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Louis
Il codice Bushido
Prologo
Il sole splendeva alto nel New Mexico. Sull’altopiano brullo color avorio che si
stende nel cuore delle montagne Jemez e Sangre de Cristo, ai limiti di Los Alamos, il
sole batteva da cinque ore quando la gente cominciò ad arrivare.
Alcuni venivano alla cerimonia perché invitati dalle autorità militari, alcuni in
nome di un vago patriottismo, alcuni per pura curiosità, e altri ancora senza un
motivo particolare.
Verso le undici del mattino avevano cominciato ad affluire dalla città turisti, gente
del posto, e perfino indiani e messicani della vallata. A mezzogiorno erano più di
tremila. Si mantenevano placidamente ai loro posti, sotto il cielo velato di nubi,
pigiati in file serrate, sulle gradinate erette il giorno prima. Nell’aria secca, densa di
polvere, molti avevano cominciato a sudare e si tergevano la fronte con i resti dei
fazzolettini di carta spiegazzati, usati durante la lunga gita in auto attraverso le
montagne.
Di fronte alle gradinate, al margine della pianura, il podio per gli ospiti ufficiali
cominciava a popolarsi. La piattaforma dipinta di fresco, di un piatto grigio,
sfoggiava sgargianti cerchi di stoffa rossa, bianca e blu, colori che si fondevano in
uno quando le folate di vento caldo si levavano dal suolo arido. Al centro della
piattaforma, fiancheggiata dalle bandiere spiegate del New Mexico e degli Stati Uniti,
era posto il leggio di legno, ai cui lati erano allineate alcune sedie metalliche
pieghevoli, ciascuna con il cuscino duro in dotazione all’esercito. Gli spettatori erano
consapevoli dei disagi e avevano portato i propri cuscini, oltre alle bottiglie di
bevande e alle lattine di birra. Sapevano che lo spettacolo valeva qualche scomodità.
Dietro la piattaforma, sparsi sui circa otto acri di deserto, coperto da una bassa
vegetazione stentata, si stagliavano i trecento padiglioni dei laboratori scientifici di
Los Alamos, dove c’erano acceleratori di protoni, acceleratori di particelle atomiche e
apparecchiature di ogni tipo, che difficilmente la maggior parte dei presenti avrebbe
mai potuto conoscere. Più in là, all’orizzonte, giganteggiavano le aguzze vette
purpuree della catena delle Jemez. Un vecchio del luogo amava dire ai turisti che il
laboratorio era un’invenzione di J. Robert Hoppenheimer, ma la catena di montagne
era un’invenzione di Dio, e soltanto un pazzo poteva sentirsi in imbarazzo dovendo
decidere chi dei due era stato più bravo.
Ai piedi della piattaforma, il generale George Britten scrutava il cielo facendosi
schermo con una mano.
Alto, capelli d’argento, la sua figura si slanciava contro il paesaggio. Lo
chiamavano George «Ferrodicavallo», e chiunque avesse letto i giornali del mattino
lo avrebbe riconosciuto. «Tra venti minuti sarà limpido e sereno. Giusto in tempo.»
Salì sulla piattaforma, posò la cartella portadocumenti ai piedi del leggio, e osservò
le autorità avanzare verso di lui dall’edificio con la cupola bianca, la sala delle
riunioni.
Gli sembrò strano di essere tornato, dopo tanti anni, nel luogo dove erano stati
eseguiti i primi esperimenti. Ancora oggi su quel posto aleggiava un che di pauroso:
l’isolamento, il vuoto. Diede uno sguardo all’uditorio e socchiuse le palpebre; le
sopracciglia folte formavano un angolo retto con il naso lungo e affilato. La luce del
sole, investendogli il viso, tramutò gli occhi in cavità profonde.
«Dio, sì, è strano» pensò e ascoltò il ronzio del silenzio delle montagne nella sua
testa.
Dietro di lui, gli altri componenti il gruppo originale di Los Alamos salirono sulla
piattaforma.
C’era Oscar Berryman e sua moglie Mary, Dick Farrell, Elmer Bly e in coda il
vecchio Harry Sears. Non era sorprendente? Dopo trentacinque anni Harry aveva
ancora le fossette infantili sulle guance e sua moglie ciarlava ancora con
quell’assurdo cicaleccio. Per un attimo il generale George Britten si chiese quanto lui
stesso fosse cambiato. Ma di norma non era incline a questo genere di pensieri, e
quando l’addetta alle relazioni pubbliche dei laboratori apparve sulla piattaforma, le
riflessioni svanirono subitaneamente.
— Generale, il tenente Colby mi ha incaricata di dirvi che gli aerei sono pronti. Si
può iniziare.
Abbassò gli occhi sulla donna. «Cielo, dolcezza, sei davvero carina!»
— Dite al tenente Colby — rispose ad alta voce il generale — che aspetteremo
ancora un momento. Il cielo tende a schiarirsi, e avremo una magnifica giornata.
— Certo, signore.
Mentre la donna si allontanava, un vasto banco di nubi ruzzolò via dalla faccia del
sole, e il generale Britten alzò gli occhi sui convenuti. Facce abbronzate, cravatte a
stringa, camicie e pantaloni vistosi. Il generale George Britten pensò che se avesse
potuto prendere quella gente e fargli sbandierare i loro desideri all’unisono, allora sì
che avrebbe convinto chiunque, e soprattutto il Congresso degli Stati Uniti, che il
popolo americano era sempre stato pronto alla guerra. Tutti gli esperti politici
asserivano che gli Stati Uniti avevano perso la loro determinazione. Il Vietnam,
dichiaravano, aveva annientato la fede americana nel diritto alla supremazia.
«Chiacchiere» pensò il generale Britten, «spazzatura». Gli Stati Uniti d’America
erano pronti a guidare il mondo libero, non avevano altra scelta, dovevano dominare.
Perché questo era il loro destino.
«I forti fanno quello che possono» amava ripetere il generale, citando Tucidide «e i
deboli quello che devono. »
Il cielo, come aveva previsto il generale, si schiarì rivelando un sole lucente
bianco-arancione, e la polvere del deserto cambiò colore sotto i suoi occhi. Le
montagne spiccavano ancora più nette. Le vette appuntite sembravano ritagliate da
una cartolina. Ai piedi della piattaforma, i fotografi si contendevano le posizioni
migliori scattando continuamente; dietro di loro, le troupe televisive puntavano gli
obiettivi. Il generale si sentì irrigidire e raddrizzò le spalle per un puro riflesso
condizionato. Ma non era conscio del perché. Né un osservatore casuale sarebbe
potuto giungere alla conclusione che il lavorio del generale sulle mostrine e i bottoni
della giacca aveva qualcosa a che fare con la presenza delle macchine fotografiche.
Per il generale Britten, quell’uniforme simboleggiava la sua missione in terra, e
influiva sulla sua vita in maniera così determinante che nemmeno lui ne era
cosciente. Le macchine fotografiche scattavano in continuazione, passando veloci da
un capo all’altro della piattaforma e sull’auditorio. Il generale fissava la folla, e molti,
tra la folla, lo fissavano. Avevano caldo e volevano che la cerimonia iniziasse. Lo
guardarono stringere mani, indirizzare persone ai propri posti, dare il passo a un
anziano curvo, con il bastone, e chinarsi su di lui per parlargli all’orecchio. Lo videro
fare un cenno a una giovane donna in tailleur giallo a quadretti, e infine sedersi vicino
al leggio. In fondo alla piattaforma sembrò crearsi una certa confusione circa
l’assegnazione dei posti; il vento aveva portato via i cartoncini con i nomi fissati alle
sedie con l’adesivo.
Il generale Britten si guardò alle spalle. Era ora di cominciare. Alzò l’indice e il
giovane tenente dell’esercito si avvicinò al microfono dal fondo della piattaforma.
— Signore e signori, vi prego, in piedi per l’inno nazionale, che sarà cantato per
voi da Victoria Hill.
L’ampia signorina Hill, che cantava ballate in un locale notturno giù in città,
marciò verso il microfono. Fece un rapidissimo cenno con il capo e il direttore della
banda militare diede il via ai musicisti.
— Oh dimmi puoi vedere... tra le prime luci dell’alba... — echeggiò sull’altopiano.
Mano sul cuore, i tremila cantarono all’unisono. Appena l’inno nazionale finì, un
uomo basso e curatissimo, in uniforme militare, salì sul podio. Il leggio era più alto di
lui e dovette restare in punta di piedi. Raccontò con voce noiosa la storia dei
laboratori, una storia che m effetti era tutt’altro che noiosa. Ma il pubblico non era
portato per le conferenze. Non avevano percorso chilometri e chilometri per stare
seduti sotto il sole torrido ad ascoltare un tenente che esaltava i prodigi della scienza.
Il tenente diceva che della tecnologia si poteva farne buono o cattivo uso, e la folla gli
prestava scarsa attenzione. Gli uomini dell’auditorio giocherellavano con le loro
cravatte a stringa, e le donne, per lo più in completo pantalone color pulce o lavanda,
si sventagliavano. Il tenente proseguiva dicendo che la scelta morale spettava agli
statisti, e che spesso si dovevano fare scelte dure. La gente, ormai definitivamente
irrequieta, aveva smesso del tutto di prestargli attenzione.
«Se non ti sbrighi, ragazzo» pensò il generale «saranno seriamente tentati di alzarsi
e andarsene.»
— ... quindi sono onorato di presentarvi un eminente servitore della nostra nazione.
Giovanissimo, ha prestato servizio in Europa al seguito del generale Eisenhower. Fu
ferito, decorato, e prima di tornare a casa, si guadagnò la Croce d’argento e il Purple
Heart. Alla fine della guerra venne qui, a Los Alamos, e vi rimase finché l’esercito lo
mandò a riposo. Ricopriva la carica di aiutante di campo dello Stato Maggiore.
Signore e signori, un uomo che certamente riconoscerete, e a cui siamo lieti di dare il
benvenuto, il nostro ospite d’onore, il generale George Britten.
Il generale si avvicinò al leggio, si aggiustò la visiera e ascoltò il breve scroscio di
applausi. «Be’, non è un granché come benvenuto» pensò «il ragazzo li ha fatti quasi
addormentare, ora devo svegliarli.» Prese il discorso dalla cartella, mise i fogli sul
leggio, vi posò sopra due fermacarte di ottone e tirò fuori il cronometro.
A ogni movimento, le medaglie sul taschino a sinistra riflettevano dardi di sole.
Tra i suoi colleghi il generale era molto stimato come oratore, e sapeva che una
brevissima pausa prima di cominciare a parlare avrebbe cambiato lo stato d’animo
dell’auditorio dall’irrequietezza all’aspettativa, e attirato su di sé l’attenzione. Avviò
il cronometro, si aggiustò gli occhiali da aviatore, e alzò di nuovo un dito indicando il
giovane tenente in piedi al margine del palco, vicino al telefono mobile.
— Vi ringrazio, tenente Kennedy. Sono felice di essere tornato qui, a Los Alamos,
dove trentacinque anni addietro ci siamo battuti con la storia e ne abbiamo cambiato
il corso. L’America si sta avviando nuovamente per un difficile cammino, un nuovo e
periglioso cammino...
La voce del generale vibrava poderosamente sulla folla. Mentre la pronuncia piatta
del tenente era risuonata lamentosa e debole attraverso i grandi altoparlanti, il timbro
di voce del generale Britten, forte, profondo e leggermente roco, assumeva una
sonorità maestosa. Il generale avvertì il morso della polvere e dell’aria calda in gola.
«Devo smettere di fumare quei dannati sigari» pensò.
— ... in sostanza, il comando è scelta. Il popolo americano deve decidere se
guidare o lasciarsi guidare. Dobbiamo deciderci a lottare per i nostri privilegi. Come
ha detto un grande storico del passato: «I forti fanno quello che possono e i deboli
quello che devono». La nostra battaglia non è solamente contro coloro che tentano di
dominare il mondo, è contro noi stessi. Abbiamo il coraggio e la determinazione di
opporre un’adeguata difesa? Quando dovremo misurarci con la storia, come
trentacinque anni fa, saremo altrettanto preparati? È forse necessario che io vi
rammenti, signore e signori, che il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza?
Dopo quest’ultima frase il generale Britten alzò drammaticamente le braccia. Il
vento si era levato, le bandiere garrivano spiegate, nitidi i colori. Lui udì i clic delle
macchine fotografiche, vide dei bagliori di sole riflessi tra le aste delle bandiere, un
istante prima di essere sommerso dalle ovazioni.
«Questo sì che è un applauso» pensò. «Li hai svegliati George, li hai veramente
svegliati.»
A 30 chilometri di distanza, in una base aerea all’altro capo della catena delle
Jemez, quattro bombardieri B-52 si preparavano per il decollo. All’inizio della pista,
dove il catrame dell’asfalto era costellato di bolle nere, il responsabile degli effetti
speciali, Loren Hutchins, si accese una Marlboro, si asciugò il sudore sulle guance, e
desiderò di essere nuovamente a Los Angeles, a fare il solito lavoro alla Twentieth-
Century Fox, e non in quel deserto dimenticato da Dio. Aveva controllato le cariche
di esplosivo sulle finte bombe, e si era fatto da parte mentre i quattro piloti salivano
sui loro aerei.
— Adesso, ricordate, signori — disse — dovete far scattare i timer prima di
attaccare, o succederà un gran casino.
Uno dopo l’altro i piloti annuirono e si chiusero dentro. Loren Hutchins schiacciò
la sigaretta con un piede.
— Maledizione — disse ad alta voce, accorgendosi di essersi imbrattato le scarpe
di catrame appiccicoso e nero.
Si voltò dirigendosi verso la torre di controllo.
Chi aveva richiesto questa pagliacciata? Probabilmente uno di quei giovani
dirigenti, mezze cartucce, desiderosi di fare amicizie al Pentagono. Quello che lo
seccava veramente era di aver passato due settimane a creare uno spettacolo che
sarebbe stato rappresentato sull’altro versante della montagna. Non avrebbe neppure
potuto assistervi, lo avrebbe visto soltanto in televisione, una volta a casa.
Alla torre radar, lo specialista di terzo grado, Tyrone Williams, lo aspettava per
accompagnarlo di sopra.
— Quanto manca? — chiese Hutchins appena i motori degli aerei si accesero.
— Sta parlando da sette minuti.
Il controllore di volo nella torre stava ascoltando da un pezzo.
— Sette minuti e undici secondi all’ora stabilita — disse a Hutchins e Williams
che entravano nella stanza. Poi parlò nella cuffia con un tono inespressivo: — Pronti
per il decollo. A dodicimila piedi nessuna turbolenza. Vento a quattro nodi.
I tre uomini nella torre osservarono gli aerei rollare fino all’inizio della pista,
girarsi, e uno dopo l’altro partire e librarsi alti, dirigendosi a ovest. Li seguì una scia
di fumo maleodorante e un rombo sordo.
— Sette minuti e quindici secondi all’obiettivo — diceva il controllore parlando in
cuffia. — Dritti al... bersaglio.
Lo specialista di terzo grado Williams si rivolse a Loren Hutchins: — Credo che
abbiate finito ormai. Spero che tutto funzioni.
— Certo che funzionerà — rispose Hutchins. — Sempre che i vostri ragazzi
seguano le mie istruzioni. Adesso, potete accompagnarmi fuori dell’aeroporto? Ho
lasciato a casa il bambino con l’influenza.
— Aspettate un momento — disse Williams. Alzò il radiotelefono verde, diede
uno sguardo all’orologio digitale sulla mensola e parlò: — Gli aerei sono già partiti,
tenente Colby. Cinque minuti e cinquantotto secondi al bersaglio.
«E sbrigati» pensò Hutchins.
Williams riagganciò il microfono.
— Bene, signor Hutchins. Possiamo avviarci.
— ... e un pugno di uomini devoti, i leader della nostra nazione, le forze armate e i
più grandi scienziati americani. Uomini che avevano soltanto uno scopo: la fine della
guerra. Alle nostre ricerche fu dato il nome di Progetto Y. Oggi noi vedremo...
A metà periodo il generale Britten spostò lo sguardo sul cronometro. «Ho parlato
con troppa lentezza» pensò. Ripassò mentalmente il discorso per abbreviare gli ultimi
due paragrafi. Gli era rimasto meno di un minuto.
— ... come apparve a coloro che con fierezza parteciparono al Progetto Y, il
risultato di questi sforzi. Vedrete qui, oggi, quello che noi vedemmo trentacinque
anni fa: la simulazione dell’esplosione del più potente ordigno che l’uomo avesse
conosciuto. Duecento chilotoni di energia, il trionfo dell’intelletto e del coraggio
umano... — si interruppe e tirò un sospiro drammatico. — ... Il dominio sulla natura
in nome della pace.
Un rumore lontano riempì il cielo, la sua eco già udibile a oriente. Mentre l’ultima
frase del generale si diffondeva su tutto l’altipiano, il rumore aumentò
improvvisamente. Nell’istante in cui il generale si tolse gli occhiali, il rumore
echeggiò sulle montagne, prima come un rombo costante, simile al rullio sostenuto di
una grancassa, a una enorme orchestra di tamburi.
Come un sol corpo, l’uditorio rivolse lo sguardo a oriente, tutti con il palmo della
mano sopra gli occhi per ripararsi dal sole. Perfino molti occupanti la piattaforma, pur
sapendo quello che stava succedendo, si appoggiarono allo `schienale delle sedie per
scrutare il cielo.
Il generale Britten si sedé, ignorando l’approssimarsi dei bombardieri B-52 che
avevano ipnotizzato i convenuti.
Il suo pensiero era rivolto alle riunioni e al modo in cui avrebbero potuto trarne
vantaggio. Era un’opportunità per smuovere i giornalisti e i club locali, per spronare i
suoi colleghi sul palco a tornare nell’arena pubblica. Tenere conferenze, scrivere
lettere agli editori, organizzare raccolte di fondi per la campagna elettorale.
Rilanciare «i nostri».
Ma perfino George «Ferrodicavallo» non riuscì a ignorare l’attrattiva dello
spettacolo, e quando i bombardieri virarono nella vallata, non poté evitare di
cambiare posizione sulla sua sedia e alzare la testa, seppure di poco, per avere una
panoramica della rappresentazione.
I B-52 fecero la loro apparizione sulla cima delle montagne, si abbassarono in
formazione a V sui laboratori e, secondo le istruzioni, sfrecciarono sull’altipiano
sorvolando a bassa quota la platea. Dei cappelli volarono in un turbinio di polvere.
Cartine di caramelle sciamarono sul terreno. Il frastuono spaccava i timpani.
Sebbene la punta della V fosse sbilanciata, il pubblico applaudì furiosamente,
azionando Instamatic, Nikon e cineprese superotto al pari dei professionisti.
Quando gli aerei virarono nuovamente verso il sole riguadagnando la formazione, i
loro motori emisero una esplosione di suoni acuti simili a grida.
— Prendete quota amici — diceva il capo della squadriglia degli altri piloti. —
Direzione di rotta 5 sud-ovest. Ci stiamo avvicinando. — La voce tossicchiò. —
Walter, non hai dormito stanotte? Hai di nuovo litigato con Josie? Ti stai abbassando
e rovini la simmetria della formazione. Riprendi quota.
Subito dopo la formazione si ricompose alla perfezione e si tuffò tra le montagne;
il rullio di tamburi si trasformò in un sibilo! Uno stridore che frastornava il cervello.
L’attimo era assieme esplosivo e sereno. Sembrava piuttosto una rapida successione
di disegni, di immagini improvvisate che qualcosa di reale. Era troppo perfetta per
essere reale. E quando i dinamici velivoli apparvero praticamente verticali, quando lo
stormo sembrò puntare dritto al sole, quando sembrò sfidare le leggi della natura e sul
punto di precipitare dal limpido manto blu del cielo, il silenzio cadde sulla folla.
Nessuno distoglieva lo sguardo, smisero di scattare foto. Quello che né il giovane
tenente né il generale Britten erano riusciti a fare, riuscirono a farlo i piloti con una
dimostrazione di assoluta bravura. Avevano rapito la totale attenzione del pubblico.
«Un volgarissimo trucco» pensò acidamente il generale, decidendosi finalmente ad
alzare del tutto la testa per assistere alle evoluzioni. «Un trucco volgare, ma
assolutamente meraviglioso. Sì ...» dovette ammettere, la grandiosità della tecnologia
aeronautica era davvero imponente, e i piloti meritavano l’abbraccio silenzioso del
pubblico.
Ora gli aerei si innalzavano sulle montagne, appena visibili da terra. A quella
distanza potevano essere scambiati per piccoli aerei Cessna o per palloni sonda o
addirittura per uccelli.
— Su, Walter, svegliati — gracidò la voce del capo della formazione. — Adesso
cominciamo il conto alla rovescia, lo sapete, avanti con i numeri. Cinque, ragazzi,
quattro... tre... due... uno... fuori!
Senza preavviso, proprio come era accaduto trentacinque anni prima, i bombardieri
sganciarono il loro carico. Le bombe simulate piombarono fendendo l’aria; a trecento
metri dal suolo, gli involucri si spaccarono e una nuova esplosione si diffuse tra le
montagne. Questa era una semplice simulazione, nella realtà, gli aerei erano stati
soltanto due, il carico uno, il rumore praticamente nullo.
Poco dopo il lancio degli ordigni, una luce quasi soprannaturale illuminò il cielo,
una intensa luce bianca, come di laser. Era un’esplosione a catena di cariche di
magnesio. Sui picchi delle montagne la polvere si levò lentamente per mezzo minuto,
poi a velocità crescente e quattro nubi filiformi salirono verso la luce. Ci fu un altro
lampo, così vivido che l’intero orizzonte si irradiò di una luce abbagliante. Le quattro
nubi crebbero allargandosi durante l’ascesa, finché la parte superiore delle colonne di
polvere e fumo si dilatò, ondeggiando e spandendosi simultaneamente, mentre
quattro sagome identiche oscuravano il sole e sparivano nel cielo a occidente.
Quattro nubi a forma di fungo, grigie e terrificanti. L’immagine dell’orrore e della
potenza.
— Molto bene, ragazzi — commentò la voce del capo della formazione.
«Una bella esibizione» pensò il generale Britten, alzandosi per abbandonare la
tribuna. Si fermò vicino alla bandiera, in cima a una gradinata, aspettando che gli altri
andassero a congratularsi con lui. Erano di nuovo assieme, soltanto quattro uomini,
mentre i fotografi inquadravano e scattavano le ultime foto, poi, tutt’e quattro si
avviarono verso la sala delle riunioni.
«Avessero almeno insegnato loro a studiare, alle scuole superiori. O alle inferiori.
Se solamente» pensò Jill Britten «avessero insegnato loro qualche nozione di storia.»
Sia i diplomati alle scuole pubbliche, sia a quelle private sembravano avere
incredibili difficoltà di fronte ai concetti più elementari. «Se uno non sa studiare, non
sa nemmeno pensare, e se non sa pensare, allora tutto è inutile.»
Jill sbirciò da sopra gli occhiali le venti facce superlevigate che le stavano davanti.
«Sono tutti talmente convenzionali» si disse. «Che ne sarà stato degli
anticonformisti? Forse oggigiorno non ne esistono più.»
Fuori dall’edificio, in H Street, un camion pesante, diretto verso Pennsylvania
Avenue, faceva vibrare i vetri delle finestre nelle loro intelaiature. La calura
opprimente dell’estate americana sembrava filtrare attraverso i vetri.
— Il 14 marzo 1920 — continuò — la guarnigione nipponica dislocata a
Nikolaevsk fu annientata, e i giapponesi si ritirarono portandosi dietro il generale
Dietrichs. Questo, naturalmente, pose fine alla partecipazione giapponese alla guerra.
Il Giappone non ebbe alcun vantaggio che giustificasse la morte di migliaia dei suoi
uomini. Dopo la disfatta, la guerra si concluse con la restituzione dei territori che il
Giappone aveva annesso, e il paese sprofondò in una disperata ricerca di riscatto.
L’antico codice guerriero del Bushido si riaffacciò. Il paese conobbe un’incredibile
ondata di nazionalismo, e perfino tra i più progressisti si levarono appelli al ritorno
della classe guerriera, i samurai, alla loro gloria passata. — Jill fece una pausa,
sospirò e riprese: — La prossima settimana vedremo a cosa condusse il nuovo
nazionalismo. Mi farebbe piacere che prestaste maggior attenzione al testo, più di
quanto avete fatto la settimana scorsa.
Prima ancora che avesse assegnato i compiti per la lezione seguente, gli studenti
avevano cominciato a riempire le loro cartelle, premurosi di abbandonare l’aula.
«Vogliono pranzare» li giustificò Jill. Sapeva per esperienza che per mantenere vivo
l’interesse di una classe alle undici e trenta era necessaria tutta la sua abilità oratoria.
Prima di tutto non amavano la scuola estiva, e poi erano affamati, quindi bisognava
rendere avvincente la lezione. Di fatto, trovava l’insegnamento universitario più
divertente di quanto avesse immaginato. Se almeno avessero insegnato loro a
studiare.
Quando finì di preparare la sua cartella e si apprestò ad affrontare il caldo
insopportabile, Colin Stewart si avvicinò alla cattedra.
Colin Stewart era uno di quei tipi simpatici, buffamente galanti, con capelli biondo
cenere e sorriso smagliante, destinati alla fama del Campidoglio una volta terminati
gli studi. Per settimane l’aveva pregata di procurargli un lavoro con suo fratello.
Sfortunatamente, il fratello aveva più richieste da parte di giovani che volevano
lavorare per lui, di quante potesse soddisfarne. Colin Stewart aveva anche tentato, fin
da giugno, di trascinare Jill a prendere un drink o ad andare al cinema o a cena con
lui, con la speranza, sospettava lei, di portarsela a letto. Colin aveva desistito soltanto
quando lei lo aveva informato che il suo ragazzo era un agente dell’FBI del quale era
profondamente innamorata.
— Professoressa Britten, non voglio infastidirla, ma stavo giusto...
— Sì, Colin, ho parlato con mio fratello, vedrà cosa potrà fare per voi. Vi ho
raccomandato come il più brillante elemento capitato qui da anni.
— Non so davvero come ringraziarvi. Lo ammiro davvero. Veramente. È un
politico davvero straordinario...
— Sì, Colin, lo so — disse Jill pazientemente, domandandosi se il vocabolario dei
ragazzi includesse altri termini oltre a «davvero». — Mi ha detto che si farà sentire
presto. Aspettatevi un appuntamento per un colloquio.
— Molte grazie — rispose Colin Stewart voltandosi per andarsene, poi, esitando
sulla soglia: — Siete davvero fidanzata con un agente dell’FBI?
— Sì, Colin, è così — rispose lei ridendo — e ha promesso di spararvi se non la
smettete di insistere.
— Tentare non nuoce — concluse Colin con simulata delusione.
— Colin, se impegnaste un decimo di questa energia nella vostra carriera, vi
assicuro che nulla potrebbe impedirvi di conquistare il mondo. A mercoledì.
— Su, lasciate che vi aiuti — disse Stewart, toccandole un braccio.
Jill aveva qualche difficoltà a camminare, perché si era slogata una caviglia
giocando a football con Alex durante il weekend,
— Posso farcela da sola, Colin. Grazie.
Prendendo la sua cartella notò il biglietto che Alex le aveva lasciato quel mattino.
C’era scritto: FALLI SBAVARE. Eppure, Colin era carino, probabilmente molto bravo a
letto. L’immagine di un rapporto sessuale con lui rimase nella mente di Jill un po’ più
a lungo di quanto avesse voluto. Di recente, aveva letto sul Post che i giovani
arrivano all’apice della sessualità a diciotto-diciannove anni e le donne a
trentacinque. L’articolo diceva che dopo l’adolescenza, l’attività sessuale poteva
essere rappresentata con una parabola ascendente per le donne e una discendente per
gli uomini.
Scendendo le scale verso la porta che dava su H Street, Colin la sostenne per un
braccio. «Quello che abbrutisce la società» pensò Jill «è la repressione degli istinti
sessuali.» Però anche il semplice pensiero di Colin la faceva sentire colpevole. «In
fondo, la fedeltà implica, per la sua stessa natura, il tradimento. Non si può scegliere
l’una senza pensare all’altro.»
In H Street il caldo era scemato abbastanza da rendere tollerabile camminare.
— Arrivederci, Colin, a mercoledì.
— Grazie, Jill... voglio dire, professoressa Britten — rispose lui frettolosamente,
poi si voltò e trotterellò verso Pennsylvania Avenue.
«L’imbroglioncello» commentò tra sé Jill. «Burt dovrebbe proprio assumerlo.»
Dal marciapiede salivano ondate di calore, davanti alla Casa Bianca molti turisti
aspettavano di poter entrare nell’edificio. Lì vicino, un certo mister Softee, gelataio,
faceva affari d’oro.
Jill rimpianse la propria bicicletta, ma con la caviglia così gonfia sarebbe stata
inutile. A Washington i tassì erano tanto a buon mercato che era tentata di prenderli
per qualsiasi direzione. L’appartamento, l’ufficio, la scuola, tutto nella stessa zona,
un dollaro e mezzo al giorno le sarebbe bastato per quasi tutti quei viaggi. Ma quel
giorno doveva andare in molti posti.
Quando il semaforo cambiò, attraversò Pennsylvania Avenue. Doveva cercare un
libro da Kramerbooks, poi sarebbe andata a prendere un caffè, dopo all’American
Express, all’angolo tra la H Street e la Ventesima, per ritirare i biglietti del viaggio
per Milwaukee, dove avrebbe tenuto una conferenza assurdamente strapagata sul
tema: «America e Giappone: due culture in conflitto». Infine, in biblioteca per
iniziare a lavorare al suo libro. La conferenza di Milwaukee poteva diventare il primo
capitolo del libro. «Se rimando di un solo giorno ancora, non comincerò mai questo
benedetto libro, e se non lo comincio, finirò per diventare uno di quei leccapiedi che
passano il tempo a corteggiare il preside della facoltà invece di lavorare.»
Voltò l’angolo per andare in libreria, claudicante, e imprecò contro Alex per averla
placcata, mentre il loro doveva essere un gioco senza agonismo, tanto per scherzare.
Sentì che qualcosa non quadrava. Ma che diavolo era?
«Oh, Dio, niente lavoro per oggi.» Ricordò di doversi trovare con Alex e Burt per
la colazione. Si arrese e prese un tassi.
A una decina di isolati a sud, nel nuovo J. Edgard Hoover Building, all’angolo tra
la Decima e Pennsylvania Avenue, Alex Burgess non aveva a che fare con il caldo,
ma con l’irruzione nel suo ufficio di Buck Weston. Buck era il responsabile degli
elaboratori elettronici al piano di sotto, e si era sistemato davanti alla scrivania di
Alex come se avesse intenzione di rimanervi per sempre, o quantomeno per il resto
del pomeriggio. Una creaturina pallida e tesa, Buck aveva grandi occhi e una
interminabile serie di tic nervosi: batteva un pollice, contraeva un dito, e con
un’unghia picchiava ossessivamente su un incisivo. Come il meccanismo del moto
perpetuo di Rube Goldberg, il suo corpo sembrava essere posseduto da un eccesso di
energia.
Alex, che sarebbe stato più che desideroso, addirittura ansioso, di allontanare Buck
dal secondo piano e perfino dallo stesso Bureau, non riusciva a risolversi a buttarlo
fuori dal suo ufficio. «Poveraccio, ha bisogno di amici. Il guaio è che si tratta di un
matto. Basterebbe una visita psichiatrica e in dieci minuti lo dichiarerebbero
completamente squilibrato.»
— Guarda questa piccola Hopkins calibro 22 del 1873 — stava dicendo Buck. —
Una autentica bellezza. Calcio di madreperla, canna singola, un colpo, una delle
migliori pistole a canna corta mai ideate. La fabbricò Hopkins in persona. Le signore
usavano canne corte, come sapete, per portarle in borsetta. Questa apparteneva
nientemeno che a Belle Matthew, la tenutaria di un casino a Vicksburg, che la
portava nella manica. E, Alex, non crederai che cosa ho scovato: un’automatica usata
da Sam Bass.
Buck Weston misurava poco più di un metro e mezzo e Alex pensava che questo
era il motivo per cui Buck collezionava armi. Lo compensava per essere una mezza
cartuccia.
Buck spinse indietro il suo ciuffo ribelle, e attese che Alex dimostrasse un qualche
interesse ai suoi acquisti.
— Sam Bass — disse Alex, sforzandosi di sostenere la sua parte nella
conversazione — lo scassinatore.
Fuori, nel cortile, visibile dalla finestra di Alex, tre uomini sopra un’impalcatura
lucidavano le lettere alte sessanta centimetri che commemoravano il defunto J. Edgar.
L’ARMA PIÙ EFFICACE CONTRO IL CRIMINE È... era quanto si riusciva a scorgere al di
sopra del ponteggio. L’edificio, esempio del monumentalismo di Washington, era una
struttura di mattoni monolitica e severa; era situato in uro spiazzo che dava sul viale,
con un accesso sulla strada, e un cortile sotto il livello stradale.
— E sull’impugnatura — continuava Buck Weston — è inciso il nome Sam Bass.
L’ho pagata soltanto due centoni, Alex, con il suo nome inciso. A dir poco ne varrà
seicento.
«Perché sceglie proprio me?» pensò Alex. «A che devo questi rapporti dettagliati
sulla sua collezione di armi? Deve essere colpa mia. Se avessi chiuso la porta in
tempo o alzato il telefono, se ne sarebbe andato.»
Ma la cortesia era stata inculcata ad Alex Burgess fin da piccolo, il padre credeva
nelle dosi massicce di sculaccioni.
Anche da giovane, quando giocava a football con il Notre Dame, Alex era
considerato fuori dal suo elemento. L’allenatore gli gridava sempre che era
maledettamente gentile con gli avversari, che doveva gettarsi sulla palla con
maggiore decisione.
Buck Weston, contrariamente alle apparenze, era essenzialmente un tenero che
aveva bisogno di attenzione da parte dei suoi simili.
Alex riteneva che i complessi di Buck dipendessero anche dalla sua mania di
collezionare armi. Non che la collezione fosse una pecca, ma come poteva un uomo,
specialmente uno che si guadagna da vivere lavorando ai computer, passare le ore
libere aggirandosi per le aste e i club di caccia in cerca di armi? Alex non
collezionava pistole, ma libri. In particolare, quelli relativi alla legislazione
internazionale riguardante i crimini di guerra, nella cui materia era da considerarsi un
esperto, e sulla quale aveva pubblicato alcune dotte monografie. Era stata la sua tesi
sui crimini di guerra, e alcuni articoli sulla personalità dei terroristi ad attrarre
l’attenzione del direttore dell’FBI, William Webster, il quale aveva richiesto al
dipartimento della Giustizia di trasferire Alex al Bureau.
Alex aveva seguito il corse di addestramento di tre mesi, per entrare a far parte
dell’FBI e avere l’opportunità di dare la caccia ai terroristi, con la promessa del
Procuratore Generale che sarebbe potuto ritornare alla divisione Penale quando
avesse voluto lui.
Ed eccoti Buck Weston con la sua ossessione: pulire, lucidare, provare le sue armi;
per non parlare della sua fissazione di fare del figlio undicenne un tiratore scelto.
«Colpa della statura» pensò Alex, tornando alla sua teoria che gli uomini bassi
passano il tempo a dar prova di virilità. E questo spiegava perché Alex era un
avvocato e non un agente dell’FBI.
L’elenco di Weston sulle recenti aggiunte alla sua collezione continuava. — ... ha
la canna mozza, Alex, una meraviglia. Ti fa a pezzi a quindici passi... — Ma la mente
di Alex si volgeva a un’altra grana professionale: doveva convincere il direttore a
stanziare una quota del bilancio per l’assunzione di altri psichiatri.
Pur continuando a fissare gli occhi febbrili di Weston, speculava oziosamente su
quanti specialisti in criminologia, giù, al piano terra, nutrivano analoghe passioni.
Forse sarebbero stati tutti più contenti inseguendo criminali per le strade piuttosto che
lavorare nei laboratori o con gli elaboratori elettronici.
— Abbiamo bisogno di unità addizionali IMB — stava dicendo Weston arrivando
finalmente al motivo della sua visita. — Potrebbero servirmi anche altri due
terminali, e la Texas Instrument sta lanciando sul mercato un nuovo selezionatore.
Non c’è memoria sufficiente nelle unità di sotto per tutta la roba di cui dobbiamo
occuparci.
«Non c’è memoria sufficiente in nessun posto per il lavoro che stiamo facendo»
pensò Alex, «se immagazzinassimo altri dati finiremmo pazzi.» Ma speculazioni del
genere non preoccupavano Weston. Quello che necessitava a Buck, e ai suoi
programmatori là sotto, era un maggior numero di elaboratori, e non poteva dargli
torto. Quando c’era bisogno del loro contributo, si davano da fare, e senza di loro era
impossibile scovare scassinatori e terroristi.
Weston si chinò per tirarsi su i calzini che gli scendevano sempre alle caviglie a
causa dell’incessante sballonzolare, e continuò a insistere per ottenere computer più
grandi e costosi. Alex distrasse un altro angolino della sua mente per pensare a una
legge che era stata sottoposta alla discussione parlamentare, riguardante le tendenze
criminali degli agenti di polizia federale. Il direttore era preoccupato, e Alex si
aspettava di essere messo sotto torchio, al proposito, da Burt Britten durante il
pranzo.
— Ti sposerai con la figlia del generale? — domandò inaspettatamente Buck. —
Figlia del generale e sorella di un deputato. Diavolo, Alex, finirai per togliere di
mezzo Webster e impossessarti del Bureau.
— Buck, quando fisseremo la data — rispose Alex, con il massimo
dell’impazienza che riuscisse a manifestare — sarai il primo a saperlo.
— Avresti potuto fare di peggio — scherzò Weston.
«Sì, despota chiacchierone, avrei potuto, ma adesso, ti prego, vattene.» Squillò il
telefono. «Grazie a Dio, chiunque tu sia.» Era Burt che confermava l’appuntamento.
Alex protrasse la telefonata più a lungo possibile, e quando la conversazione terminò,
lui continuò a farfugliare imbarazzato al segnale acustico, finché Buck Weston se ne
andò agitando nervosamente un dito.
— Grazie — disse Alex al segnale acustico, e prese la giacca.
La prima cosa che Burt Britten notò, varcando la porta dell’aula del Parlamento, fu
che la testa di Tommy Langston penzolava come al solito dal banco. Per ben due
giorni Burt aveva seguito i lavori dell’assemblea, e ascoltato i suoi colleghi dibattere
la politica federale sul problema delle acque, argomento del quale gli elettori di Burt,
nel Massachusetts, non si curavano affatto. Ma l’acqua affascinava Burt. Un bene
naturale che non era considerato tale. Senza l’acqua i coltivatori dell’ovest non
potevano irrigare, e senza irrigazione niente raccolti. La legge in programma portava
il nome di Langstom, ed eccolo lì Tommy Langston, di nuovo ubriaco in pieno
giorno, appisolato, con la testa tra le mani, la cravatta spiegazzata e a sghimbescio.
Distrattamente Burt cominciò a contare gli ubriachi nell’aula affollata. Senza sforzo
ne contò ventuno. Sopravvivevano alla stessa maniera di Tommy Langston. Perché
lanciavano campagne elettorali grandiose, perché si circondavano di collaboratori
brillanti e perché molti di loro impersonavano il parlamentare americano ideale. Gli
elettori di Tommy Langston lo avrebbero sostenuto a ogni scadenza elettorale, perché
somigliava in qualche modo a una mezza dozzina di divi del cinema degli ultimi
venti anni.
Sebbene lo negasse strenuamente, anche Burt Britten aveva tutte le caratteristiche
dell’uomo politico ideale: sorriso kennedyano dai denti di porcellana, un accenno di
fossette, una lieve spruzzatina di grigio prematuro tra i capelli neri ricciuti.
L’immagine precisa di suo padre, di fatto, ma Burt negava anche questo
accostamento.
Al mattino Burt dimostrava trent’anni, giovane e aggressivo. Dopo una dura
giornata di lavoro era pallido e abbattuto, e sembrava un quarantenne. Per il resto
della giornata si poteva fare una media; infatti dimostrava trentacinque anni, la sua
età. Era il quinto tra i membri più giovani deputati, ed era considerato uno dei più
abili legislatori provenienti dal Massachusetts.
Percorse il tappeto sgargiante, blu e arancione, fino al suo banco e si sedé. Jack
Brokaw, una istituzione, al Parlamento da tre decenni, gli sedeva accanto, ascoltava e
prendeva appunti. Brokaw si sporse verso Burt e sussurrò:
— Ehi, «Piccolo», Tom Langston è sbronzo.
— L’ho notato — rispose Burt. — Non chiamarmi piccolo, Jack, mi fai sentire un
ragazzino.
— Sei un ragazzino — confermò testardamente Brokaw. — Chi presiede
l’assemblea?
— Carrothers — gli mormorò Burt. — Ormai è fatta, è garantito che la legge
passerà.
— Sul mio cadavere — rispose Brokaw con un accenno di sorriso.
— Non puoi farci più niente, Jack, non puoi proporre alcun emendamento.
— Mi sono fatto un amico nel seguito del presidente — rispose Brokaw, questa
volta con un sorriso più largo. Come Burt ben sapeva, l’amico di Brokaw era il
presidente stesso. — Domani sarà riaperta la discussione.
A Burt, Brokaw piaceva. Gli piaceva nonostante fosse un avversario politico. Nel
corso della legislatura non avevano votato allo stesso modo più di due o tre volte. In
pubblico si accusavano a vicenda di indebolire la potenza della democrazia
americana, i sacri diritti individuali e il glorioso sistema dell’impresa privata, ma Burt
non poteva fare a meno di amare quell’uomo. Era una cosa strana. Riusciva ad
avversare la politica di un tale, attribuirgli un sacco di azioni giudicate reprensibili,
eppure stava volentieri assieme a lui e rideva alle sue battute.
«Forse è questo che ci fa degli uomini politici» pensava Burt, ma il suo amico Alex
Burgess avrebbe detto che semmai li faceva umani.
— C’è una mozione di aggiornamento, quindi la seduta è aggiornata a domani
mattina alle undici.
Burt si volse e vide Brokaw sollevare gli occhi sonnolenti. Aveva una espressione
impertinente.
— A quanto sembra, il tuo amico nel seguito del presidente — disse Burt — ha
molte aderenze. Un aggiornamento rapido.
— Sembrerebbe, no? — rispose Brokaw alzandosi. — Facciamoci due passi, Burt.
«Facciamoci due passi» significava che aveva qualcosa di importante da dire. Burt
lanciò uno sguardo all’orologio, vide che mancavano una ventina di minuti
all’appuntamento con Jill e Alex per il pranzo, e seguì Brokaw fuori dell’aula.
Appena oltrepassata la soglia, i giornalisti si strinsero attorno a loro, domandando
perché il disegno di legge sulle acque non era stato messo ai voti come previsto.
Brokaw se ne liberò con proteste di ignoranza, ma i giornalisti avevano capito che
prima dell’approvazione qualsiasi disegno di legge sulle acque sarebbe dovuta
passare per le mani di Jack Brokaw.
L’inviato di una agenzia di informazioni li seguì spedito, lungo il corridoio, fino
agli ascensori riservati ai deputati.
— Onorevole, avete niente a che fare con il rinvio delle votazioni?
Brokaw fissò l’uomo per un istante, poi ostentò il suo sorriso burocratico.
— È il presidente che decide — rispose. — Io sono soltanto uno dei
quattrocentotrentacinque. Vi suggerisco di parlare con il presidente.
La porta dell’ascensore si spalancò, e mise fine alla conversazione.
Fuori, sulla gradinata a ovest del Campidoglio, Brokaw e Burt oltrepassarono i
turisti. Erano centinaia, come al solito, di ogni nazionalità. Fotografavano le proprie
famiglie sullo sfondo della cupola del Campidoglio. La facciata dell’edificio si
scrostava sempre più, lasciando vedere pezzi di intonaco pericolosamente grandi.
— Dovrebbero decidersi a restaurarlo — osservò Burt, indicando la facciata. —
Prima che cada in testa a qualche ignaro avvocato della mia circoscrizione, che
certamente mi considererebbe responsabile di questa trascuratezza.
— Guarda i giapponesi e i tedeschi — disse sottovoce Brokaw. — Dopo la guerra
non potevano permettersi di acquistare nemmeno gli stuzzicadenti e adesso siamo noi
che compriamo da loro tutti i nostri televisori e le automobili. Per non parlare
dell’acciaio.
Aggirarono la dignitosa e altrettanto scrostata statua del generale Grant,
dirigendosi verso quella del presidente Garfield, situata di fronte alla Maryland
Avenue.
Burt si sentiva soffocare dalla calura, e allentò la cravatta.
— Hai idea di quanto tuo padre stia sobillando il popolo?
— Ti riferisci a quel discorso idiota di Los Alamos?
— A quello, Piccolo. E segnerà qualche punto a favore del Pentagono. Si dà il caso
che io abbia una copia del suo discorso che è stato... come dire... che in qualche modo
è un aiuto al Pentagono.
— Non capisco, Jack, non vorresti vedere aumentati gli stanziamenti per la difesa
nucleare?
— Hai ascoltato troppi dei miei discorsi, Piccolo. Certo che voglio vedere i nostri
ragazzi con tutte le armi di cui necessitano. Ma loro vogliono avere più di quanto gli
occorre, e noi dobbiamo assolutamente limitare gli stanziamenti.
Burt guardò l’orologio. Dieci minuti all’una.
— Hai fretta? — domandò Brokaw.
— Devo andare a pranzo con Jill e Alex.
— Bene, in ogni modo ti passerò una copia del discorso del generale. Vorrei che
qualcuno dei tuoi collaboratori esaminasse i suoi argomenti. Ma se dovesse scapparti
che io ho a che vedere con questa faccenda, sarò costretto a cacciarti in gola la copia
del discorso di tuo padre. Tu puoi lasciar trapelare qualcosa, io non posso.
— Va bene, Jack, non voglio scontrarmi con lui pubblicamente, ma qualche
indiscrezione riuscirò a ottenerla.
— D’accordo. Adesso vai a pranzo e non far aspettare la tua graziosa sorellina.
«La gente» pensò Burt, tra un boccone e l’altro di insalata di pollo «ha le più
disparate motivazioni. Jack Brokaw vuole creare noie a mio padre, o si preoccupa
veramente del bilancio della difesa? O c’è dell’altro che bolle in pentola?»
— È un ragazzino simpatico — disse Jill ad Alex, espiando un peccato di
immaginazione — ma se oserà prendersi un’altra confidenza ne parlerò a sua madre.
— Dovresti esserne lusingata — rispose Alex.
Nel Gandy Dancer, un ristorante nei pressi del Campidoglio, frequentato dai
deputati e dai loro collaboratori, c’era quel brusio e quell’animazione particolarmente
intensi, tipici di coloro che si sentono qualcuno. Di fronte a Burt, Jill e Alex, sedeva il
senatore Moyniham con due maneggioni della Casa Bianca. Dietro al senatore
c’erano due legali del dipartimento del Lavoro e un funzionario del dipartimento dei
Trasporti con la moglie e il figliolo.
— Ho finito con il football — disse Jill, massaggiandosi la caviglia — con le
corse, e roba del genere. Sto diventando troppo vecchia per certe cose.
— Anziana — corresse Alex, accarezzandole, teneramente il collo. — A trent’anni
sei proprio una vegliarda.
— Ricordi quando restavamo in piedi tutta la notte a parlare, e ciononostante
riuscivamo a frequentare i corsi? — aggiunse Jill. — Adesso se non mi faccio le mie
otto ore di sonno sono distrutta.
— Io riesco ancora a sopravvivere con cinque ore di sonno — ridacchiò Burt.
Burt e Alex si conoscevano da quindici anni. Per Alex era come se si fossero
laureati in legge ieri e diplomati l’altro ieri. La sua mente superlativamente razionale
non riusciva a credere che fossero trascorsi quindici anni, ma soprattutto non riusciva
a credere che avrebbe sposato la sorellina di Burt.
— Avete visto gli articoli dedicati al generale sul Post di stamattina? — domandò
Burt.
— È una cosa orrenda — disse Jill. — Io non lo capisco. Onestamente non mi
riesce. Cosa crede che si possa ottenere con tutte quelle assurdità sull’«America
forte»? E celebrare Hiroshima come se fosse una gloria per noi! Non riuscirò più a
rivolgergli la parola.
— Verrà in Parlamento ad appoggiare un disegno di legge per incrementare il
bilancio della Difesa — annunciò Burt.
— Stai scherzando? — disse Jill. — Perché papà?
— Perché il Pentagono è d’accordo con lui, ecco perché.
— Dovreste dare credito al generale — commentò Alex. — È un bravo oratore.
Uno di questi giorni presenteranno la sua candidatura al Congresso. Probabilmente
per il tuo seggio, Burt.
Burt gemette.
— Non sarebbe una catastrofe? Preferirei battermi contro Attila.
— Quella faccenda di Los Alamos — riprese Jill — mi dà il voltastomaco. Mi
domando come possa sostenere una cosa tanto orribile, tanto triste, come possa fare
leva sul terrore il dipartimento della Difesa.
— Il dipartimento della Difesa non ha bisogno di nessun aiuto — precisò Alex. —
Lui lo fa perché gli piace mettersi in mostra. Gli piace attirare l’attenzione. Vuole che
il dipartimento della Difesa lo consulti, così potrà apparire nuovamente sui giornali.
— No, è peggio — corresse Burt. — Non si tratta semplicemente di prestigio. Lui
crede in ciò che dice. È convinto che il paese per ritrovare l’unità debba imbarcarsi in
una nuova guerra.
— Auden ha scritto che dietro ogni sguardo pacifico ci sono dei massacri privati
— disse Jill — e talvolta penso che avesse ragione.
Tacquero per allentare la tensione. Il loro sguardo vagava sulla tavola. Ciascuno
pensava al proprio massacro privato.
— Amo papà — disse Jill. — Non è un uomo cattivo ed è stato un buon padre.
Persino tu devi ammetterlo Burt.
Burt sogghignò.
— D’accordo, è stato un buon padre. Ma... ma...
La frase fu lasciata in sospeso. Non c’era altro che i figli del generale George
Britten potessero aggiungere.
— Ehi, voi due — proruppe Alex — non immusonitevi. Burt, quando torna a casa
Margie?
La moglie di Burt aveva portato le due figlie, gemelle di sette anni, a casa dei suoi
genitori per un mese.
— Fra tre settimane — rispose Burt distrattamente. — Jill, devi parlare a papà. Si
sta rendendo ridicolo.
— Non posso, Burt. Non posso oppormi a lui. E poi, non starebbe nemmeno a
sentirmi.
— Avete deciso di mettermi da parte — interferì Alex cercando disperatamente di
cambiare argomento. — Mi state torturando con quel disegno di legge. Non vorrete
per caso affliggermi anche sul come si stia creando uno stato di polizia?
Ma né Jill né Burt avevano voglia di scherzare. Erano sprofondati nell’abisso della
loro vita privata, in un luogo oscuro e pericoloso, nelle loro memorie d’infanzia, nel
loro senso di solitudine crescente di fronte alla scoperta che l’uomo che li aveva
generati non era quello che avevano conosciuto.
Era un estraneo per loro. Un uomo che aveva proferito minacce di guerra, e per
questo la sua foto era stata pubblicata sui giornali.
La loro conversazione si spostò sul tempo, le elezioni presidenziali, le scipitezze
che servivano nei bar di Washington e nei ritrovi abituali del Campidoglio. La
discussione su loro padre fu lasciata da parte.
Nessun movimento in corsia. Non si udiva alcun suono fatta eccezione per il soffio
dei respiratori e il blip-blip-blip dei monitor cardiaci. Trentacinque incubatrici
collegate a tubi, pompe per l’ossigeno; e monitor polmonari, emettevano un ronzio
incessante. I contenitori di plastica trasparente erano inondati dalla luce delle
lampade termiche. I neonati dormivano; trentacinque bambini le cui probabilità di
sopravvivenza erano più o meno scarse. Uno di loro, un Chicano, era stato trasportato
in aereo da Bakersfield due ore prima, senza i genitori. I suoi polmoni avevano avuto
difficoltà dopo il parto, ma adesso respirava quasi normalmente. Il piccolo scuro,
nell’incubatrice numero sette, che aveva in testa una quantità impressionante di
capelli, probabilmente non sarebbe vissuto più di un anno perché aveva lesioni
cerebrali. Una bambina prematura, nata con cinque settimane di anticipo, quella
mattina, era gialla per l’itterizia e sobbalzava spasmodicamente. In ogni modo lei
sarebbe guarita. Sarebbe tornata a casa, e non avrebbe ricordato il giorno in cui era
venuta al mondo, praticamente priva di vita.
Gavin Lancaster, un giovane medico al primo anno di internato e alla seconda
settimana nel reparto rianimazione, era concentrato sugli appunti presi durante il giro
serale. Ma lui non era ancora uno di quelli che il suo compagno di stanza definiva
«giovani cannibali», quei medici che riuscivano a dormire soltanto quattro ore per
notte senza evidenti segni di logoramento o abbattimento. Gavin mostrava la
stanchezza. Era magro, aveva perso sei chili negli ultimi mesi, i suoi occhi infossati
erano arrossati agli angoli.
Gli appunti erano caotici. Li controllava e ricontrollava perché il dottor Solar
voleva essere informato meticolosamente.
«Facile per lui» pensò Gavin «con le sue otto ore di sonno ogni notte. »
Gavin sollevò lo sguardo dal tavolo posto a metà della corsia quando entrò nel
corridoio una inserviente con un secchio e uno straccio, seguita da un’infermiera, che
contravvenendo al regolamento, introdusse il suo ragazzo nel reparto. Gavin
occupava il posto dell’infermiera e le faceva il favore di badare al telefono. Una
volta, durante gli esami, gli aveva dattiloscritto le ricerche di laboratorio.
— Prendiamo solamente i casi peggiori — stava dicendo l’infermiera a bassa voce.
— I bambini che hanno i difetti congeniti, i prematuri, quelli senza speranza.
«Non c’è dubbio» pensò Gavin. Quella mattina era rimasto scioccato nel vedere un
medico ridurre gradualmente la dose di un potente medicinale anticoagulante a un
bambino, finché il cuore del piccolo aveva cominciato a rallentare il battito. A sera
era morto, e il medico, sulla cartella clinica, aveva scritto: «Deceduto per scompenso
cardiaco dovuto a malformazione». Senza dubbio una pietosa uccisione, eppure
molto dura da accettare. Il bimbo aveva subìto dei danni cerebrali e sarebbe cresciuto
gravemente ritardato. All’università nessuno si era preso il disturbo di dire a Gavin
Lancaster che i medici lasciano morire quei bambini, anche se non lo fanno tanto
palesemente, sebbene ciò sia contrario alla legge.
— Vedi quella graziosa bambina nella seconda incubatrice? — spiegava
l’infermiera al fidanzato — la madre è eroinomane, quindi lo è anche sua figlia.
Il corridoio divideva in due la corsia. Ai lati, da circa un metro in su, fino al
soffitto, le pareti erano costituite da pannelli isolanti di vetro. La parte inferiore era
dipinta a strisce rosse e blu, allo scopo di rincuorare i genitori dei bambini.
Mentre l’infermiera allacciava un camice e una mascherina al fidanzato,’per fargli
vedere i neonati più da vicino, Gavin, stranamente, pensò a Coma, il film di Michael
Douglas. Lo aveva visto in televisione recentemente. Gli era rimasto impresso nel
cervello come un incubo. Naturalmente non sarebbe mai successa una cosa tanto
terrificante, ma non poteva esserne certo viste le cose che accadevano nell’ospedale.
Corpi o parte di corpi venivano venduti come se fossero paraurti o tubi di
scappamento.
A Gavin accadeva spesso di pensare all’ospedale come a un insieme di organi. Il
sistema di filtraggio dell’aria entrava in funzione autonomamente, il suo brusio
infastidiva Gavin, che lo paragonava al proprio sonno. Infatti, il suo sonno,
ultimamente, non era troppo differente dalla veglia. Talvolta, ne era sicuro; dormiva
con gli occhi pressoché aperti.
L’infermiera e il suo ragazzo, che a questo punto era estremamente pallido,
tornarono lentamente nella sala del personale, e l’inserviente trascinò il secchio oltre
la porta a vento, in fondo al corridoio.
Nel reparto tornò il silenzio. Gavin sentì i morsi della fame, o forse era soltanto il
bisogno di caffeina, e anche lui se ne andò nella sala del personale. Lo squillo del
telefono al posto di guardia dell’infermiera lo fermò. Tornò indietro, diede un pugno
su un pulsante argentato, e alzò nervosamente il ricevitore.
— Dottor Lancaster, Tre A. — Nel silenzio, il timbro della propria voce lo
sorprese.
— Dottor Lancaster, qui è il dottor Dillon — rispose una voce femminile. —
Avreste... — Tacque. — Avreste un minuto, Gavin Lancaster?
— Sì — confermò lui esitante. La voce gli era familiare.
— Gavin; sono Marybeth. Non credevo che fossi qui, ti credevo a Sacramento.
Insieme, avevano sezionato un cadavere durante una lezione di anatomia, prima
che Gavin si trasferisse a Santa Barbara per diventare psichiatra. Poi Gavin aveva
deciso che preferiva curare il corpo più che la mente.
— Santa Barbara — corresse lui. — Sono tornato da un paio di settimane. Tu che
fai?
— Lavoro nel reparto ostetricia, sono assistente di Harry-Bellows. Senti, non
avreste un posto lassù? Il registro dice che siete al completo.
— No, sei fortunata, un posto c’è. È deceduto un bambino stanotte.
— Arriviamo.
La comunicazione fu troncata e Gavin corse a prendersi un caffè. Aveva calcolato
di avere a disposizione non più di cinque minuti. per mandar giù un boccone prima
che si spalancassero le porte dell’inferno. Si fece un panino con formaggio piccante e
pane francese raffermo, quindi sprofondò in una sedia a schienale alto. Chiuse gli
occhi e cominciò a masticare velocemente. «Tanto questo panino mi rovinerà lo
stomaco» pensò.
Infine, appena inghiottito un sorso di caffè amaro, tutte le misteriose domande che
aveva puntualmente evitato fin dall’ultimo anno di medicina gli si affacciarono
indesiderate alla mente. «Perché questo bambino e non un altro?» Quel bambino di
cui non sapeva niente, che doveva passare dal terzo al secondo piano, che non aveva
chiesto di nascere e che avrebbe potuto avere le guancette rosa, scoppiare di salute,
ed essere attaccato al seno di sua madre.
«Perché la vita, e perché la morte, e perché in nome di Dio, le mie mani, la mia
abilità, dovrebbero avere a che fare con l’una o con l’altra?»
Spalancò gli occhi di colpo, sorbì il caffè denso come se fosse veleno, e scacciò
per l’ennesima volta quegli interrogativi.
— Non volevo svegliarti, Harry, davvero non volevo.
— Non preoccuparti — rispose Harry Bellows alla sua assistente sbadigliando nel
microfono.
— Lo abbiamo portato in sala di rianimazione. È una delle più strane deformità
che io abbia mai visto. È assolutamente fuori dell’ordinario, Harry. La madre non ha
ingerito medicinali. Per tutti i nove mesi di gravidanza non ha preso nemmeno
un’aspirina. Non beve, non fuma, e a eccezione di certi dolori cronici alla schiena
gode ottima salute.
Harry Bellows era stato buttato giù dal letto poco dopo l’una. In ogni modo non era
riuscito a dormire bene a causa del raffreddore e della sinusite. In circostanze normali
la sua assistente non lo avrebbe svegliato, ma qualcuno doveva pur parlare con i
genitori del neonato, e Marybeth Dillon era impaurita come il primo giorno che era
entrata in sala operatoria.
Era la stessa paura dell’ignoto, l’orrore di cercare di spiegare i misteri del corpo
umano. Harry lo capiva. Anche lui, tanto tempo prima, era stato un principiante, e
sapeva quanto ci si potesse sentire male all’una di notte, quando tutti i libri di testo
non riescono a suggerirti quello che devi fare. Perciò disse alla moglie di tornare a
dormire, e si accinse ad attraversare in auto il Golden Gate sotto la pioggia fitta. Il
traffico era praticamente nullo, e perfino guidando con prudenza riuscì a coprire il
percorso in meno di venti minuti. Non era vecchio, o almeno, a sessantuno anni non
si considerava tale, ma rifletteva la cautela comune a tutte le persone in intima
relazione con la propria mortalità.
Le suole delle sue scarpe scricchiolavano sul marmo dei pavimenti. Vicino alla
scala del pianterreno, sotto l’insegna luminosa dell’ospedale, aveva trovato Marybeth
Dillon ad aspettarlo.
— Harry, sono veramente contenta che tu sia venuto — gli disse precedendolo
verso l’ascensore.
— Parlami ancora del bambino.
— Ha il braccio sinistro quasi amputato. Mi ricorda certi casi di malformazione da
talidomide. La scatola cranica è molle e rientrante. Poi c’è qualcosa al sistema
circolatorio, ma non riesco a capire di che cosa si tratti. L’esame radiologico
sembrerebbe rivelare due fori all’aorta, forse tre. Come se fosse stata compressa, o
non so che altro.
Harry Bellows ascoltò queste informazioni senza emozionarsi, mentre si toglieva
gli occhiali e li asciugava con il rovescio della cravatta. Ma una vaga idea di ciò che
affliggeva questo bambino l’aveva, e la sua mente, programmata come un computer,
stava setacciando i suoi ben ordinati archivi.
«Briglie» diceva l’archivio. Non aveva più visto di questi casi da anni. «Quando è
stato, nel 1968? No, nel ’69, poco prima di Natale. Quella poveretta, due aborti e...»
— Grandezza? — domandò.
— Tre o quattro centimetri ciascuno — rispose la donna. — Ma non sono sicura.
La radiografia non è delle migliori. Dovrebbero sostituire quel radiologo.
Arrivati al secondo piano, Harry Bellows attese con galanteria che la dottoressa
Dillon uscisse dall’ascensore.
La sala di rianimazione del reparto di pediatria non era più silenziosa, perché la
voce si era sparsa e parecchi tra i medici più giovani avevano lasciato il lavoro, o il
sonno, per dare un’occhiata al bambino dell’incubatrice numero nove.
Quando Harry Bellows entrò nella corsia, i giovani medici lo videro attraverso il
tramezzo di vetro e ammutolirono. E quando lui e la dottoressa Dillon, dopo aver
indossato il camice e la mascherina, avanzarono nella stanza quieta, loro si fecero da
parte.
— Buongiorno, signori — disse sottovoce il dottor Bellows — potremmo restare
un po’ soli, per cortesia?
Improvvisamente, Harry desiderò che Len Horvath, primario di pediatria, fosse lì,
ma Len era nelle Bermuda con la moglie e il figlio per un meritato riposo. «Lui è
adatto a certe cose» pensò. «Len sa dimenticare.»
Si avviò verso l’incubatrice numero nove. Dopo un breve coro di «Buongiorno,
dottor Bellows», i giovani medici uscirono. A nessuno di loro faceva piacere dare
spiegazioni per essersi allontanato dal proprio reparto. Harry Bellows pensava
soltanto alla madre di un neonato, conosciuta anni prima. «Cristo, come si
chiamava... aborti... briglie... ah, sì, Turner, Elizabeth Turner. Era una ballerina.»
Pensò a ciò che in quell’occasione fu costretto a fare per la seconda volta nella sua
carriera. Si apprestava a farlo per la terza volta. L’idea lo fece star male fisicamente,
e si toccò lo stomaco prominente, per reazione nervosa.
— La cartella clinica, signore — gli stava dicendo Gavin Lancaster.
— Sì, grazie, dottore... — Bellows diede un’occhiata al cartellino di
riconoscimento dottor Lancaster.
Aveva notato il volto pallido e l’espressione esausta di Lancaster. «Li facciamo
lavorare troppo» pensò. «Bisogna finirla di affaticare a morte quei ragazzi. Lavorano
come schiavi e alla fine hanno soltanto voglia di truffare pazienti e compagnie di
assicurazioni, e ammassare pile di biglietti di banca.»
Con la cartella clinica in mano, Harry sbirciò, attraverso le lunette degli occhiali, i
monitor che indicavano la vitalità del bambino. Gavin lo seguiva ascoltando
nuovamente il brusio dell’impianto di ventilazione, sforzandosi di non guardare il
bambino, il... be’, qualunque cosa contenesse l’incubatrice numero nove.
— Che cosa ne pensi, Harry? — chiese la dottoressa Dillon.
— Un attimo.
Harry si scaldò una mano ponendola sotto il fascio luminoso della lampada. Non
voleva infastidire il bambino toccandolo con la mano fredda. Posò la cartella e alzò il
coperchio dell’incubatrice, quindi introdusse la mano per palpare il torace del
piccolo.
Gavin Lancaster posò finalmente lo sguardo sul corpino rattrappito nel contenitore
di plastica. Il braccio sinistro era sottile e sformato. La testa era schiacciata e informe
come un pompelmo spremuto, e ambedue gli occhi sporgevano dalle orbite. Al posto
del naso c’erano due fori. Niente cartilagine, nessuna forma. «Eppure questa cosa...
no» pensò «non una cosa, un bambino, respira perfettamente. Prematuro di due
settimane, ma vivo.»
La mano del dottor Bellows toccò il torace del piccolo. Senza parlare, con un gesto
indicò lo stetoscopio di Gavin. Il giovane glielo passò, facendo un grande sforzo di
volontà per impedire alle dita di tremare. Il dottor Bellows auscultò, prima il cuore,
poi i polmoni, battendo, palpando.
— Dottor Bellows, gli ho somministrato Ampicil...
— Sì, capisco, grazie — disse Harry, interrompendo la visita e chiudendo il
coperchio della culla di plastica.
— Harry? — Marybeth Dillon gli posò una mano sulla spalla. — Ti senti male?
— Sto bene — rispose lui. — Si tratta di briglie. Hai assistito al parto?
— No, c’era Mark Steinfels.
— Suppongo che nemmeno lui avesse visto niente del genere prima d’ora. No, non
avrebbe potuto. Fa parte del personale da... quanto? un anno?
— Sette mesi, Harry. Di che si tratta, esattamente?
— Briglie — ripeté — briglie amniotiche. Per una ragione imprecisata, il liquido
non si mantiene fluido. Si trasforma in tessuto fibroso e comincia ad avvolgersi
attorno...
La sua voce divenne fievole. Si passò una manica sulla fronte, sudava.
— Bene, questo spiega il parto prematuro. Ma il cuore? Non fa parte di questa
sindrome. L’aorta forata, la scatola cranica. Queste cose non quadrano.
Harry volse le spalle al bambino come se volesse farlo scomparire, come se
andandosene volesse negarne l’esistenza. I suoi occhi si fermarono sulla cartella
clinica. «Molto professionale» pensò «davvero esatto. Questo giovane dottor
Lancaster ha riscontrato difficoltà respiratorie e ha prescritto gli antibiotici.
Kanamicina, Ampicillina. Poteva scegliere anche il Keflin, ma non ha importanza, ha
reagito prontamente e con intelligenza. Ma c’è un problema: non avrebbe mai dovuto
prescrivere la cura.»
Adesso doveva trovare il sistema di annullare l’eccellente decisione del dottor
Lancaster. Doveva determinare il sistema migliore per far sparire ogni traccia della
sua prescrizione. «Buon Dio» pregò, «soltanto tu puoi dare la vita e riprenderla. Ma
non puoi volere che questa creatura viva. Non puoi. Come il bambino dei Turner, era
maschio o femmina? Femmina. Oh, Dio del cielo, perdonami.»
— Dottor Lancanster, vorreste per favore portarmi una cartella in bianco?
— Signore, dottor Bellows...
— Una cartella in bianco, prego.
— Certo, signore, subito.
La dottoressa Dillon seguì Gavin con lo sguardo. Sapeva cosa stava per fare Harry.
— Sono contenta che non tocchi a me — disse. — Sono contenta di non doverlo
fare io.
— E pensi che io lo voglia? — chiese lui con un borbottio indistinto. — È l’unica
cosa da fare. Ma la scatola cranica, il cuore... normalmente non fanno parte della
sindrome. Lo so con certezza, ho già visto...
Gavin Lancaster tornò con una cartella nuova e la copia d’archivio dell’altra.
— Dottor Bellows — disse porgendogli i duplicati — ho pensato che le avreste
volute. Non le avevano ancora mandate giù.
Sotto la sua maschera imperturbabile, Harry Bellows sorrise, e Gavin credette di
vedere un vago sollievo nello sguardo del medico. «Non vi ostacolerò» avrebbe
voluto dirgli Gavin, «Io so che state facendo l’unica cosa sensata.»
In un certo qual modo, fra loro tre si era stabilita una tacita intesa.
Harry Bellows si infilò le copie della cartella clinica nella tasca della giacca.
— Grazie, dottor Lancaster. Per favore, volete riempire una nuova cartella
omettendo qualsiasi accenno ai problemi respiratori?
— Certo, dottor Bellows.
— Fino a che ora resterete questa notte?
— Sono appena montato di guardia. Alle dieci.
— Allora sarete qui quando cominceranno... le convulsioni.
Gavin non aveva alcun dubbio su quanto sarebbe successo. Avrebbe interrotto la
somministrazione degli antibiotici e la febbre del bambino sarebbe aumentata. Forse,
sarebbe sopraggiunto un breve attacco di polmonite, in ogni caso il bambino sarebbe
stato colto da convulsioni e sarebbe morto.
— Sì, dottor Bellows.
— Siete certo di farcela? Potrei chiedere di sostituirvi, se volete. — La voce di
Bellows era confidenziale e rassicurante.
— Penso di sì.
— Avete visto una cosa del genere prima d’ora?
Gavin non capiva se si riferisse alle condizioni del neonato o al cambiò della
cartella clinica.
— No, dottor Bellows, mai.
— Talvolta accade, e noi dobbiamo prendere una decisione. Se ci saranno delle
noie, me ne assumerò l’intera responsabilità. — Tacque per un istante. — Ma non ce
ne saranno.
Gavin spostò imbarazzato il peso del corpo da un piede all’altro e cominciò a
compilare la nuova cartella. «Bambino di sesso maschile» copiò dalla prima riga.
«Nagata.» Aggiunse il nome dei genitori, la data di nascita e l’ora, l’ora del ricovero
in rianimazione. Una descrizione delle condizioni del neonato. Il nome
dell’infermiera di turno.
— Dottor Bellows, come facciamo per la stampigliatura dell’orario?
— Vi prego, compilate solamente la cartella e firmatela. Gavin la firmò e Harry,
senza fiatare, gli tolse il cartoncino di mano.
Gavin lo vide andare nel corridoio della corsia e dirigersi verso l’orologio di
controllo, dietro la scrivania dell’infermiera. Con una chiave aprì la cassa di legno
color marrone lucido dell’orologio. Spostò le lancette indietro di un’ora e undici
minuti, e timbrò la nuova cartella. Clic, clic. Finito. Harry rimise avanti l’orologio
prendendo l’ora esatta dell’orologio digitale al di sopra della porta a vento, poi
richiuse la cassa dell’orologio. Una falsificazione vera e propria. Piegò la cartella
originale e se la mise nella tasca interna della giacca, dopo lanciò uno sguardo in
fondo alla sala dove l’infermiera di turno assisteva alla scena, una figura bianca,
indistinta, con il viso nascosto dalla penombra.
Harry rimase immobile per un istante, come uno scassinatore con un piede nella
sacrestia, vagamente cosciente, come lo era stato undici anni prima, che non tutti i
segreti restano tali. I segreti, come le promesse. No, anche le infermiere lo sapevano.
Loro sapevano bene che non tutti i bambini nascono per vivere. «Len Horvath lo ha
fatto centinaia di volte» si disse Bellows. «Len è un medico onesto e sensibile, che
come me crede nella inviolabilità della vita umana. Len crede...»
«Allora perché» si chiese Harry «perché mi sento un assassino?»
Aveva la testa china quando se ne tornò indietro stancamente, le spalle curve e i
dubbi appiccicati addosso come un sudario. Avrebbe giurato di aver sentito lo
sguardo dell’infermiera toccargli il collo, lievi punzecchiature di spillo, come dei
frammenti di ghiaccio sulla spina dorsale. Ma la donna era già sparita, per nulla
impressionata. Tutto ciò lo aveva visto altre volte.
— Dottor Lancaster — disse, tendendo a Gavin la cartella appena timbrata —
avete il numero telefonico del dottor Horvath, nelle Bermuda?
— No, non ce l’ho, signore.
— Ebbene, se voleste parlargli, se questo dovesse aiutarvi, posso procurarvelo io.
— No, va tutto bene, signore, non è necessario — rispose Gavin.
— Molte grazie — concluse Harry Bellows.
Nella sala del personale si tolse camice e mascherina. Quindi, seguito da
Marybeth, uscì rapidamente dalla porta a vento.
I conti non tornavano. «Il guaio delle aziende private» pensò Ed Stone, meditando
sul rapporto annuale del suo settore «è che credono nel dirigente perfetto. Addestra
un uomo, offrigli delle responsabilità, e lui eseguirà come un elefante da circo.
Quando siamo bravi ci promuovono e ci chiedono di fare cose nuove, mentre
dovrebbero lasciarci fare quello che ci riesce meglio.»
Gli uffici dell’American General erano quasi deserti. Quando era solo, senza
alcuno che potesse distrarlo, Ed Stone sentiva il desiderio struggente di rimettersi a
fare l’ingegnere. Sentiva la mancanza di un’attività creativa, di un lavoro pratico;
desiderava progettare impianti, e testimoniare al miracolo dell’energia nucleare. Ma
lo avevano premiato dandogli la presidenza di un settore dell’azienda e non doveva
fare altro che maneggiare carta, pile di carta. Per l’ennesima volta nella giornata si
ripromise che il rapporto annuale della divisione organizzativa dell’American
Generai Corporation avrebbe brillato come modello di intelligenza ed efficienza.
«Non sono bravo con le parole» continuava a ripetersi. Di fatto era più che abile, e
avrebbe scritto un rapporto impeccabile. Sarebbe forse diventato l’animale della cui
esistenza si dubitava: il dirigente perfetto.
Se ne stava seduto dietro la scrivania giocherellando con la matita ed esaminando
pile di appunti, cartelle, e dati dei computer. «Finirò per farcela, dovessi passarci tutta
la notte. Scriverò queste frasi centinaia di volte fino a poterle recitare al diritto e al
rovescio se necessario, in arabo, francese e italiano.» Queste lingue in particolare,
perché erano quelle dei suoi clienti più importanti.
Ma non riusciva a concentrarsi, distolse gli occhi dal lavoro e guardò fuori, le
strade di San Francisco rischiarate dalla luna. La torre della Transamerica luccicava
come un addobbo natalizio, contro l’orizzonte scuro. Si ricordò di Nancy Nagata.
Orribile. Era semplicemente orribile quello che era capitato ai Nagata. Ti affanni per
tutte le piccole cose della vita, i semplici dettagli pratici di tutti i giorni, e poi,
all’improvviso, senza aspettartelo, succedono queste cose e tutto il resto diventa
insignificante. Che cosa si può dire? Niente, soltanto banali idiozie. Ed Stone non era
di temperamento emotivo. Non era tipo da alzare la voce o battere i pugni per
sostenere qualcosa. A che servivano le parole? «Avrete un altro bambino, supererete
anche questo.» Se ci fosse stato qualcos’altro da dire, se avesse potuto alleviare la
pena di Mitzu Nagata, non si sarebbe risparmiato, perché per lui, Mitch significava
molto. Fra tutti i suoi collaboratori, i ragazzi prodigio della scuola commerciale, gli
impiegati amministrativi, e gli addetti alle vendite, Mitch Nagata era particolare.
Come lo stesso Stone, Mitzu rispettava la bellezza di una creazione, la maestà di un
congegno ben fatto. Durante i suoi primi anni all’American Generai, quando questa
era ancora una compagnia di second’ordine con il nome di Wright Electronics, Stone
era stato il mentore di Mitzu. Avevano lavorato insieme, gomito a gomito, in un
laboratorio, allo sviluppo di un infallibile sistema di chiusura dei reattori nucleari. Il
campo era vergine allora, inesplorato, e assieme avevano ideato un sistema di
chiusura geniale. Il vecchio Horace Wright li aveva appoggiati, perdendo denaro a
palate, ma alla fine, quand’era sull’orlo della catastrofe, il loro lavoro fu riconosciuto
e valorizzato, per la sua chiara e ingegnosa semplicità. Finalmente Ed Stone e il suo
protetto furono elogiati e gli fu accordata la fiducia che meritavano.
Stone caricò la pipa. Era una Savinelli a grana liscia, un regalo di compleanno
fattogli da Mitch. Calcò il tabacco, sfregò un fiammifero e l’aroma dolciastro del
Dunhill si diffuse nell’aria attorno a lui. Assaporò non solo il gusto del tabacco, ma
anche quegli anni passati in laboratorio, rimpiangendo nello stesso tempo di essere
stato trasferito a un settore più importante. Ti offrivano promozioni e te le prendevi.
Più denaro. Più prestigio. Ma perdi lo stimolo all’invenzione. Stone sapeva anche che
il suo protetto e assistente, di venti anni più giovane, era dotato di enormi capacità e
come un corridore di maratona, l’avrebbe superato sia come ingegnere e sia come
dirigente. «Un giorno prenderà il mio posto, perché Mitzu Nagata» pensò lui «oltre
all’abilità tecnica, ha qualcosa in più. C’è in lui una sorta di pazzia, di ossessione, un
modo di vedere che stupisce sia i superiori, sia i colleghi del laboratorio.»
Le luci della città si affievolivano dietro i vetri della finestra. «Dovrei andare
all’ospedale. Dovrei essergli vicino, nel caso avesse bisogno di parlare. No, devo
soltanto fare come sempre. Mitch non mi vorrebbe là.»
L’attenzione di Stone tornò alle carte sulla scrivania e si concentrò sul bilancio
annuale. Il suo programma di incremento delle vendite. Le modifiche agli impianti.
Un incremento delle vendite sempre maggiore. Quella dell’energia nucleare era
un’industria che poteva forse traballare per un po’, ma si sarebbe ripresa, sarebbe
cresciuta.
Suonò il citofono, lo squillo restò sospeso nell’aria.
— Sì, Marie?
— Signor Stone, ho chiamato l’ospedale. Il signor Nagata è ancora lì. Volete
parlargli?
— No, Marie, grazie. A meno che non sia lui a telefonare.
— Certo, signore. Ho completato gli itinerari di viaggio.
— Puoi portarmeli, per favore?
Apparve sulla soglia un secondo dopo. «Incredibilmente efficiente» pensò lui
«persino dopo dieci ore di lavoro.»
— Signor Stone, dovreste andare a casa, siete stanco.
— Devo finire con questa roba entro stasera. Ma tu vai pure.
Gli lasciò gli itinerari sul tavolo e si fermò a metà strada.
— Siete preoccupato per il signor Nagata — disse la donna. — Sapete, tutte le
ragazze gli vogliono bene. È così gentile. Ma nessuno di noi può fare niente per lui.
Non gioverà a nessuno che ve ne stiate qui a preoccuparvi.
Stone sorrise a quell’atteggiamento così protettivo.
— Grazie, Marie. Voglio soltanto finire questo lavoro e poi sgombro. Tu vai pure.
— Sì, signore. A domattina.
Ormai la giornata era finita e lui sarebbe dovuto andare via, conservare le sue
energie e ricominciare la mattina. Ma adesso aveva una nuova preoccupazione.
Aveva pianificato una serie di viaggi per i suoi collaboratori più anziani. Un
compromesso tra il viaggio-premio e l’ispezione a tutti gli impianti dell’American
Generai nel paese. I viaggi erano un’opportunità per i suoi collaboratori, per
incontrare e ingraziarsi i clienti dell’azienda. Per favorire la carriera di Mitzu, Stone
gli aveva assegnato i clienti più importanti. Oh, c’erano state lamentele per quel
favoritismo. Ma la direzione aveva approvato i programmi. Anche il denaro avrebbe
contato nella carriera di Mitzu. Ma ormai Mitzu non avrebbe potuto fare quel viaggio,
e Stone sapeva che l’azienda aveva un cuore duro. Una tragedia personale non si
sposava con le promozioni.
«È una fatalità» pensò «ecco cos’è.» Tutto il giorno era andato rimuginando su
cosa lo turbava di più riguardo alla tragedia di Mitzu. Finalmente lo aveva capito. Era
la fatalità e l’inspiegabilità. Se c’era una cosa al mondo che riuscisse a confortare Ed
Stone, erano la logica e la scienza. Un universo nel quale dietro ogni evento c’era una
regola. Ma Mitzu aveva detto che i medici non gli avevano dato nessuna spiegazione,
nessuna ragione. Non un chiarimento del perché il bimbo era nato con quelle
malformazioni. «Devono per forza essere in grado di avanzare un’ipotesi» aveva
risposto Stone. Ma no, i medici non ne sapevano niente; non un’idea, non una
congettura. «E questo non fa che aggiungere un nuovo fardello al dolore» pensò
Stone.
Buttò in un cassetto un fascio di documenti, che non aveva ancora letto, accese di
nuovo la pipa, e rinunciò a spiegarsi quell’altra, inesplicabile, tragedia della vita.
Mitzu fissò lo sguardo nella notte umida. I suoi occhi guardavano lontano verso
l’isola in mezzo alla baia, e la tozza rocca di Alcatraz. «Quanto tempo sono rimasto
qui? Un’ora? Due?» Le stelle occhieggiavano nel crepuscolo, quando era arrivato il
sole si attardava ancora all’orizzonte. Guardando in su, vide, la costellazione di
Orione e l’Orsa Maggiore baluginare fiocamente.
Si voltò e si incamminò lungo l’imbarcadero, le monetine tintinnavano in una
tasca. Alcuni turisti lo incrociarono, ma lui non li notò affatto. Una donna in abito
bianco, con i tacchi alti, gli si parò innanzi e quasi lo travolse.
— Scusate, avete visto mio marito? — gli chiese strascinando le parole.
Senza aspettare la risposta si allontanò. Mitzu scosse la testa cercando di riordinare
le idee. Ma la sua mente era vuota. Non aveva pensieri, solamente immagini: un
bambino in un contenitore di plastica; la desolata immobilità del volto di Nancy
contro il cuscino; gli sguardi insignificanti e inconsapevoli delle infermiere del
reparto.
Erano passate meno di ventiquatt’ore da quando Nancy si era rivolta a lui e gli
aveva detto: «Ci siamo, Mitzu. Possiamo andare». Erano incominciate le doglie.
La corsa all’ospedale. L’attesa. Il parto. Di nuovo l’attesa e il dottor Bellows: «Mi
dispiace».
Mitzu era tornato a casa, nell’appartamento vuoto, alle tre del mattino, e si era
lasciato andare sul letto, sfinito. Quando si era svegliato, quel pomeriggio, il suo
corpo era in un bagno di sudore. Aveva fatto sogni orribili, ma il loro esatto
contenuto gli era sfuggito. Aveva aperto la posta, letto il giornale, mangiato due
bocconi di toast e riempito la lavastoviglie. Bene o male era riuscito perfino a farsi il
caffè. Si era lavato i denti, aveva fatto una doccia, si era vestito, ma non avrebbe mai
potuto dire in che ordine avesse compiuto quelle azioni. Aveva parlato al telefono
con Edward Stone, con sua madre e suo padre, con Jill Britten.
Jill Britten? La voce di lei affiorò dal subconscio e quindi al suo viso. Poi
scomparve.
— Ehi, fenomeno, tutto bene?
Era finito contro il chiosco di un pescivendolo e aveva sbattuto la testa. Il dolore
improvviso lo aveva stordito. Vide le stelle, fece un passo indietro traballando, poi
riprese il cammino.
— Tutto bene? — chiese nuovamente l’uomo, un gigante rubizzo con una
scoppoletta in testa.
— Sì, non badavo a dove mettevo i piedi.
— Avete preso una bella botta.
— Non è niente, grazie.
Mitzu attraversò la strada dirigendosi verso il parcheggio dove aveva lasciato
l’auto. Era atteso a casa dei suoi genitori, e non era da lui tardare, neppure di cinque
minuti. Fino a quel giorno la sua vita era stata metodica, e anche adesso, nonostante
fosse disorientato, l’orologio del suo subconscio continuava a battere. Camminando,
con la mano sinistra prese le chiavi, con la destra lisciò la cravatta sul petto e aggiustò
il colletto della camicia. Gli piaceva compiere piccoli gesti con le mani, perché il
movimento, indirettamente, gli dava forza.
Come aveva trascorso quella giornata? Alle quattro, aveva guidato fino
all’ospedale. I medici si erano limitati a dire a Nancy che il bambino era in
rianimazione. Lei aveva dimenticato le parole di Mitzu della sera precedente. Perciò
lui le aveva descritto il bambino. Lei aveva pianto. Lui l’aveva abbracciata,
confortata, le aveva detto che avrebbero avuto un altro figlio, ma lei aveva pianto
sempre più forte, finché un’infermiera, attirata dai suoi singhiozzi, le aveva
somministrato un sedativo. L’infermiera aveva detto che avrebbe dormito tutta la
notte.
Guidò fino all’imbarcadero. Gli piaceva ascoltare i rumori della baia. I richiami
delle foche al largo dello scoglio, e il lontano brontolio dell’oceano. Andava lì fin dal
suo primo anno a San Francisco, quando ce lo portava il padre per fargli vedere i
pescherecci. Andava sempre lì, quando non aveva niente da fare, e voleva rimanere
solo. C’era spesso una donna che citava la Bibbia camminando su e giù, lanciando
imprecazioni. Quella sera lei non si vedeva, ma i venditori ambulanti di souvenir
erano numerosi.
Si concentrò nuovamente per ricordare quello che aveva fatto durante la giornata.
Al limite del parcheggio si fermò un attimo e ricominciò a muovere le mani. Le dita
si fermarono sul torace e gli tornò in mente il ritaglio di giornale.
Come avevano potuto? Come avevano potuto pubblicare quella fotografia? Quei
quattro uomini? Come avevano potuto celebrare un simile anniversario?
Tirò fuori la foto, ne lisciò i bordi spiegazzati alla luce dei fanali delle auto di
passaggio, la guardò. I puntini che ne formavano l’immagine parvero scomporsi e
ricomporsi davanti ai suoi occhi. Improvvisamente si accorse di avere la bocca secca,
come riempita di paglia.
Le luci sul delta, l’aria era fredda, fuoco sull’acqua... soldati che correvano...
Il cuore palpitava. La vena di un braccio pulsava. Il respiro si fece affannoso. Nel
parcheggio, alcuni uomini si stavano avvicinando frettolosamente a una limousine, il
suo motore sbuffava dei fili di fumo che ogni tanto venivano illuminati dai fanali
delle vetture di passaggio. A Mitzu sembrò di essere travolto dalla risacca, da una
forza sconosciuta che lo accasciava.
Tirò fuori le chiavi, entrò nell’auto, e si diresse verso il ponte. Aveva una ragione
specifica per cenare con i suoi genitori, e non voleva tardare.
La casa degli anziani Nagata era appollaiata su una lingua di terra che dominava la
baia. La foschia della sera e il chiarore della luna penetravano in ogni stanza. I due
vecchi erano intenti alle loro normali occupazioni, senza manifestazioni esteriori del
dolore per la tragedia che stava per abbattersi sulla loro esistenza. Hiro Nagata, nello
stanzino accanto alla camera da letto, stava sistemando una tovaglietta blu sulla
toeletta e pensava al figlio. La verità le appariva chiara. Aveva sospettato, anzi, aveva
sempre saputo che Mitzu non ne sarebbe uscito indenne.
Seduta sullo sgabello basso, guardò nello specchio e vide riflessa una fotografia
del matrimonio del figlio, il nero del completo di Mitzu e il rosa dell’abito di Nancy.
In una bacheca di vetro vicina alla foto, c’erano due maschere samurai, di metallo
grigio opaco, ornate di strisce arancione sbiadite, che guardavano verso lei. Il marito
le aveva ereditate dalla sua famiglia. «Come sembrano insignificanti, adesso» pensò.
Chi se le sarebbe prese dopo la sua scomparsa e quella di Yasuji? Chi le avrebbe
volute?
Probabilmente un museo. Non Mitzu.
Tenne in mano la parrucca per non sciuparla, poi la sistemò con cura sul capo
calvo e chiazzato. Ormai, usava la parrucca, giorno dopo giorno, da quasi
trentacinque anni. Come tutti i giapponesi, considerava vergognoso e sgradevole
mostrare le cicatrici; nemmeno le sue amiche più intime l’avevano mai vista senza
parrucca. Con la testa scoperta si sarebbe sentita nuda. La parrucca che stava
calzando l’aveva appena comprata; si consumavano in pochi anni, e difficilmente se
ne trovavano di decenti a meno di duecento dollari. Per questo le trattava con estrema
cura. Aggiustandosi le ciocche grigie attorno alle orecchie, riusciva a immaginare di
avere ancora i suoi capelli, i capelli folti e ariosi di quando era giovane, prima del...
Il pensiero, come sempre, fu troncato prima della conclusione.
Andò in cucina per finire di preparare la cena. Nell’ingresso oltrepassò il solo
quadro che aveva portato con sé del Giappone. Era antico, di quattromila anni, ma il
fragile quadrato di carta di riso, per lei, era più importante di qualsiasi altro oggetto in
suo possesso.
Non aveva un prezzo in denaro, ma in sogni. Nessuno era mai riuscito a scoprirne
la provenienza, o il nome dell’autore. Si sapeva soltanto che la sua famiglia, quella
paterna e quella del padre di suo padre, e così via, l’avevano sempre posseduto. Un
vecchio, dipinto a pennellate grigie, la guardava dalla parete, la veste in cui era
avvolto era tratteggiata con inchiostro nero. «Quattromila anni» si disse Hiro. «Chissà
che cosa pensava la gente a quell’epoca?»
In cucina squillò la suoneria, elettrica del fornello; la zuppa era pronta. I gamberi
erano già puliti, il riso stava cuocendo.
Yasuji Nagata era seduto in un salotto con il soffitto basso, sorseggiando del saké.
«È leggero e scadente» pensò «ma può andare». Con le dita deformate dall’artrite,
simili a legno nodoso, strinse una tazza di porcellana e se la portò alle labbra. La
tazza era appartenuta alla famiglia materna. Il bisnonno ne aveva regalato loro un
servizio, quando si era arruolato in marina. Aveva visto il Giappone invaso dai russi e
dagli americani. Aveva visto gli uomini del commodoro Perry marciare nelle strade
di Uraga, e aveva visto i samurai farsi onore contro gli invasori. Da secoli il popolo
giapponese sapeva che non aveva scelta; se non avesse fatto affidamento sul valore
dei propri guerrieri sarebbe dovuto soccombere sotto una valanga di potenze
straniere. E i giapponesi avevano scelto i samurai. Allora. Ma adesso?
Yasuji Nagata sorseggiò il saké in silenzio; sua moglie era in cucina, anche lei in
silenzio. Con il presentimento della tragedia, aspettavano il loro figliolo.
Il campanello suonò alle otto in punto. Yasuji Nagata andò alla porta camminando
lentamente e salutò il figlio in giapponese.
— Come stai, figlio mio? E tua moglie?
Mitzu frenò il proprio istinto e parlò in inglese. Non voleva parlare il giapponese in
casa del padre, e questo era poi il motivo per cui andava dai genitori tanto di rado.
— Si sta riprendendo — rispose Mitzu. — Riposa.
Yasuji abbassò gli occhi e prese in considerazione una richiesta: «Qui parlerai la
nostra lingua o non parlerai affatto». Ma quello era un giorno triste, e mise da parte la
richiesta.
— Entra, tua madre ti aspetta.
Secondo le usanze, all’ingresso, Mitzu si tolse le scarpe e indossò una vestaglia.
Dopo questa concessione al rituale, si mise immediatamente a suo agio, e la tensione,
sempre insorgente quando entrava in casa dei genitori, si allentò. Non avrebbe
conversato in giapponese, si sarebbe rifiutato di assecondare il tradizionalismo dei
suoi, la pretesa di vivere nel passato. Tutti quei discorsi sui parenti morti tanto tempo
prima, la storia della famiglia, gli sembravano soltanto una fuga, il futile desiderio di
vivere in un mondo che non esisteva più.
No, naturalmente, esisteva ancora, come esistono tutti i ricordi, palpabile, reale
come la luce lunare che scintillava sulla baia e che inondava il salotto di un pallido
bagliore dorato.
Nella stanza ardeva una lampada, una fiammella fioca in una colonnina di carta
lunga e stretta. Suo padre e sua madre parlarono dell’ospedale, ma in breve tempo
esaurirono gli argomenti, ciascuno commentando a suo modo l’ineffabile orrore che
si era abbattuto sulla loro vita. Si dissero preoccupati per la salute di Nancy, per le
conseguenze di un trauma tanto grave. Entrarono in punta di piedi nel campo minato
delle pene del figlio.
— Soltanto lottando diventeremo forti — disse Yasuji.
— Nancy è molto forte — commentò Mitzu. — Ha avuto la migliore assistenza
medica della città. Sono certo che i medici hanno fatto tutto il possibile per il
bambino.
Non parlavano l’un l’altro nel vero senso della parola, recitavano piuttosto dei
monologhi, come attori di una commedia.
Finalmente, Hiro formulò la sua domanda. Mitzu se l’aspettava.
— Quale è stata la causa? — disse lei. — Hanno scoperto qualcosa?
— Non ne sanno niente. I medici dicono che potrebbe essere dipeso da
quell’influenza che ha colpito Nancy il mese scorso. Ma di sicuro non lo sapranno
mai.
Hiro Nagata guardò il figlio negli occhi, profondamente, dietro le pupille nere,
oltre l’apparenza delle sue parole. In quegli occhi aveva scrutato gli stati d’animo del
figlio per trentasei anni, per lei erano come un libro aperto. Conosceva bene il figlio.
Ne conosceva le inflessioni della voce gli umori.
Mentiva. Era certa che stava mentendo.
— Allora avrete altri bambini. — disse infine.
«Lo sa» pensò Mitzu. «Lo sa.»
Consumarono i cibi semplici: riso e avena, sottaceti, zuppa e gamberi. Era la prima
volta da più di un mese che cenavano assieme, e la prima volta da un anno che Nancy
non era presente. Alle pareti vicino alla tavola erano appese le foto di famiglia. Le
rughe accentuate attorno agli occhi di Mitzu, e il suo modo di corrugare la fronte,
testimoniavano la sua somiglianza ai nonni, le cui immagini lo fissavano da un
angolo vicino alla credenza. Sulla parete di fronte a Mitzu, una vetrinetta conteneva
due spade di samurai incrociate. Le spade non erano state più toccate dal giorno in
cui i suoi genitori si erano trasferiti lì. Lunghe un metro e ottanta, ricurve a formare
un arco appena accennato; le tsuba, o guardie della spada, luccicavano nella
penombra. Strisce d’argento avvolgevano l’impugnatura dei foderi, le else erano
intarsiate di acquemarine e d’oro. Una delle spade era appartenuta al generale Nogi, il
vincitore di Port Arthur, che si era suicidato nel 1912 per non sopravvivere
all’imperatore Meiji. Della provenienza dell’altra non si era certi. Anche se qualcuno
amava credere che fosse appartenuta all’imperatore stesso.
Mitzu non riusciva a distogliere gli occhi dalle spade. Durante il pasto il suo
sguardo si era posato spesso su di esse, finché, finalmente, la madre cominciò a
sparecchiare e lui non vide altro.
«Perché le guardo tanto?»
«Ma certo» si disse. «Spade comprerò una coppia di spade da portare a New York.
Naturale! A nessuno verrà in mente di farmi delle domande. Chiederò a Marie di
spedirle via aerea. Saranno dei regali.»
— Mi sembri lontano — si intromise la voce della madre distogliendolo dalla sua
ossessione.
— No, per niente — disse Mitzu, e suo malgrado udì le parole uscirgli di bocca in
giapponese. «Ma che cosa sto pensando!»
Il padre spalancò gli occhi, e un sorriso gli fece raggrinzire le guance. Sua madre
ebbe un tremito e per poco non fece cadere le tazze che aveva in mano.
Mitzu le lanciò un’occhiata. Lei distolse prontamente gli occhi. Ma Mitzu vide una
piccola sfumatura di trucco sulla fronte, e notò i filini di reticella che spuntavano da
dietro la parrucca. Ormai era abituato a questa vista, ma per qualche motivo gli fece
male. «Dev’essere penoso nascondere ogni giorno le cicatrici» pensò.
Il dolore divenne penetrante.
Mitzu e Yasuji passarono in salotto e uscirono sul balcone che si affacciava sulla
città. Era una di quelle rare notti in cui il cielo era stellato, e la luna splendeva, come
un medaglione luminoso, su un fondo di velluto. Mitzu afferrò la balaustra di ferro.
Nella marina, di sotto, i battelli si dondolavano sull’acqua, le luci delle
imbarcazioni si affievolivano e schiarivano come attraverso la nebbia. La forte brezza
dell’oceano mozzava il fiato con il suo odore penetrante. A Mitzu ricordò le
passeggiate sul molo, quando era bambino, quando il padre lo affascinava con le
storie dei guerrieri dai quali discendeva. A volte andavano a sud in auto, sulla
spiaggia, ma facevano attenzione a non discostarsi troppo dalla strada principale a
causa dei pregiudizi nei confronti dei giapponesi. Il padre, tenendolo per mano, gli
aveva descritto le rigogliose pianure di Kanto, dove aveva vissuto lo zio Tadashi. La
storia dello zio Tadashi era stata il ritornello ricorrente di quei tempi. Era stato
l’ultimo vero eroe della famiglia.
«Era coraggioso» gli aveva detto suo padre. «Fu a gennaio del 1945, pochi mesi
prima... dell’avanzata americana a Luzon. Le Filippine erano accerchiate e soltanto
un kamikaze poteva salvarci. Tuo zio Tadashi era un pilota formidabile, pronto ad
affrontare la morte con onore e senza esitazioni.»
Sul balcone che dominava la città, Mitzu sentì la presenza del padre al suo fianco.
Ne udì quasi la voce narrargli la storia. Questa era tanto viva nei suoi ricordi che si
voltò per accertarsi se il padre stesse veramente parlando.
«C’erano soltanto cinque aerei fuori uso, ma all’ultimo momento, riparati e pronti
per il volo, furono disponibili per un attacco sulle Filippine. Si offrirono trenta piloti.
Anche zio Tadashi, e anch’io, e fu scelto lui. Io gli feci da scorta. Vidi il suo velivolo
sparire tra le fiamme appena toccato il ponte della portaerei americana.»
Una mano calda toccò la spalla di Mitzu. Questi si voltò verso il padre.
— A che cosa stai pensando, figliolo?
Stava pensando a Tadashi, e al codice dei samurai. Stava pensando al codice dei
guerrieri che si era perpetuato per quattrocento anni nella sua famiglia. Sacrificio,
disciplina, cavalleria, al servizio della tradizione. Un codice a cui è meglio non
conformarsi affatto piuttosto che seguirlo con disonore. «Se devo patire questa
sciagura, questa ferita, perché vivere all’ora? Le mie tradizioni, la mia famiglia, tutto
mi chiama a vendicare questa violenza. Ecco, perfino mio padre mi fissa ciondolando
il capo, perfino lui mi grida in silenzio di tornare alla verità del passato».
Mitzu fu sorpreso dei propri pensieri. Da dove spuntavano quelle idee pazze?
«Sento voci inesistenti?» Si concesse per un attimo di dubitare della propria salute
mentale.
La domanda del padre era stata formulata in giapponese e Mitzu, nuovamente
sorpreso, rispose nella lingua degli avi.
— Allo zio Tadashi. Mi parlavi sempre di lui quand’ero piccolo, ti ricordi?
— Sì, e mi fa piacere che tu ricordi la nostra lingua, ne sono onorato.
Dietro di loro si udì il leggero tintinnio delle tazze del tè su un vassoio. Hiro era
ferma sulla soglia, e ascoltava.
— Hai ancora quella veste antica? — domandò Mitzu. — Quella dello zio Tadashi.
— Perché me lo chiedi? — rispose il vecchio chinando il capo.
— Mi domandavo se me la daresti — disse Mitzu, cercando di guardare meglio il
padre. — Capisci, non possiedo niente del genere. Cose di famiglia.
Yasuji inarcò impercettibilmente le sopracciglia, e aggrinzì la pelle cadente delle
guance. Si dondolò sulla pianta dei piedi facendo scricchiolare il pavimento di legno
del balcone.
— Hai scelto uno strano momento per chiedermela. Cosa ti spinge a farlo?
— Non ne sono certo... — rispose Mitzu, ripensando alle parole scritte da Tadashi
prima della missione: Il mio sovrano ha abbandonato questa vita fugace ed è salito
tra gli dèi. Io lo seguo con il cuore colmo di gratitudine. Era un’antica preghiera che
veniva recitata prima della battaglia. — Sento — proseguì Mitzu — ... è soltanto...
bisogno di...
— Yamato damashii — sussurrò il vecchio. «Lo spirito dell’antico Giappone.»
Yasuji rientrò in casa, ma quelle parole erano ancora sospese nell’aria.
«Non gioverà a nessuno sapere per quale motivo voglio quella veste» pensò Mitzu.
Lui stesso non ne era completamente sicuro. Sapeva soltanto che un soldato doveva
vestirsi adeguatamente prima di una battaglia, e che lui sarebbe entrato in guerra
molto presto.
Suo padre tornò sul balcone sorreggendo la lunga veste nera.
Era andata a Tokyo per sei mesi di duro lavoro. Prima di tutto doveva imparare la
lingua, poi bisognava seguire le lezioni, le conferenze e visitare i musei. Stava
passeggiando nel centro della città, respirando la bizzarra gloria del Giappone
moderno. Torri fatte di pilastri d’acciaio e lastre di vetro che contrastavano con
l’eredità dei secoli. A caso, Jill aveva preso una stradina secondaria. Ne ricordava
l’aspetto, ma non il nome e si era ritrovata a conversare con un antiquario giapponese
che poteva avere dai cinquanta agli ottanta anni. L’uomo era ansioso di rispolverare il
suo inglese con una giovane americana. E lei, naturalmente, voleva parlare il suo
limitato giapponese, quindi erano passati da un idioma all’altro. Lui le raccontava
quanto gli era piaciuta Washington, che aveva visitato anni prima, lei parlava delle
sue ricerche. Per tutta la durata della conversazione, Jill non aveva smesso di lanciare
sguardi furtivi a un tavolino verde. Quando alla fine ne aveva chiesto il prezzo, lui
glielo aveva regalato con la massima semplicità.
Ma ciò che ricordava meglio, di quella giornata, era che Mitzu Nagata era stato con
lei tutto il tempo, osservandola e ascoltandola con divertito distacco.
Lo aveva incontrato la sera prima, durante un ricevimento all’ambasciata
americana. Era una di quelle feste provinciali, con bevande costose e sorrisi falsi.
Sembrava che fossero intervenuti tutti gli americani della città, dei colonialisti in terra
straniera. Nel giardino dell’ambasciata, i marine avevano acceso dei fuochi artificiali,
e una banda aveva suonato l’inno nazionale e l’Inno di battaglia della repubblica. La
moglie dell’ambasciatore si era presa cura di far suonare dei valzer e aveva ballato
con metà degli ospiti. Un uomo della General Electric era rimasto al bar a ingurgitare
coppe di champagne. Un dirigente della Sony, nativo del New Jersey, organizzava
sciarade in un angolo del grande salone. L’incaricato d’affari, che somigliava a
Gregory Peck, ma che aveva la voce alta e stridula, aveva passato la serata facendo
presentazioni, con tanto impegno da presentare più di una volta le stesse persone.
Alcuni studenti, colleghi di Jill, avevano fumato spinelli nei gabinetti e avevano
trascorso la serata allegramente tra la gente. Jill si era seduta su un divano rivestito di
broccato e aveva osservato tutto, per prendere, mentalmente, delle note sociologiche
sui ricevimenti dell’ambasciata americana di Tokyo.
Un giovane e solitario diplomatico, di recente nomina in Brasile, aveva cercato di
attaccare bottone con lei, voleva parlare unicamente di Richard Nixon, Gerry Ford e
Jimmy Carter, ma lei ne aveva già sentito parlare abbastanza a casa sua. Un
professore all’università di Doshisha l’aveva interrogata sul perché avesse scelto
l’università di Tokyo, e uno degli addetti all’ambasciata, uno di Dallas, proveniente
da Londra, che aveva il più bell’accento che lei avesse mai sentito, aveva insistito per
raccontarle la carriera del generale Britten. Soggetto che conosceva fin troppo bene.
Il ricevimento era andato avanti. Lei avrebbe potuto tornarsene in albergo, perché
si sentiva affaticata dal lungo viaggio, ma le piaceva stare lì. A ventisei anni, amava
considerarsi una donna sofisticata. Conosceva bene l’esercito. Era cresciuta nelle basi
militari dove tutti vestivano l’uniforme e non prestavano attenzione ad una ragazzina
a cui piaceva leggere libri. L’attraeva la vista di tante signore dai capelli bluastri e in
abito lungo, e di tanti uomini in abito da sera.
Probabilmente, stava aspettando l’uomo giusto con il quale andare a casa.
Si era presentato come Mitzu Nagata. Lei era seduta sul divano di broccato e stava
giocherellando con il bicchiere che aveva tenuto in mano per più di due ore. Lui era
in piedi davanti a lei, si stava accendendo una sigaretta con un accendino d’oro.
«Mitch per gli amici. Anche per gli amici giapponesi.»
Si era messo a ridere. Aveva una risata dolce, amichevole, e occhi luminosi. Aveva
controllato che lei non avesse la fede nuziale.
Jill gli aveva parlato del suo lavoro, delle ricerche sulla mentalità giapponese e
della gita a Kioto che sperava di fare. E Mitzu aveva ascoltato per un’ora, senza mai
interromperla, eccetto per una domanda stimolante, tanto che alla fine Jill si era
chiesta come mai lui non se ne fosse andato.
«Vi sto annoiando?» gli aveva chiesto.
«Per niente» era stata la risposta. «Vi andrebbe se vi accompagnassi a Kioto? Ho
una certa conoscenza della città e potrei rendervi più interessante la visita.»
«Magnifico! Ne avrete il tempo?»
«Sarebbe scorretto da parte mia non trovarlo. Gli americani in terra straniera si
aiutano, no?»
Il suo sorriso era così invitante, il comportamento così irreprensibile, quasi
adulatorio, le era parso, che si era sentita sorprendentemente affascinata. E non era
disposta a contestargli la sua insistenza nel dichiararsi americano. «Se mi dicesse che
è un barone francese o un cowboy da rodeo» aveva pensato «per me andrebbe
benissimo.» Non aveva mai ceduto tanto facilmente alle parole di un uomo.
Avevano visitato Kioto, l’antica capitale del Giappone, dove nel XII e XIII secolo
gli imperatori avevano regnato dai loro numerosi palazzi, e dove i nobili portavano il
ghiaccio giù dal monte Hiei. Avevano passeggiato lungo il fiume Kamo sotto un cielo
nuvoloso, ma luminoso, come se la luce del sole trasparisse da dietro le nuvole. Le
era venuto di pensare che non c’era altro luogo al mondo dove fiorissero tanti ciliegi.
L’aveva portata nei palazzi dei governatori militari, ai ruderi degli antichi granai, e
alla fine del secondo giorno, prima del rientro a Tokyo, a una dimostrazione di
yabusame. La dimostrazione si era svolta in un’arena moderna. Dieci uomini a
cavallo vi avevano fatto irruzione, le faretre sul dorso. Ciascuno di loro indossava un
costume coloratissimo e un copricapo a falde larghe. Jill sapeva che i giapponesi
erano stati arcieri per molti secoli. Ogni cavaliere spronava il cavallo. Galoppavano
attorno all’arena a velocità sempre crescente sollevando nugoli di polvere, e quando
Jill aveva pensato che non avrebbero potuto galoppare più velocemente, i cavalieri
avevano cominciato a scoccare le frecce che andavano a conficcarsi nei bersagli
situati al centro dell’arena.
«È uno sport antico» le aveva detto Mitzu «ma un tempo lo yabusame non era uno
spettacolo: era una strategia di battaglia e non uno spettacolo.»
«Sono samurai?» gli aveva chiesto.
«I samurai non esistono più» era stata la risposta brusca. «Ormai, sono tutti morti.»
Avrebbe voluto rivolgergli altre domande, ma qualcosa nel tono di voce di Mitzu
l’aveva dissuasa.
Quella sera avevano attraversato la città a piedi, lungo un viale ampio, vecchio di
mille anni.
Nel XIII secolo, quando gli indiani erano ancora i padroni degli Stati Uniti e
Cristoforo Colombo non era ancora nato, i guerrieri samurai avevano camminato
alteri per quella stessa strada, con le facce dipinte di bianco e i capelli raccolti sotto
gli zucchetti neri. I samurai, la classe guerriera, avevano lottato con intelligenza e
determinazione, e dato prova di una spietata violenza.
La serata era insolitamente fredda e lui le aveva messo la sua giacca sulle spalle.
Come a Tokyo, i palazzi moderni erano addossati l’uno all’altro, con occasionali
costruzioni in legno dei secoli passati; alla fine della strada, avevano visto quelli che
gli storici consideravano i ruderi delle porte originali della città.
«Pensa ai susini e ai ciliegi piantati secoli addietro.» Ascoltandolo aveva sentito il
profumo dei fiori.
«Pensaci» aveva continuato lui «e ricorda le crudeltà dei governatori militari, la
corruzione del loro seguito. Le sai queste cose, vero?»
Le sapeva, era una studiosa di storia, e glielo aveva detto.
«Ma i samurai non erano migliori» gli aveva risposto.
Perché si era lasciata sfuggire quella frase? Aveva già percepito l’avvertimento.
Non era il caso di insistere sui samurai.
«C’è un haiku, un poema, che dice: “Che sia la nostra morte come i fiori di ciliegio
in primavera: pura e luminosa”. Questo dovrebbe farti capire, e basta per rispondere
alla tua domanda.»
E non gli aveva rivolto altre domande.
Lungo tutto il viale, i salici piangenti si ergevano alti, i loro rami verdi ripiegati su
se stessi oscillavano, come gravati dalla loro stessa linfa. I giardini giapponesi, sulle
colline attorno, ricchi di fiori gialli e rossi, spiccavano al chiaro di luna. A Jill
sembrava di avvertire la presenza di fantasmi. «Adesso non fare la stupida
romantica» si era detta. «È soltanto un uomo d’affari giovane e simpatico, forse
anche un po’ confuso, che si sente solo in Giappone perché si considera americano.»
«Questi salici sono splendidi, non ne ho mai visti di così rigogliosi.
«Piangono davvero» aveva detto lui. «Meritano il loro nome.»
«Mi chiedo perché piangono» aveva soggiunto Jill, cercando di apparire
intelligente e sapendo che avrebbe sollecitato la sua reazione.
Mitzu aveva riso. In due giorni lei aveva cominciato a innamorarsi di quella risata
dolce e rilassante.
«Piangono per la storia del Giappone» aveva risposto.
Jill si era voltata e lo aveva preso per mano. Con l’arroganza spontanea della
gioventù, aveva creduto di conoscerlo più di quanto lui avrebbe ammesso. Forse più
di quanto lui stesso si conoscesse.
In qualche modo, quella sera si era ritrovata nella stanza di Mitzu all’Hilton. Erano
tornati in albergo molto tardi e avevano passato un’oretta al bar. Sebbene fosse
esausta, non poteva ignorare l’attrazione sessuale che c’era tra loro. E non le erano
sfuggiti gli indizi dell’interesse di lui. Ma non era nel suo stile. andare a letto con un
uomo appena incontrato. Era ancora un po’ all’antica. Eppure, più stavano assieme e
più lo desiderava. E non solo per il suo fascino o per l’attrazione fisica, era uno degli
uomini più belli che avesse conosciuto, ma c’era qualcosa di diverso, c’era una
passione profonda.
Erano saliti in ascensore, dopo aver preso le rispettive chiavi, poi lei si era fermata
davanti alla porta della stanza di Mitzu e lo aveva guardato. Le era sembrato stupido
dire un semplice buonanotte.
«Ci vediamo domattina» aveva detto timidamente.
«Preferirei bussare alla tua spalla piuttosto che alla tua porta» aveva risposto lui.
Il loro rapporto fu il più travolgente che lei avesse mai provato. Fu delirio. E per la
prima volta aveva conosciuto la vera passione. Il suo desiderio fu appagato dal corpo
muscoloso di lui, e dal profumo dei fiori.
Mitzu sarebbe restato a Tokyo per due mesi, faceva parte di un gruppo di tecnici
dell’American General che doveva visitare i centri nucleari giapponesi. L’ufficio di
Jill, presso l’università, era a pochi isolati da quello di Mitzu. Tre o quattro volte alla
settimana, quando riusciva a liberarsi, lui andava a prenderla e la portava a colazione.
Il più delle volte si fermavano in una friggitoria, una yatai-mise o una shidashiya,
l’equivalente di una tavola calda. Qualche volta, prendevano dei cartocci colmi di
riso e pesce e passeggiavano assieme per la città. Jill era sorpresa che i giapponesi,
così orgogliosi della bellezza della loro arte, non curassero le strade delle città, che
erano affollate e brutte. Perfino la shosen, la metropolitana, non era la spettacolare
opera architettonica che si era aspettata.
«La strada è un luogo pubblico» le aveva spiegato Mitzu, mentre percorrevano la
caotica Ginza, l’arteria principale della città. «La strada non appartiene a nessuno in
particolare, perciò nessuno si preoccupa della sua eleganza. Quando la gente decide
di fare qualcosa in omaggio all’estetica, si rivolge alla propria casa e al proprio
giardino.»
«Ma l’intera città è così disorganizzata» aveva osservato lei. «Si direbbe che
nessuno creda nella pianificazione urbana.»
«Penso che lo facciano di proposito» aveva replicato Mitzu. «Disarmonia
all’esterno e bellezza nell’animo.»
Schivavano ragazzi in bicicletta che trasportavano vassoi pieni di cibo, danzatori
che pubblicizzavano la Coca-Cola e monaci buddisti con la testa rasata. Avevano
comperato dei sandali; erano saliti fino alla sommità della scalinata del Palazzo
imperiale per ammirare il disegno circolare delle strade del centro della città; avevano
bevuto il saké nelle taverne vicine all’università. Le aveva parlato come mai nessun
uomo aveva fatto. Lui la prendeva in considerazione, a differenza di David Peabody,
il suo ultimo ragazzo, che l’aveva trattata alla stregua di una ragazzina cresciutella
che si dedicava a cose interessanti come la storia e la filosofia. O di suo fratello, per il
quale era ancora la «sorellina» intelligente e carina, ma sempre una bimba. O di suo
padre, che si rivolgeva a lei come alla «piccina di papà». Perfino i suoi professori,
talvolta, si lasciavano sfuggire delle frasi idiote quali: «Nella tua graziosa testolina
alberga il cervello di uno studioso».
Mitzu non le aveva mai detto niente del genere. Avevano parlato delle risorse
umane giapponesi, che la civiltà postindustriale non poteva esaurire completamente;
di come i giapponesi amassero farsi il bagno per il piacere di farlo, e non soltanto per
lavarsi. Avevano parlato dei problemi sociali americani; della straordinaria
organizzazione dell’industria giapponese. A un certo punto, non era più interessata al
soggetto delle conversazioni, perché era innamorata della sua voce. Certi giorni,
durante la pausa per la colazione, andavano nell’appartamentino di lui, in albergo, e
facevano l’amore; poi lo facevano di nuovo quando finivano di lavorare e ancora una
volta prima di addormentarsi. Avevano fatto alcune cose sulle quali Jill aveva
soltanto fantasticato: avevano provato nuove posizioni, usato creme e lozioni
esotiche; scherzandoci sopra, avevano bevuto afrodisiaci erbacei, che per altro erano
parsi efficaci.
Durante le prime tre settimane, Jill aveva rivolto a Mitzu una sola domanda sul suo
passato. Gli aveva chiesto se fosse tornato a vedere la casa nella quale era nato.
«Non esiste più» le aveva risposto con una punta di nervosismo. «Bruciò durante
un bombardamento. Quei B-29 erano aerei davvero efficienti.»
«E non vuoi nemmeno vedere la strada? Qualche cosa deve pur essersi salvato!»
La faccia di Mitzu si era indurita, i muscoli del collo erano tesi. Non era
un’espressione di rabbia, ma qualcosa di più, una scossa emotiva che l’aveva
convinta a desistere.
«Fa parte del passato» le aveva risposto stizzito, e se ne era andato.
Ma avrebbe potuto discutere qualsiasi altro argomento ed essere gentile, tenero e
amoroso. «Ho ventitré anni e comincio finalmente a capire.» L’aveva condotta a
teatro, alla cattedrale Nikolai e al Museo nazionale delle scienze. Durante la festa dei
Tre Patroni, una celebrazione religiosa risalente a mille anni prima, avevano
incontrato altri membri del gruppo di Mitzu, e avevano fatto bagordi in un ristorante
della Ginza. Gruppi di ragazzi mezzi nudi avevano danzato in mezzo alla strada
bloccando il traffico. Jill e i colleghi di Mitzu erano rimasti scioccati quando erano
state infrante le vetrine del ristorante e di alcuni negozi vicini; poi i camerieri le
avevano spiegato che i proprietari non avevano dato alcun contributo per la festa, che,
dopotutto, era una celebrazione religiosa. Jill aveva paragonato quella festa al
Capodanno in Times Square. Migliaia di persone, in costumi dai colori vivaci, si
erano comportate come se Tokyo fosse stata un piccolo villaggio. La settimana
seguente erano andati a una festa a Kawaguchi, un sobborgo in cima a una collina che
dominava la città. Un sottosegretario del ministero dell’Industria, incaricato della
politica energetica, che aveva una particolare predilezione per Mitzu, aveva dato una
festa in onore dei tecnici dell’American General.
Al loro arrivo, Jill era rimasta sorpresa di constatare che soltanto a venti minuti dal
centro chiassoso della città, con le sue strade affollate e il rumore quasi
insopportabile, ci fesse un quartiere quasi rurale. Aveva sempre pensato che Tokyo si
estendesse disordinatamente, e che nei suoi sobborghi ci fossero soltanto fabbriche.
Ma dalla collina, il fragore di Tokyo si sentiva appena. La casa, lunga e bassa, si
ripiegava a «U» attorno a un giardino in mezzo al quale c’era un laghetto; un sentiero
di pietra, fiancheggiato da pini giganteschi, conduceva alla porta. I momiji color
arancio erano in piena fioritura.
Sebbene fossero presenti numerosi diplomatici e funzionari governativi, Mitzu e
Jill erano stati al centro dell’attenzione degli invitati. Tutti volevano essere messi al
corrente della politica estera statunitense, soprattutto riguardo alla politica di
distensione e all’atteggiamento verso la Cina. Qualche signora giapponese indossava
abiti occidentali, le altre indossavano kimono rosa o azzurri con cinture alte, gialle e
bianche. Una dopo l’altra si erano avvicinate per ascoltare Jill.
«Piaci a tutti» le aveva sussurrato Mitzu sorridendo. «Stai impersonando la
gentilezza.»
«Oh, Mitch, non sto impersonando niente, sono me stessa e basta» gli aveva
risposto un po’ offesa. «Pensi che mi stia dando delle arie?»
L’aveva baciata su una guancia.
«No, certo che no, scherzavo. Per questo ti amo.»
Aveva cercato di non pensare alla partenza di Mitzu e per un certo tempo aveva
preso in considerazione la possibilità di lasciare tutto e seguirlo. Ma quando gliene
aveva parlato, lui le aveva detto di non fare pazzie. Era a Tokyo per studiare, aveva
passato anni a prepararsi per questo e sarebbe stato ridicolo rinunciare.
«Sono innamorata di te, non è una semplice infatuazione infantile.»
«Lo so, Jill, ma prima vediamo che cosa succederà quando tornerai a Washington,
e se sarà tutto come adesso, torneremo a stare insieme.»
Quando lei era rientrata, Mitzu era andato a trovarla a Washington, appena gli era
stato possibile. A Natale lei era andata in aereo a San Francisco; era innamorata
follemente e voleva vederlo: David Peabody e anche un altro ragazzo l’avevano
invitata a uscire con loro, ma lei aveva rifiutato. Un amore a distanza presentava i
suoi problemi, ma lei voleva Mitzu, soltanto Mitzu. Le era stata offerta una borsa di
studio al George Washington, ma un collega le aveva detto di una possibilità a
Stanford. Il lavoro al George Washington offriva più denaro, orari di insegnamento
più leggeri e la possibilità di lavorare stabilmente, ma lei aveva presentato domanda a
Stanford con l’intenzione di trasferirsi a San Francisco.
Il direttore dipartimentale di Stanford le aveva telefonato alla fine di febbraio,
curioso di sapere perché avesse scelto un’occupazione tanto inadeguata alla sua
qualifica. Gli aveva dato le spiegazioni che dava a tutti: aveva bisogno di cambiare
ritmo, di un clima diverso e di un ambiente nuovo. Era un pochino imbarazzante
raccontare in giro, perfino a Burt, che era pronta a troncare la sua carriera e trasferirsi
all’altro capo dell’America, perché era innamorata. Sarebbe sembrata una caccia
all’uomo.
A maggio, Stanford le fece sapere che era stata assunta. Era raggiante e pronta per
il trasferimento, quando Mitzu le aveva fatto sapere che aveva incontrato un’altra. Le
aveva detto di essere spiacente, ma si trattava di una cosa seria e si sarebbe sposato:
Era stato così disinvolto al riguardo da lasciar pensare che per lui il loro rapporto non
fosse stato nient’altro che un semplice passatempo. Per qualche giorno si era rigirata
nel suo appartamento, incapace di spiegarsi quello che le era accaduto. Come poteva
essere così crudele l’uomo che lei amava? Era uscita dalla realtà fino al punto di
fraintendere tutto?
Aveva scritto a Stanford di aver cambiato idea. Era riuscita a ottenere un incarico
al George Washington. E si era lasciata alle spalle il ricordo di Mitzu Nagata.
Ma ogni volta che lui si recava a Washington per lavoro le telefonava. Jill non
avrebbe mai immaginato di potersi trovare nel ruolo dell’amante e odiava l’idea di
andare a letto con lui mentre era fidanzato con un’altra Eppure non riusciva a
resistergli. Anche dopo che lui si era sposato, aveva continuato a vederlo. Si sentiva
orribile, spregevole, sporca, ma ogni volta che lui la chiamava, lo accoglieva a
braccia aperte.
C’era voluto più di un anno dal matrimonio di Mitch perché lei riuscisse a bandirlo
dalla sua vita. Ma alla fine era riuscita a dirgli che tra loro era finita. Non doveva
telefonarle più, lei doveva vivere la sua vita e lui doveva sparire. Lo aveva
accompagnato in auto all’aeroporto per l’ultima volta, gli aveva augurato la buona
fortuna, e detto addio.
Lui le aveva appena telefonato. Veniva in città per affari e voleva vederla.
«Non posso, Mitch, è fuori discussione, non è corretto né da parte mia né da parte
tua.»
«Senti, Jill, Nancy sta per avere un bambino e siamo molto felici. Voglio vederti
per bere qualcosa con te e parlare dei vecchi tempi: tutto qui. Siamo ben padroni di
far tesoro del passato, no?»
Aveva ceduto. Inspiegabilmente, ma aveva ceduto.
Aveva abbassato il microfono e fissato il tavolino di lacca verde, le scheggiature e
i graffi assommati nel tempo. Aveva pensato al tono distaccato della voce di lui.
Infine, era andata in cucina a prepararsi un infuso di camomilla.
Gironzolò per la cucina toccando gli oggetti sulla credenza; un pupazzo che gli
aveva regalato suo padre, un vassoio argentato avuto da Alex. Si sedette sul tappeto
di lana davanti alla libreria e prese i suoi volumi preferiti uno a uno. Guardò le
rilegature, e li ripose al loro posto nello scaffale. I libri la rassicuravano.
«Far tesoro del passato.» Quelle parole erano come incrinature su un vetro. Mitch
non avrebbe mai usato parole del genere. Jill pensò che non aveva mai incontrato
nessuno che considerasse il passato così maniacalmente privo di importanza.
«Forse questo è stato il nostro problema» pensò ironicamente. «Io sono una
studiosa di storia e lui odia la storia. Specialmente la sua.»
Cominciò a radunare i giornali da buttare. Era una delle sue abituali reazioni
all’ansia, come riordinare l’appartamento, guardare i suoi libri, bere la camomilla.
Poco dopo cominciò a preparare un tè dopo l’altro, a tirar fuori panni e detersivi, a
passare febbrilmente l’aspirapolvere. Radunò una pila di giornali alta mezzo metro,
che finì nel caminetto.
Alla fine della giornata aveva scacciato l’ansia causata dalla telefonata di Mitzu
Nagata, ma lei non aveva avuto la minima consapevolezza di esserne stata preda.
La palestra era in un quartiere di cui Mitzu conosceva appena l’esistenza. Era uno
di quegli angoli nascosti di San Francisco che difficilmente un avvocato o un uomo
d’affari di Montgomery Street avrebbe avuto l’opportunità di vedere, se non
dall’autostrada o dall’alto di un grattacielo. Mitzu aveva trovato l’indirizzo sotto la
voce: «Scuole di arti marziali», della guida telefonica. C’erano istruttori di jujitsu,
judo e karatè, specializzati, secondo gli annunci pubblicitari, «nelle tecniche per
ridurre all’impotenza senza far ricorso alle armi» o «nelle antiche arti di difesa
personale». Mitzu poteva fare a meno di lezioni di karatè perché lo aveva imparato
da bambino, dai duri del vicinato. C’era un annuncio per il kung fu, il quale, secondo
Mitzu, era soltanto un falso grottesco, un’invenzione dei promotori della cultura pop.
Fece parecchie telefonate chiedendo di qualcuno che avesse qualche nozione sui
samurai. Da molte palestre aveva ottenuto il suggerimento di rivolgersi a una libreria,
altri gli raccomandarono corsi di storia all’università. Infine, in fondo alla pagina,
Mitzu trovò un’inserzione a piccoli caratteri che faceva al caso suo.
Avviamento all’arte guerriera dei samurai. Addestramento ai precetti del codice
Bushido. Pratica di kendo, scherma. Spade e costumi a disposizione.
Compose il numero telefonico e chiese se davano anche lezioni serali. Dall’altro
capo del filo un uomo rispose in giapponese; forse parlava anche l’inglese ma non era
incline ad ammetterlo al telefono.
Per arrivare alla palestra, Mitzu seguì le istruzioni dell’uomo, e scoprì che aveva
percorso un perfetto semicerchio attorno alla periferia della città.
La palestra era situata in un fabbricato di cemento, rivestito di tavole di sequoia,
ma a causa delle ingiurie del tempo e del vandalismo i pannelli erano spaccati e
cadenti, e lasciavano scoperto il cemento. Due ragazzi giapponesi se ne stavano
appoggiati al muro oziosamente, con una radio a transistor a tutto volume. Non
c’erano facce di persone di razza bianca in vista.
— Ehi, capo, dacci qualche spicciolo — gli gridò uno dei due.
— Sembri solo, cerchi compagnia? — chiese l’altro.
Mitzu non immaginava che a San Francisco tanti giapponesi poveri vivessero
assieme, come in un ghetto. I cinesi sì, ma credeva che i ghetti giapponesi fossero
cose del passato.
Osservò attentamente la strada, poi guardò la sua Audi tirata a lucido, e si
domandò se fosse al sicuro. Pensò che il quartiere non era povero, ma non era
nemmeno ricco. Diede mezzo dollaro al ragazzo che tendeva la mano, e si incamminò
verso la palestra. L’interno del locale, in contrasto con l’esterno, era meticolosamente
pulito. C’era un ingresso con le pareti a specchi e il pavimento coperto da una
moquette. Rifletté sulle circostanze del suo arrivo lì. Aveva detto a Nancy che
sarebbe andato a una riunione d’affari, in un luogo dove non poteva essere
rintracciato. A lei non era dispiaciuto, tanto più che la madre di Mitzu sarebbe andata
in città per tenerle compagnia. Avrebbe cucinato e le sarebbe stata vicina. Nancy era
ancora sconvolta e la curavano con Valium. Mitzu sapeva che lei non lo avrebbe
controllato, perché aveva una fiducia cieca in lui. Non le aveva mai mentito prima di
allora, ma stranamente non si sentiva in colpa. Era lì per imparare una cosa
necessaria... perseguire le orme dei bushi, per seguire il cammino della vita.
«È meglio morire che vivere nel disonore» si disse.
Fermo nell’ingresso a specchi, mentre suonava il campanello, non sentiva che
rabbia. Guardò la propria immagine riflessa negli specchi, ma vide quella del
bambino nell’incubatrice, i volti dei quattro uomini sul palco imbandierato che aveva
visto nella foto pubblicata dai giornali. Strinse un pugno. I muscoli del dorso gli si
irrigidirono. La stoffa della giacca si raggrinzì. Si era sempre mantenuto in forma
giocando nella squadra di pallacanestro dell’American General, a squash con Ed
Stone al Raquet Club, e facendo un po’ di corsa con un architetto vicino di casa.
Adesso era soddisfatto dell’agilità, del senso di sicurezza che gli dava la sua forza
fisica.
La porta a specchi fu aperta. Un uomo con una sorta di camicia bianca con i lembi
incrociati sul petto a formare una «V» profonda, e un paio di pantaloni di raso nero, si
fece avanti. Era basso, molto più basso di lui, e la statura di Mitzu lo aveva
chiaramente sorpreso. Con una lunga occhiata franca, l’uomo valutò Mitzu
dedicandogli un’attenzione evidentemente inconsueta. Osservò a lungo la valigetta
portadocumenti e il completo di ottimo taglio. Chiaramente, la maggior parte dei suoi
clienti non doveva somigliare a Mitzu Nagata.
— Signor Nagata?
— Sì, ho un appuntamento per questa sera.
L’uomo gli tese la mano.
— Io sono Nakajima. Siete qui per iscrivervi al corso di Bushido?
— Precisamente — rispose Mitzu, mentre gli stringeva la mano.
La stretta dell’uomo fu così forte che Mitzu si sentì la mano indolenzita. Notò che
il torace di Nakajima, il quale gli era sembrato ampio e flaccido, era invece
muscoloso.
Nakajima si voltò invitando Mitzu a seguirlo. Passarono per un’altra stanza con le
pareti a specchio. Sulla porta a vento c’era un poster raffigurante dei soldati
giapponesi in addestramento. I soldati indossavano elmetti e tute da paracadutista.
Sull’altro battente della porta c’era un secondo poster, molto più vecchio e ingiallito,
di guerrieri armati di spade e fucili a baionetta nell’atto di saltare. Sulla parete a
specchio, dall’altra parte della stanza, era appeso un ritratto di Yukio Mishima, il più
famoso scrittore giapponese del XX secolo. Mishima, per metà nudo, il corpo
muscoloso, liscio, unto fino a brillare, i capelli rasati, reggeva tra le braccia una spada
da samurai 1 .
L’istruttore notò lo sguardo di Mitzu e si fermò.
— Conoscete le opere di Mishima?
— No, veramente no. Però ho sentito parlare di lui. Il suo suicidio suscitò un
grande scalpore in Giappone, sbaglio?
— Aveva un esercito privato — disse Nakajima con reverenza — uomini
addestrati da lui personalmente. Lo sapevate questo? Seguivano le tradizioni dei
samurai. Ma per le autorità militari era una molestia. Oh, sì, invitavano i suoi uomini
alle loro esercitazioni, ma lui rappresentava un pericolo. Alle gerarchie militari
andava benissimo un esercito sprovvisto di uomini e di armi. Mishima, invece,
credeva nel riarmo del Giappone, e protestò nell’unico modo riconosciuto: si tolse la
vita. — Nakajima si voltò e riprese a camminare. — Novembre, dieci anni esatti.
Scelse una giornata luminosa e bellissima per morire. Fu una mattina, al quartier
generale dell’esercito giapponese. Legarono a una sedia il generale Mashita, il capo
di Stato Maggiore, perché potesse vedere e capire. Anch’io ebbi il privilegio di essere
1
Vedi la copertina di La spada presente nei bluebook n.1042
sul posto come testimone. Mishima stava sopra un balcone e parlava a una folla di
giovani cadetti. Sapete cosa disse?
Mitzu rispose suo malgrado farfugliando.
— Be’, per la verità non lo so, io...
— Disse che i figli del Giappone dovevano svegliarsi e che il pacifismo era una
minaccia per il destino della nazione. Ma loro gli lanciarono contro grida di scherno e
lo fischiarono.
La voce di Nakajima era bassa, quasi un sussurro. Parlava con un accento di
religiosa devozione, come stesse tornando, non in spirito, ma di fatto, in un tempo
perduto. Gli occhi di Nakajima, scavati nel volto, emettevano una sorta di bagliore,
gli occhi di un martire al rogo.
Andarono in una stanzetta dietro la palestra. Addossati al muro c’erano sei
armadietti. Nakajima fece cenno a Mitzu di sedersi su una panca, quindi si
inginocchiò ai suoi piedi.
— Era inginocchiato davanti a noi, così. Si squarciò il petto con la spada. —
Ripeté il gesto. — Poi si affondò la lama nello stomaco e si sventrò. Seppuku.
Comprendete il significato del termine?
Il seppuku, Mitzu lo sapeva, era il suicidio rituale del samurai.
— Sanguinava — continuò Nakajima — le sue interiora si riversarono sul
pavimento, davanti a noi. Infine, uno dei suoi seguaci gli mozzò la testa. Il pavimento
era un lago di sangue.
Nakajima chiuse gli occhi e chinò il capo. Un lieve sorriso di dolore gli sfiorò le
labbra. Mitzu lottò contro un impulso quasi irresistibile di fuggire. «Cosa sono venuto
a fare qui?»
Nakajima si alzò in piedi. Il suo volto era tornato normale.
— Il corso iniziale — disse con voce profonda e alta — è di tre lezioni di tre ore
ciascuna. Spiegheremo e approfondiremo il codice Bushido. Esploreremo la santa e
nobile arte del guerriero. Impareremo ad aver cura della spada e a usarla.
Era benevolo, quasi paterno. Mitzu ascoltò come in trance, ricettivo alle sue parole.
Ma il suo sacerdote attendeva, come qualsiasi sacerdote, un’offerta per la sua
preghiera, e guardava il suo supplicante.
«Sono Mitch» pensava il supplicante. «Sono Mitzu.»
Chiunque lui fosse, al sacerdote non interessava. Aspettava.
— Sì? — disse Mitzu.
— C’è una retta per le nostre lezioni — fu la risposta benevola.
— Oh, sì, certo — balbettò Mitzu, cercando il portafogli. Nakajima voleva essere
pagato. Perché no? Insegnare la giusta via da seguire nella vita valeva più del denaro.
Mitzu contò cento dollari in banconote da venti. Nakajima prese il denaro e lo fece
sparire dentro una manica, poi prese una camicia bianca simile alla sua, da un
cassetto dell’armadietto vicino a lui. Somigliava vagamente a un indumento
campagnolo russo o ungherese: senza bottoni, con due lunghi lembi che venivano
incrociati in vita. Le maniche a campana arrivavano appena `al gomito.
— Ho portato la mia veste personale — disse Mitzu aprendo la valigetta.
Spiegò la veste kendo nera di suo zio Tadashi e la mostrò all’istruttore perché la
esaminasse.
Nakajima protese le labbra strette.
— Siete un samurai.
— La mia famiglia era... Sì, sono un samurai.
— Vi prego, cambiatevi — lo invitò Nakajima con sussiego. — Vi aspetto in
palestra.
Mitzu appese la giacca nell’armadietto, si tolse i pantaloni, indossò il costume
cerimoniale e strinse i lembi della camicia attorno al corpo snello. Mentre infilava le
braccia nella veste kendo, i muscoli delle spalle si contraevano e distendevano. Si
mise un paio di sandali che trovò ai piedi dello specchio che rivestiva la parete.
Fu sorpreso dal proprio aspetto.
Niente cravatta, niente camicia, niente giacca di tweed. La pelle nuda luccicava a
causa del velo di sudore che gli bagnava il torace. Il biancore degli ampi risvolti della
camicia ricadeva sul nero della veste kendo. Si sentì travolgere da un’ondata di
orgoglio.
Sono un samurai era il pensiero che impazzava selvaggio nella sua mente.
Aprì la porta della palestra e fu immediatamente abbagliato dalla propria immagine
che si rifletteva nelle pareti a specchio, illuminata dall’alto da numerose lampade
montate su staffe attaccate al soffitto. Guardò il proprio corpo in quella luminosità
assurda, stringendo silenziosamente i pugni e allentando i muscoli del dorso.
Nakajima era in piedi, in un angolo, e reggeva in mano due lunghe aste di legno
con l’impugnatura intagliata. Erano lunghe circa un metro e mezzo.
— Ci alleneremo con queste.
— Preferirei farlo con le spade, per abituarmi. Non ne avete? Avevate detto che le
avreste fornite voi.
Nakajima posò le due aste sul materassino e spinse il riquadro di uno specchio
dietro di lui. Aprì un pannello nel muro e ne estrasse due spade. Le else erano
perfettamente identiche, forgiate a mano, con i guardamano d’oro del Giappone
imperiale.
— Appartenevano a mio nonno — spiegò Nakajima. — Come vedete risalgono
all’epoca Taisho. Mi sono particolarmente care. Sono disposto a farvi allenare con
queste se mi prometterete di trattarle come cosa vostra, ma soltanto dopo che avrete
imparato a usarle.
Nakajima si spostò al centro della stanza e Mitzu, attirato da lui come una falena
dalla luce, lo seguì e gli si mise davanti divaricando le gambe, imitando la posizione
di Nakajima.
— Osservate e ripetete ogni mio movimento e imparerete l’arte della spada.
Mitzu prese una delle aste di legno, era sorprendentemente pesante, e fendé l’aria
per provarne la maneggevolezza. Leggeri graffi rivelavano il recente lavoro di tornio
e lucidatura. Nakajima protese l’asta all’altezza del torace, attirando l’attenzione di
Mitzu sul legno lucente.
L’asta di Nakajima roteò vicino al viso di Mitzu; questi rispose con lo stesso gesto,
ruotò sui talloni, imitando alla perfezione i movimenti del maestro. Le aste si
incrociarono sfiorandosi appena.
Nakajima si inchinò. Mitzu si inchinò.
Il legno di Nakajima saettò da sinistra a destra. Il suo corpo rimase rigido, mosse
soltanto il braccio e la mano. Mitzu ripeté. Sinistra, destra, su, giù, sinistra, destra, su,
giù...
L’allenamento era iniziato.
2
L'autore de Il Segretissimo che state leggendo non sapeva che in Italia il libro di cui si parla venne pubblicato con un
altro titolo: Il sapore della gloria (Gogo no eiko).
In seguito questo romanzo accesamente erotico del giapponese Yukio Mishima, è stata inglesizzato in un film che
trasferì la vicenda in una località costiera inglese. È un film diseguale, ma qua e là non privo di impressionante fascino
macabro. Il titolo con cui uscì in Italia fu I giorni impuri dello straniero, la cui trama era la seguente:
Una giovane vedova inglese ha una relazione con un amabile marinaio. Con l'aiuto di quattro compagni, il geloso figlio
adolescente, succubo di un morboso amico, castra l'intruso con un complicato rito macabro.
— Mitch, che sei venuto a fare così tardi? Nell’ultima settimana sei stato qui quasi
tutte le sere.
— Devo rimettermi alla pari con gli altri. Le tabelle regionali sulle vendite sono
ancora sulla mia scrivania, e sono in ritardo di due settimane con l’approvazione delle
modifiche ai manuali di gestione aziendale.
Stone si lasciò sfuggire un sospiro di nervosismo e stanchezza. — Mitch, voglio
che tu capisca che non devi venire per forza. Benson si sta occupando delle relazioni
del settore occidentale e affiderò a Cal Gifford il tuo giro di ispezione e...
— Via, non essere ridicolo, Ed — lo interruppe Mitzu. — Tra una settimana o giù
di lì, avrò sistemato tutto e il giro del mese prossimo non costituisce un problema. La
settimana prossima ti darò i consuntivi e sarò pronto per la partenza.
Colto di sorpresa, Ed Stone rimase un attimo senza parole.
— Ma pensavo a Nancy. Lei è ancora sconvolta, non preferiresti...
— Nan sta bene, Ed. Lei vuole che io partecipi al viaggio. Sa quanto sia importante
per me, e vuole vedermi nuovamente nel giro.
La voce di Mitzu era fredda come il ghiaccio secco, il suo viso era disfatto. Ed
Stone sembrava addolorato a causa del tono risoluto di Mitzu. Non lo aveva mai visto
tanto stanco. Ma perché voleva partecipare a questo giro? Perché mai non preferiva
restare accanto alla moglie in un momento tanto difficile della loro vita?
Il bambino nell’incubatrice di plastica. Ne aveva sentito parlare dall’infermiera del
reparto quando era andato a trovare Nancy. E ora il bambino era morto.
— Mitch, forse non dovresti affaticarti troppo. Adesso sei sotto tensione. Pensa a
un periodo di riposo, a prenderti un po’ di...
— Non sono affatto sotto tensione, Ed. Il lavoro è la miglior medicina per tutti i
mali. Credimi, mi sento in forma. E non voglio rinunciare.
La voce era indubbiamente quella di Mitch, ma la ferma determinazione, la
spontanea indifferenza al dolore lo colpirono e lo fecero rabbrividire. I capelli gli si
rizzarono sulla testa.
— Va bene, Mitch, fai quello che vuoi. Domattina informerò Cal. Ma fammi un
favore, non pensare che perdereste qualcosa rinunciando al viaggio. Voglio
solamente che tu mi dica se sei emotivamente all’altezza.
Un impeto di repulsione colpì Mitzu nell’intimo. Quella ridicola gentilezza! Che
ne sapeva Ed Stone? Come poteva pretendere di capire il tormento, l’ira, il fuoco di
quelle giornate? Che cosa pensava della fotografia sui giornali, della celebrazione,
dell’insano e disgustoso orgoglio di quei quattro uomini...
«Muoviti; Mitzu» si impose. «Adesso muoviti.»
— Grazie, Ed, apprezzo il tuo interessamento, e anche Nancy. Ma noi siamo forti.
Ce la faremo.
Mitzu si volse per andarsene passandosi una mano sulla fronte, cercando di
fingersi esausto.
— D’accordo, Mitch, va’ a casa e cerca di dormire.
— Sì, Ed, grazie, sono veramente stanco — mentì. Non si era mai sentito tanto in
forma. — Sono proprio fatto, ormai. Buona notte, e grazie ancora.
Mitzu percepì appena la risposta in prossimità dell’ascensore. «Dormire» pensò.
«Non ho bisogno di dormire. Potrei andare avanti giorni e giorni senza dormire. Sono
più sveglio di quanto non lo sia mai stato. Sono elettrizzato. Non ho bisogno né di
cibo né di riposo. Ho bisogno di compiere il mio dovere di soldato.»
Le porte dell’ascensore si richiusero con un tonfo smorzato. La cabina scese
accompagnata da un fruscio intenso.
Ed Stone seguì il mutare dei numeri. Aveva creduto di conoscere Mitzu Nagata
bene come tanti altri. Era profondamente turbato, e non ne sapeva il perché.
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La chiesa di San Bartolomeo si ergeva su una collinetta verde, vicino alla ferrovia,
a Elkins Park, alla periferia di Filadelfia. Era un edificio basso e lungo, e sui vetri
colorati delle finestre erano raffigurate la Crocifissione e la Resurrezione. Vicino alla
chiesa c’era un grande cartello pubblicitario che raffigurava un operaio che usciva da
un tombino stradale, portava un casco giallo e aveva un giornale in mano. Sulla parte
alta del cartellone c’era la scritta: A FILADELFIA TATTI LEGGONO L’«INQUIRER».
Padre Michael Farrell si era fermato nello spogliatoio dietro l’altare e dalla finestra
guardava la canonica. La vista gli cadde sul cartellone pubblicitario. Proprio quella
mattina il canonico aveva chiesto a qualcuno dell’arcidiocesi di esercitare delle
pressioni, magari una o due telefonate, per convincere la società che aveva affisso
quel cartellone a rimuoverlo. Forse una telefonata all’Inquirer avrebbe funzionato.
«Cerchiamo di essere fratelli e di non offendere i parrocchiani; quel cartello è proprio
un pugno in un occhio per chi esce dal santuario» aveva detto il canonico.
Padre Farrell prese alcuni dischi, uscì agile dalla porta laterale, e trotterellò giù
dalla collina verso la canonica. Un gruppetto di giardinieri stava curando un olmo
olandese, che un tempo era stato rigoglioso e aveva ombreggiato il pendio della
collina, ma adesso stava morendo lentamente. Sebbene padre Farrell non avesse mai
visto l’albero nella sua stagione di floridezza, certi suoi vecchi parrocchiani ne
ricordavano i primi germogli.
— Buon pomeriggio, signori — disse padre Farrell rivolgendosi ai tre giardinieri.
— Pensate di poterlo salvare?
— Non si direbbe — rispose uno dei giardinieri. — È troppo vecchio.
— Peccato — disse il prete.
— Sì, padre, ma faremo del nostro meglio.
Padre Farrell continuò a scendere il pendio. Fra due settimane avrebbe celebrato la
sua prima messa nella parrocchia e aveva convinto padre Raymond, il canonico, che
un po’ di musica rock avrebbe indotto più ragazzi a partecipare. In seminario i
sacerdoti più giovani dicevano che la chiesa stava perdendo terreno. E il vecchio Bill
Raymond non era stupido. «Se volete che i giovani vengano in chiesa, non ci sarebbe
niente di male a celebrare una messa di sabato, una messa apposta per loro» aveva
detto padre Raymond.
Perciò, quando Michael Farrell propose un tantino di rock: My sweet Lord di
George Harrison, Let it be dei Beatles, e Precious angel di Bob Dylan, padre
Raymond aveva chiesto di sentire le canzoni. Il nome di Dylan non gli era nuovo, ma
non conosceva quello di George Harrison. Padre Farrell gli aveva risposto che era un
ex Beatles. Il curato, un po’ tedioso e più devoto alla gerarchia ecclesiastica che alla
sua congregazione, accolse il suggerimento di padre Farrell con costernazione. Che
cosa avrebbe detto la gente? Non erano per caso di quei musicisti che si
paragonavano a Gesù Cristo? Farrell lo aveva rassicurato. Padre Raymond aveva
acconsentito gentilmente ad ascoltare le canzoni, non ultimo perché padre Farrell
avrebbe ascoltato le sue prime confessioni prima della messa del sabato seguente, e
qualunque cosa potesse attirare i giovani al confessionale era benvenuta.
Padre Farrell scese allegramente i gradini di pietra e ardesia fino alla porta bassa
della casa del curato, dove fu costretto ad abbassare la testa per poter entrare. Era alto
più di un metro e ottanta, e doveva sempre fare attenzione alla testa. Quando la casa
era stata eretta, all’inizio del secolo, la gente doveva essere di statura molto più bassa.
Sulla soglia, padre Farrell ebbe la sensazione che un giorno anche lui sarebbe
diventato curato, che in cinque o sei anni avrebbe avuto la sua parrocchia e avrebbe
fatto la sua ascesa nella gerarchia ecclesiastica. Avrebbe riportato il gregge alla
chiesa. I bigotti non sarebbero mai scomparsi, la loro stessa esistenza provava quanto
la gente fosse avida di una fede in qualcosa, provava quanto disperatamente la gente
anelasse a un fine supremo. Padre Farrell, in fondo, non era convinto che la Chiesa
cattolica potesse soddisfare le aspirazioni dei fedeli. In seminario aveva visto più
preti ubriachi di quanto avesse mai potuto immaginare, e aveva constatato come la
fede conducesse inesorabilmente all’alcolismo.
Padre Raymond lo accolse alla porta e lo introdusse nell’elegante soggiorno della
canonica. C’erano due divani stile Impero, di cuoio marrone, disposti l’uno davanti
all’altro, in mezzo c’era un tappeto iraniano, dono di due vecchie beghine che
avevano elargito alla chiesa più denaro di chiunque altro. Le loro donazioni erano
state spese in mobilia per la casa di padre Raymond. Le due vecchie si intrattenevano
spesso con il canonico e ciò aveva conferito loro un grande prestigio agli occhi dei
parrocchiani.
— Come stai, Mike? — domandò il curato.
— Benissimo. Vi ho portato quei dischi. Penso che li troverete idonei.
— Ho intenzione di ascoltarli, ma voglio anche dirti che mi fido di te, Mike. Ti
senti pronto ad ascoltare le confessioni?
Padre Farrell tirò un respiro.
— Credo di sì, padre, ma devo aggiungere che in questi giorni mi sono sorti
parecchi dubbi.
— Dubbi? E di che genere?
— Oh, sapete, la solita storia. Il mio ruolo nella chiesa Il diritto di concedere
l’assoluzione per i peccati.
La faccia coperta di venuzze rosse del curato si illuminò di un sorriso
condiscendente. Passò le dita magre tra i folti capelli grigiastri. La sua cotta e la
casula verde erano appoggiate sulla spalliera della sedia, dietro la scrivania, ma
indossava ancora l’abito talare.
— Mike, è questo il mestiere del prete. Fede e dubbio. Questo lo sai. La fede
implica il dubbio. La fede ha bisogno del dubbio. Diventerai un buon sacerdote,
Mike. Adesso ascoltiamo queste canzoni.
Il curato si avvicinò allo stereo, al lato opposto della stanza. L’immagine di Gesù
Cristo proteggeva il mobiletto. I componenti dello stereo, dono di un parrocchiano
proprietario di un negozio di apparecchiature HiFi, erano i migliori: colonne Boze,
amplificatore Marantz. Spesso si udivano diffondere le cupe note dei corali di Bach e
le noiose sinfonie di Elgar.
Quando padre Raymond era un po’ brillo, alzava il volume a un livello assordante.
Il curato estrasse dalla copertina uno dei dischi di padre Farrell, lo sistemò sul
giradischi e sollevò il braccetto.
— Questo Dylan è un ebreo, vero? — chiese padre Raymond.
— Ma si è convertito — rispose padre Farrell sorridendo. — Sarà un servizio
molto ecumenico.
— Certo. Allora...
Il curato notò il sorriso di padre Farrell, lo ricambiò e abbassò il braccio del
giradischi. Sedette vicino agli altoparlanti aggiustandosi la tonaca. La voce di Bob
Dylan cantò: — ... per dimostrarmi che ero accecato, per dimostrarmi che ero
perduto... — Il volume era altissimo.
— Molto carina — commentò padre Raymond. — Mike, vuoi tenermi compagnia
per un bicchierino di sherry?
— Con piacere — gridò padre Farrell.
Padre Raymond versò lo sherry e alzò ancora il volume. Questo rivelò a Michael
Farrell che Bill Raymond non era soltanto un po’ alticcio, ma anche maledettamente
vicino alla sordità.
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Chi e come? Alex Burgess si immerse nuovamente nella lettura degli schedari e
formò una squadra. Aveva già parlato telefonicamente con Toby Morrison, il quale
aveva un fiuto superiore al suo circa il comportamento dei terroristi. Al Sanford, se
disponibile, sarebbe stato l’uomo adatto per le ricerche. Aveva bisogno anche del
dottor Beckel, uno degli psichiatri del Bureau. Alex aveva già mandato la lettere a
Buck Weston, per l’analisi della struttura delle frasi. Cristo, Weston era un
rompiscatole con la sua collezione di armi e i suoi monologhi maniacali, ma se
veniva isolato in una stanza, con i suoi computer e nastri magnetici zeppi di note su
rapitori, assassini potenziali e scassinatori di banche, cambiava completamente,
diventando il lucido professionista che era.
La lettera era stata inviata anche alla sezione che si occupava del prelievo delle
impronte digitali e dell’analisi della carta. Era improbabile che ci fossero impronte,
era la fotocopia di una lettera, forse una Xerox, e se il mittente aveva preso quella
precauzione, allora doveva essere stato anche abbastanza accorto da usare i guanti.
Alex guardò ancora la fotocopia sulla scrivania.
Il passato torna puntuale. Avete una settimana per chiudere gli impianti nucleari.
Tutto deve essere fermato. Sappiamo che questo richiederà tempo. Se non inizierete
subito verremo a saperlo. Lo esige l’onore e il dovere. Quattro figli moriranno. E poi
migliaia. Iniziate subito.
Era la più strana lettera minatoria che Alex avesse mai visto. E ne aveva viste a
centinaia. Dei palestinesi, delle Brigate rosse, della Baader-Meinhof, e quelle più
caserecce, con minacce di morte ai presidenti americani. Tutte le esperienze di Alex,
come legale, agente dell’FBI, studioso di criminologia, lo avevano educato al
pensiero razionale. Quando si ha a che fare con i pazzi, qualche volta non si prende in
considerazione che non sono per niente razionali. Certamente lo sono a modo loro. La
loro logica personale spesso è incredibilmente stringente. Sono i loro sistemi a essere
irrazionali. «Per me» pensò Alex «il rosso è rosso, per loro il rosso è blu, e uno più
uno per me fa due, per loro cinque, sei o undici.»
Quello che rimaneva da fare era scoprire la loro logica, così li superavi di un passo,
perché loro non capivano la tua.
La lettera era arrivata un’ora prima, esattamente alle undici e tre minuti, dalla
Commissione per il regolamento nucleare. Una segretaria l’aveva aperta nel corso
della mattinata e l’aveva tranquillamente aggiunta alla pila della corrispondenza del
pubblico. Due ore più tardi, nella normale operazione di smistamento, un impiegato,
addetto all’inoltro della corrispondenza alle divisioni del dipartimento relazioni
pubbliche, l’aveva notata soprattutto perché il foglio non riportava i saluti, la firma e
l’intestazione, ma soltanto cinque righe dattiloscritte nel mezzo.
La direzione aveva inoltrato la lettera ad Alex dieci minuti dopo che era stata
recapitata all’NRC. Prima domanda: è autentica? Centinaia di rompiscatole
spedivano lettere quotidianamente. «Sparerò al Presidente», «Farò saltare il
monumento a Washington», «L’armata popolare è pronta a combattere. Fate
attenzione». La maggior parte erano innocue, ma quando qualcuno minaccia di
uccidere il Presidente, o di compiere un attentato dinamitardo in città, bisogna
quantomeno prestargli attenzione. Proprio questa era la ragione per cui quei pazzi
spedivano lettere. Volevano attirare l’attenzione. Volevano che si desse loro la
caccia, volevano godere il loro momento di fama. «Prestateci attenzione» gridavano.
E bisognava farlo.
«Ma non questo» pensò Alex. Normalmente i terroristi tendevano alla grandiosità,
nelle loro minacce. Si fregiavano di nomi e simboli particolari. L’uso degli slogan,
per i terroristi, è fondamentale. «L’America deve pagare il prezzo delle sue colpe
verso l’umanità.» Questo tipo di cose si identificava con uno stato mentale alla Robin
Hood. Si ergevano a liberatori, a difensori degli oppressi, degli innocenti. Erano
sempre difensori di qualcuno.
Ma non questo. Niente slogan, nessun nome di battaglia, non difendeva nessuno e,
cosa più importante, nessuna traccia implicita da seguire. C’era ben poco che potesse
condurre a chicchessia.
Sentendo bussare, Alex alzò lo sguardo e vide Toby Morrison sulla porta. Toby era
un toro, grande, grosso e gentile, con capelli biondo-sabbia, e occhi nocciola da cane
bastonato, un finto tonto, apparentemente incapace di ragionamenti seri. Ma Toby era
stato a Oxford, era un agente formidabile, un uomo d’azione, un agente segreto che il
dipartimento di Stato spesso metteva a disposizione di governi stranieri. Se Hoover
fosse stato ancora in vita, nessun agente sarebbe mai stato ceduto al dipartimento di
Stato, ma ora, con la tacita approvazione del Congresso, per Toby erano state fatte
delle eccezioni. Nel giro di due anni, gli israeliani, i francesi, e con la massima
precauzione i sauditi erano ricorsi alla sua mente perspicace. Era considerato il
miglior interprete, a parte il dipartimento psichiatrico, della psicologia terroristica, e
in pratica aveva le mani in pasta,in tutti i casi potenzialmente seri. Quella mattina,
Alex aveva richiesto la sua collaborazione, perciò Toby aveva in mano una copia
della lettera.
— Hai già avuto il risultato dell’analisi delle frasi?
— No. Buck ci sta lavorando sopra.
— Pensavo che Buck non ti piacesse.
Alex sogghignò.
— Piacermi? Ma è il mio collezionista di armi preferito! Lo sto proponendo per il
premio Idiota dell’anno, dell’Associazione nazionale armi da fuoco. Pensi che troverà
qualche indizio?
— No, non troverà niente. E penso che dovresti dire al tuo direttore di non
preoccuparsi troppo. Questa lettera sembrerebbe una bravata, uno scherzo.
Alex si alzò, andò a piantarsi davanti alla finestra e squadrò la figura imponente di
Toby Morrison.
— Tu dici, Toby? Lo pensi veramente?
— Sarà un’impressione. Qui non c’è niente che quadri, nessuna delle solite
cavolate a sensazione. Qualche imbecille pensa che noi fermeremo i reattori nucleari,
intimoriti da uno scherzo. Sebbene, devo ammetterlo, questo «onore e dovere» mi
preoccupi.
Quel che preoccupava di più Alex era quello che disturbava meno Toby. «Forse»
pensò Alex «questo è il punto debole di Toby. È esperto di terrorismo politico,
conosce la mente del fanatico, non quella del pazzo isolato. A dispetto di qualsiasi
suggerimento la lettera potesse implicare, Alex si stava affidando ai messaggi del suo
sesto senso. Stava obbedendo alla stessa intuizione che dice: «Chiudi i finestrini
dell’auto, pioverà». E questa volta l’intuizione gli diceva: è una minaccia seria,
contaci. «Chiamalo istinto» pensò Alex. «Chiamala superstizione o intuizione.
Chiamala come ti pare, ma non sbaglio quasi mai, e questa volta ho ragione io.» Alex
era convinto che bisognava prendere in seria considerazione quella lettera, perché, da
qualche parte, chissà dove, uno squinternato, dissociato, con acqua al posto del
cervello, si preparava a uccidere qualcuno.
«No, non acqua» pensò Alex. «Probabilmente è una persona intelligente. “Quattro
figli moriranno”. D’accordo, bastardo, quali bambini hai in mente di uccidere? E
quando? E come posso fermarti?»
— Toby, non sono d’accordo. Ho la sensazione...
— Tu e le tue sensazioni. L’ultima volta che ne hai avuto una, ci ha portati da un
discolo quindicenne che odiava la sua insegnante di geometria.
— Non zappettare troppo — disse Alex, pensando che anche in quella circostanza,
che risaliva a più di un anno addietro, avrebbe potuto avere ragione. Il ragazzo
avrebbe potuto benissimo uccidere l’insegnante.
— Te lo dico io, Alex. Non vorrai mica perderci sopra del tempo, no? Sarebbe
assolutamente stupido.
— Toby, esaminiamo un momento la faccenda. Che cosa abbiamo in mano? Uno,
abbiamo il timbro postale. San Francisco. I nostri esperti dicono che potrebbero
localizzare la cassetta postale... E abbiamo un campione di carta. Dovremmo scoprire
chi la fabbrica e chi l’ha ordinata.
— Normalissima carta Xerox. Potrebbe essere chiunque.
— Errore! Sembrerebbe di grandezza particolare. Forse un grosso quantitativo
lavorato per una determinata azienda.
— Ma niente filigrana — precisò Toby.
— E le parole, Toby? «Onore e dovere»?
— Ammetto che mi danno pensiero, e anche la storia dei bambini che moriranno.
Ma Buck non riscontrerà quella frase nel suo computer. E nemmeno «il passato torna
puntuale». In questa lettera non c’è una sola sequenza di parole che lui possa trovare.
— E questo non ti preoccupa?
— Alex, noi possiamo occuparci soltanto delle questioni serie. A che serve buttarsi
a testa bassa in questa faccenda finché non c’è qualcosa di più specifico?
Alex alzò le spalle.
— Ci sarebbe la macchina da scrivere.
— IBM — ribatté Toby. — Una Selectric. Praticamente impossibile da
rintracciare. Oh, io affiderei tutto ai vari specialisti, ma non ne ricaveremmo niente,
credimi. Tra l’altro, non abbiamo elementi per fare alcuna supposizione. I normali
terroristi non scrivono lettere del genere.
Alex ebbe uno scatto e quasi rovesciò la sedia.
— Ma Toby, questo è il punto. Quest’uomo...
— O donna...
— D’accordo... o donna... Comunque, non è il solito terrorista. Guarda qui: «Il
passato torna puntuale». Allora, che diavolo significa? Il tipo nutre rancore.
«Sappiamo che questo richiederà tempo.» Lui o lei, ha una certa conoscenza degli
impianti nucleari. «Quattro figli moriranno.» Che diavolo di minaccia sarebbe mai
questa? Questo tizio ucciderà qualcuno, Toby. Non ci dice chi, ma ci dice perché.
Qualcosa in relazione al passato. E riesci tranquillamente a ignorare quel: «E poi
migliaia»? Come farà a uccidere migliaia di persone? E perché? Ora, dannazione, non
puoi ancora venirmi a dire che questa lettera non rappresenta una minaccia seria.
— Quello che sto dicendo io — precisò Toby — è che non si identifica con
nessuno schema. E noi li abbiamo tutti. Abbiamo esaminato tutti i casi stravaganti
alla ricerca di qualche indicazione. Credo che non ci resti più niente da fare finché
non troviamo un indizio, uno qualsiasi. Che dicono gli psichiatri?
— Ancora niente — rispose Alex. — Il che significa che non ci stanno nemmeno
lavorando.
— Hanno parecchio lavoro da sbrigare — disse Toby. Non si era ancora spostato
dal vano della porta. Piegò la lettera e se la mise in tasca con noncuranza. —
Facciamo conto per un attimo che tu abbia ragione — proseguì Toby — e potrebbe
anche essere. Tu pensi che l’autore di questa roba agirà in fretta e di conseguenza
anche noi dovremmo sbrigarci. Chi vorresti? Intendo a tempo pieno.
— Tu, Buck, Al Sanford, del Nucleo investigativo speciale, Chuck Torrance, delle
Ricerche. E uno degli psichiatri, Beckel, se disponibile.
— Io non posso, non a tempo pieno. Ho sette casi aperti.
— E Buck? E Sanford e Torrance?
Morrison sorrise.
— Sei cocciuto, un sognatore con la testa di rapa. Tu e le tue intuizioni. Torrance
puoi averlo a tempo pieno. Farò una scappata da Beckel e gli dirò di leggere la
lettera. Sanford sta lavorando a Huston, credo. Me ne accerterò. Forse potremmo
richiamarlo qui. Buck è occupato con le nuove apparecchiature, e con alcuni elementi
che seguono un corso di perfezionamento, ma proverò a sganciarlo. Va bene?
Tienimi informato.
Toby se ne andò e Alex buttò sulla scrivania la sua copia della lettera. Il foglio,
piegato a metà, planò tra il portacenere e il telefono. Alex accese una Lucky Strike,
aveva ricominciato a fumare e bere caffè in grande quantità. Valutò l’importanza che
la lettera stava assumendo nella sua mente. Più ci pensava e più assimilava il
messaggio, e più ne era scombussolato. Il fanatismo era evidente, eppure esposto in
chiave discreta. Una lettera volutamente pacata. Prese una palletta di plastica
regalatagli da Jill, e cominciò a palleggiarla avanti e dietro, girando attorno alla
scrivania. «Ho bisogno di camminare» pensò. Ma fuori il caldo era opprimente, e
Alex vedeva i turisti in Pennsylvania Avenue maneggiare le macchine fotografiche e
sudare copiosamente.
«Me ne frego» concluse. «Mi faccio una corsa.» Portò la sacca da ginnastica giù
nell’atrio e si infilò la tuta. Non era consentito farsi vedere così vestiti nei corridoi del
Bureau, ma non era dell’umore giusto per scendere in palestra e sentire le chiacchiere
dei giocatori di palla a mano.
Attraversò trottando lo spiazzo antistante l’edificio e uscì sulla strada. Il sole era
alto nel cielo, e il marmo bianco della nuova ala della Galleria nazionale – i triangoli
intersecati progettati da I.M. Pei – abbagliava nella luce di mezzogiorno.
A metà strada dal Campidoglio, cominciò a pagare il prezzo delle troppe sigarette
fumate. «Hai trentacinque anni» si disse sorridendo. Il tempo delle notti brave, delle
energie senza fine era ormai alle spalle. Una moglie, un divorzio, la carriera, lo
avevano logorato più di quanto avesse creduto.
Si fermò a un semaforo, poi continuò salendo la collina del Campidoglio. «Nelle
alte sfere» pensò «ci saranno delle lamentele se impegnerò troppa gente per questa
lettera. Bisogna agire secondo la prassi normale, se non salta fuori niente, accantona
tutto e aspetta. Metti in allarme gli impianti nucleari e lascia che se ne occupi
l’NRC.» Ma Alex era sicuro, come lo era di qualsiasi altra cosa in quel periodo, che
chiunque avesse scritto quella lettera, aveva intenzioni serie.
Trovò un po’ d’ombra vicino al Rayburn Bulding e ringraziò l’Agenzia
governativa per il mantenimento dei giardini e degli alberi. La luce del sole filtrava
tra le foglie in brevi raggi vividi, ipnotizzandolo mentre correva.
«Alex» si disse «rideranno di te. Se inneschi questo caso, si parlerà in giro di quei
sapientoni di avvocati, di quelli che hanno fatto la gavetta nel Bureau investigativo e
che perdono tempo con le cavolate. Mi pare di sentirli sbraitare pomposamente
rimproverandomi di aver sbagliato tutto. Perché quella maledetta lettera è soltanto
uno scherzo senza significato, immeritevole di qualsiasi attenzione.
«No, non è uno scherzo. Quest’uomo ci sta dicendo qualcosa.»
Alex meditò sulla maniera di dirlo al capo. Webster, per quanto ne sapesse lui, era
il miglior direttore del Bureau. Di gran lunga migliore di Hoover. Per niente stupido,
assolutamente sensato. Gli agenti anziani lo avrebbero ucciso su due piedi se avesse
insinuato che Hoover non era un vero Dio nell’applicazione della legge, perfino dopo
tutto quello che era venuto a galla dopo la sua morte. Hoover era stato il loro
monarca, la sola cosa che potessero fare, era gridare: «Lunga vita al re».
«Webster mi darà ascolto» pensò Alex, aggirando ansimante il Campidoglio e
dirigendosi verso l’Hoover Building. «Mio Dio, come hanno potuto dedicargli questo
stabile. E come fanno a non cambiargli nome, considerando quello che si è venuti a
sapere del vecchio eccentrico.»
Non c’era dubbio. Dietro quella lettera si nascondeva un uomo deciso, sincero,
scatenato, assolutamente pazzo.
«D’accordo, è folle» pensò entrando affannato nel piazzale dell’edificio,
travolgendo quasi un boy-scout mentre scendeva a precipizio la gradinata.
«D’accordo, tu esisti, lo so, ti credo. Tu esisti e io ti troverò.»
Si arrestò con il fiatone davanti a un posto di controllo in fondo al piazzale. Il
cuore gli balzava in petto, la tuta felpata era fradicia, e le suole delle scarpe da
ginnastica stridevano come pneumatici sull’impiantito. Sebbene gli agenti di guardia
lo avessero indubbiamente riconosciuto, verificarono ugualmente il suo tesserino e
registrarono il suo ingresso.
Toby Morrison gli venne incontro nel corridoio del suo ufficio, con un muto
sorriso bovino.
— Si è appena aperto uno spiraglio, Alex. Abbiamo l’originale della lettera.
L’hanno ricevuta quelli della Seashell, e per giunta, sulla copia dell’NRC ci sono
delle impronte. Non un granché, tuttavia impronte.
— Probabilmente, non significa un bel niente — disse Alex, inespressivo, appena
ripreso fiato. — Tu conosci le teste di rapa visionarie e le loro intuizioni.
Quando la lettera arrivò al quartier generale della Seashell, Lenny Horan aveva
appena terminato i piani per l’organizzazione di una imponente manifestazione in
Florida. Negli impianti nucleari del sud dello stato si erano verificate fuoriuscite di
materiale radioattivo, per la seconda volta in un mese. L’opposizione all’energia
nucleare era vivace più che mai. Niente scuoteva la popolazione più di un incidente in
un impianto nucleare.
Per quelli della Seashell Alliance, era stata un’annata dura. Il capo dell’ufficio di
Boston, un compagno di scuola di Lenny, si era dimesso perché aveva bisogno di
incrementare i suoi guadagni: «Ho due bambini, Lenny, che posso fare?» Aveva
accettato di lavorare per la Common Cause, che aveva un mucchio di denaro, frutto
dei complessi di colpa della gente, e quindi poteva permettersi salari ragionevoli. Un
organizzatore della Common Cause arrivava fino a venticinquemila dollari, mentre i
membri meglio retribuiti dell’Alliance arrivavano sì e no a quindicimila.
Ma con gli incidenti in Florida, il denaro aveva cominciato immediatamente a
fluire di nuovo, inoltre i candidati alla presidenza potevano difficilmente ignorare la
possibilità di una catastrofe nucleare. I sostenitori dei candidati, sia repubblicani sia
democratici, avevano cominciato a protestare contro i fautori dell’energia nucleare.
Lenny Horan sapeva che l’energia nucleare era la più grande minaccia al genere
umano, dai tempi della peste. Era possibile rendere sicura l’energia nucleare, ma la
soluzione era lontana di almeno vent’anni e nel frattempo la sicurezza degli impianti
era affidata alla fortuna.
Questi erano i suoi pensieri mentre organizzava la dimostrazione. I costi della
pubblicità e degli spostamenti si sarebbero aggirati attorno ai sessantamila dollari, e
la Seashell avrebbe pagato interamente il conto. Manifesti. Stampati pubblicitari,
servizio di sicurezza privato, forse un paio di reti televisive. Quelli del posto non
avevano denaro per la contestazione, ma Lenny sapeva che il gioco valeva la candela.
Non sempre si può scegliere il momento e il luogo, e quando si presenta la possibilità
di sfruttare i grandi mezzi di comunicazione di massa, bisogna essere pronti.
A Washington, gli uffici della Seashell avevano sede in uno stabile fatiscente,
giusto alle spalle del Campidoglio, nella zona sudest della città. Le stanze al terzo
piano, nove cubicoli da claustrofobia, che un tempo qualcuno doveva aver adibito a
prigione per gli schiavi, erano ingombre di scatole di cartone, zeppe di cartoline
postali, liste per la raccolta di fondi, e adesivi pubblicitari. Sotto la Seashell, il Sierra
Club occupava tutto il piano, e Lenny stava andando a un appuntamento per il pranzo
con uno dei rappresentanti della Florida, allo scopo di chiedergli una mano. Mentre
usciva, Ella Hufstedler, la sua direttrice volontaria, lo fermò.
— Lenny, sarebbe opportuno che tu dessi un’occhiata a questa, prima di andartene.
— Di che si tratta?
— Leggila, Lenny, ti prego.
L’indirizzo sulla busta non era esatto, ma l’ufficio postale era riuscito a farla
pervenire lì. Non era indirizzata a qualcuno in particolare, semplicemente alla
Seashell Alliance.
Lenny estrasse la lettera dalla busta già aperta, chiedendosi perché Ella fosse così
preoccupata. «Il passato... Avete due settimane per chiudere...»
Scorse le frasi senza eccessivo interesse. Una stupidata. Ma le stupidate erano
pericolose. Il movimento antinucleare era già abbastanza vulnerabile senza la nomea
di favorire gli estremisti. La prima cosa che gli venne in mente fu che un membro
dell’Alliance, qualcuno del loro indirizzario, avesse spedito la lettera. Chi altro
avrebbe potuto mandarla alla Seashell?
— Lenny, dovresti avvertire L’NRC. E forse anche l’FBI.
— Per favore, Ella, telefona giù e chiedi se possono ritardare il pranzo di una
ventina di minuti. Non accennare alla lettera, d’accordo? Voglio parlare con Gene.
L’idea di avvertire la Commissione per il regolamento nucleare o l’FBI, non
attirava Lenny Horari. «Penseranno che sia stato uno dei nostri e se ne serviranno per
danneggiarci. Buon Dio, probabilmente è proprio uno di noi.» Inciampò in un cartone
di tazze da caffè con su scritto FRAGILE in colore blu fluorescente, ed entrò
nell’ufficio di Gene Epstein. Questi, a Washington, era il solo avvocato che lavorasse
stabilmente per l’Alliance. Gli altri erano tutti volontari. Epstein aveva rinunciato a
una buona posizione presso uno dei più prestigiosi studi legali di Washington, e non
solo alla posizione sicura, ma anche a metà del suo salario. Era a Epstein che Lenny
Horan si rivolgeva ogni qual volta aveva bisogno di un consiglio sulla strategia
dell’organizzazione o sulle dispute con l’ufficio di Boston, ed era Epstein, con la sua
calma, che riusciva sempre a trovare un compromesso.
Quando Lenny entrò, Epstein stava telefonando.
— Prima di tutto viene la questione delle libertà civili — stava dicendo in tono
confidenziale. — Il diritto alla contestazione è indiscutibile. Ebbene, Jerry, io ti
capisco, ma devi farlo capire a quegli zotici piedipiatti. Non voglio che ci vada di
mezzo nessuno, ma la dimostrazione si farà. Fai un salto all’ufficio del governatore.
Vai... D’accordo, quando sai qualcosa chiamami. Un bacio a Candy.
Ripose il ricevitore sulla forcella.
— In Florida, la Guardia nazionale vuole...
Horan lo interruppe.
— Gene, questa è arrivata con la posta.
Gli tese la lettera da sopra la scrivania. Gli occhi di Gene Epstein si mossero rapidi
sulla pagina. A metà lettura lasciò cadere il foglio.
— Chi altro l’ha vista?
— Ella e io. Che stai...
— L’ha toccata qualcun altro?
— No, ma che vuol dire?
— Impronte digitali.
— Gene, perché è arrivata a noi? Se qualcuno del movimento... Dio, Gene, mi fa
orrore soltanto pensarlo.
Gene Epstein si appoggiò comodamente allo schienale della sedia. La faccia
segnata, dura, trasfigurava la sua giovinezza. Quando cominciò a massaggiarsi le
tempie con la punta delle dita, sembrò più vecchio dei suoi trentacinque anni.
— Non speculare troppo, Lenny, ti farai venire l’ulcera. Potresti averla ricevuta per
cento ragioni diverse. Ho un amico che lavora per Bill Webster. Penso che
dovremmo...
— Oh no, Gene. Non l’FBI. Non aspettano niente di meglio per affibbiarci
l’etichetta di gente pericolosa.
— Sei un paranoico Lenny. Non senza ragioni, lo ammetto, ma dobbiamo parlare
all’FBI. Non credo che si tratti di uno scherzo, e in ogni caso non spetta a noi
deciderlo. Se poi fosse stato uno dei nostri, ebbene, dobbiamo scoprirlo e subito.
— Ma Gene, se finisse alla stampa, il movimento...
— Lenny, il movimento è in condizioni migliori di quanto tu creda. Ma se un
coglione fa saltare un reattore nucleare, puoi dare addio a ogni cosa, a tutto il
consenso popolare che ci siamo conquistati. Per non parlare della strage di centinaia
di migliaia di persone. Vuoi chiamarlo tu l’ufficio di Webster, o preferisci che lo
faccia io?
Lenny Horan diffidava profondamente dell’FBI. Negli anni Sessanta avevano
aperto delle inchieste su di lui, dalle quali era riuscito a liberarsi soltanto dopo due
processi. Quando uno subisce tanti processi, diffida dell’intero governo federale, dal
Presidente al direttore dell’FBI, fino all’ultimo burocrate del sistema.
— Gene, se consegneranno questa lettera alla stampa e diranno che proviene dal
nostro ufficio, lo sai che cosa penserà la gente?
— E che penserà la gente — ribatté Epstein — se fingeremo di non averla mai
ricevuta e qualcuno scoprisse il contrario?
Lenny vagliò la possibilità.
— Va bene, chiama il tuo amico, ma vedi se possono lasciarci estranei a questa
faccenda. E di’ loro che non hanno bisogno delle mie impronte, le hanno già.
Horan scappò per recarsi al suo appuntamento. Epstein alzò il ricevitore
augurandosi che nessuno, oltre l’FBI, controllasse le linee telefoniche.
La lettera anonima di cinque righe era stata sepolta sotto la consueta massa di
corrispondenza elettorale di Burt Britten. I cittadini arrabbiati, che manifestavano il
loro malumore contro la proposta di ridurre gli stanziamenti per la difesa, ne avevano
raddoppiato il quantitativo normale. L’incremento degli stanziamenti era dovuto
soprattutto ai gruppi di pressione delle industrie belliche e dei sindacati aerospaziali.
Era bastato minacciare una riduzione dello sviluppo missilistico e un calo delle
commesse alle industrie aerospaziali, per provocare una valanga di proteste. Molte
lettere erano copiate minuziosamente dai modelli forniti dalle lobby che avevano
interessi particolari da difendere. In ogni modo ciascuno si aspettava una risposta, e
tutti la ricevevano. Le segretarie aprivano tutta la corrispondenza, applicavano una
sigla in codice in alto, a destra dei fogli, e battevano la chiave del cifrario sulla
tastiera di una macchina da scrivere computerizzata che rispondeva automaticamente
alle lettere. «Grazie infinite per la vostra lettera» iniziava sempre quel genere di
risposta. «La vostra partecipazione alla vita democratica rende forte la nostra
nazione.» Alla fine della giornata si facevano i conti per sapere quante erano pro o
contro la politica di Burt e quanti erano genericamente avversi al governo. Infine, una
macchina riproduceva la firma di Burt sulla lettera da inviare ai suoi sostenitori. Burt
non approvava l’inoltro di queste migliaia di lettere impersonali a suo nome, ma
erano molte le cose che un parlamentare doveva fare senza approvarle. Doveva
seguire la procedura, altrimenti gli ingranaggi del potere lo avrebbero stritolato.
Tutta l’attività di disbrigo della corrispondenza era stata felicemente ignorata da
Burt. Una riunione con i dirigenti del partito gli aveva preso tutto il pomeriggio.
C’era stata una specie di schermaglia per il potere, e a Burt queste riunioni piacevano
tanto.
Burt tornò in ufficio con una gradevole sensazione di trionfo. Il suo ordine del
giorno riguardo ai lavori della commissione era stato approvato. Aveva ottenuto il
controllo dei voti di almeno sei comitati, e il presidente della Camera gli aveva fatto
le sue personali congratulazioni, con un lampo ironico negli occhi, definendolo un
«abile affarista». John Connally aveva dato una brutta intonazione a questo
appellativo, a metà tra lo scherzo e l’omaggio, e aveva accompagnato la parola con
una risata fragorosa. Burt non si era per niente sorpreso di riconoscersi vulnerabile ai
complimenti. Specialmente dopo settimane di accanito studio degli avvenimenti
politici, ore di telefonate, e dopo che gli sforzi per arginare. una perdita di voti a
Clovis, nel New Mexico, erano sfociati in un totale e brillante successo.
Il suo assistente amministrativo, un concittadino di nome Tharp Williams, si era
guadagnato tanto lustro quanto il parlamentare. Tharp aveva quattro anni di più di
Burt e aveva lavorato per diversi rappresentanti del Massachusetts durante gli ultimi
sei mandati.
— Un giorno diventerai un vecchio e rispettabile politico — disse Tharp, mentre
entravano nell’ascensore riservato del Rayburn Building. — È stata una delle più
abili manovre politiche che le assemblee di questa venerabile istituzione abbiano mai
visto. Chi l’avrebbe detto che in Parlamento si ottiene qualcosa soltanto con il
cervello?
— Non si tratta di cervello — ribatté Burt — ma di palle.
Si fecero una risata e quando varcarono la porta di mogano dell’anticamera
dell’ufficio di Burt, ridacchiavano ancora. Ma smisero di colpo vedendo la segretaria
di Burt che aspettava in piedi con una lettera in mano.
Il passato torna puntuale. Avete una settimana...
Lessero in silenzio, Tharp da dietro le spalle di Burt.
— Tharp, voglio sapere se l’ha ricevuta qualche altro parlamentare. Fiuta attorno
con discrezione.
Burt entrò nel suo ufficio e prese il telefono. Conosceva soltanto una persona che
si intendesse di questi deliranti eccessi di follia americana. E quella persona era Alex
Burgess.
14
Mitzu attese che la biblioteca aprisse. L’aria del mattino era di un fresco pungente,
ma quando i lavoratori cominciarono ad affollare Larkin Street, faceva già caldo.
Vicino a lui, nell’ingresso, un fotografo sembrava inquadrare una fontana nella piazza
antistante, con la sua Leica fissata al cavalletto. Dietro di lui, una ragazza con la coda
di cavallo gli diceva qualcosa sull’architettura Beaux-Arts, poi, con un rumore di
ferraglia, il portone fu spalancato.
Mentre percorreva il corridoio principale diretto alla sala delle consultazioni,
Mitzu ascoltava il ticchettio dei suoi tacchi sul pavimento di marmo. Li aveva
avvertiti e adesso doveva procedere secondo i piani. Pazienza e coraggio erano le doti
del guerriero.
Al termine del corridoio voltò ed entrò nella grande sala di lettura. Dietro al
bancone sedeva una donna anziana con i capelli bluastri e la faccia da sparviero.
— È possibile consultare le guide telefoniche?
— Sì — rispose la donna con un sospiro di noia. — Quali guide desiderate?
— Quelle di Huston, Los Angeles e Minneapolis.
La donna gli tese una cartolina verde.
— Mentre ve le prendo, per favore, compilate questa.
Mitzu prese una matita e guardò il rettangolo verde. Un intoppo imprevisto. «Non
importa» pensò «posso anche metterci il mio nome.» Poi vide una rivista con la foto
di Warren Beatty in copertina, e sullo spazio in bianco della cartolina scrisse: M.
BEATTY. Senza indugio aggiunse l’indirizzo dell’American General. La donna tornò
con le tre guide, timbrò la cartolina e spinse i grossi volumi sul bancone.
— Per favore, quando avete finito portateli qui.
Mitzu si accorse che osservava la sua valigetta. Le iniziali d’oro spiccavano sul
manico: M.N. Afferrò velocemente valigetta ed elenchi e si diresse a un tavolo vicino
al finestrone centrale. Cavò di tasca il ritaglio di giornale, poi prese un blocchetto di
carta giallognola dalla valigetta, e scrisse tre nomi. Il quarto, naturalmente, lo
conosceva e non aveva alcun bisogno del numero telefonico. Senza alcuno sforzo,
avrebbe potuto ottenere il tutto dal servizio informazioni dell’American General, ma
in un angolo del cervello, a livello inconscio, si era fatto strada il sospetto di poter
essere scoperto.
Potevano anche sorvegliarlo.
Controllò i suoi piani. Considerò minuziosamente i rischi e gli obiettivi che
intendeva raggiungere, come se stesse tracciando un grafico delle vendite. Prima i
nomi e i numeri.
Granelli di polvere volteggiavano nella luce del sole come il baluginio dell’acqua
in un bicchiere. Spiegazzando le pagine, sfogliò l’elenco. Sentì che la donna dietro al
bancone,lo fissava. Fu tentato di guardarsi alle spalle, ma continuò a voltare le
pagine. «Ecco la B. Da Banner a Beaton. Beaton, Berman, Berno. La prossima
pagina. Born, cioè nato...
... con delle malformazioni che definirei mutilanti.
La voce del medico, una cantilena suadente, gli echeggiò nella mente. L’immagine
deforme, grottesca, del figlio, la gente dietro di lui, in corsia, le superfici luccicanti di
metallo e plastica, l’incubatrice e i tubi...
Quel corpo deforme era il suo corpo. Davanti ai suoi occhi comparve la propria
faccia unita al corpo del piccolo figlio maschio. Loro due erano un sol corpo, una sola
faccia, una sola ferita. Un solo spirito, lo...
... spirito dell’antico Giappone, yamato damashii... ha abbandonato questa vita
fugace...
Bernower. Bernstein.
Qui. Berryman. Oscar Berryman Jr.
Copiò l’indirizzo e il numero telefonico; mise da parte l’elenco e prese quello di
Los Angeles sollevando altra polvere.
Pensò che avrebbe rinunciato alla vita per lo spirito dell’antico Giappone. Con
quell’idea tornò agli elenchi telefonici, sicuro delle sue azioni e della loro buona
riuscita.
Il centro-computer occupava 3.500 metri quadri, due piani sotto il livello stradale,
e poggiava su fondamenta indipendenti, studiate per resistere alle scosse di terremoto
fino a sette gradi e due della scala Richter. Naturalmente un terremoto di quell’entità
avrebbe distrutto l’edificio sovrastante, in Montgomery Street, ma i computer, i loro
programmi e i loro dati sarebbero rimasti indenni. Perfino se la terra si fosse aperta e
avesse inghiottito uomini e macchine, le sale dei computer, con le volte blindate e le
fondamenta di gomma porosa, avevano più del cinquanta per cento di probabilità di
non riportare danni significativi.
Era stato al centro-computer soltanto due volte durante l’anno precedente, e
quando varcò la soglia dell’ascensore fu immediatamente colpito dalla quiete
soprannaturale. Sui pavimenti imbottiti e coperti di moquette, non si udivano passi.
Non un’anima si muoveva nella lunga sala illuminata. Il raccoglimento, il silenzio
religioso, l’inviolabilità imperturbabile, il mistero, gli ricordavano un monastero
medievale.
Ripassò mentalmente le risposte a qualsiasi domanda avessero potuto rivolgergli i
programmatori. Sebbene avesse appuntato alla giacca il cartellino che lo autorizzava
a spostarsi ovunque nella fortezza della compagnia, e a qualsiasi ora del giorno, era
possibilissimo che qualcuno gli chiedesse il perché della sua presenza in quel luogo.
Specialmente quando avrebbe chiesto di conoscere i dispositivi di controllo e i piani
di difesa di due impianti dell’American Generai. Era tipico del comportamento dei
burocrati, dovevano rispettare le regole. «Proprio come me» pensò Mitzu. «Proprio
come me. Siamo tutti ottimi elementi della compagnia. Leali e fedeli. Io e la
compagnia siamo la stessa cosa.»
Aveva già pensato a una scusa plausibile per giustificare la sua presenza, inoltre
sapeva che i subalterni trattano i dirigenti con assoluta deferenza, perciò si sentì
perfettamente tranquillo. Attraversò le porte a vento, passò nel salone del terminale
centrale e tirò un respiro profondo. Predispose la mente a stampare un sorriso
innocente sulla faccia, e staccò il cartellino plastificato dalla giacca.
— Reparto? — chiese l’impiegato addetto al controllo.
— Vendite di impianti nucleari — rispose, esibendo il cartellino di
riconoscimento.
L’impiegato guardò la sua foto con scarso interesse, spinse quattro bottoni bianchi
e attese. Sullo schermo incorporato al tavolo dell’impiegato apparve il numero del
cartellino di Mitzu. Una cifra dopo l’altra, tre al secondo.
— Firmi il registro, prego — disse l’impiegato dopo aver completato l’operazione.
Firmò con un ghirigoro. «Bene» si disse «adesso sei dentro.»
— Grazie — concluse, ostentando il più distinto dei cenni di capo dirigenziali.
Passò attraverso le cellule fotoelettriche, due raggi che si incrociavano partendo dai
montanti di ferro. Consapevole di aver passato il controllo per le armi, gli venne in
mente quanto fossero puerili quei sistemi. Le informazioni custodite dai computer gli
avrebbero dato più potere della loro distruzione. Poteva anche essere vero quello che
aveva detto Mao, che il potere nasce dalla canna di un fucile, ma cos’era un’arma
rispetto all’informazione? L’informazione era il potere supremo.
La sala del terminale principale gli si parò davanti. Sopra di lui c’era una balconata
rivestita di pannelli di legno verniciati in bianco, un ulteriore tocco di stile moderno.
Era stato ideato da Nancy. Lei aveva anche scelto i materiali. Giganteschi IBM e
selezionatrici si innalzavano fino al soffitto. Mitzu attraversò la sala verso un banco
IBM Serie 7000, dove gruppetti di programmatori estraevano schede perforate man
mano che si srotolavano dalle stampatrici dei computer. Si udiva il picchiettio dei
denti di arresto sulla carta. Mitzu passò accanto a loro con naturalezza e andò dritto
verso gli schedari dei codici di programmazione.
In pochi secondi trovò quello che voleva. Erano necessarie quattro operazioni
separate. Prese i codici di programmazione e cominciò a salire la scala della
balconata.
Non gli avevano rivolto alcuna domanda. Nessuno aveva cercato di sapere perché
fosse lì.
Una volta quella sala gli aveva ispirato rispetto. Il lavoro della compagnia, degli
uomini e donne che avevano creato quella grande azienda, un tempo gli era sembrato
che promettesse innumerevoli benefici per il genere umano. E innumerevoli profitti
per l’American Generai. Ma adesso, salendo quella scala, tutto ciò non aveva più
alcun valore. L’American Generai, la sua produzione, la sua gente e nemmeno i
pretesi benefici per il genere umano.
«Onore e dovere. La giusta strada da seguire nella vita. Lo spirito dell’antico
Giappone.»
Queste erano le cose che contavano al momento.
Afferrò la ringhiera, la luce...
... nel cielo bianco, accecante... il suolo tremava... una nube di polvere e una
imponente nube grigia...
Gli schedari al suo fianco ruotavano verso il quadro dei comandi. Aveva le mani
sudate, il cuore gli batteva tumultuosamente, e si sentiva la bocca secca. Allentò la
presa sulla ringhiera e procedette lungo la balconata. Tavoli bianchi, come i cubi dei
giochi per bambini, erano affiancati in una lunga fila. Al terminale principale operava
una donna abbronzatissima, con i capelli biondi e soffici che le ricadevano in riccioli
sulle spalle; le sue mani scorrevano silenziosamente sulla tastiera: era così
somigliante a Nancy, una rassomiglianza davvero sorprendente, che quando alzò lo
sguardo su di lui, Mitzu fu sul punto di chiamarla per nome.
— Sezione, prego — disse la donna.
— Vendite di impianti nucleari — rispose Mitzu, tendendole il codice di
programmazione.
La donna guardò la scheda di plastica.
— Questo è materiale segreto lo informò.
— Sì, lo so. Devo partire per incontrare i tecnici di queste centrali e voglio
familiarizzarmi con i progetti degli impianti. Capite, per mostrare ai clienti che
conosciamo i loro problemi.
Gli rivolse uno sguardo dubbioso, ma Mitzu conservò il suo sorriso forzato.
— Be’... — batté la scheda sul palmo della mano — dovrei avere
un’autorizzazione. Dovrei chiamare di sopra.
— Naturalmente. Chiamate Ed Stone. Gli parlerò io.
— Non è necessario arrivare a tanto.
— Mi fa piacere parlargli — insisté Mitzu — se avete la compiacenza di passarmi
il telefono.
Aveva impresso alla voce una vaga freddezza, il tono brusco dell’uomo importante
che crede nella democrazia e che vuole seguirne le regole, ma che è già stato
infastidito più del dovuto.
La donna abboccò.
— Oh no, non ha importanza. Sono certa che è tutto in regola. Per questa richiesta
ci vorranno pochi minuti, ma ce ne sono quattro prima della vostra. Dove vi mando i
risultati?
— Aspetterò — disse Mitzu, e senza aggiungere altro si sedette davanti al tavolo
della donna.
Lei sostenne il suo sguardo per una frazione di secondo, quasi rifiutando
quell’imposizione, ma Mitzu non batté ciglio, e lei passò il codice di plastica
all’operatore che le stava alle spalle.
Mitzu accavallò le gambe e aggiustò le pieghe dell’abito ricordando a se stesso la
sua condizione.
«Mi hanno addestrato a essere efficiente» pensò. «Mi hanno addestrato molto
bene.»
La riunione era durata tre ore e alla frase conclusiva di Ed Stone, uno scroscio di
applausi si levò dal tavolo delle riunioni.
— Bene, aspetteremo con ansia i vostri rapporti — disse Stone. — È stato un
periodo di enorme successo per tutti noi e stiamo progredendo con grande slancio.
Voglio che voi tutti sappiate che sono soddisfatto del vostro lavoro e apprezzo i vostri
sforzi. Raggiungiamo i nostri clienti e dimostriamo loro cosa vuol dire una buona
assistenza. Facciamogli vedere che abbiamo delle grandi capacità. Dimostriamo che
siamo all’avanguardia e che intendiamo rimanervi.
Mitzu e gli altri nove uomini si alzarono in piedi. Malgrado il cameratismo, Mitzu
non aveva fatto caso né al discorso enfatico, né ai consigli di Stone e neppure alle
domande dei colleghi dirigenti. Niente di tutto ciò aveva aperto il velo che offuscava
la sua mente. Gli ossessionati non si lasciano facilmente distrarre. Era concentrato
sulla sua missione privata. Tutti, in particolare Stone, avevano notato il riserbo di
Mitzu, ma lo capivano. O credevano di averlo capito. La sua tragedia familiare. Chi
poteva fargliene colpa?
— Ehi, Mitch — gli disse un collega mentre uscivano. — Ho saputo del tuo
bambino. Sono davvero spiacente.
Mitzu borbottò una risposta cortese e alcuni altri gli rivolsero parole di cordoglio.
Il cicalino di uno dei citofoni di Stone squillò. Mitzu lo guardò rispondere.
— Sì, Marie, chi? L’FBI? Minacce? Nessuna che io sappia... Bene, chiama
Stoddard e digli di mettersi in contatto con me. D’accordo, subito. Sarò lì tra un
minuto.
Si fece largo tra i suoi collaboratori per guadagnare l’uscita, ma Mitzu lo fermò
posandogli una mano sulla spalla.
— Che è successo?
— L’FBI — rispose Stone, scuotendo la testa incredulo. — Vogliono sapere se
abbiamo ricevuto qualche minaccia riguardante i nostri impianti. Hanno parlato
stamani con il presidente. Probabilmente si tratta di qualche gruppo ecologico. Vado
a sentire che cosa sta succedendo.
«L’FBI. Minacce. Hanno fatto presto. È arrivato il momento» pensò Mitzu. «Il
momento di agire».
Quella notte sognò delle spade. Nel sogno era fermo davanti agli specchi nella
palestra di Nakajima, il suo corpo era unto e lucido, come quello di Mishima sul
poster, e le sue mani sguainavano dai foderi le lame ricurve. L’istruttore gli stava
accanto, ma riusciva a vedere attraverso lui, come se fosse stato un fantasma, un
riflesso luminoso. I contorni di Nakajima ondeggiavano e si scomponevano in
nuvolette di fumo, queste prendevano le sembianze di sua madre e suo padre che lo
supplicavano di tornare a casa. Poi quelle dello zio Tadashi in uniforme
dell’aeronautica, con il volto gentile e sorridente. Infine l’immagine era la sua ma era
bambino, e lui fissava la propria immagine riflessa. Tutte le figure si
sovrapponevano, e lui si identificava con tutti i familiari.
Ma la voce era quella di Nakajima.
«Il codice Bushido» disse l’istruttore indica la via al guerriero. «Il comportamento
del guerriero poggia su due grandi pilastri: giri, la sottomissione ai tuo imperatore, il
dovere: chigi, la lealtà, il cammino da percorrere nella vita. Tu sei un bushi, un
guerriero. Il vero coraggio è vivere quando è giusto vivere, e morire solo quando è
giusto morire. Tu sei puro. Tu sei semplice. Tu sei nato samurai... samurai...»
Si svegliò. Sagome di fronde dalle tonalità grigio e oro tremolavano sul soffitto.
Accanto a lui, Nancy si voltò, il respiro sibilava tra le sue labbra.
Lui sentì una profonda pace interiore. Una pace mai provata.
15
«Io vivo nei sogni» pensò Jill «la realtà è troppo dura da sopportare.»
Aveva passato il pomeriggio in biblioteca e stava tornando a casa. La caviglia le
dava ancora noia e camminava piano, zoppicando leggermente. Non riusciva a capire
cosa la disturbasse tanto. Sapeva soltanto che andava avanti così da oltre una
settimana. Durante le lezioni si distraeva e già da parecchi giorni sentiva di avere
perso il contatto con la vita quotidiana.
Per errore aveva pagato due volte un debito con una banca, aveva mandato la
bolletta del telefono alla società elettrica, e quello stesso mattino aveva lasciato
bollire il caffè fino a consumarsi completamente. E, cosa ancora più strana, si era
sorpresa a sognare a occhi aperti la sua fanciullezza, ricordando episodi ai quali non
aveva più pensato da anni. Le era venuta in mente la cavalla marrone della fattoria
del nonno, a Chicopee, le cavalcate e il suo pianto nella stalla quando la bestia era
morta di vecchiaia. Aveva pensato al ballo studentesco del liceo; a quanto le era
sembrato importante, allora, essere stata incoronata reginetta della festa. E aveva
ricordato con incredibile lucidità l’ultimo anno di scuola in Pennsylvania, il viaggio
in macchina fino a Harvard, quel giugno, per la laurea in legge di Burt. Con una
immagine tanto vivida da farle rizzare i capelli, aveva ricordato di essersi sentita
orgogliosa di sé e del fratello, di aver desiderato che sua madre fosse viva perché
vedesse le sue speranze realizzate. Aveva ricordato l’arrivo a Tokyo e l’incontro con
Mitzu...
Improvvisamente, attraversando New Hampshire Avenue, Jill capì che cosa la
turbava. Era la telefonata di Mitzu Nagata.
Si fermò sotto il portone di casa e si asciugò il sudore sulla fronte.
— Ma adesso è finita — disse ad alta voce. «Me lo sono lasciato dietro. È strano
che una telefonata possa provocarmi una tale sbandata. Ed è ridicolo. Allora ero più
giovane. Ho perso la testa. Ho sofferto. Fa parte della vita.»
Salendo in ascensore decise di non pensare più a Mitch. Alex sarebbe presto
arrivato dal Bureau e voleva trovarla di buonumore. Appena entrata in casa buttò la
cartella sul divano, accese il condizionatore d’aria e diede uno sguardo attorno: tutto
sembrava in ordine. In un angolo c’era una stampa di Isoli che aveva dimenticato di
portare dal corniciaio. Era lì da quattro giorni. «Basta» pensò «basta con questa vita
da smemorata.» Si sfilò l’abito, fece un fallimentare tentativo di lanciare il reggiseno
sulla colonnina del letto e si infilò sotto la doccia.
Mentre l’acqua le scrosciava addosso producendo una specie di eco nella cuffia, si
sorprese a domandarsi chi fosse veramente Alex Burgess. Probabilmente lo avrebbe
sposato a gennaio, al più tardi in primavera, ma si accorse che per quanto lo amasse e,
cosa più importante, le piacesse profondamente, non lo avrebbe mai capito. Però
sapeva che questa era una cosa scontata: nessuno capisce veramente gli altri e
nessuno capisce veramente se stesso.
Appena finì di asciugarsi e di infilarsi un paio di jeans assurdamente stretti, sentì la
chiave di Alex nella serratura.
— Ciao, bellezza.
— Ciao, amore.
La baciò con il calore di sempre. Lei amava questo in Alex: non era tipo da
beccatina sulle labbra.
— Come è andata oggi? — le domandò. — Hai fatto progressi?
— No — rispose Jill. — Non so com’è, ma non sono riuscita a concentrarmi. E le
tue indagini?
Alex si tolse la giacca e la buttò sul divano, poi, ricordando che le sigarette erano
rimaste in una tasca della giacca, andò a prenderla.
— Quante oggi? — domandò Jill. Si era riproposta di non seccarlo, ma non poté
farne a meno.
— Non chiedermelo.
— Cerca di non morirmi d’infarto tra le braccia a cinquant’anni. Che ne è
dell’inchiesta?
— Niente. Nessuna novità.
— Sono preoccupata per Burt — disse Jill sedendo sui divano e piegando la giacca
di Alex.
— Non dovresti. Hollister e Alford sono due dei migliori agenti del Bureau.
— Lo so, tuttavia ho ancora un po’ di paura. Hai tirato fuori niente da quella
lettera?
— Odio ammetterlo, ma abbiamo ben poco. Ancora niente sulle impronte digitali.
Senza alcun esito la ricerca della fotocopiatrice. L’originale è di una carta comune,
che può essere acquistata ovunque. Abbiamo localizzato la zona dov’è stata imbucata
la lettera, nel centro di San Francisco, proprio nel cuore della zona commerciale, ma
ci sono trentasette cassette postali. Il che equivale a niente. — Andò in cucina. Una
scia bluastra di fumo di sigaretta aleggiò nell’aria dietro di lui. — Tè freddo? Una
bibita? Caffè?
— No, grazie. Che altro puoi fare... voglio dire, in mancanza di impronte?
Alex tornò con un bicchiere di latte e caffè ghiacciato.
— Penso che la risposta sia nella lettera. C’è qualcosa di strano nel linguaggio...
Ma forse Buck Weston riuscirà a trovare qualcosa. Non parliamone più, d’accordo?
Mi sta facendo impazzire, e parlarne peggiora le cose. Forse si rivelerà tutto uno
scherzo.
— Tu non ci credi affatto.
Alex sorrise.
— No, hai ragione, non riesco a crederci. Potrei ingannare me stesso per un attimo,
non te. Ti rendi conto di quanto sei importante nella mia vita?
— Quanto?
— Be’, se non ci fossi tu, sarei ancora più maniaco di adesso. Starei ancora a
spremere i tubetti di dentifricio fino all’ultimo, a svuotare i secchi della spazzatura
due volte al giorno, e a perseguitare quelli della lavanderia per la perdita di un
bottone della camicia.
— Hai smesso di spremere il dentifricio solamente perché io te lo impedisco —
disse Jill, divertita. — Tu lo faresti ancora, quindi sei proprio maniaco.
Alex si alzò.
— Hai perfettamente ragione, madame. Sarà il caso che chiami quei signori con il
camice bianco e che mi faccia rinchiudere.
Si avvicinarono l’uno all’altra e si baciarono. Questa volta più a lungo. Jill aveva
qualche problema nel confessare alle sue amiche femministe che gli abbracci vigorosi
di Alex la eccitavano, ma non poteva farci niente... era un omone grosso e muscoloso,
un uomo forte e a lei piaceva.
— Hai fame?
— Di te.
— Intendo di cibo.
— Anche, ma prima di te.
Jill rise e si avviò verso la stanza da letto.
— A una condizione — disse voltando la, testa.
— D’accordo. Sono il tuo schiavo. Quale?
— Che tu mi aiuti a rientrare nei jeans. Mi sono quasi slogata un polso per metterli.
— Ho un’idea migliore — disse Alex seguendola. — Non dovrai rientrarci affatto.
Arrostirò due bistecche, farò un contorno di zucchini e passeremo la serata a letto.
Jill mimò l’estasi.
— Oh, Alex, amore mio — disse con il tipico miagolio della gente del sud — tu mi
tratti troppo bene.
— Dài, viziosetta — rispose lui, e chiuse la porta della stanza da letto.
16
L’aereo era atterrato a Los Angeles alle cinque del pomeriggio. Mitzu aveva preso
alloggio al Beverly Hilton Hotel e confermato gli appuntamenti per la mattina.
Sembrava che tutti avessero saputo del suo bambino. Tutti si erano detti spiacenti.
Perché erano spiacenti? Da cosa nasceva il loro dispiacere?
Si sentivano colpevoli ed erano colpevoli.
Aveva guidato lungo il Laurel Canyon fino a Walley. Trovare il club era stato più
facile di quanto avesse sperato. DA DUKE, diceva l’insegna al neon alta un metro.
SPETTACOLO DI RIVISTA. BALLERINE. Adesso, dopo sette ore, era lì a fissare l’ingresso.
«Oh, volete dire Charlotte» gli aveva detto la voce al telefono.. «Charlotte abita qui a
Los Angeles, adesso. Posso darvi l’indirizzo. No, balla ancora. La ricordate? Ha
sempre desiderato diventare una ballerina. Ha sposato Hal Kirkaby, suo padre era il
proprietario di una rivendita di liquori. Proprio così, da bambini andavate a comprarci
la gassosa. Hal è morto, cancro, l’ha lasciata con una bimba. Sì, balla in un club, a
Valley. Ho qui il numero. A casa non la trovereste mai, lavora fino a tardi. Oh, sarà
entusiasta di sentirvi dopo tanti anni. Volete ripetermi il vostro nome? Dirò ai signori
Bly che avete telefonato. Il signor Beatty... non sarete mica imparentato con l’attore,
no? No, credo di no. La riconoscerete, ha ancora quei magnifici capelli castani
ricciuti. Sì, sicuro che glielo dirò. Torneranno a casa domani. E voi salutatemi Char
se la vedrete.»
Mitzu aspettava pazientemente, adagiato nel sedile di una Datsun presa a nolo. Lo
smog si era addensato sulle colline di Hollywood, colorando il cielo di un arancione
spettrale e tingendo l’orizzonte di un colore opalescente irreale. Le auto passavano
veloci, dirette a casa, nella vasta periferia della Valle di San Fernando. Sulla Laurel
Canyon Drive si snodavano le interminabili file di fanali, globi bianchi nella notte in
contrasto con i puntini baluginanti delle case, queste si arrampicavano sulle colline
attorno, e si perdevano nello smog, lontano, lungo la catena del San Gabriel.
Qualcuno bussò al finestrino dell’auto, e Mitzu si trovò davanti una larga faccia
nera che lo scrutava.
— Non puoi sostare qui, amico. — Era un poliziotto, che attraverso i vetri gli
puntava addosso una torcia elettrica. Mitzu si riparò dalla luce. — Qui non si
parcheggia né di giorno né di notte.
— Aspetto un amico.
— Non m’importa, nemmeno se aspetti l’arrivo del Signore, amico mio. Questa
non è zona di parcheggio. Hai visto il divieto? Vuoi che ti dia una multa?
— Me ne vado.
Mitzu si arrese e avviò il motore.
Si scostò dal marciapiede, e il poliziotto tornò alla sua auto di servizio. Girato
l’angolo della prima traversa, Mitzu guidò lentamente per cercare un parcheggio.
Nello specchietto retrovisivo vide l’auto della polizia che lo seguiva senza una
ragione apparente.
«Sono un soldato» si disse.
Allungò il braccio destro verso la custodia lunga e nera sul sedile posteriore e ne
fece scattare la chiusura.
Guardò nuovamente il retrovisore. L’auto della polizia stava voltando. Richiuse la
cerniera. «Non è arrivato il tuo tempo per morire» disse silenziosamente all’agente.
«Morirai solamente quando sarà giusto che tu muoia.»
Improvvisamente Mitzu perse il filo. «Che cosa faccio qui? Dovrei essere in
albergo e riposarmi, domani avrò una dura giornata di lavoro. Sono stanco. Sono così
stanco.» Non riusciva a ricordare perché si trovasse in quel luogo. Di riflesso il piede
schiacciò il freno e l’auto si arrestò di sobbalzo. Un ragazzo con il cane al guinzaglio
stava attraversando la strada, si fermò abbagliato dai fari e alzò la testa verso il cielo.
Mitzu era stordito. «Dove... Chi...»
Chiuse gli occhi. La testa gli ricadde sul petto. «Sono così stanco. Sono...»
... un soldato. Stai seguendo il codice Bushido, il comportamento di...
«... Un guerriero. Sì, il comportamento di un guerriero.» Pensò che non poteva
restare troppo a lungo lontano dal suo posto di osservazione di fronte alla porta del
club. Lei poteva uscire da un momento all’altro. Era già l’una e mezzo e doveva
essere lì quando lei fosse uscita.
Aggirò l’edificio fino al vialone principale. Di fronte al club, in una stazione di
servizio deserta della Mobil, c’erano diverse auto parcheggiate. Mitzu ignorò il
cartello luminoso che avvisava invano: PARCHEGGIO RISERVATO AL DUKE. A Los
Angeles tali segnalazioni erano tanto frequenti quanto ignorate.
Vicino alla stazione di servizio, si innalzava la facciata neogotica di una chiesa. Un
altro cartello annunciava il sermone della domenica: PECCATORI NELLE MANI DI UN
DIO ADIRATO. Per un istante Mitzu si domandò se non fosse uno scherzo. Poi il
pensiero si tramutò, come per una rivelazione: «Sono un soldato».
Lui si era trasformato. Tutto il mondo, si era capovolto. Capì perché si trovava lì.
Si volse verso il sedile posteriore per prendere la sua veste. Era la veste dello zio
Tadashi. Un manto nero ornato di riquadri arancione fatti di filo intrecciato. E sotto,
due pettorali imbottiti con due scudi d’oro. Mitzu fissò le cinghie dei pettorali alle
spalle, si tolse giacca e cravatta e si scostò dalla vettura. Nell’ombra indossò la veste
kendo e annodò la cintura alla vita. Una coppia transitò davanti alla stazione di
servizio e guardò appena nella sua direzione, non sembrò interessata alla presenza di
un uomo in vestaglia nera... semplicemente un altro inspiegabile bizzarro della città,
uno dei tanti bizzarri. Un attore, potevano aver pensato, un turista, o un membro di
qualche setta religiosa che vendeva fiori e dischi.
Mitzu aprì la portiera dell’auto e si sporse dentro. Spalancò la lunga custodia
foderata di pelle nera. Gli intarsi dorati catturarono la luce nella notte e brillarono
come la superficie del mare. Fermagli di velluto porpora fissavano le due guaine, una
era lunga circa un metro e venti, l’altra più corta e leggermente più larga. Nakajima,
il suo maestro e guida al comportamento bushi, lo aveva indirizzato a un vecchio
canuto con occhiaie scure e pelle come pergamena. «Queste spade» aveva dichiarato
l’uomo «provengono dalla fucina dei discendenti di Goto. La grande famiglia di
forgiatori di spade. Sono state fatte di recente, ma secondo lo spirito dell’antico
Giappone.»
Mitzu slacciò i quattro cinturini di velluto liberando le spade. Sguainò una lunga
lama e passò l’indice sul suo filo tagliente. Cominciò ad avvertire la presenza dello
zio Tadashi che si librava su di lui, nell’aria calda, e lo osservava prendere il
borsellino da un angolo della custodia ed estrarne un’ampolla di vetro lunga e opaca.
Tolse deliberatamente il tappo e versò una goccia di olio sulla punta dell’arma, e lo
spalmò con un panno di pelle.
Mitzu portò la lama al naso e annusò l’odore intenso che ricordava l’anice.
Trattenne il fiato di fronte alla bellezza dell’arma, come se fosse un violino Amati o
un monile d’argento di Toledo. Poggiò la punta della spada sull’indice e guardò la
curva dorata che si protendeva dall’elsa laccata in nero. Poi, all’improvviso, fendette
l’aria. Percepì appena un suono lieve, come di un tordo che si culli nel vento.
Yamato damashii. Sentì la voce del padre; e toccò l’ideogramma della famiglia
Goto inciso nell’elsa dell’arma.
«La famiglia Goto» pensò «sarebbe orgogliosa.»
Dedicò la stessa cerimonia alla seconda lama, ringuainò le spade e attese immobile
nell’oscurità. Teneva gli occhi fissi sull’entrata del locale. Se un estraneo lo avesse
guardato in faccia, quegli occhi gli sarebbero parsi infocati. Ma lui non provava
emozioni, era fermo nei suoi propositi.
— Buonanotte, Char.
— Buonanotte, Wally.
— Vuoi che porti il tuo costume a Doris?
— No, grazie Wally, glielo porto io stessa.
Charlotte Kirkaby raccolse il costume spiegazzato e lo cacciò nella borsa del
trucco. Il corpetto necessitava, come al solito, di nuovi lustrini, dopo tutte quelle
giravolte che avevano inventato per il numero di chiusura. A Rory non importava chi
avrebbe intascato il denaro delle riparazioni, purché si fosse sempre in ordine.
Quindici dollari erano quindici dollari, chiunque li intascasse, e la vecchia Singer di
Charlotte, nonostante fosse traballante, riusciva ancora a fissare i lustrini. Perché quel
denaro avrebbe dovuto prenderselo Doris?
— Char, c’era un tipo che gironzolava attorno in cerca di te. Un giapponese o un
cinese. Gli ho detto di venirti a vedere in sala.
Charlotte trasalì al tono sprezzante delle parole di Wally.
— Non ho notato nessuno, Wally. Com’era?
— Merda. Per me sono tutti uguali. Un signorino. Tipico del centro.
«Tipico del centro» significava abito e cravatta, da distinguersi da abito elegante e
scarpe bianche, che erano tipiche di Valley.
Si fermò al telefono a gettone, vicino alla bacheca dove era esposto il programma
dello spettacolo, lo controllò, poi formò il numero di casa. Voleva far sapere a Betsy
che stava andando a casa, perché non stesse in pensiero.
— Ciao, Betsy, sto venendo. Janey come va?
— Benissimo, Charlotte, dorme come un sasso.
— Fantastico, ci vediamo tra mezz’ora.
Uscì dalla porta di ferro del palcoscenico infilandosi la giacca. Per la seconda volta
nella giornata le si incastrò un’unghia sotto una borchia.
— Maledizione.
Staccò l’unghia. A un dollaro e cinquantanove la scatola, poteva permettersi
unghie nuove tutte le settimane, senza doversi disturbare a curarne la crescita.
Mancavano soltanto sei settimane, sei settimane e arrivederci Rory, arrivederci al
lavoro fino alle due. Fra sei settimane avrebbe ripreso le lezioni, sarebbe andata ad
abitare in un appartamento nuovo a San Diego e avrebbe dimenticato le notti al Duke.
Al suo arrivo, il posteggio del club era pieno e aveva parcheggiato sull’altro lato,
in Ventura Boulevard. «Dove diavolo ho lasciato l’auto?» Si fermò sul marciapiedi e
cercò di ricordare. «È stupefacente, se non avessi avuto la testa attaccata al collo
avrei dimenticato anche quella.» Poi vide la parte posteriore della sua Oldsmobile
bianca posteggiata vicino alla chiesa.
Perfino alle due del mattino c’erano automobili che sfrecciavano lungo Ventura
Boulevard, scambiando la strada per una pista da corsa. Una Corvette rumorosa, che
mandava fumo copiosamente, sbandò proprio mentre lei stava per attraversare, così
vicina che lei sentì il fumo dello scappamento sulle gambe. Mise la borsa per il trucco
sotto il braccio e corse come un cerbiatto in una breve pausa del traffico.
Le strade erano buie e deserte. Si affrettò verso l’auto. Una serie di scippi durante
la settimana precedente avevano terrorizzato la gente del quartiere, e una ragazza del
primo turno, una cameriera, aveva corso il rischio di essere violentata. Tutti i
commercianti reclamavano più polizia, ma una proposta di legge aveva ridotto il
contingente al di sotto del normale, così almeno dicevano al dipartimento; un’ondata
di crimini minori era esattamente quello che serviva alla polizia per ottenere una
piccola sovvenzione dal governatore.
Charlotte studiò il marciapiede con più attenzione prima di proseguire verso l’auto.
Non c’era anima viva.
Dopo aver messo il costume sul sedile posteriore dell’auto, Mitzu prese da una
tasca della giacca la fotografia ritagliata dal giornale. Poi, con una penna rossa tracciò
una croce su uno dei volti.
Rimise la foto in tasca e guardò l’orologio, mancavano sei ore al suo primo
appuntamento di lavoro a Los Angeles. Svelto. Doveva riposare.
Uscito dalla stazione di servizio fu abbagliato dalle luci di Ventura Boulevard.
Sbatté le palpebre, voltò a sinistra, e guidò lungo Laurel Canyon.
17
18
Una forte brezza fredda faceva vibrare le finestre dai vetri colorati, al lato ovest
della chiesa. Nelle tessere del mosaico della finestra centrale, il Cristo in croce
sembrava fremere per effetto dei riflessi del sole al tramonto. Gli apostoli, sulla
finestra accanto, rivolgevano il loro sguardo triste verso la canonica. Le mura della
chiesa, costruite con pietre squadrate, si offrivano allo sguardo ostentando la potenza
di un castello Tudor del XVI secolo. Girando attorno all’edificio, padre Farrell
ammirò l’abilità degli uomini che l’avevano costruita. «Oggigiorno, anche a poterselo
permettere, pietre lavorate altrettanto bene non si riuscirebbe a trovarne.» Nel raggio
di mille chilometri non esisteva un uomo capace di erigere un muro in pietra che
durasse sessant’anni.
Il giorno prima c’era stata una messa funebre: la vecchia signorina McPortland,
che per più di quarant’anni aveva frequentato la chiesa quotidianamente. Durante il
giorno l’uomo tuttofare aveva lavorato nella canonica, perciò alcuni boccioli bianchi
e rossi di gigli e anemoni erano sparsi sul passaggio tra le file di panche. Padre Farrell
entrò nel tempio, si segnò e si chinò a raccogliere uno dei fiori. Ne aspirò il profumo
penetrante quindi raccolse i fiori a uno a uno.
I fedeli cominciavano a sentirsi a loro agio. La messa sperimentale rock and roll
era andata davvero bene, e correva voce che avrebbero affidato a padre Farrell la
guida di un gruppo di giovani. Padre Raymond aveva ricevuto parecchie telefonate di
genitori compiaciuti per il tentativo della chiesa di adeguarsi alle esigenze dei tempi.
E qualcuno aveva scritto all’arcivescovo chiedendo per quale ragione c’erano pochi
giovani sacerdoti emancipati. La fede era merce difficile, e la chiesa necessitava di
ogni spinta possibile. La lettera aveva rallegrato enormemente Michael Farrell, se non
altro perché padre Raymond aveva dubitato dell’impresa. Povero vecchio Bill
Raymond.
E adesso c’era la faccenda del diavolo. Per prepararsi al sermone di domenica,
quella mattina aveva letto Lutero. «Il modo migliore per scacciare il demonio, se non
cederà ai testi o alle scritture, è di schernirlo e dileggiarlo, poiché non può sopportare
lo scorno.»
«Non credo di poter citare Lutero» pensò padre Farrell «ma potrei adottare la sua
tecnica. Potrei spiegare che Satana non è l’opposizione di Dio, e potrei dare qualche
consiglio sulle tentazioni, sul materialismo e cose del genere. Ma soprattutto dovrò
dire che il demonio è sempre attorno a noi nei luoghi più comuni: nel negozio di
alimentari dove il titolare aumenta i prezzi, nel poliziotto che si lascia corrompere,
nel governo dove i politici giocano ad asso pigliatutto con il denaro dei contribuenti.
«Se dirò questo» pensò poi padre Farrell «probabilmente mi scuoieranno vivo.
Pazienza. È il solo modo perché l’idea faccia presa. Non mi cacceranno via per un
sermone provocatorio! O si?»
Arrivato alla prima fila di panche, padre Farrell sbirciò l’orologio. Dieci minuti
alle sette. Non sapeva se qualcuno sarebbe venuto a confessarsi. Molti erano già
partiti per le vacanze. In ogni modo padre Raymond aveva ascoltato la maggior parte
delle confessioni. In fondo alla navata, il giovane sacerdote si fermò a raccogliere gli
ultimi fiori. Quattro fiori rossi con delle palline soffici sullo stelo, Aloe variegata, e
dei piccoli coni screziati di bianco grigiastro con gli stami gialli in punta: Azalea
lutea rubicunda. «Mannaggia, sarei stato un buon botanico.» Arrotolò con le dita i
petali carnosi, e pensò che quando Dio si era dedicato alle sottigliezze, non aveva
lasciato alcun dubbio circa la sua forza creativa.
Entrato nel lindo studio triangolare ricavato da un angolo della chiesa, buttò i fiori
nel cestino della carta e si mise al lavoro, trasformando i suoi appunti sugli
avvenimenti della parrocchia in un rapporto per la diocesi. Di sfuggita si rammaricò
di aver rinunciato alla botanica in favore della chiesa. Ma un giorno la parrocchia
avrebbe avuto la sua serra, e lui si sarebbe dedicato ad ambedue le cose.
Sentì avvicinarsi un’auto. Pensò che poteva essere Cornelia Wade. Aveva detto
che forse sarebbe andata « parlargli di una raccolta di fondi. Ma no, non era la sua
auto. Avvicinatosi alla finestra, padre Farrell vide un uomo, che indossava una veste
lunga e nera, fermo accanto a una piccola utilitaria. Una tonaca? No, era sovrapposta
sul davanti, aveva una cintura alla vita e aveva una sorta di camicia con degli
emblemi dorati. Un cattolico orientale? Di sicuro non era un parrocchiano. «Conosco
quasi tutta la comunità» pensò.
Il prete chiuse l’agenda e si avviò nella chiesa.
Mitzu lesse la targa vicina al portone del tempio. C’era il nome di due pastori:
Raymond e Farrell. Uno di loro doveva essere il canonico. Si mise la custodia
sottobraccio e indugiò un attimo fissando i pannelli di ottone sulla porta.
«Sono un guerriero. Ho il privilegio di kirisute gomen: uccidere e andare via.»
Stava per bussare, ma la porta si aprì.
— Posso fare qualcosa per voi?
Si trovò davanti a un giovane con i capelli biondo-cenere. Sì, era lui. Sebbene la
fotografia sul giornale fosse sfocata, Mitzu riconobbe la somiglianza dei lineamenti
del giovane con quelli dell’uomo.
— Padre Farrell?
— Si, sono io. Ci siamo già conosciuti?
— Posso entrare?
Il sacerdote si fece da parte.
— Sì, naturalmente. Scusate.
Mitzu entrò nel tempio passando davanti al giovane prete.
— Sono un vecchio amico di vostro padre. Mi disse che se fossi capitato a
Filadelfia sarei dovuto venire a trovarvi.
Il sacerdote sembrò incredulo.
— Come avete detto di chiamarvi?
— Nagata. Mitzu Nagata.
Il prete si diede un colpetto su una guancia.
— Cielo, non credo che vi abbia mai nominato. Dove vi siete conosciuti?
— Ci siamo incontrati l’anno scorso a una conferenza.
— Davvero? Sapete, ormai è in pensione, pensavo che avesse smesso di occuparsi
di quelle cose. Lui...
Mitzu lo ignorò.
— Vi ho portato un regalo.
Poggiò la custodia su una panca dell’ultima fila e fece scattare la chiusura.
— Cosa sarebbe...? Scusate, signor Matz... Magatzta, penso che non si tratti dello
stesso Farrell. Siete sicuro che...
Mitzu aveva estratto le due spade dalle guaine e le aveva rivolte in alto. Raggi di
sole filtrarono attraverso le vetrate colorate, tingendo di verde e blu le spade oleate.
— Sono per voi — disse Mitzu, impugnandole e tendendole verso il prete. — Sono
magnifici esemplari della fucina dei Goto.
— Oh, adesso capisco perché indossate...
Mitzu sferrò un colpo con la lama più lunga, ma il giovane era agile e balzò
indietro. La lama gli aveva soltanto sfiorato il torace.
— Chi siete? — ansimò padre Farrell. — Cosa vol...
Mitzu avanzò rapido e sferrò il secondo fendente. Questa volta colse nel segno e
provocò uno squarcio attraverso la tonaca nera del prete. La croce appesa al collo si
tinse di rosso.
— Perché?... Chi...
Il prete tacque e barcollò verso l’organo alle sue spalle, cercando freneticamente
un appoggio. In cima al campanile, le campane suonarono le ore. Erano le sette.
Mitzu si mise a gambe divaricate, dondolandosi sui talloni, e affondò la lama più
lunga nell’addome del sacerdote, aprendogli la cavità toracica. Il sacerdote tentò di
respingere la lama che lo aveva già trapassato. Poi si abbandonò sulla spada tossendo
e sputando sangue sul pavimento.
— Te... absolvo... nomine patri... — fu il grido soffocato che salì dalla sua gola.
Mitzu capì vagamente le parole. «Assoluzione. Ma sono già assolto. Sono un
guerriero.»
Sulla strada, oltre la chiesa, le luci delle auto guizzavano come fiammelle di
candele. La quieta sera d’estate sarebbe finita con la cena, i discorsi sull’aumento
delle tasse, e sulle infedeltà segrete, consumate nelle stanze da letto degli alberghi di
Filadelfia. Niente di tutto ciò toccava Mitzu Nagata mentre levava di tasca la foto
sgualcita. La carta era umida per il calore del corpo e in pochi giorni si era ingiallita e
consumata ai bordi.
I quattro volti cominciavano a perdere i contorni. Mitzu prese la penna rossa dal
cruscotto dell’auto presa a nolo, tracciò una croce netta e precisa sulla seconda faccia,
e attese che la carta assorbisse l’inchiostro. Guardando il costume nero e i medaglioni
luccicanti, fu percorso da un brivido, un’ondata di calore.
Chinò la testa.
«Sono un guerriero.»
Alle nove e un quarto, visto che padre Farrell non era passato per la canonica
rincasando, padre Raymond risalì a fatica il sentiero per la chiesa. Il vecchio olmo era
stato ormai abbattuto e le estremità del tronco erano nere come il carbone. Le siepi
lungo il sentiero avevano deposto sull’erba un leggero strato di giallo.
«Probabilmente Mike si sta esercitando all’organo» pensò il canonico. «Oppure sta
telefonando. O non sento bene.»
Ma avvicinandosi alla porta non sentì alcun rumore. Le luci del tempio erano
spente. La porta non era chiusa, perciò Mike doveva essere in chiesa. «Ma perché al
buio?»
Padre Raymond entrò in chiesa dalla porta secondaria. Si inginocchiò davanti
all’altare e si segnò.
— Mike, ci sei?
Cominciò a scendere le scale.
— Mike, dove...?
Avvertì l’orrendo odore di morte prima ancora di vedere le chiazze di sangue che
conducevano dall’ultima panca all’organo. Il corpo era prono sopra il panno rosso
che rivestiva lo sgabello dell’organo, la testa e le mani recise.
Padre Raymond si sentì stravolto. Vomitò.
La polizia di Elkins Park arrivò a luci e sirene spiegate, seguita dai cronisti e dai
curiosi del vicinato.
A mezzanotte tutti sapevano che c’era un assassino in libertà. Sprangarono per
bene le porte, attivarono i sistemi di allarme antifurto e dormirono ignari che la
minaccia era ormai passata, che non riguardava i loro amorazzi, le loro pene, i loro
trionfi e le loro sconfitte.
19
Buck Weston continuava la sua ricerca freddamente, come uno dei suoi cani da
caccia. Per un cane è sufficiente che l’oggetto del suo desiderio attraversi un prato e
lasci una scia del suo odore, e la stessa cosa valeva per Buck. Non aveva speso due
anni e mezzo della sua vita catalogando o confrontando dati su rapine di banca,
domande di riscatti, azioni terroristiche di tutto il mondo per essere sconfitto da un
insieme di frasi sconnesse.
In seguito avrebbe ricordato il preciso momento in cui la sua memoria lo aveva
salvato. L’illuminazione era partita da una canzone diffusa da una di quelle orchestre
anonime che riempiono ascensori e grandi magazzini di ampollose interpretazioni di
motivi in voga e vecchi successi. Buck udì la canzone recandosi al lavoro e non riuscì
a ricordarne il titolo fino alle ultimissime battute. La canzone che non sentiva da anni,
e che venti minuti dopo averla sentita dubitava di riuscire a identificare, era Così ci si
sente a New York.
20
Per Hank Robbins la settimana era cominciata male e stava proseguendo anche
peggio.
A Toms River, nel New Jersey, cinquanta chilometri a sud-est di New York City e
altrettanti da Paterson e Newark, la centrale nucleare di Crescent Park operava a tutta
forza, alimentando la rete elettrica del nord-est con 1200 megawatt. Nei suoi impianti
di raffreddamento scorrevano quattro milioni e mezzo di litri d’acqua. Questo
significava un complesso di macchinari del valore di cinquecento milioni di dollari,
ed era praticamente nuovo di zecca.
Hank Robbins aveva dei problemi perché era nuovo di zecca anche per lui. Era
passato alla direzione dell’impianto soltanto dai primi di marzo. L’impianto era,
come lo chiamava lui, «il mio bambino». Ma per la prima volta dal giorno del
blackout del 1977, il consumo di elettricità, nella vasta fascia urbana che si estende
da New York a Washington, stava raggiungendo il limite massimo. I condizionatori
d’aria, da Oyster Bay a Chevy Chase, funzionavano a pieno ritmo. Da due settimane,
l’ondata di caldo torrido non accennava a diminuire. Per di più, l’ufficio
meteorologico nazionale prevedeva un aumento della temperatura. E la capacità
dell’intera centrale veniva assorbita. A peggiorare le cose, due impianti della
Consolidated Edison di New York erano fuori uso per riparazioni straordinarie, e ciò
aveva provocato un sovraccarico all’intero sistema. Hank Robbins era abbastanza
intelligente da sapere che per quanto ben installata, per quanto ben collaudata, una
centrale nucleare al settantacinque per cento della sua capacità produttiva era più
sicura di un impianto operante al massimo.
In primavera, durante le prime tre settimane di. incarico, Hank aveva pensato
all’estate e aveva preparato il personale e l’impianto stesso a lavorare a ritmo
stressante. Sapeva che durante la prima estate di attività erano stati costretti a
bloccare il reattore a causa dell’inefficienza del personale, e lui aveva deciso che
nessun imprevisto doveva danneggiare la sua carriera. Ma quel lunedì, due dei tecnici
più esperti, addetti alla sala di controllo, si erano dati malati. Il mercoledì un circuito
di trasmissione si era surriscaldato rischiando di disinnestare l’impianto. Se questo
fosse accaduto, il reattore sarebbe rimasto inattivo almeno per trentasei ore. E adesso,
l’ordinario controllo dei sistemi di sicurezza dell’impianto aveva rivelato non uno o
due solenoidi inefficienti, ma cinque.
Quando Mitzu Nagata si presentò da lui, Hank Robbins era fremente di rabbia.
— Avete scelto il momento giusto, signor Nagata. Non voglio che vi facciate
un’idea sbagliata, sono davvero contento che siate qui. Questa settimana l’American
General non è nelle mie grazie. C’è un circuito di trasmissione che mi sta facendo
diventar matto, e la metà dei solenoidi dei cancelli di sicurezza della sala di controllo
sono fusi. Sono tutti così gli impianti costruiti da voi? Spero soltanto che non mi
rovini addosso.
Mitzu Nagata aveva guidato fin lì, direttamente da La Guardia. Sapeva che la
lettera era stata presa sul serio all’NRC e a quell’ora l’impianto poteva già essere in
stato d’allarme. Doveva verificarlo. C’era il rischio che presentandosi
all’appuntamento in anticipo potesse destare qualche sospetto, ma non poteva portare
avanti il suo piano senza una visita preliminare. Si era spinto troppo oltre per deviare
dal suo corso. Quel che gli serviva era una buona panoramica della sala di controllo.
Dopo averlo visto una volta, il personale avrebbe pensato di potersi fidare, e non gli
sarebbe stato troppo difficile bloccare i sistemi di sicurezza. Più tardi avrebbero
capito. Ma lui avrebbe vendicato la violenza fatta al sangue dei Nagata con la stessa
violenza. Avrebbe compiuto il proprio dovere.
Notò che Hank Robbins non aveva fatto nessun accenno allo stato d’allarme.
Mitzu si chiese se, a parte il regolamento, Hank Robbins avrebbe saputo nascondere
la cosa. No, a giudicare dalla sua condotta. Robbins era genuinamente sconvolto dal
problema dei solenoidi e contento di poter sfogare le sue frustrazioni con un dirigente
dell’American General. «Se sta recitando» pensò Mitzu «allora è un grande attore.»
— Sarei felice di aiutarvi — disse Mitzu, mentre prendevano il caffè in un ufficio
fuori dal nucleo centrale dell’impianto. — Perché non facciamo un giro là dentro? Mi
fate vedere ciò che vi procura le noie, e vi assicuro che in settimana arriverà uno dei
nostri tecnici per sistemare le cose. Che cosa ve ne pare?
Robbins arrossì e chinò la testa.
— Cristo, penso che non avrei dovuto aggredirvi a quel modo. Scusatemi, è che
sono agitato.
Mitzu sfoderò il suo sorriso accondiscendente. Una tenera accettazione degli
eccessi di un bambino da parte di un genitore.
— Da quanto tempo siete direttore dell’impianto, signor Robbins?
— Hank, chiamatemi Hank. Sono stato assistente del direttore a Hummock Point.
Qui c’era Herb Conti...
— Lo so — interruppe Mitzu. — Ha fatto carriera.
— Proprio così. Si è assicurato un lavoro dietro una scrivania, e si è portato dietro
il suo vice. A Hummock c’è una centrale World Horvath, che non è nemmeno una
lontana parente delle vostre. Ve lo dico io, questo impianto ci rende la vita difficile.
— Hank, l’American General desidera che tutti i suoi impianti funzionino a
dovere. Io sono qui per ascoltare le vostre lamentele, e fare tutto il possibile per
facilitare il vostro lavoro.
— Questo volevo sentirmi dire, signor Nagata. Questo è quanto...
— Mitch, chiamatemi Mitch.
— Questo è quanto volevo sentire, Mitch.
— Perché non diamo un’occhiata alla sala di controllo?
— Certo — rispose Robbins, sorbendo l’ultima goccia di caffè. — È il punto
giusto per incominciare.
Robbins fece ritorno nel suo ufficio due ore dopo, di molto rinfrancato rispetto al
primo mattino. Quel Nagata aveva promesso che avrebbe mandato un ingegnere per
una settimana per revisionare tutti i sistemi di sicurezza automatici. Quelli della
World Horvath non si erano mai spinti oltre qualche telefonata per risolvere i
problemi della centrale di Hummock Point. Robbins era convinto che se non fosse
stato per l’NRC, la Horvath avrebbe perfino dimenticato di aver montato l’impianto.
Si facevano vedere solamente quando volevano vendere un nuovo impianto.
Robbins si accinse a preparare un programma di lavoro straordinario per i tecnici
della sala di controllo. Due uomini erano assenti per malattia, sette erano
regolarmente al lavoro, i rimanenti si sarebbero spartiti le ore di straordinario. Aveva
appena messo mano agli orari quando il telefono squillò.
— Robbins — rispose brevemente.
— Signor Robbins, qui è Harvey Clark dell’NRC. Come state? «Uffa! Perché mai
dovrebbe chiamarmi l’NRC? Che diavolo avrò fatto di male?»
— Bene, signor Clark. Che cosa posso fare per voi?
— Siete il direttore dell’impianto, se non sbaglio?
— Precisamente — rispose Robbins. — Sentite, se si tratta di quelle
autorizzazioni, le ho inviate per posta l’altra...
— No, signor Robbins, non appartengo a quel settore. Vi telefono per chiedervi di
mettervi in stato d’allarme per tre giorni. Non preoccupatevi, è soltanto una prova, è
una procedura normale. Avrete una conferma via telex, ma ci vorranno un paio d’ore
e noi vogliamo che lo stato d’allarme incominci subito.
— Un momento, per favore — disse Hank. «Santo cielo, un allarme.» Isolò la
comunicazione, si frugò nella tasca posteriore e prese un mazzo di chiavi. Dietro la
scrivania c’era una cassaforte d’acciaio che si apriva con due chiavi e la
combinazione. Cercava la sua chiave. Citofonò a Travis Webb, il funzionario addetto
al servizio di sicurezza.
— Qui Webb.
— Travis, sono Hank. Puoi venire da me con la combinazione della cassaforte
dell’NRC? Ci hanno chiesto una prova d’allarme. Ti era mai successo niente del
genere?
— Una volta, appena iniziata l’attività. Hai ricevuto un telex di richiesta?
— No — rispose Robbins — mi hanno telefonato.
Dall’altro capo seguì un attimo di silenzio.
— Telefono? Non è la procedura normale, Hank.
— All’inferno, Travis, stanno ancora aspettando al telefono. Puoi venire, per
favore?
— Subito — disse Webb, e chiuse il citofono.
Robbins premette il pulsante sul telefono.
— Signor Clark, prenderò i numeri di codice, in ogni modo il funzionario addetto
al servizio di sicurezza dice che normalmente queste comunicazioni vengono fatte via
telex.
— Avrete la conferma — assicurò la voce dell’altro capo. — Questa volta voglia
verificare quanto tempo impieghiamo in caso di emergenza. È questo lo scopo della
prova.
Robbins restò un attimo soprappensiero. E se si fosse trattato di qualcuno che
indagava sul sistema di sicurezza? E se non fosse stato uno dell’NRC, ma qualcuno
che voleva mettere la centrale in stato d’allarme per vedere cosa sarebbe successo?
— Signor Clark, perché non riattaccate? Vi richiamerò io.
— Benissimo, Robbins, interno 451. Avete la linea diretta, vero?
— Sì, certo.
— Bene, allora richiamatemi.
Robbins compose un numero sull’apparecchio collegato con l’NRC, e chiese al
centralino di comunicare con l’interno 451.
— Clark.
— D’accordo, signor Clark, restate in linea, devo aprire la cassaforte.
Travis Webb varcò la porta dell’ufficio di Robbins. Era un tipo tarchiato con il
ventre da bevitore di birra e il naso largo e schiacciato che gli dava l’aspetto di un
pugile.
— Ciao, Hank, che tipo di allarme sarebbe?
— L’NRC dice che è un’esercitazione per verificare la rapidità con cui operiamo
in caso di emergenza.
Travis Webb si strofinò una mascella.
— Però mi sembra strano. Non ho mai sentito di un allarme senza una richiesta
telex.
— Travis, li ho richiamati per accertarmi che fosse l’NRC. Puoi aprirmi la
cassaforte?
— Il capo sei tu — concluse Webb. Si avvicinò alla cassaforte e formò la
combinazione. — Tocca a te.
Robbins inserì la sua chiave, alzò tutte e due le maniglie e aprì il portello. Il codice
di difesa era in una busta gialla.
— Bene, signor Clark, ho i codici.
— Vi darò un numero di sei cifre — rispose Clark — poi uno di quattro. Sapete
usare la tabella dei codici?
— Sissignore, non ci sono problemi. Procedete.
Clark lesse lentamente i codici mentre Robbins, muovendo un dito lungo la pagina,
cercava i numeri sulla tabella. Ambedue i codici erano esatti.
— D’accordo, signor Clark, ci sono. Ci metteremo in allarme.
— Grazie, Robbins. Vorrei che mi chiamaste se dovesse accadere qualsiasi cosa
fuori dell’ordinario. Avete il mio numero.
— Pensavo che fosse una prova. C’è da aspettarsi qualcosa di strano?
— Niente, assolutamente niente. Ci risentiremo nei prossimi due giorni. Grazie
infinite.
La telefonata si concluse con un clic, e Robbins si ritrovò a fissare il ricevitore,
come se da questo potesse materializzarsi una faccia.
— Ha riattaccato — disse Robbins a Travis Webb.
Webb si accomodò sul bordo della scrivania e cominciò a riporre i codici nella
busta.
— Cosa diceva? — chiese infine.
— Di chiamarlo nel caso dovesse succedere qualcosa di anormale. Gli ho fatto
presente che pensavo fosse una prova. Che te ne pare, Travis? Che diavolo sta
succedendo?
Webb si strofinò nuovamente la mascella.
— Che io sia dannato se lo so. Ma è strano. Inoltre non possiamo metterci in
allarme totale prima di almeno due ore. Quei solenoidi non saranno aggiustati prima
di sera. In ogni modo dobbiamo annunciare la faccenda. Te ne occupi tu?
— Sì, penso che tocchi a me — rispose Robbins.
Prese il microfono sull’armadietto metallico vicino alla cassaforte e girò la
manopola verso la scritta: INTERA RETE.
— Attenzione, prego — cominciò. — Da questo momento Crescent Park è in stato
di allarme di sicurezza, per ordine dell’NRC. La prova avrà la durata di tre giorni. Gli
impiegati all’oscuro delle procedure dell’allarme si rivolgano ai loro superiori. I
superiori sono pregati di mettersi in contatto con Travis Webb. Stiamo iniziando ora
una prova di allarme di sicurezza della durata di tre giorni.
Robbins spense il microfono e lo mise nuovamente sull’armadietto.
— Davvero strana — disse Travis Webb. — Una procedura maledettamente strana
trattandosi solamente di una prova.
21
— Ma non erano figli — diceva tre ore dopo Alex. Si trovava nell’ufficio di Toby.
Fuori scendeva la sera. — Il prete aveva ventotto anni e la ballerina trentatré. La
ballerina aveva una figlia.
— E il prete? — chiese Toby con il sorriso malizioso.
— Una dozzina di orfanelli illegittimi — rispose acido Alex. — concepiti in
Malaysia e lasciati in orfanotrofio.
— D’accordo, non aveva figli — acconsentì Toby. — Stavo soltanto cercando di
allentare un pochino la tensione. E se fossero loro i figli?
— Chi mai considererebbe una donna di trentatré anni una figlia? — domandò
Alex.
— Un momento, apparentemente non c’è alcuna relazione tra la ballerina e il prete,
vero? Ma la lettera diceva che sarebbero morti dei figli, e noi siamo tutti figli di
qualcuno. Perciò la questione è: figli di chi erano?
— Certo — esplose Alex, battendo un pugno sulla scrivania. — È così. È proprio
così.
Le note su Charlotte Kirkaby e Michael Farrell, in quei brevi resoconti, erano
particolarmente scarne. C’erano a malapena i dati anagrafici. Nessuna indicazione
sull’identità dei genitori.
Toby guardò l’orologio.
— A Los Angeles sono le tre e mezzo. Il nome dei genitori della ballerina
possiamo averli in mezz’ora. Per il prete non saprei.
Alzò il ricevitore, compose un numero e attese.
— Ma dove diavolo stanno? — disse, rivolgendosi ad Alex. Poi, nel ricevitore: —
Fergie? Fammi una cortesia, di’ a quel poliziotto di Filadelfia di scoprire chi sono i
genitori del. sacerdote. Sì, i genitori. Qualsiasi fonte, non so, forse sul registro della
chiesa. Qualcuno lo saprà. Fergie, se è necessario vai tu stesso a Filadelfia. O
mandaci Ben Hill. In ogni modo, trovali. — Abbassò il ricevitore.
— Ferguson voleva sapere se gli verrà pagato lo straordinario.
Alex si immerse in un esame introspettivo. Le immagini si componevano e
scomponevano nella mente.
— Riepiloghiamo — disse Toby. — Chi ha scritto la lettera e perché?
— C’è forse qualcosa che abbiamo trascurato?
— La chiaroveggenza — borbottò Toby.
— Toby, ti prego.
Toby increspò le labbra e si gingillò con l’orologio da polso. Alex accese una
sigaretta. Per alcuni secondi rimasero seduti fissandosi reciprocamente.
— A che punto siamo arrivati con la lista dell’American Generai? — chiese Alex.
— Quanti giapponesi abbiamo trovato?
Toby si sentì idiota.
— Hai ragione, ma che cosa mi succede? — Balzò dalla sedia e filò spedito verso
l’armadietto in fondo alla stanza. Prese l’elenco dei nomi dei dipendenti
dell’American General preparatogli da Torrance, del Research. — Ci sono tre
cognomi. Ikeda: assunto la primavera scorsa, addetto alle ricerche di mercato.
Nagata: vicepresidente addetto alle vendite e pianificazione di mercato. Da otto anni
nella compagnia. Uyehara: tecnico degli impianti. Quattro anni. E due donne sposate:
Klein e Mastropieri. Ambedue di origine giapponese, ambedue assunte negli ultimi
sei mesi, e ambedue segretarie. Abbiamo avuto referenze positive da San Francisco
su Ikeda e Klein e ci stiamo occupando degli altri tre.
— Quando sapremo qualcosa?
Toby consultò l’orologio.
— Fra un paio d’ore. Al più tardi a mezzanotte.
Alex accese una sigaretta con il mozzicone di quella precedente.
— Abbiamo un prete e una ballerina morti. Speriamo che presto si apra uno
spiraglio. Il nostro samurai è abbastanza metodico. E non perde tempo.
Alle sei, ora di punta, il traffico della Terza Avenue era bloccato. Paraurti contro
paraurti, i tassì sembravano fondersi in un mare di giallo, come di uova strapazzate.
Nella Diciassettesima Strada, Mitzu sedeva in un tassì privo di aria condizionata e
soffocava per il caldo. L’auto aveva percorso tre isolati in dieci minuti.
— Andrò a piedi — disse Mitzu all’autista.
Guardò il tassametro, calcolò una mancia del quindici per cento e infilò quattro
dollari nel pertugio del tramezzo di vetro che lo separava dall’autista.
— Attento alla portiera — gridò l’autista mentre scendeva. Ma nessuno si
muoveva tanto rapidamente da poter causare danni, non c’era alcun bisogno di fare
attenzione.
Mitzu corse verso il lato ovest della strada, poi si fermò per orientarsi. Si diresse
verso il centro della città, controllando il numero civico dei portoni. Fu sorpreso dalla
quantità di persone che nonostante il caldo insopportabile se ne andavano in giro
portando buste di carta o cartelle portadocumenti. All’angolo della Settantatreesima si
fermò per comprare una granita all’italiana da un venditore ambulante. Il numero
datogli dalla cameriera era il 223. Sorseggiando lo sciroppo ghiacciato, voltò a ovest,
verso la Lexington Avenue. 217... 215. Direzione sbagliata. Fece dietrofront e
attraversò la strada senza aspettare il verde. Dopo tre edifici, alla sua destra, c’era un
palazzo in arenaria coperto di fuliggine, con il numero 223 scritto su una mattonella
blu e bianca in cima alla porta. Il giovane al telefono gli aveva detto che il giorno
seguente non sarebbero stati a casa. Sarebbero usciti di primo mattino. Mitzu aveva
dichiarato di essere il signor Beatty, un vecchio amico del padre di lei, e il giovane
aveva risposto che quella sera lei sarebbe rimasta a casa.
Doveva trovarla in serata.
Salì gli scalini. Sotto il campanello dell’appartamento numero 4B, c’erano due
nomi impressi su un nastro di plastica: HAMMERBERRYMAN. Quindi non abitava sola.
Doveva convivere con il ragazzo che aveva risposto al telefono.
Mitzu suonò.
— Chi è? — rispose la voce del giovane.
Mitzu non parlò.
— Chi è?
Mitzu continuò a tacere.
Attese un attimo con l’orecchio poggiato al vetro della porta, guardando e
ascoltando. Poi suonò ancora.
— Chi è, maledizione?
Invece dì rispondere, Mitzu prese a strofinare con la mano la grata del citofono,
creando un ronzio simile a quello di un contatto elettrico.
— Il citofono non funziona — disse il ragazzo. — Scendo.
Mitzu si allontanò dall’edificio. Attraversò la strada e si nascose dietro un grande
contenitore verde pieno di rifiuti. Sbarre di ferro e calcinacci. L’edificio alle sue
spalle era stato restaurato. Fissò lo sguardo sul caseggiato davanti a lui.
Il ragazzo scese. Attraverso il vetro della porta era difficile vederne chiaramente il
volto, ma Mitzu capì che era alto. Quasi a riverire il suo spettatore segreto, il ragazzo
uscì sulla strada e guardò nelle due direzioni, cercando di capire chi avesse suonato.
Poi scosse la testa e rientrò.
Era alto, biondo e snello. Mitzu pensò di poterlo riconoscere e decise di aspettare
fino al mattino seguente.
22
Alle undici, gli occhi di Alex erano iniettati di sangue. Mentre fissava le carte
davanti a sé, sentiva una vena pulsare dietro i globi oculari, e non riusciva più a
mettere a fuoco la scrittura di un dispaccio della telescrivente. Avrebbe voluto
piantare tutto e andarsene a bere un bicchiere con Burt, ma da San Francisco
dovevano ancora pervenirgli due rapporti che forse contenevano una risposta alle
domande che lo assillavano.
Aveva passato la serata a raccogliere notizie sulle due vittime dell’uomo che i
lettori dei quotidiani di Los Angeles e Filadelfia avevano cominciato a chiamare
«l’assassino delle spade».
I cronisti di ambedue le città avevano ceduto al sensazionalismo, e i giornali della
sera avevano scoperto, chissà come, che il Bureau si stava occupando delle indagini.
Certo i cronisti coltivavano amicizie all’interno dei comandi di polizia. E le amicizie
rendevano. Adesso avevano un altro spunto da sfruttare e riproponevano le solite
storie. Un assassinio era sempre un buon argomento. «Più è perverso, meglio è»
pensò Alex. Era una cosa stomachevole, ma probabilmente il pubblico riusciva a
digerire le notizie di cattivo gusto.
«Questi rapporti non mi dicono niente» pensò.
Spense il lume sulla scrivania e andò nell’ufficio di Toby. Lo trovò al telefono.
— Gli hai parlato personalmente a questo Stone? — stava dicendo. — E di
Uyehara e Mastropieri? — Toby fece cenno ad Alex di sedersi. — Va bene, continua.
Sai dove rintracciarmi.
Toby riattaccò.
— Abbiamo scoperto chi è il nostro uomo.
— Come si chiama?
— Nagata. Nome di battesimo Mitzu. Vicepresidente, addetto alle vendite.
Mastropieri, la segretaria, ha lavorato tutti i giorni nelle ultime due settimane.
Uyehara è rimasto chiuso nel suo ufficio assieme a un’altra dozzina di ingegneri.
Nagata, invece, dovrebbe trovarsi al Waldorf di New York, ma non c’è. Poi dovrebbe
scendere al Mayflower, qui, a Washington. Nessuno lo ha più visto da una settimana.
E adesso senti questa. Alcune settimane fa la moglie ha partorito un bambino che
presentava orribili malformazioni ed è morto poco dopo. Ma lui ha ripreso subito a
lavorare come se niente fosse.
— Hanno parlato con la moglie?
— Non l’hanno trovata. La stanno cercando.
— Facciamo intervenire anche Beckel — disse Alex mentre alzava il ricevitore. —
C’è Gary? No? Per favore, chiamatelo a casa e ditegli di telefonarmi. Grazie. —
Riattaccò il ricevitore e si strofinò gli occhi affaticati. — Be’, che nesso c’è tra il
prete e la ballerina?
— Non lo so. I rapporti li hai letti tu.
— Sembra che non ci sia niente, ma i loro padri hanno prestato servizio nel New
Mexico durante la guerra. Che vorrà dire?
— Potrebbe voler dire qualcosa. Controlliamo il loro stato di servizio.
— Li ho già richiesti, ma devono arrivare da Rockville e ci vorrà un po’.
Toby fece un respiro profondo.
— Quanto?
— Un’ora, forse due. Sono partiti mezz’ora fa, ma ci vogliono tre quarti d’ora per
arrivare.
— Almeno sappiamo chi stiamo cercando. Avete controllato gli alberghi?
— Sì, ma non verrà certamente a buttarsi tra le nostre braccia. Dobbiamo scoprire
chi sono gli altri due figli. E alla svelta.
Alex si infilò la giacca.
— Me ne vado da Burt. Dal momento che non sto combinando niente, è meglio
che vada a fare quattro chiacchiere con lui. Se Beckel chiama, vedi di farlo venire qui
per tracciare un profilo della personalità di Nagata.
— Vai a farti una dormita. Ti chiamerò io.
Andando verso l’ascensore. Alex si fermò al posto di guardia e disse all’uomo del
servizio notturno di passargli le telefonate da Burt. Quando c’era in ballo un caso
tanto scottante, Alex si rendeva sempre reperibile, perciò, quando pernottava da Jill,
le chiamate venivano dirottate lì.
Alex fermò un tassì in Pennsylvania Avenue.
— Quinta Strada, angolo Independence.
Si appoggiò allo schienale con la sensazione di essere reduce da una solenne
bicchierata, in preda ai postumi della sbornia. In realtà, aveva ingurgitato diciotto o
diciannove tazze di caffè, l’effetto delle quali, anche a causa della tensione nervosa,
poteva avvicinarsi allo stesso genere di eccitazione euforica da eccesso di alcolici.
Accese quella che stimò essere la cinquantesima Lucky Strike della giornata.
«Vediamo, ho cominciato stamattina con mezzo pacchetto, altri due durante la
giornata, e ne ho ancora mezzo. No ...» In realtà, era arrivato a sessanta. «Hai
superato i limiti, Burgess. Finirai per morire di cancro ai polmoni e gli amici ti
staranno attorno mormorando che te lo avevano detto. Dopo questo, caso smetterò.
L’ultima volta ché ho deciso di smettere l’ho fatto, per due mesi.»
Il dialogo interiore terminò. Rimproverarsi, lo sapeva, sarebbe servito soltanto a
sprecare le ultime energie mentali della giornata.
Hollister e Alford erano di guardia fuori della casa in una Firebird civile, rosa
acceso. Un genio del Bureau aveva capito che le berline blu o verdi erano uno spreco
di denaro. Qualsiasi ladruncolo che valesse i suoi precedenti penali le avrebbe fiutate
a un chilometro di distanza. I due agenti osservarono Alex scendere dal tassì e
avvicinarsi a loro.
— Buona sera, signori — disse Alex chinandosi sul finestrino. — Bella
carrozzeria.
— Ciao — rispose Hollister. — Toby ci ha detto che cerchiamo un giapponese.
— Sì, come sta il nostro parlamentare?
— Nervoso — rispose Alford, sporgendosi verso Alex. — Si mangia
continuamente le unghie.
— Le ha sempre mangiate — precisò Alex. — Telefonate strane?
— Nada — informò Alford. — La segretaria, sua moglie, il senatore Eagleton,
l’onorevole Brokaw e l’onorevole Gasner. La lavanderia ha lasciato le camicie. Le ha
controllate Granger.
— Granger è su?
— All’ingresso.
— Può darsi che esca con Burt. Stateci alle costole.
Hollister sbadigliò.
— Ci saremo.
Alex suonò il citofono.
— Sei tu, Alex? — chiese la voce di Burt dal piccolo altoparlante.
— Non farlo mai — rispose Alex. — Non mi rimaneva che dirti di sì e tu mi
avresti aperto. Aspetta che sia la gente a farsi riconoscere.
La serratura del portone ronzò e Alex sparì all’interno. Appena arrivato al terzo
piano, vide la sagoma di Granger dietro il vetro traslucido della porta, in fondo al
pianerottolo. Passò oltre l’appartamento di Burt, e Granger si affacciò.
— Salute, Burgess. Tutto bene. Burt è a casa, sorvegliato come un bebè.
— Forse usciremo. Rimani di guardia tutta la notte?
— Mi troverete qui al vostro ritorno. Hollister mi ha detto che tu e Morrison siete
sulla pista buona.
— Sembra. Te lo faremo sapere.
Quando Alex entrò, trovò Burt ad aspettarlo nell’ingresso.
— Ciao, Piccoletto.
— Non chiamarmi così, Alex.
Alex lo seguì nell’appartamento. La casa era vecchia, e in ogni piano c’erano
soltanto due appartamenti molto ampi. La moglie di Burt aveva sfruttato le pareti, alte
oltre quattro metri, fissandovi delle mensole sulle quali aveva messo in mostra la sua
collezione di cristalleria belga. Non c’era neanche una parete nuda.
— Che cosa ti ha detto Marge? — chiese Alex.
— Come fai a sapere che ha chiamato?
— Lo sai che controllano le tue telefonate, Burt, ti dissi che lo avrebbero fatto.
Burt espirò reprimendo la rabbia.
— È vero, l’avevo dimenticato. Alex, questa storia mi sta facendo impazzire. Oggi
Brokaw ha notato Lenin e Bakunin fuori dell’aula del Congresso. Ha capito chi erano
e voleva sapere perché stavano lì. Ce l’hanno scritto in faccia che sono dell’FBI.
— Davvero? Eppure li avevo avvertiti di non farlo. E dove lo avevano scritto?
Sulle guance?
Il tentativo di allentare la tensione di Burt non riscosse troppo successo.
— Mi sento perseguitato, Alex. Mi irrito per un nonnulla. Vedo quei due seguirmi
e mi innervosisco al punto che mi viene voglia di mandarli via. Marge è impaurita a
morte. Mi ha pregato di lasciarla tornare.
— Spero che tu le abbia detto di restare dov’è.
— Naturalmente — rispose Burt avviandosi verso lo studio. — Vuoi qualcosa da
bere?
Alex lo seguì.
— Un goccio di gin, grazie. In ogni modo, Marge non sarebbe riuscita a venire qui.
— Che significa? Perché no? — domandò Burt con voce rotta.
— Perché facciamo pedinare anche lei. Se prova a venire in città la fermano.
Abbiamo già abbastanza problemi a proteggere te.
Nello studio, le pareti erano coperte da scaffali pieni di libri e c’erano due divani
Chesterfield. Burt versò dal Tanqueray per Alex e una buona dose di Dewar per sé.
— Non avete idea di chi ha scritto la lettera?
— Veramente, pensiamo di sapere chi è.
Burt passò ad Alex il suo gin, poi gli si rivolse con improvvisa gravità.
— Sii sincero con me. Onestamente, hai qualche elemento?
— Sì, lo abbiamo. — Alex si allentò la cravatta, si tolse la giacca e si rimboccò le
maniche della camicia. — Ti ricordi di quel gruppo di ragazzi giapponesi che più di
dieci anni fa occuparono un negozio a New York?... Era la primavera del 1970.
Burt poggiò il bicchiere sul bracciolo del divano e piegò la testa all’indietro per
rilassare i muscoli del collo.
— Ragazzi giapponesi. Era un armeria, vero? A Park Avenue. Sì, mi ricordo che
noi due e quella magnifica brunetta eravamo in tribunale per seguire un processo. Ma
che cosa c’entra tutto questo con me?
— Gli slogan di quei ragazzi contenevano le stesse parole usate nella lettera. Hai
mai conosciuto un certo Mitzu Nagata? Un vicepresidente dell’American Generai.
— Mai sentito nominare. Perché?
— Pensaci su un momento. Questo nome non ti dice niente? Hai mai conosciuto
questo tizio?
Burt sorseggiò il suo scotch.
— No, ne sono sicuro, mai conosciuto in vita mia. Perché?
— Perché negli ultimi quattro giorni due persone sono state colpite a morte e
mutilate da spade samurai. Un prete a Filadelfia e una ballerina a...
— Los Angeles — concluse Burt. — L’ho letto sullo Star. E che nesso ci sarebbe?
— Non lo so. Non ancora. Eccetto che questo Nagata è scomparso. È in viaggio di
lavoro e non è andato in nessuno degli alberghi dove avrebbe dovuto alloggiare.
Stiamo aspettando una documentazione completa sul suo conto, e il risultato dei
colloqui con i suoi familiari.
Burt avvicinò il bicchiere dello scotch alla luce della lampada da tavolo e lo agitò.
Girò attorno al divano, camminando quietamente a piedi nudi. Arrivato alla finestra,
si fermò e scostò le tende sottili.
— Sono quei due che ascoltano le mie telefonate?
— No, c’è un uomo che controlla la tua linea nella centralina in fondo alla strada.
— Lo so che mi state proteggendo, ma non è illegale?
— Ci hai dato il permesso — gli ricordò Alex. — Lo hai presentato tu il disegno di
legge. Se l’interessato è al corrente, il controllo è legale. Inoltre tieni presente che, ho
un permesso del tribunale. Non è stato difficile ottenerlo quando il giudice ha saputo
della tua approvazione.
Burt posò il bicchiere sul davanzale e si sdraiò sul divano.
— Fammi riepilogare. Un dirigente dell’American General, che si dà il caso sia
giapponese, è introvabile. La macchina Xerox era dell’American General. Due
persone sono state colpite a morte con spade da samurai e tu pensi che questo tipo...
Come si chiama?
— Nagata.
— Tu pensi che questo Nagata voglia uccidermi.
— Quello che sappiamo per certo è che i termini usati nella lettera sono gli stessi
usati anni fa da quei ragazzi giapponesi, e che Nagata aveva accesso alla Xerox usata
per fotocopiare la lettera. La nostra è soltanto un’ipotesi, Burt. Ma il fatto che sia
scomparso, e che non si fermi nei luoghi dove avrebbe dovuto... be’, mi fa pensare
che siamo sulla pista giusta.
— Ma cosa lo spinge, Alex? Dov’è il nesso?
Alex sbuffò. La concentrazione gli fece corrugare la fronte.
— Non lo sappiamo. Non c’è niente nei dati delle due vittime che le colleghi l’uno
all’altra. Se avessi scoperto che si conoscevano, che avevano qualcosa in comune..
— Ma non l’avevano — concluse Burt.
— Una relazione c’è. Il padre del prete e quello della ballerina, erano di stanza nel
New Mexico durante la guerra mondiale. Toby sostiene che ci sia un nesso tra la
parola «figli», riportata nella lettera, e i padri delle vittime. Ma i loro padri stavano in
due differenti basi. Probabilmente è una coincidenza. A parte questo...
Burt tossì perché lo scotch gli era andato di traverso.
— Dove erano di stanza, Alex?
— Che hai? Che ti succede?
Burt finì di tossire e ripeté la domanda più chiaramente e con enfasi.
— Dove erano di stanza?
Alex cercò di richiamare alla memoria i due rapporti sugli omicidi.
— Il nome della ballerina è Kirkaby. Suo padre era... fammi ricordare... caporale
dell’esercito a Santa Fe. Il prete si chiamava Michael Farrell, e suo padre era alla base
aerea di...
Burt corse verso la cucina.
— Anche mio padre era di stanza in New Mexico.
— Dove vai? — gli gridò dietro Alex.
— La foto — rispose Burt voltando la testa. — La foto di Los Alamos, sul Post.
In cucina, Burt andò dritto a una pila di quotidiani sulla lavastoviglie, e prese a
gettarli sul pavimento man mano che ne leggeva la data in prima pagina.
— Dio mio, guarda Alex, guarda la didascalia.
Porse il giornale ad Alex. In prima pagina c’era la fotografia della cerimonia di
Los Alamos. Erano quattro uomini. Il generale Britten era il terzo da sinistra. Dietro a
loro spiccava la bandiera americana.
— Guarda i nomi — disse Burt, leggendo da dietro le spalle di Alex. — Bly,
Farrell, mio padre e Berryman.
— Il nome di famiglia della ballerina era Bly — ricordò Alex, con orrore crescente
via via che la fotografia acquistava un significato. — Eccoli i quattro padri. Ecco
perché hai ricevuto la lettera!
Rimasero a fissare la foto folgorati dall’idea che stava prendendo forma nelle loro
menti.
— Avranno ricevuto la lettera anche loro? — chiese Burt. — E perché allora non
avrebbero chiamato la polizia? Seguendo l’ordine della foto, io sarei il prossimo.
— A meno che il prossimo non sia Berryman — disse Alex, e subito si lanciò
verso l’uscita.
23
Il giorno dopo, Mitzu si svegliò nel suo letto dell’Abbey Victoria Hotel, poco
prima delle sei. Non ebbe bisogno della suoneria dell’orologio o della sveglia
telefonica. Il suo orologio interiore funzionava magnificamente, portandolo in poco
tempo da un sonno come la morte a uno stato di viva coscienza.
Fece una doccia e si sbarbò meticolosamente. Poi piegò gli abiti nella valigia.
Annodandosi la cravatta, guardò la Settima Avenue attraverso la finestra socchiusa.
Un barbone con un abito cencioso stava urinando nella cunetta del marciapiede.
Mitzu afferrò la valigia e la custodia lunga e stretta che conteneva le spade.
Con il suo bagaglio, scese nell’atrio in ascensore. Al bancone c’era soltanto un
impiegato addetto alla cassa. Mitzu aveva già pagato la sera prima, perciò lasciò
semplicemente le chiavi.
— Grazie, signor Beatty. Arrivederci a presto — disse l’impiegato senza troppa
convinzione.
Nella Settima Avenue, Mitzu fermò un tassì. Quel giorno, avrebbe avuto bisogno
di un’auto. Davanti all’isolato adiacente all’albergo, vide altri barboni che dormivano
sul marciapiede. Più avanti, verso il centro, notò che le luci dei locali porno di
Broadway erano ancora accese. Perfino senza il fervore dell’attività cittadina, l’aria
era già afosa.
Sulla Quinta Strada, il tassì passò davanti a negozi di souvenir e a teatri che
pubblicizzavano spettacoli sexy. Il proprietario di un negozio di specialità alimentari
lottava con la saracinesca di una vetrina, cercando di aprirla. Il tassì voltò l’angolo e
si lanciò, attraverso una filza di semafori sincronizzati, dritto a Columbus Circus.
Mitzu cercò di leggere il messaggio, lanciato dalle lampadine bianche intermittenti,
sulla pensilina del teatro Paramount, ma il tassì andava troppo veloce. «Il mio
viaggio» pensò Mitzu «finirà presto. Devo assumermi le mie responsabilità verso la
mia famiglia e il mio paese. Verso Yamato damashii. Adesso sono un vero soldato,
leale alle tradizioni un tempo disdegnate.»
Il tassì lo lasciò nella Settantaseiesima Strada. Al più vicino chiosco dei giornali
comprò il Times: più tardi gli sarebbe servito. Il giornalaio era zoppo e cieco, i suoi
occhi ruotavano invano nelle orbite.
— Questa non è l’ultima edizione — disse il cieco. — Non è ancora arrivata.
— Grazie — rispose Mitzu.
Si volse verso la facciata rossa e bianca del garage dell’Avis. Sul marciapiede non
transitava nessuno.
Dentro, dietro lo sportello protetto da una parete di plastica trasparente, una donna
di colore piegava e classificava dei contratti di noleggio. «Anche le banche» notò
Mitzu «hanno protezioni di plastica adesso. Non ti trovi più faccia a faccia con
nessuno. Troppi furti. Troppa violenza».
— Nagata — disse alla donna. — Ho prenotato una vettura. — Lei lo guardò, si
voltò stancamente verso lo scaffaletto a muro e ne tirò fuori un contratto con il suo
nome scritto a grossi caratteri neri. Lui avrebbe preferito usare il nome Beatty, ma
nessuna agenzia di noleggio avrebbe concesso un’auto senza una carta di credito.
— Una berlina — disse la donna. — Può darmi per favore la sua carta Wizard, la
carta di credito e la patente?
Mitzu le passò i tre documenti attraverso la feritoia alla base dello sportello. La
donna infilò il modulo del contratto nella pressa della carta di credito e stampigliò
una ricevuta dell’American Express.
— Consegnerete qui la vettura? — domandò, come recitando una litania.
«Non la consegnerò affatto» pensò Mitzu.
— Sì — rispose, mentre firmava le ricevute e le rendeva.
La donna prese un microfono e la sua voce echeggiò nel garage dietro di lei
attraverso gli altoparlanti.
— Berlina, due porte, all’uscita. Il cliente sta aspettando. — Poi si rivolse a Mitzu,
mentre staccava una copia del contratto e gliela consegnava. — Il serbatoio è pieno.
Potete riempirlo voi prima di rendere la vettura, altrimenti lo faremo noi mettendovi
in conto la differenza.
Uscì con le sue due valigie. Il sole che pochi minuti prima appariva incerto nella
foschia, era divenuto tanto lucente da abbagliarlo. Dirimpetto c’era un enorme
furgone che scaricava casse di cibo in scatola nel magazzino di un negozio di
alimentari. Sulle fiancate del furgone era disegnato un sole rosso sullo sfondo bianco.
Una bandiera. Un presagio. Una evocazione.
La vettura era ferma davanti all’uscita del garage. Era una Chevrolet. Mitzu la
guardò e si domandò se avessero già rintracciato quella noleggiata dalla Hertz. Aprì il
portabagagli, vi depose la più corta delle due valigie e mise l’altra sul sedile
posteriore. Entrando fu aggredito dall’odore dei detersivi usati per le pulizie e aprì i
finestrini.
«Adesso non possono più fermarmi. Cos’è un uomo solo? Un individuo è nulla
finché sta insiéme agli altri. Solo, è invisibile.»
Erano le parole di Nakajima. E ora le sue.
Guidò nello splendido bosco del Centrai Park, verso l’East Side. Si chiese a che
ora avrebbero lasciato l’appartamento. Non alle sette del mattino, non così presto.
L’ansia lo divorava e pigiò sull’acceleratore. Arrivato alla Quinta Strada, trovò il
semaforo verde e passò senza esitare. Pensò agli ultimi istanti della sua vita. Il mondo
intero avrebbe ascoltato il suo messaggio. Sua madre lo avrebbe saputo, e si sarebbe
sentita riscattata. La fiamma del codice del samurai sarebbe arsa nuovamente per lei e
per suo padre. Avrebbe reso felice suo padre facendo risorgere l’antico spirito del
Giappone. Avrebbe offerto l’ultimo sacrificio al padre, secondo la descrizione di
Nakajima del cerimoniale della morte. Pensò che era meraviglioso ciò che la
tradizione aveva tramandato, i suoi ideali, il suo linguaggio.
Il contenitore verde pieno di rifiuti era davanti al marciapiede, e Mitzu parcheggiò
lì vicino. Si abbassò dietro il volante, aprì il giornale e attese. Il fremito d’ansia e
l’impazienza provate mentre guidava erano svanite. Ora c’era solo l’attesa, calma e
risoluta.
«Un soldato» si disse «ha fiducia nel suo valore.»
Attraverso gli alberi Mitzu li guardò mangiare, vide il ragazzo poggiare la testa su
un angolo della coperta e la ragazza inoltrarsi nel bosco. Il tronco di un albero e
alcuni cespugli lo nascondevano alla vista della ragazza. Stacy si chinò e raccolse un
mazzolino di fiori bianchi che spuntavano a ciuffi attorno a un tronco avvizzito.
Appoggiata a una quercia immensa, la ragazza canterellava una canzoncina e
annusava i fiori.
Poi lei camminò verso Mitzu, i suoi piedi calpestavano il sottobosco e i rametti
schioccavano. Mitzu sbirciò da dietro l’albero e all’improvviso la vide a pochi metri.
Si abbassò lungo il tronco, cautamente, cercando di non muovere i cespugli. Stacy
passò oltre e si chinò a raccogliere altri fiori. I suoi capelli ondeggiavano mentre si
aggirava tra gli alberi canterellando a voce alta.
Mitzu si spostò parallelamente a lei tenendosi a qualche metro di distanza. I foderi
metallici rilucevano lungo le sue gambe. La ragazza si chinò, lui si fermò e sfoderò le
spade decorate con gli ideogrammi della famiglia Goto. Le zanzare gli svolazzavano
attorno alla testa sfiorandogli le guance, insetti di tutti i tipi gli mordevano le braccia,
attratti dall’olio delle lame. Furtivamente cominciò a dirigersi verso di lei.
Stacy si voltò e lo vide.
— Stacy — la chiamò, sperando che non gridasse.
— Chi siete? Perché ci seguite?
— Sono un vecchio amico. Volevo essere sicuro che fossi tu. Ho un messaggio da
darti.
Stacy gli andò incontro. Quando lei fu a circa un metro di distanza, Mitzu fece
roteare la spada su di lei, squarciandole istantaneamente la gola. Un grido strozzato le
mori nel petto. Alzò troppo tardi le mani per difendersi, il sangue prese a sgorgare
dalla ferita. Barcollò e cadde in avanti sulla terra. La blusa bianca era chiazzata di
sangue. Mitzu finì di decapitarla.
— Stacy — chiamò una voce dal margine della selva. Era il giovanotto.
Rapidamente, Mitzu mise via le spade. Mentre correva tra gli alberi togliendosi il
costume, udì il grido d’angoscia del ragazzo.
24
— Siamo arrivati troppo tardi — disse Alex. — L’ha trovata prima di noi.
Era tornato da Burt dopo una notte di veglia al Bureau. Ormai a tenerlo sveglio
erano soltanto il caffè e la Dexedrine. Si appoggiò al tavolo della cucina e rimase ad
ascoltare il rumore della frusta che batteva contro la ciotola di metallo nella quale
Burt strapazzava delle uova.
— Che cos’è successo?
— Non siamo riusciti a rintracciare Oscar Berryman — spiegò Alex. — Sua
moglie e lui sono in giro con la roulotte. Abbiamo trovato la cameriera, ma quando
siamo riusciti a sapere l’indirizzo della ragazza, era già uscita. L’ufficio di zona l’ha
chiamata questa mattina. Non c’era. L’ha trovata lui ai Cloisters. — Alex scosse la
testa. — Per un pic-nic. È un’attrice. No, sbaglio, lo era.
Burt rimase un istante senza parole. Smise di sbattere le uova.
— Chi l’ha trovata?
— Il suo ragazzo — disse Alex, con voce turbata. — Sta al Bellevue. Distrutto.
Burt versò le uova nel burro fuso, il liquido giallo schiumò e diventò marroncino.
Il profumo stordì leggermente Alex. Sapeva di dover mangiare perché non si può
sopravvivere a lungo con cioccolato, caffè e Dexedrine, ma il pensiero del cibo gli
torse lo stomaco. Vide le mani di Burt tremare.
— Sei riuscito a dormire?
— Un’oretta più o meno. Non è molto.
— Ti rovescerai tutto addosso. Lascia fare a Hollister. — Alex andò all’ingresso.
— Ken, puoi venire qui, per favore?
Hollister si presentò in cucina.
— Ken, potresti venire a fare il cuoco, per noi?
— Sicuro — rispose Hollister.
Tornarono in salotto. Ritagli dell’ultima edizione del Post ingombravano i divani
Chesterfield. Dalle persiane chiuse il sole filtrava sul pavimento lucidissimo. «La vita
continua» pensò Alex. «La gente si sta lavando i denti, poi andrà a lavorare
maledicendo il caldo. È un uomo frustrato e pazzo, apparentemente del tutto normale,
e si sta preparando a uccidere ancora.»
Alex guardò attraverso le persiane e individuò le due squadre di agenti nelle auto
alle estremità dell’edificio. Guardò in alto, sul tetto della casa di fronte si muoveva
qualcosa. Due congegni di mira poggiavano sul parapetto.
— Adesso cercherà me — disse Burt a bassa voce.
— Se si atterrà al suo disegno — rispose Alex. — E lo farà. Finora ha agito
metodicamente e non c’è ragione per cui debba cambiare. Forse riusciremo a
fermarlo per strada. Ma non possiamo controllare tutte le patenti di quelli che entrano
in città. E di Chevrolet Montecarlo blu ce ne sono una quantità. Controlliamo gli
aerei e i treni, ma non arriverà con quei mezzi. Ha ancora un’automobile.
— Che cosa devo fare? — domandò Burt.
— Vai in ufficio. Potrebbe farsi vivo al Campidoglio. Comunque, se è furbo come
penso, a quest’ora sta aspettando che tu vada fuori. Ed è esattamente quello che farai.
— Vuoi dire che farò da esca.
Alex sorrise.
— Ho paura di sì. Ma noi ti staremo alle costole. Non hai di che preoccuparti. Di
una cosa sono certo: non rinuncerà. Non cederà finché non ti avrà preso. Betty
Ammonds è di sopra. Gironzolerà qui attorno, si farà vedere attraverso le finestre,
andrà a fare spese. Quando tornerai a casa starete assieme davanti alle finestre, poi tu
scenderai all’angolo e comprerai sigarette e un quarto di latte. Lo farai di nuovo
domani sera, la sera seguente e così via, finché non lo vedremo.
Burt poggiò il mento sul palmo della mano e tamburellò le dita sulla guancia.
— D’accordo — disse, con una vivacità forzata e una risata nervosa. — Vado ad
assolvere i miei doveri verso l’elettorato.
— E io a farmi una dormita. Ti telefonerò più tardi.
Alex si fermò sul ballatoio. Nell’edificio regnava una quiete assoluta. Dietro la
porta a vetri vedeva la silhouette di Granger.
Alex bussò al vetro. Granger aprì la porta. Aveva la fronte madida di sudore.
— Frank, me ne vado a letto. Lui andrà in Campidoglio. Dai un’occhiata alla
strada e stai attento. Potresti intercettare un visitatore. — Alex si voltò per andare via,
poi si fermò e guardò Granger. — E, Frank, se dovesse capitargli qualcosa...
Granger si limitò ad annuire, e Alex proseguì.
25
Erano le sette di sera quando la sveglia scosse Alex dal suo torpore. Venti minuti
dopo, alla terza tazza di caffè, era ancora intontito. Otto ore non erano bastate. Dopo
aver sentito Toby, chiamò Jill a casa, ma la segreteria telefonica era staccata. Pensò
che fosse in biblioteca impegnata al suo libro. Ma era sempre così meticolosa
riguardo alla segreteria telefonica! Se era andata in biblioteca, dopo la lezione
pomeridiana, come mai al mattino la segreteria era inserita?
Toby lo aspettava al Bureau. Non c’erano novità, e questo era un brutto segno.
— Nessuna traccia dell’auto — dichiarò Toby. — Forse se n’è disfatto. Non è stato
rintracciato a Jersey Pike, ma è possibile che abbia lasciato il Jersey prima che la
polizia cominciasse a dargli la caccia. Se fosse venuto qui, lo avrebbero avvistato a
sud di Filadelfia.
— Non può aver aggirato il Penn Pike — aggiunse Alex — se ha pensato che
qualcuno lo cerca.
Toby annuì.
— Potrebbe essere sfuggito alle squadre di Penn. Ma per entrare nella capitale
deve attraversare tre blocchi. Se ce la fa, significa che conosce tutti i vicoli della città.
— Voglio tutti gli agenti nelle strade a cercarlo — dichiarò Alex. — Se riesce a
entrare in città, è facile che posteggi e prenda la metropolitana. Cristo, potrebbe aver
preso per Rockville o dintorni e allora non lo troveremo di certo.
— Sì, ma lo prenderemo quando tenterà di accostarsi a Burt. Neanche un verme
riuscirebbe ad avvicinarsi abbastanza a lui. Lo troveremo.
— Certo — rispose Alex dubbioso. Si passò una mano sulla barba irsuta,
rimpiangendo di non aver avuto il tempo di radersi. La pelle cominciava a prudergli.
Caffè e Dexedrine non bastavano. Il corpo implorava tregua.
— Scommetterei che non ha ancora lasciato New York. Lo beccheranno lì, o
stanotte a Penn Pike — disse Toby.
Alex pensò che era possibile. Nagata sembrava essersi mosso senza troppe
precauzioni. Aveva ucciso Charlotte Kirkaby a San Francisco, poi nel pomeriggio se
n’era andato a un appuntamento di lavoro. Quattro giorni dopo, la mattina, aveva
visitato un impianto nucleare a Filadelfia, nello stesso pomeriggio aveva assassinato
Michael Farrell. Poi aveva deciso di tenersi nascosto, aveva saltato un appuntamento
a New York e non aveva alloggiato a Waldorf. Si erano appena messi sulle sue tracce
e già era sparito. Meno di quindici ore dopo la sua definitiva identificazione, aveva
ucciso Stacy Berryman. Come aveva fatto a seguirla? E come era riuscito a mettersi
in condizioni di farlo?
— Andiamo a parlare con Beckel — disse Alex.
— Ci sta aspettando.
Il dipartimento per le analisi psicologiche era situato in un angolo angusto del
piano interrato, il resto dello spazio era occupato dai reparti di chimica e tossicologia,
mineralogia e sierologia. I più anziani sfottevano dicendo che se gli psichiatri fossero
serviti a qualcosa sarebbero riusciti a farsi assegnare dal direttore metà del terzo
piano. Difatti soltanto negli ultimi due anni era stato concesso un certo credito
all’analisi psicologica dei criminali. Prima della morte di Hoover, il guadagno degli
psichiatri era scarso, a meno che non curassero i dementi al di fuori del Bureau.
L’ufficio di Gary Beckel, nient’altro che due tramezzi e una scrivania, era il primo
della sezione. Alex aveva sollecitato l’assunzione di Beckel perché era giovane e
ambizioso, ma soprattutto perché lo psichiatra, dopo la laurea, aveva svolto un
periodo di pratica studiando i criminali nelle prigioni, e perché credeva fermamente
nell’esistenza della mente criminale. Alex aveva ascoltato le sue dissertazioni sulla
tipologia dei disordini caratteriali che conducono al crimine, e ne era rimasto
profondamente colpito.
— Salute, segugi — disse Beckel, alzandosi per dare il benvenuto ad Alex e Toby.
— Ve ne è capitato uno davvero straordinario.
— Mi spiace averti trattenuto fino a quest’ora — disse Alex — ma sono stato fuori
combattimento tutto il giorno.
— Non fa niente. Sedetevi e alleggerite i piedi dal peso del vostro corpo.
L’aspetto vivace di Beckel, che armonizzava con la sua camicia bianca Brooks
Brothers, la cravatta di reps con il nodo lento, e le scarpe eleganti e sporche gli
conferivano l’aria dello studente modello.
Sedendoglisi di fronte, dall’altra parte della scrivania, Alex pensò che Beckel gli
piaceva anche per il suo aspetto. «Ho una cattiva tendenza riguardo allo snobismo
della gente bene.» Ma scacciò il pensiero e si concentrò sul giovane psichiatra.
— Che ne pensi, dottore? — domandò Toby.
Beckel poggiò una cartella sulle ginocchia.
— Nagata è un insieme di contraddizioni molto interessante. Cittadino modello,
buon impiegato, la normale e solida classe media americana. Ma lo è? — Beckel li
guardò serio. — Ha svolto lo stesso lavoro per otto anni. I giovani dirigenti non lo
fanno mai. Si spostano da una compagnia all’altra. Perché lui no? Ebbene, i suoi
genitori vivono a San Francisco e il suo capo, Edward Stone, dice che è molto fedele
a loro.
— Lo hai ietto nella cartella? — domandò Alex. — Io non ho trovato niente del
genere.
— No, gli ho telefonato. Dunque, perché Nagata è fedele? Ebbene, è venuto fuori
che i suoi genitori sono giapponesi vecchio stile, e che il padre parla al figlio in
giapponese. E che lo hanno portato a San Francisco subito dopo la guerra. Questo ci
porta al figlio morto. Ho parlato con il medico, si chiama Bellows. Bellows dice...
— Come sei arrivato a lui? — domandò Alex.
— Dalla cartella. Bellows dice che, quando ha detto a Nagata del bambino, Nagata
non ha tradito emozioni. Non ha pianto, protestato o gridato. Niente. È rimasto freddo
come il ghiaccio. Dunque, sua moglie lascia l’ospedale e torna a casa, Nagata si
precipita di nuovo al lavoro. Ora che cosa significa questo? Voglio dire, chiunque
altro si sarebbe preso un paio di giorni per riprendersi, o almeno per restare vicino
alla moglie. Ma non è nel suo carattere. Poi è venuto fuori che si trovava nei pressi di
Hiroshima al momento dell’esplosione, e Bellows dice che probabilmente è questo
che ha provocato le malformazioni. Un’alterazione genetica.
Alex fischiò.
— Questa è una cosa possibile o certa?
— Oh, certa. Reazioni mutageniche alle radiazioni, assolutamente. Teratogenesi da
radiazioni? Indubbiamente.
— Terato... che? — domandò Toby.
— Deriva dal greco — spiegò lo psichiatra — e significa creazione di mostri.
Bellows voleva fare un prelievo a Nagata per sottoporlo a un esame costosissimo del
gene. Ma Nagata non si fece più vedere. Ebbene, vi dirò cosa ne peso io.
Naturalmente è una congettura, ma io credo che Nagata sia scoppiato. Penso che ci
troviamo di fronte a un individuo fuori di sé, pronto a sprofondare. Una personalità
dall’equilibrio già precario, che è crollata quando è nato il bimbo. Il figlio muore e
Nagata sa che non ci saranno più bambini. Poi vede il fotogramma sui giornali è gli
dice.
— Vuoi dire — interruppe Alex — ha detto a se stesso?
— No, alla foto — continuò Beckel. — Per lui la foto è qualcosa di vivente. Ha
attribuito all’immagine qualità umane, e ha detto alla foto: «Se io non posso avere
bambini, nemmeno voi dovete averne. Voi avete lanciato la bomba, e avete i vostri
figli. Occhio per occhio». Io non so niente dei genitori di Nagata, ma scommetterei
che ci sono antenati samurai. Nagata aveva cancellato questo fatto diventando
completamente americano. E nemmeno un americano qualsiasi, ma la quintessenza
dell’americano. Ha perfino sposato un’americana, una bellezza protestante di buona
famiglia. È come se il tipo si cullasse nella fantasia di non essere giapponese, ma ogni
volta che si guardava allo specchio doveva affrontare la contraddizione. Bene, alla
lunga la personalità entra in gravi disagi. E come se noi ci guardassimo allo specchio
ogni giorno e ci vedessimo come dei Cary Grant, soltanto che per Nagata è peggio.
Noi potremmo continuare a vederci dei Cary Grant. Nagata era predestinato al
disastro. — Beckel si appoggiò allo schienale e chiuse la cartella. — Naturalmente è
una speculazione, ma è esattamente quello che penso.
— Sono riusciti a cavare qualcosa dalla moglie? — chiese Toby.
— L’hanno rintracciata giusto un’ora fa, dai genitori di lui. Sto aspettando che mi
dicano quando posso parlarle. E vorrei sentire anche i genitori. Ma credo di aver colto
nel segno. Adesso vorrete sapere che cosa farà. La lettera dice che migliaia di persone
moriranno; lui lavora per una compagnia che costruisce impianti nucleari e abbiamo
appena parlato di radiazioni, perciò...
— Ti ho preceduto — disse Alex. — L’NRC ha messo in stato d’allarme tutto il
nord-est.
— Se ne avrà l’occasione, ne farà saltare uno. Sprigionerebbe tante di quelle
radiazioni da ammazzare tutti i figli che vuole, e da impedire a tanti altri di averne.
Noi gli abbiamo tolto il figlio e adesso metaforicamente lui ci toglie i nostri.
— Difficilmente definirei metafora l’esplosione di una centrale nucleare — disse
Toby.
Beckel annuì.
— La metafora è nella sua mente. La realtà non lo interessa. Vi suggerirei di
tenervi pronti. Adesso è un samurai. Ha due spade e vive in un sogno del XVII
secolo. Conduce una guerra santa, e non sarà facile fermarlo.
— Lo acciufferemo appena si avvicinerà a Burt — affermò Alex.
Beckel si drizzò sulla sedia.
— Burt?
— Ha ricevuto la lettera — rispose Alex.
Il viso di Beckel si alterò mentre si concentrava.
— Sì, certo, ma... e la figlia del generale?
Alex passò lo sguardo dal volto terrorizzato di Toby a quello di Beckel.
— Oh, mio Dio! — esclamò, saltando su dalla sedia.
26
Le grida erano giunte nel bagno di Ralph Sheed echeggiando attraverso il condotto
di ventilazione. Era rientrato soltanto dieci minuti prima da una cena al dipartimento
di Stato, e tentava di smaltire i postumi della sbornia in cucina, direttamente sopra
l’appartamento di Jill.
«In nome di Dio, chi urla a quel modo?» Non si era mai sentito un rumore in quella
parte dell’edificio, perché gli appartamenti erano abitati da persone sole.
«Sembrerebbe sotto di me» pensò Sheed.
Scese la scala e poggiò l’orecchio alla porta del 6 A. Silenzio. Di nuovo grida.
Provenivano dall’appartamento di Jill Britten. La incontrava spesso nell’ascensore, e
gli aveva innaffiato le piante durante il suo viaggio in Messico, l’inverno precedente.
Era sul punto di bussare quando la porta si spalancò e la ragazza gli si parò davanti
barcollante e stravolta, con le mani sanguinanti.
— Gesù, Jill, cosa...
Una sagoma nera gli passò accanto in un lampo, e credette di vedere anche una
lama. Poi si rese conto che Jill Britten gli era svenuta tra le braccia.
27
Quando aveva ideato il suo piano, Mitzu aveva pensato a un solo epilogo possibile
e considerava questo il capitolo più facile. Aveva previsto di affrontare il suo destino
con serenità. Ma aveva la gola serrata, e guidando notò le vene blu sul dorso della
mano pulsare sotto la luce del sole, i peli sulla pelle erano curvati dalla corrente
d’aria che vorticava nell’auto, e li considerò come segni della propria mortalità.
«C’è un tempo per morire» si disse. «Sei un soldato.»
A cinque chilometri da Crescent Park si fermò a un posto di ristoro. Era un edificio
simile a un bunker, costruito con blocchi di cemento, e con una grande insegna della
Coca-Cola sulla porta anteriore. Con il tempo la vernice rossa della scritta era
diventata viola pallido.
— Una Coca — chiese alla ragazza dietro il bancone.
Lei sembrava non averlo neanche sentito.
— Grande o piccola?
— Piccola.
Da una colonnina di bicchieri di plastica la ragazza ne sfilò uno e lo immerse in un
contenitore di ghiaccio tritato sotto il bancone. Mentre reggeva il bicchiere sotto la
spina, lo fissò con insistenza. Mitzu pensò che la faccia della ragazza era colma di
innocenza e curiosità.
— Altro? — domandò, poggiando il bicchiere sul bancone.
— Va bene così.
Prese il dollaro che lui le porgeva tenendolo per un angolino, quasi avesse paura di
toccarlo. Sempre fissandolo, schiacciò i tasti del registratore di cassa. Fece scivolare
il resto verso di lui, poi si appoggiò al distributore automatico della Coca.
— Tipi come voi qui non se ne vedono spesso — disse la ragazza. — Siete dei
dintorni?
— No, in visita.
— Sì? Qualcuno in città?
— No, Crescent Park. Centrale nucleare.
— Davvero! — le si illuminò il viso.
— Lavorate lì?
— No, per la compagnia che l’ha costruita.
— Di dove siete?
— Di San Francisco.
— Davvero? È bella? È come Nelle strade di San Francisco? Come nei telefilm?
— Sì, è una bella città.
Al di sopra del distributore automatico della Coca-Cola, poggiata su due staffe, una
radio trasmetteva: «... a Tokyo, durante le cerimonie, il Primo ministro ha deposto
una corona di fiori sul monumento alle vittime del bombardamento di Hiroshima.
Quest’anno il Giappone ricorda il trentacinquesimo anniversario dell’esplosione della
bomba atomica. Trasmetteremo un servizio speciale sulle opinioni delle giovani
generazioni giapponesi a proposito dell’esplosione atomica. Questa è la rete
radiofonica CBS».
La ragazza notò che Mitzu fissava la radio.
— Siete giapponese?
— No, cinese.
— Oh.
Trangugiò il resto della Coca, poi uscì nel sole pomeridiano e si avviò verso la sua
auto.
Hank Robbins ascoltava i due uomini e faceva del suo meglio per prenderli sul
serio.
Travis Webb sedeva impassibile dietro la scrivania.
— Ma non è un pazzo — disse Hank. — Fra tutti i tecnici delle varie compagnie
che ho conosciuto, è l’unico che sappia come funziona un impianto. È stato qui
proprio l’altro ieri e...
— L’altro ieri? — interruppe Alex.
— Sì, aveva un appuntamento per ieri, ma è venuto in anticipo. Ha detto che la
compagnia ci teneva a farci sapere che è a nostra disposizione tutte le volte che
avremo bisogno di aiuto.
Alex si rivolse a Roger Alford in tono meno allarmistico possibile.
— Telefona a Krieger e senti se è stato anche da lui.
Alford lasciò l’ufficio di Webb e si avvicinò a una scrivania dell’anticamera. Dal
vano della porta, Alex lo vide alzare il ricevitore.
— Sentite, signor Burgess, che ha fatto quest’uomo? Ossia, che cosa vi aspettate
che faccia?
— Signor Robbins, per favore, ascoltate attentamente. Nagata potrebbe tornare.
Forse oggi, forse domani, forse mai. Ma, se lo farà, dovete fingere che non sia
successo niente. Pensate di riuscirci?
Robbins guardò il posacenere sulla scrivania di Webb. Era un omaggio
pubblicitario della compagnia, di vetro marrone, foderato di pelle all’esterno. Le
cicche traboccavano.
— Sentite voi, lo sapete che fumate troppo?
— Lo so — rispose Alex schiettamente, celando la propria impazienza. — Cosa
avete fatto quando è venuto qui?
— Be’, vedete, era una settimana infernale. Avevo due tecnici della sala di
controllo in malattia, un circuito di trasmissione bruciato e sul punto di procurarci il
blocco automatico del reattore, e infine, cinque solenoidi delle entrate alla sala di
controllo erano saltati, e... un momento, non avrete mica a che fare con la richiesta
dello stato d’allarme dell’NRC?
Alex guardò l’orologio.
— Sì. Mi stavate dicendo che cosa avete fatto quando è venuto Nagata...
— Vero, be’, gli ho mostrato le parti difettose e lui mi ha dato alcuni consigli per
migliorare il sistema. Mi manderà un ingegnere da affiancare ai miei uomini.
— Siate più preciso, signor Robbins. Specificate di che cosa avete parlato.
— Dei sistemi di sicurezza, degli interruttori automatici del reattore e delle barriere
per la sala di controllo.
Sicurezza, sala di controllo. Tutto quadrava.
Alex decise di parlare apertamente a Robbins.
— Signor Robbins...
— Hank, chiamatemi Hank.
— Hank, penso che Nagata tornerà qui e cercherà di far saltare la centrale.
— Non può farlo — asserì Robbins. — Non può saltare.
— E se scaricasse l’acqua dal nucleo che cosa succederebbe?
— Nessuno può essere così stupido — rispose Robbins.
— E se lui lo fosse? Che cosa succederebbe?
— Avremmo nubi radioattive da qui al Delaware.
— Allora ci siamo capiti — concluse Alex. — Non è stupido, ma è pazzo. Ed è
pericoloso. Ha già ucciso tre persone. — «E stava per ucciderne un’altra» aggiunse
mentalmente.
Alex non riusciva ancora a spiegarsi il messaggio sulla segreteria telefonica di Jill.
Quasi non riusciva a pensare ad altro.
Nell’anticamera dell’ufficio di Webb, Roger Alford stava riattaccando il ricevitore.
Alex notò che Robbins aveva riacquistato la padronanza di sé, ma nello stesso tempo
avvertì un cambiamento nell’atmosfera emotiva attorno a sé. Robbins cominciava a
capire.
— Signor Burgess, se ha già ucciso tre persone e verrà qui, non credete che dovrei
comunicarlo ai miei uomini? Avremo bisogno di aiuto.
— Certamente — disse Alex, alzandosi mentre entrava Roger.
— Nada — annunciò Alford. — Non ne sanno niente. Il suo appuntamento è per
domani.
— E la Squadra C?
— Sta arrivando — rispose Alford, infilando in bocca una gomma da masticare. —
Saranno qui tra dieci o quindici minuti.
— E gli agenti?
— Appostati. Ci diranno chi si avvicina al cancello. Sono sintonizzati sulla nostra
frequenza. — Alford si rivolse a Travis Webb. — Signor Webb, ho avvisato i vostri
uomini al cancello.
— Sono buoni elementi — rispose Travis Webb.
Hank Robbins aveva cominciato a sudare abbondantemente.
— Non fa un po’ caldo qui? — domandò.
— Un po’ — rispose Alex, anche se l’ufficio era piacevolmente fresco. — Allora,
Hank, quando verrà gli andrete incontro al cancello come fate di solito, e lo
accompagnerete qui. D’accordo? Pensate di farcela?
— Certo, penso di sì. Tenterà di uccidermi?
— No, Hank, non credo. Potete scusarmi un momento?
Spinse Alford nel corridoio.
— Roger, quando verranno quelli della Squadra 6, mettine due davanti al cancello,
all’interno del muro di cinta, cinque tra i cespugli e quattro all’interno dell’impianto.
Se si presenteranno dei rischi, se dovesse opporre resistenza, fermatelo. Ma lo vorrei
vivo.
— Furgone Ford giallo sale sulla strada di Crescent Park — gracchiò la voce
nell’ufficio di Travis Webb. — Un uomo al volante. Targa del New Jersey. Non si
vedono altri passeggeri.
Le facce si distolsero dalla radio sulla mensola. Hank Robbins emise un sospiro di
sollievo.
— È il guardiano della sala di controllo — spiegò.
Roger Alford prese il suo walkie-talkie.
— Squadra 6, furgone giallo in avvicinamento al cancello. Non è il nostro uomo.
Ripeto, non è il nostro uomo. Alford.
— Ricevuto — fu la risposta.
— Forse si sta dirigendo nel Connecticut — disse Robbins.
— Forse — ripeté Alex.
Presa la sua tazza di caffè, si avvicinò alla finestra che guardava i padiglioni
centrali dell’impianto. Prospiciente l’entrata, c’era una siepe di ligustri lunga e bassa,
che formava una fitta barriera. Alex cercò di localizzare gli uomini della Squadra 6
che vi si nascondevano sicuramente dietro. «Devono essersi sdraiati ventre a terra i
duri.» Credette di vedere una parte della siepe tremolare nella brezza, ma non notò
nessun agente. Dietro la siepe c’era un passaggio pedonale che conduceva
all’impianto, fiancheggiato da due chioschi decorati da alte bacheche, tentativo delle
mogli degli addetti all’impianto di dare al luogo un aspetto più familiare. La facciata
dell’impianto era priva di finestre o porte. Era una superficie liscia di mattonelle di
marmo grigio. La trappola era tesa, pronta per la preda.
Ma Alex pensò che era stata la preda a tendere la trappola. Sembrava impossibile
che Nagata ignorasse la loro presenza. Li aveva avvisati lui. Adesso Alex ricordava
che quando aveva ricevuto la lettera aveva pensato che all’uomo non importasse di
essere fermato. Fino a quel momento, la supposizione sembrava corretta. Ma
certamente Nagata non voleva essere fermato troppo presto. «Ho trascurato
l’elemento più ovvio» pensò Alex. «Ha voluto che noi lo inseguissimo, ma per essere
catturato soltanto alla fine. Sapeva che prima o poi saremmo risaliti a lui, e lo
avremmo rintracciato in un impianto nucleare.»
Alex accese una sigaretta e si versò una tazza di caffè. Notò che Robbins sudava
più che mai. Non ce l’avrebbe fatta ad accogliere Nagata al cancello e a farsi seguire
in quell’edificio. Nagata avrebbe fiutato immediatamente la sua paura.
— Berlina bianca due porte — gracchiò la radio. — Targa New Jersey.. Una donna
alla guida. Non si vede nessun altro passeggero.
— Sally Kelleher — spiegò Travis Webb — la segretaria del turno serale. Inizia a
lavorare alle quattro, ma viene sempre in anticipo.
«Il messaggio al telefono» pensò Alex. «Se non avesse voluto farsi trovare non
avrebbe lasciato il messaggio inciso.»
— Squadra 6 — chiamò Alford al walkie-talkie. — Berlina bianca due porte in
avvicinamento al cancello. Non è il nostro uomo. Ripeto, non è il nostro uomo.
— Ricevuto.
— Hai parlato con quelli del Connecticut, Roger?
— Sì. Nada. — Si rivolse a Robbins. — Aspettate altri.?
— Sam Hochman. Prende servizio alle quattro. Sarà puntuale. Non arriva mai in
anticipo.
Alford lanciò un’occhiata in direzione di Alex: il significato era più che evidente.
Alex si rivolse a Robbins.
— Che tipo di auto possiede Hochman? — domandò preoccupato.
Robbins spostò lo sguardo da Alford ad Alex, e improvvisamente, anche lui capì
quale fosse il pericolo.
— Una nuova Rabbit — spiegò. — Di che colore è, Travis? Blu, non è vero?
— Blu — confermò Webb.
Roger Alford prese nuovamente il walkie-talkie.
— Hollie, se arrivasse una Rabbit blu con un uomo al volante, fai in modo che si
tolga di mezzo e che non si muova.
— Ho capito.
Alex prese il wakie-talkie dalla scrivania di Webb.
— Hollister, non fermarlo se arrivano altre vetture nello stesso momento.
— Ho capito — rispose Hollister. — Vuoi tenerlo fuori tiro.
— Esatto — concluse Alex, pensando che non ci sarebbero state sparatorie.
Erano le quattro meno dieci. Travis Webb si alzò e mise la pistola nella fondina.
— Signor Webb — disse Alex — preferiremmo che rimaneste qui.
— Siamo in stato d’allarme, signore — precisò Webb — e questo mi obbliga a
ispezionare la centrale ogni due ore.
— Signor Webb, vi prego, i nostri uomini si occupano di tutto — insisté Alex. —
Non vogliamo che corriate alcun pericolo.
Travis Webb sedette: era chiaramente seccato, ma non si slacciò la fondina.
— Chevrolet blu — riprese la radio della polizia — sulla strada di Crescent Park.
Targa da noleggio di New York. Uomo orientale al volante. Nessun altro passeggero
visibile.
— È lui — disse Alex.
— Squadra 6 — urlò Roger Alford al walkie-talkie. — Chevrolet blu in
avvicinamento al cancello. È il nostro uomo. Ripeto. È il nostro uomo.
— Ricevuto.
Prima ancora che Alford avesse finito, la radio gracchiò ancora.
— Volkswagen blu. Targa New Jersey. Uomo bianco al volante. Non si vede
nessun altro passeggero. Sulla Crescent Park, dietro la Chevrolet.
Nell’ufficio di Webb cadde il silenzio. Robbins lanciò un’occhiata supplichevole
ad Alex.
— Hank, mantenete la calma. Va tutto bene. Lasciate che il nostro uomo parcheggi
come al solito e accompagnatelo qui. Sapete già cosa dire?
— Sissignore — rispose Robbins. Il suo respiro era profondo e irregolare. — Devo
prendere i cartellini per superare i posti di controllo.
Alex toccò la mano di Hank.
— Rilassati, Hank. Sarai bravissimo.
Il citofono ronzò e Robbins rispose.
— Fatelo passare, vengo subito.
Robbins tolse la comunicazione e Alex notò che le sue mani erano ferme. Un
momento prima tremavano.
— Buona fortuna, Hank.
— Ne ho proprio bisogno — disse Robbins accigliato. — Grazie.
Mitzu affondò l’arma nel proprio addome. Impresse alla lama un movimento verso
l’alto, attuando il seppuku, il suicidio rituale del samurai. Una smorfia gli sfigurava il
volto. Si piegò sulla spada rimestandola, squarciando la carne tesa del ventre.
«Questa è la mia morte» pensò. «Questo è il tempo per morire. Sono un soldato.
Muoio per il mio imperatore. Sono valoroso e sereno.»
Sentiva un dolore straziante. Guardò il sangue che sgorgava a fiotti. Una
sofferenza accecante si levò dentro di lui come una fiamma, come se la carne
bruciasse. Con tutta la forza rimastagli, affondò ancora la spada. La sofferenza
diventò insopportabile, ma lui non gridò. «Possibile che io sia ancora vivo?» Aveva il
ventre squarciato. Si sentiva stordito. Il sangue inondava il pavimento. «Sono un
soldato. C’è un tempo per morire. Sono vivo? Possibile che sia ancora vivo?» Le
ginocchia scivolarono sulla pozza di sangue.
La testa gli ricadde sul petto. Era morto.
28
FINE