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1. Cambiamenti di contesto
-Cambiamenti demografici
Siamo una popolazione che sta invecchiando sempre più e chiaramente non ci si può aspettare da
una persona che ha 65 anni le stesse prestazioni di una persona che ne ha 25, ma li si deve
comunque far lavorare. Attualmente nel mondo del lavoro si trovano a collaborare persone che
sono nate durante boom economico e persone che sono nate nell’era digitale, aventi naturalmente
modi di pensare diametralmente opposti. Sono cambiamenti demografici anche i flussi migratori.
-Cambiamenti socioculturali
Sono le cose a cui le persone danno valore. Un aspetto che adesso sta diventando sempre più
importante è quello ambientale. Si sta cercando di evitare l’uso del carbone anche se vedremo che
questo ben si adatta a molte teorie organizzative.
-Cambiamenti economici
Sono i cambiamenti relativi alla globalizzazione e ai problemi che le aziende stanno affrontano per
far fronte al problema della crisi economica.
Dopo la crisi del 2008 l’Italia è stata molto penalizzata a livello europeo e solo il 30% delle aziende
italiane sono riuscite ad attuare delle strategie che consentissero loro di consolidare le loro
posizioni all’interno del mercato durante la crisi.
- Quelle che sono riuscite a possedere e padroneggiare al meglio le tecnologie che stanno alla
base del proprio business
- Quelle che sono riuscite a differenziarsi rispetto ai competitor
- Quelle che sono riuscite a collocarsi in una visione più integrata del mondo, facendo uso di
catene di rifornitura globali.
- Per attuare questi 3 punti c’è bisogno che ci sia una riorganizzazione coerente, snella, lean che
faccia magari uso del world class manufacturing.
- Quelle che hanno capito per tempo che stava cambiando il sistema di valori e che quindi hanno
dato sostegno ad iniziative a supporto delle tematiche ambientali e altre che stavano sempre
più a cuore ai clienti.
2. Cambiamenti tecnologici
Nel corso degli anni il mondo sta affrontando un percorso di trasformazione digitale (ad esempio il web2.0
che portato all’interno delle aziende dà vita all’entreprise 2.0). Le applicazioni legate alla digitalizzazione
vengono chiamate applicazioni smart.
Molto spesso quando si parla di innovazione digitale si parla di innovazione disruptive, che fa fare dei
cambiamenti repentini e totalizzanti.
Le aziende hub sono delle aziende piattaforma (Amazon, Blablacar, Airbnb ecc.) che entrano nel mondo del
business e creano una centralizzazione su un numero limitato di attori economici di una massa di affari
molto rilevante. Ritorneremo sulle variabili tecnologiche.
Quando le persone riflettendo sulle tematiche relative ai cambiamenti delle aziende, propongono delle
teorie organizzative. Il manager si rende conto dei benefici che possono venire dall’impostare le attività in
un altro modo.
Analizzeremo i punti principali del corso (micro, macro, meso), utilizzando un approccio più applicativo.
Faremo dunque un’analisi storica che ci porterà a capire e inserire questi concetti all’interno di un contesto
più ampio.
2 tipi di ragionamenti:
Dopodiché cominciano a riscuotere un certo successo i sistemi socio-tecnici, nati dalla necessità di
gestire grandi organizzazioni dal punto di vista tecnico e complesse dal punto di vista del personale.
Come faccio a far funzionare un sistema tenendo conto delle variabili tecniche e dei comportamenti
degli operatori? Vedremo. Sta di fatto che hanno valore anche adesso.
TEORIE ORGANIZZATIVE MICRO
Le teorie micro analizzano quegli strumenti che all’interno di un’azienda permettono di aumentare i livelli di
produttività del lavoro. Cos'è che porta una linea produttiva a dire in quest’ora facciamo 5 pezzi anziché
due? E cosa posso fare per migliorare ed incrementare la mia produttività? Dietro c’è l’idea che il modo in
cui si lavora influenzi la produttività e che, per questo motive, debba essere oggetto di studio.
Nascerà negli anni 70 con i socio-tecnici il termine job design, diverso da job analysis.
Il paradigma classico nasce dallo studio sulla produttività. Dal punto di vista micro troviamo queste tre
teorie che, pur nascendo in contesti diversi convergono nello stesso punto. Perché paradigma? Perché è
una teoria molto ben strutturata avente degli elementi omogenei che costituiscono uno schema da
utilizzare in modo coerente per rispondere a delle esigenze.
Con il tempo sono emersi una serie di problemi, tra cui quelli fisici sono stati i primi ad essere riscontrati
(video di Chaplin sui tic che vengono lavorando in fabbrica). Con il tempo si è superata la teoria
dell’organizzazione scientifica del lavoro e l’attenzione è passata, dalle aree a più alta criticità, a tutte le
altre, consentendo così uno sguardo complessivo sull’impresa. Ciò venne effettuato mediante 3
dimensioni:
- Human relation: Taylor sosteneva che la prestazione fosse frutto del singolo lavoratore. Si capì
in seguito che il team influisce sulla produttività ed era quindi possibile sfruttarlo a tal fine
- Teoria X e Y: la Teoria X e la Teoria Y sono le teorie motivazionali delle risorse umane
sviluppate da Douglas McGregor presso la Scuola del MIT Sloan of Management nel 1960.
Queste teorie sono utilizzate nella gestione delle risorse umane e nella definizione e
sviluppo dei comportamenti organizzativi. Descrivono due modelli opposti di motivazione
della forza lavoro. La Teoria X e la Teoria Y hanno a che fare con la percezione che i
responsabili hanno dei propri collaboratori a prescindere dal modo in cui in genere si
comportano. Sono un promemoria salutare e semplice delle regole per la gestione delle
persone che, sotto la pressione lavorativa giornaliera, sono troppo facilmente dimenticate.
Teoria X (Stile di gestione autoritario)
Secondo la Teoria X, che si è rivelata nella prassi controproducente, il responsabile
sostiene che i dipendenti sono intrinsecamente pigri e inclini a sfruttare qualsiasi
occasione per evitare i carichi di lavoro. Questa visione porta il management a sviluppare
sistemi di controllo dei propri collaboratori. Secondo questa teoria, i dipendenti mostrano
poca ambizione ed evitano l’assunzione di responsabilità in assenza di un sistema di
incentivazione delle performance. I manager che fondano il loro comportamento sulla
teoria X si basano molto sulla minaccia e la coercizione per ottenere il rispetto dei loro
dipendenti creando un'atmosfera punitiva e di sfiducia.
Con questo stile di gestione, si tenderà a dare la colpa alle persone, senza prendere in
considerazione altri fattori (procedure aziendali, politiche aziendali, mancanza di
formazione adeguata, ecc.).
Teoria Y (Stile di gestione partecipativa).
Nella Teoria Y, il management ritiene che i collaboratori possono essere ambiziosi e auto-
motivati. Si ritiene che i dipendenti svolgono con “piacere” le loro attività fisiche e
mentali. I collaboratori hanno un atteggiamento proattivo nel lavoro e possiedono
capacità di problem solving. A determinate condizioni favorevoli, la teoria Y ritiene che i
dipendenti impareranno a cercare e accettare le responsabilità e a raggiungere in
autonomia gli obiettivi. La soddisfazione di poter fare un buon lavoro è quindi un fattore
motivante. La Teoria Y non è un insieme di credenze positive sui lavoratori: McGregor fa
semplicemente notare ai manager che avere una visione positiva dei lavoratori può creare
un ambiente di lavoro che incentiva alle best performance. Lo sviluppo delle risorse
umane diventa di conseguenza un aspetto fondamentale per qualsiasi organizzazione. Ciò
porta i responsabili a comunicare apertamente con i collaboratori, riducendo al minimo le
differenze gerarchiche e creando un ambiente confortevole. Il risultato più alto di questa
teoria si ha nel momento in cui i collaboratori prendono parte al processo decisionale.
- Le teorie motivazionali: Maslow e Herzberg.
Viene a questo punto proposto un nuovo paradigma: i sistemi socio-tecnici. Nasce in un contesto in cui
erano molto importanti le industrie minerarie, in cui erano presenti molte variabili ed era necessario gestire
un processo produttivo in un contesto di lavoro non prevedibile. Il sistema socio-tecnico è il passaggio da
un modello meccanico basato su una razionalità predefinita, ad uno organico che si basa sulla capacità di
chi fa parte dell’organizzazione di aggiustare il tiro e adattarsi al caso specifico.
Temporalmente si sono poi sviluppate le nuove teorie manageriali, negli anni ‘70/ ‘80. Un contesto in cui la
competizione è spinta, perché non mi confronto solo con i colleghi italiani, ma anche con aziende
provenienti da tutte le parti del mondo. Queste teorie nascono da un innesto delle teorie americane su
quelle giapponesi e riescono a mettere le aziende americane ed europee in grado di recuperare il terreno
perso nei confronti dei giapponesi. Ci si rende conto che gli operai, quelli che lavorano nelle linee
produttive, sono gli stessi a cui si possono chiedere dei riscontri per rendere la produzione a maggiore
valore aggiunto migliorando ogni aspetto critico.
Nei tempi moderni è nato un nuovo paradigma, quello dell’organizzazione flessibile in cui vedremo il world
class manufacturing (una lean evoluta che comprende l’organizzazione scientifica del lavoro, nuove teorie
manageriali (lean,jit,total quality) e il contributo dei lavoratori anche nell’impostazione di problematiche
gestionali) e smart manufacturing (che affronta le tematiche relative alla tecnologia).
ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO
Il primo volume a riguardo viene scritto nel 1911. Si è diffusa moltissimo durante le due guerre mondiali.
L'organizzazione scientifica del lavoro ha impostato il lavoro moderno. Negli anni 60/70 c’è stata una forte
critica, ma è stata poi ripresa negli anni 2000 quando si volevano incrementare moltissimo i volumi.
Da dove nasce?
- Taylor: ingegnere meccanico, entrato in un’azienda di lavorazioni meccaniche come tecnico ha
sviluppando una forte passione per le tecniche di taglio del metallo. Ha inventato la figura del
consulente aziendale. Viveva dei diritti di proprietà intellettuale sviluppati sulle tecniche di
taglio dei metalli. Le teorie che ha sviluppato tengono conto della sua esperienza.
- Frank e Lilian Gilbreth: Frank è partito come imprenditore edile per poi diventare un
consulente. Gilbreth ha introdotto un’attenzione diversa rispetto a Taylor: sollecitava gli operai
a fare proposte, a vedere dov’erano i problemi e a capire come risolverli. Capirono che
bisognava riprogettare non solo il ciclo ma anche i movimenti.
- Ford: imprenditore avventuriero che ha avuto fortuna nella vita e che si montò anche la testa.
Si è sempre vantato di dire che i consulenti tra i piedi non li voleva perché il genio era lui.
Perché lo mettiamo insieme con il taylorismo? Perché sono poi confluiti in un unico filone.
La situazione di partenza:
Quella della seconda rivoluzione industriale. Siamo in un contesto di lavorazioni meccaniche e la gestione
era lasciata agli operatori e ai capi intermedi. La gestione di un reparto era lasciata agli appalti intermedi
(sistema del caporalato: è il capo che si sceglie i lavoratori, negozia il livello di produttività confrontandosi
con l’imprenditore, decide come strutturare il lavoro, che tecnologie utilizzare e come distribuire i proventi
agli operai).
Primo ragionamento: Taylor si rese conto che il sistema degli appalti intermedi metteva in mano la
produttività all’esperienza e alla capacità di capi intermedi: può essere migliorato se il controllo passa in
mano al manager.
Secondo ragionamento: nelle organizzazioni asme (associazione ingegneri meccanici) si discusse come
retribuire gli operatori. La prima idea fu quella di usare il cottimo, ossia retribuire in base a quello che
veniva prodotto. Uso la leva retributiva per spingere le persone ad aumentare la produzione. In questo
discorso Taylor entra a gamba tesa, proponendo che il manager definisse un livello di produttività
considerato “giusto” per poi dare dei bonus a chi produceva più del giusto: è il concetto di cottimo
differenziale. Allo stesso modo se veniva prodotto meno dello standard veniva penalizzato con una
retribuzione minore di quella standard.
Taylor si rende conto della potenzialità produttiva, ma capisce anche che i lavoratori tendono a battere la
fiacca, perché se migliorano, l’azienda tende a considerare normale il “di più”. Dietro tutto ciò, c’è l’idea
che la produttività migliora se c’è l’intenzione da parte del manager di entrare nel vivo della produzione e
razionalizzare tutte le decisioni in modo scientifico: facendo degli esperimenti, raccogliendo dati e
misurandoli.
L'obiettivo é riuscire a tirar fuori il metodo di produzione migliore che poi diventa lo standard che vado ad
insegnare e pretendere dai miei collaboratori. “one best way”.
Riprendiamo i concetti della scorsa lezione.
Il taylorismo-fordismo è il primo paradigma di organizzazione che è stato utilizzato. Si occupa
principalmente di organizzazione delle attività produttive di ufficio.
Dove nasce la proposta di Taylor?
Siamo contesto di fine 800: grande sforzo tecnologico, investimenti nel miglioramento della produttività
dato che si vivono fasi di forte crescita dell'economia (studi di Alfred Chandler, uno storico del business
morto un 10 anni fa). È un contesto in forte espansione e questo è il motivo per cui si dava così tanta
importanza a una dimensione di produttività.
Abbiamo già detto che Taylor è una persona che parte dalla gavetta. Quello di cui si rende conto è che da
una parte c'è un grosso potenziale e dall'altro questo potenziale è limitato da due aspetti:
il primo aspetto è il fatto che l'imprenditore delega troppo. Lascia fare ai capi intermedi (gli
operatori con più esperienza) e quindi le performance di produttività dipendono molto poi dalle
variabili soggettive e dalle competenze di questi capi.
secondo elemento riguarda il fatto che Taylor, avendo visto le cose dal basso, si rende conto che gli
operai sono restii a fare di più, per paura che per i datori di lavoro, quel di più che hanno fatto
diventi normale e comincino a pretendere ancora di più. Taylor dice di fare un salto di mentalità ( è
per quello che usa il termine “rivoluzione mentale”) e far capire all’operatore che un aumento di
produttività va anche a suo favore. L’attenzione deve essere prima di tutto sull’ aumentare la
produttività, dopodiché si discuterà su come dividere il surplus derivante in modo che sia
vantaggioso per entrambi.
La prima cosa che gestisce normalmente un imprenditore è l'attività di sviluppo, ma il manager non
può fermarsi lì, deve anche entrare nel merito di come vengono gestite le attività all'interno
dell'impresa.
La seconda cosa che dice Taylor è che la direzione non può non entrare nel merito
dell'organizzazione del lavoro. Entrare nel merito vuol dire allora che la direzione si occupa di tutto
e poi dà le direttive.
La terza cosa che dice Taylor, parlando di salto culturale, è che bisogna (anche nel definire
l'organizzazione del lavoro) applicare un metodo scientifico, per fare delle ipotesi e andare a
misurare i risultati che sono stati raggiunti. La sua idea è che applicando un metodo scientifico è
possibile arrivare a definire la “One best way”. Dietro questa idea c’è molta presunzione di
razionalizzare.
Ormai anche nel contesto ingegneristico è stata superata l’idea del risultato ottimo.
Impostata questa rivoluzione mentale Taylor dice che ci sono quattro pilastri:
primo pilastro -i metodi di lavorazioni vengono definiti applicando il metodo scientifico
Applicare il metodo scientifico vuol dire prendere uno specialista (quindi una persona che sa
applicare il metodo scientifico) che dedica tutto il suo tempo allo studio delle attrezzature, dei cicli,
della rilevazione dei tempi e quindi che definisca le modalità di progettazione. C'è l'idea, ancora
presente nella testa del 50% dei manager, che l'operaio è la persona che mette la forza fisica, ma
non la persona alla quale io chiedo di impegnarsi anche nel definire, nel progettare, nel decidere.
Dietro questo studio scientifico c'è quella che è nota come la separazione netta tra chi pensa
(analista dell’organizzazione), chi progetta l'organizzazione del lavoro e chi esegue (l'operatore).
Questo porta a definire una metodologia da dare in mano agli specialisti per definire i metodi di
lavorazione: da qui nasce il metodo MTM.
il metodo MTM è la metodologia per tradurre un trattamento e per concretizzare la definizione di
un metodo di lavorazione in modo scientifico. Un esempio è l’idea di cottimo differenziale. Dietro
un discorso di quantità c'è spesso anche un discorso di qualità e quindi di rischio di penalizzare la
qualità e la bontà del prodotto a favore della quantità. Se ad esempio lo studio mi dice che per
mantenere la qualità che voglio i massimi pezzi che possono essere prodotti da ogni operatore sono
17-18, io garantisco degli incentivi solo fino a quella quantità, altrimenti per farmi più prodotti e
guadagnare di più mi fanno un prodotto scadente.
Tutte queste operazioni, come abbiamo detto, puntano a ricentralizzare tutte le decisioni nelle
mani del manager. A questo punto, un capo intermedio che fino a quel momento aveva deciso
tutto per conto suo potrebbe infastidirsi. Il ragionamento di Taylor fu però quello di spiegare a
queste persone il motivo per cui bisogna usare il metodo scientifico. Se gli dimostro che loro
applicando questo metodo guadagnano di più, non si opporranno.
Emergono due idee forti: chi decide è una persona diversa da chi esegue e che per ottenere dei
risultati da parte dei lavoratori devo sfruttare la leva economica.
MTM
Uno dei pilastri del metodo scientifico è stato l’MTM. L’MTM è un metodo di definizione delle lavorazioni
che viene utilizzato ancora oggi. La sigla sta per misurazione tempi e metodi ed è lo strumento che è stato
messo a punto per far fronte alla necessità di definizione dei tempi dell’approccio di Taylor. È un metodo da
una parte di job analysis e dall’altra di job design. È frutto dell’incrocio tra l’approccio di Taylor (che dava
molta attenzione ai tempi e lasciava meno strutturato il modo di eseguire l’azione) con quello dei Gilbreth.
Frank Gilbreth era un imprenditore edile e la prima cosa che ha fatto è stato dire che se si volevano
migliorare le performance di un'impresa edile era necessario eliminare i movimenti non produttivi, per
evitare di sprecare tempo e per evitare che gli operatori lavorando avessero problemi di salute. C'è l'idea
che se io definisco delle modalità di lavoro e quindi preparo bene il mio lavoro, aumento l'efficienza
operativa delle persone che lavorano.
Gilbreth, tuttavia, si focalizzava solo sull’aumento di efficienza dell’operatore e non considerava tutte le
attività di preparazione che permettevano all’operatore di lavorare in quel dato modo. Quando io applico il
metodo scientifico devo fare una distinzione tra i costi diretti (relativi all’effettiva realizzazione del lavoro) e
quelli indiretti per (relativi a chi studia i metodi di lavorazione e a chi prepara le lavorazioni).
L’MTM prevede 5 passi:
1. Analisi del lavoro e ricerca del metodo più economico
Bisogna analizzare la situazione AS IS (a meno che la lavorazione sia nuova). Infatti, se il
lavoro è già stato eseguito, l’operatore già lo esegue contenendo il più possibile lo sforzo
(pur nel rispetto del metodo di lavorazione imposto). Dopodiché si esamina criticamente il
lavoro per vedere quali sono i cambiamenti che è più opportuno introdurre per aumentare
la produttività. Si inseriscono qua le “Design rules”.
La prima di queste è l’eliminazione dei movimenti inutili (ora si dice eliminare le attività non
a valore).
La seconda è fare delle azioni di ottimizzazione: usiamo gli organi di movimentazioni che ha
l’operatore (ad esempio per fargli fare due operazioni con le due mani diverse, evitare che
un pezzo debba essere inserito con un modo pre-orientato ecc.)
A questo punto definiamo la one best way per agire.
2. Normalizzazione e descrizione del procedimento da seguire
È essenzialmente la fase TO BE. A questo punto devo produrre l’insieme della
documentazione tecnica che andrà in mano a chi di competenza per farmi capire come si
dovrà lavorare.
Secondo ragionamento: uno dei vantaggi del micro MTM è che una volta che io ho fatto
tutta questa analisi, posso prendere tutti i tempi calcolati e applicarli ovunque all’interno
dell’azienda.
Prima di tutti questi punti ci deve però essere un punto 0: ne vale la pena o meno?
Fare l’MTM vuol dire sostenere dei costi di razionalizzazione, di ingegnerizzazione e metodologie di
lavorazione. Sostenere dei costi vuol dire che sto facendo un investimento e questo mi ritorna se quella
attività la faccio un numero di volte adeguato a giustificare il costo aggiuntivo.
Facciamo un salto nel tempo e arriviamo ad oggi. In base a ciò che si deve produrre la specializzazione
dell’operatore, così come il livello di organizzazione del posto di lavoro saranno diversi (es. in una catena di
montaggio di piccoli elettrodomestici il passo tra una stazione e l’altra sarà di pochi minuti, mentre nella
produzione di bus l’organizzazione è totalmente diversa). In base al livello di specializzazione dell’operatore
e di organizzazione del posto di lavoro, parleremo di MEK, UAS, MTM1-MTM2.
IL F.CA usano l’MTS UAS, che è complementato dall’analisi del carico biomeccanico (European Assembly
Work Sheet) che comprende 4 sezioni:
-postura
-azioni di forza
-movimentazione manuale carichi
-movimenti ad alta frequenza e basso carico degli arti superiori
Questo metodo è ora applicato in molte altre aziende nel mondo delle automobili, anche in aziende come
la Bosch.
Come faccio a calcolare il tempo standard? Faccio un’analisi del contenuto di lavoro usando l’MTM
trovando quello che in FCA viene chiamato tempo base, faccio poi un’analisi del carico biomeccanico
attraverso il metodo ERGO-MTM (da un minimo di 1% ad un massimo di 13,5%) che sommo al fattore
tecnico organizzativo (1%) per trovare la maggiorazione.
Caso coroc
FORDISMO
Ford si è sempre vantato di non volere specialisti in azienda. Ford è passato alla storia per l’introduzione
della catena di montaggio (in realtà non fu lui, fu un altro economista qualche anno prima). Lui ha
introdotto una serie di innovazioni disruptive:
- La prima è l’introduzione della catena di montaggio: tradurre in un impianto fisico le scelte di
specializzazione spinta e di definizione di tempi vincolati per quanto riguarda gli operatori (gli
venne l’idea dai mattatoi di Detroit).
- La seconda fu sul prodotto: in quegli anni per guidare le macchine bisognava essere meccanici, sia
per l’affidabilità del prodotto che per la sua complicatezza. Egli scommise sul fatto che garantendo
un prodotto affidabile, semplice (e quindi economico perché si abbatterebbero i costi di
produzione), anche gli operai potrebbero ambire ad avere un’auto.
Taylor nello stesso periodo stava lavorando per una catena automobilistica che vendeva auto di
lusso, ottenendo risultati di incremento della produttività del 60%, tuttavia, quando venne a
conoscenza dell’idea avuta da Ford, rimase spiazzato. Questa idea è una delle principali differenze
tra fordismo e Taylorismo.
Ci sono una serie di elementi legati al taylorismo: forte specializzazione del lavoro (che porta ad una forte
meccanizzazione), forte standardizzazione, sfruttamento intensivo di manodopera di basso livello, turn-
over elevato (perché la gente non resisteva tanto). Taylor e Ford hanno essenzialmente inventato la
produzione di massa.
L’organizzazione del lavoro quindi è basata su presupposti forti e ha permesso un grandissimo incremento
della produttività. Nel tempo però sono emersi i suoi limiti, primo in assoluto le condizioni biofisiche degli
operatori, il loro affaticamento. Le prime specializzazioni per superare le specializzazioni spinte furono fatte
già negli anni 40 (es IBM), dato che la guerra aveva estremizzato questo approccio. Con l’organizzazione
scientifica del lavoro è nata la psicotecnica, un lavoro non dev’essere visto come un insieme di movimenti
piccoli, ma come un insieme integrato.
Sono state alzate principalmente due critiche all’organizzazione scientifica del lavoro:
- eccessivi costi indiretti: se anche vengono abbattuti i costi diretti, aumentano quelli delle attività di
supporto
- rigidità: il sistema funziona solo se si rispettano i volumi ipotizzati.
SUPERAMENTO DELL’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO
La vera crisi dell’organizzazione scientifica del lavoro è stata negli anni 70 per un discorso di qualità e di
variabilità. Peraltro, in questi anni, c’è stata una rivolta sociale per l’impatto che questo approccio aveva sui
lavoratori.
Man mano che si procedeva verso gli anni 80 e 90, con l’introduzione del lean, si aveva la sensazione di
superamento dell’organizzazione scientifica del lavoro, quasi fosse solo legata ad un periodo storico.
Questo si basava su due aspetti:
-la crisi della produzione di massa e la predilezione della flessibilità, qualità ecc.
-l’introduzione dell’innovazione tecnologica che abbatte di per sé i costi diretti.
Occorre però parlare dell’organizzazione scientifica del lavoro perché ancora adesso viene utilizzata., a
volte applicata a contesti molto automatizzati o ancora alla Gig economy, che si basa su lavoretti
discontinui.
I primi contributi sulla psicologia industriale furono relativi all’analisi della fatica e vennero sostanzialmente
da due scuole:
-la scuola delle relazioni umane: autore di riferimento Elton Mayo, che si rese conto che l’assunto di Taylor
per cui il lavoro fosse un fenomeno individuale era un approccio molto limitato.
-organizational behaviour: quando un manager affronta problemi di organizzazione c’è un problema di
mentalità dal punto di vista ideologico che lo porterebbe a fare delle scelte piuttosto che altre.
ORGANIZATIONAL BEHAVIOUR
L’organizational behaviour è un modo di vedere il funzionamento dell’organizzazione che sottolinea il fatto
che per interpretarlo non basta prendere in considerazione solo le variabili tecniche, ma bisogna cercare di
capire cosa influenza il comportamento sociale.
Bisogna lavorare a 3 livelli:
-cosa influenza il lavoro dell’individuo
-cosa influenza il comportamento del gruppo
-cosa influenza l’intera organizzazione
Elton Mayo
6. La produttività è influenzata da una dimensione di comportamento delle persone, che risente del
clima che si crea all’interno del contesto di lavoro. La produttività è incentivata da una parte
dall’effetto Hawthorne (se il personale si sente preso in considerazione) e dall’altra dalla creazione
di gruppi primari (non oggetto della progettazione in cui si vengono a creare delle norme informali
che ne regolano il comportamento). Non siamo ancora alla teoria Y, ma stiamo dicendo che
pensare che le persone siano motivate soltanto dalla retribuzione siano limitativo.
TEORIE MOTIVAZIONALI
Egli sostiene che per capire ciò sia necessario introdurre il concetto di bisogno, dove il bisogno è la
differenza tra uno stato di fatto e uno stato ambito. Egli individua 5 classi di bisogni e oltre ad individuarli,
propone la teoria secondo cui i bisogni si sviluppino gradualmente. Man mano che soddisfo i bisogni di
primo livello, si manifestano quelli di secondo livello e così via. Questo spiegherebbe perché le persone non
sono mai soddisfatte. Le classi di bisogni sono elencate qui di seguito.
1. Bisogni fisiologici: bisogno di avere un posto di lavorare e una retribuzione per poter comprare
cibo.
2. Bisogno di sicurezza: avere una continuità nel tempo del rapporto di lavoro
3. Bisogni sociali: di avere delle relazioni, dei rapporti con i colleghi, di essere inserito in un contesto
sociale
4. Bisogni dell’ego: venire riconosciuto come una persona che dà un contributo e che ha un valore nel
posto di lavoro
5. Bisogni di realizzazione: vedere una prospettiva di crescita, di sviluppo personale all’interno del
posto di lavoro.
I primi 3 sono detti bisogni fondamentali e se questi non sono soddisfatti le persone hanno problemi.
Gli altri due sono detti bisogni superiori.
Herzberg si interroga su cosa dà alle persone la motivazione per migliorare il proprio livello di produttività.
Contesto:
Alla fine degli anni 60, studia nella zona di Pittsburg due famiglie che hanno dei livelli di istruzione e
economici abbastanza elevati: quella dei contabili e quella degli ingegneri. Fa delle interviste andando con
queste a verificare se gli elementi che creano scontento siano diversi o gli stessi per persone diverse. Chiese
di fare lo sforzo di ricordare una situazione in cui ci si è trovati particolarmente bene e una in cui ci si è
trovati particolarmente male. In base ai risultati si chiede innanzitutto cosa significa motivazione.
Herzberg afferma che quando un manager, molto orientato al risultato, si trova a collaborare con delle
persone che non si impegnano, ha voglia di dare un KITA (kick in the ass) a chi batte la fiacca. I KITA fisici si
usano poco, ma spesso vengono usati quelli psicologici. Un KITA negativo però non porta alla motivazione
ma unicamente all’azione. La motivazione è una risorsa che si produce reiteratamente e che porta gli
operatori ad impegnarsi.
Herzberg non crede nei KITA, perché sono degli elementi estrinseci, mentre la motivazione è un fattore
intrinseco.
In base all’analisi qualitativa e quantitativa emersa dalle interviste, si convinse che fosse utile usare due
classi di fattori:
- Igienici: legati alle retribuzioni, strumenti etc. che se non ci sono mi portano insoddisfazione,
mentre se ci sono non mi portano motivazione.
- Motivanti: sono quelli su cui misuro la soddisfazione, quelli che producono l’energia reiterata di cui
parlavamo prima. Consentono alla persona di trovare delle prospettive di crescita e di sviluppo
delle proprie competenze sul posto di lavoro. La produttività dipende da questi fattori motivanti.
Il team è quando ho un gruppo che ha delle caratteristiche particolari. Per avviare il gruppo c’è bisogno di
uno sponsor. Una delle dinamiche importanti molto studiate all’interno dei gruppi e dei team è la presenza
dei leader, che questa sia formale o meno (leader naturale). Sono persone che condividono la capacità di
influenzare i comportamenti all’interno del team.
Quando si parla di leadership si tengono in considerazione due livelli:
-formale: ha certe responsabilità
-autorevolezza: un leader è tale non solo perché ha un’investitura formale ma anche perché è riconosciuto
come tale dai componenti del gruppo.
LA PROPOSTA DI UN NUOVO PARADIGMA
LE TEORIE ORGANIZZATIVE DEI SOCIO-TECNICI
La teoria dei contesti socio-tecnici nasce negli anni 70. Si parla di una soluzione ottima per l’organizzazione
del lavoro (fattori contingenti). Dal punto di vista culturale siamo nel periodo in cui si sviluppa la teoria dei
sistemi. Sistema è un’entità fatta da parti che hanno una relazione tra di loro, che lavorano insieme in modo
allineato creano un effetto di insieme maggiore rispetto alla somma dei risultati altrimenti producibili dalle
singole parti. È un sistema il cui comportamento reattivo o proattivo dipende dagli interscambi che ha
all’interno del contesto in cui opera.
Ancora parlando del contesto si fa presente che esso era molto interdisciplinare. Vi erano persone che
lavoravano con i manager, persone che lavoravano in contesti di recupero sociale, dunque un mondo
interculturale molto forte. Questo veniva chiamato in causa dal mondo politico ogni qual volta ci fosse una
rogna.
Quando c’è una teoria di management così innovativa c’è un motivo.
Il problema era:
- Nel contesto economico siamo nel dopo guerra in cui salgono al governo i laburisti che
nazionalizzano le miniere di carbone tutto ciò accompagnato da una forte spinta gli investimenti.
L’innovazione tecnologica spinta era l’introduzione di una nuova macchina, che con l’uso di una
ruota dentata consentiva di tagliare la parete facilitando il lavoro nelle miniere. L’introduzione di
quella macchina che ha cambiato il modo di lavorare in miniera (da piccoli gruppi a squadre). Il
management pensa allora di introdurre il metodo di organizzazione scientifica del lavoro. Si
avevano alte aspettative, mentre i risultati furono deludenti.
- Nel contesto sociale i sintomi della scontentezza portavano ad assenteismo molto elevato, e
forte turn over (le persone trovavano altri lavori, quindi l’azienda era obbligata a sostituire delle
posizioni con persone che a riguardo non ne sapevano assolutamente niente, con conseguenti costi
alti).
- Nel contesto tecnologicoa seguito dell’invenzione del nastro trasportatore. Erano stati pensati
dei cicli di lavorazione di 24 h. il primo turno lavora con quella macchina descritta prima (6
operatori), il secondo lavora per far funzionare il nastro trasportatore, liberare la galleria centrale e
preparare l’esplosione delle cariche successive (specializzazione spinta, 18 operatori). Il terzo turno
è di servizio, si smonta il nastro trasportatore e si predispone il tutto per poter cominciare la
lavorazione.
-
Per Taylor tutto si riduceva alla definizione di un task.
La cosa in questo periodo si evolse verso un approccio socio-tecnico. Si teneva conto anche del gruppo, del
contesto in cui gli operatori lavoravano. Interessa la situazione sociale solo in funzione della profittabilità
che si sarebbe potuta ottenere sfruttando questa leva.
Se si vogliono ottimizzare le condizioni del sistema si deve fare una joint optimization, tenendo conto sia
della situazione tecnica (gli strumenti a disposizione) che quella sociale.
Organizational choice: non è la tecnologia che determina la dimensione sociologica.
Per mettere in pratica l’MTM, questi signori hanno applicato l’approccio socio-tecnico. Partendo da:
-focus sul primary business.
- individuano 5 passi per fare la progettazione organizzativa:
1. individuazione del work system e analisi del processo di lavoro
2. individuazione delle operazioni unitarie (fasi). Operazione unitaria significa che per arrivare ad avere il
carbone in superficie devo fare degli step intermedi.
3. analisi approfondita con rilevazione di compiti, variabili da controllare, informazioni, decisioni, ruoli
coinvolti, competenze necessarie.
4. analisi delle ‘varianze’. Individuare quindi tutte le diverse varianze e poi applicare la fase 3 alle varianze
per riuscire a raggiungere gli obiettivi finali
5. sono in grado di definire la configurazione del sistema sociotecnico che voglio mettere in atto.
Modalità di intervento:
- Devo coinvolgere le persone che effettivamente metteranno in atto quel lavoro
- Bisogna applicare un metodo di action resource. Se ho a che fare con sistemi da progettare o
riprogettare complessi, è molto probabile che c siano delle relazioni tra variabili che non riesco a
codificare e mi sfuggano. Quindi più è complesso il sistema da modellizzare, tanto più andrò a
sperimentare, mettendo in atto tutti gli step e riuscendo in questo modo a vedere praticamente i
risultati che si ottengono.
IL CONTRIBUTO DEGLI OPERATORI AL MIGLIORAMENTO
LE NUOVE TEORIE MANAGERIALI
Le nuove teorie manageriali nascono dal confronto dal mondo occidentale (Europa e Stati Uniti) e il
Giappone.
Sono nate quindi delle pratiche (ossia delle modalità operative) a volte copiando brutalmente ciò che
facevano i giapponesi e queste si distinguono in:
Uno dei grandi dibattiti che ci sono stati è stato: queste nuove pratiche rappresentano un superamento
dell’organizzazione scientifica del lavoro (e quindi si configurano come un nuovo modello) o solo un
miglioramento dei difetti dell’OSL? Il punto è che se ne vedo la base, è chiaro l’emergere di un modello
nuovo, quello che è stato chiamato modello dell’organizzazione flessibile o organizzazione lean.
L’organizzazione scientifica del lavoro si basava su una divisione tra chi opera e chi decide e il fatto che la
leva da usare per incrementare la produttività sia quella retributiva.
Quello che è emerso dalle nuove pratiche è invece che, oppure posso creare dei team operativi o
interfunzionali. Questo approccio è vicino a quello dei socio-tecnici.
Nelle nuove teorie manageriali invece sono emerse due logiche di fondo
1. Devo ridurre le esigenze di coordinazione e di coordinamento che fanno perdere tempo e che
riducono l’efficacia degli interventi correttivi dato che questi avvengono in ritardo e da persone
distanti dal problema stesso. Questo può essere fatto in due modi:
- ridefinendo le mansioni (job enlargement e job enrichment) e dando più responsabilità agli
operatori in modo che possano risolvere i problemi da soli
- realizzando dei team (sia operativi che interfunzionali)
2. In tutte queste nuove pratiche ho degli addetti che si sentono motivati e coinvolti nel raggiungere
gli obiettivi dell’azienda
OGGI
WORLD CLASS MANUFACTURING (WCM)
Premessa:
La FIAT è un’azienda che negli anni ‘80 ha cercato di far fronte a reazioni negative all’organizzazione
scientifica del lavoro, coltivando il mito della fabbrica automatica (in Giappone erano arrivati a realizzare le
fabbriche che lavoravano a luci spente). Pensare di arrivare ad automatizzare la produzione di una parte era
fattibile, mentre produrre integralmente una macchina in modo automatico sembrava impossibile. È per
questo che per la prima volta a Melfi si pensò di applicare il concetto di fabbrica integrata attraverso il
concetto di UTE (unità tecnica elementare). L’UTE è la creazione di un tavolo di lavoro attorno al quale
lavorano il responsabile (caporeparto) e più i rappresentanti delle funzioni di staff che possano contribuire
all’individuazione delle problematiche e il raggiungimento degli obiettivi produttivi (un team
interfunzionale).
Oggigiorno si parla di WCM e di lean evoluta, in cui si deve coinvolgere pienamente l’operaio nelle
operazioni di progettazione e per il continuo miglioramento dell’azienda affinché la possa sentire sua e sia il
primo interessato alla sua crescita. La lean originaria prevedeva il coinvolgimento degli operatori
limitatamente al raggiungimento degli obiettivi produttivi e al miglioramento del modo di operare messo in
essere. La lean evoluta si differenzia aggiungendo a ciò anche un maggiore coinvolgimento degli operatori
in decisioni riguardanti investimenti e modifiche dell’impianto stesso.
WCM è un’evoluzione del Toyota production system (TPS, il modello di produzione che Toyota ha messo in
piedi). Molto spesso in questi anni le aziende di grosso spessore si sono sforzate di creare delle regole in
linea con il lean che assecondassero il proprio business.
Tecnici
Manageriali: i manager devono avere chiari quali sono i loro impegni, devono pianificare i loro
obiettivi e devono affrontare tutte le tematiche relative al knowledge management.
Perché si parla di industria 4.0? il concetto è stato proposto dai produttori tedeschi (Siemens), dietro c’è
l’idea che l’avere una serie di tecnologie possa portare ad un salto di produttività dal punto di vista
operativo se queste vengono utilizzate secondo un mix opportuno. L’industria tedesca ha visto che dopo la
prima, seconda, terza (sviluppo e applicazione delle tecnologie informatiche) rivoluzione industriale, ce ne
dev’essere una quarta che è quella che si sta vivendo. Questa quarta rivoluzione è resa possibile da una
serie di tecnologie: internet of things (es. carrello della spesa che legge automaticamente cosa c’è dentro
senza svuotarlo e ti dice quanto devi pagare), manufacturing big data and analytics (posso elaborare una
mole enorme di dati con delle tecnologie che individuano anche le anomalie e le trasmettono al
controllore), cloud manufacturing (i miei dati vengono messi nel cloud così non devo gestire l’infrastruttura
di storage degli stessi), advanced automation (es i droni,), advanced human-machine interface, additive
manufacturing.
Che impatti ha l’industria 4,0? Permette di lavorare in modo sistemico sui processi interni. Maggiore
qualità, personalizzazione, rapidità di risposta. Aumento del contenuto di servizio del prodotto. Nuovi
modelli di business. Miglioramento della sicurezza sul lavoro e delle condizioni e della qualità del lavoro.
Miglioramento delle prestazioni ambientali.
Se sto introducendo in un’azienda delle innovazioni relative all’industria 4.0 che problemi mi devo
aspettare? La tecnologia deve tenere conto delle scelte strategiche, di organizzazione, delle persone
(cultura e valori). L’applicazione delle nuove tecnologie può seguire due modi diversi:
1. Modello di sostituzione: faccio fare alla tecnologia tutto quello che può fare lasciando fare
all’operatore solo quello che rimane fuori (che possono essere compiti o di altissimo livello a cui la
tecnologia non arriva ancora, o di bassissimo livello che potrei fare fare al robot ma c’è un costo
tale che non mi conviene, quindi metto lì un operatore che pago pochissimo)
2. Modello di potenziamento: uso un approccio socio-tecnico. So che devo ottimizzare l’integrazione e
la complementarietà tra automazione e personale perciò uso delle tecnologie che siano di sostegno
sia a livello individuale che di team. A livello individuale aiutano il singolo operatore ad avere un
lavoro meno faticoso e ripetitivo, mentre a livello di team garantiscono una maggiore gestione della
conoscenza, coordinamento orizzontale, gestione, manutenzione e miglioramento dei processi in
generale.
Un tema chiave all’interno dell’industria 4.0 è quello di intelligenza artificiale e cioè come uso le
potenzialità dell’intelligenza artificiale. Per quanto riguarda l’intelligenza all’interno di un’azienda, vi è un
continuum che va da intelligenza collettiva data dall’interazione di più persone (è il tema del knowledge
management) e intelligenza artificiale creata esclusivamente dall’interazione tra le tecnologie. Chiaramente
tra questi due estremi ci sono molti step intermedi e di questi fa parte l’intelligenza aumentata, in cui le
persone collaborano con le macchine per sfruttare al meglio le loro capacità e la loro conoscenza.
Per fare queste analisi di impatto si usa la tecnica degli scenari, l’impatto concreto è invece una questione
di scelta organizzativa. Il decidere il modello da applicare, se di sostituzione o di potenziamento è una
questione di scelta tecnica (organizational choice dei socio-tecnici). Il problema diventa allora di metodo, se
ho un approccio sequenziale di tipo tayloristico determinerò prima il progetto tecnico, poi quello
organizzativo e solo infine cercherò di porre rimedio a tutte quelle problematiche che il progetto tecnico ha
causato. Se invece uso un approccio integrato di tipo socio-tecnico faccio sì che all’interno della
progettazione ci sia coordinamento tra la dimensione tecnologica e quella organizzativa.
L’approccio integrato risulta nettamente più conveniente, e se uso questo approccio vengono fuori i due
principi dei socio-tecnici: joint design e partecipative design.
Per la progettazione congiunta progetto contestualmente tutte le variabili del primary work system
(strategia, organizzazione) a cui aggiungo la variabile tecnologia. Devo chiaramente adottare un approccio
multidisciplinare coinvolgendo i portatori di tutti i know-how strategici, tecnologici e organizzativi. Inoltre
devo mettere in atto un processo simultaneo (che lavora contemporaneamente su tutte e tre le variabili),
interattivo (che tiene conto in ogni passo di tutte le variabili) e iterativo (che rilascia periodicamente dei
passi che vado ad implementare).
Per la progettazione partecipata nel momento in cui sto gestendo il cambiamento chi gestisce questa
progettazione e sperimentazione coinvolgo non solo i responsabili aziendali, ma anche tutti i livelli operativi
fino all’operatore per chiedere un contributo di idee, per capire le problematiche da gestire e perché
questa cosa li motivi. Le opzioni che ci sono qui sono due, la scala del coinvolgimento può andare
dall’informare fino a coinvolgerle chiedendo loro di essere creative e di apprendere. Coinvolgendo
direttamente le persone posso adottare dei livelli di partecipazione organizzativa.
TESTIMONIANZA: LA NUOVA FABBRICA FCA DI POMIGLIANO E IL WCM
Il WCM è figlio del Toyota production system. Non si parla di un progetto, ma un programma, quindi non ha
un inizio e una fine, ma soltanto un inizio (è un miglioramento continuo). Ogni miglioramento comporta un
cambiamento.
I due temi fondamentali saranno: cos’è il world class manufacturing e la sua applicazione a Pomigliano.
1- Si parte da esperienze concrete, niente di nuovo, ma un learn by doing che si sviluppa in modo
creativo e utilizzando persone che all’interno dell’academy non hanno un’importanza
fondamentale: le lezioni vengono fatte dagli operai, non solo i manager
2- Si usano tecnologie innovative
Il WCM rispetto al Toyota production system ha delle differenze (10 pilastri, 7 step, forte coinvolgimento
degli operatori, sperimentazione e creazione dell’apprendimento, cost deployment che consente di passare
dagli sprechi ai costi, e un sistema di controllo molto rigido con classifiche a livello mondiale.
-Zero waste
-Zero defects
-Zero breakdowns
-Zero inventory
Per Toyota la qualità si realizza al primo colpo, sennò non è qualità, quindi la catena di montaggio si ferma
molto spesso.
Il sistema di manutenzione è un concetto molto più elaborato rispetto al passato, non più una
manutenzione mirata al guasto ma per la prevenzione dello stesso.
La logistica è strutturata con il just-in-time: fare arrivare il pezzo giusto, nel momento giusto, nel posto
giusto. Per fare ciò è necessario coinvolgere in modo adeguato tutta la catena dei suppliers.
nel sistema di audit ad ogni pilastro viene dato un punteggio da 0 a 5 ed essendo i pilastri totali 20, il
massimo è 100. Le persone all’interno dei singoli plant vedono solo i pilastri tecnici, quelli manageriali
vengono visti solo dai manager ma a livello tecnico hanno lo stesso valore dei pilastri plant.
La modalità di applicazione dei WCM è graduale e viene effettuata mediante 7 step. I primi step sono
relativi alla reazione nei confronti del problema, poi sono relativi alla prevenzione e gli ultimi sono proattivi.
Si parte dalle model area, cioè da delle unità che serviranno da modello per poi influenzare tutto il plant.
L’area da cui si parte è quella più critica, più difficile.
Alcuni dei tool usati per il miglioramento sono il diagramma a 4 m, i 5 perché ecc. sono circa 250: nel tempo
si sono sviluppati dei tool specifici per ogni esperienza poi brevettati perché molto efficaci per risolvere
alcuni tipi di situazioni.
MACRO
MESSA A FUOCO DEL TEMA E PRIME SOLUZIONI
Come realizzare la mission e la strategia?
Le aziende di grandi dimensioni sono le prime che si sono scontrate con il problema di come gestire
un’azienda e in particolare le prime grandi aziende che si vennero a creare furono quelle ferroviare, che
cercavano di capire come evitare incidenti tra treni che provenienti da direzioni opposte. Le soluzioni
applicate da queste aziende furono due:
Organization chart (1855, D. McCallum gestiva le ferrovie che collegavano New York con il lago
Erie). L’azienda gestita dal signor McCallum era cresciuta nel corso del tempo e in particolare il
problema che si riscontrò fu come evitare problemi di comunicazione tra i vari attori aziendali.
Questo organigramma floreale rappresenta un modo per aiutare a fare arrivare informazioni
critiche alla persona giusta e a delegare in modo opportuno.
Organizzazione staff and line (1857, J.E. Thompson capo della Pennsylvania Railroad) distingue chi
gestisce il traffico ferroviario e dà quindi gli ordini (line) da tutte le altre funzioni di staff che
possono dare indicazioni alle funzioni di line ma non possono dare ordini.
LA SCUOLA CLASSICA e i PRINCIPI DI DIREZIONE
Henry Fayol
Henry Fayol (1841-1925) fu un ingegnere minerario che entrò giovanissimo in azienda e fece carriera
arrivando a diventare manager. Dovette gestire numerose attività di ristrutturazione della struttura
aziendale e cominciò a riscuotere sempre più successo. Dopo quarant’anni di esperienza uscì dall’azienda
nella quale lavorava e mise la sua esperienza a disposizione del pubblico.
Nel 1916 (quando c’era la grande guerra), all'età di 70 anni, Henri Fayol pubblicò la sua opera più
importante, ancora oggi considerata un caposaldo dello studio del management: Administration
Industrielle et Générale. Proprio in questo volume Fayol identifica la funzione direzionale e la analizza con
occhio acuto.
Questa sua opera non venne presa in considerazione perché tutti erano troppo occupati a produrre. Negli
anni 30 poi Luther Gulick e Lyndall F. Urick (il primo americano e l’altro inglese) si resero conto di questo
libretto e lo tradussero dandogli il rilievo che meritava.
1. Perché funzioni l’azienda non basta produrre e vendere, bisogna anche gestirla ci vuole una
funzione di direzione.
2. Per gestire l’azienda ci vuole una teoria (la conoscenza dei direttori di funzione può essere
formalizzata).
3. Si può imparare a dirigere bene.
Grecunas fece due conti, valutando il numero di relazioni dirette, incrociate e dirette di
gruppo di ogni attore e sostenne che il numero di riporti ottimali non dovesse superare i 4/5
(a seconda del tipo di contributo che danno gli operatori).
- Linee e staff: di cui abbiamo già parlato per quanto riguarda Thompson
Weber
Terzo pilastro dei principi tradizionali viene da Max Weber (1864-1920). Era un pensatore tedesco, che
pose le basi per la sociologia dell’organizzazione. Dice che per capire bene il funzionamento
dell’organizzazione dobbiamo dare importanza agli attori che ne fanno parte. Il suo studio tocca tre
argomenti fondamentali:
- L’agire sociale
- Le forme di potere
- La teoria della burocrazia
L’agire sociale
Dice che l’agire sociale bisogna cercare di studiarlo in modo scientifico, dando un’interpretazione scientifica
delle regole che causano determinati comportamenti.
Nella cultura occidentale delle aziende c’era una tendenza a formalizzare la razionalità. Weber si rese conto
che questa tendenza sarebbe potuta sfuggire di mano, uscire dalle aziende e andarsi ad infiltrare in tutti i
campi della realtà (ad esempio la politica). Ciò che sottolinea è che sistemi formalmente razionali possono
portare a conseguenze irrazionali (ricordiamo che la prima applicazione dell’organizzazione scientifica del
lavoro sono stati i campi di concentramento)
Le forme di potere
Dà una visione operazionale del potere. Cos’è il potere? È la capacità di una persona di influenzare il
comportamento di altre persone che da lei dipendono. C’è potere solo se c’è il riconoscimento della
persona che esercita il potere. Ciò che viene chiamato potere può essere chiamato anche autorità.
Weber contrappone al potere la coercizione, ossia l’imposizione in cui la volontà del subordinato viene
forzata.
- Potere carismatico: una persona con delle doti particolari che portano altre persone che lavorano
con lui a riconoscere questo merito eccezionale e a seguirlo. Si distingue dagli altri perché è su base
personale e tutto si gioca tra leader carismatico e adepti del leader carismatico, senza dare
importanza alla messa in opera degli strumenti di gestione.
- Potere legale: significa che l’organizzazione ci ha dato delle regole che valgono per chiunque
all’interno dell’organizzazione (compreso chi le fa). Il manager occupa una certa posizione perché
chi ha l’autorità l’ha incaricato, avendo le competenze e gli strumenti per assumere quel ruolo. È un
potere che si basa su regole, su un sistema gerarchico e strumenti di gestione adeguati. La
burocrazia è il sistema di gestione appropriato per il potere legale.
- Potere tradizionale: anche questo è un potere impersonale, si basa sul fatto che l’esercizio di
potere è in prosecuzione con delle prassi che si sono instaurate nel tempo (es. tutte le volte che ho
delle dinastie manageriali basate su legami di parentela). Il manager potrebbe non avere le
competenze e gli strumenti che aveva il fondatore.
Weber presenta la teoria della burocrazia come lo sforzo di tradurre in maniera pratica il potere legale. Il
contesto è quello tedesco, dove le regole erano molto stringenti e rispettate. Si chiede quali siano le
caratteristiche che deve avere un’organizzazione burocratica per funzionare bene:
1. principio di competenza: competenza va intesa come attività di cui è responsabile una certa unità
organizzativa. Devo definire bene chi si occupa di cosa
2. gerarchia degli uffici: all’interno di una struttura burocratica devo prevedere dei livelli gerarchici,
raggruppando gli ambiti operativi. La struttura gerarchica deve essere adeguata (abbastanza livelli)
alla complessità che deve gestire. Corrisponde al principio scalare delle teorie di direzione.
3. Sistema di regole generali: questo dev’essere esplicitato, messo per iscritto in modo che tutti quelli
che operano all’interno della struttura vi facciano riferimento
4. Impersonalità nella gestione: devo creare le condizioni per cui chi si interfaccia all’organizzazione
abbia delle prestazioni sempre uguali. Non fa distinzioni né tra i clienti, né tra il personale. Un
corollario dell’impersonalità è il fatto che venga rispettato quello che in gergo si chiama il “segreto
di ufficio”, ci deve essere riservatezza.
5. Una professione a tempo pieno: il burocrate deve essere un professionista che si dedica a tempo
pieno alla sua attività. Nel passato invece era qualcuno che esercitava questo ruolo su mandato del
responsabile e non essendo pagato trovava il modo per ricompensarsi per vie traverse.
Caso general Mills
Il caso descrive il momento dell’avvio in cui è grossa la pressione per aprire molti ristoranti, lamentele per
qualità del cibo, disaffezione dei clienti e conseguente calo del fatturato. Si è cercato di capire il problema:
erano state definite regole e standard per la qualità, ma non si era in grado di farle rispettare. Inoltre alcune
lamentele sulla qualità non erano state riportate alla conoscenza dei responsabili (non funziona la gerarchia
degli uffici).
Il primo strumento che si usa è quello di rinforzare il sistema di regole, lavorando sulla gerarchia degli uffici
(faccio la formazione al restaurant manager, e ne introduco altri per potenziare). Del principio di
competenza non se ne parla.
Elemento negativo della burocrazia: ha connaturato una tendenza a degenerare.
Inversione mezzi-fini: la regola diventa più importante del risultato.
Il circolo vizioso: quando la struttura si trova ad affrontare situazioni particolari, il burocrate
richiede la creazione di altre regole e quindi il sistema si irrigidisce sempre di più.
Le tre scuole classiche hanno 3 elementi in comune:
1. Ricercare una risposta razionale
2. La formulazione di principi e di un modello organizzativo di validità generale
3. L’organizzazione è vista come un sistema meccanico
La prima reazione alle scuole classiche sono state le teorie contingenti.
LE TEORIE CONTINGENTI E LE TEORIE DECISIONALI
Le teorie classiche postulavano l’esistenza di un modello e di principi di organizzazione di validità
universale. A partire dagli anni ’50 le esperienze ed una serie di studi hanno portato a mettere in
discussione questa pretesa. Sono state identificate le variabili che richiedono una diversa modulazione delle
soluzioni organizzative:
• Ambiente
• Tecnologia
• Strategia
• Dimensione
Queste teorie sono già state presentate nel corso di Gestione Aziendale.
Jay Galbraith
Jay Galbraith (1939-2014) è una persona che ha lasciato il segno nelle teorie organizzative. Lo usano in tanti
anche se poco riconosciuto dal punto di vista teorico. Ha lavorato sulla riprogettazione delle strutture
organizzative. Egli comincia ad elaborare le sue teorie tra fine anni 50 inizi anni 60. Nascono le teorie
contingenti perché comincia ad andare in crisi la produzione di massa e a diventare più importante la
qualità, la differenziazione ecc. inoltre in quegli anni cominciarono ad arrivare dei computer aziendali,
quindi le tecnologie divennero a disposizione di tutti. Galbraith affronta il tema del processo decisionale
pensando “come dev’essere strutturata l’organizzazione per fare delle decisioni in modo corretto?”. Al
centro delle attività di un manager c’è il fatto di prendere delle decisioni appropriate, ma quali sono le
informazioni necessarie (quelle di cui avrei bisogno per prendere le decisioni)? Le informazioni di cui
dispongo dipendono dall’organizzazione che mi sono dato e quelle che necessito dipendono dal contesto
(competitivo) e dal task. Galbraith dice che c’è sempre un gap tra decisioni di cui ho bisogno e quelle di cui
dispongo. Per prendere le decisioni adeguate devo gestire bene questo gap. Cosa rende ad un manager
possibile riempire questo gap? L’arricchimento delle informazioni dipende dalla capacità elaborativa e
questa a sua volta è condizionata dalla soluzione organizzativa che metto in atto.
Galbraith ha modellizzato le problematiche di gestione di un manager con un livello alto di astrazione.
1. In primo luogo egli dice che devo capire da cosa dipende l’informazione necessaria. Per rispondere
a questa domanda ha elaborato due viste.
I N = f (i, n, c)
2. La seconda variabile su cui ha lavorato e quello che influenza la capacità elaborativa e quali sono le
soluzioni che sono in grado di mettere in atto per gestirla.
Un primo modo per gestire la capacità operativa è la gerarchia, il riportare al livello gerarchico
superiore un problema che si riscontra. Ogni volta che uso come strumento per aumentare la
capacità elaborativa la gerarchia spendo tempo e la qualità della decisione dipende dalla distanza
tra dove si riscontra il problema e il livello a cui dev’essere riportato. La gerarchia inoltre rischia di
essere un collo di bottiglia, perché quando si riportando le informazioni ad un livello gerarchico
quello viene sovraccaricato. Per ridurre questo si può ridurre l’ampiezza di controllo, inoltre posso
preordinare delle decisioni secondo delle tabelle di decisione in modo da delegare la decisione a chi
affronta il problema stesso. Un altro strumento è quello di aumentare l’autonomia decisionale
controllando i livelli di performance dei gruppi a cui concedo questa autonomia.
A questo punto lui dice che per migliorare la capacità elaborativa posso agire in due modi:
- ridurre la capacità elaborativa necessaria e quindi l’incertezza. Posso usare 3 linee di intervento
1) posso influenzare l’ambiente esterno per ridurre la mia complessità
2) aumentare le risorse di slack per ridurre i miei tempi di risposta (mi sto caricando di
costi): potenzio le competenze, aumento le scorte, modulizzo il mio prodotto
3) creare unità organizzative autosufficienti
- aumentare la capacità elaborativa presente:
1) potenziamento dei sistemi informativi verticali (perché quelli che esistevano allora
gestivano i flussi informativi tra persone che servivano la stessa funzione). Il project
management che poi verrà utilizzato, non è propriamente uno strumento di potenziamento
verticale ma orizzontale, tuttavia è coerente con lo schema di Galbraith.
2) meccanismi di collegamento laterale, in modo da complementare il canale gerarchico.
Questi collegamenti laterali vengono classificati da Galbraith in una scala, dal meno oneroso
al più oneroso:
1. contatto diretto
2. ruolo di collegamento: gestisce l’interfaccia tra due funzioni per facilitare la gestione del
flusso
3. task force
4. team: gruppo interfunzionale che dura per un periodo lungo (task force permanente) e
che si ritrova periodicamente per fare il punto sulla comunicazione tra le varie funzioni
5. ruoli di integrazione: se ho dei ruoli complessi ho magari bisogno di una persona che
dedichi tutto il proprio tempo solo alla gestione di questi
6. matrice organizzativa: la persona nella matrice è quella che interloquisce con più
posizioni organizzative diverse. Consiste nell’istituzionalizzare il fatto che ci siano delle
persone che nel prendere le loro decisioni devono gestire una pluralità di rapporti sociali.
Devo tener conto che qualunque scelta organizzativa faccia potenzia alcune variabili e ne depotenzia altre.
Devo quindi capire se dare più importanza alla funzione o al prodotto per scegliere la struttura
organizzativa più adeguata. Già nella progettazione della struttura organizzativa è necessario mettere a
punto i sistemi di integrazione che sostengano quelle variabili che lo schema organizzativo scelto andrà a
depotenziare (es. se ho creato una struttura divisionale, questa non facilita il trasferimento di know-how tra
la divisione A e quella B, quindi devo creare delle task force funzionali o dei manager integratori funzionali
che correggano e controbilancino la decisione presa). L’organizzazione funzionale premia l’efficienza
operativa, quella divisionale premia l’apprendimento.
Caso BDC
Domanda 2: non posso pensare di levare le personalizzazioni, posso aumentare le competenze così come
l’organico, modularizzare il prodotto cosicché tutti i software abbiano una base comune e standardizzare la
qualità. Dal punto di vista gerarchico è più utile creare delle divisioni per ogni prodotto in modo da
aumentare la capacità elaborativa.
LA CULTURA AZIENDALE (Edgar Schein & Geert Hofstede)
Il tema dell’attenzione alla cultura è nato dagli antropologi culturali. L’antropologia ha una storia più che
centenaria. Finita la seconda guerra mondiale gli americani si sono chiesti cosa avesse reso possibile la forza
dei giapponesi. Furono mandati degli antropologi per mettere a fuoco la cultura giapponese (libro ‘il
crisantemo e la spada’). Il primo ragionamento è allora capire le differenze nazionali. Il secondo
ragionamento è quello che considera se valutare solo la tecnologia o anche la cultura in un contesto in cui si
deve gestire un’innovazione.
Ma innanzitutto, cos’è la cultura? È il fatto che all’interno dell’azienda si creino un repertorio di
comportamenti, atteggiamenti e valori condivisi dalle persone che vi operano. La cultura è figlia del
passato. Più mi trovo a gestire una situazione di cambiamento rilevante, più la cultura mi è di intralcio e
non di aiuto. O meglio più ho a che fare con problemi culturali più ho bisogno di tempo.
Per un manager all’interno di un’azienda da che punto di vista è importante la cultura? Per indirizzare il
comportamento delle persone, da una parte ci sono degli strumenti estrinseci come le strutture
organizzative, i ruoli di collegamento ecc. dall’altra parte c’è un sistema intrinseco alle persone stesse,
perché la cultura è un elemento importante di integrazione e migliora il coordinamento. Porta le persone
che fanno parte di una stessa struttura a vedere le cose e reagire in modo omogeneo. Spesso si possono
creare delle culture locali, interne alle divisioni o funzioni create all’interno azienda.
Un elemento importante, come abbiamo visto, è la cultura come strumento di gestione. Il potere
carismatico si basa sulla creazione di una forte base di valori. La cultura aziendale può inibire il
cambiamento (elemento di fragilità), se il cambiamento stesso non è perfettamente in linea con i valori
precedenti dell’azienda (un caso che esemplifica questo concetto è quello del salvataggio di IBM raccontato
nel libro “chi l’ha detto che gli elefanti non possano ballare”).
Vediamo i due modelli di interpretazione della cultura:
1) Quello di Edgar Schein, uno psico-sociologo, che fece 3 cose:
1. Diede una definizione formale di cultura negli anni ’70, definizione molto orientata al manager.
“la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha
inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento
esterno e di integrazione interna e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere
considerati validi e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di
percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi.”
2) Contributo di Hofstede, si è chiesto se i bravi manager tengono conto delle caratteristiche locali.
Il primo ragionamento che fa è su cosa sia la cultura, dando una definizione diversa rispetto a quella
di Schein. “la programmazione collettiva della mente che distingue i membri di un gruppo o di una
categoria di persone da un altro”. La cultura è un sistema operativo su cui si basano gli operativi dei
gruppi di persone.
Il terzo ragionamento è dove si forma la cultura. Bisogna ragionare due livelli: il luogo in cui si
cresce e il livello di cultura. Il luogo in cui si cresce comprende la famiglia, la scuola, il luogo di
lavoro. Il livello di cultura ha come primo il livello nazionale, poi quello dell’occupazione e infine
quello dell’organizzazione. Secondo la sua interpretazione i valori si correlano maggiormente con il
livello di cultura, mentre le pratiche con il luogo di socializzazione.
1. divisione del lavoro iperspecializzazione catena del herzberg dice che se voglio che le
all’arricchimanto.
sociotecnici
2.unità di comando Taylor non aveva questo Galbraith parla del ruolo
Rapporto che c’è tra la persona e principio (8 capi) poi superato integratore che non da ordini ma
comando.
3.unità di direzione È il principio più applicato e Caso monsanto, hanno
Per ogni unità organizzativa devo meno discusso sperimentato di mettere a capo
un piano d’azione.
4.Principio scalare Fayol accennava la possibilità Viene messo in discussione la
logica della catena mezzi fini. cioè se non c’è qualcosa di rispondere a più problemi. Nella
livello di supporto.
Galbraith propone l’uso dei
collegamenti laterali.
manageriali manifestano la
livelli gerarchici.
5.Ampiezza di controllo Sociotecnici, Galbraith e nuove
teorie manageriali
6.linee e staff Taylor dopo essersi corretto Nel momento in cui delego, sto
struttura.
TENDENZE ATTUALI
Si parla sempre più spesso di lean. Le aziende hanno bisogno di essere snelle per essere veloci e adattarsi
meglio a tutte le situazioni. Servono organizzazioni:
- Agili: che rispondano velocemente
- Ambidestre: che rispondano anche sul fronte innovazione
- Holacracy: che funzionino senza una struttura gerarchica
- Reti di imprese
- Tendenze a burocratizzare: questo apre lo spazio ad una serie di problemi, già visti parlando di burocrazia
Agility
Che caratteristiche deve avere un’impresa agile? Negli anni 90 si è cominciato a parlare di approcci agili.
Qui parleremo di cosa significa avere un’organizzazione agile, mentre ben diverso è parlare di
organizzazione agile di un progetto. Apparentemente un’impresa agile sembrerebbe quella che ha una
bassa strutturazione e che porta ad una riorganizzazione veloce nel momento in cui ci sia un cambiamento.
Degli studi hanno però detto che non è effettivamente così, per essere agile un’organizzazione deve avere
due caratteristiche:
- Stabilità: è presente un sostrato, perché se non c’è una strutturazione abbastanza solida
tutto il resto non si può costruire
- Dinamicità: deve essere in grado di mettere in atto una serie di soluzioni (creazioni di team,
sperimentazioni ecc.) che le permettano di muoversi in un contesto dinamico.
Se si incrocia la dimensione stabilità con la dimensione dinamicità si può creare una matrice per classificare
le aziende.
Alta stabilità- alta dinamicità aziende agili
Bassa stabilità- alta dinamicità aziende start-up è il caso delle aziende che si stanno
costruendo ex novo e che quindi devono ancora sviluppare una certa esperienza
Alta stabilità- bassa dinamicità aziende burocratiche
Bassa stabilità- bassa dinamicità aziende intrappolate
C’è però una considerazione che conviene fare: bisogna sempre parlare di agilità? Dei ricercatori
dell’università della California hanno fatto delle ricerche per capire i costi legati all’agilità, capendo che per
essere agile l’azienda deve sostenere dei costi alti. Conviene renderla agile solo se necessario e solo se
dispone di una strategia adeguata.
Ambidexterity
Non è necessario solo saper gestire il business ma anche innovarlo (exploitation style e exploration style).
Che problemi hanno le organizzazioni che vogliono diventare ambidestre? Troviamo due assi di intervento:
- alcune aziende prendono in considerazione delle scelte di carattere strutturale. Ci sono più
modi di realizzare questa soluzione: functional design, cross-functional teams, unsupported
teams, ambidexstrous organizations.
- altre organizzazioni utilizzano invece delle soluzioni contestuali, lavorare per creare le
condizioni per cui il personale all’interno dell’azienda possa effettuare ricerche e
innovazioni. Azienda che ha lavorato su questa dimensione è 3M: negli ambiti in cui punta
ad avere situazioni ambidestre fa sì che ogni addetto abbia il 15% del tempo, retribuito, in
cui ha la possibilità di pensare a soluzioni nuove per far crescere e innovare l’azienda. Una
maniera per vedere i risultati dell’approccio di 3M è il fatto che partendo da un’azienda di
produzione di colle, sono arrivati a produrre un prodotto innovativo come i post-it.
Holacracy
Organizzazioni che si basano su team autoregolati, in cui è presente una leadership distribuita. Il manager
intermedio ha più il compito di fare coaching che fare addestramento, mette a disposizione le sue
competenze per il lavoro del team (come nel passare dalla teoria X alla teoria Y). Le aziende più note che
hanno sviluppato questo approccio sono Ternary Software, Buurtzorg, FAVI, Zappos, Morning Star.
Il signor Robertson, che veniva dal mondo informatico, ha trasferito le logiche agili nella progettazione, alla
strutturazione aziendale.
Nell’holacracy non c’è gerarchia, tutto in team si siede ad un tavolo e lavora attraverso un approccio pier to
pier. Tutti si riuniscono e si coordinano tra di loro. L’equivalente dell’unità organizzativa nell’holacracy è il
circle, che viene gestito come un team. All’interno non ci sono definizioni di mansioni e di ruoli. L’holon
parte dal risultato che deve fornire, dopodiché le persone si candidano a ricoprire delle posizioni a cui sono
associate le attività che portano al risultato. I circle vengono gestiti attraverso meeting molto ben
strutturati. La costituzione dell’holacracy è un fascicolo di 36 pagine che descrive tutto ciò che riguarda
questo tipo di organizzazione. Dietro c’è l’idea che se voglio creare un’organizzazione di questo tipo, ho
delle persone che si mettono d’accordo per applicare delle regole.
Reti di imprese
Ci sono diversi tipi di reti. Il primo riferimento alle reti naturali sono stati i distretti italiani, in cui imprese di
piccole dimensioni riuscivano a mettersi in competizione con grandi multinazionali. Alla base dello sviluppo
di reti di impresa c’è l’idea che non tutti possono essere bravi in tutto, quindi ci si può concentrare sul
proprio core business, appoggiandosi ad attività svolte brillantemente da altre aziende.
Alcune reti sono invece governate da clienti importanti che spingono ad esempio i propri fornitori a
collaborare e a creare una rete.
Esistono anche reti orizzontali in cui aziende di piccole dimensioni si mettono insieme per essere un sistema
integrato di fornitura per grandi clienti. Dietro il contratto di rete ci sono degli aspetti di tipo giuridico
Tendenze a burocratizzare
La burocrazia ha un decorso spontaneo che è la tendenza ad esagerare con le norme, che diventano poi
preponderanti nella gestione del business. Il primo elemento da prendere in considerazione è quindi il
proliferarsi di queste norme.
La prima grossa distinzione tra le norme è quella che li divide tra cogenti e volontarie.
Cogenti: gli enti di organizzazione definiscono delle norme a cui tutti devono attenersi (es. normativa sulla
privacy)
Volontarie: come tutte le norme ISO per la gestione della qualità
Le organizzazioni in questo momento si trovano ad operare in contesti, cogenti o formali, sempre più
articolati.
Una volta che ho imposto una norma il primo problema che si pone è quello di compliance: devo applicare
la normativa in modo corretto cogliendone gli aspetti positivi. Molto spesso c’è anche un’unità
organizzativa dedicata alla compliance per controllare che le altre unità organizzative si siano date delle
regole e che le applichino.
Il rischio di burocratizzazione fa emergere il problema di rispetto delle norme (compliance) e
raggiungimento degli obiettivi di business. È emerso allora il concetto di compliance integrata: se esce una
nuova norma, cerco di aiutare le unità organizzative esistenti ad adattare le vecchie norme a quella nuova
(non applico quindi la compliance creando norme su norme, per adattarmi a quella nuova appena
promulgata, ma aggiusto quelle precedentemente create).
MESO- GESTIONE PER PROCESSI
PROCESSI AZIENDALI E TEORIE ORGANIZZATIVE
Livello intermedio che fa riferimento ai processi. Fa riferimento ad una visione trasversale
all’organizzazione.
- una che ha a che fare con il business process: una serie di attività correlate tra di loro, che assorbono
risorse e che portano alla creazione di un output.
Excursus:
la divisione del lavoro è un concetto che si è affermato a partire dal Settecento. Analizzando
l’organizzazione del lavoro nella fabbrica degli spilli, Adam Smith (1776) forniva una prima descrizione di un
processo aziendale e poneva l’attenzione sull’importanza della divisione del lavoro per incrementare la
produttività degli operatori. Nei primi anni del Novecento, con l’avvento del pensiero tayloristico e
l’affermarsi dei principi dello scientific management, veniva posta crescente enfasi sull’importanza
dell’analisi delle sequenze di attività e di operazioni necessarie per realizzare un determinato prodotto. I
principi di miglioramento dei processi, in termini di produttività, promulgati da questa teoria erano la
semplificazione, lo studio scientifico dei tempi e dei metodi di lavoro, la sperimentazione di nuove modalità
di processo e l’enfasi sul controllo e sulla remunerazione delle performance. L’introduzione nel 1913 della
prima catena di montaggio nell’industria di produzione delle automobili da parte di Henry Ford non è che
un esempio di innovazione di un processo aziendale, che utilizza la leva tecnologica in stretta sintonia con i
cambiamenti nell’organizzazione, al fine di ottimizzare le performance dell’azienda.
In questi primi studi la chiave dell’ottimizzazione delle performance consisteva nel principio di divisione del
lavoro tra gli individui, supportato da uno studio attento e “scientifico” del processo produttivo. Questo
tema ha fatto emergere in tempi successivi il problema dell’integrazione delle attività svolte da persone o
da unità organizzative diverse, a seguito dell’esistenza di interdipendenze tra le attività, spesso non facili da
gestire.
Thompson (1967) ha evidenziato tre principali tipologie di interdipendenze presenti nelle strutture
organizzative: le interdipendenze generiche, date dalla condivisione di obiettivi e risorse tra unità
organizzative, le interdipendenze sequenziali, quando l’output di un’unità organizzativa è input di un’altra,
e le interdipendenze reciproche, quando unità organizzative si scambiano reciprocamente input e output.
La complessità dei meccanismi di integrazione messi in atto per gestire queste tre tipologie di
interdipendenze è senza dubbio diversa e crescente dalla prima all’ultima tipologia: la standardizzazione, il
coordinamento per programmi e il mutuo adattamento.
Queste tematiche anticipano, pur senza parlare esplicitamente di processi aziendali, alcuni degli aspetti
centrali della gestione per processi. Un altro filone importante nelle teorie organizzative, che anticipa il
tema dei processi e tratta una delle loro caratteristiche principali, è quello della teoria della burocrazia. In
particolare, già nella teorizzazione di Weber una delle caratteristiche fondamentali dell’apparato
burocratico è il sistema di regole, norme e prescrizione che governano le azioni e le decisioni degli individui
nell’assolvere al loro compito e che garantiscono uniformità, stabilità e continuità nelle attività dell’azienda.
Questo concetto, che evolve successivamente nella standardizzazione dei processi e nella definizione delle
procedure organizzative, è uno degli aspetti ricorrenti nella gestione dei processi aziendali.
Un ulteriore importante contributo delle teorie organizzative al tema dei processi aziendali è la teoria dei
sistemi sociotecnici. La prospettiva sistemica proposta da questa teoria ben si sposa con la nozione di
processo aziendale, in cui l’interazione tra i fattori sociali e quelli tecnici costituisce l’elemento
fondamentale per il loro corretto funzionamento. Tra i diversi temi sviluppati nell’ambito di queste teorie,
tre sono particolarmente importanti per gli sviluppi successivi: il concetto di work system, che fa
riferimento all’insieme dei compiti e delle risorse necessarie per la realizzazione del processo; il concetto di
autonomous group, che propone di responsabilizzare i membri del team sul raggiungimento dei risultati
complessivi e sulle soluzioni da mettere in campo per raggiungerli; infine, tra i criteri proposti per la
progettazione dei compiti, l’indicazione di prevedere compiti autoconsistenti, caratterizzati cioè da un
risultato definito e aventi perciò un senso compiuto (task meaningfulness), sviluppando negli operatori le
molteplici competenze necessarie per essere autonomi e motivati nella realizzazione dei compiti affidati.
L’evoluzione delle teorie collegate alla gestione e al miglioramento dei processi aziendali, a partire dagli
anni Ottanta, può essere distinta in tre filoni:
- Operation
È il filone più antico. Ne fanno parte Taylor e Ford. Vengono implementate le logiche per processo.
Negli anni 80 del 900 soprattutto in Giappone cominciano a prendere piede nuovi principi, Total
Quality Management.
Questo ha poi portato a dei filoni negli anni 90 relativi alle certificazioni, che certificano che il
processo che porta alla produzione di un prodotto sia di qualità.
- Strategico
Catena del valore di Porter che scompone i processi in primari (quelli a valore aggiunto) e quelli
secondari (di supporto e che servono ad attuare i processi primari). Nasce un approccio sistemico in
cui i processi solo se coordinati vanno a creare valore per l’azienda. Secondo queste logiche ci si è
posti il problema del fatto che le inefficienze nascevano nel passaggio tra diverse unità
organizzative, quindi spesso si è cercato di intervenire in tale contesto.
Agli inizi degli anni 90 nasce anche un altro approccio, il business process reengineering.
- Informazione
Nasce nel periodo in cui si ha una maggiore disponibilità di tecnologie: digitalizzazione dei processi
(workflow management), Irp ecc. nascono anche linguaggi come il bpmn per permettere la
digitalizzazione dei processi.
Il processo viene sì definito in corso d’opera, ma viene anche mantenuto nel tempo. I miglioramenti
possono essere sia radicali a livello globale, sia incrementali a livello locale.
I passi che possiamo seguire nella trattazione dei processi:
- Culturali
- Organizzativi
- Gestionali
La logica di fondo è una visione che sia il più possibile sistemica per vedere all’interno dell’azienda quali
sono i processi che consentono di avere un maggiore valore aggiunto.
Quali sono i passi da tenere in considerazione? Se vogliamo operare una logica sistemica, dobbiamo sapere
come sono fatti i processi. Dobbiamo poi imparare a misurare questi processi e capire qual è il loro
contributo alla generazione di valore: come ciascun processo contribuisce sulle prestazioni complessive.
Non bisogna ragionare secondo le logiche della singola unità organizzativa, ma secondo logiche di processo,
perché in ognuno di essi potrebbero essere coinvolte più unità organizzative.
Servono strumenti come la catena del valore o diversi framework di mappatura dei processi.
Il livello di dettaglio che vogliamo dipende dal tipo di analisi che stiamo facendo, dalla complessità del
processo, dalla complessità del prodotto.
Es. Volkswagen nella sua complessità ha individuato una catena del valore per ciascun settore. Capiamo
quindi che il livello di dettaglio sia molto basso.
Dobbiamo anche capire che alcuni processi tra quelli schematizzati da Porter, non siano strettamente sotto
il controllo dell’azienda. Si pensi a Nike che esternalizza tutta la produzione o ancora DELL che ha
esternalizzato la produzione e l’assistenza.
Qual è complessivamente il risultato che ci aspettiamo dall’applicazione di questa logica? Che tutti gli attori
si rendano conto del processo e si rendano conto che il loro contributo ha un impatto sul processo, ma
soprattutto su chi interviene dopo di loro.
La logica cliente-fornitore ne sta alla base. Per attuarla devo fare un deployment degli obiettivi. Devo
prendere un prodotto che mi crea valore agli occhi del cliente e lo scompongo a ritroso attribuendo degli
obiettivi specifici a ciascuna unità organizzativa che mi consentano, sommati, di raggiungere l’output
desiderato. L’unità a valle diventa il mio cliente anche se non è il cliente vero e proprio.
Devo trattare chi sta a monte rispetto a me come fosse un fornitore, definendo le caratteristiche che voglio,
e trattare chi sta a valle come cliente, richiedendo le caratteristiche da soddisfare.
Gli obiettivi sono una maggiore rapidità di risposta (soprattutto nelle logiche in cui ho una maggiore
standardizzazione) ed una maggiore efficacia visto che si è in grado di rispondere alle esigenze del
cliente.
L’obiettivo ultimo è introdurre un responsabile del processo che ne garantisca il fluire senza alcun intoppo.
Egli si deve anche coordinare con gli altri processi o unità organizzative che si relazionano con il proprio
processo. Un obiettivo è sicuramente quello di migliorare il processo, sia secondo una logica incrementale
che secondo una logica globale, magari proponendo una reingegnerizzazione del processo.
- È un ruolo nuovo che ha delle responsabilità trasversali nel processo, che attraversano più unità
organizzative (ciascuna con un proprio responsabile). Viene quindi meno il principio di unicità del
comando.
- Spesso non ha a disposizione alcuni strumenti, magari assegnati alle singole unità organizzative.
Deve però avere degli strumenti che gli consentano di avere un’incentivazione del personale.
Possiamo avere due tipologie di Process Owner, che possono anche coesistere:
- Gestore di commessa: colui che si occupa della gestione dell’ordine del cliente e governa le fasi di
produzione ed assemblaggio fino ad arrivare al prodotto finito richiesto dal cliente. Deve avere
capacità di relazione ed interfaccia con il cliente, ma anche con le funzioni operative all’interno
dell’azienda: è il punto di snodo tra il cliente e l’azienda. Deve avere quindi anche capacità negoziali
e di pianificazione.
- Case manager: responsabile delle fasi finali come la consegna o l’assistenza. Dato che si occupa
delle fasi post-vendita, deve avere delle capacità di gestione delle criticità, una forte capacità di
attenzione ed orientamento al problem solving. Per aumentare la velocità di risposta, deve avere la
possibilità di accedere alle informazioni interne all’azienda.
Il responsabile unico del procedimento (RUP) è un Process Owner responsabile di un unico
processo organizzativo che si trova nella pubblica amministrazione.
Ha degli indicatori diversi dal Process Owner operativo, perché deve intervenire nelle logiche di
miglioramento di tutto il processo. Ha una visione più di alto livello e non ha bisogno di competenze
specifiche sul processo trattato. Per una questione di autorità questo ruolo spesso viene assunto da
persone di alto livello.
Nel corso del tempo il Process Owner può cambiare. Quando il processo è nuovo, acerbo, magari viene
affidato ad una persona di alto livello. Una volta che il processo diventa più maturo e consolidato e non c’è
molto spazio per ottimizzazioni radicali, ma solo puntuali, può essere affidato a personale di più basso
livello.
Un altro elemento fondamentale è il ridisegno delle mansioni e dei ruoli. È fondamentale per garantire
l’integrazione del processo. Le leve sono:
I benefici sono il fatto che bisogna mappare i processi sennò non capiamo come sono fatti e non abbiamo le
basi per sapere se ci sono dei margini di miglioramento. La codifica e la mappatura del processo diventa
uno strumento attraverso cui spiego com’è fatto il processo e quindi favorisce la cultura per processo per
fare capire a ciascuno qual è il proprio ruolo.
I principi sono tra di loro indipendenti ma è più efficace usare un approccio sistemico e quindi coordinarli
tra di loro.
Il senso di questo principio è implementare dei metodi di misurazione delle performance per capire se il
processo è efficiente. Ci permette inoltre di guidare chi lavora all’interno del processo verso gli obiettivi.
Permette invece di sganciarsi dalle performance funzionali, è quindi segmentato rispetto alla trasversalità
del processo.
C’è un tema che emerge con forza nella gestione per processi, ovvero il fatto che potrebbero esserci delle
performance in trade-off tra di loro (le stesse efficienza ed efficacia potrebbero esserlo) per cui è necessario
trovare dei compromessi. Un esempio di performance in trade-off potrebbe essere tra obiettivi di lungo e di
breve o ancora tra rischio e risultati. Migliorando il processo posso riuscire a migliorare due performance in
trade-off tra di loro.
Le leve a disposizione sono la riprogettazione del workflow del processo individuando in primo luogo le
attività a valore aggiunto, eliminando eccessivi controlli (agendo contemporaneamente su efficienza-costi
ed efficacia-tempi), rendendo il processo il più lineare possibile evitando ricicli, parallelizzando attività che
non sono sequenziali
Una terza leva è quella di bilanciare le logiche pull e le logiche push (quando faccio partire il processo a
prescindere dal fatto che qualcuno mi chieda quell’output). Produco con la logica pull quando ho delle
commissioni molto customizzate, al lato opposto abbiamo invece settori industriali in cui si produce a
magazzino (pensiamo a tutto il modo dei beni di largo consumo).
PROJECT MANAGEMENT
È nato in contesti impegnativi, di spessore e ci si è poi resi conto che serviva nei contesti quotidiani. Un
ingegnere gestionale non deve solo sapere cosa sono e come funzionano i progetti, ma deve sapere
utilizzare Microsoft Project, un software di gestione dei progetti che ormai è diventato uno standard
tecnico.
Capire come impostare un progetto: quali sono le problematiche da impostare e come gestirle.
Introduzione ai progetti
“Il progetto è un tipo particolare di processo in cui risorse umane, materiali e finanziarie sono
organizzate in modo nuovo per realizzare un output unico all’interno di vincoli definiti di tempo e
costo”
4° elemento: la collaborazione è ancora più stretta. Posso avere progetti con diversi gradi di
complessità. Il progetto richiede la collaborazione di persone che hanno competenze molto diverse
e spesso nei progetti c’è bisogno di competenze di cui non ho mai avuto bisogno prima e che quindi
non ho.
5° elemento: la riduzione dell’incertezza sta nel fatto che quando parto con un progetto, la
soluzione che devo mettere in piedi non ce l’ho ancora chiara. Gli elementi saranno specificati
strada facendo.
6° elemento: quando lavoro su un progetto i criteri di definizione con il cliente e con la direzione,
sono definiti di volta in volta e per ogni progetto specifico. Ogni progetto ha quindi i propri obiettivi
di tempi, costi, risorse ecc.
Mi trovo a che fare con un progetto quando tutti i parametri hanno un loro tipo di definizione,
mentre mi trovo a che fare con un processo ripetitivo quando i parametri hanno dei valori standard
e consolidati. Tra questi due estremi si trovano infiniti punti intermedi in cui per alcune cose posso
riprendere delle soluzioni già trovate, e per altri devo disegnare delle modalità e degli strumenti
nuovi.
Se il mio business è formato da processi ripetitivi, ho un vantaggio solo se ho gestito bene quelli
precedenti e quindi sono in grado di reperire i dati in maniera facile e veloce. Altrimenti tanto vale
avere dei progetti tutti nuovi in cui tutto è da inventare.
Non esiste una classificazione standard dei progetti, dipende dal business. In generale li possiamo
classificare in:
Certe volte ho dei progetti così ambiziosi che mi conviene articolarli in un insieme di progetti che
vanno sotto un unico programma. In questo modo ogni progetto porta a casa dei risultati
autosufficienti, ma sono comunque una parte di un programma più grande.
Un altro tema è il fatto che un’azienda ha in testa tanti progetti con caratteristiche diverse e relative
a clienti diversi. I problemi di portfolio si creano a diversi livelli:
1°. Quali sono i progetti che preferisco e reputo più importanti per metterli prima degli altri? Devo
quindi vedere se i miei progetti sono adeguati alle mie capacità e alla mia strategia di business.
- Specificità
Quali sono i problemi con cui mi confronto quando gestisco un progetto?
Il concetto chiave è quello di interdipendenza. Esistono 3 classi di interdipendenze:
- Tra fasi successive
- Tra le parti dell’output
- Con altri progetti attuali e futuri
Il progetto è sempre incerto perché non tutte le interdipendenze sono conosciute e non tutti i
vincoli sono esplicitati. Questa incertezza comporta 3 conseguenze:
- degrado della qualità dell’output: se chi lavora a valle non riesce a far fronte a tutte le
problematiche emerse, questo si ripercuote sulla qualità dell’output e di conseguenza sulla
soddisfazione del cliente.
- Principi di gestione
Che strumenti mi posso dare per gestire il progetto? Vedremo due principi chiave. [immagine]
Nell’area 2 è difficile prendere in considerazione l’ipotesi di fare delle modifiche, perché ormai
costa troppo. Nell’area 1 l’incertezza è tale che non ha senso cominciare a muovermi. Questi
sono i 2 punti ciechi della gestione di un progetto. Il problema davanti a cui ci si trova è: come
fare in modo che la finestra delle opportunità (area compresa tra l’area 1 e l’area 2) sia più
ampia possibile? Posso agire in due modi:
La domanda che ci facciamo è: una volta arrivati allo step finale, il nostro prodotto avrà
ancora valore?
o Quanto è probabile che cambi il mercato durante il tempo che impiego per passare dal
concept alla realizzazione del mio prodotto/servizio. Perché più il mercato è variabile
più il prodotto risulterà disallineato rispetto al mercato.
o Che probabilità c’è che le caratteristiche che ho messo nel mio prodotto siano ancora
valide quando il mio prodotto uscirà? Dipende da quanto cambiano velocemente le
tecnologie rilevanti.
Ci sono delle situazioni in cui sto lavorando su cose che non esistono ancora, parliamo in
questo contesto di approccio flessibile. È uno dei casi in cui l’innovazione è nata non dai
teorici, ma da manager che si sono trovati di fronte a situazioni nuove, dove l’approccio
stage-gate non era più applicabile. Questo approccio è nato con la nascita dei primi
browsers. Netscape Navigator 3.0 ha gestito in 7 mesi l’uscita di un nuovo browser. Il
mercato non aveva bisogno di un nuovo browser, l’innovazione tecnologica era molto
spinta, la competizione tra i produttori di browsers era molto alta perché il primo ad uscire
sarebbe diventato lo standard del mercato. La primissima fase fu di definizione del concept,
partita con la definizione molto grossolana degli obiettivi, e conclusa al più tardi, quasi a
ridosso dell’uscita. Contemporaneamente alla fase di concept si è sviluppata la fase di
feature design, in cui sono stati definiti tutti dettagli dell’interfaccia. In questa fase vengono
prodotti moltissimi prototipi: ogni volta che si crea una parte del progetto, lo si integra con
le parti già esistenti e lo si testa. Il fatto di avere tutti questi prototipi (beta), che
permettevano di avere dei feedback da parte dei clienti, serviva non solo a rendere più
affidabile il prodotto, ma anche ad arricchire la definizione delle caratteristiche del
prodotto stesso. L’approccio flessibile è un approccio in cui si parallelizzano il più possibile
le fasi, cosa che permette di ridurre il livello di incertezza, facendo con cognizione di causa
le scelte adeguate. Parallelizzo molto le attività di sviluppo e quando esco con i prototipi,
raccolgo di volta in volta informazioni. È un approccio che va bene in un contesto in cui il
mercato va sondato (faccio un’innovazione technology driven) e in cui la tecnologia sta
cambiando tantissimo e rapidamente, quindi non posso portarla per le lunghe. Devo
mettere in piedi un’organizzazione flessibile che mi permetta di capire ciò che sto
progettando al più tardi e che mi permetta di realizzarlo in poco tempo.
1° ragionamento: di solito per mettere in opera un approccio flessibile bisogna ideare una
buona architettura dell’output del nostro progetto (che esso sia un prodotto o un servizio).
Questa architettura deve avere due caratteristiche:
o modularità: l’output sarà l’integrazione di parti (moduli), ciascuna delle quali ha una
funzione ben definita. Permette di gestire il processo di sviluppo in parallelo, ma ha dei
costi un po’ maggiori;
o scalabilità: ideo un prodotto che nel tempo può dare delle prestazioni maggiori o con
l’aggiunta di elementi o con la rimodulazione di certi aspetti.
2° ragionamento: posso gestire in un modo molto particolare il mio processo. Proprio per il
fatto che lavoro su moduli, una volta definiti i parametri di interfaccia tra il modulo su cui
sto lavorando e gli altri che a questo devono essere collegati, poi posso fare quello che
voglio sul mio modulo, è questo è il motivo per cui posso parallelizzarne la produzione.
Quando si parla di questa parallelizzazione a volte si parla di over-lapping e altre di
cuncurrent engeneering. Il cuncurrent engeneering vuol dire che per riuscire a contenere il
tempo di sviluppo di un certo prodotto/servizio, utilizzo un’architettura del
prodotto/servizio modulare e gestisco lo sviluppo in parallelo dei diversi moduli. Lo
sviluppo in parallelo consente da una parte di avere autonomia nello sviluppo del singolo
modulo e dall’altra di affinare nel tempo l’integrazione tra i diversi moduli. Vuol dire anche
il rilascio parziale dei beta. Il cuncurrency engeneering richiede un metodo, una
strutturazione, una capacità di gestire un processo, controllare un processo, governare un
processo più complesso, utilizzando quelle informazioni di ritorno di cui parlavamo prima.
o devo avere delle persone che hanno delle competenze sovrabbondanti (si parla di over-
skill).
o Devo avere risorse tecnologiche sovradimensionate (infatti spesso capita che quando si
fa un progetto si pensa di avere a che fare un determinato numero di informazioni e
dati che poi crescono esponenzialmente durante la sua implementazione)
Tutto ciò porta a dire che un approccio flessibile ha dei costi elevati. Tuttavia, se il mio
contesto è molto incerto, mi conviene usare un approccio basato sulla flessibilità, perché
seppur con costi elevati mi consente di rispondere in modo adeguato a delle esigenze
molto variabili. Se sono invece in un contesto a bassa incertezza conviene usare un
approccio basato sull’anticipazione. La decisione sull’approccio da utilizzare dev’essere
effettuata quando si inizia il progetto.
L’organizzazione di progetto
- Forma organizzativa
Quali sono a livello macro le configurazioni organizzative che si possono utilizzare per gestire un
progetto? Si possono usare 3 schemi base:
1. Organizzazione funzionale: ho tanti progetti ripetitivi (con caratteristiche simili) in cui i vari
soggetti hanno già affrontati i vari problemi di integrazione e ciascun attore ha dei compiti
ben definiti. Il mio progetto è gestito direttamente dalle funzioni.
o Punti di forza: efficienza nell’uso di risorse, potenziamento dello sviluppo specialistico
funzionale, soluzione organizzative vicina alla prassi normale;
o Punti di debolezza: le diverse funzioni fanno fatica a coordinarsi tra di loro per
raggiungere gli stessi obiettivi di progetto. Può capitare che il responsabile di una
funzione incontri un problema per cui debba prendere delle decisioni velocemente non
confrontandosi con i responsabili delle altre funzioni. Questi (che contano sul fatto che
venga rispettato da tutti il programma stabilito) verranno messi a conoscenza del
problema durante le riunioni di avanzamento (se c’è tempo di effettuarle). Quello che
viene penalizzato in questo contesto è il tempo di avanzamento del progetto.
2. Task force: vista quando abbiamo parlato di Galbraith. Se ho un progetto molto importante
e critico, a cui l’azienda tiene molto, creo un’organizzazione a posta per gestire quel
progetto, che inizierà a lavorare quando inizierà il progetto e verrà smantellata alla sua
conclusione. È però molto onerosa, possiamo perciò trovare una soluzione intermedia tra
quella funzionale e la task force.
o Punti di forza: le persone che lavorano sul progetto lavorano tutte nella task force
(quindi una persona molto specializzata viene a contatto con altre persone molto
specializzate integrando le sue competenze e conoscenze), viene fatta co-location (le
persone vengono fisicamente messe nello stesso posto, quindi se c’è un problema lo
vengono a sapere tutti immediatamente) ne risulta una facilità di coordinamento e un
orientamento al risultato;
o Punti di debolezza: è una soluzione potentissima ma costosa (infatti essendo utilizzata
per progetti molto importanti richiedo gli operatori più bravi e una volta che li prendo
per il progetto non li posso reimpiegare se per caso non mi dovessero servire proprio
tutto il tempo). La task force crea una serie di problemi perché le persone escono dalle
funzioni ed entrano nelle task force, quindi i responsabili funzionali devono
riorganizzare il lavoro sia quando il personale esce dalle funzioni, sia quando rientrano
alla fine del progetto. Spesso le persone che ritornano dalla task force alle unità
funzionali soffrono perché nelle task force erano molto più flessibili. La carriera si fa
nelle funzioni e non nella task force, quindi la valutazione del personale e della sua
progressione dev’essere fatta congiuntamente dal responsabile dalla funzione e il
project manager. Questi sono i motivi per cui le task force vengono fatte quando sono
strettamente necessarie e se ho le risorse per farlo.
3. Organizzazione a matrice: per quel progetto lì metto un project manager che per le attività
di progetto ha potere decisionale. Dico alle persone che lavorano all’interno del progetto
che per tutto quello che concerne il progetto stesso, devono fare riferimento al project
manager, per tutto il resto al loro responsabile funzionale. Questa organizzazione funziona
solo se c’è un comportamento maturo da parte della persona che è in matrice e ha due capi
(spesso degrada in una matrice forte o in una matrice debole).
o Punti di forza:efficienza nell’utilizzo di risorse, presidio degli obiettivi di progetto;
o Punti di debolezza: chi lavora all’interno ha a che fare con più capi (succede talvolta che
il personale sia impiegato in più progetti contemporaneamente e la cosa si complichi
ulteriormente) ne derivano la violazione del principio di unicità del comando, continui
conflitti e necessità di negoziazione uniti con un’elevata complessità organizzativa.
Spesso la matrice non funziona e dev’essere smontata, cosa che può avvenire in due modi:
- matrice debole: la persona riceve ordini dal suo responsabile funzionale, però incarico un
project manager di fare il Process owner del progetto per aiutare i responsabili funzionali a
gestire la dimensione tempo (programmazione e gestione degli inciampi in corso d’opera)
La tipologia di organizzazione dipende dalla rilevanza del progetto, dalla sua criticità e dalla
sua novità. Se tutti questi fattori sono bassi si preferirà un’organizzazione più debole di tipo
funzionale, altrimenti si preferiranno soluzioni più forti come la task force.
- Ruoli
Per quanto riguarda la dimensione micro intanto ci rendiamo conto della presenza di diverse
tipologie di attori.
o Il committente:ne esistono di due diverse tipologie:
Committente mercato: corrisponde al significato che la parola ‘committente’ ha
nella lingua italiana e cioè colui che chiede un certo prodotto/servizio e paga.
Committente aziendale: quello con cui discuto le condizioni da realizzare, i
margini, gli obiettivi specifici.
Ciascuno dei due committenti ha i propri obiettivi strategici e i propri criteri per approvare
gli output e prendere decisioni sulle risorse da allocare al progetto.
Riguardo al Project manager ci si chiede quale sia più importante tra autorità
formale e autorità di merito (autorevolezza).
Autorità formale dipende dal livello organizzativo occupato, dai poteri a lui delegati
dalla direzione, dal livello gerarchico della committenza a cui si riferisce, dal suo
coinvolgimento diretto nel sistema di valutazione delle risorse.
Autorità di merito dipende dalle sue competenze tecniche (per cui c’è un effetto
soglia- non può lavorare su un progetto di cui non conosce niente), dalle sue
competenze gestionali, dal suo stile di leadership.
In realtà queste, nel Project manager devono essere bilanciate. Un Project manager
peso leggero sicuramente ha bisogno di un minor livello di autorità formale, ma per
svolgere la funzione di sollecitatore deve avere un’alta autorevolezza. Al contrario
un manager peso massimo ha bisogno di un’autorità formale maggiore e magari
un’autorità di merito minore.
Il risultato di queste scelte di struttura normalmente si traduce nella formulazione di quello che nel
gergo del project manager viene chiamata la OBS (Organizational Breakdown Structure). Certe volte
l’OBS prende proprio le forme di un organigramma. Più metto in piedi una matrice forte, o in
qualche caso anche la matrice bilanciata, e quindi ho a che fare con progetti importanti, impegnativi
e con tante risorse coinvolte, più è probabile che senta la necessità di formare la OBS facendo un
organigramma di progetto. A volte è il cliente stesso a voler conoscere l’organigramma di progetto
che ho adottato.
Caso Bughelli
Ci permette di capire meglio tutta la discussione sull’organizzazione appena fatta. Nel caso in questione
sono presi in considerazione due diversi progetti che l’azienda vorrebbe portare avanti: da una parte la
realizzazione di un computer desktop e dall’altra la realizzazione di un sistema informativo integrato per
tutta l’azienda. Il primo progetto prende come input componenti già utilizzate per la realizzazione di
prodotti in precedenza, il second progetto sarebbe invece molto oneroso e totalmente innovativo per
l’azienda.
A questo punto possiamo dire che il primo progetto, essendo in linea con quanto già fatto dall’azienda in
precedenza potrebbe essere gestito con un’organizzazione funzionale che non prevede la presenza di un
project manager. Il secondo, essendo molto innovativo, con costi elevati e necessità di tempistiche celeri,
potrebbe essere impostato con un’organizzazione a matrice forte, con la presenza di un project manager
peso massimo.
Si può notare che lungo tutto il progetto c’è un intreccio tra le fasi di planning, executing e
controlling perché essendo in un contesto incerto è normale che in fase di executing si trovino
delle cose non previste, me ne accorgo nella fase di controlling e questo comporta la
necessità/opportunità di adeguare la fase di planning. La fase di executing e controlling finisce
quando ho l’output del progetto. In ogni fase si possono individuare dei punti intermedi, questi
nella fase di executing e controlling sono legati alla realizzazione di output intermedi.
Nella fase di closing il momento fondamentale per considerare il progetto concluso è la presa in
carico da parte del cliente dell’output del progetto sia che sia quello che voleva, sia che non sia
quello che voleva ma gli vada bene ugualmente.
Un altro punto importante è il tipo di sovrapposizione che è necessario ci sia tra fase initiating e
fase planning. Questo si può analizzare nel caso Logos e nel caso Preston.
Sovrapposizione: il caso logos è il caso di un’azienda del settore energia che lavora su licenza di
ABB, lavora su mercati in cui la competizione è sul prezzo. La fase di initiating comprende la
decisione da parte di Logos di partecipare (o non partecipare) a una gara indetta da un
potenziale cliente e di realizzare un’offerta vincolante. Ciò significa che in fase iniziale bisogna
essere certi dell’affidabilità dei costi e dei tempi per portare a casa progetti interessanti dal
punto di vista del business. In questo caso è necessario fase contemporaneamente la fase di
initiating e quella del planning altrimenti rischio di sottostimare i costi e portare avanti una
cattiva negoziazione dei prezzi. Questo modello di parallelizzazione di fase planning e initiating
è stata portate avanti in questo momento di pandemia anche dalle aziende licenzianti e non
solo da quelle licenziatarie, perché più i margini sono bassi per un effetto di competizione e
globalizzazione, più diventa importante fare in fase di avvio delle scelte oculate.
Non sovrapposizione: il caso Preston è il caso di un’azienda che offre servizi multimediali. In
questo caso la fase di initiating e planning sono messe in sequenza perché la fase di planning
verrà mesa in atto solo se poi verrà veramente deciso di realizzare il progetto. Normalmente
succede quando la dimensione economica di un progetto ha scarso valore e hanno più
importanza aspetti quali i tempi di decisione o la qualità della decisione.
In generale la relazione tra le diverse fasi dipende dalle caratteristiche del progetto.
- Approccio agile
È l’approccio che ha come schema base di riferimento l’approccio flessibile. Ho come
riferimento uno sviluppo progressivo del progetto (rilascio dei beta). È appropriato nel caso in
cui mi trovi in un contesto di forte innovazione, con un’incertezza alta. È nato nel mondo IT, con
progetti di piccole dimensioni. Man mano si sta estendendo anche a progetti molto complessi.
Nel nostro corso faremo riferimento all’approccio classico perché non abbiamo tempo di fare
entrambi gli approcci e ci si è resi conto che studiando l’approccio classico prima, poi sono in
grado di fare l’approccio agile (in ogni caso l’approccio classico è quello utilizzato nella maggior
parte dei casi).
Noi non parliamo di agility dal punto di vista organizzativo (azienda che risponde in tempi rapidi
in caso di cambiamento di contesto), ma dal punto di vista della gestione di progetto.
Da dove nasce l’approccio agile? Il manifesto di questo approccio è uscito nel 2001, firmata da
una ventina di persone molto in vista nel mondo dell’IT, in cui veniva criticata l’applicazione
dell’approccio classico nel mondo IT.
Questi signori dichiarano 4 valori, ciascuno dei quali contrappone individui, software,
collaborazione con il cliente (che secondo loro erano da prediligere) e processi,
documentazione, definizione contrattuale (che secondo loro erano delle esagerazioni).
1. Più che dare importanza ai processi da gestire e agli strumenti (su cui insistono gli approcci
classici), bisogna dare importanza al fatto che servano nel progetto persone vivaci in grado
di gestire le proprie relazioni. Creo dei team di poche persone (normalmente tra le 6 e le
10) e per facilitare l’integrazione faccio la collocation.
2. Nel mondo dei software è importante avere una buona documentazione di progetto.
Questi signori sostengono che la bontà e il grado di dettaglio della documentazione non sia
indice della funzionalità del software, e che quindi bisogna dare più importanza alla
documentazione e più all’effettivo funzionamento del software.
3. Nel mondo dei progetti IT spesso accade che il cliente e il fornitore non definiscano con
precisione le prestazioni garantite e quindi il cliente finisca per aspettarsi qualcosa che il
fornitore non è in grado di dargli e per cui spesso non è neanche retribuito. Ciò ha portato a
dare importanza alla definizione del contratto. Questi signori dicono che nel mondo dei
progetti legati all’informatica, dove spesso il cliente sta facendo delle cose mai viste prima,
se il cliente sta entrando in un’area nuova bisogna capire che nel corso del progetto capirà
di più e chiederà di più. Bisogna allora capire il cliente e farmi carico delle sue richieste di
cambiamento anziché attenersi in modo così rigido al contratto.
4. Nell’approccio tradizionale si da molta importanza alla fase di pianificazione. Questi signori
dicono che anche se qualcosa non è stato definito nella fase iniziale, bisogna riuscire ad
assecondare il cliente in qualsiasi modo, perché avere un cliente soddisfatto è più
importante che attenersi al piano.
Per concretizzare questi valori sono state pensate diverse pratiche. Le pratiche sono
metodologie concrete di realizzazione e la metodologia più diffusa è quella SCRUM (che prende
come riferimento il concetto di mischia a livello sportivo, la metafora sta allora a significare che
gestire un progetto dignifica gestire questa mischia, ossia questa collaborazione con il cliente
all’interno del team).
L’approccio agile all’inizio è stato un po’ snobbato dalle associazioni professionali. L’ultima
revisione 2017 del PMBOC e del PMI ha previsto una practice agile che formalizza con delle
certificazioni di questo tipo.
Vediamo ora quali sono i passi per seguire un approccio agile applicando una metodologia
SCRUM:
-product owner: persona che rappresenta il committente, sa cosa vuole e poi utilizzerà il
prodotto finito. È incaricato dal cliente di parlare con il team di progetto per assicurarsi che il
risultato sia quello voluto.
-scrum master: non è un project manager, è quello che nel mondo agile svolge il ruolo di
coordinamento del team. È un facilitatore che aiuta il team interfacciandosi con il
rappresentante del cliente per definire il backlog iniziale e quello dello sprint e poi si fa carico di
vedere se il team lavora bene.
Daily scrum: per favorire l’integrazione del team bisogna fare giornalmente una riunione di
brevissima durata in cui ciascuno dice cosa ha fatto il giorno prima, che problemi ha incontrato
(su cui poi lo SCRUM master andrà a lavorare con il team) e cosa ha in mente di fare quel
giorno lì.
Parte 2
Legata agli strumenti, che entrano in gioco in due momenti chiave: nella pianificazione e nella fase di
controllo dei progetti.
Planning
Controlling