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INTRODUZIONE

Normalmente, durante il proprio sviluppo, le aziende vivono momenti di grande cambiamento. I


cambiamenti anche tecnologici producono valore per le aziende solo se sono seguiti da cambiamenti di
carattere organizzativo e a loro volta i cambiamenti a livello organizzativo dipendono da tre driver:

1. Cambiamenti di contesto

-Cambiamenti demografici

Siamo una popolazione che sta invecchiando sempre più e chiaramente non ci si può aspettare da
una persona che ha 65 anni le stesse prestazioni di una persona che ne ha 25, ma li si deve
comunque far lavorare. Attualmente nel mondo del lavoro si trovano a collaborare persone che
sono nate durante boom economico e persone che sono nate nell’era digitale, aventi naturalmente
modi di pensare diametralmente opposti. Sono cambiamenti demografici anche i flussi migratori.

-Cambiamenti socioculturali

Sono le cose a cui le persone danno valore. Un aspetto che adesso sta diventando sempre più
importante è quello ambientale. Si sta cercando di evitare l’uso del carbone anche se vedremo che
questo ben si adatta a molte teorie organizzative.

-Cambiamenti economici

Sono i cambiamenti relativi alla globalizzazione e ai problemi che le aziende stanno affrontano per
far fronte al problema della crisi economica.

Dopo la crisi del 2008 l’Italia è stata molto penalizzata a livello europeo e solo il 30% delle aziende
italiane sono riuscite ad attuare delle strategie che consentissero loro di consolidare le loro
posizioni all’interno del mercato durante la crisi.

- Quelle che sono riuscite a possedere e padroneggiare al meglio le tecnologie che stanno alla
base del proprio business
- Quelle che sono riuscite a differenziarsi rispetto ai competitor
- Quelle che sono riuscite a collocarsi in una visione più integrata del mondo, facendo uso di
catene di rifornitura globali.
- Per attuare questi 3 punti c’è bisogno che ci sia una riorganizzazione coerente, snella, lean che
faccia magari uso del world class manufacturing.
- Quelle che hanno capito per tempo che stava cambiando il sistema di valori e che quindi hanno
dato sostegno ad iniziative a supporto delle tematiche ambientali e altre che stavano sempre
più a cuore ai clienti.

Le altre imprese dovranno trovare il modo di inserirsi in ritardo in un contesto completamente


diverso.

2. Cambiamenti tecnologici

Nel corso degli anni il mondo sta affrontando un percorso di trasformazione digitale (ad esempio il web2.0
che portato all’interno delle aziende dà vita all’entreprise 2.0). Le applicazioni legate alla digitalizzazione
vengono chiamate applicazioni smart.

Molto spesso quando si parla di innovazione digitale si parla di innovazione disruptive, che fa fare dei
cambiamenti repentini e totalizzanti.
Le aziende hub sono delle aziende piattaforma (Amazon, Blablacar, Airbnb ecc.) che entrano nel mondo del
business e creano una centralizzazione su un numero limitato di attori economici di una massa di affari
molto rilevante. Ritorneremo sulle variabili tecnologiche.

3. Cambiamenti relativi alla trasformazione endogena.

Quando le persone riflettendo sulle tematiche relative ai cambiamenti delle aziende, propongono delle
teorie organizzative. Il manager si rende conto dei benefici che possono venire dall’impostare le attività in
un altro modo.

Cambiare significa sfruttare al meglio l’esperienza precedente. Il manager, di fronte ad un’esigenza


specifica, trova la risposta adeguata (che questa sia la lean production, gestione dei progetti e dei processi,
gestione della conoscenza, gestione della diversità ecc.).

Analizzeremo i punti principali del corso (micro, macro, meso), utilizzando un approccio più applicativo.
Faremo dunque un’analisi storica che ci porterà a capire e inserire questi concetti all’interno di un contesto
più ampio.

2 tipi di ragionamenti:

1- Perché nascono e come si formano


Se uno pensa alla prima rivoluzione industriale a cosa pensa? Inghilterra, macchina a vapore,
settore tessile, tutte le più importanti reti fisiche.
E se guardo in termini organizzativi, cosa viene in mente? La manifattura. La macchina a vapore mi
spinge secondo un’ottica di economia di scala a portare il lavoro non più a domicilio, ma in fabbrica
in modo da distribuire con costi minimi l’energia generata dalla macchina a vapore.
In termini di organizzazione del lavoro? La produzione di spilli di Adam Smith.
Dopo la prima rivoluzione industriale, è arrivata la seconda rivoluzione industriale, che ha visto
coinvolti due paesi: gli Stati Uniti e la Germania. Quest’ultima come polo di industrializzazione è
stato un po’ trascurato perché ha sfruttato male i vantaggi derivati da questa (olocausto) e quindi è
stata considerata una vergogna. È il primo momento in cui nelle aziende ci sono grosse innovazioni
(energia elettrica, telecomunicazioni, chimica, auto, petrolio ecc.).
Se pensiamo all’impatto organizzativo cosa vediamo? Le aziende cambiano di dimensioni,
l’azionariato cambia di dimensioni ed emerge la necessità di avere un manager. Un altro motivo per
cui le aziende sono cresciute così tanto è perché dal punto di vista gestionale si usavano dei modelli
molto verticalizzati (Ford).
I manager sono nati anche perché si è realizzato di avere dei potenziali dovuti alla tecnologia.
Questi ultimi si trovano ad avere a che fare con due problemi:
-come rendere efficienti le attività- organizzazione scientifica del lavoro
-come gestire un’azienda di dimensioni ragguardevoli (teoria dei principi di direzione Fayol, Max
Weber e la teoria della burocrazia)

2- Scorriamo una mappa delle teorie organizzative


Un primo step sono le teorie classiche, sviluppate nelle grandi imprese durante la rivoluzione
industriale. Si sono sviluppate sulle aree di business più ricche che permettevano degli investimenti
anche nell’ambito teorico e che si occupavano della produzione di massa.
Le teorie classiche sono quelle a cui si fa ancora riferimento e sono la base delle organizzazioni
moderne:
-organizzazione scientifica del lavoro
-principi di direzione
-teoria della burocrazia
Le teorie classiche coincidono con la fine dell’800 e vanno fino alla fine della seconda guerra
mondiale. Questa ha spinto tantissimo la diffusione delle teorie classiche per il bisogno
dell’efficienza.
Il secondo step si sviluppa alla fine della guerra, quando il mercato è diventato più complesso.
Aumenta la competizione tra le imprese, la complessità delle problematiche da gestire, aumenta
l’incertezza. In una situazione di questo genere si ha una reazione alle teorie classiche.
Finché nelle mie aziende industriali entrano persone che escono dall’agricoltura e ambiscono ad
alzare il loro livello di vita posso imporre un certo tipo di organizzazione. Quando le persone
cominciano ad abituarsi ad un certo stile di vita, però, cominciano a farsi delle domande e a
ragionare su quale lavoro gli piaccia di più e quale organizzazione gli offra sbocchi migliori.
Ci sono teorie che sono nate per farsi carico di sistemi di valori attesi dalla manodopera:
- Teorie delle relazioni umane
- Teorie delle motivazioni
- Teorie delle problematiche del comportamento organizzativo

Dopodiché cominciano a riscuotere un certo successo i sistemi socio-tecnici, nati dalla necessità di
gestire grandi organizzazioni dal punto di vista tecnico e complesse dal punto di vista del personale.
Come faccio a far funzionare un sistema tenendo conto delle variabili tecniche e dei comportamenti
degli operatori? Vedremo. Sta di fatto che hanno valore anche adesso.
TEORIE ORGANIZZATIVE MICRO
Le teorie micro analizzano quegli strumenti che all’interno di un’azienda permettono di aumentare i livelli di
produttività del lavoro. Cos'è che porta una linea produttiva a dire in quest’ora facciamo 5 pezzi anziché
due? E cosa posso fare per migliorare ed incrementare la mia produttività? Dietro c’è l’idea che il modo in
cui si lavora influenzi la produttività e che, per questo motive, debba essere oggetto di studio.
Nascerà negli anni 70 con i socio-tecnici il termine job design, diverso da job analysis.
 
Il paradigma classico nasce dallo studio sulla produttività. Dal punto di vista micro troviamo queste tre
teorie che, pur nascendo in contesti diversi convergono nello stesso punto. Perché paradigma? Perché è
una teoria molto ben strutturata avente degli elementi omogenei che costituiscono uno schema da
utilizzare in modo coerente per rispondere a delle esigenze.  

Con il tempo sono emersi una serie di problemi, tra cui quelli fisici sono stati i primi ad essere riscontrati
(video di Chaplin sui tic che vengono lavorando in fabbrica). Con il tempo si è superata la teoria
dell’organizzazione scientifica del lavoro e l’attenzione è passata, dalle aree a più alta criticità, a tutte le
altre, consentendo così uno sguardo complessivo sull’impresa. Ciò venne effettuato mediante 3
dimensioni: 
- Human relation: Taylor sosteneva che la prestazione fosse frutto del singolo lavoratore. Si capì
in seguito che il team influisce sulla produttività ed era quindi possibile sfruttarlo a tal fine 
- Teoria X e Y: la Teoria X e la Teoria Y sono le teorie motivazionali delle risorse umane
sviluppate da Douglas McGregor presso la Scuola del MIT Sloan of Management nel 1960.
Queste teorie sono utilizzate nella gestione delle risorse umane e nella definizione e
sviluppo dei comportamenti organizzativi. Descrivono due modelli opposti di motivazione
della forza lavoro. La Teoria X e la Teoria Y hanno a che fare con la percezione che i
responsabili hanno dei propri collaboratori a prescindere dal modo in cui in genere si
comportano. Sono un promemoria salutare e semplice delle regole per la gestione delle
persone che, sotto la pressione lavorativa giornaliera, sono troppo facilmente dimenticate.
Teoria X (Stile di gestione autoritario)
Secondo la Teoria X, che si è rivelata nella prassi controproducente, il responsabile
sostiene che i dipendenti sono intrinsecamente pigri e inclini a sfruttare qualsiasi
occasione per evitare i carichi di lavoro. Questa visione porta il management a sviluppare
sistemi di controllo dei propri collaboratori. Secondo questa teoria, i dipendenti mostrano
poca ambizione ed evitano l’assunzione di responsabilità in assenza di un sistema di
incentivazione delle performance. I manager che fondano il loro comportamento sulla
teoria X si basano molto sulla minaccia e la coercizione per ottenere il rispetto dei loro
dipendenti creando un'atmosfera punitiva e di sfiducia.
Con questo stile di gestione, si tenderà a dare la colpa alle persone, senza prendere in
considerazione altri fattori (procedure aziendali, politiche aziendali, mancanza di
formazione adeguata, ecc.).
Teoria Y (Stile di gestione partecipativa).
Nella Teoria Y, il management ritiene che i collaboratori possono essere ambiziosi e auto-
motivati. Si ritiene che i dipendenti svolgono con “piacere” le loro attività fisiche e
mentali. I collaboratori hanno un atteggiamento proattivo nel lavoro e possiedono
capacità di problem solving. A determinate condizioni favorevoli, la teoria Y ritiene che i
dipendenti impareranno a cercare e accettare le responsabilità e a raggiungere in
autonomia gli obiettivi. La soddisfazione di poter fare un buon lavoro è quindi un fattore
motivante. La Teoria Y non è un insieme di credenze positive sui lavoratori: McGregor fa
semplicemente notare ai manager che avere una visione positiva dei lavoratori può creare
un ambiente di lavoro che incentiva alle best performance. Lo sviluppo delle risorse
umane diventa di conseguenza un aspetto fondamentale per qualsiasi organizzazione. Ciò
porta i responsabili a comunicare apertamente con i collaboratori, riducendo al minimo le
differenze gerarchiche e creando un ambiente confortevole. Il risultato più alto di questa
teoria si ha nel momento in cui i collaboratori prendono parte al processo decisionale.  

- Le teorie motivazionali: Maslow e Herzberg. 

Viene a questo punto proposto un nuovo paradigma: i sistemi socio-tecnici. Nasce in un contesto in cui
erano molto importanti le industrie minerarie, in cui erano presenti molte variabili ed era  necessario gestire
un processo produttivo in un contesto di lavoro non prevedibile. Il sistema socio-tecnico è il passaggio da
un modello meccanico basato su una razionalità predefinita, ad uno organico che si basa sulla capacità di
chi fa parte dell’organizzazione di aggiustare il tiro e adattarsi al caso specifico. 

Temporalmente si sono poi sviluppate le nuove teorie manageriali, negli anni ‘70/ ‘80. Un contesto in cui la
competizione è spinta, perché non mi confronto solo con i colleghi italiani, ma anche con aziende
provenienti da tutte le parti del mondo. Queste teorie nascono da un innesto delle teorie americane su
quelle giapponesi e riescono a mettere le aziende americane ed europee in grado di recuperare il terreno
perso nei confronti dei giapponesi. Ci si rende conto che gli operai, quelli che lavorano nelle linee
produttive, sono gli stessi a cui si possono chiedere dei riscontri per rendere la produzione a maggiore
valore aggiunto migliorando ogni aspetto critico. 

Nei tempi moderni è nato un nuovo paradigma, quello dell’organizzazione flessibile in cui vedremo il world
class manufacturing (una lean evoluta che comprende l’organizzazione scientifica del lavoro, nuove teorie
manageriali (lean,jit,total quality) e il contributo dei lavoratori anche nell’impostazione di problematiche
gestionali) e smart manufacturing (che affronta le tematiche relative alla tecnologia). 
ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO 
Il primo volume a riguardo viene scritto nel 1911. Si è diffusa moltissimo durante le due guerre mondiali.
L'organizzazione scientifica del lavoro ha impostato il lavoro moderno. Negli anni 60/70 c’è stata una forte
critica, ma è stata poi ripresa negli anni 2000 quando si volevano incrementare moltissimo i volumi. 
Da dove nasce? 
- Taylor: ingegnere meccanico, entrato in un’azienda di lavorazioni meccaniche come tecnico ha
sviluppando una forte passione per le tecniche di taglio del metallo. Ha inventato la figura del
consulente aziendale. Viveva dei diritti di proprietà intellettuale sviluppati sulle tecniche di
taglio dei metalli. Le teorie che ha sviluppato tengono conto della sua esperienza. 
- Frank e Lilian Gilbreth: Frank è partito come imprenditore edile per poi diventare un
consulente. Gilbreth ha introdotto un’attenzione diversa rispetto a Taylor: sollecitava gli operai
a fare proposte, a vedere dov’erano i problemi e a capire come risolverli. Capirono che
bisognava riprogettare non solo il ciclo ma anche i movimenti. 
- Ford: imprenditore avventuriero che ha avuto fortuna nella vita e che si montò anche la testa.
Si è sempre vantato di dire che i consulenti tra i piedi non li voleva perché il genio era lui.
Perché lo mettiamo insieme con il taylorismo? Perché sono poi confluiti in un unico filone. 

La situazione di partenza: 
Quella della seconda rivoluzione industriale. Siamo in un contesto di lavorazioni meccaniche e la gestione
era lasciata agli operatori e ai capi intermedi. La gestione di un reparto era lasciata agli appalti intermedi
(sistema del caporalato: è il capo che si sceglie i lavoratori, negozia il livello di produttività confrontandosi
con l’imprenditore, decide come strutturare il lavoro, che tecnologie utilizzare e come distribuire i proventi
agli operai).
Primo ragionamento: Taylor si rese conto che il sistema degli appalti intermedi metteva in mano la
produttività all’esperienza e alla capacità di capi intermedi: può essere migliorato se il controllo passa in
mano al manager.   
Secondo ragionamento: nelle organizzazioni asme (associazione ingegneri meccanici) si discusse come
retribuire gli operatori. La prima idea fu quella di usare il cottimo, ossia retribuire in base a quello che
veniva prodotto. Uso la leva retributiva per spingere le persone ad aumentare la produzione. In questo
discorso Taylor entra a gamba tesa, proponendo che il manager definisse un livello di produttività
considerato “giusto” per poi dare dei bonus a chi produceva più del giusto: è il concetto di cottimo
differenziale. Allo stesso modo se veniva prodotto meno dello standard veniva penalizzato con una
retribuzione minore di quella standard. 
Taylor si rende conto della potenzialità produttiva, ma capisce anche che i lavoratori tendono a battere la
fiacca, perché se migliorano, l’azienda tende a considerare normale il “di più”. Dietro tutto ciò, c’è l’idea
che la produttività migliora se c’è l’intenzione da parte del manager di entrare nel vivo della produzione e
razionalizzare tutte le decisioni in modo scientifico: facendo degli esperimenti, raccogliendo dati e
misurandoli. 
L'obiettivo é riuscire a tirar fuori il metodo di produzione migliore che poi diventa lo standard che vado ad
insegnare e pretendere dai miei collaboratori. “one best way”.
Riprendiamo i concetti della scorsa lezione.
Il taylorismo-fordismo è il primo paradigma di organizzazione che è stato utilizzato. Si occupa
principalmente di organizzazione delle attività produttive di ufficio.
Dove nasce la proposta di Taylor?
Siamo contesto di fine 800: grande sforzo tecnologico, investimenti nel miglioramento della produttività
dato che si vivono fasi di forte crescita dell'economia (studi di Alfred Chandler, uno storico del business
morto un 10 anni fa). È un contesto in forte espansione e questo è il motivo per cui si dava così tanta
importanza a una dimensione di produttività.
Abbiamo già detto che Taylor è una persona che parte dalla gavetta. Quello di cui si rende conto è che da
una parte c'è un grosso potenziale e dall'altro questo potenziale è limitato da due aspetti:
 il primo aspetto è il fatto che l'imprenditore delega troppo. Lascia fare ai capi intermedi (gli
operatori con più esperienza) e quindi le performance di produttività dipendono molto poi dalle
variabili soggettive e dalle competenze di questi capi.
 secondo elemento riguarda il fatto che Taylor, avendo visto le cose dal basso, si rende conto che gli
operai sono restii a fare di più, per paura che per i datori di lavoro, quel di più che hanno fatto
diventi normale e comincino a pretendere ancora di più. Taylor dice di fare un salto di mentalità ( è
per quello che usa il termine “rivoluzione mentale”) e far capire all’operatore che un aumento di
produttività va anche a suo favore. L’attenzione deve essere prima di tutto sull’ aumentare la
produttività, dopodiché si discuterà su come dividere il surplus derivante in modo che sia
vantaggioso per entrambi. 
La prima cosa che gestisce normalmente un imprenditore è l'attività di sviluppo, ma il manager non
può fermarsi lì, deve anche entrare nel merito di come vengono gestite le attività all'interno
dell'impresa.
La seconda cosa che dice Taylor è che la direzione non può non entrare nel merito
dell'organizzazione del lavoro. Entrare nel merito vuol dire allora che la direzione si occupa di tutto
e poi dà le direttive.
La terza cosa che dice Taylor, parlando di salto culturale, è che bisogna (anche nel definire
l'organizzazione del lavoro) applicare un metodo scientifico, per fare delle ipotesi e andare a
misurare i risultati che sono stati raggiunti. La sua idea è che applicando un metodo scientifico è
possibile arrivare a definire la “One best way”. Dietro questa idea c’è molta presunzione di
razionalizzare.
Ormai anche nel contesto ingegneristico è stata superata l’idea del risultato ottimo.
Impostata questa rivoluzione mentale Taylor dice che ci sono quattro pilastri:
 primo pilastro -i metodi di lavorazioni vengono definiti applicando il metodo scientifico
Applicare il metodo scientifico vuol dire prendere uno specialista (quindi una persona che sa
applicare il metodo scientifico) che dedica tutto il suo tempo allo studio delle attrezzature, dei cicli,
della rilevazione dei tempi e quindi che definisca le modalità di progettazione. C'è l'idea, ancora
presente nella testa del 50% dei manager, che l'operaio è la persona che mette la forza fisica, ma
non la persona alla quale io chiedo di impegnarsi anche nel definire, nel progettare, nel decidere.
Dietro questo studio scientifico c'è quella che è nota come la separazione netta tra chi pensa
(analista dell’organizzazione), chi progetta l'organizzazione del lavoro e chi esegue (l'operatore).
Questo porta a definire una metodologia da dare in mano agli specialisti per definire i metodi di
lavorazione: da qui nasce il metodo MTM.
il metodo MTM è la metodologia per tradurre un trattamento e per concretizzare la definizione di
un metodo di lavorazione in modo scientifico. Un esempio è l’idea di cottimo differenziale. Dietro
un discorso di quantità c'è spesso anche un discorso di qualità e quindi di rischio di penalizzare la
qualità e la bontà del prodotto a favore della quantità. Se ad esempio lo studio mi dice che per
mantenere la qualità che voglio i massimi pezzi che possono essere prodotti da ogni operatore sono
17-18, io garantisco degli incentivi solo fino a quella quantità, altrimenti per farmi più prodotti e
guadagnare di più mi fanno un prodotto scadente. 
Tutte queste operazioni, come abbiamo detto, puntano a ricentralizzare tutte le decisioni nelle
mani del manager. A questo punto, un capo intermedio che fino a quel momento aveva deciso
tutto per conto suo potrebbe infastidirsi. Il ragionamento di Taylor fu però quello di spiegare a
queste persone il motivo per cui bisogna usare il metodo scientifico. Se gli dimostro che loro
applicando questo metodo guadagnano di più, non si opporranno. 
Emergono due idee forti: chi decide è una persona diversa da chi esegue e che per ottenere dei
risultati da parte dei lavoratori devo sfruttare la leva economica.

 secondo Pilastro – selezione e addestramento scientifico della manodopera


Non tutti siamo in grado di fare tutto. Devo innanzitutto capire le caratteristiche che servono per
fare il tipo di lavoro che ho definito al punto 1 e poi parte una selezione del mio personale.
Differenza tra addestramento e formazione. Addestramento vuol dire io prendo la mia persona e la
metto in condizioni, facendo un investimento su di lei, di operare effettivamente con il metodo di
lavorazione che ho definito (significa meramente insegnare i passaggi per permettergli di fare un
dato lavoro. Formazione invece, vuol dire dare all’operatore la base teorica per poter affrontare
qualsiasi situazione.

 terzo Pilastro – instaurazione di rapporti di stima e di collaborazione


È un pilastro molto discusso. Taylor spesso dice che nell’organizzazione del lavoro bisogna anche
tenere conto dei collaboratori per due motivi:
1. perché il collaboratore può avere qualche idea furba
2. perché si rende conto che il rapporto gerarchico regge solo se tra l’operatore e il suo capo c’è un
rapporto di stima e di collaborazione.
Questo terzo pilastro è quello che porta a quello che nel gergo italiano viene chiamato rapporto
paternalistico. La persona che ha un ruolo gerarchico non deve guardare dall'alto in basso i suoi
operatori perché deve entrare nell'ottica che anche se viene applicato il metodo scientifico, nel
momento in cui le persone devono impegnarsi, se c'è un rapporto di stima nei confronti di chi dà
degli ordini le cose funzionano meglio. Taylor era una persona all'epoca molto aperta, avanzata e
liberale, per esempio, si era impegnato tantissimo per la riduzione dell'orario di lavoro. Allora era
normale che anche i ragazzi inseriti in azienda lavorassero 12 ore al giorno, lui però fece una
battaglia anche politica facendo capire che dopo otto ore di lavoro la persona rende molto di meno.
È meglio lavorare sui Metodi di lavoro. Dimostrò che lavorando con un metodo scientifico, una
persona produce in 8 ore quello che senza metodo scientifico produrrebbe in 12 con il vantaggio
che avendo lavorato sotto solo 8 ore ha più tempo per riprendere energia e ritornare operativo il
giorno dopo.
 quarto Pilastro – riorganizzazione della direzione aziendale
Anche la direzione deve riorganizzarsi e deve riorganizzarsi cercando di applicare a se stessa il
metodo scientifico del lavoro, specializzandosi. Taylor tira fuori la teoria nota come “teoria dei capi
funzionali” che prevedeva fino a 8 capi per ogni operaio. Tuttavia un eccesso di ruoli direzionali si
traduce in incomprensioni che portano l'operatore a non fare assolutamente niente. Taylor
praticamente pensava che l’unico rapporto tra un capo e il dipendente fosse di tipo gerarchico.
Spinge a specializzare le attività di direzione, di fatto aumentando i costi di struttura.
Questi sono i quattro pilastri dell'organizzazione scientifica.
Rispetto ai metodi tradizionali, la OSL comportava una contrazione della manodopera del 70%, un aumento
della produttività del 200%, un aumento della retribuzione del 60% e una diminuzione del costo medio
della produzione del 50%.

MTM
Uno dei pilastri del metodo scientifico è stato l’MTM. L’MTM è un metodo di definizione delle lavorazioni
che viene utilizzato ancora oggi. La sigla sta per misurazione tempi e metodi ed è lo strumento che è stato
messo a punto per far fronte alla necessità di definizione dei tempi dell’approccio di Taylor. È un metodo da
una parte di job analysis e dall’altra di job design. È frutto dell’incrocio tra l’approccio di Taylor (che dava
molta attenzione ai tempi e lasciava meno strutturato il modo di eseguire l’azione) con quello dei Gilbreth.
Frank Gilbreth era un imprenditore edile e la prima cosa che ha fatto è stato dire che se si volevano
migliorare le performance di un'impresa edile era necessario eliminare i movimenti non produttivi, per
evitare di sprecare tempo e per evitare che gli operatori lavorando avessero problemi di salute. C'è l'idea
che se io definisco delle modalità di lavoro e quindi preparo bene il mio lavoro, aumento l'efficienza
operativa delle persone che lavorano.
Gilbreth, tuttavia, si focalizzava solo sull’aumento di efficienza dell’operatore e non considerava tutte le
attività di preparazione che permettevano all’operatore di lavorare in quel dato modo. Quando io applico il
metodo scientifico devo fare una distinzione tra i costi diretti (relativi all’effettiva realizzazione del lavoro) e
quelli indiretti per (relativi a chi studia i metodi di lavorazione e a chi prepara le lavorazioni).
L’MTM prevede 5 passi:
1. Analisi del lavoro e ricerca del metodo più economico
Bisogna analizzare la situazione AS IS (a meno che la lavorazione sia nuova). Infatti, se il
lavoro è già stato eseguito, l’operatore già lo esegue contenendo il più possibile lo sforzo
(pur nel rispetto del metodo di lavorazione imposto). Dopodiché si esamina criticamente il
lavoro per vedere quali sono i cambiamenti che è più opportuno introdurre per aumentare
la produttività. Si inseriscono qua le “Design rules”.
La prima di queste è l’eliminazione dei movimenti inutili (ora si dice eliminare le attività non
a valore).
La seconda è fare delle azioni di ottimizzazione: usiamo gli organi di movimentazioni che ha
l’operatore (ad esempio per fargli fare due operazioni con le due mani diverse, evitare che
un pezzo debba essere inserito con un modo pre-orientato ecc.)
A questo punto definiamo la one best way per agire.
2. Normalizzazione e descrizione del procedimento da seguire
È essenzialmente la fase TO BE. A questo punto devo produrre l’insieme della
documentazione tecnica che andrà in mano a chi di competenza per farmi capire come si
dovrà lavorare.

3. Determinazione del tempo di esecuzione standard


Il terzo passo è il discorso della determinazione del tempo di esecuzione standard e
normale. Tempo normale: tempo che è strettamente necessario per una esecuzione
corretta del ciclo di lavorazione che ho definito (nelle condizioni di attrezzatura del posto di
lavoro progettate). È il tempo che impiegherebbe un ipotetico robot. Tuttavia è necessario
definire un tempo che rimanga valido durante le otto ore di lavoro perché questo dà
continuità alla produzione e alla produttività. Il tempo normale è legato a una soluzione
tecnica.  Devo riconoscere all'operatore delle maggiorazioni, per soddisfare i suoi bisogni
fisiologici ma anche legate a problematiche organizzative che non dipendono direttamente
dall'operatore. La somma di tempo normale e maggiorazioni mi dà il tempo standard
assegnato.
In ogni azienda i tempi standard sono calcolati secondo le diverse soluzioni tecnologiche. Si
può innanzitutto creare un archivio in base allo storico di tempi standard oppure effettuare
un cronometraggio. Cronometraggio vuol dire prendere un operatore, addestrarlo e,
quando ha finito la sua curva di apprendimento (quindi quando ha imparato ad eseguire
senza dubbi e senza difficoltà il ciclo di lavorazione che gli ho dato), fare una rilevazione del
tempo che impiega e del passo (ossia la velocità). Per arrivare al tempo normale ci sono
diversi metodi: posso usare la media dei tempi impiegati da operatori diversi operanti nelle
stesse condizioni, oppure prendo la moda per Individuare il tempo normale. Le
maggiorazioni invece sono oggetto di accordi formali. Le maggiorazioni non imputabili
all’operatore non possono essere calcolate con esattezza.

4. Addestramento degli operatori


Dopodiché devo mettere i miei operatori nelle condizioni di operare secondo gli standard
definiti.
5. Estensione e manutenzione
Primo ragionamento: se applico il metodo MTM devo essere rigoroso, devo sapere che
tutte le volte che vado alterare il contesto in riferimento al quale ho calcolato i miei tempi
devo fare una manutenzione, cioè devo aggiornare la mia analisi. 

Secondo ragionamento: uno dei vantaggi del micro MTM è che una volta che io ho fatto
tutta questa analisi, posso prendere tutti i tempi calcolati e applicarli ovunque all’interno
dell’azienda.
Prima di tutti questi punti ci deve però essere un punto 0: ne vale la pena o meno?
Fare l’MTM vuol dire sostenere dei costi di razionalizzazione, di ingegnerizzazione e metodologie di
lavorazione. Sostenere dei costi vuol dire che sto facendo un investimento e questo mi ritorna se quella
attività la faccio un numero di volte adeguato a giustificare il costo aggiuntivo.

Facciamo un salto nel tempo e arriviamo ad oggi. In base a ciò che si deve produrre la specializzazione
dell’operatore, così come il livello di organizzazione del posto di lavoro saranno diversi (es. in una catena di
montaggio di piccoli elettrodomestici il passo tra una stazione e l’altra sarà di pochi minuti, mentre nella
produzione di bus l’organizzazione è totalmente diversa). In base al livello di specializzazione dell’operatore
e di organizzazione del posto di lavoro, parleremo di MEK, UAS, MTM1-MTM2.
IL F.CA usano l’MTS UAS, che è complementato dall’analisi del carico biomeccanico (European Assembly
Work Sheet) che comprende 4 sezioni:
-postura
-azioni di forza
-movimentazione manuale carichi
-movimenti ad alta frequenza e basso carico degli arti superiori
Questo metodo è ora applicato in molte altre aziende nel mondo delle automobili, anche in aziende come
la Bosch.
Come faccio a calcolare il tempo standard? Faccio un’analisi del contenuto di lavoro usando l’MTM
trovando quello che in FCA viene chiamato tempo base, faccio poi un’analisi del carico biomeccanico
attraverso il metodo ERGO-MTM (da un minimo di 1% ad un massimo di 13,5%) che sommo al fattore
tecnico organizzativo (1%) per trovare la maggiorazione.

Caso coroc
FORDISMO
Ford si è sempre vantato di non volere specialisti in azienda. Ford è passato alla storia per l’introduzione
della catena di montaggio (in realtà non fu lui, fu un altro economista qualche anno prima). Lui ha
introdotto una serie di innovazioni disruptive:
- La prima è l’introduzione della catena di montaggio: tradurre in un impianto fisico le scelte di
specializzazione spinta e di definizione di tempi vincolati per quanto riguarda gli operatori (gli
venne l’idea dai mattatoi di Detroit).
- La seconda fu sul prodotto: in quegli anni per guidare le macchine bisognava essere meccanici, sia
per l’affidabilità del prodotto che per la sua complicatezza. Egli scommise sul fatto che garantendo
un prodotto affidabile, semplice (e quindi economico perché si abbatterebbero i costi di
produzione), anche gli operai potrebbero ambire ad avere un’auto.
Taylor nello stesso periodo stava lavorando per una catena automobilistica che vendeva auto di
lusso, ottenendo risultati di incremento della produttività del 60%, tuttavia, quando venne a
conoscenza dell’idea avuta da Ford, rimase spiazzato. Questa idea è una delle principali differenze
tra fordismo e Taylorismo.
Ci sono una serie di elementi legati al taylorismo: forte specializzazione del lavoro (che porta ad una forte
meccanizzazione), forte standardizzazione, sfruttamento intensivo di manodopera di basso livello, turn-
over elevato (perché la gente non resisteva tanto). Taylor e Ford hanno essenzialmente inventato la
produzione di massa.
L’organizzazione del lavoro quindi è basata su presupposti forti e ha permesso un grandissimo incremento
della produttività. Nel tempo però sono emersi i suoi limiti, primo in assoluto le condizioni biofisiche degli
operatori, il loro affaticamento. Le prime specializzazioni per superare le specializzazioni spinte furono fatte
già negli anni 40 (es IBM), dato che la guerra aveva estremizzato questo approccio. Con l’organizzazione
scientifica del lavoro è nata la psicotecnica, un lavoro non dev’essere visto come un insieme di movimenti
piccoli, ma come un insieme integrato.
Sono state alzate principalmente due critiche all’organizzazione scientifica del lavoro:
- eccessivi costi indiretti: se anche vengono abbattuti i costi diretti, aumentano quelli delle attività di
supporto
- rigidità: il sistema funziona solo se si rispettano i volumi ipotizzati.
SUPERAMENTO DELL’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO
La vera crisi dell’organizzazione scientifica del lavoro è stata negli anni 70 per un discorso di qualità e di
variabilità. Peraltro, in questi anni, c’è stata una rivolta sociale per l’impatto che questo approccio aveva sui
lavoratori.

Man mano che si procedeva verso gli anni 80 e 90, con l’introduzione del lean, si aveva la sensazione di
superamento dell’organizzazione scientifica del lavoro, quasi fosse solo legata ad un periodo storico.
Questo si basava su due aspetti:
-la crisi della produzione di massa e la predilezione della flessibilità, qualità ecc.
-l’introduzione dell’innovazione tecnologica che abbatte di per sé i costi diretti.
Occorre però parlare dell’organizzazione scientifica del lavoro perché ancora adesso viene utilizzata., a
volte applicata a contesti molto automatizzati o ancora alla Gig economy, che si basa su lavoretti
discontinui.

I primi contributi sulla psicologia industriale furono relativi all’analisi della fatica e vennero sostanzialmente
da due scuole:
-la scuola delle relazioni umane: autore di riferimento Elton Mayo, che si rese conto che l’assunto di Taylor
per cui il lavoro fosse un fenomeno individuale era un approccio molto limitato.
-organizational behaviour: quando un manager affronta problemi di organizzazione c’è un problema di
mentalità dal punto di vista ideologico che lo porterebbe a fare delle scelte piuttosto che altre.

SCUOLA DELLE RELAZIONI UMANE


Per capire come aumentare la produttività devo considerare le variabili che mi propone Taylor o devo
valutare anche altri aspetti?
Il primo ad occuparsi di queste cose qui è Elton Mayo. L’origine è in un’azienda, la Western Electric che
sperimenta l’approccio di Taylor sull’impianto produttivo. Anche l’illuminazione dell’impianto produttivo è
un costo, pertanto, si decise di vedere come una diversa illuminazione influisse sulla produttività, con
l’obiettivo di cercare la “one best way”. Tuttavia questo non fu possibile perché non si riuscì a trovare una
correlazione tra i due elementi. Allo stesso modo furono prese in considerazioni anche altre variabili
relative al contesto di lavoro e diedero tutte lo stesso risultato. Queste ricerche erano finanziate da un ente
pubblico che, visti i risultati lo ritenne uno spreco e non garantì più il denaro. La Western Electric però si
incaponì, decise di finanziarle da sola e chiese aiuto a Elton Mayo. Furono chiamati gli esperimenti di
Hawthorne perché quello era il nome del posto dello stabilimento in cui venivano fatti gli esperimenti.
Degli esperimenti che ha fatto Mayo, quali sono le conclusioni importanti che possiamo trarre? Esponiamo i
3 esperimenti più importanti:
1. Linea di montaggio “relay” per un interruttore elettrico: è emerso che gli operai aumentavano la
produttività quasi costantemente, indipendentemente dalle variabili esterne (temperatura, luce,
retribuzione etc.). la conclusione è stata allora che la produttività non fosse un elemento così
semplice da stimare, perché le variabili da cui è influenzata sono tante, ma un elemento che può
aiutare è il clima che si viene a creare con il proprio capo e con i propri colleghi.
2. Fecero anche delle interviste per capire cosa pensavano i dipendenti. Le interviste stesse
rappresentavano un punto di sfogo, perché facevano sentire loro di essere ascoltati dalla direzione
e questo di per sé si tramutava in un aumento della produttività.
3. Il terzo esperimento fu fatto sulla sala avvolgimenti, usata per preparare dei banchi che
prevendono cablaggi, su cui lavorano contemporaneamente più operatori. Gli operatori devono
quindi collaborare. Si resero conto che il gruppo incide sulla produttività. Gli operai si controllavano
ed evitavano che ci fosse chi faceva troppo e chi faceva troppo poco. Il risultato dell’esperimento è
stato quindi capire che se ho un lavoro in cui devo lavorare con altre persone, il gruppo si comporta
come un gruppo primario che produce da sé le sue norme di comportamento. Notiamo qui
chiaramente un contrasto con la teoria di Taylor che vedeva il gruppo solamente come un
elemento negativo.
A partire dai risultati di queste sperimentazioni c’è chi disse che Elton Mayo criticasse fortemente
l’organizzazione scientifica del lavoro, chi invece disse che pur criticandola non cambiava modello.

Principali risultati degli esperimenti Hawthorne:


- Effetto Hawthorne: quando gli operatori si rendono conto che la direzione si impegna per capire le
loro condizioni e per migliorarle, le persone automaticamente si impegnano di più e si può notare
un aumento di produttività.
Mayo si rese però conto che l’aumento di produttività è temporaneo, perché se si rendono conto
che all’attenzione data poi non corrispondono dei risultati e dei cambiamenti, questa torna al livello
di prima.
- Produttività e contesto sociale
- Influenza del capo
- Workplace: sistema sociale e sistema di produzione
- Comportamento individuale e fattori influenzanti
- Il gruppo di lavoro informale (o primario) e le sue norme
- Gli incentivi economici

Contributi del metodo:


- La ricerca sul campo
- Approcci e strumenti di ricerca: interdisciplinarietà, analisi sistemica delle situazioni, generazione di
teorie e loro verifica
Pongono le basi per lo studio dell’organizational behaviour.

ORGANIZATIONAL BEHAVIOUR
L’organizational behaviour è un modo di vedere il funzionamento dell’organizzazione che sottolinea il fatto
che per interpretarlo non basta prendere in considerazione solo le variabili tecniche, ma bisogna cercare di
capire cosa influenza il comportamento sociale.
Bisogna lavorare a 3 livelli:
-cosa influenza il lavoro dell’individuo
-cosa influenza il comportamento del gruppo
-cosa influenza l’intera organizzazione

Per la dimensione individuale, utilizziamo il modello di Mc Gregor:


è vero che l’individuo dà un contributo, ma il modo in cui il manager vede il contributo individuale influisce
sull’apporto che il contributo dà.
L’organizzazione scientifica del lavoro si basa su dei presupposti: gli operatori fanno il meno possibile, devo
costringere le persone a fare quello che voglio facciano, le devo controllare, devo dare degli ordini precisi,
le persone preferiscono prendere ordini che assumersi responsabilità.
Mc Gregor si chiede se quello è il solo modo di vedere il contributo individuale e se non sia il
comportamento del manager a causare questi comportamenti nei collaboratori. Propone allora la teoria Y,
il manager può cambiare prospettiva vedendo l’operatore come in grado di controllarsi, di autodisciplinarsi,
l’impegno messo a disposizione dipende dalle ricompense associate, sa prendersi responsabilità, è in grado
di essere creativo in azienda posso utilizzare delle capacità degli operatori che spesso non vengono
sfruttate. Gli operatori possono lavorare bene se ben incentivati.
Da qui derivano le teorie motivazionali.
Riassunto dei messaggi dell’organizzazione scientifica del lavoro:
Taylor
1. L’organizzazione del lavoro dev’essere oggetto di progettazione;
2. Dev’essere progettata da specialisti;
3. Agli operatori bisogna chiedere di eseguire e nel definire i compiti dei lavoratori bisogna applicare i
principi che sono emersi nella prima rivoluzione industriale (specializzazione, meccanizzazione ecc.)
4. La produttività è funzione dell’impegno dei singoli individui;
5. Lo strumento che il management ha a disposizione per aumentare la produttività (a parte la
progettazione del lavoro) è la leva retributiva. Dietro questo c’è la teoria X. Taylor si rende conto
che all’interno dei gruppi di lavoro, si viene a creare uno strano meccanismo al ribasso. Se vedo il
mio compagno che fa meno, non sono spinto a fare di più. Proprio per questo la retribuzione, il
cottimo, è assolutamente individuale e non di squadra. Questo infatti dipende al 50% dal passo
della catena (e quindi dalla velocità del gruppo), ma al 50% anche dalle prestazioni del singolo.

Elton Mayo

6. La produttività è influenzata da una dimensione di comportamento delle persone, che risente del
clima che si crea all’interno del contesto di lavoro. La produttività è incentivata da una parte
dall’effetto Hawthorne (se il personale si sente preso in considerazione) e dall’altra dalla creazione
di gruppi primari (non oggetto della progettazione in cui si vengono a creare delle norme informali
che ne regolano il comportamento). Non siamo ancora alla teoria Y, ma stiamo dicendo che
pensare che le persone siano motivate soltanto dalla retribuzione siano limitativo.
TEORIE MOTIVAZIONALI

Analizziamo il punto di vista di Maslow e di Hertzberg.

Gerarchia del bisogno di Maslow


Come abbiamo già detto l’operato di Taylor così come quello di Ford si inserisce in un contesto di prima
industrializzazione, in cui le persone si spostano dalle campagne alle città e sono disposte a far di tutto pur
di lavorare all’interno delle industrie. Le teorie si Maslow si inseriscono in un momento in cui questa realtà
diventa assodata e gli impiegati sono nella posizione di decidere quale azienda li attiri maggiormente.
Bisogna dunque pensare a cosa poter fare perché il personale rimanga in azienda per di più mantenendo un
alto livello di produttività. La domanda che si pone Maslow è: cosa influenza le prestazioni di una persona
sul posto di lavoro?

Egli sostiene che per capire ciò sia necessario introdurre il concetto di bisogno, dove il bisogno è la
differenza tra uno stato di fatto e uno stato ambito. Egli individua 5 classi di bisogni e oltre ad individuarli,
propone la teoria secondo cui i bisogni si sviluppino gradualmente. Man mano che soddisfo i bisogni di
primo livello, si manifestano quelli di secondo livello e così via. Questo spiegherebbe perché le persone non
sono mai soddisfatte. Le classi di bisogni sono elencate qui di seguito.

1. Bisogni fisiologici: bisogno di avere un posto di lavorare e una retribuzione per poter comprare
cibo.
2. Bisogno di sicurezza: avere una continuità nel tempo del rapporto di lavoro
3. Bisogni sociali: di avere delle relazioni, dei rapporti con i colleghi, di essere inserito in un contesto
sociale
4. Bisogni dell’ego: venire riconosciuto come una persona che dà un contributo e che ha un valore nel
posto di lavoro
5. Bisogni di realizzazione: vedere una prospettiva di crescita, di sviluppo personale all’interno del
posto di lavoro.
I primi 3 sono detti bisogni fondamentali e se questi non sono soddisfatti le persone hanno problemi.
Gli altri due sono detti bisogni superiori.

Fattori duali di Hertzberg

Herzberg si interroga su cosa dà alle persone la motivazione per migliorare il proprio livello di produttività.
Contesto:
Alla fine degli anni 60, studia nella zona di Pittsburg due famiglie che hanno dei livelli di istruzione e
economici abbastanza elevati: quella dei contabili e quella degli ingegneri. Fa delle interviste andando con
queste a verificare se gli elementi che creano scontento siano diversi o gli stessi per persone diverse. Chiese
di fare lo sforzo di ricordare una situazione in cui ci si è trovati particolarmente bene e una in cui ci si è
trovati particolarmente male. In base ai risultati si chiede innanzitutto cosa significa motivazione.
Herzberg afferma che quando un manager, molto orientato al risultato, si trova a collaborare con delle
persone che non si impegnano, ha voglia di dare un KITA (kick in the ass) a chi batte la fiacca. I KITA fisici si
usano poco, ma spesso vengono usati quelli psicologici. Un KITA negativo però non porta alla motivazione
ma unicamente all’azione. La motivazione è una risorsa che si produce reiteratamente e che porta gli
operatori ad impegnarsi.
Herzberg non crede nei KITA, perché sono degli elementi estrinseci, mentre la motivazione è un fattore
intrinseco.
In base all’analisi qualitativa e quantitativa emersa dalle interviste, si convinse che fosse utile usare due
classi di fattori:
- Igienici: legati alle retribuzioni, strumenti etc. che se non ci sono mi portano insoddisfazione,
mentre se ci sono non mi portano motivazione.
- Motivanti: sono quelli su cui misuro la soddisfazione, quelli che producono l’energia reiterata di cui
parlavamo prima. Consentono alla persona di trovare delle prospettive di crescita e di sviluppo
delle proprie competenze sul posto di lavoro. La produttività dipende da questi fattori motivanti.

Il team è quando ho un gruppo che ha delle caratteristiche particolari. Per avviare il gruppo c’è bisogno di
uno sponsor. Una delle dinamiche importanti molto studiate all’interno dei gruppi e dei team è la presenza
dei leader, che questa sia formale o meno (leader naturale). Sono persone che condividono la capacità di
influenzare i comportamenti all’interno del team.
Quando si parla di leadership si tengono in considerazione due livelli:
-formale: ha certe responsabilità
-autorevolezza: un leader è tale non solo perché ha un’investitura formale ma anche perché è riconosciuto
come tale dai componenti del gruppo.
LA PROPOSTA DI UN NUOVO PARADIGMA
LE TEORIE ORGANIZZATIVE DEI SOCIO-TECNICI
La teoria dei contesti socio-tecnici nasce negli anni 70. Si parla di una soluzione ottima per l’organizzazione
del lavoro (fattori contingenti). Dal punto di vista culturale siamo nel periodo in cui si sviluppa la teoria dei
sistemi. Sistema è un’entità fatta da parti che hanno una relazione tra di loro, che lavorano insieme in modo
allineato creano un effetto di insieme maggiore rispetto alla somma dei risultati altrimenti producibili dalle
singole parti. È un sistema il cui comportamento reattivo o proattivo dipende dagli interscambi che ha
all’interno del contesto in cui opera.
Ancora parlando del contesto si fa presente che esso era molto interdisciplinare. Vi erano persone che
lavoravano con i manager, persone che lavoravano in contesti di recupero sociale, dunque un mondo
interculturale molto forte. Questo veniva chiamato in causa dal mondo politico ogni qual volta ci fosse una
rogna.
Quando c’è una teoria di management così innovativa c’è un motivo.
Il problema era:
- Nel contesto economico siamo nel dopo guerra in cui salgono al governo i laburisti che
nazionalizzano le miniere di carbone tutto ciò accompagnato da una forte spinta gli investimenti.
L’innovazione tecnologica spinta era l’introduzione di una nuova macchina, che con l’uso di una
ruota dentata consentiva di tagliare la parete facilitando il lavoro nelle miniere. L’introduzione di
quella macchina che ha cambiato il modo di lavorare in miniera (da piccoli gruppi a squadre). Il
management pensa allora di introdurre il metodo di organizzazione scientifica del lavoro. Si
avevano alte aspettative, mentre i risultati furono deludenti.
- Nel contesto sociale i sintomi della scontentezza portavano ad assenteismo molto elevato, e
forte turn over (le persone trovavano altri lavori, quindi l’azienda era obbligata a sostituire delle
posizioni con persone che a riguardo non ne sapevano assolutamente niente, con conseguenti costi
alti).
- Nel contesto tecnologicoa seguito dell’invenzione del nastro trasportatore. Erano stati pensati
dei cicli di lavorazione di 24 h. il primo turno lavora con quella macchina descritta prima (6
operatori), il secondo lavora per far funzionare il nastro trasportatore, liberare la galleria centrale e
preparare l’esplosione delle cariche successive (specializzazione spinta, 18 operatori). Il terzo turno
è di servizio, si smonta il nastro trasportatore e si predispone il tutto per poter cominciare la
lavorazione.
-
Per Taylor tutto si riduceva alla definizione di un task.
La cosa in questo periodo si evolse verso un approccio socio-tecnico. Si teneva conto anche del gruppo, del
contesto in cui gli operatori lavoravano. Interessa la situazione sociale solo in funzione della profittabilità
che si sarebbe potuta ottenere sfruttando questa leva.
Se si vogliono ottimizzare le condizioni del sistema si deve fare una joint optimization, tenendo conto sia
della situazione tecnica (gli strumenti a disposizione) che quella sociale.
Organizational choice: non è la tecnologia che determina la dimensione sociologica.

Per mettere in pratica l’MTM, questi signori hanno applicato l’approccio socio-tecnico. Partendo da:
-focus sul primary business.
- individuano 5 passi per fare la progettazione organizzativa:
1. individuazione del work system e analisi del processo di lavoro
2. individuazione delle operazioni unitarie (fasi). Operazione unitaria significa che per arrivare ad avere il
carbone in superficie devo fare degli step intermedi.
3. analisi approfondita con rilevazione di compiti, variabili da controllare, informazioni, decisioni, ruoli
coinvolti, competenze necessarie.
4. analisi delle ‘varianze’. Individuare quindi tutte le diverse varianze e poi applicare la fase 3 alle varianze
per riuscire a raggiungere gli obiettivi finali
5. sono in grado di definire la configurazione del sistema sociotecnico che voglio mettere in atto.
Modalità di intervento:
- Devo coinvolgere le persone che effettivamente metteranno in atto quel lavoro
- Bisogna applicare un metodo di action resource. Se ho a che fare con sistemi da progettare o
riprogettare complessi, è molto probabile che c siano delle relazioni tra variabili che non riesco a
codificare e mi sfuggano. Quindi più è complesso il sistema da modellizzare, tanto più andrò a
sperimentare, mettendo in atto tutti gli step e riuscendo in questo modo a vedere praticamente i
risultati che si ottengono.
IL CONTRIBUTO DEGLI OPERATORI AL MIGLIORAMENTO
LE NUOVE TEORIE MANAGERIALI
Le nuove teorie manageriali nascono dal confronto dal mondo occidentale (Europa e Stati Uniti) e il
Giappone.

Sono nate quindi delle pratiche (ossia delle modalità operative) a volte copiando brutalmente ciò che
facevano i giapponesi e queste si distinguono in:

- TOTAL QUALITY MANAGEMENT (TQM): è un approccio alla gestione e al miglioramento che ha


avuto un grande boom negli anni 80/90. Le cose importanti di questo approccio sono:
1. Cos’è la qualità? Rispettare le specifiche o soddisfare il cliente? I signori del TQM dicono che sia
la soddisfazione del cliente il fattore più importante. È chi sta vendendo a doversi porre il
problema di cosa si aspetta il cliente (sia che quest’ultimo lo dica esplicitamente, sia che non lo
dica). Si sono allora sviluppati diversi modelli, come quello di KANO, che dice che le aziende di
punta sono quelle che deliziano il cliente. Il Total Quality ha cambiato il concetto di qualità, che
non è più rispettare semplicemente le specifiche, ma capire cosa vuole il cliente e darglielo.
2. Chi fa la qualità? In un approccio tayloristico all’operatore chiedo produttività, dopodiché c’è un
addetto alla qualità la cui funzione si pone come un filtro che lascia passare i pezzi conformi alle
specifiche e blocca quelli invece non adeguati. Nel Total Quality invece la qualità la fa
l’operatore, egli può infatti fermare la linea nel momento in cui trova un problema, evitando in
tal modo che tutti i pezzi successivi abbiano problemi di qualità.
3. Il ruolo dell’operatore qual è? Abbiamo visto che l’operatore non è solo il braccio operativo, ma
deve fare propri gli obiettivi di produzione
4. Devo darmi come obiettivo quello di darmi le condizioni per cui con il tempo chi lavora al mio
processo migliori. Devo dare strumenti semplici che possano usare anche gli operai (che hanno
anche la quinta elementare)
- TOTAL PRODUCTIVE MAINTENANCE (TPM): partiamo dal problema, se sono un operatore e ho un
guasto, solitamente aspetto il tecnico. I motivi per cui si può verificare un guasto possono essere
molteplici
1. L’operatore che fa funzionare la macchina deve sentirsi il primo responsabile della
manutenzione proprio mezzo di produzione. Chiedo all’operatore un livello minimo ma
fondamentale: pulizia del mezzo di lavoro e effettuazione della manutenzione elementare del
mezzo (come controlli rabbocchi). Anche qui vediamo una grande attenzione al coinvolgimento
dell’operatore.
2. Di solito la manutenzione si distingue in preventiva / programmata e quella su guasto. Questi
signori hanno introdotto Questi signori qui hanno introdotto un nuovo approccio alla
manutenzione: la manutenzione condizionata, ovvero effettuare la manutenzione quando si
verificano le condizioni che la rendono necessaria. Da qui si sviluppa un altro tema della
valutazione delle condizioni
- JUST IN TIME (JIT): metto in piedi un sistema di produzione tirato, in cui le scorte sono le minime
indispensabili. Si usano i kanban.

Uno dei grandi dibattiti che ci sono stati è stato: queste nuove pratiche rappresentano un superamento
dell’organizzazione scientifica del lavoro (e quindi si configurano come un nuovo modello) o solo un
miglioramento dei difetti dell’OSL? Il punto è che se ne vedo la base, è chiaro l’emergere di un modello
nuovo, quello che è stato chiamato modello dell’organizzazione flessibile o organizzazione lean.
L’organizzazione scientifica del lavoro si basava su una divisione tra chi opera e chi decide e il fatto che la
leva da usare per incrementare la produttività sia quella retributiva.

Quello che è emerso dalle nuove pratiche è invece che, oppure posso creare dei team operativi o
interfunzionali. Questo approccio è vicino a quello dei socio-tecnici.

Nelle nuove teorie manageriali invece sono emerse due logiche di fondo

1. Devo ridurre le esigenze di coordinazione e di coordinamento che fanno perdere tempo e che
riducono l’efficacia degli interventi correttivi dato che questi avvengono in ritardo e da persone
distanti dal problema stesso. Questo può essere fatto in due modi:
- ridefinendo le mansioni (job enlargement e job enrichment) e dando più responsabilità agli
operatori in modo che possano risolvere i problemi da soli
- realizzando dei team (sia operativi che interfunzionali)

2. In tutte queste nuove pratiche ho degli addetti che si sentono motivati e coinvolti nel raggiungere
gli obiettivi dell’azienda
OGGI
WORLD CLASS MANUFACTURING (WCM)
Premessa:

La FIAT è un’azienda che negli anni ‘80 ha cercato di far fronte a reazioni negative all’organizzazione
scientifica del lavoro, coltivando il mito della fabbrica automatica (in Giappone erano arrivati a realizzare le
fabbriche che lavoravano a luci spente). Pensare di arrivare ad automatizzare la produzione di una parte era
fattibile, mentre produrre integralmente una macchina in modo automatico sembrava impossibile. È per
questo che per la prima volta a Melfi si pensò di applicare il concetto di fabbrica integrata attraverso il
concetto di UTE (unità tecnica elementare). L’UTE è la creazione di un tavolo di lavoro attorno al quale
lavorano il responsabile (caporeparto) e più i rappresentanti delle funzioni di staff che possano contribuire
all’individuazione delle problematiche e il raggiungimento degli obiettivi produttivi (un team
interfunzionale).

Oggigiorno si parla di WCM e di lean evoluta, in cui si deve coinvolgere pienamente l’operaio nelle
operazioni di progettazione e per il continuo miglioramento dell’azienda affinché la possa sentire sua e sia il
primo interessato alla sua crescita. La lean originaria prevedeva il coinvolgimento degli operatori
limitatamente al raggiungimento degli obiettivi produttivi e al miglioramento del modo di operare messo in
essere. La lean evoluta si differenzia aggiungendo a ciò anche un maggiore coinvolgimento degli operatori
in decisioni riguardanti investimenti e modifiche dell’impianto stesso.

WCM è un’evoluzione del Toyota production system (TPS, il modello di produzione che Toyota ha messo in
piedi). Molto spesso in questi anni le aziende di grosso spessore si sono sforzate di creare delle regole in
linea con il lean che assecondassero il proprio business.

Il WCM è diventato un movimento di raccordo a livello internazionale. È nato da un’associazione. L’idea è


partita da Schonberger che, negli anni ’90, nel fior fiore degli entusiasmi per nuovi modelli manageriali,
pensò che un’azienda applicando gli approcci già citati, potesse diventare competitiva a livello globale.

In particolare il WCM si caratterizza per:

 Struttura principi, metodi e tecniche in capitoli (i pilastri) 10 tecnici e 10 manageriali:

Tecnici

1. Sicurezza sul posto di lavoro


2. Attenzione ai costi e a cosa posso fare per migliorarli
3. …

Manageriali: i manager devono avere chiari quali sono i loro impegni, devono pianificare i loro
obiettivi e devono affrontare tutte le tematiche relative al knowledge management.

 Predefinire il percorso per ciascun pilastro in 7 step ricorrenti.


 Puntare ad un forte coinvolgimento dei lavoratori e ad un commitment manageriale
 Adottare un sistema di controllo rigoroso, con audit e classifiche degli stabilimenti
 Creare una comunità di apprendimento basata sulla sperimentazione
 Mettere al centro la lotta agli sprechi e la cura della micro organizzazione del lavoro
SMART MANUFACTURING – industria 4.0
Grazie alle tecnologie digitali si realizza la cooperazione e l’interconnessione delle risorse (asset fisici,
persone, informazioni) sia all’interno della fabbrica, sia distribuite lungo la supply chain.

Perché si parla di industria 4.0? il concetto è stato proposto dai produttori tedeschi (Siemens), dietro c’è
l’idea che l’avere una serie di tecnologie possa portare ad un salto di produttività dal punto di vista
operativo se queste vengono utilizzate secondo un mix opportuno. L’industria tedesca ha visto che dopo la
prima, seconda, terza (sviluppo e applicazione delle tecnologie informatiche) rivoluzione industriale, ce ne
dev’essere una quarta che è quella che si sta vivendo. Questa quarta rivoluzione è resa possibile da una
serie di tecnologie: internet of things (es. carrello della spesa che legge automaticamente cosa c’è dentro
senza svuotarlo e ti dice quanto devi pagare), manufacturing big data and analytics (posso elaborare una
mole enorme di dati con delle tecnologie che individuano anche le anomalie e le trasmettono al
controllore), cloud manufacturing (i miei dati vengono messi nel cloud così non devo gestire l’infrastruttura
di storage degli stessi), advanced automation (es i droni,), advanced human-machine interface, additive
manufacturing.

Che impatti ha l’industria 4,0? Permette di lavorare in modo sistemico sui processi interni. Maggiore
qualità, personalizzazione, rapidità di risposta. Aumento del contenuto di servizio del prodotto. Nuovi
modelli di business. Miglioramento della sicurezza sul lavoro e delle condizioni e della qualità del lavoro.
Miglioramento delle prestazioni ambientali.

Se sto introducendo in un’azienda delle innovazioni relative all’industria 4.0 che problemi mi devo
aspettare? La tecnologia deve tenere conto delle scelte strategiche, di organizzazione, delle persone
(cultura e valori). L’applicazione delle nuove tecnologie può seguire due modi diversi:

1. Modello di sostituzione: faccio fare alla tecnologia tutto quello che può fare lasciando fare
all’operatore solo quello che rimane fuori (che possono essere compiti o di altissimo livello a cui la
tecnologia non arriva ancora, o di bassissimo livello che potrei fare fare al robot ma c’è un costo
tale che non mi conviene, quindi metto lì un operatore che pago pochissimo)
2. Modello di potenziamento: uso un approccio socio-tecnico. So che devo ottimizzare l’integrazione e
la complementarietà tra automazione e personale perciò uso delle tecnologie che siano di sostegno
sia a livello individuale che di team. A livello individuale aiutano il singolo operatore ad avere un
lavoro meno faticoso e ripetitivo, mentre a livello di team garantiscono una maggiore gestione della
conoscenza, coordinamento orizzontale, gestione, manutenzione e miglioramento dei processi in
generale.

Ci sono una serie di conseguenze riguardanti l’industria 4.0:

1. Relativamente all’occupazione a seconda che si sia seguito un modello di sostituzione o di


potenziamento
2. Relativamente alla micro (le caratteristiche dei task). Se ho uno scenario di sostituzione ho
sicuramente un impatto sui task di fascia bassa e media, se ho uno scenario di potenziamento
l’introduzione dell’automazione non ha un grande impatto sui task, se ho invece uno scenario di
polarizzazione ho un impoverimento dei ruoli intermedi e mi si creano un forte addensamento di
bisogno di risorse (nella fascia bassa il costo di tutti i task che non mi conviene automatizzare e
nella fascia alta per i costi di tutti i tecnici connessi all’automazione introdotta)

Un tema chiave all’interno dell’industria 4.0 è quello di intelligenza artificiale e cioè come uso le
potenzialità dell’intelligenza artificiale. Per quanto riguarda l’intelligenza all’interno di un’azienda, vi è un
continuum che va da intelligenza collettiva data dall’interazione di più persone (è il tema del knowledge
management) e intelligenza artificiale creata esclusivamente dall’interazione tra le tecnologie. Chiaramente
tra questi due estremi ci sono molti step intermedi e di questi fa parte l’intelligenza aumentata, in cui le
persone collaborano con le macchine per sfruttare al meglio le loro capacità e la loro conoscenza.

Per fare queste analisi di impatto si usa la tecnica degli scenari, l’impatto concreto è invece una questione
di scelta organizzativa. Il decidere il modello da applicare, se di sostituzione o di potenziamento è una
questione di scelta tecnica (organizational choice dei socio-tecnici). Il problema diventa allora di metodo, se
ho un approccio sequenziale di tipo tayloristico determinerò prima il progetto tecnico, poi quello
organizzativo e solo infine cercherò di porre rimedio a tutte quelle problematiche che il progetto tecnico ha
causato. Se invece uso un approccio integrato di tipo socio-tecnico faccio sì che all’interno della
progettazione ci sia coordinamento tra la dimensione tecnologica e quella organizzativa.

L’approccio integrato risulta nettamente più conveniente, e se uso questo approccio vengono fuori i due
principi dei socio-tecnici: joint design e partecipative design.

Per la progettazione congiunta progetto contestualmente tutte le variabili del primary work system
(strategia, organizzazione) a cui aggiungo la variabile tecnologia. Devo chiaramente adottare un approccio
multidisciplinare coinvolgendo i portatori di tutti i know-how strategici, tecnologici e organizzativi. Inoltre
devo mettere in atto un processo simultaneo (che lavora contemporaneamente su tutte e tre le variabili),
interattivo (che tiene conto in ogni passo di tutte le variabili) e iterativo (che rilascia periodicamente dei
passi che vado ad implementare).

Per la progettazione partecipata nel momento in cui sto gestendo il cambiamento chi gestisce questa
progettazione e sperimentazione coinvolgo non solo i responsabili aziendali, ma anche tutti i livelli operativi
fino all’operatore per chiedere un contributo di idee, per capire le problematiche da gestire e perché
questa cosa li motivi. Le opzioni che ci sono qui sono due, la scala del coinvolgimento può andare
dall’informare fino a coinvolgerle chiedendo loro di essere creative e di apprendere. Coinvolgendo
direttamente le persone posso adottare dei livelli di partecipazione organizzativa.
TESTIMONIANZA: LA NUOVA FABBRICA FCA DI POMIGLIANO E IL WCM
Il WCM è figlio del Toyota production system. Non si parla di un progetto, ma un programma, quindi non ha
un inizio e una fine, ma soltanto un inizio (è un miglioramento continuo). Ogni miglioramento comporta un
cambiamento.

I due temi fondamentali saranno: cos’è il world class manufacturing e la sua applicazione a Pomigliano.

2 cose da commentare riguardo il video.

1- Si parte da esperienze concrete, niente di nuovo, ma un learn by doing che si sviluppa in modo
creativo e utilizzando persone che all’interno dell’academy non hanno un’importanza
fondamentale: le lezioni vengono fatte dagli operai, non solo i manager
2- Si usano tecnologie innovative

Il WCM rispetto al Toyota production system ha delle differenze (10 pilastri, 7 step, forte coinvolgimento
degli operatori, sperimentazione e creazione dell’apprendimento, cost deployment che consente di passare
dagli sprechi ai costi, e un sistema di controllo molto rigido con classifiche a livello mondiale.

Il target sono i 4 zeros:

-Zero waste

-Zero defects

-Zero breakdowns

-Zero inventory

Le 5 s rimangono importanti per organizzare le postazioni di lavoro.

Per Toyota la qualità si realizza al primo colpo, sennò non è qualità, quindi la catena di montaggio si ferma
molto spesso.

Il sistema di manutenzione è un concetto molto più elaborato rispetto al passato, non più una
manutenzione mirata al guasto ma per la prevenzione dello stesso.

La logistica è strutturata con il just-in-time: fare arrivare il pezzo giusto, nel momento giusto, nel posto
giusto. Per fare ciò è necessario coinvolgere in modo adeguato tutta la catena dei suppliers.

10 pilastri manageriali+ 10 pilastri tecnici

nel sistema di audit ad ogni pilastro viene dato un punteggio da 0 a 5 ed essendo i pilastri totali 20, il
massimo è 100. Le persone all’interno dei singoli plant vedono solo i pilastri tecnici, quelli manageriali
vengono visti solo dai manager ma a livello tecnico hanno lo stesso valore dei pilastri plant.

La modalità di applicazione dei WCM è graduale e viene effettuata mediante 7 step. I primi step sono
relativi alla reazione nei confronti del problema, poi sono relativi alla prevenzione e gli ultimi sono proattivi.

Si parte dalle model area, cioè da delle unità che serviranno da modello per poi influenzare tutto il plant.
L’area da cui si parte è quella più critica, più difficile.

Alcuni dei tool usati per il miglioramento sono il diagramma a 4 m, i 5 perché ecc. sono circa 250: nel tempo
si sono sviluppati dei tool specifici per ogni esperienza poi brevettati perché molto efficaci per risolvere
alcuni tipi di situazioni.
MACRO
MESSA A FUOCO DEL TEMA E PRIME SOLUZIONI
Come realizzare la mission e la strategia?

Quali sono i compiti della direzione aziendale?

Come organizzare un’azienda?

Questo ci porta ad affrontare 4 temi:

1. Articolazione della struttura aziendale (che diamo per noto)


2. Principi di gestione
3. Meccanismi di coordinamento
4. Cultura

Le aziende di grandi dimensioni sono le prime che si sono scontrate con il problema di come gestire
un’azienda e in particolare le prime grandi aziende che si vennero a creare furono quelle ferroviare, che
cercavano di capire come evitare incidenti tra treni che provenienti da direzioni opposte. Le soluzioni
applicate da queste aziende furono due:

 Organization chart (1855, D. McCallum gestiva le ferrovie che collegavano New York con il lago
Erie). L’azienda gestita dal signor McCallum era cresciuta nel corso del tempo e in particolare il
problema che si riscontrò fu come evitare problemi di comunicazione tra i vari attori aziendali.
Questo organigramma floreale rappresenta un modo per aiutare a fare arrivare informazioni
critiche alla persona giusta e a delegare in modo opportuno.
 Organizzazione staff and line (1857, J.E. Thompson capo della Pennsylvania Railroad) distingue chi
gestisce il traffico ferroviario e dà quindi gli ordini (line) da tutte le altre funzioni di staff che
possono dare indicazioni alle funzioni di line ma non possono dare ordini.
LA SCUOLA CLASSICA e i PRINCIPI DI DIREZIONE
Henry Fayol
Henry Fayol (1841-1925) fu un ingegnere minerario che entrò giovanissimo in azienda e fece carriera
arrivando a diventare manager. Dovette gestire numerose attività di ristrutturazione della struttura
aziendale e cominciò a riscuotere sempre più successo. Dopo quarant’anni di esperienza uscì dall’azienda
nella quale lavorava e mise la sua esperienza a disposizione del pubblico.

Nel 1916 (quando c’era la grande guerra), all'età di 70 anni, Henri Fayol pubblicò la sua opera più
importante, ancora oggi considerata un caposaldo dello studio del management: Administration
Industrielle et Générale. Proprio in questo volume Fayol identifica la funzione direzionale e la analizza con
occhio acuto.

Questa sua opera non venne presa in considerazione perché tutti erano troppo occupati a produrre. Negli
anni 30 poi Luther Gulick e Lyndall F. Urick (il primo americano e l’altro inglese) si resero conto di questo
libretto e lo tradussero dandogli il rilievo che meritava.

Fayol ha un approccio più rilassato rispetto a Taylor.

La sua teoria si basa su 3 elementi

1. Perché funzioni l’azienda non basta produrre e vendere, bisogna anche gestirla ci vuole una
funzione di direzione.
2. Per gestire l’azienda ci vuole una teoria (la conoscenza dei direttori di funzione può essere
formalizzata).
3. Si può imparare a dirigere bene.

Vedremo 3 aspetti fondamentali di questa sua teoria:

1. Come si struttura un’azienda


Dice che le funzioni che devono essere presenti all’interno dell’azienda devono essere 6:
 tecnica,
 commerciale (versante cliente e fornitore),
 finanziaria,
 di sicurezza (che garantisce l’integrità dei beni dell’azienda),
 contabile,
 direttiva (funzione che richiede competenze specifiche ed estremamente rilevante).
Fayol dice che se prendo queste funzioni e le riporto all’interno di un’unità produttiva mi rendo
conto che anche un operaio deve dedicare del tempo a svolgere ciascuna di queste attività (ha una
visione da specializzazione del lavoro molto meno spinta di quella di Taylor)
2. Chi dirige un’azienda cosa deve fare
Secondo Fayol la funzione direttiva comprende 5 sottofunzioni:
- Pianifica: deve avere un orizzonte di pianificazione lungo nel tempo
- Organizzazione: mettere insieme risorse che servono per far andare avanti il business
- Comando: dare ordini
- Coordinare: far modo che le diverse funzioni collaborino per il raggiungimento degli
obiettivi aziendali
- Controllare: vedere se le funzioni stanno effettivamente facendo quello che si sono
preposte di fare
3. Per far funzionare un’azienda quale regole e quali principi conviene darsi
Fayol tira fuori 14 principi, di cui i 6 che sono diventati più importanti sono:
- Divisione del lavoro: la divisione del lavoro l’aveva già introdotta Smith nel 700. La
specializzazione permette che l’individuo sviluppi l’esperienza e migliori continuamente le
sue abilità, in modo da essere più produttivo.
- Unità di comando: ogni lavoratore dovrebbe avere soltanto un capo senza altre linee di
ordine in conflitto. Conferma (senza conoscerlo) quello che diceva Thomson e contraddice
(senza conoscerlo) quello che diceva Taylor
- Unità di direzione: la gente impegnata nello stesso genere di attività deve avere gli stessi
obiettivi in un singolo programma. Ciò è essenziale per assicurare l'unità e la coordinazione
nell'impresa. Fa riferimento a come vengono gestite le diverse unità organizzative, ogni
volta che ho una U.O. serve che ci sia un capo e che questo abbia un piano d’azione per
dire alle persone che lavorano all’interno dell’ufficio in che direzione stanno operando.
L'unità di comando non esiste senza unità di direzione ma non necessariamente dipende da
essa.
- Principio scalare: è la base del funzionamento della struttura gerarchica, dice che all’interno
di una struttura organizzativa devo definire bene chi è responsabile di cosa (applicando
quindi la divisione del lavoro ai diversi livelli) e inoltre dev’essere chiaro anche il riporto di
responsabilità. Mi porta a dare importanza ai rapporti di dipendenza tra le unità definendo
in maniera chiara i doveri e le responsabilità di ciascuna unità.
Il principio scalare è influenzato dal principio mezzi-fini di Simon e dal concetto di flussi di
comunicazione (discendenti (comando) e ascendenti (che riportano informazioni e
problemi non risolti)).
Per operare il principio scalare, lo strumento più efficace è la catena mezzi-fini di Simon: gli
obiettivi da raggiungere -i fini- sono concordati dall’amministratore delegato con il consiglio
di amministrazione e i proprietari dell’azienda, dopodiché l’amministratore delegato
coinvolgendo i suoi primi riporti cerca di capire quali sono gli strumenti che deve darsi -i
mezzi- per realizzare i propri obiettivi. Dopo aver messo a fuoco i mezzi, questi diventano il
fine delle unità organizzative a cui sono affidati. A loro volta i direttori delle unità
organizzative trovano i mezzi per realizzarli, che diventano i fini del lavoro dei propri
operatori e così via.
- Ampiezza del controllo: quanti collaboratori riesce a gestire un capo? La dimensione a cui ci
si è assestati è 6, ma come ci si è arrivati? C’è uno studio fatto da un ingegnere lituano
(Grecunas) che si chiese cosa fosse necessario andare a vedere per dimensionare il numero
dei riporti.
1. Innanzitutto bisogna tener conto delle capacità cognitive di una persona,
2. la complessità della funzione da gestire, che dipende da 3 cose:
 rapporti personali tra capo e collaboratore,
 cosa ogni collaboratore pensa del collega,
 comportamento che ogni collaboratore tiene in presenza dell’altro.

Grecunas fece due conti, valutando il numero di relazioni dirette, incrociate e dirette di
gruppo di ogni attore e sostenne che il numero di riporti ottimali non dovesse superare i 4/5
(a seconda del tipo di contributo che danno gli operatori).

- Linee e staff: di cui abbiamo già parlato per quanto riguarda Thompson
Weber
Terzo pilastro dei principi tradizionali viene da Max Weber (1864-1920). Era un pensatore tedesco, che
pose le basi per la sociologia dell’organizzazione. Dice che per capire bene il funzionamento
dell’organizzazione dobbiamo dare importanza agli attori che ne fanno parte. Il suo studio tocca tre
argomenti fondamentali:

- L’agire sociale
- Le forme di potere
- La teoria della burocrazia

L’agire sociale

Dice che l’agire sociale bisogna cercare di studiarlo in modo scientifico, dando un’interpretazione scientifica
delle regole che causano determinati comportamenti.

L’agire sociale riguarda esclusivamente delle azioni intenzionali.

Cosa influenza il comportamento delle persone?

- razionalità legata al fatto di arrivare ad un certo obiettivo


- razionalità legata al fatto che un dato comportamento è coerente con il mio sistema di valori
- comportamenti determinati dallo stato d’animo
- comportamenti legati all’abitudine.

Nella cultura occidentale delle aziende c’era una tendenza a formalizzare la razionalità. Weber si rese conto
che questa tendenza sarebbe potuta sfuggire di mano, uscire dalle aziende e andarsi ad infiltrare in tutti i
campi della realtà (ad esempio la politica). Ciò che sottolinea è che sistemi formalmente razionali possono
portare a conseguenze irrazionali (ricordiamo che la prima applicazione dell’organizzazione scientifica del
lavoro sono stati i campi di concentramento)

Le forme di potere

Dà una visione operazionale del potere. Cos’è il potere? È la capacità di una persona di influenzare il
comportamento di altre persone che da lei dipendono. C’è potere solo se c’è il riconoscimento della
persona che esercita il potere. Ciò che viene chiamato potere può essere chiamato anche autorità.

Weber contrappone al potere la coercizione, ossia l’imposizione in cui la volontà del subordinato viene
forzata.

Il manager esercita il potere, quindi dev’essere riconosciuto.

Ci sono 3 modi di esercitare il potere:

- Potere carismatico: una persona con delle doti particolari che portano altre persone che lavorano
con lui a riconoscere questo merito eccezionale e a seguirlo. Si distingue dagli altri perché è su base
personale e tutto si gioca tra leader carismatico e adepti del leader carismatico, senza dare
importanza alla messa in opera degli strumenti di gestione.
- Potere legale: significa che l’organizzazione ci ha dato delle regole che valgono per chiunque
all’interno dell’organizzazione (compreso chi le fa). Il manager occupa una certa posizione perché
chi ha l’autorità l’ha incaricato, avendo le competenze e gli strumenti per assumere quel ruolo. È un
potere che si basa su regole, su un sistema gerarchico e strumenti di gestione adeguati. La
burocrazia è il sistema di gestione appropriato per il potere legale.
- Potere tradizionale: anche questo è un potere impersonale, si basa sul fatto che l’esercizio di
potere è in prosecuzione con delle prassi che si sono instaurate nel tempo (es. tutte le volte che ho
delle dinastie manageriali basate su legami di parentela). Il manager potrebbe non avere le
competenze e gli strumenti che aveva il fondatore.

La teoria della burocrazia

Weber presenta la teoria della burocrazia come lo sforzo di tradurre in maniera pratica il potere legale. Il
contesto è quello tedesco, dove le regole erano molto stringenti e rispettate. Si chiede quali siano le
caratteristiche che deve avere un’organizzazione burocratica per funzionare bene:
1. principio di competenza: competenza va intesa come attività di cui è responsabile una certa unità
organizzativa. Devo definire bene chi si occupa di cosa
2. gerarchia degli uffici: all’interno di una struttura burocratica devo prevedere dei livelli gerarchici,
raggruppando gli ambiti operativi. La struttura gerarchica deve essere adeguata (abbastanza livelli)
alla complessità che deve gestire. Corrisponde al principio scalare delle teorie di direzione.
3. Sistema di regole generali: questo dev’essere esplicitato, messo per iscritto in modo che tutti quelli
che operano all’interno della struttura vi facciano riferimento
4. Impersonalità nella gestione: devo creare le condizioni per cui chi si interfaccia all’organizzazione
abbia delle prestazioni sempre uguali. Non fa distinzioni né tra i clienti, né tra il personale. Un
corollario dell’impersonalità è il fatto che venga rispettato quello che in gergo si chiama il “segreto
di ufficio”, ci deve essere riservatezza.
5. Una professione a tempo pieno: il burocrate deve essere un professionista che si dedica a tempo
pieno alla sua attività. Nel passato invece era qualcuno che esercitava questo ruolo su mandato del
responsabile e non essendo pagato trovava il modo per ricompensarsi per vie traverse.
Caso general Mills
Il caso descrive il momento dell’avvio in cui è grossa la pressione per aprire molti ristoranti, lamentele per
qualità del cibo, disaffezione dei clienti e conseguente calo del fatturato. Si è cercato di capire il problema:
erano state definite regole e standard per la qualità, ma non si era in grado di farle rispettare. Inoltre alcune
lamentele sulla qualità non erano state riportate alla conoscenza dei responsabili (non funziona la gerarchia
degli uffici).
Il primo strumento che si usa è quello di rinforzare il sistema di regole, lavorando sulla gerarchia degli uffici
(faccio la formazione al restaurant manager, e ne introduco altri per potenziare). Del principio di
competenza non se ne parla.
Elemento negativo della burocrazia: ha connaturato una tendenza a degenerare.
 Inversione mezzi-fini: la regola diventa più importante del risultato.
 Il circolo vizioso: quando la struttura si trova ad affrontare situazioni particolari, il burocrate
richiede la creazione di altre regole e quindi il sistema si irrigidisce sempre di più.
Le tre scuole classiche hanno 3 elementi in comune:
1. Ricercare una risposta razionale
2. La formulazione di principi e di un modello organizzativo di validità generale
3. L’organizzazione è vista come un sistema meccanico
La prima reazione alle scuole classiche sono state le teorie contingenti.
LE TEORIE CONTINGENTI E LE TEORIE DECISIONALI
Le teorie classiche postulavano l’esistenza di un modello e di principi di organizzazione di validità
universale. A partire dagli anni ’50 le esperienze ed una serie di studi hanno portato a mettere in
discussione questa pretesa. Sono state identificate le variabili che richiedono una diversa modulazione delle
soluzioni organizzative:

• Ambiente
• Tecnologia
• Strategia
• Dimensione

Queste teorie sono già state presentate nel corso di Gestione Aziendale.

COMPLESSITA’ E GESTIONE DELLE INFORMAZIONI


Nel contesto storico in cui ci troviamo, il sistema informativo diventa un elemento portante di ogni
organizzazione. Solo a partire dal secondo dopoguerra le teorie organizzative hanno affrontato in modo
sistematico le tematiche relative all’informazione e alla sua gestione, in relazione a

– aumento della complessità dell’ambiente e delle organizzazioni


– sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione

Sono state elaborate diverse teorie interpretative

– Nell’approccio sistemico e nelle teorie decisionali (vedremo in particolare la proposta di


Galbraith)
– Teoria dei costi di transazione
– Teorie dell’apprendimento e della conoscenza organizzativa
– Social media, mass collaboration, smart working

Jay Galbraith
Jay Galbraith (1939-2014) è una persona che ha lasciato il segno nelle teorie organizzative. Lo usano in tanti
anche se poco riconosciuto dal punto di vista teorico. Ha lavorato sulla riprogettazione delle strutture
organizzative. Egli comincia ad elaborare le sue teorie tra fine anni 50 inizi anni 60. Nascono le teorie
contingenti perché comincia ad andare in crisi la produzione di massa e a diventare più importante la
qualità, la differenziazione ecc. inoltre in quegli anni cominciarono ad arrivare dei computer aziendali,
quindi le tecnologie divennero a disposizione di tutti. Galbraith affronta il tema del processo decisionale
pensando “come dev’essere strutturata l’organizzazione per fare delle decisioni in modo corretto?”. Al
centro delle attività di un manager c’è il fatto di prendere delle decisioni appropriate, ma quali sono le
informazioni necessarie (quelle di cui avrei bisogno per prendere le decisioni)? Le informazioni di cui
dispongo dipendono dall’organizzazione che mi sono dato e quelle che necessito dipendono dal contesto
(competitivo) e dal task. Galbraith dice che c’è sempre un gap tra decisioni di cui ho bisogno e quelle di cui
dispongo. Per prendere le decisioni adeguate devo gestire bene questo gap. Cosa rende ad un manager
possibile riempire questo gap? L’arricchimento delle informazioni dipende dalla capacità elaborativa e
questa a sua volta è condizionata dalla soluzione organizzativa che metto in atto.
Galbraith ha modellizzato le problematiche di gestione di un manager con un livello alto di astrazione.
1. In primo luogo egli dice che devo capire da cosa dipende l’informazione necessaria. Per rispondere
a questa domanda ha elaborato due viste.

1) La prima prevede 3 variabili:


-diversità degli obiettivi associati all’output: come sono gli output del mio processopiù aumenta
la numerosità e la variabilità dell’output, più aumenta il numero di informazioni di cui avrò bisogno.
-diversità interna delle risorse e degli input di cui dispongo
-difficoltà degli obiettivi di prestazione del processo che mi propongo di raggiungere: vedo se ci
sono dei trade-off, se ci sono dei vincoli, se ci sono collegamenti tra le variabili
2) La seconda vista prevede che le informazioni siano sintomi di:
- incertezza (i)
-numerosità dell’output (n)
-grado di connessione tra le variabili (c)

I N = f (i, n, c)

2. La seconda variabile su cui ha lavorato e quello che influenza la capacità elaborativa e quali sono le
soluzioni che sono in grado di mettere in atto per gestirla.
Un primo modo per gestire la capacità operativa è la gerarchia, il riportare al livello gerarchico
superiore un problema che si riscontra. Ogni volta che uso come strumento per aumentare la
capacità elaborativa la gerarchia spendo tempo e la qualità della decisione dipende dalla distanza
tra dove si riscontra il problema e il livello a cui dev’essere riportato. La gerarchia inoltre rischia di
essere un collo di bottiglia, perché quando si riportando le informazioni ad un livello gerarchico
quello viene sovraccaricato. Per ridurre questo si può ridurre l’ampiezza di controllo, inoltre posso
preordinare delle decisioni secondo delle tabelle di decisione in modo da delegare la decisione a chi
affronta il problema stesso. Un altro strumento è quello di aumentare l’autonomia decisionale
controllando i livelli di performance dei gruppi a cui concedo questa autonomia.
A questo punto lui dice che per migliorare la capacità elaborativa posso agire in due modi:
- ridurre la capacità elaborativa necessaria e quindi l’incertezza. Posso usare 3 linee di intervento
1) posso influenzare l’ambiente esterno per ridurre la mia complessità
2) aumentare le risorse di slack per ridurre i miei tempi di risposta (mi sto caricando di
costi): potenzio le competenze, aumento le scorte, modulizzo il mio prodotto
3) creare unità organizzative autosufficienti
- aumentare la capacità elaborativa presente:
1) potenziamento dei sistemi informativi verticali (perché quelli che esistevano allora
gestivano i flussi informativi tra persone che servivano la stessa funzione). Il project
management che poi verrà utilizzato, non è propriamente uno strumento di potenziamento
verticale ma orizzontale, tuttavia è coerente con lo schema di Galbraith.
2) meccanismi di collegamento laterale, in modo da complementare il canale gerarchico.
Questi collegamenti laterali vengono classificati da Galbraith in una scala, dal meno oneroso
al più oneroso:
1. contatto diretto
2. ruolo di collegamento: gestisce l’interfaccia tra due funzioni per facilitare la gestione del
flusso
3. task force
4. team: gruppo interfunzionale che dura per un periodo lungo (task force permanente) e
che si ritrova periodicamente per fare il punto sulla comunicazione tra le varie funzioni
5. ruoli di integrazione: se ho dei ruoli complessi ho magari bisogno di una persona che
dedichi tutto il proprio tempo solo alla gestione di questi
6. matrice organizzativa: la persona nella matrice è quella che interloquisce con più
posizioni organizzative diverse. Consiste nell’istituzionalizzare il fatto che ci siano delle
persone che nel prendere le loro decisioni devono gestire una pluralità di rapporti sociali.

Devo tener conto che qualunque scelta organizzativa faccia potenzia alcune variabili e ne depotenzia altre.
Devo quindi capire se dare più importanza alla funzione o al prodotto per scegliere la struttura
organizzativa più adeguata. Già nella progettazione della struttura organizzativa è necessario mettere a
punto i sistemi di integrazione che sostengano quelle variabili che lo schema organizzativo scelto andrà a
depotenziare (es. se ho creato una struttura divisionale, questa non facilita il trasferimento di know-how tra
la divisione A e quella B, quindi devo creare delle task force funzionali o dei manager integratori funzionali
che correggano e controbilancino la decisione presa). L’organizzazione funzionale premia l’efficienza
operativa, quella divisionale premia l’apprendimento.
Caso BDC
Domanda 2: non posso pensare di levare le personalizzazioni, posso aumentare le competenze così come
l’organico, modularizzare il prodotto cosicché tutti i software abbiano una base comune e standardizzare la
qualità. Dal punto di vista gerarchico è più utile creare delle divisioni per ogni prodotto in modo da
aumentare la capacità elaborativa.
LA CULTURA AZIENDALE (Edgar Schein & Geert Hofstede)
Il tema dell’attenzione alla cultura è nato dagli antropologi culturali. L’antropologia ha una storia più che
centenaria. Finita la seconda guerra mondiale gli americani si sono chiesti cosa avesse reso possibile la forza
dei giapponesi. Furono mandati degli antropologi per mettere a fuoco la cultura giapponese (libro ‘il
crisantemo e la spada’). Il primo ragionamento è allora capire le differenze nazionali. Il secondo
ragionamento è quello che considera se valutare solo la tecnologia o anche la cultura in un contesto in cui si
deve gestire un’innovazione.
Ma innanzitutto, cos’è la cultura? È il fatto che all’interno dell’azienda si creino un repertorio di
comportamenti, atteggiamenti e valori condivisi dalle persone che vi operano. La cultura è figlia del
passato. Più mi trovo a gestire una situazione di cambiamento rilevante, più la cultura mi è di intralcio e
non di aiuto. O meglio più ho a che fare con problemi culturali più ho bisogno di tempo.
Per un manager all’interno di un’azienda da che punto di vista è importante la cultura? Per indirizzare il
comportamento delle persone, da una parte ci sono degli strumenti estrinseci come le strutture
organizzative, i ruoli di collegamento ecc. dall’altra parte c’è un sistema intrinseco alle persone stesse,
perché la cultura è un elemento importante di integrazione e migliora il coordinamento. Porta le persone
che fanno parte di una stessa struttura a vedere le cose e reagire in modo omogeneo. Spesso si possono
creare delle culture locali, interne alle divisioni o funzioni create all’interno azienda.
Un elemento importante, come abbiamo visto, è la cultura come strumento di gestione. Il potere
carismatico si basa sulla creazione di una forte base di valori. La cultura aziendale può inibire il
cambiamento (elemento di fragilità), se il cambiamento stesso non è perfettamente in linea con i valori
precedenti dell’azienda (un caso che esemplifica questo concetto è quello del salvataggio di IBM raccontato
nel libro “chi l’ha detto che gli elefanti non possano ballare”).
Vediamo i due modelli di interpretazione della cultura:
1) Quello di Edgar Schein, uno psico-sociologo, che fece 3 cose:

1. Diede una definizione formale di cultura negli anni ’70, definizione molto orientata al manager.
“la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha
inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento
esterno e di integrazione interna e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere
considerati validi e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di
percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi.”

2. Vide le diverse dimensioni della cultura per poterla inquadrare e capire:


-Artefatti: visibili ma poi da capire ed interpretare
-Valori dichiarati: le cose a cui l’organizzazione dichiara di dare importanza, sono manifeste e
accettate dai membri dell’organizzazione. C’è però da distinguere il modo in cui l’azienda si
presenta e quello in cui si comporta, per andare il cuore della cultura bisogna andare agli
assunti di base.
-Assunti di base: valori e principi così profondi e interiorizzati da chi fa parte dell’organizzazione
che diventano i criteri di riferimento per spiegare il comportamento delle persone all’interno
dell’organizzazione. Riguardano il tipo di relazione tra le persone, l’importanza che si da al
rapporto con l’ambiente (non si parla solo di ecologia, ma anche di contesto in generale),
percezione del cliente, percezione del tempo.

3. Individuò 4 modi per poter studiare la cultura aziendale:


- Capire cosa faccio e cosa dico quando faccio entrare nuovi membri all’interno
dell’organizzazione
- Vado a vedere come l’azienda si comporta in presenza di situazioni critiche
- All’interno del gruppo ci sono persone che si fanno portavoce della cultura più di altre
come il leader o il fondatore
- Vado a vedere le anomalie e i tratti sorprendenti caratteristici

2) Contributo di Hofstede, si è chiesto se i bravi manager tengono conto delle caratteristiche locali.

Il primo ragionamento che fa è su cosa sia la cultura, dando una definizione diversa rispetto a quella
di Schein. “la programmazione collettiva della mente che distingue i membri di un gruppo o di una
categoria di persone da un altro”. La cultura è un sistema operativo su cui si basano gli operativi dei
gruppi di persone.

Il secondo ragionamento è su come si forma la cultura. Hofstede propone un’immagine simile ad


una cipolla. Stratificati a partire dall’interno ci sono prima i valori (quelli che scatenano delle prese
di posizioni istintive) e poi le pratiche che divide in 3 livelli: simboli (abbigliamento, linguaggio etc.
che mette all’esterno della cipolla perché sono la prima cosa che si vede), gli eroi (coloro che
vengono presi come riferimento), i rituali (che traducono un sistema di relazioni e che tendono a
ripetersi)

Il terzo ragionamento è dove si forma la cultura. Bisogna ragionare due livelli: il luogo in cui si
cresce e il livello di cultura. Il luogo in cui si cresce comprende la famiglia, la scuola, il luogo di
lavoro. Il livello di cultura ha come primo il livello nazionale, poi quello dell’occupazione e infine
quello dell’organizzazione. Secondo la sua interpretazione i valori si correlano maggiormente con il
livello di cultura, mentre le pratiche con il luogo di socializzazione.

Livello di cultura Luogo in cui si socializza


Nazione Famiglia
Occupazione valori Scuola
Organizzazione Luogo di lavoro
pratiche

L’ultimo contributo che dà Hofstede è capire cosa influenzava le culture nazionali:


- Distanza di potere: misura quanto una persona inserita all’interno di un’organizzazione
accetta di ricevere informazioni da un terzo (se ho una grande distanza di potere) o quanto
si aspetta di essere coinvolta (se la distanza di potere è molto bassa)
- Individualismo/collettivismo: interpreta questi termini di uso comune in modo molto
tecnico. Una società è individualista quando le persone sono considerate di uguale valore
(approccio universalistico). Collettivista se il valore dato ad una persona non dipende in sé
dalla persona ma dal gruppo a cui appartiene (approccio particolarista). L’esempio più forte
di collettivismo è la modalità di gestione delle società indiane strutturate in caste, in cui
l’individuo veniva trattato differentemente in base alla casta a cui apparteneva.
- Mascolinità/femminilità: mascolinità è associata a società in cui le persone tendono ad
imporsi, danno importanza alla carriera e sono molto competitive. Femminilità invece si
riferisce a società in cui si usano toni pacati dando importanza alla cura, all’attenzione, ai
risultati ecc.
- Avversione all’incertezza: società in cui ci sono persone che fanno fatica ad accettare
situazioni scarsamente definite e quindi chiedono norme alle quali attenersi. Se
l’avversione all’incertezza è bassa le persone invece vogliono essere più libere perché non
hanno paura di avere a che fare con situazioni diverse (es. società svedese che in questo
contesto non ha bisogno di norme per non uscire di casa, semplicemente viene accolto il
consiglio di non uscire di casa e tutti lo seguono).
- Orientamento al lungo termine: venuto fuori quando Hofstede ha cominciato ad affacciarsi
alle culture orientali. Solitamente le società occidentali tendono a lavorare sul breve
termine, mentre quelle orientali sul lungo. Chiaramente tutto ciò è stato studiato su dei
dati statistici, è ovvio che siano presenti anche in occidente società orientate sul lungo e
viceversa, ma sono la minoranza.
Esercitazione ripilogativa- principi di direzione

1. divisione del lavoro iperspecializzazione catena del herzberg dice che se voglio che le

lavoro taylor (OSL) persone siano motivate devo

garantire una spinta

all’arricchimanto.

sociotecnici
2.unità di comando Taylor non aveva questo Galbraith parla del ruolo

Rapporto che c’è tra la persona e principio (8 capi) poi superato integratore che non da ordini ma

il suo capo dal punto di vista molto presto indicazioni. L’organizzazione a

gerarchico. matrice mette in crisi l’unità di

comando.
3.unità di direzione È il principio più applicato e Caso monsanto, hanno

Per ogni unità organizzativa devo meno discusso sperimentato di mettere a capo

avere un capo che porta avanti delle divisioni due capi.

un piano d’azione.
4.Principio scalare Fayol accennava la possibilità Viene messo in discussione la

Occorre operare secondo la delle relazioni “a passerella”, risposta alla necessità di

logica della catena mezzi fini. cioè se non c’è qualcosa di rispondere a più problemi. Nella

particolarmente difficile i soluzione classica vengono

sottoposti si possono mettere aumentati i livelli gerarchici. In

d’accordo da soli. seguito invece:

(l’autorizzazione è però data dai I sociotecnici, responsabilizzando

capi). In generale si dava molta i lavoratori, cercavano di

importanza alla giusta quantità di diminuire i livelli gerarchici.

livelli gerarchici. Come nel caso cimbali, non

metto un livello gerarchico ma

metto il caposquadra come

livello di supporto.
Galbraith propone l’uso dei

collegamenti laterali.

Anche le nuove teorie

manageriali manifestano la

tendenza a delegare e diminuire i

livelli gerarchici.
5.Ampiezza di controllo Sociotecnici, Galbraith e nuove

teorie manageriali
6.linee e staff Taylor dopo essersi corretto Nel momento in cui delego, sto

passò da 8 capi gerarchici a 1 contenendo il numero delle unità

capo gerarchico e 7 di staff. di staff.

Questo incrementa i costi di

struttura.
TENDENZE ATTUALI
Si parla sempre più spesso di lean. Le aziende hanno bisogno di essere snelle per essere veloci e adattarsi
meglio a tutte le situazioni. Servono organizzazioni:
- Agili: che rispondano velocemente
- Ambidestre: che rispondano anche sul fronte innovazione
- Holacracy: che funzionino senza una struttura gerarchica
- Reti di imprese
- Tendenze a burocratizzare: questo apre lo spazio ad una serie di problemi, già visti parlando di burocrazia
Agility
Che caratteristiche deve avere un’impresa agile? Negli anni 90 si è cominciato a parlare di approcci agili.
Qui parleremo di cosa significa avere un’organizzazione agile, mentre ben diverso è parlare di
organizzazione agile di un progetto. Apparentemente un’impresa agile sembrerebbe quella che ha una
bassa strutturazione e che porta ad una riorganizzazione veloce nel momento in cui ci sia un cambiamento.
Degli studi hanno però detto che non è effettivamente così, per essere agile un’organizzazione deve avere
due caratteristiche:
- Stabilità: è presente un sostrato, perché se non c’è una strutturazione abbastanza solida
tutto il resto non si può costruire
- Dinamicità: deve essere in grado di mettere in atto una serie di soluzioni (creazioni di team,
sperimentazioni ecc.) che le permettano di muoversi in un contesto dinamico.
Se si incrocia la dimensione stabilità con la dimensione dinamicità si può creare una matrice per classificare
le aziende.
 Alta stabilità- alta dinamicità aziende agili
 Bassa stabilità- alta dinamicità aziende start-up è il caso delle aziende che si stanno
costruendo ex novo e che quindi devono ancora sviluppare una certa esperienza
 Alta stabilità- bassa dinamicità aziende burocratiche
 Bassa stabilità- bassa dinamicità aziende intrappolate
C’è però una considerazione che conviene fare: bisogna sempre parlare di agilità? Dei ricercatori
dell’università della California hanno fatto delle ricerche per capire i costi legati all’agilità, capendo che per
essere agile l’azienda deve sostenere dei costi alti. Conviene renderla agile solo se necessario e solo se
dispone di una strategia adeguata.
Ambidexterity
Non è necessario solo saper gestire il business ma anche innovarlo (exploitation style e exploration style).
Che problemi hanno le organizzazioni che vogliono diventare ambidestre? Troviamo due assi di intervento:
- alcune aziende prendono in considerazione delle scelte di carattere strutturale. Ci sono più
modi di realizzare questa soluzione: functional design, cross-functional teams, unsupported
teams, ambidexstrous organizations.
- altre organizzazioni utilizzano invece delle soluzioni contestuali, lavorare per creare le
condizioni per cui il personale all’interno dell’azienda possa effettuare ricerche e
innovazioni. Azienda che ha lavorato su questa dimensione è 3M: negli ambiti in cui punta
ad avere situazioni ambidestre fa sì che ogni addetto abbia il 15% del tempo, retribuito, in
cui ha la possibilità di pensare a soluzioni nuove per far crescere e innovare l’azienda. Una
maniera per vedere i risultati dell’approccio di 3M è il fatto che partendo da un’azienda di
produzione di colle, sono arrivati a produrre un prodotto innovativo come i post-it.
Holacracy
Organizzazioni che si basano su team autoregolati, in cui è presente una leadership distribuita. Il manager
intermedio ha più il compito di fare coaching che fare addestramento, mette a disposizione le sue
competenze per il lavoro del team (come nel passare dalla teoria X alla teoria Y). Le aziende più note che
hanno sviluppato questo approccio sono Ternary Software, Buurtzorg, FAVI, Zappos, Morning Star.
Il signor Robertson, che veniva dal mondo informatico, ha trasferito le logiche agili nella progettazione, alla
strutturazione aziendale.
Nell’holacracy non c’è gerarchia, tutto in team si siede ad un tavolo e lavora attraverso un approccio pier to
pier. Tutti si riuniscono e si coordinano tra di loro. L’equivalente dell’unità organizzativa nell’holacracy è il
circle, che viene gestito come un team. All’interno non ci sono definizioni di mansioni e di ruoli. L’holon
parte dal risultato che deve fornire, dopodiché le persone si candidano a ricoprire delle posizioni a cui sono
associate le attività che portano al risultato. I circle vengono gestiti attraverso meeting molto ben
strutturati. La costituzione dell’holacracy è un fascicolo di 36 pagine che descrive tutto ciò che riguarda
questo tipo di organizzazione. Dietro c’è l’idea che se voglio creare un’organizzazione di questo tipo, ho
delle persone che si mettono d’accordo per applicare delle regole.
Reti di imprese
Ci sono diversi tipi di reti. Il primo riferimento alle reti naturali sono stati i distretti italiani, in cui imprese di
piccole dimensioni riuscivano a mettersi in competizione con grandi multinazionali. Alla base dello sviluppo
di reti di impresa c’è l’idea che non tutti possono essere bravi in tutto, quindi ci si può concentrare sul
proprio core business, appoggiandosi ad attività svolte brillantemente da altre aziende.
Alcune reti sono invece governate da clienti importanti che spingono ad esempio i propri fornitori a
collaborare e a creare una rete.
Esistono anche reti orizzontali in cui aziende di piccole dimensioni si mettono insieme per essere un sistema
integrato di fornitura per grandi clienti. Dietro il contratto di rete ci sono degli aspetti di tipo giuridico
Tendenze a burocratizzare
La burocrazia ha un decorso spontaneo che è la tendenza ad esagerare con le norme, che diventano poi
preponderanti nella gestione del business. Il primo elemento da prendere in considerazione è quindi il
proliferarsi di queste norme.
La prima grossa distinzione tra le norme è quella che li divide tra cogenti e volontarie.
Cogenti: gli enti di organizzazione definiscono delle norme a cui tutti devono attenersi (es. normativa sulla
privacy)
Volontarie: come tutte le norme ISO per la gestione della qualità
Le organizzazioni in questo momento si trovano ad operare in contesti, cogenti o formali, sempre più
articolati.
Una volta che ho imposto una norma il primo problema che si pone è quello di compliance: devo applicare
la normativa in modo corretto cogliendone gli aspetti positivi. Molto spesso c’è anche un’unità
organizzativa dedicata alla compliance per controllare che le altre unità organizzative si siano date delle
regole e che le applichino.
Il rischio di burocratizzazione fa emergere il problema di rispetto delle norme (compliance) e
raggiungimento degli obiettivi di business. È emerso allora il concetto di compliance integrata: se esce una
nuova norma, cerco di aiutare le unità organizzative esistenti ad adattare le vecchie norme a quella nuova
(non applico quindi la compliance creando norme su norme, per adattarmi a quella nuova appena
promulgata, ma aggiusto quelle precedentemente create).
MESO- GESTIONE PER PROCESSI
PROCESSI AZIENDALI E TEORIE ORGANIZZATIVE
Livello intermedio che fa riferimento ai processi. Fa riferimento ad una visione trasversale
all’organizzazione.

Cos’è un processo aziendale? Possiamo dare due visioni:


- una in senso più lato: un insieme di modi di fare e comportamenti tenuti dalle persone

- una che ha a che fare con il business process: una serie di attività correlate tra di loro, che assorbono
risorse e che portano alla creazione di un output.

Excursus:

la divisione del lavoro è un concetto che si è affermato a partire dal Settecento. Analizzando
l’organizzazione del lavoro nella fabbrica degli spilli, Adam Smith (1776) forniva una prima descrizione di un
processo aziendale e poneva l’attenzione sull’importanza della divisione del lavoro per incrementare la
produttività degli operatori. Nei primi anni del Novecento, con l’avvento del pensiero tayloristico e
l’affermarsi dei principi dello scientific management, veniva posta crescente enfasi sull’importanza
dell’analisi delle sequenze di attività e di operazioni necessarie per realizzare un determinato prodotto. I
principi di miglioramento dei processi, in termini di produttività, promulgati da questa teoria erano la
semplificazione, lo studio scientifico dei tempi e dei metodi di lavoro, la sperimentazione di nuove modalità
di processo e l’enfasi sul controllo e sulla remunerazione delle performance. L’introduzione nel 1913 della
prima catena di montaggio nell’industria di produzione delle automobili da parte di Henry Ford non è che
un esempio di innovazione di un processo aziendale, che utilizza la leva tecnologica in stretta sintonia con i
cambiamenti nell’organizzazione, al fine di ottimizzare le performance dell’azienda.

In questi primi studi la chiave dell’ottimizzazione delle performance consisteva nel principio di divisione del
lavoro tra gli individui, supportato da uno studio attento e “scientifico” del processo produttivo. Questo
tema ha fatto emergere in tempi successivi il problema dell’integrazione delle attività svolte da persone o
da unità organizzative diverse, a seguito dell’esistenza di interdipendenze tra le attività, spesso non facili da
gestire.

In particolare, a livello organizzativo l’integrazione è volta a identificare unità organizzative distinte e


interdipendenti che operano come un tutt’uno omogeneo attraverso i meccanismi di coordinamento e la
cooperazione tra unità organizzative.

Thompson (1967) ha evidenziato tre principali tipologie di interdipendenze presenti nelle strutture
organizzative: le interdipendenze generiche, date dalla condivisione di obiettivi e risorse tra unità
organizzative, le interdipendenze sequenziali, quando l’output di un’unità organizzativa è input di un’altra,
e le interdipendenze reciproche, quando unità organizzative si scambiano reciprocamente input e output.
La complessità dei meccanismi di integrazione messi in atto per gestire queste tre tipologie di
interdipendenze è senza dubbio diversa e crescente dalla prima all’ultima tipologia: la standardizzazione, il
coordinamento per programmi e il mutuo adattamento.

Successivamente Galbraith (1977) ha sottolineato il ruolo dell’informazione nell’organizzazione per


garantirne l’integrazione e l’efficacia organizzativa. Egli ha individuato diversi strumenti gestionali e
organizzativi per far fronte alla necessità di informazioni, distinguendoli in meccanismi di integrazione
verticali, volti al coordinamento e al controllo tra il vertice e la base dell’organizzazione, e meccanismi di
integrazione orizzontali, finalizzati a collegare le attività fra diverse unità organizzative. Il tema
dell’integrazione informativa (integrazione di dati, applicativi e sistemi) ha assunto una crescente rilevanza
negli anni, soprattutto con il passaggio da modelli di business basati su intensità di capitali e materiale, a
modelli basati su intensità di informazione.

Per concludere, va ricordata la classificazione dei meccanismi di coordinamento di Mintzberg: adattamento


reciproco, supervisione diretta, standardizzazione dei compiti, dei risultati e delle competenze.

Queste tematiche anticipano, pur senza parlare esplicitamente di processi aziendali, alcuni degli aspetti
centrali della gestione per processi. Un altro filone importante nelle teorie organizzative, che anticipa il
tema dei processi e tratta una delle loro caratteristiche principali, è quello della teoria della burocrazia. In
particolare, già nella teorizzazione di Weber una delle caratteristiche fondamentali dell’apparato
burocratico è il sistema di regole, norme e prescrizione che governano le azioni e le decisioni degli individui
nell’assolvere al loro compito e che garantiscono uniformità, stabilità e continuità nelle attività dell’azienda.
Questo concetto, che evolve successivamente nella standardizzazione dei processi e nella definizione delle
procedure organizzative, è uno degli aspetti ricorrenti nella gestione dei processi aziendali.

Un ulteriore importante contributo delle teorie organizzative al tema dei processi aziendali è la teoria dei
sistemi sociotecnici. La prospettiva sistemica proposta da questa teoria ben si sposa con la nozione di
processo aziendale, in cui l’interazione tra i fattori sociali e quelli tecnici costituisce l’elemento
fondamentale per il loro corretto funzionamento. Tra i diversi temi sviluppati nell’ambito di queste teorie,
tre sono particolarmente importanti per gli sviluppi successivi: il concetto di work system, che fa
riferimento all’insieme dei compiti e delle risorse necessarie per la realizzazione del processo; il concetto di
autonomous group, che propone di responsabilizzare i membri del team sul raggiungimento dei risultati
complessivi e sulle soluzioni da mettere in campo per raggiungerli; infine, tra i criteri proposti per la
progettazione dei compiti, l’indicazione di prevedere compiti autoconsistenti, caratterizzati cioè da un
risultato definito e aventi perciò un senso compiuto (task meaningfulness), sviluppando negli operatori le
molteplici competenze necessarie per essere autonomi e motivati nella realizzazione dei compiti affidati.

L’evoluzione delle teorie collegate alla gestione e al miglioramento dei processi aziendali, a partire dagli
anni Ottanta, può essere distinta in tre filoni:

- Operation
È il filone più antico. Ne fanno parte Taylor e Ford. Vengono implementate le logiche per processo.
Negli anni 80 del 900 soprattutto in Giappone cominciano a prendere piede nuovi principi, Total
Quality Management.

Questo ha poi portato a dei filoni negli anni 90 relativi alle certificazioni, che certificano che il
processo che porta alla produzione di un prodotto sia di qualità.

Contemporaneamente si sviluppa un approccio six sigma, che nasce in America e si associa a


Motorola, molto simile al Total Quality Management.

- Strategico
Catena del valore di Porter che scompone i processi in primari (quelli a valore aggiunto) e quelli
secondari (di supporto e che servono ad attuare i processi primari). Nasce un approccio sistemico in
cui i processi solo se coordinati vanno a creare valore per l’azienda. Secondo queste logiche ci si è
posti il problema del fatto che le inefficienze nascevano nel passaggio tra diverse unità
organizzative, quindi spesso si è cercato di intervenire in tale contesto.
Agli inizi degli anni 90 nasce anche un altro approccio, il business process reengineering.
- Informazione
Nasce nel periodo in cui si ha una maggiore disponibilità di tecnologie: digitalizzazione dei processi
(workflow management), Irp ecc. nascono anche linguaggi come il bpmn per permettere la
digitalizzazione dei processi.

I PRINCIPI DELLA GESTIONE PER PROCESSI


Per quanto riguarda la gestione per processi dobbiamo ragionare sia su una visione globale del processo,
sia su una visione locale.

Il processo viene sì definito in corso d’opera, ma viene anche mantenuto nel tempo. I miglioramenti
possono essere sia radicali a livello globale, sia incrementali a livello locale.
I passi che possiamo seguire nella trattazione dei processi:

- Dobbiamo intanto individuare i processi, capire che tipo di caratteristiche hanno


- Descriverli per capire quali sono le logiche di gestione
- Effettuare dei piccoli cambiamenti.

I principi di gestione dei processi si dividono in 3 cluster:

- Culturali
- Organizzativi
- Gestionali

Poi ce ne sarebbe un quarto legato alle tecnologie.

1.Principi culturali (pervasività dell’orientamento)

La logica di fondo è una visione che sia il più possibile sistemica per vedere all’interno dell’azienda quali
sono i processi che consentono di avere un maggiore valore aggiunto.

Quali sono i passi da tenere in considerazione? Se vogliamo operare una logica sistemica, dobbiamo sapere
come sono fatti i processi. Dobbiamo poi imparare a misurare questi processi e capire qual è il loro
contributo alla generazione di valore: come ciascun processo contribuisce sulle prestazioni complessive.
Non bisogna ragionare secondo le logiche della singola unità organizzativa, ma secondo logiche di processo,
perché in ognuno di essi potrebbero essere coinvolte più unità organizzative.

Servono strumenti come la catena del valore o diversi framework di mappatura dei processi.

Il livello di dettaglio che vogliamo dipende dal tipo di analisi che stiamo facendo, dalla complessità del
processo, dalla complessità del prodotto.

Es. Volkswagen nella sua complessità ha individuato una catena del valore per ciascun settore. Capiamo
quindi che il livello di dettaglio sia molto basso.

Dobbiamo anche capire che alcuni processi tra quelli schematizzati da Porter, non siano strettamente sotto
il controllo dell’azienda. Si pensi a Nike che esternalizza tutta la produzione o ancora DELL che ha
esternalizzato la produzione e l’assistenza.

Qual è complessivamente il risultato che ci aspettiamo dall’applicazione di questa logica? Che tutti gli attori
si rendano conto del processo e si rendano conto che il loro contributo ha un impatto sul processo, ma
soprattutto su chi interviene dopo di loro.

2.Principi culturali (la logica cliente-fornitore)

La logica cliente-fornitore ne sta alla base. Per attuarla devo fare un deployment degli obiettivi. Devo
prendere un prodotto che mi crea valore agli occhi del cliente e lo scompongo a ritroso attribuendo degli
obiettivi specifici a ciascuna unità organizzativa che mi consentano, sommati, di raggiungere l’output
desiderato. L’unità a valle diventa il mio cliente anche se non è il cliente vero e proprio.

Devo trattare chi sta a monte rispetto a me come fosse un fornitore, definendo le caratteristiche che voglio,
e trattare chi sta a valle come cliente, richiedendo le caratteristiche da soddisfare.

Le leve da usare sono:


- misurazione delle interfacce (SLA- tempi entro i quali ristabilire i livelli concordati di performance,
transfer price ecc.)
- standardizzazione dei processi perché più io standardizzo, meno sono le eccezioni da gestire e
quindi spreco meno tempo.
- applicazione delle logiche di partnership, ragionare su un possibile scambio di conoscenza, lavorare
insieme per migliorare ciò che stiamo facendo.

Gli obiettivi sono una maggiore rapidità di risposta (soprattutto nelle logiche in cui ho una maggiore
standardizzazione) ed una maggiore efficacia visto che si è in grado di rispondere alle esigenze del
cliente.

Un caso particolare: la gestione di un processo di supporto

Un processo di supporto è un insieme di attività non direttamente coinvolte nella produzione di un


prodotto o un servizio che però sono funzionali e strumentali ai processi primari. Il tema di fondo è il fatto
che i processi di supporto si sentano spesso poco coinvolti nei processi primari. Qui si parla di
estraniamento e autoreferenzialità dei processi di supporto, ossia il fatto che chi svolge attività di supporto
spesso svolga attività in modo non allineato con le attività primarie. A tal fine si possono usare degli
indicatori di interfaccia tra i processi primari e quelli di supporto, oppure degli sla, oppure scorporare delle
attività critiche ed incorporarle all’interno dei processi primari, o ancora produrre le informazioni all’interno
dei processi per poter prendere autonomamente le decisioni. Ultima strategia è quella di esternalizzare i
processi di supporto, codificando a priori quelli che sono i livelli di servizio.

3. Principi organizzativi (ownership dei processi)

L’obiettivo ultimo è introdurre un responsabile del processo che ne garantisca il fluire senza alcun intoppo.
Egli si deve anche coordinare con gli altri processi o unità organizzative che si relazionano con il proprio
processo. Un obiettivo è sicuramente quello di migliorare il processo, sia secondo una logica incrementale
che secondo una logica globale, magari proponendo una reingegnerizzazione del processo.

Criticità del Process Owner:

- È un ruolo nuovo che ha delle responsabilità trasversali nel processo, che attraversano più unità
organizzative (ciascuna con un proprio responsabile). Viene quindi meno il principio di unicità del
comando.
- Spesso non ha a disposizione alcuni strumenti, magari assegnati alle singole unità organizzative.
Deve però avere degli strumenti che gli consentano di avere un’incentivazione del personale.

Possiamo avere due tipologie di Process Owner, che possono anche coesistere:

Process Owner Operativo

Tendenzialmente a sua volta si scompone in altre due tipologie

- Gestore di commessa: colui che si occupa della gestione dell’ordine del cliente e governa le fasi di
produzione ed assemblaggio fino ad arrivare al prodotto finito richiesto dal cliente. Deve avere
capacità di relazione ed interfaccia con il cliente, ma anche con le funzioni operative all’interno
dell’azienda: è il punto di snodo tra il cliente e l’azienda. Deve avere quindi anche capacità negoziali
e di pianificazione.
- Case manager: responsabile delle fasi finali come la consegna o l’assistenza. Dato che si occupa
delle fasi post-vendita, deve avere delle capacità di gestione delle criticità, una forte capacità di
attenzione ed orientamento al problem solving. Per aumentare la velocità di risposta, deve avere la
possibilità di accedere alle informazioni interne all’azienda.
Il responsabile unico del procedimento (RUP) è un Process Owner responsabile di un unico
processo organizzativo che si trova nella pubblica amministrazione.

Process Owner Strategico

Ha degli indicatori diversi dal Process Owner operativo, perché deve intervenire nelle logiche di
miglioramento di tutto il processo. Ha una visione più di alto livello e non ha bisogno di competenze
specifiche sul processo trattato. Per una questione di autorità questo ruolo spesso viene assunto da
persone di alto livello.

Nel corso del tempo il Process Owner può cambiare. Quando il processo è nuovo, acerbo, magari viene
affidato ad una persona di alto livello. Una volta che il processo diventa più maturo e consolidato e non c’è
molto spazio per ottimizzazioni radicali, ma solo puntuali, può essere affidato a personale di più basso
livello.

4. Principi organizzativi (ridisegno delle mansioni e dei ruoli)

Un altro elemento fondamentale è il ridisegno delle mansioni e dei ruoli. È fondamentale per garantire
l’integrazione del processo. Le leve sono:

- il re-design: l’obiettivo è quello di ridurre il fabbisogno e le esigenze di coordinamento,


riconducendo delle attività che sono frammentate ad un’unica persona, o all’interno di un gruppo
interfunzionale. Del re-design fanno parte il job enlargement, il job enrichment e i gruppi di lavoro.
- realizzare un’organizzazione snella: gli elementi di differenziazione radicale sono la riduzione dei
livelli gerarchici e il fatto che il fluire delle informazioni non segue un solo verso. I rischi sono però il
fatto che magari posso non avere abbastanza fondi nei processi di gestione del cambiamento
perché ho tutte le risorse impiegate o posso non avere le competenze adeguate. Inoltre
un’organizzazione abbastanza piatta non sta in piedi se non si è operato un empowerment
adeguato (delega, trasferimento di competenze ecc.)

5. Principi gestionali (documentazione dei processi)

La logica di fondo è la condivisione e la diffusione dei processi.

Le leve sono il software di mappatura, intranet, il repository.

I benefici sono il fatto che bisogna mappare i processi sennò non capiamo come sono fatti e non abbiamo le
basi per sapere se ci sono dei margini di miglioramento. La codifica e la mappatura del processo diventa
uno strumento attraverso cui spiego com’è fatto il processo e quindi favorisce la cultura per processo per
fare capire a ciascuno qual è il proprio ruolo.

I principi sono tra di loro indipendenti ma è più efficace usare un approccio sistemico e quindi coordinarli
tra di loro.

6. Principio gestionale (misurazione dei processi)

Il senso di questo principio è implementare dei metodi di misurazione delle performance per capire se il
processo è efficiente. Ci permette inoltre di guidare chi lavora all’interno del processo verso gli obiettivi.
Permette invece di sganciarsi dalle performance funzionali, è quindi segmentato rispetto alla trasversalità
del processo.

Gli indici che abbiamo a disposizione sono:


- la balance scorecard (peculiarità: clusterizza gli indicatori in alcune categorie economico finanziarie,
prospettiva del cliente, prospettiva interna, capacità innovativa)
- albero delle prestazioni: individua alcune macrocategorie del processo che per semplificare si
possono ricondurre a indicatori di efficacia e di efficienza.

C’è un tema che emerge con forza nella gestione per processi, ovvero il fatto che potrebbero esserci delle
performance in trade-off tra di loro (le stesse efficienza ed efficacia potrebbero esserlo) per cui è necessario
trovare dei compromessi. Un esempio di performance in trade-off potrebbe essere tra obiettivi di lungo e di
breve o ancora tra rischio e risultati. Migliorando il processo posso riuscire a migliorare due performance in
trade-off tra di loro.

7. Principio di gestione (flussi di attività)

Le leve a disposizione sono la riprogettazione del workflow del processo individuando in primo luogo le
attività a valore aggiunto, eliminando eccessivi controlli (agendo contemporaneamente su efficienza-costi
ed efficacia-tempi), rendendo il processo il più lineare possibile evitando ricicli, parallelizzando attività che
non sono sequenziali

Una terza leva è quella di bilanciare le logiche pull e le logiche push (quando faccio partire il processo a
prescindere dal fatto che qualcuno mi chieda quell’output). Produco con la logica pull quando ho delle
commissioni molto customizzate, al lato opposto abbiamo invece settori industriali in cui si produce a
magazzino (pensiamo a tutto il modo dei beni di largo consumo).
PROJECT MANAGEMENT
È nato in contesti impegnativi, di spessore e ci si è poi resi conto che serviva nei contesti quotidiani. Un
ingegnere gestionale non deve solo sapere cosa sono e come funzionano i progetti, ma deve sapere
utilizzare Microsoft Project, un software di gestione dei progetti che ormai è diventato uno standard
tecnico.

Capire come impostare un progetto: quali sono le problematiche da impostare e come gestirle.

 Introduzione ai progetti

Cos’è un progetto? È ad esempio relativo ad una commessa di un cliente che mi chiede


personalizzazioni, quando gestisco delle innovazioni o ancora quando mi trovo davanti ad un
problema che si presenta per la prima volta.

“Il progetto è un tipo particolare di processo in cui risorse umane, materiali e finanziarie sono
organizzate in modo nuovo per realizzare un output unico all’interno di vincoli definiti di tempo e
costo”

1° elemento: spesso mi trovo a che fare con un output nuovo e unico

2° elemento: le risorse che devo muovere sono relative al progetto specifico

3° elemento: il progetto richiede un periodo specifico di tempo

4° elemento: la collaborazione è ancora più stretta. Posso avere progetti con diversi gradi di
complessità. Il progetto richiede la collaborazione di persone che hanno competenze molto diverse
e spesso nei progetti c’è bisogno di competenze di cui non ho mai avuto bisogno prima e che quindi
non ho.

5° elemento: la riduzione dell’incertezza sta nel fatto che quando parto con un progetto, la
soluzione che devo mettere in piedi non ce l’ho ancora chiara. Gli elementi saranno specificati
strada facendo.

6° elemento: quando lavoro su un progetto i criteri di definizione con il cliente e con la direzione,
sono definiti di volta in volta e per ogni progetto specifico. Ogni progetto ha quindi i propri obiettivi
di tempi, costi, risorse ecc.

Mi trovo a che fare con un progetto quando tutti i parametri hanno un loro tipo di definizione,
mentre mi trovo a che fare con un processo ripetitivo quando i parametri hanno dei valori standard
e consolidati. Tra questi due estremi si trovano infiniti punti intermedi in cui per alcune cose posso
riprendere delle soluzioni già trovate, e per altri devo disegnare delle modalità e degli strumenti
nuovi.

Se il mio business è formato da processi ripetitivi, ho un vantaggio solo se ho gestito bene quelli
precedenti e quindi sono in grado di reperire i dati in maniera facile e veloce. Altrimenti tanto vale
avere dei progetti tutti nuovi in cui tutto è da inventare.

Non esiste una classificazione standard dei progetti, dipende dal business. In generale li possiamo
classificare in:

- progetti per commessa: che partono da un ordine da parte del cliente

- progetti a catalogo: è un investimento che mi permette di rispondere in maniera competitiva al


cliente
- progetti di cambiamento organizzativo: progetti più interni all’azienda (es. introdurre kanban, lean
ecc.). il cliente del mio progetto è la direzione e le funzioni interessate.

- progetti di ricerca, di innovazione tecnologica e di sviluppo di nuove competenze: anche questi


interni all’azienda e che sono volti a mettere in piedi qualcosa di nuovo. A volte i risultati della
ricerca sono legati più che al metodo, alla capacità del team di farsi venire delle idee che vadano
fuori dagli schemi. Tutti gli strumenti che metto in atto non devono uccidere la crescita e lo sviluppo
di idee nuove.

Certe volte ho dei progetti così ambiziosi che mi conviene articolarli in un insieme di progetti che
vanno sotto un unico programma. In questo modo ogni progetto porta a casa dei risultati
autosufficienti, ma sono comunque una parte di un programma più grande.

Un altro tema è il fatto che un’azienda ha in testa tanti progetti con caratteristiche diverse e relative
a clienti diversi. I problemi di portfolio si creano a diversi livelli:

1°. Quali sono i progetti che preferisco e reputo più importanti per metterli prima degli altri? Devo
quindi vedere se i miei progetti sono adeguati alle mie capacità e alla mia strategia di business.

2°. Sono problemi relativi ai tempi e alle risorse

3°. Ho n risorse per m progetti. Più propriamente è un problema di multiproject management.


Come faccio a gestire le risorse che ho sui progetti che ho.

 Gestione dei progetti


Il project management consiste in una certa impostazione organizzativa, una certa filosofia da
seguire (criteri, regole), un insieme di strumenti e un insieme di processi.
Qual è il tasso di successo nei progetti? Uno studio ha mostrato che nel 1994 il 16% dei progetti
riscuote il pieno successo nei tempi e nei costi, il 31% invece sono progetti falliti, il 53% sono invece
progetti problematici in cui non ho dato tutti i risultati promessi. Le percentuali sono poi migliorate
negli anni, ma c’è ancora tanta strada.
Nel project management ci sono tre scuole: PMI (americana), IPMA (europea), PRINCE2 (inglese,
nata inizialmente nel mondo IT, ha il pregio di essere molto più semplice delle altre due). Queste
rilasciano certificazioni individuali che individuano delle associazioni di professionisti. I certificati
IPMA sono circa il 40% di tutte le certificazioni. Usare una metodologia IPMA significa usare un
certo linguaggio che permette di far capire tutti coloro che parlano con lo stesso linguaggio.

- Specificità
Quali sono i problemi con cui mi confronto quando gestisco un progetto?
Il concetto chiave è quello di interdipendenza. Esistono 3 classi di interdipendenze:
- Tra fasi successive
- Tra le parti dell’output
- Con altri progetti attuali e futuri

Il progetto è sempre incerto perché non tutte le interdipendenze sono conosciute e non tutti i
vincoli sono esplicitati. Questa incertezza comporta 3 conseguenze:

-ricicli: riconsiderare le scelte fatte in precedenza e modificare la soluzione adottata, per


renderla conforme con i vincoli emersi successivamente (cosa che comporta aumenti nei tempi
e nei costi). Se non posso attuare dei ricicli il cliente si dovrà semplicemente accontentare di ciò
che gli posso fornire in queste condizioni. I ricicli chiaramente allungano i tempi.
-complicazioni delle attività a valle: con aumento dei tempi e dei costi di tali attività. Chi lavora
su attività a valle si trova ad interfacciarsi con attività complicate perché magari deve fare
fronte alle problematiche derivanti dalle scelte (non sempre adeguate) fatte a monte.

- degrado della qualità dell’output: se chi lavora a valle non riesce a far fronte a tutte le
problematiche emerse, questo si ripercuote sulla qualità dell’output e di conseguenza sulla
soddisfazione del cliente.

- Principi di gestione
Che strumenti mi posso dare per gestire il progetto? Vedremo due principi chiave. [immagine]

Trade-off tra ‘incertezza’ e ‘tempi e costi di correzione’

Nell’area 2 è difficile prendere in considerazione l’ipotesi di fare delle modifiche, perché ormai
costa troppo. Nell’area 1 l’incertezza è tale che non ha senso cominciare a muovermi. Questi
sono i 2 punti ciechi della gestione di un progetto. Il problema davanti a cui ci si trova è: come
fare in modo che la finestra delle opportunità (area compresa tra l’area 1 e l’area 2) sia più
ampia possibile? Posso agire in due modi:

1. abbassare la curva dell’incertezza (anticipazione dei vincoli): preordinare un modo di


operare che tenga conto di tutti i vincoli.
2. abbassare la curva dei tempi e costi di correzione (aumento della flessibilità): fare in modo
che gli impatti di un cambiamento siano i minori possibili anche quando prendo le decisioni
al più tardi.
Con la gestione tradizionale dei progetti avremo una curva di avanzamento che presenta dei
denti di sega ogni qual volta avremo delle riunioni di verifica che constatano che una parte
del progetto va bene ed un’altra sia da rifare. Questo chiaramente allunga i tempi e i costi.
L’obiettivo è invece quello di impostare meglio il progetto in modo che magari la crescita
all’inizio si più graduale, ma la crescita sia poi più costante, con meno denti di sega
possibile, in modo da ridurre tempi e costi.

Vediamo come mettere in pratica i due principi sopra citati:

1. devo inventare una soluzione. Posso usare 3 elementi:


o Coinvolgere gli stakeholders anticipatamente, pensando che questi mi diano una mano.
Chi sono gli stakeholder? Tutti coloro che intervengono nel corso del progetto per dare
un contributo alla realizzazione dello stesso. Il loro coinvolgimento può avvenire in 2
modi:
 Lavoro in team: coinvolgendo tutti gli attori che hanno a che fare con il
processo, dal suo sviluppo (vertice aziendale, funzioni aziendali, fornitori,
progettisti ecc.) al suo ciclo di vita (addetti alla distribuzione, addetti alla
manutenzione, chi userà il prodotto, addetti allo smaltimento ecc.).
Quante persone possono mettere in un team affinché le riunioni abbiano una
durata efficiente (circa due ore) in cui tutti sentano le proposte, le discutano
per trovare una soluzione condivisa? Tra le 6 e le 10. Posso creare un core team
in cui sono presenti gli stakeholder di altro livello e poi un extended team in cui
gli stakeholder che fanno parte del core team si fanno portavoce di quello di
cui si discute nel core team.
Quando è opportuno coinvolgere i team? All’inizio del progetto e poi in
momenti chiave in cui si passa da una fase del progetto all’altra. Si parla di
design review (all’inizio), phase review (riunione di verifica di fase in cui chiedo
agli stakeholder cosa pensano delle idee messe in atto e considero i loro
suggerimenti su quanto rimane ancora da fare).
o Consolidare un know-how che sia disponibile per chi porta avanti il progetto a
prescindere dalla presenza di esperti.
 Da una parte devo considerare le conoscenze portate da persone esperienti
dell’azienda in modo che queste siano coinvolte e mi possano dare indicazioni
per fare scelte adeguate.
 Dall’altra parte devo utilizzare le conoscenze che ho già codificato e strutturato
(design rules)
o Promuovere la produzione di nuove conoscenze
Se l’area in cui si sviluppa il progetto è nuova, mi posso trovare in situazioni non
coperte da una conoscenza adeguata. È allora necessario creare le condizioni per
andare subito a verificare se le decisioni prese hanno valore o meno. In un progetto è
normale che ci siano problemi (questi non devono essere visti come errori), devo usare
il project manager per vederli prima possibile e capire subito come poter risolverli
arricchendo così le conoscenze aziendali. Quando parte un progetto nuovo, la fase di
sperimentazione risulta indispensabile e questa può essere messa in atto in due modi:
 test validativi: costruisco un prototipo che mi permette di testare le mie scelte
valutative (es. crush test). Siamo comunque in una fase già abbastanza
avanzata del progetto perché devo avere un prodotto finito. Se da questo test
emergono dei problemi devo tornare indietro e cambiare parte della
progettazione.
 Exploration test: questa tipologia di test può essere fatta ad una fase del
progetto più anticipata, ma può essere fatta solo se ho investito molto sul
know-how di quell’area (ad esempio sulle tecnologie, per virtualizzare la
sperimentazione). Mi da due vantaggi:
 Lo faccio prima di aver finito la progettazione, senza aver ancora
costruito un prototipo. Il progetto non è completo, quindi correggere
mi costerà ancora poco.
 L’esperienza ha dimostrato che questa sperimentazione permette di
fare molti più test, quindi posso fare anche sperimentazioni
controintuitive rispetto al know-how di cui dispongo. Mi permette di
allargare tantissimo il range delle ipotesi che vado a testare e quindi di
essere molto innovativo.
o Utilizzando un metodo (cosa che approfondiremo in questo corso), molto utile per
anticipare i vincoli.

2. Se uso un approccio legato all’anticipazione, lo stage-gate ci sono due cose interessanti:


o Progetto il gate e poi non lo vado a rivedere
o Ho uno stage, lavoro molto bene per impostare lo stage, per valutare il gate e alla fine
dello stage iniziale avrò già tutta l’idea finale.

La domanda che ci facciamo è: una volta arrivati allo step finale, il nostro prodotto avrà
ancora valore?

o Quanto è probabile che cambi il mercato durante il tempo che impiego per passare dal
concept alla realizzazione del mio prodotto/servizio. Perché più il mercato è variabile
più il prodotto risulterà disallineato rispetto al mercato.
o Che probabilità c’è che le caratteristiche che ho messo nel mio prodotto siano ancora
valide quando il mio prodotto uscirà? Dipende da quanto cambiano velocemente le
tecnologie rilevanti.

Ci sono delle situazioni in cui sto lavorando su cose che non esistono ancora, parliamo in
questo contesto di approccio flessibile. È uno dei casi in cui l’innovazione è nata non dai
teorici, ma da manager che si sono trovati di fronte a situazioni nuove, dove l’approccio
stage-gate non era più applicabile. Questo approccio è nato con la nascita dei primi
browsers. Netscape Navigator 3.0 ha gestito in 7 mesi l’uscita di un nuovo browser. Il
mercato non aveva bisogno di un nuovo browser, l’innovazione tecnologica era molto
spinta, la competizione tra i produttori di browsers era molto alta perché il primo ad uscire
sarebbe diventato lo standard del mercato. La primissima fase fu di definizione del concept,
partita con la definizione molto grossolana degli obiettivi, e conclusa al più tardi, quasi a
ridosso dell’uscita. Contemporaneamente alla fase di concept si è sviluppata la fase di
feature design, in cui sono stati definiti tutti dettagli dell’interfaccia. In questa fase vengono
prodotti moltissimi prototipi: ogni volta che si crea una parte del progetto, lo si integra con
le parti già esistenti e lo si testa. Il fatto di avere tutti questi prototipi (beta), che
permettevano di avere dei feedback da parte dei clienti, serviva non solo a rendere più
affidabile il prodotto, ma anche ad arricchire la definizione delle caratteristiche del
prodotto stesso. L’approccio flessibile è un approccio in cui si parallelizzano il più possibile
le fasi, cosa che permette di ridurre il livello di incertezza, facendo con cognizione di causa
le scelte adeguate. Parallelizzo molto le attività di sviluppo e quando esco con i prototipi,
raccolgo di volta in volta informazioni. È un approccio che va bene in un contesto in cui il
mercato va sondato (faccio un’innovazione technology driven) e in cui la tecnologia sta
cambiando tantissimo e rapidamente, quindi non posso portarla per le lunghe. Devo
mettere in piedi un’organizzazione flessibile che mi permetta di capire ciò che sto
progettando al più tardi e che mi permetta di realizzarlo in poco tempo.

Un approccio flessibile è caratterizzato da una forte parallelizzazione delle tappe, che mi


consente di accelerare la sperimentazione, aggiustando il tiro man mano. Analizzeremo ora
che strumenti servono e che logiche di gestione sono necessarie per gestire un approccio
flessibile.

1° ragionamento: di solito per mettere in opera un approccio flessibile bisogna ideare una
buona architettura dell’output del nostro progetto (che esso sia un prodotto o un servizio).
Questa architettura deve avere due caratteristiche:

o modularità: l’output sarà l’integrazione di parti (moduli), ciascuna delle quali ha una
funzione ben definita. Permette di gestire il processo di sviluppo in parallelo, ma ha dei
costi un po’ maggiori;
o scalabilità: ideo un prodotto che nel tempo può dare delle prestazioni maggiori o con
l’aggiunta di elementi o con la rimodulazione di certi aspetti.

2° ragionamento: posso gestire in un modo molto particolare il mio processo. Proprio per il
fatto che lavoro su moduli, una volta definiti i parametri di interfaccia tra il modulo su cui
sto lavorando e gli altri che a questo devono essere collegati, poi posso fare quello che
voglio sul mio modulo, è questo è il motivo per cui posso parallelizzarne la produzione.
Quando si parla di questa parallelizzazione a volte si parla di over-lapping e altre di
cuncurrent engeneering. Il cuncurrent engeneering vuol dire che per riuscire a contenere il
tempo di sviluppo di un certo prodotto/servizio, utilizzo un’architettura del
prodotto/servizio modulare e gestisco lo sviluppo in parallelo dei diversi moduli. Lo
sviluppo in parallelo consente da una parte di avere autonomia nello sviluppo del singolo
modulo e dall’altra di affinare nel tempo l’integrazione tra i diversi moduli. Vuol dire anche
il rilascio parziale dei beta. Il cuncurrency engeneering richiede un metodo, una
strutturazione, una capacità di gestire un processo, controllare un processo, governare un
processo più complesso, utilizzando quelle informazioni di ritorno di cui parlavamo prima.

Gli americani distinguono tra cuncurrent engeneering e cuncurrency. Il cuncurrency è


quello che viene utilizzato in alcune aziende troppo sovraccariche in cui più progetti
vengono sovrapposti sperando che vada tutto bene e quindi senza un preciso controllo di
quello che si sta facendo.

3° ragionamento: per mettere in piedi un approccio flessibile ho bisogno di fare una


considerazione sulle risorse:

o devo avere delle persone che hanno delle competenze sovrabbondanti (si parla di over-
skill).
o Devo avere risorse tecnologiche sovradimensionate (infatti spesso capita che quando si
fa un progetto si pensa di avere a che fare un determinato numero di informazioni e
dati che poi crescono esponenzialmente durante la sua implementazione)

Tutto ciò porta a dire che un approccio flessibile ha dei costi elevati. Tuttavia, se il mio
contesto è molto incerto, mi conviene usare un approccio basato sulla flessibilità, perché
seppur con costi elevati mi consente di rispondere in modo adeguato a delle esigenze
molto variabili. Se sono invece in un contesto a bassa incertezza conviene usare un
approccio basato sull’anticipazione. La decisione sull’approccio da utilizzare dev’essere
effettuata quando si inizia il progetto.

 L’organizzazione di progetto

- Forma organizzativa
Quali sono a livello macro le configurazioni organizzative che si possono utilizzare per gestire un
progetto? Si possono usare 3 schemi base:
1. Organizzazione funzionale: ho tanti progetti ripetitivi (con caratteristiche simili) in cui i vari
soggetti hanno già affrontati i vari problemi di integrazione e ciascun attore ha dei compiti
ben definiti. Il mio progetto è gestito direttamente dalle funzioni.
o Punti di forza: efficienza nell’uso di risorse, potenziamento dello sviluppo specialistico
funzionale, soluzione organizzative vicina alla prassi normale;
o Punti di debolezza: le diverse funzioni fanno fatica a coordinarsi tra di loro per
raggiungere gli stessi obiettivi di progetto. Può capitare che il responsabile di una
funzione incontri un problema per cui debba prendere delle decisioni velocemente non
confrontandosi con i responsabili delle altre funzioni. Questi (che contano sul fatto che
venga rispettato da tutti il programma stabilito) verranno messi a conoscenza del
problema durante le riunioni di avanzamento (se c’è tempo di effettuarle). Quello che
viene penalizzato in questo contesto è il tempo di avanzamento del progetto.
2. Task force: vista quando abbiamo parlato di Galbraith. Se ho un progetto molto importante
e critico, a cui l’azienda tiene molto, creo un’organizzazione a posta per gestire quel
progetto, che inizierà a lavorare quando inizierà il progetto e verrà smantellata alla sua
conclusione. È però molto onerosa, possiamo perciò trovare una soluzione intermedia tra
quella funzionale e la task force.
o Punti di forza: le persone che lavorano sul progetto lavorano tutte nella task force
(quindi una persona molto specializzata viene a contatto con altre persone molto
specializzate integrando le sue competenze e conoscenze), viene fatta co-location (le
persone vengono fisicamente messe nello stesso posto, quindi se c’è un problema lo
vengono a sapere tutti immediatamente) ne risulta una facilità di coordinamento e un
orientamento al risultato;
o Punti di debolezza: è una soluzione potentissima ma costosa (infatti essendo utilizzata
per progetti molto importanti richiedo gli operatori più bravi e una volta che li prendo
per il progetto non li posso reimpiegare se per caso non mi dovessero servire proprio
tutto il tempo). La task force crea una serie di problemi perché le persone escono dalle
funzioni ed entrano nelle task force, quindi i responsabili funzionali devono
riorganizzare il lavoro sia quando il personale esce dalle funzioni, sia quando rientrano
alla fine del progetto. Spesso le persone che ritornano dalla task force alle unità
funzionali soffrono perché nelle task force erano molto più flessibili. La carriera si fa
nelle funzioni e non nella task force, quindi la valutazione del personale e della sua
progressione dev’essere fatta congiuntamente dal responsabile dalla funzione e il
project manager. Questi sono i motivi per cui le task force vengono fatte quando sono
strettamente necessarie e se ho le risorse per farlo.
3. Organizzazione a matrice: per quel progetto lì metto un project manager che per le attività
di progetto ha potere decisionale. Dico alle persone che lavorano all’interno del progetto
che per tutto quello che concerne il progetto stesso, devono fare riferimento al project
manager, per tutto il resto al loro responsabile funzionale. Questa organizzazione funziona
solo se c’è un comportamento maturo da parte della persona che è in matrice e ha due capi
(spesso degrada in una matrice forte o in una matrice debole).
o Punti di forza:efficienza nell’utilizzo di risorse, presidio degli obiettivi di progetto;
o Punti di debolezza: chi lavora all’interno ha a che fare con più capi (succede talvolta che
il personale sia impiegato in più progetti contemporaneamente e la cosa si complichi
ulteriormente) ne derivano la violazione del principio di unicità del comando, continui
conflitti e necessità di negoziazione uniti con un’elevata complessità organizzativa.
Spesso la matrice non funziona e dev’essere smontata, cosa che può avvenire in due modi:

- matrice debole: la persona riceve ordini dal suo responsabile funzionale, però incarico un
project manager di fare il Process owner del progetto per aiutare i responsabili funzionali a
gestire la dimensione tempo (programmazione e gestione degli inciampi in corso d’opera)

- matrice forte: ho un project manager che presidia il progetto relativamente a tempi e


costi, tuttavia per altri tipi di decisioni vengono coinvolti i responsabili funzionali.

La tipologia di organizzazione dipende dalla rilevanza del progetto, dalla sua criticità e dalla
sua novità. Se tutti questi fattori sono bassi si preferirà un’organizzazione più debole di tipo
funzionale, altrimenti si preferiranno soluzioni più forti come la task force.

- Ruoli
Per quanto riguarda la dimensione micro intanto ci rendiamo conto della presenza di diverse
tipologie di attori.
o Il committente:ne esistono di due diverse tipologie:
 Committente mercato: corrisponde al significato che la parola ‘committente’ ha
nella lingua italiana e cioè colui che chiede un certo prodotto/servizio e paga.
 Committente aziendale: quello con cui discuto le condizioni da realizzare, i
margini, gli obiettivi specifici.

Ciascuno dei due committenti ha i propri obiettivi strategici e i propri criteri per approvare
gli output e prendere decisioni sulle risorse da allocare al progetto.

o Ruoli della struttura che creo per fare il project manager


 Ruoli specifici (Project manager e functional project leader)
Functional project leader: serve quando ho un progetto complesso che strutturo in
parti e ciascuna parte ha un livello di complessità tale da giustificare la presenza di
un leader. Ha esattamente gli stessi problemi del project manager ma di entità
minore.
Project manager: cosa fa il project manager e che ruolo ha, dipende dall’importanza
che do al progetto piuttosto che alle funzioni. Posso avere 3 diversi project
manager:
 Project manager peso leggero: che aiuta a lavorare sui tempi. Svolge
una funzione di facilitatore, sollecitatore.
 Project manager peso medio: aiuta nella gestione dei tempi e dei costi.
Svolge una funzione di coordinatore, pianificatore, negoziatore.
 Project manager peso massimo: aiuta nella gestione di tempi, costi e
qualità. Svolge una funzione di decisore.

Riguardo al Project manager ci si chiede quale sia più importante tra autorità
formale e autorità di merito (autorevolezza).

Autorità formale dipende dal livello organizzativo occupato, dai poteri a lui delegati
dalla direzione, dal livello gerarchico della committenza a cui si riferisce, dal suo
coinvolgimento diretto nel sistema di valutazione delle risorse.

Autorità di merito dipende dalle sue competenze tecniche (per cui c’è un effetto
soglia- non può lavorare su un progetto di cui non conosce niente), dalle sue
competenze gestionali, dal suo stile di leadership.
In realtà queste, nel Project manager devono essere bilanciate. Un Project manager
peso leggero sicuramente ha bisogno di un minor livello di autorità formale, ma per
svolgere la funzione di sollecitatore deve avere un’alta autorevolezza. Al contrario
un manager peso massimo ha bisogno di un’autorità formale maggiore e magari
un’autorità di merito minore.

 Ruoli di supporto (risk manager, contract manager)


Risk manager: colui che su progetti complessi aiuta a vedere i rischi di progetto,
ossia quelle problematiche che non riesco a definire e che rimangono aleatorie.
Spesso al rischio di progetto sono associate variabili economiche, spesso questo si
occupa di tenere conto dei costi progetto da inserire nel bilancio annuale.
Più entro in un mondo tecnico, più fare un’analisi sui rischi logistici da affrontare
non è facile, così come non è facile individuare dei rischi tecnici. In azienda, allora,
da una parte si cerca di formalizzare il know how relativo a questi rischi e dall’altra
si incarica una persona di specializzarsi su queste problematiche.
Contract manager: specialista delle dimensioni contrattuali e commerciali. Spesso
utilizzato quando si intrattengono rapporti con paesi diversi che hanno delle
normative differenti.

 Ruoli afferenti all’organizzazione permanente (responsabili funzionali, membri


dei team di progetto)
Responsabili funzionali: presidiano le norme tecniche applicate nel progetto e che a
questo vengano date le competenze che servono. Se si presentano dei problemi, il
responsabile funzionale fa da sponda allo specialista affinché faccia proposte
risolutive assennate dal punto di vista tecnico.
Membri del team: persone coinvolte nel progetto che devono avere le competenze
adeguate.

Il risultato di queste scelte di struttura normalmente si traduce nella formulazione di quello che nel
gergo del project manager viene chiamata la OBS (Organizational Breakdown Structure). Certe volte
l’OBS prende proprio le forme di un organigramma. Più metto in piedi una matrice forte, o in
qualche caso anche la matrice bilanciata, e quindi ho a che fare con progetti importanti, impegnativi
e con tante risorse coinvolte, più è probabile che senta la necessità di formare la OBS facendo un
organigramma di progetto. A volte è il cliente stesso a voler conoscere l’organigramma di progetto
che ho adottato.

La OBS è un organigramma in cui sono rappresentate le funzioni e le posizioni coinvolte nella


realizzazione di un progetto, facendo vedere, se serve, i legami con tutto il resto della struttura
aziendale.

Caso Bughelli

Ci permette di capire meglio tutta la discussione sull’organizzazione appena fatta. Nel caso in questione
sono presi in considerazione due diversi progetti che l’azienda vorrebbe portare avanti: da una parte la
realizzazione di un computer desktop e dall’altra la realizzazione di un sistema informativo integrato per
tutta l’azienda. Il primo progetto prende come input componenti già utilizzate per la realizzazione di
prodotti in precedenza, il second progetto sarebbe invece molto oneroso e totalmente innovativo per
l’azienda.

A questo punto possiamo dire che il primo progetto, essendo in linea con quanto già fatto dall’azienda in
precedenza potrebbe essere gestito con un’organizzazione funzionale che non prevede la presenza di un
project manager. Il secondo, essendo molto innovativo, con costi elevati e necessità di tempistiche celeri,
potrebbe essere impostato con un’organizzazione a matrice forte, con la presenza di un project manager
peso massimo.

 Ciclo di vita di un progetto


Il concetto di ciclo di vita viene spesso usato nei progetti proprio perché questo segue un ciclo che
comprende la nascita, lo sviluppo e la morte. Gli approcci sotto citati sono legati alla fase dello
sviluppo. Il management non è nato nel mondo dei progetti, ma nel mondo della mass production.
Nel mondo dei progetti il lavoro segue un percorso ben preciso. Le fasi del progetto sono
solitamente 5:
- Approccio classico
È una practice (definizione di una modalità operativa per gestire una certa situazione) per
applicare l’approccio anticipativo. È legato allo stage-gate, che predilige l’anticipazione. È
appropriato se ho a che fare con un contesto noto (incertezza bassa). Questo tipo di approccio
fa riferimento a 5 fasi, quelle viste nell’analisi del caso scaldo.
 Initiating
Fase che parte dalla prima idea che può venire a chiunque, alla decisione di metterla in
pratica. La fase di avvio nel caso di una commessa comincia dall’idea del cliente che poi
emette un ordine. Nel caso degli investimenti interni non c’è un contratto ma una
decisione a livello aziendale per cui si decide di fare il progetto. Chiaramente questa
fase pretende una valutazione attenta.
 Planning and controlling
La fase di pianificazione è una fase fondamentale soprattutto per le aziende che
producono per progetti. Se sono un’azienda che lavora per processi spesso non capisco
che il progetto funziona bene solo se dedico tanta fase alla sua pianificazione, perché
spesso lavoro su processi dove la pianificazione è già assodata, quindi spesso si corre il
rischio di saltare questa fase. La fase di impostazione del progetto è il cuore del
progetto.
 Principi di pianificazione e controllo
 Executing
Dopo aver impostato bene il mio progetto, faccio di tutto per ottenere il risultato. È la
fase in cui ho dentro tutto quello che serve per passare dalla fase di decisione alla
consegna al cliente del prodotto. È la fase in cui spendo la maggior parte delle risorse.
Spesso qui mi rendo conto di una serie di aspetti che non avevo valutato in prima
analisi. La fase di controlling spesso è una fase che zoppica perché si è superficiali nel
controllo. L’obiettivo è, tenuto conto dei problemi che ho incontrato in corso d’opera,
cosa devo fare per portare a casa l’obiettivo che mi ero proposto.
 Closing
È una fase in cui chiudo il progetto e passare mano.
Se io il progetto lo faccio una volta sola questa fase ha meno valore che se la mia
attività si baserà su quel progetto.

Si può notare che lungo tutto il progetto c’è un intreccio tra le fasi di planning, executing e
controlling perché essendo in un contesto incerto è normale che in fase di executing si trovino
delle cose non previste, me ne accorgo nella fase di controlling e questo comporta la
necessità/opportunità di adeguare la fase di planning. La fase di executing e controlling finisce
quando ho l’output del progetto. In ogni fase si possono individuare dei punti intermedi, questi
nella fase di executing e controlling sono legati alla realizzazione di output intermedi.
Nella fase di closing il momento fondamentale per considerare il progetto concluso è la presa in
carico da parte del cliente dell’output del progetto sia che sia quello che voleva, sia che non sia
quello che voleva ma gli vada bene ugualmente.

Un altro punto importante è il tipo di sovrapposizione che è necessario ci sia tra fase initiating e
fase planning. Questo si può analizzare nel caso Logos e nel caso Preston.

Sovrapposizione: il caso logos è il caso di un’azienda del settore energia che lavora su licenza di
ABB, lavora su mercati in cui la competizione è sul prezzo. La fase di initiating comprende la
decisione da parte di Logos di partecipare (o non partecipare) a una gara indetta da un
potenziale cliente e di realizzare un’offerta vincolante. Ciò significa che in fase iniziale bisogna
essere certi dell’affidabilità dei costi e dei tempi per portare a casa progetti interessanti dal
punto di vista del business. In questo caso è necessario fase contemporaneamente la fase di
initiating e quella del planning altrimenti rischio di sottostimare i costi e portare avanti una
cattiva negoziazione dei prezzi. Questo modello di parallelizzazione di fase planning e initiating
è stata portate avanti in questo momento di pandemia anche dalle aziende licenzianti e non
solo da quelle licenziatarie, perché più i margini sono bassi per un effetto di competizione e
globalizzazione, più diventa importante fare in fase di avvio delle scelte oculate.

Non sovrapposizione: il caso Preston è il caso di un’azienda che offre servizi multimediali. In
questo caso la fase di initiating e planning sono messe in sequenza perché la fase di planning
verrà mesa in atto solo se poi verrà veramente deciso di realizzare il progetto. Normalmente
succede quando la dimensione economica di un progetto ha scarso valore e hanno più
importanza aspetti quali i tempi di decisione o la qualità della decisione.

In generale la relazione tra le diverse fasi dipende dalle caratteristiche del progetto.

 Initiating: un progetto parte da un initiator che spesso sulla base di un trigger


(elemento che spinge) propone di realizzare qualcosa. Una volta che l’initiator
decide di mettere insieme un team per analizzare il progetto, la practice
classica vuole che venga realizzato un statement of work, ossia un documento
in cui chi avvia spiega qual è l’oggetto da realizzare, le condizioni che si hanno
in mente, perché potrebbe essere interessante analizzarlo, quali potrebbero
essere i rischi e quali persone ci lavoreranno. A questo punto il progetto lavora
perché il team di progetto (formato da un project manager più personalità di
rilievo) raccoglie tutti i dati necessari per una corretta valutazione dello stesso
(verificando la fattibilità tecnica, economica e gestionale).
Il passo successivo è la presentazione della proposta di progetto arricchita
mediante il project charter, una scheda in cui sono presenti gli stessi elementi
presenti nello statemente of work ma con un grado di specificità maggiore.
A questo punto il progetto passa in mano alla committenza, cioè il cliente se si
sta parlando di una gara o ad un organo decisionale se si sta parlando di un
progetto interno all’azienda, che deciderà se accettarlo o meno.
Possiamo vedere la fase di avvio come un imbuto perché nel momento in cui
sono in fase di avvio devo fare una valutazione delle idee che mi vengono in
mente per capire se prenderle in considerazione seriamente.

- Approccio agile
È l’approccio che ha come schema base di riferimento l’approccio flessibile. Ho come
riferimento uno sviluppo progressivo del progetto (rilascio dei beta). È appropriato nel caso in
cui mi trovi in un contesto di forte innovazione, con un’incertezza alta. È nato nel mondo IT, con
progetti di piccole dimensioni. Man mano si sta estendendo anche a progetti molto complessi.
Nel nostro corso faremo riferimento all’approccio classico perché non abbiamo tempo di fare
entrambi gli approcci e ci si è resi conto che studiando l’approccio classico prima, poi sono in
grado di fare l’approccio agile (in ogni caso l’approccio classico è quello utilizzato nella maggior
parte dei casi).
Noi non parliamo di agility dal punto di vista organizzativo (azienda che risponde in tempi rapidi
in caso di cambiamento di contesto), ma dal punto di vista della gestione di progetto.
Da dove nasce l’approccio agile? Il manifesto di questo approccio è uscito nel 2001, firmata da
una ventina di persone molto in vista nel mondo dell’IT, in cui veniva criticata l’applicazione
dell’approccio classico nel mondo IT.
Questi signori dichiarano 4 valori, ciascuno dei quali contrappone individui, software,
collaborazione con il cliente (che secondo loro erano da prediligere) e processi,
documentazione, definizione contrattuale (che secondo loro erano delle esagerazioni).
1. Più che dare importanza ai processi da gestire e agli strumenti (su cui insistono gli approcci
classici), bisogna dare importanza al fatto che servano nel progetto persone vivaci in grado
di gestire le proprie relazioni. Creo dei team di poche persone (normalmente tra le 6 e le
10) e per facilitare l’integrazione faccio la collocation.
2. Nel mondo dei software è importante avere una buona documentazione di progetto.
Questi signori sostengono che la bontà e il grado di dettaglio della documentazione non sia
indice della funzionalità del software, e che quindi bisogna dare più importanza alla
documentazione e più all’effettivo funzionamento del software.
3. Nel mondo dei progetti IT spesso accade che il cliente e il fornitore non definiscano con
precisione le prestazioni garantite e quindi il cliente finisca per aspettarsi qualcosa che il
fornitore non è in grado di dargli e per cui spesso non è neanche retribuito. Ciò ha portato a
dare importanza alla definizione del contratto. Questi signori dicono che nel mondo dei
progetti legati all’informatica, dove spesso il cliente sta facendo delle cose mai viste prima,
se il cliente sta entrando in un’area nuova bisogna capire che nel corso del progetto capirà
di più e chiederà di più. Bisogna allora capire il cliente e farmi carico delle sue richieste di
cambiamento anziché attenersi in modo così rigido al contratto.
4. Nell’approccio tradizionale si da molta importanza alla fase di pianificazione. Questi signori
dicono che anche se qualcosa non è stato definito nella fase iniziale, bisogna riuscire ad
assecondare il cliente in qualsiasi modo, perché avere un cliente soddisfatto è più
importante che attenersi al piano.

Per concretizzare questi valori sono state pensate diverse pratiche. Le pratiche sono
metodologie concrete di realizzazione e la metodologia più diffusa è quella SCRUM (che prende
come riferimento il concetto di mischia a livello sportivo, la metafora sta allora a significare che
gestire un progetto dignifica gestire questa mischia, ossia questa collaborazione con il cliente
all’interno del team).

L’approccio agile all’inizio è stato un po’ snobbato dalle associazioni professionali. L’ultima
revisione 2017 del PMBOC e del PMI ha previsto una practice agile che formalizza con delle
certificazioni di questo tipo.

Vediamo ora quali sono i passi per seguire un approccio agile applicando una metodologia
SCRUM:

o SPRINT: è il punto centrale di questa metodologia. È il momento in cui il development


team sta progettando le parti specifiche del software. In questo momento il team non
dev’essere disturbato, la comunicazione con il cliente dev’essere gestita o a monte o a
valle. Lo sprint ha una durata predefinita (compreso tra 1 e 6 settimane solitamente).
o BACKLOG: è La fase a monte rispetto allo sprint. È gestita direttamente con il cliente e
viene individuato l’elenco delle funzionalità che dovranno essere sviluppate.
Dopodichè il cliente e il team si confrontano per capire cosa mettere in lavorazione
prima di tutto. Viene definito il sottoinsieme del backlog del progetto che poi diventerà
il backlog dello sprint. Durante lo sprint poi ciascun elemento del team si metterà a
lavorare su una funzionalità specifica.

A livello della metodologia SCRUM intervengono 3 ruoli:

-product owner: persona che rappresenta il committente, sa cosa vuole e poi utilizzerà il
prodotto finito. È incaricato dal cliente di parlare con il team di progetto per assicurarsi che il
risultato sia quello voluto.

-scrum master: non è un project manager, è quello che nel mondo agile svolge il ruolo di
coordinamento del team. È un facilitatore che aiuta il team interfacciandosi con il
rappresentante del cliente per definire il backlog iniziale e quello dello sprint e poi si fa carico di
vedere se il team lavora bene.

-development team: sono impegnati al 100% sul progetto e si autoorganizzano. È un gruppo di


pari che ha le proprie competenze, sanno quali sono i mattoncini da sviluppare e ciascuno di
loro dice quale modulo andrà ad implementare. Finito lo sprint c’è un momento in cui il team fa
la valutazione del risultato e lo vede dal punto di vista del risultato da una parte e dal punto di
vista delle modalità di funzionamento quando fa il reviewing.

Daily scrum: per favorire l’integrazione del team bisogna fare giornalmente una riunione di
brevissima durata in cui ciascuno dice cosa ha fatto il giorno prima, che problemi ha incontrato
(su cui poi lo SCRUM master andrà a lavorare con il team) e cosa ha in mente di fare quel
giorno lì.

Parte 2

Legata agli strumenti, che entrano in gioco in due momenti chiave: nella pianificazione e nella fase di
controllo dei progetti.

 Planning
 Controlling

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