché essa
presenta sotto certi aspetti delle patologie sociali del tutto inedite. La riformulazione
forse più audace dell’itinerario di Honneth sulle patologie del sociale riguarda il
concetto lukácsiano di reificazione.

15
Ivi, p. 70.
16
Ivi, p. 71.
17
Ibid.

94
Seppur soggetto a numerose oscillazioni semantiche e ad applicazioni in campi di
ricerca eterogenei, il concetto di reificazione ha sempre riguardato in qualche modo
un percepito senso di “svuotatezza” della vita, causato principalmente dalla
penetrazione capillare della razionalità economica nelle nostre pratiche e decisioni di
vita, nei nostri comportamenti e nel nostro modo di rapportarci con gli altri, mai però
prima di Honneth era stato accostato al concetto di riconoscimento.

Nel 2005 Honneth pubblica un breve volume dal titolo Reificazione, il quale segna
un ritorno all’itinerario teorico sulle patologie sociali. In questo testo Honneth opera
una lettura fortemente selettiva di Storia e coscienza di classe di György Lukács,18
mosso dall’ambizione di «riformulare il concetto lukácsiano di reificazione in termini
di teoria del riconoscimento»19, al fine di illuminare alcuni aspetti delle società
capitalistiche riconducibili alla patologia sociale della reificazione.
Ne La reificazione e la coscienza del proletariato, trattazione inclusa nell’opera
del 1923 Storia e coscienza di classe, Lukács identifica la reificazione nel rapporto
sociale tra persone che assume il carattere della “cosalità”. Si considera “reificato”
quel rapporto in cui i soggetti che vi partecipano – scrive Honneth:

sono reciprocamente indotti (a) a percepire oggetti dati soltanto come ‘cose’ da cui è
potenzialmente ricavabile un profitto, (b) a considerarsi reciprocamente soltanto
come ‘oggetti’ di una transazione vantaggiosa e, infine, (c) a considerare le loro
capacità come nient’altro che ‘risorse’ supplementari nel calcolo delle opportunità di
profitto.20

Secondo Lukács l’atteggiamento reificante dipendeva dalle condizioni storico-sociali


del capitalismo industriale e in particolar modo alla pervasività delle logiche di
scambio in ogni dimensione della vita sociale. Anche Honneth interpreta il concetto di
reificazione come una forma distorta di agire sociale, un allontanamento da una prassi
che «caratterizza la razionalità della nostra forma di vita»21, in altri termini, come una
patologia della ragione causata dalla limitazione di quei principi razionali che sono

18
G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1967.
19
A. Honneth, Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, trad. it. di C. Sandrelli,
Meltemi, Roma 2007, cit., p. 87.
20
A. Honneth, Reificazione. Sulla teoria del riconoscimento. trad. it. C. Sandrelli, Meltemi, Milano,
2019, cit. [versione Kindle].
21
Ivi, p. 15.

95
già a disposizione dei soggetti in quanto possibilità cognitive, ma che l’organizzazione
capitalistica delle relazioni sociali ne impedisce l’impiego e l’ulteriore sviluppo.
Nelle società capitalistiche, sostiene Honneth, le considerazioni utilitaristiche dei
soggetti vanno a costituire e incentivare un orientamento comportamentale fondato
sull’utilizzo strumentale degli altri, dell’ambiente, e di sé stessi, sostituendo il
coinvolgimento emotivo primario con cui ogni essere umano si rapporta al mondo, con
una disposizione distaccata e passiva, priva di coinvolgimento interiore.22 «Nel
capitalismo» – scrive sempre Honneth – «arriva a predominare una forma di prassi che
costringe all’indifferenza nei confronti di quegli aspetti della vita che per gli altri
hanno valore»; e aggiunge: «Al posto di relazionarsi con l’altro, mediante mutuo
riconoscimento, i soggetti si percepiscono come oggetti, distinguendosi perciò solo in
funzione dei propri interessi»23.
Per meglio chiarire il significato di questa disposizione originaria alla
partecipazione emotiva, Honneth presenta alcune analogie con il concetto
heideggeriano di «cura», originaria predisposizione dell’essere-nel-mondo, e con le
riflessioni di Dewey sul carattere derivato dell’atteggiamento meramente cognitivo nei
confronti della realtà, su cui si fonda ogni comprensione razionale.24
Ciò che Honneth cerca di mostrare nel seguito dell’analisi è la “naturalità” di
questo coinvolgimento emotivo primario, il quale rappresenterebbe appunto la forma
“naturale” di prassi alla base di ogni rapporto che intratteniamo con noi stessi e con
gli altri soggetti. Egli definisce questa disposizione nei termini di un riconoscimento
primario ed elementare, radicato geneticamente nel soggetto e prioritario rispetto ad
ogni attività conoscitiva. A sostegno della priorità del riconoscere sul conoscere
Honneth riprende le ricerche di psicologia dell’età evolutiva di Daniel Stern,
dimostrando come solo una predisposizione emotiva e partecipativa del bambino nei
confronti della madre permette a quest’ultimo di istaurare un legame affettivo che sarà
la condizione necessaria per poter assumere la prospettiva dell’altro, dunque per
potersi riconoscere in quanto individuo.25 Questa disposizione emotiva e partecipativa
viene conservata per tutto l’arco della vita del soggetto, costituendo la precondizione

22
Cfr. E. Piromalli, Axel Honneth, Giustizia sociale come riconoscimento, Mimesis, Milano 2012, cit.,
pp. 234-235.
23
A. Honneth, op. cit., p. 63.
24
Ivi, pp. 33-37.
25
Cfr. D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino.

96
di ogni atto conoscitivo nei confronti nel mondo e di ogni interazione sociale con gli
altri.
Prima di proseguire nella trattazione sul rapporto che intercorre tra questa
disposizione emotiva originaria e gli atteggiamenti reificanti, è importante menzionare
una problematica terminologica sollevata da Eleonora Piromalli nella sua monografia
su Axel Honneth. Ciò che secondo l’autrice non risulta chiaro nel discorso di Honneth
è il motivo per cui egli utilizza la categoria del riconoscimento per definire «quella che
appare piuttosto come una elementare disposizione partecipativa ed emotiva di tutti i
soggetti»26. Sembrerebbe che Honneth stia di fatto sostituendo la «cura» heideggeriana
senza argomentare le ragioni di tale sostituzione, le quali non risultano affatto ovvie.
L’aspetto problematico risiede nell’ambiguità che viene ora ad assumere la categoria
del riconoscimento, poiché, in questo contesto, tale concetto viene a significare sia
l’articolazione delle tre sfere intersoggettive, sia la condizione di possibilità dei
suddetti fenomeni: il cosiddetto riconoscimento primario.
Detto ciò, Honneth prosegue identificando la reificazione come «l’oblio del
riconoscimento», il quale si produce nella “dimenticanza” da parte dei soggetti
riguardo l’origine partecipativa ed emotiva di ogni loro atteggiamento conoscitivo. Ciò
non significa che ogni pensiero oggettivante deve essere identificato con la
reificazione, bensì vuole dire che solo quelle modalità di rapportarsi al mondo e agli
altri che oscurano l’originaria partecipazione riconoscitiva del soggetto devono essere
bollate come “reificate”. Qui Honneth si allontana dall’analisi dell’autore di Storia e
coscienza di classe, in quanto non riconduce le cause dell’oblio del riconoscimento
univocamente alla sfera dei rapporti economici, ma proporne una lettura multifattoriale
della patologia sociale in questione. Se da un lato la proposta di Honneth offre il
vantaggio di includere fenomeni trascurati dall’analisi materialistica di Lukács, come
«il crescente svuotamento della sostanza giuridica del lavoro»27; dall’altro, sembra
allontanarsi da un’interpretazione storico-sociale della reificazione, giungendo a una
interpretazione meramente psicologica e astorica del concetto, svuotandolo di
conseguenza del potenziale critico proprio della lettura lukácsiana.
Honneth sostiene che nel comportamento degli individui il riconoscimento abbia
un primato sia genetico che categoriale sulla conoscenza; un primato della
partecipazione sull’osservazione neutrale. Adottare una postura “reificata” significa

26
E. Piromalli, op. cit., p. 238.
27
A. Honneth, op. cit., p. 83.

97
dunque perdere la capacità di rapportarsi agli altri e a ciò che accade nel mondo nella
forma impegnata e partecipativa conferita dal primato del riconoscimento. La
reificazione viene perciò ad assumere un duplice significato: da un lato essa è da
intendersi come il processo in cui si produce la perdita della disposizione originaria
fondata sul riconoscimento; dall’altro, vuole significare il prodotto di tale
“dimenticanza”, l’esito nel comportamento reificato del soggetto.

Una forma di rapporto reificato è riscontrabile secondo Honneth anche


nell’autorelazione: egli chiama autoreificazione l’oblio del riconoscimento primario
nel rapporto che l’individuo istaura con se stesso. Per giustificare questa diagnosi
Honneth deve presupporre una forma di autorelazione originaria fondata sul concetto
di riconoscimento che possa fungere da standard normativo di riferimento attraverso
il quale individuare e descrivere la reificazione di sé come una deviazione
problematica dalla norma: «Si tratta di sapere» – scrive Honneth a riguardo – «se
mediante il concetto di riconoscimento si possa compiere una descrizione sensata e
convincente del modo i cui ci rapportiamo abitualmente ai nostri desideri, ai nostri
sentimenti e ai nostri progetti»28.
Il primo passo è quello di considerare alcune posizioni teoriche che si allontanano
da una corretta interpretazione dell’autorelazione riconoscitiva: da un lato, egli prende
in esame la concezione cognitivista o “detectivista”; dall’altro, la concezione
costruttivista. La prima menzionata interpreta il rapporto che il soggetto instaura con
se stesso, con i suoi stati mentali e con i suoi vissuti interiori, essenzialmente in
maniera cognitiva, ovvero come un atto conoscitivo preceduto da un percorso di
indagine «verso l’interno», attraverso il quale il soggetto può giungere a una
conoscenza oggettiva dei propri stati d’animo. Tale posizione però si imbatte sin da
subito in serie difficoltà. Considerare la conoscenza dei nostri stati mentali e dei nostri
vissuti interiori raggiungibile mediante un atto percettivo rivolto verso l’interno
dovrebbe infatti presupporre un altro stato mentale superiore, il che significa cadere in
un regresso infinito. Ma a rendere poco plausibile l’equivalenza tra il rapporto che
intratteniamo con noi stessi e quello che intratteniamo con gli oggetti della conoscenza,
è il modo con cui interpretiamo i nostri vissuti interiori, poiché essi vengono spesso
concepiti erroneamente come “oggetti” da conoscere.29

28
Ivi, Cap. V, pos. 1008.
29
A. Honneth, op. cit., Cap. V, pos. 1035.

98
La concezione costruttivista, diversamente dalla prima, «considera i nostri vissuti
interiori come entità che noi contribuiamo attivamente a creare»30 e non come oggetti
semplicemente-presenti da conoscere. Ciò significa che essi esistono nel momento in
cui decidiamo di produrli, formulandoli attraverso enunciati linguistici. La difficoltà
in cui incorre questa seconda posizione consiste nel fatto che gli stati mentali si
impongono alla coscienza del soggetto senza che quest’ultimo possa de facto
controllarli: «Noi incontriamo i nostri stati mentali perlopiù come sentimenti, desideri
e intenzioni che si producono in noi passivamente, prima che possiamo crearci nei loro
confronti un certo margine per l’attività interpretativa»31.
A fianco di questi due modelli Honneth ne propone un terzo, denominato
espressivo, il quale, collocandosi in una posizione mediana, risulta in grado di evitare
le difficoltà in cui incorrono le precedenti concezioni. Scrive Honneth: «Noi non
percepiamo i nostri stati mentali come oggetti né li costituiamo grazie alle nostre
esperienza linguistiche, ma li articoliamo in funzione di ciò che ci è interiormente già
familiare»32. Questo vuole significare che il soggetto non conosce e non produce a
proprio piacimento i propri stati mentali, bensì li riconosce e li articola. Ma affinché
il soggetto possa «entrare in un controllo espressivo» con i propri stati mentali è
necessario che sia avvenuto un riconoscimento antecedente nei confronti di se stesso,
in modo tale da permettergli di identificare i propri vissuti interiori come «meritevoli
di essere articolati», in quanto dotati di valore. Il riconoscimento di sé presuppone
dunque un’autorelazione positiva del soggetto, la quale è determinata socialmente e
sembra riportare alcune analogie con la sfera affettiva dei rapporti primari di
riconoscimento presente nella tripartizione presentata in Lotta per il riconoscimento.33
Una volta tracciato il profilo della condizione “normale” dell’autorelazione
riconoscitiva, Honneth passa a determinare gli atteggiamenti reificanti con riferimento
ai due modelli esaminati in precedenza, quello cognitivista e quello costruttivista, i
quali, da semplici modelli inadeguati alla descrizione dell’autorelazione, si traducono
ora in impostazioni deficitarie della medesima. Così riassume: «Nel primo caso, il
soggetto si rapporta ai propri stati mentali come un dato rigido e fisso, nel secondo
caso, considera questi stati come stati che devono essere prodotti e del cui carattere

30
Ivi, pos. 1052.
31
Ivi, pos. 1063.
32
Ivi, pos. 1084.
33
E. Piromalli, op. cit., p. 247.

99
egli può disporre a seconda che il contesto lo richiede»34. Entrambe le forme sono
dunque da considerarsi “reificanti”, poiché interpretano i vissuti interiori secondo il
modello delle “entità cosali”.
Entrambe le posture adottate sono legate a ciò che Honneth ha definito «oblio del
riconoscimento di sé», ovvero alla “dimenticanza” nei confronti della possibilità di
articolazione e di appropriazione dei propri desideri. In questo senso l’autoreificazione
viene a significare la perdita dell’attenzione prioritaria nei confronti del
riconoscimento, in quanto, «per comprendere ciò che significa, in generale, avere
desideri, sentimenti o intenzioni, dobbiamo prima averli vissuti come una parte del
nostro Io che merita di essere accettata e che vale la pena di rendere comprensibile a
noi stessi e ai partner delle nostre interazioni»35. Ogniqualvolta questa precedente
accettazione cade nell’oblio si apre lo spazio per l’istaurarsi di forme reificate di
rapporto con se stessi, che consistono nel percepire i propri vissuti interiori come
oggetti-cose, «osservati passivamente o prodotti attivamente».

La diversità strutturale tra la forma di autoreificazione e la reificazione del mondo


sociale esaminata in precedenza rende poco plausibile ricondurre entrambi i fenomeni
alla medesima causa di matrice sociale. A questo punto Honneth si limita a indicare
una direzione di analisi verso quelle pratiche sociali che plausibilmente incoraggiano
l’assunzione di un rapporto reificato con il proprio Io, considerando in particolar modo
quelle pratiche legate all’autopresentazione dei soggetti e alla messa in scena del Sé:
«Tutti i dispositivi istituzionali che costringono in modo latente gli individui a far
credere di provare determinati sentimenti, o a fissarli artificialmente, incoraggiano la
disponibilità alla formazione di atteggiamenti autoreificanti»36. L’esempio più
pertinente proposto da Honneth concerne la forma che hanno assunto i colloqui di
lavoro. Se in precedenza questi avevano la funzione di certificare quanto il candidato
fosse adatto allo svolgimento di una certa attività in base alle sue competenze acquisite
nelle precedenti esperienze, ora tendono ad assumere caratteristiche radicalmente
differenti. In linea con quanto descritto nei già menzionati saggi Autorealizzazione
organizzata e Paradossi del capitalismo, i colloqui di lavoro «somigliano sempre più
ai discorsi di qualcuno che ha qualcosa da vendere, poiché richiedono al candidato di

34
Ivi, pos. 1124.
35
Ivi, pos. 1141.
36
Ivi, pos. 1318.

100
inscenare nel modo più convincente ed efficace il proprio futuro impegno nell’azienda,
anziché di riferire sulle qualifiche che ha già acquisito»37. La trasformazione più
evidente riguarda il passaggio di interesse dal passato del candidato, dunque dalle sue
esperienze e competenze acquisite, alla dimensione futura dell’ambizione e
dell’impegno. Tale spostamento d’interesse costringe il candidato a dover imparare a
produrre attitudini e sentimenti come se si trattasse di oggetti, sviluppando di
conseguenza una considerazione di sé simile a quella di un oggetto manipolabile a
proprio piacimento.38
Quest’ultima parte della trattazione sul concetto di reificazione è stata considerata
con ragione la più problematica.39 Honneth, nell’indagine sulle fonti sociali della
reificazione, non chiarisce come conciliare la natura psicologia e astorica dell’oblio
del riconoscimento con le fonti storicamente determinate della reificazione. Come
scrive Piromalli:

Invece di essere inserita in un sistema teorico-sociale critico ben articolato, l’idea di


reificazione viene delineata così da non potersi appoggiare né al principale edificio
teorico honnethiano, basato sulle tre sfere, sulle implicazioni critiche e teorico-sociali
di esse e sul concetto “più sostanziale” di riconoscimento a queste connesso, né a
qualsiasi altra concezione di critica sociale.40

Il tal modo il concetto di reificazione, sconnesso da ogni dimensione storica, viene


svuotato del potenziale critico che lo caratterizzava originariamente nel significato
lukácsiano. La conseguenza di questa “sconnessione” è stata ben evidenziata da David
T. Schafer, il quale sostiene che «se il legame tra reificazione e le sue fonti sociali non
è essenziale, il compito di identificare gli ostacoli sociali che impediscono il
superamento della reificazione diventa molto oscurato»41.
David T. Schafer è l’autore di un articolo dal titolo Pathologies of freedom: Axel
Honneth's unofficial theory of reification, nel quale propone una lettura critica della
riformulazione honnethiana del concetto di reificazione con l’intento di recuperare
quel potenziale critico-diagnostico andato perduto. Anche secondo Schafer, Honneth
ha attribuito un significato psicologico alla nozione di reificazione, diminuendo di

37
Ivi, pos. 1324.
38
Ivi, Cap. VI.
39
Cfr. E. Piromalli, op. cit., pp. 249-253; D. T. Schafer, Pathologies of freedom: Axel Honneth's
unofficial theory of reification. Constellations. 2017;00: pp. 1-11.
40
E. Piromalli, op. cit., p. 251.
41
D. T. Schafer, op. cit. p. 4.

101
fatto la possibilità di utilizzarlo come strumento per la diagnosi di disturbi sociali. Se
da un lato gli esempi riportati da Honneth riguardano in qualche modo esperienze di
riconoscimento legate a meccanismi sociali del tempo presente, dall’altro non vi è
alcun appello esplicito al ruolo che le istituzioni svolgono del causare la reificazione.
In questo modo la reificazione assume i contorni di una patologia di ordine psicologico
e non sociale.
Sintomatico è il fatto che l’accoglienza sfavorevole di Reificazione sembra aver
portato Honneth ad abbandonare l’intero progetto, tanto che questo termine non appare
mai nella sua ultima grande opera Il diritto della libertà. Egli in quest’opera adotterà
una metodologia fondamentalmente diversa da quella presentata negli scritti
precedenti, non più fondata su un’antropologia filosofica debole, ma su un resoconto
normativo della vita etica, la quale non può prescindere dall’analisi storicamente
situata delle istituzioni sociali.
Il tentativo di Schafer si inserisce in questa svolta teorica. Egli tenta di costruire
un ponte tra il concetto di riconoscimento originario, utilizzato in Reificazione, e il
concetto di libertà sociale, presente ne Il diritto della libertà, così da recuperare il
potenziale critico della reificazione riformulandola all’interno di una più articolata
teoria del riconoscimento e capace di includere la dimensione storica dei rapporti di
riconoscimento istituzionalizzati. Nel suo progetto la reificazione viene dunque a
significare qualcosa di sensibilmente diverso dall’«oblio del riconoscimento».
Secondo Schafer essa non può considerarsi come una mera “dimenticanza” di un
riconoscimento precedente, bensì dev’essere interpretata come «una cecità
socialmente condizionata dalle istituzioni giuridiche e dalle rispettive idee di
libertà»42. In gioco c’è lo spostamento teorico di Honneth, in cui il ruolo delle
istituzioni torna in primo piano: «La teoria che ne risulta» – scrive ancora Schafer– «si
basa sul punto di vista di Honneth secondo cui le istituzioni sociali richiedono atti di
base di mutuo riconoscimento per il loro continuo funzionamento e spiega la
reificazione come qualsiasi interruzione socialmente determinata di questa prassi
intersoggettiva fondamentale»43.
L'idea di libertà sociale sviluppata da Honneth assume ora un ruolo analogo al
riconoscimento originario, in quanto entrambi i concetti sembrano riferirsi a una
condizione trascendentale di mutuo riconoscimento. Secondo Schafer ciò non significa

42
Ivi, p. 11.
43
Ivi, p. 8.

102
però che debbano avere lo stesso significato sostanziale. Se l’idea di riconoscimento
originario sta alla base di un’antropologia filosofica debole, l’idea di libertà sociale è
invece il fondamento di un resoconto normativo della vita etica. Questa differenza
mostra come il progetto di Honneth fondato sul concetto di libertà sociale risulti più
vicino al significato lukácsiano della reificazione. L'idea di libertà sociale, essendo
definita da forme istituzionalizzate di mutuo riconoscimento, rende più chiaro il
motivo per cui le patologie che minacciano la libertà sociale sono da considerarsi per
l’appunto sociali, e non meramente psicologiche: «In definitiva» – scrive Schafer –
«le somiglianze e le differenze tra le idee di “riconoscimento originario” e di “libertà
sociale” sono meno importanti del potenziale di quest'ultimo nel fornire una migliore
teoria del concetto originale di reificazione lukácsiana»44.
Per comprendere questa nuova teoria, la quale ha il pregio di integrare il concetto
di reificazione in un quadro più ampio di critica sociale, è necessario ripercorrere le
argomentazioni e i nuovi concetti introdotti da Honneth ne Il diritto della libertà.

4.3. Per una teoria della giustizia come analisi della società

Il diritto della libertà, Lineamenti per un’eticità democratica è l’ultima grande


opera di Axel Honneth. Questa assume un’indiscussa importanza nell’itinerario della
filosofia sociale, in quanto presenta numerosi elementi di novità, sia sostanziali che
metodologici, rispetto agli scritti precedenti.45 Nel saggio sulle patologie del sociale
del 1994 Honneth dichiarava esplicitamente l’esigenza di fondare una teoria della “vita
buona” su basi antropologiche, nei termini di un’etica formale quasi-universale
giustificata dal bisogno di riconoscimento intersoggettivo dell’essere umano. Il
riconoscimento, declinato nelle tre sfere dell’amore, del diritto e della solidarietà,
rappresentava nel contesto esaminato un costitutivo bisogno umano, nonché la
condizione di possibilità dell’autorealizzazione individuale. Esso ha fin qui svolto la
funzione di standard normativo di riferimento attraverso il quale è stato possibile
diagnosticare patologie del sociale.

44
Ibid.
45
Con eccezione de Il dolore dell’indeterminato, nel quale Honneth affronta temi analoghi adottando
un approccio metodologico fondato sulla «ricostruzione normativa», con riferimento diretto
all’impianto teorico dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel.

103
Le ricerche di psicologia evolutiva, sociale e morale, hanno contribuito a
rafforzare e giustificare l’appello al paradigma del riconoscimento intersoggettivo e il
primato genetico che esso occupa nella costituzione dell’identità del soggetto. Il
richiamo a una fondazione antropologica giustificava inoltre la considerazione del
riconoscimento come condizione di giustizia e di “vita buona”: «Una buona vita
umana» – commenta Eleonora Piromalli – «veniva teorizzata in base al fondamentale
requisito relazionale della partecipazione a rapporti di reciproco riconoscimento, i
quali, oltre a costituire il “bene”, rappresentavano sul piano del “giusto” condizioni
irrinunciabili dell’autorealizzazione personale»46.
Questa concezione che intreccia antropologia, riconoscimento e giustizia sociale,
sembra venire meno ne Il diritto della libertà. In quest’opera del 2011 Honneth non
solo apporta delle modifiche strutturali alla sua teoria del riconoscimento, ma adotta
un approccio metodologico differente, debitore della filosofia del diritto hegeliana: la
già menzionata ricostruzione normativa. Attraverso tale approccio mira a far emergere
una teoria della giustizia per le società contemporanee partendo dagli elementi
normativi già presenti nella prassi e nelle istituzioni sociali. Questo cambio di
paradigma segna il passaggio dall’ambizione di fondare un’antropologia debole al
tentativo di elaborare una teoria della giustizia attraverso una ricostruzione normativa
della vita etica.

Il tentativo intrapreso da Honneth ne Il diritto della libertà è dichiaratamente


quello di «sviluppare i principi di una teoria della giustizia sociale direttamente nella
forma di un’analisi della società»47, riprendendo il modello della Filosofia del diritto
hegeliana di cui egli si era già occupato ne Il dolore dell’indeterminato. La premessa
che rende plausibile tale compito è quella di intendere le «sfere costitutive della nostra
società» come «incarnazioni istituzionali di determinati valori, nelle quali l’esigenza
di realizzazione di questi ultimi funzioni da rimando ai principi di giustizia peculiari
di ciascuna sfera»48.
La ricostruzione normativa di Honneth poggia su alcune premesse fondamentali.
In primo luogo egli pone la libertà individuale come valore fondante delle società

46
E. Piromalli, Axel Honneth. Giustizia sociale come riconoscimento, cit., p. 268.
47
A. Honneth, Il diritto della libertà, Lineamenti per un’eticità democratica, Codice Edizioni, Torino
2015. cit., p. XXIX.
48
Ivi, p. XXX.

104
liberaldemocratiche. Tale scelta è giustificata inizialmente dal fatto che l’appello al
valore della libertà ha contraddistinto la storia delle rivendicazioni sociali del mondo
moderno e contemporaneo, perciò egli ritiene corretto considerarlo come fondamento
normativo delle nostre società. In secondo luogo, Honneth sostiene che ogni sfera
istituzionale che costituisce la società incarna un determinato aspetto di questa libertà
individuale. Quest’ultima non deve dunque concepirsi come un valore compatto e
unidimensionale, bensì come intrinsecamente molteplice, suddivisa in aspetti
differenti, i quali implicano una differenziazione delle sfere istituzionali che ne
incarnano il rispettivo valore.
L’articolazione in più sfere del concetto di libertà comporta di conseguenza una
“frantumazione” dell’idea di giustizia, in quanto, in ciascuna sfera istituzionale che
incarna un aspetto della libertà individuale rapportarsi in “modo giusto” gli uni agli
altri assume significati sostanzialmente differenti tra loro: «Non c’è una sola esigenza
di giustizia» – spiega Honneth – «ma ce ne sono tante quante sono le specifiche
applicazioni, nei vari ambiti, del valore trasversale della libertà»49. Ciò comporta che
per realizzare la promessa di libertà immanente alle istituzioni sociali occorrono
presupposti sociali e criteri di giustizia specifici per ogni forma istituzionale.50
L’approccio metodologico utilizzato da Honneth per ricostruire il cammino della
normatività nella storia delle società occidentali è debitrice della filosofia del diritto di
Hegel.51 Nell’opera hegeliana il “giusto” ordinamento di una realtà sociale non veniva
ricercato al di fuori della realtà stessa, bensì nelle sue istituzioni, nelle pratiche sociali
e nelle convinzioni normative condivise, o in altri termini, nelle incarnazioni dello
«spirito oggettivo». Per ricostruzione normativa si deve dunque intendere:

Una procedura che cerca di riformulare gli intenti normativi di una teoria della giustizia
in termini di teoria della società, assumendo direttamente, come filo conduttore
dell’elaborazione e della selezione del materiale empirico, i valori giustificati in modo
immanente: le istituzioni e le pratiche esistenti vengono analizzate e rappresentate,
nelle loro prestazioni normative, secondo la loro rilevanza per la concretizzazione e la
realizzazione dei valori socialmente legittimati.52

49
Ivi, p. 77.
50
Ibid.
51
Cfr. Piromalli, op. cit., pp. 262-263.
52
Ivi, p. XL.

105
Nella ricostruzione normativa ciò che deve emergere sono dunque le istituzioni e le
pratiche sociali che consideriamo “irrinunciabili” per la riproduzione sociale e per la
realizzazione di quei valori fondamentali istituzionalizzati nella modernità.
L’oggetto della ricostruzione è il medesimo di ciò che Hegel ha definito con il
termine eticità, ovvero «solo quelle [forme di vita etica] che potevano
dimostrabilmente concorrere alla realizzazione dei valori e degli ideali generali delle
società moderne»53. Quel che preme essere compreso è che non si vuole tratteggiate
un profilo di società ideale scegliendo un criterio normativo esterno e trascendente, ma
riconoscere e interpretare la realtà presente attraverso il potenziale normativo già insito
nelle istituzioni esistenti.
La ricostruzione normativa non si limita a porre in evidenza l’eticità già esistente
in una realtà sociale, ma vuole richiamarsi a quei valori per criticare le pratiche
esistenti che si presentano come non adeguate nel loro grado di realizzazione. Questo
aspetto “critico” della ricostruzione non contrappone le istituzioni esistenti a criteri
valutativi esterni, ma piuttosto, «gli stessi criteri in base ai quali quelle istituzioni e
pratiche erano state sottratte al caos della realtà sociale, vengono utilizzate per metterle
di fronte a una realizzazione carente e ancora incompleta di valori comunemente
accettati»54. La critica, in breve, riguarda solamente giudizi di grado nei confronti di
istituzioni etiche che potrebbero meglio rappresentare i valori che sono portati a
incarnare. Si comprende come il compito della ricostruzione e della critica normativa
sia quello di costruire un concetto di giustizia sociale che parte dall’analisi delle
istituzioni etiche di una società, per poi valutare se e quanto tali istituzioni risultino
adatte a realizzare i valori di volta in volta comunemente accettati. È in questi termini
che Honneth intende sviluppare una teoria della giustizia sociale nella forma di
un’analisi della società.

4.4. Tre differenti modelli di libertà: negativa, riflessiva, sociale

Il primo passo obbligato è quello di definire i valori su cui si fondano le nostre


società contemporanee, i quali vengono individuati da Honneth nelle diverse
articolazioni del concetto di libertà, intesa nel senso di «autonomia individuale»,

53
Ivi, p. XLIII.
54
Ivi, p. XLIV.

106
valore onnipresente nelle lotte moderne e contemporanee in materia di giustizia e
riconoscimento. Tale valore non può essere scisso dalla rappresentazione della
giustizia sociale, in quanto l’organizzazione delle società deve rispondere in qualche
modo agli interessi e ai bisogni degli individui, i quali potranno considerare come
“giusto” quell’assetto sociale che permette loro di concretizzare al meglio il valore
della corrispondente sfera di libertà. Di fatto, sostiene Honneth, concetti come quello
di “giustizia” e di “autodeterminazione individuale” si rinviano continuamente l’un
l’altro: «È da ritenere “giusto” ciò che garantisce la tutela, la promozione e la
realizzazione dell’autonomia di tutti i membri della società»55.
Una volta stabilito il legame che intercorre tra il valore della libertà individuale e
la giustizia sociale, Honneth passa a esaminare i diversi significati di volta in volta
attribuiti al concetto di libertà e dunque l’idea di giustizia che ne dipende:

L’estensione di tutto ciò che deve appartenere al sé dell’autodeterminazione


individuale non cambia soltanto i contenuti fondamentali, ma anche le norma
costruttive dell’ordine giusto; infatti, quanto maggiore è il numero di capacità e
presupposti ritenuti necessari a consentire un’effettiva autonomia dell’individuo, tanto
più incisiva nella determinazione dei principi sarà l’influenza della prospettiva di
coloro per i quali quei principi devono valere.56

Il legame tra i contenuti fondamentali dell’autodeterminazione individuale e le norme


alla base di un ordine “giusto” comporta la distinzione fra diversi significati e modelli
di libertà storicamente influenti, i quali si legano ai diversi modi di intendere i bisogni
e le intenzioni degli individui. Honneth, diversamente dalla distinzione in libertà
positiva e libertà negativa operata da Isaiah Berlin, propone una tripartizione del
medesimo concetto, distinguendo un modello negativo (o giuridico), un modello
riflessivo (o morale), e un modello sociale di libertà.

Il modello della libertà negativa viene collocato storicamente all’epoca delle


guerre di religione del sedicesimo e diciassettesimo secolo. Ciò che contraddistingue
questo significato di libertà è l’accezione appunto negativa di essa, la quale può essere
tradotta nella formula «libertà come assenza di opposizione», trovando in Thomas
Hobbes il suo massimo teorico dell’età moderna. Nonostante le numerose correzioni

55
Ivi, p. 10.
56
Ivi, p. 11.

107
teoriche operate dai pensatori liberali successivi, il concetto di libertà negativa è stato
sempre legato alla garanzia di una sfera d’azione soggettiva tutelata da qualsivoglia
impedimento esterno, una sfera di diritti di natura appartenenti al singolo individuo.
Questo tipo di libertà non richiede alcuna definizione aprioristica di scopi né un
contenuto sostanziale dell’azione per essere concretizzata: «Il puro atto di una
decisione priva di impedimenti» – spiega Honneth – «è sufficiente a qualificare come
libera l’azione che ne deriva»57. In tal senso “essere libero” viene a significare poter
realizzare scopi egocentrici e arbitrari, con un'unica clausola: essi devono risultare
compatibili con la libertà degli altri individui.
Quello che viene meno nell’interpretazione negativa del concetto di libertà è la
possibilità di disporre di criteri che permettono di valutare uno scopo di vita, criteri
sostanziali, dunque diversi da quello della mera compatibilità con il vivere comune, il
quale non dice comunque nulla sul contenuto dell’azione. La libertà negativa delimita
infatti uno «spazio di non-interferenza» nel quale il soggetto può agire liberamente,
senza alcuna prescrizione, senza alcun obiettivo dichiarato.
Oltre a ciò, la libertà negativa rivela il suo carattere di incompletezza e parzialità
attraverso un altro elemento: il richiamo ai diritti soggettivi come diritti naturali di
ciascun individuo. Questa concezione dei diritti soggettivi deve considerarsi
un’interpretazione gravemente fuorviante. Spiega Andrea Zhok:

Il diritto come libertà di cui parla Hobbes è semplicemente un impulso individuale


dominante [...]. Un diritto come controparte di un dovere, ha invece essenzialmente
carattere relazionale, sociale, e non può essere attribuito ad un soggetto di principio
isolato. Un diritto soggettivo può esistere solo in concomitanza con un simmetrico
dovere in rapporto ad altri individui.58

La libertà negativa è dunque da considerarsi una forma “parziale” di libertà perché


presuppone una sfera di diritti soggettivi ego-centrata naturalmente attribuibili a
ciascun individuo preso isolatamente, ma la natura stessa dei diritti soggettivi richiede
una dimensione intersoggettiva: un diritto esiste nel momento in cui vi è qualcheduno
disposto a riconoscerlo come tale. Nel discorso attorno alla libertà negativa questo

57
Ivi, p. 18.
58
A. Zhok, Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente. Meltemi, Milano 2020.
cit., sez. 2, par., 9.2.1. ‘Sul diritto di natura’. [versione Kindle].

108
Altro essenziale viene rimosso. I presupposti intersoggettivi necessari all’esercizio di
questa sfera di libertà non possono essere di fatto prodotti da quegli stessi diritti, in
quanto questi non incoraggiano alcun comportamento etico, bensì contribuiscono ad
alimentare un’interpretazione fuorviante delle condizioni di possibilità di esercizio
della libertà stessa. L’insieme dei diritti soggettivi – i quali costituiscono una parte
fondamentale del nostro diritto – si fondano e presuppongono un tipo specifico di
riconoscimento intersoggettivo e non possono essere pensati altrimenti: «Ciascuno
deve essere riconosciuto da ogni altro come persona avente diritto a un proprio spazio
di azione autonoma»59, scrive Honneth in proposito.
Il concetto di libertà negativa, limitandosi a fornire al soggetto uno «spazio di
non-interferenza», rimane inoltre incapace di suggerire un contenuto sostanziale
all’autodeterminazione individuale, dimostrandosi di fatto un modello di libertà non
autosufficiente, una mera «possibilità» della libertà. Ciò significa che questa sfera di
libertà non può essere assolutizzata a unico ambito di prassi sociale, ma che necessita
di essere collocata e integrata in un sistema di libertà più ampio.

La sfera della libertà negativa rimanda in primo luogo ad un'altra forma di libertà,
che Honneth chiama riflessiva, o morale. Le due correnti principali che hanno
teorizzato e sviluppato il concetto di libertà riflessiva vengono ricondotte alle filosofie
di Kant e di Herder. La prima si fonda sui concetti di autodeterminazione, autonomia
e autolegislazione; la seconda, sulle idee di autorealizzazione, autenticità e scoperta di
sé. L’idea di libertà riflessiva interessa la sfera dell’autorelazione del soggetto, dunque
la relazione che intercorre tra gli scopi autodeterminati e le azioni volte al loro
raggiungimento. In questa accezione «è libero l’individuo che riesce a relazionarsi con
sé stesso in modo tale da farsi guidare, nel proprio agire, soltanto dalla propria
volontà»60. Il nucleo dell’idea di libertà riflessiva è dunque riconducibile alla
distinzione tra azioni autonome e azioni eteronome, dove le prime sono da ritenersi
“libere” in quanto risultato di un’auto-legislazione del soggetto. In questa seconda
sfera di libertà il soggetto è interamente libero se il suo agire è determinato dalle sue
intenzioni e da scopi depurati da qualsiasi contrizione esterna: «Ciò che distingue
maggiormente questo secondo significato di libertà» – scrive Piromalli – «è l’idea

59
E. Piromalli, op. cit., p. 265.
60
A. Honneth, op. cit., p. 26.

109
dell’orientamento delle finalità dei soggetti in base alla riflessione della volontà
autonoma razionale, non eterodiretta»61.
Se la libertà negativa forniva «uno spazio di ritiro» dalla prassi sociale, in quanto
ritagliava una sfera di non interferenza, la libertà riflessiva apre alla possibilità di
«un’autointerrogazione etica» del soggetto, il quale «può fare un passo indietro
rispetto alla quotidiana prassi sociale e ai suoi legami [...] per considerare la questione
in oggetto solo in rapporto al principio di universalizzabile»62.
Sostanzialmente la libertà riflessiva completa ciò che mancava alla libertà
negativa, ovvero la capacità di indirizzare e guidare l’azione, ma al contempo richiede
anch’essa una capacità di astrazione, la quale si articola in due livelli: in primo luogo
richiede un’astrazione dai propri interessi individuali in nome dell’universale,
rendendoci agenti impersonali; in secondo luogo, richiede un’astrazione dal significato
sociale delle relazioni in cui siamo già da sempre coinvolti. Tale critica alla libertà
morale ricalca in parte quella hegeliana, in quanto sostiene che l’assolutizzazione di
questo modello di libertà mina paradossalmente la possibilità di un concreto impegno
morale, “desensibilizzando” il soggetto dal contesto sociale e comunitario in cui già
da sempre si trova ad operare.63 La sfera della libertà morale trova il suo limite nelle
norme istituzionali e sociali della vita comunitaria, le quali devono essere accettate dal
soggetto come dato, per questo deve considerarsi anch’essa un modello parziale di
libertà, in quanto incapace di superare la dimensione meramente individuale. Se la
libertà negativa viene a coincidere con le garanzie conferite al singolo individuo
dall’insieme dei diritti soggettivi, la libertà riflessiva guarda invece al foro interiore,
concedendo all’individuo «la possibilità di sottrarsi all’obbligo di compiere
determinate azioni richiamandosi a ragioni che giustificano il rifiuto»64.

Dunque, come scrive Schafer: «Secondo Honneth, la libertà nel senso più completo
non è né una pura libertà da (restrizioni oggettive) né libertà di (affermare la visione
normativa del soggetto sulle cose) ma è piuttosto libertà con: un'idea definita da
impegno intersoggettivo e rispetto reciproco»65. Prima di passare ad esaminare il

61
E. Piromalli, op. cit., p. 267.
62
Ibid.
63
Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, Laterza, Roma 1999; ‘Il Diritto Astratto’, §
34, pp. 47-ss.
64
A. Honneth, op. cit. p. 157.
65
D. T. Schafer, op. cit. p. 6.

110
modello della libertà sociale – ciò che Honneth ritiene essere la «realtà» della libertà
–, è necessario comprendere come queste due forme di libertà, se assolutizzate, devono
concepirsi come patologiche. Sarà infatti la loro non-autonomia, il loro carattere di
mere «possibilità» della libertà, il terreno di elezione di patologie tipicamente sociali.66

4.5. La «possibilità» della libertà: libertà giuridica e libertà morale

In quest’opera Honneth ritiene si possa parlare di patologia sociale «di fronte a


sviluppi che arrecano un danno rilevante alle capacità razionali dei membri della
società di partecipare a forme determinanti di cooperazione sociale»67. La patologia
sociale assume qui il significato già introdotto di patologia della ragione, in quanto
trova il suo ambito di manifestazione al di sopra della riproduzione sociale, cioè
nell’interpretazione erronea dei contenuti normativi di una determinata istituzione da
parte dei soggetti. Accogliendo la posizione di Christopher Zurn, il quale interpreta le
patologie sociali come second-order disorder,68 Honneth si allontana da qualsiasi
lettura della patologia sociale che si ritiene in qualche modo legata ai disturbi psichici
individuali, poiché il soggetto colpito dalla patologia sociale è colui che «non è in
grado di concepire l’uso razionale di una determinata prassi socialmente
istituzionalizzata», o in altri termini, è colui che «ha disimparato, a causa di influssi
sociali, a praticare correttamente la grammatica normativa di un sistema d’azione di
per sé intuitivamente familiare»69. Come già mostrato nell’analisi sul riconoscimento
ideologico, la patologia sociale torna a presentarsi come un deficit di razionalità di
secondo livello che si traduce sul piano fattuale in comportamenti dannosi alla
cooperazione sociale.
La diagnosi di queste patologie si rivela assai più complessa di altre, in quanto
non poggia direttamente sulla sofferenza vissuta in prima persona dai singoli individui,
ma guarda direttamente al comportamento sociale. Per questo motivo Honneth

66
A. Honneth, op. cit. p. 80.
67
Ivi, p. 107.
68
Cfr. C. F. Zurn, ‘Social Pathologies and Second-Order Disorders’, in Axel Honneth: Critical Essays.
With a Reply by Axel Honneth.
69
A. Honneth, op. cit. p. 107.

111
considera le testimonianze estetiche – film e romanzi, ad esempio – il terreno in cui
vediamo manifestarsi indirettamente queste patologie sociali.70

La prima forma patologica esaminata da Honneth concerne il sistema


istituzionalizzato della libertà giuridica. Come già accennato, tale sistema induce a
interpretare la propria libertà nella forma meramente negativa, aumentando di
conseguenza l’incapacità di interpretare il significato dei diritti soggettivi. Secondo
Honneth questo è in parte legato al fatto che tale sfera richiede un livello di astrazione
non indifferente ai soggetti, i quali innalzano questo modello di libertà «a punto di
riferimento esclusivo della propria autocomprensione». In tal modo i soggetti
finiscono per rendersi incapaci di interpretare correttamente lo spazio di libertà aperto
dal diritto, il quale non è meramente una somma di possibilità di cui dispone
l’individuo, ma un rapporto sociale di riconoscimento che implica un contesto
intersoggettivo che fa da garante di tali possibilità. Assolutizzare questo modello di
libertà significa operare un rovesciamento mezzo-fine: la libertà da mezzo diviene il
fine di ogni azione.
Questa interpretazione deviata svolge un ruolo di grande importanza per quanto
concerne l’autocomprensione del soggetto: «A quanto risulta» – scrive Honneth –
«sempre più persone, in base alla propria esperienza soggettiva peraltro vissuta in
modo non drammatico, si sentono prive di volontà, poiché mancano loro vincoli
valoriali e convinzioni profonde su cui fondare una continuità»71. Una libertà
concepita negativamente non è infatti in grado di fondare alcuna dimensione collettiva,
comunitaria, solidale, etica. L’individuo si autointerpreta come monade isolata,
sgravato da ogni responsabilità e dovere verso gli altri. Un contenuto della libertà
meramente soggettivistico diviene dunque un’«apparenza della libertà», apparenza
che Hegel definisce nei Lineamenti di Filosofia del Diritto con il termine arbitrio.72

70
In questo lavoro sono stati citati due film di Ken Loach e due romanzi di Michel Houellebecq, i quali
- rispettivamente attraverso il medium del cinema e quello del romanzo - ben rappresentano alcune
patologie sociali del mondo contemporaneo.
71
A. Honneth, op. cit. p. 118.
72
§ 15 «La libertà della volontà secondo tale determinazione è arbitrio – nel quale sono contenute
queste due cose, la libera riflessione astraente da tutto e la dipendenza dal materiale e contenuto dato
interiormente ed esteriormente. Poiché questo contenuto necessario in sé come fine è in pari tempo
determinato come possibile di fronte a quella riflessione, ne segue che l’arbitrio è l’accidentalità,
quand’essa è come volontà». G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, Laterza, Roma 1999.
cit., p. 35; Cfr. Zhok, Critica della ragione liberale, cit., sez. 6, par. 28.8. ‘L’era dell’arbitrio
dissimulato’ [versione Kindle].

112
Il contenuto razionale della libertà morale risiede invece nella garanzia reciproca
di poter seguire norme condivisibili e universalizzabili, principi ritenuti “giusti”, in
caso di conflitti non regolati giuridicamente. Secondo Honneth, l’errore interpretativo
nella comprensione del contenuto normativo della libertà morale si insinua quando
l’individuo «non conosce chiaramente in quale misura [è] preventivamente vincolato
[...] alla moralità già esistente nella società di cui fa parte»73. Tale incomprensione si
manifesta nell’immagine di un attore sociale svincolato dalle norme esistenti, il quale
determina il suo agire univocamente attraverso principi morali astratti e
universalizzabili.
Questa messa in ombra della normatività già presente nel nostro mondo sociale
conduce alla personalità tipica del «moralista intransigente» e a forme di «terrorismo
basato su motivazioni morali»74. Nell’uno come nell’altro caso assistiamo a un
fraintendimento del contenuto normativo della libertà morale, il quale viene
assolutizzato come unico sistema d’azione, ignorandone le limitazioni interne.
Diversamente dalle patologie della libertà giuridica, coloro che incorrono in
questo secondo tipo di patologie fraintendono l’esercizio dell’«autolegislazione
morale», in quanto, determinando le loro azioni in una prospettiva universalistica
astratta, oscurano l’esistenza di norme già presenti nei rapporti sociali: «Ci si
concepisce nel ruolo di un legislatore per un mondo che comprende tutti gli esseri
umani, come se il mondo esistente non fosse già caratterizzato da una serie di regole
normative che circoscrivono preventivamente l’orizzonte delle nostre valutazioni
morali».75
La prima forma patologica della libertà morale è dunque individuata da Honneth
nella «deformazione “moralistica” dell’autonomia personale», ovvero nella tendenza
a orientare la propria vita univocamente verso criteri di validità universalistica e
incondizionata. La suddetta interpretazione si rivela erronea in quanto «noi siamo già
sempre inclusi in una fitta trama di ruolo e obblighi d’azione, che costituisce il punto
di partenza inevitabile delle nostre deliberazioni morali, dal quale non possiamo
astrarre»76. Pensare di orientare le nostre azioni senza considerare il tessuto sociale e

73
A. Honneth, op. cit. p. 146.
74
Ibid.
75
Ivi, p. 147.
76
Ivi, pp. 150-151.

113
normativo in cui queste si muovono significa non riconoscere il limite intrinseco a
questa forma di libertà, scollegandoci dal nostro mondo della vita sociale.
La seconda forma di interpretazione errata della libertà sociale è anch’essa legata
all’illusione di poter ignorare le norme esistenti, ponendosi nella prospettiva di un
“legislatore universale”, ma diversamente dalla prima, questa forma non si riferisce al
singolo moralista, ma alla collettività, al gruppo. Il ragionamento di Honneth è
pressappoco il seguente: un gruppo sociale sviluppa dubbi nei confronti dell’ordine
dominante; la critica nei confronti dell’ordine vigente si trasforma in una messa in
discussione di ogni norma vigente; acquisendo un punto di vista morale ogni
istituzione viene ritenuta ingiustificata; l’unica dimensione giustificata sono i mezzi
per attaccare l’ordine dominante in quanto ordine ingiusto. Le realtà istituzionali
esistenti vengono in questo modo sconnesse dal loro contesto sociale di appartenenza
in nome di un universalismo morale meramente astratto.
Già ne Il dolore dell’indeterminato Honneth considerava il diritto astratto e la
moralità – attualizzando i due concetti hegeliani nelle due forme di libertà giuridica e
morale – non come false concezioni della libertà in sé, ma come causa di “sofferenza”
ogniqualvolta queste vengono assolutizzate come «rappresentazioni autonome della
prassi»77. Torna nuovamente l’idea di una interpretazione erronea e parziale della
libertà, la quale è considerata patologica in quanto agisce sul sentimento collettivo e
sullo stato d’animo dell’individuo insinuando un senso di “incompiutezza”,
“vuotezza”, “indeterminatezza”, della vita.78

4.6. La «realtà» della libertà: la libertà sociale e il mercato del lavoro

Dai diversi modelli di libertà si possono distinguere tre concezioni fondamentali


del libero agire individuale:

Mentre la prima idea, cioè l’idea negativa, muove dall’assunto che per la libertà
individuale sia necessaria soltanto una sfera giuridicamente tutelata, nella quale il
soggetto può fare quello che gli piace in base alle sue insindacabili preferenze, la
seconda idea, l’idea riflessiva, fa dipendere questa libertà da prestazioni intellettuali
concepite come normali per ogni soggetto competente; solo con la terza idea della

77
A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di Hegel,
Manifestolibri, Roma 2003. cit., p. 90.
78
Ivi, Cap. III.

114
libertà, cioè l’idea sociale, entrano in gioco anche le condizioni sociali, poiché la
realizzazione della libertà viene legata al presupposto di un soggetto che approva e
incoraggia i nostri scopi.79

Abbiamo visto come le due forme di libertà finora esaminate si presentano


secondo Honneth come mere «possibilità della libertà», le quali possono giungere alla
loro «realtà» – dunque esercitarsi concretamente – solo relazionandosi ad una ulteriore
sfera di libertà, una prassi sociale più vasta e articolata alla quale esse devono il loro
diritto di esistenza. Le possibilità della libertà non creano alcuna realtà
intersoggettivamente condivisa, ma al contempo la presuppongono, scrive Honneth:
«È solo perché nella loro vita quotidiana hanno già precedentemente contratto
obblighi, hanno già stretto vincoli, si trovano già inseriti in particolari comunità, che i
soggetti necessitano della libertà giuridica o morale di respingere le richieste connesse
a questi legami o di sottoporle a un riesame critico»80. Entrambe le due idee di libertà
si mostrano quindi strutturalmente deficitarie: la libertà negativa non dice nulla sui
contenuti dell’agire; la libertà riflessiva, pur fondandosi sull’azione autodeterminata,
continua a contrapporsi a una realtà oggettiva esterna. Quest’ultimo modello di libertà
non abbraccia la sfera dell’oggettività, non considera le reali opportunità di
realizzazione dei fini perseguiti autonomamente dal soggetto, bensì si limita ad
assicurare anch’essa una sfera d’azione autonoma.
Per superare le limitazioni intrinseche delle due idee di libertà, Honneth –
ripercorrendo le critiche e la proposta presente nel Lineamenti di Hegel – introduce un
terzo modello di libertà: la libertà sociale. Egli scrive: «L’idea di libertà sociale
andrebbe intesa come risultato dello sforzo teorico di estendere il criterio su cui poggia
il concetto di libertà riflessiva anche nella sfera della realtà esterna, che viene
tradizionalmente contrapposta al soggetto»81. La liberazione dalle forme parziali di
libertà – nonché dalla sofferenza causata da esse – viene ora a dipendere da questa
terza forma di libertà: solo la libertà sociale è la «realtà» della libertà, in quanto in
essa ne va della possibilità di autorealizzazione.
Un esempio per meglio comprendere le caratteristiche di questo terzo modello di
libertà ci viene offerto dallo stesso Hegel sotto il nome di «amicizia» e «amore». In

79
Ivi, p. 78.
80
Ivi, pp. 157-158.
81
Ivi, p. 47.

115
queste esperienze di riconoscimento reciproco il soggetto si relaziona agli altri in
modo tale da concepirli come «l’altro del loro sé», poiché negli scopi del proprio
partner egli può ravvisare una condizione di realizzazione dei propri scopi. Da qui
l’espressione hegeliana che meglio descrive la natura intersoggettiva di questo terzo
modello di libertà, riassumibile nella formula «essere presso di sé nell’altro».82 Una
volta considerato l’altro come condizione della propria libertà, emerge con chiarezza
come la libertà sociale coincide sostanzialmente con il modello intersoggettivo del
riconoscimento reciproco. Scrive Honneth seguendo Hegel: «Libertà significa
l’esperienza di una espansione personale senza forzatura, che risulta dal fatto che i
miei obiettivi vengono incoraggiati dagli obiettivi degli altri»83. Solo da un modello di
libertà così delineato è possibile trarre un’idea per una teoria della giustizia che si fondi
sull’analisi delle istituzioni etiche della società:

Ciò che nelle società moderna si chiama “giusto” non può più essere stabilito
chiedendosi, semplicemente, se tutti i membri delle società dispongano delle
libertà negative o riflessive, ma deve soddisfare un criterio per garantire nella
stessa misura a questi soggetti l’opportunità di una partecipazione alle istituzioni
del riconoscimento.84

La «grammatica morale» alla base di questo modello di libertà assume la forma


di una “autolimitazione” della propria tendenza all’autoaffermazione, la quale non
deve essere considerata come un intralcio, un ostacolo alla propria autorealizzazione,
ma come la condizione di possibilità della medesima. Come riassume con chiarezza
Eleonora Piromalli:

La libertà sociale del riconoscimento si determina laddove un individuo, nel


realizzare il proprio bene, contribuisce al bene di ogni altro, proponendosi finalità
il cui valore, oltre ad essere individuale, è però anche condiviso; esse necessitano
dell’azione cooperativa di ciascuno per essere realizzate e affinché ognuno ne
possa beneficiare. Ogni soggetto è veramente libero dunque nelle pratiche di
riconoscimento.85

Da queste parole emerge chiaramente il legame che intercorre tra la libertà sociale e
il concetto di riconoscimento: la libertà dell’individuo diviene “reale” solo attraverso

82
Ibid.
83
Ivi, p. 72.
84
Ibid. (corsivo mio).
85
E. Piromalli, op. cit., p. 271.

116
il reciproco riconoscimento, nella cooperazione intersoggettiva come condizione di
realizzazione dei propri scopi.

Ora, per garantire l’istaurarsi di relazioni sociali nella forma del riconoscimento
reciproco è necessario che i soggetti possano fare riferimento a un quadro di pratiche
istituzionalizzate. Honneth intraprende dunque la ricostruzione storico-normativa di
quelle istituzioni relazionali, o sfere etiche, fondate sulla cooperazione intersoggettiva
del riconoscimento, le quali si dividono nella sfera istituzionale delle relazioni
personali, in quella dell’agire economico, e in quella della discussione pubblica. Le
tre sfere contengono secondo Honneth degli «obblighi di ruolo» in cui i soggetti che
vi partecipano esperiscono la libertà sociale: le istituzioni servono fondamentalmente
ad integrare gli obiettivi degli individui in un contesto relazionale. 86 Esse sono
essenziali per garantire l’impegno reciproco, per indentificarsi in una comunità, per
realizzare scopi e intenzioni condivise reciprocamente. Inoltre, le istituzioni svolgono
un importante ruolo coltivando nell'individuo un senso di appartenenza a valori
condivisi.
La prima sfera istituzionale esaminata ne Il diritto della libertà riprende, seppur
articolandola maggiormente, la trattazione della prima sfera del riconoscimento
incontrata in Lotta per il riconoscimento: la sfera delle relazioni affettive personali.
Honneth opera un’ulteriore suddivisione di questa sfera, precisandone ulteriormente il
contenuto. Amicizia, legame di coppia e famiglia, vengono lette come istituzioni
normative primarie in cui l’altro soggetto non costituisce un ostacolo, bensì una
condizione di possibilità della libertà individuale, nella forma dell’aiuto e del sostegno
reciproco. Ma la sfera istituzionale che più interessa esaminare nel contesto del
presente lavoro è quella riguardante il “Noi” dell’agire economico, in particolar modo
per via dell’esito problematico delle riflessioni di Honneth in merito.

Honneth è consapevole che una ricostruzione storica e normativa della sfera


dell’agire economico può apparire in un primo momento fuorviante e ingiustificata. Il
mercato non costituisce infatti alcuna istituzione “relazionale”, in quanto non contiene
«obblighi di ruolo» attraverso i quali gli interessati sono portati a riconoscere nella
libertà dell’altro una condizione della propria liberta. Questo non impedisce comunque

86
Cfr. A. Honneth, op. cit. pp. 158-156.

117
ad Honneth di tentare una ricostruzione normativa di questa sfera, seppur mosso dalla
consapevolezza che le attuali deregolamentazioni del mercato capitalistico – punto di
arrivo della ricostruzione – debbano concepirsi come «sviluppi sociali distorti» che
minano sistematicamente il potenziale normativo di questa sfera.87 Qui Honneth non
utilizza il concetto di patologia sociale, in quanto non si tratta di un errore
interpretativo, ma il concetto di sviluppo distorto, intendendo con ciò uno sviluppo
storico che impedisce di realizzare il potenziale normativo intrinseco alla sfera che si
sta analizzando.
Ciò comporta necessariamente il rifiuto da parte di Honneth di concepire il
mercato alla stregua di un “sistema senza norme”, nel quale non è ravvisabile alcun
potenziale normativo. Diversamente da questa interpretazione, egli sostiene che «gli
attori economici devono essersi preventivamente riconosciuti come membri di una
comunità cooperativa prima di potersi ascrivere a vicenda il diritto alla
massimizzazione individuale dell’utile sul mercato, e l’estensione di queste libertà
negativa va commisurato al grado di compatibilità con le esigenze di quel
riconoscimento preliminare»88. Ciò lascia intendere che qualsiasi partecipazione alla
sfera del mercato deve considerarsi di fatto legata a norme e valori antecedenti ad essa,
in altre parole: «La facoltà, costitutiva del mercato, di orientarsi al puro utile
individuale deve soddisfare la condizione normativa di poter essere intesa dai soggetti
interessati come un mezzo adeguato per la realizzazione complementare dei rispettivi
scopi»89. L’esistenza della sfera delle relazioni di mercato viene qui a dipendere da un
presupposto cooperativo antecedente, un riconoscimento preliminare che obbliga non
solo contrattualmente, ma anche moralmente ed eticamente i membri coinvolti nella
relazionale, tant’è che «senza questa coscienza solidale non si potrebbe escludere che
le opportunità dischiuse dai rapporti di mercato vengano sfruttate per conseguire
vantaggi sproporzionati, per accumulare ricchezze o per esercitare lo sfruttamento»90.

La ricostruzione normativa della sfera dell’agire economico viene a sua volta


suddivisa in due ambiti: la sfera del consumo e la sfera del mercato del lavoro. Per
quanto concerne quest’ultima, la ricostruzione di Honneth ricopre un arco temporale
di qualche secolo e mostra alcune tappe in cui emergono sotto forma di rivendicazioni

87
Cfr. Ivi, p. 237.
88
Ivi, pp. 259-260.
89
Ibid.
90 Ivi, p. 244.

118
o riforme giuridiche quei principi di solidarietà che riportano all’idea di libertà
sociale. Tra i progressi avvenuti storicamente sul piano normativo si menzionano, tra
gli altri: l’inclusione dei lavoratori nella dimensione comunitaria e cooperativa;91 la
regolamentazione normativa del mercato del lavoro da parte dello Stato; il
riconoscimento di diritti sociali e organismi sindacali o di partecipazione diretta aventi
il ruolo di portavoce degli interessi dei lavoratori; i progressi i materia di welfare state;
le lotte per un lavoro “umanizzante” e dotato di senso; le rivendicazioni contro forme
di alienazione, depersonalizzazione, dipendenza gerarchica; le lotte per il
riconoscimento del valore sociale di alcune mansioni; fino a giungere alla descrizione
dei cambiamenti apportati al mercato del lavoro dalla rivoluzione neoliberista
dell’ultimo mezzo secolo. In quest’ultima fase assistiamo però ad uno svuotamento
dei progressi avvenuti sul piano normativo e giuridico e ad un mercato del lavoro
ampiamente sottratto alla regolamentazione da parte dello Stato.
Senza ripercorrere le caratteristiche del mercato del lavoro neoliberista ricordiamo
solamente i pesanti effetti provocati dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro sulla
gestione della vita individuale; la richiesta di flessibilizzazione e il conseguente
sradicamento territoriale e affettivo; l’abbassamento progressivo dei salari medi; la
polarizzazione o segmentazione del mercato del lavoro in un vasto bacino di
manodopera dequalificata e un ristretto nucleo di lavoratori tutelati. Al netto di queste
trasformazioni, scrive Honneth, «non dovrebbe più sorprendere che i rapporti oggi
stabilitisi nella sfera del lavoro sociale mediata dal mercato vengano considerati
ingiusti da gran parte dei lavoratori salariati, poiché non valorizzano adeguatamente le
loro prestazioni ed esigono un grado eccessivo di flessibilità»92.
Il mondo del lavoro contemporaneo si presenta molto distante dalle considerazioni
che fece Durkheim a suo tempo, al contrario, è ravvisabile in esso la negata opportunità
per i lavoratori salariati di sapersi inclusi in un contesto lavorativo di cooperazione
reciproca.93 Non vi è infatti alcuna «grammatica normativa» che si dissoci
dall’indirizzo individualistico e competitivistico tra gli attori sociali in gioco.
Questo paesaggio impedisce di fatto ad Honneth di individuare nella sfera del
mercato del lavoro la condizione di possibilità per l’emergere di iniziative collettive
volte a “normare” in senso cooperativistico questa sfera. Se infatti è da ritenersi

91
Ivi, p. 323.
92
Ivi, p. 348.
93
Cfr. A. Honneth, op. cit. pp. 348-349.

119
corretto quanto mostrato nei precedenti capitoli – dunque che anche le rivendicazioni
morali in materia di autonomia e responsabilità individuale sono state soggette a
sviluppi paradossali che ne hanno rovesciato l’intento emancipatorio – possiamo con
Honneth affermare che: «Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale
[...] tornerebbe a predominare culturalmente un’interpretazione del mercato
capitalistico che non lo vede come una sfera della libertà sociale, bensì come una sfera
della libertà puramente individuale»94. L’istituzione del mercato del lavoro è infatti
interpretata come un’opportunità del singolo individuo di perseguire e accrescere i
propri vantaggi individuali in un’arena aspramente competitiva. Essa non contiene
alcun riferimento a un agire differente, ad una coscienza solidale, bensì rimuove il
riconoscimento preliminare su cui essa stessa si fonda. Riprendendo le riflessioni di
Honneth esaminate in precedenza, possiamo convenire che la sfera del mercato del
lavoro si presenta oggi come un insieme di pratiche reificate, nonché come una realtà
sociale patologica.

Gli esiti individualistici a cui è giunta la ricostruzione storico-normativa di


Honneth non rendono comunque vano il suo tentativo ricostruttivo. Mostrando
l’evoluzione storica della sfera del mercato del lavoro, egli ravvisa comunque nelle
diverse rivendicazioni e conquiste sociali storicamente situate un «progetto social-
morale dell’economia capitalistica» che, seppur in modo discontinuo, contiene alcuni
richiami all’istituzione della libertà sociale. Scrive Honneth:

Le condizioni dell’uguaglianza sociale di opportunità dovevano essere migliorate, le


forme degradanti di lavoro monotono e logorante andavano eliminate e le possibilità
dei lavoratori dipendenti di partecipare alla configurazione del salario dovevano essere
aumentate, [...] poiché, certo non esplicitamente, era diffusa la convinzione che il
mercato economico dovesse tornare a beneficio di tutti i partecipanti e dunque andasse
inteso come un’istituzione della libertà sociale.95

Bisogna però tenere bene a mente che tutte queste ambizioni furono concretizzate
e implementate da organismi di natura politica, i quali furono in grado di circoscrivere
la sfera dell’agire economico ponendo i limiti necessari a preservare una dimensione
etica altrimenti dissolta dalle dinamiche di accumulazione e ricerca di profitto del

94
Ivi, p. 351, (corsivi miei).
95
Ivi, p. 353.

120
capitalismo. Oggi la ricerca di una diversa grammatica morale sembra però un
desiderio passato ed esaurito. Nel contesto del mercato del lavoro non sembra più
ravvisabile alcuna reale disposizione oppositiva; scarne sono le rivendicazioni etiche
su vasta scala mosse da un reale interesse emancipatorio che poggiano sui basilari
criteri di reciprocità e di riconoscimento. Il mercato è il luogo della competizione,
dove l’individuo può massimizzare il proprio utile di cui è considerato il solo e unico
responsabile. Come ampiamente trattato, la sfera dell’agire economico permea ogni
altra sfera del mondo sociale. Il modello individualistico e competitivo propugnato dal
capitalismo neoliberista si insinua in ogni anfratto delle nostre vite, incide sulla qualità
dei rapporti interpersonali, rimuove sistematicamente qualsiasi dimensione collettiva
dell’esistenza. In tale contesto, diviene insostenibile pensare che nella sfera dell’agire
economico contenga e realizzi una qualche promessa di riconoscimento, un qualche
riferimento alla libertà sociale: «La promessa di libertà sociale» – conclude lo stesso
Honneth – «si è di fatto ridotta a promessa di libertà meramente individuale».96
Questo non significa di certo pensare di poter fare a meno delle istituzioni, o
comunque sfiduciare in toto la loro funzione. Al di fuori della sfera dell’agire
economico esiste ancora uno spazio di agire politico, democratico, il quale ha il
compito di ricostruire un intero tessuto sociale disgregato. Solo entro un orizzonte
comune, una dimensione valoriale condivisa, è possibile integrare gli obiettivi dei
singoli individui in un contesto relazionale più ampio, garantire l’impegno
intersoggettivo, spingere ad un agire cooperativo, ad una libertà reale, sociale, e non
meramente individualistica.
Nelle pagine precedenti si è constatato come la sfera dell’agire economico
incentivi comportamenti e stili di vita molto diversi da questi, mirando ad una
disgregazione strutturale del senso condiviso e di qualsiasi dimensione collettiva
dell’esistenza, condizione che è già da sempre data, ma oscurata e indebolita
dell’organizzazione complessiva delle nostre società. In questi termini, possiamo
interpretare l’oblio del riconoscimento di cui parla Honneth come una “dimenticanza”
socialmente indotta della natura de-centrata del nostro Io, nonché del nostro costitutivo
bisogno di riconoscimento da parte dell’altro. Un intero sistema di pratiche sociali
ideologicamente protetto, non solo oscura il contesto intersoggettivo in cui siamo già
da sempre situati, ma agisce sistematicamente alla sua demolizione, generando al

96
Cfr. Ivi, p. 557

121
contempo identità deboli e inermi, incapaci di opporre resistenza dinanzi a
un’evoluzione storica che appare loro come fatale.97

Le patologie sociali discusse in questo lavoro disegnano una costellazione di


distorsioni del tessuto sociale, entro il quale gli individui sembrano oggi più soffrire
che prosperare. La filosofia sociale, la quale ambisce ad essere una patologia sociale
– qui intesa come studio delle malattie del corpo sociale –, incontra inevitabilmente
grandi difficoltà nell’adempiere al suo intento diagnostico e valutativo, in quanto si
pone come obiettivo quello di esaminare un corpo sociale e di diagnosticare in esso
patologie peculiari. Il corpo sociale presenta però caratteristiche molto differenti da
quelle di un corpo fisico, così come presenta peculiarità che lo contraddistinguono
da ogni altro corpo sociale («l’uomo non vive in società, ma in una società
particolare»)98, e non esiste scienza medica capace di operare diagnosi precise.
Consapevole dell’irrisolutezza congenita nell’impresa da compiere, sosteniamo che
la filosofia sociale debba sobbarcarsi questo impegno e avanzare in questa direzione.
Con l’appoggio al materiale di analisi offerto dalle scienze sociali e
dall’antropologia, unitamente a riflessioni di ordine etico, essa deve organizzare il
discorso in senso fortemente critico, ragionando sulla qualità delle nostre vite e sugli
standard normativi di rifermento attraverso i quali mirare a costruire una spinta
emancipatoria, una ragione positiva contro nuove forme di oppressione. Per dirla con
Durkheim: «Se le nostre ricerche non avessero che un interesse speculativo non
meriterebbero un’ora di lavoro»99.
Per seguire fino in fondo questa ambizione, la filosofia sociale deve affinare i
suoi strumenti diagnostici in vista di una maggiore comprensione critica della realtà,
dei suoi aspetti patologici e dei loro effetti sulla vita degli individui e delle comunità.
Questo è però possibile solo studiando a fondo il nostro tempo presente,
l’organizzazione del mondo sociale nella sua totalità, le qualità delle nostre pratiche
di vita, in quanto è «soltanto dalla realtà che si può apprendere quali miglioramenti
essa reclama»100.

97
«La più grande ironia della storia è che l’individualismo radicale serve da giustificazione ideologica
del potere senza restrizione di quello che la grande maggioranza della gente vive come una forza
anonima la quale, priva di qualsiasi democratico controllo pubblico, regola la loro vita». S. Žižek, Un
anno sognato pericolosamente, Adriano Salani Editore, Milano 2013, cit., p. 39.
98
Ivi, p. XX.
99
Ivi, p. 4.
100
É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni Di Comunità, Milano 1989, cit., p. 65.

122
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