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Luciana Peverelli e il cinematografo: la visione del sogno

Laura Bocchiddi

Un esordio annunciato: il caso di Violette nei capelli


Sin dal 1939 Luciana Peverelli manifesta – inizialmente pare con non troppa convinzione
– il desiderio di intrecciare la sua attività di scrittrice e giornalista con quella di
sceneggiatrice per lo spettacolo. Sulle pagine di «Cinema Illustrazione», rivista di cui è
direttrice, all’interno della rubrica di corrispondenza Luciana al microfono, il 10 maggio
1939 risponde così ad una “coraggiosa” lettrice: «perché non scrivo soggetti
cinematografici? Perché so già che né al pubblico né ai registi piacerebbero. Figurati che ho
in animo di sceneggiare Le roman de Tristan et Iseut di Berlier. “Berlier?” dirai tu. E chi era
costui? I produttori, poi agiterebbero una mano a ventaglio davanti alla fronte» 1. Nonostante
le sue perplessità iniziali, già a partire da quell’anno, molti suoi romanzi sono sotto l’occhio
attento dei produttori cinematografici: uno tra i tanti Il bacio di Guya, scritto nel 1938, che
la stessa autrice immagina interpretato dalla bellissima Doris Duranti:

Penso che in questo momento il romanzo che più mi è caro è «Il bacio di Guya». Le
ragioni sono di ordine… cinematografico, piuttosto che romantiche 2.

Non è «L’Amore del sabato inglese» che si dovrebbe mettere in scena, per ora. Quindi
non preoccuparti per Maner. In quanto a Guya la vedo con le labbra tentatrici di Doris
Duranti3.

Se Guya si farà, la protagonista sarà Doris Duranti4.

Se Guya andrà al cinematografo, vedrai che molte delle tue lagrime saranno asciugate5.

Come si evince dalle risposte date alle lettrici del settimanale, la possibilità di una
trasposizione cinematografica de Il bacio di Guya, svanisce nel luglio 1939:

Pensi davvero che quel film sarà un successo? Io intanto comincio ad accendere la famosa
candelina. Grazie dei consigli che mi dai, li passerò pari pari al produttore. In quanto al
soggetto cinematografico di «Ragazze in libertà» temo che sia un po’ troppo audace, per lo
schermo. Da Roma sono già andata e tornata6.
Da questo momento in poi, però, non vi è più alcun accenno al film nella rubrica. Il film,
1
Cfr. LUCIANA PEVERELLI, Luciana al microfono, in «Cinema Illustrazione», 19, 10 maggio 1939, p. 2.
2
LUCIANA PEVERELLI, Luciana al microfono, in «Cinema Illustrazione», 25, 21 giugno 1939, p. 2.
3
LUCIANA PEVERELLI, Luciana al microfono, in «Cinema Illustrazione», 26, 28 giugno 1939, p. 2.
4
Ibidem.
5
LUCIANA PEVERELLI, Luciana al microfono, in «Cinema Illustrazione», 28, 12 luglio 1939, p. 2.
6
Cfr. LUCIANA PEVERELLI, Luciana al microfono, in «Cinema Illustrazione», 29, 19 luglio 1939, p. 2.

1
infatti, non si fece; tanti furono i soggetti venduti – più di uno mai realizzato – che
permisero a Luciana Peverelli di guadagnare molto e di fare continuamente la spola tra
Milano e Roma. Il lavoro era entusiasmante, e lei diventò presto molto abile nel vendere un
soggetto alla settimana e scrivere una sceneggiatura al mese, molte per Belisario Randone 7.
Si aprì così per la scrittrice un nuovo mondo di opportunità che le assicurò diverse valide
amicizie nell’ambito del cinematografo:

Valentina Cortese, ad esempio: bionda, eterea, sperduta, venuta dalla natia Stresa
accompagnata dalla nonna; era una ragazzina espansiva, patetica, sempre pronta a
scoppiare in lacrime, così sensibile che alcuni l’accusavano di posare. Alida Valli:
volitiva, coraggiosa, un po’ dura, davanti alla quale si sentiva sempre in soggezione.
Con loro e con Thea Prand, sottile e dolce, che doveva poi diventare la moglie di
Eduardo De Filippo, con Carla del Poggio, irruenta, generosa e leale, avevano formato
un quintetto inseparabile. Erano tutte molto più giovani di lei ma conoscevano già la
vita in tutti i suoi meandri. Lei non l’aveva ancora assaggiata8.

La vera occasione, però, giunse nel 1940, all’indomani della dichiarazione di guerra,
quando fu chiamata a Roma per discutere un soggetto tratto dal suo fortunato romanzo
Violette nei capelli. Il testo – pubblicato inizialmente a puntate su «Gemma» nel marzo
1939, e successivamente raccolto in volume – era già un best-seller e, secondo le aspettative
dei produttori, avrebbe potuto benissimo ottenere un successo di incassi anche sul grande
schermo.
Protagonista indiscussa del fortunato romanzo di Luciana Peverelli è Carina, giovane
sartina che, costretta a vivere in una misera stanza con la famiglia adottiva, incarna
l’archetipo fiabesco di Cenerentola. Carina, infatti, si divide tra le incombenze di lavoro
nella sartoria della matrigna, e la sua segreta passione per il cinema e il teatro, recandosi
tutte le notti ad assistere alle opere degli autori più diversi, da Shakespeare a D’Annunzio. Si
tratta di interessi che, tuttavia, data la sua umile estrazione sociale, non potrebbe coltivare, in
quanto velleità inconcepibili per i suoi parenti. Per esempio, quando la matrigna scopre una
foto di Jean Gabin sotto il suo cuscino, crede che si tratti di uno spasimante, e non può che
preoccuparsene – vista l’aria sinistra del personaggio – mentre interpreta le prove d’attrice
della ragazza nella sua stanzetta come dimostrazione della sua instabilità mentale. Il
personaggio di Carina, come spesso accade nei romanzi di Luciana Peverelli, si configura da
subito come un essere delicato e infelice, destinato a faticare per barcamenarsi in un mondo
ostile. L’opportunità di emergere dal grigiore della sua esistenza viene dall’incontro
provvidenziale con due eccentriche fanciulle: Oliva e Mirella, dalle quali si reca un giorno
per consegnare degli abiti. Figlie di un concertista di successo, le due ragazze incarnano il
sogno che fino ad allora la sartina, abituata sin da piccola al duro lavoro manuale, credeva

7
Cfr. RITA VERDIRAME, La seduzione del rosa e il mistero del giallo. Luciana Peverelli, in Narratrici e lettrici
(1850-1950). Le letture della nonna dalla contessa Lara a Luciana Peverelli, libreria universitaria.it, Limena,
2009, p. 312.
8
Ivi, p. 313.

2
impossibile: una vita spesa totalmente per l’arte. Nella loro casa Carina scorge un ambiente
estraneo, ma benevolo: mentre il padre prova il suo strumento in una stanza, Oliva accenna
dei passi di danza classica per il suo saggio, e Mirella contorce il corpo in complessi esercizi
ginnici. Le due l’accolgono come una sorella e si prendono un po’ gioco della sua innocenza
ma, altrettanto ingenuamente, non indugiano nel concederle subito sincera amicizia,
incoraggiandola a frequentare la loro casa e a dedicarsi alla recitazione. Inizia così per
Carina un periodo di dolci illusioni, in cui però non cessa di interpretare il ruolo della povera
Cenerentola. Trascorre sempre più tempo nella dimora delle due sorelle che, per
riconoscenza, o per sincero piacere, dispensa dalle faccende domestiche, di cui è l’unica
responsabile; le aeree fanciulle, dal canto loro, finiscono con l’attribuire lo zelo di Carina a
una sua naturale attitudine per il focolare. Capita, però, che le tre fanciulle si innamorino
tutte di ragazzi che non ricambiano il loro sentimento e, unite da quella che ritengono una
triste sventura, si rifugiano in uno chalet di montagna. Qui ritrovano la spensieratezza della
loro gioventù e decidono di stringere un patto d’amicizia con cui rinunciano all’amore per
inseguire ognuna la propria vera vocazione. Come in un rito, si atteggiano a ninfe dei boschi
e si inghirlandano i capi con fresche violette, simbolo della fugacità della giovinezza e dei
sogni che porta con sé. È in questa occasione che Carina conosce Giuliano, un affascinante
ingegnere che rimane fatalmente colpito dall’eccezionalità del suo carattere e, pur essendo
legato ad un’altra ragazza – l’antipatica e superficiale Alda – dopo un lungo e tortuoso
corteggiamento, finirà col riconoscere di essere innamorato di lei. Ma la tragedia colpisce le
ragazze durante le loro vacanze: un telegramma avvisa che il papà musicista è morto. Dalla
letizia dei primi giorni le giovani precipitano velocemente nella terribile fatalità della vita
reale. Le due sorelle tuttavia, reagiscono alla vita e, seppur con difficoltà, si aprono al
mondo inseguendo le proprie ambizioni di successo, mentre Carina è sempre più sopraffatta
dal nuovo lavoro in fabbrica e dalle faccende domestiche, da riuscire appena a ritagliarsi
degli spazi per le sue prove di recitazione. Oliva insegue la carriera di prima ballerina, ma si
imbatte presto in una dura lezione di vita: colta da una passione travolgente, viene sedotta e
abbandonata dal direttore d’orchestra del teatro; dopo mesi di allenamento, Mirella partecipa
ad un’importante gara di sci ma, delusa dalla confessione di Giorgio – di cui è segretamente
innamorata da anni – che le annuncia il suo fidanzamento, muore tragicamente durante la
ripida discesa. Carina e Oliva si allontanano dalla città per recarsi a Capri, sopraffatte dal
dolore della perdita e per nascondere la gravidanza della ragazza. Qui Oliva sembra ritrovare
la pace, partorisce e conosce un nuovo amore, un ballerino russo che la convince a seguirlo
per girare i teatri del mondo. Mentre Oliva viaggia per l’Europa col suo nuovo flirt, Carina
alleva Giuliano, il bambino che è divenuto un po’ anche il suo, e a cui ha voluto dare il
nome dell’ingegnere di cui è ancora innamorata. Dopo diversi e complicati malintesi, infatti,
i due smettono di frequentarsi, responsabili la diversa estrazione sociale e le continue
ingerenze della rivale-antagonista Alda, che fino all’ultimo cercherà di dividere i due
innamorati. Carina riesce comunque a dedicarsi al teatro e a farsi scritturare per una
rappresentazione importante, trovando anche lei una dimensione intima in cui dar sfogo alla
propria creatività. In Violette nei capelli, tuttavia, Luciana Peverelli sembra affermare che la
3
vera felicità per una donna non può realizzarsi nell’inseguimento della chimera del successo
personale, o delle proprie inclinazioni artistiche, quanto nella naturale gratificazione offerta
dall’unione matrimoniale, anche se raggiunta dopo innumerevoli peripezie e sofferenze, con
la conseguente integrazione sociale e la formazione di un nuovo nucleo familiare. Giuliano,
infatti, scopre per caso, leggendo un cartellone promozionale, il luogo in cui avviene la
recita di Carina e si presenta al teatro confessandole tutto il suo amore. Lei non può che
accoglierlo nuovamente nella sua vita, rinunciando così ai sogni di gloria. Il romanzo si
chiude, infine, con la placida immagine di Carina concentrata esclusivamente nel suo nuovo
ruolo di madre e moglie: a Giuliano che le chiede di recitargli un’ultima poesia di
D’Annunzio risponde di non esserne più capace.

Dalle pagine allo schermo


Il grande successo di vendite del romanzo, favorito dall’agile e fresca scrittura di
Peverelli, fu tale da proporre la realizzazione di un film, che avrebbe portato sicuramente al
cinema le migliaia di lettrici che si erano appassionate alle tre eroine del romanzo, esaurendo
le copie in pochissimo tempo. Nell’agosto del 1941 il produttore Salvatore Persichetti affidò
a Carlo Ludovico Bragaglia il compito di dirigere Violette nei capelli, coinvolgendo Luciana
Peverelli anche nella stesura della sceneggiatura insieme ad Alessandro De Stefani, Silvano
Castellani, Raffaello Matarazzo e allo stesso regista.
L’eclettismo e il sicuro fiuto per i filoni di moda conducono Bragaglia al romanzo rosa
nel momento in cui funzionano, al posto delle ormai stantie commedie dei “telefoni
bianchi”, quelle giovanili, interpretate da fresche ragazzine in età di collegio e di primi
amori9. Nell’intervista pubblicata sulle pagine di Nato col cinema: Carlo Ludovico
Bragaglia, cent’anni tra arti e cinema, lo stesso regista sostiene che tra le tante scrittrici e
scrittori color rosa, Peverelli si distingue per ispirarsi a personaggi e fatti reali, sicché i suoi
libri costituiscono per le giovani lettrici una sorta di “guida alla vita” attraverso esperienze
non così accomodate e ottimistiche come nella classica tradizione del genere 10. Violette nei
capelli rappresenta, quindi, una sorta di romanzo di formazione ed educazione sentimentale,
nel quale non manca un pizzico di trasgressività, giustificata però dal sentimento, elemento
non auspicabile ma possibile nel traumatico passaggio dall’adolescenza alla maturità 11.
Il carattere peculiare della scrittura di Luciana Peverelli consiste in una generale
impostazione dimessa e malinconica, con intrecci spesso intricati e travagliati, dai quali
l’eroina del romanzo riesce a sciogliersi con difficoltà e dopo non poche prove drammatiche.
L’oggetto privilegiato dei racconti di Luciana Peverelli è, infatti, l’ordinario distendersi delle
vite di umili sartine, impiegate, ragazze della piccola borghesia che cercano di contribuire
all’economia familiare col proprio onesto lavoro, ma nella celata speranza di un futuro più

9
Cfr. LAMBERTO ANTONELLI, ERNESTO G. LAURA, Nato col cinema: Carlo Ludovico Bragaglia, cent’anni tra arti e
cinema, Ancci, Roma, 1992, p. 136.
10
Ivi, pp. 136-137.
11
Cfr. FEDERICA VILLA (a cura di), Carlo Ludovico Bragaglia. Violette nei capelli, Pantmedia, Milano, 1994, p.
13.

4
sereno, sistematicamente identificato con un matrimonio che le faccia emergere dall’attuale
condizione di miseria. La scrittrice si dimostra spesso attenta alla psicologia dei suoi
personaggi e alla loro vita, raccontata con cura e realismo, senza peraltro risparmiare dettagli
sul rapporto conflittuale tra i sessi, da cui non sempre la donna esce vincitrice. Una tale
propensione per ambientazioni semplici e situazioni vicine alle esperienze delle lettrici
proviene probabilmente dall’attenta valutazione del pubblico a cui Luciana Peverelli intende
rivolgersi, vagliato e studiato attraverso la corrispondenza tenuta in riviste come «Stelle» e
«Cinema Illustrazione», che le assicurano la comprensione di timori, apprensioni e
aspettative delle giovani ragazze del suo tempo.
Tuttavia, dall’analisi del soggetto cinematografico si evince un mutamento di registro,
orientato a una distensione dei motivi di conflitto presenti nel romanzo che, nel volgersi al
nuovo medium, si diluiscono a favore di un racconto più leggero, dove i caratteri dei
personaggi sembrano emergere come in un bozzetto dalle linee indefinite. Leggiamo infatti:

Carina, ragazzina del popolo, e piccolina di una sarta con la quale vive perché sola al
mondo, ha la passione del teatro, e vi si reca ogni sera, in loggione, vendendo indumenti
personali di nascosto dalla padrona. Costei la considera come una pazza invasata la sera
in cui la sorprende recitare Otello da sola nello sgabuzzino in cui vive12.

Si evince da subito, dunque, il ricorso allo stereotipo fiabesco della fanciulla povera e
sfortunata, e della matrigna che la opprime. Se nel romanzo si intuisce la sincera
preoccupazione della donna, che cerca di capire le ragioni del comportamento di Carina, ma
non vi riesca perché priva delle risorse culturali necessarie, qui compare già l’idea di
semplificare il messaggio, rendendo i caratteri meno sfaccettati. Il personaggio di Carina, ad
esempio, si manifesta da subito come irruento e volitivo, lontano dalla remissività e
ponderatezza del romanzo:

Un caso porta Carina nella casa bohéme di un professore d’orchestra che ha due figlie
della sua età: Oliva che studia il ballo in un grande teatro, e Mirella, appassionata di
sport. Le due creature giovani, entusiaste, fantasiose, si affiatano con Carina di cui
scoprono il talento, simpatizzano con lei e la portano al teatro, d’Opera ad una prova.
Carina ne è esaltata: al suo ritorno, furibonda, la padrona la scaccia, e Carina viene
accolta nella casa delle fanciulle che le hanno aperto un mondo nuovo. Per ripagarle di
quanto hanno fatto, ella, donnina saggia e pratica fa di quella casa uno specchio e si
adopera per aiutarle in tutti i modi 13.

La scrittura pensata per il cinema, come possiamo notare, si afferma per la sua
immediatezza e incisività fotografica, che verrà ulteriormente sviluppata nella realizzazione
del film. Le intense descrizioni degli stati d’animo delle protagoniste del romanzo, tra sogni
romantici post-adolescenziali, e fumose allusioni a conflitti di classe e di genere, si
attenuano amabilmente nel soggetto cinematografico, dove si osserva la propensione alla
12
LUCIANA PEVERELLI, Violette nei capelli: soggetto di L. P. Produzione Fono Roma-Lux film, Roma, agosto
1941.
13
Ibidem.

5
semplificazione del racconto, per un approccio aproblematico e più vivace:

Nell’ambiente suggestivo dei boschi e dei prati esse vivono i loro sogni in una specie di
incantata esaltazione: con grazia puerile giurano intorno a un tronco di serbarsi amicizia
eterna, ed esprimono i loro tre desideri, quasi come un voto. Mentre stanno giocando a
questo incantesimo vengono sorpresi da Alda, una ricca borghese villeggiante e da
Giuliano, un suo giovane corteggiatore. La grazia e l’originalità di Carina colpisce
Giuliano: Alda invece ride di quelle stravaganti creature così diverse da lei, e le invita
ad una festa nella sua sontuosa villa. Le tre bimbe entrano così nel pacchiano e
banale mondo borghese dove giovanotti e signorine parlano un linguaggio idiota, e ne
sono piuttosto sorprese14.

La morte di Mirella – che rappresenta un nodo importante nell’intreccio narrativo – viene


abilmente evitata nel soggetto, anche se sfiorata, ai fini della buona riuscita del racconto
fiabesco, dove il lieto fine è fondamentale:

Mirella, intanto, è sempre nel suo collegio: ed ecco che riceve una visita. È il suo
Giorgio. Si precipita in parlatorio: Giorgio è con la moglie che vuol presentare alla sua
cara compagna. Mirella finge di nulla, ma ne ha un durissimo schianto. Si rifugia nella
sua cameretta: voci di fanciulle vengono dal cortile: vi si sporge ed ha un attimo di
vertigine… ma ecco che alcune fanciulle vengono a chiamarla: le gridano che lei
guiderà la squadra delle sciatrici alla gara internazionale: la loro giovinezza, il pensiero
delle nevi, della sua montagna, dello sport e del dovere salvano Mirella dallo
smarrimento. Un bacio alla foto del piccolo nipotino ed è ancora la gaia fanciulla di
prima15.

Anche il carattere di Mirella, così come quelli di Oliva e di Carina, risulta appiattito a
favore di un ritratto inequivocabilmente positivo ed edificante, per un pubblico medio di
giovani in età scolare laddove, nel romanzo, Peverelli aveva affidato alla personalità delle
sue protagoniste chiaroscuri più intensi e forme spesso ambivalenti.
Inquadrabile generalmente in quello che fu definito il cinema dei “telefoni bianchi” –
caratterizzato da trame leggere, lievi e quasi incolori, e intrecci di equivoci che ruotano
intorno a una serie di malintesi con scioglimento a lieto fine 16 – il film Violette nei capelli
palesa notevoli divergenze rispetto al testo originale. Prevale, infatti, il tono leggero della
commedia brillante che si basa sull’evocazione del benessere spensierato, dove fa breccia
appena un’onesta miseria all’italiana, ben rammendata e comunque piegata alla celebrazione
dell’immagine medio-borghese del film. La narrazione è calata in una Italia senza tempo,
dove gli eventi si snodano lungo un paio di anni, senza chiari accenni alle vicende sociali,
politiche, ma soprattutto belliche. Considerata l’epoca di autarchia e di obbligatori
sentimenti patriottici, desta meraviglia il percorso umano intrapreso da Oliva, la quale non
esita ad abbandonare il proprio figlio neonato all’amica per inseguire la propria carriera di
ballerina, senza che tale scelta provochi alcuna nota critica o presa di distacco da parte di
14
Ibidem.
15
Ibidem.
16
Cfr. FEDERICA VILLA (a cura di), Carlo Ludovico Bragaglia. Violette nei capelli, cit., p. 8.

6
regista e sceneggiatori, cosa che avviene con maggiore nettezza nel romanzo. È evidente
come il film cerchi di proporre un nuovo tipo di donna disinteressata alla famiglia e ai figli,
emancipata e alla ricerca della realizzazione di sé nell’ambito artistico, da contrapporre al
modello positivo rappresentato proprio da Carina, la ragazza che – nel passaggio
dall’adolescenza all’età matura – è disposta a rinunciare ad ogni sua aspirazione e sogno, per
interpretare la parte che più desidera nella vita, quella di custode del sacro focolare. Nella
pellicola non sembrano esservi eventi degni di reazioni consistenti, ma tutto sembra
facilmente risolversi in un guizzo vivace della protagonista, o in una canzone improvvisata
sul momento. A impersonare Carina è, infatti, l’attrice di punta di quegli anni, la brillante
Lilia Silvi che con il suo carattere chiassoso ed esuberante offre un ritmo vivace alla
narrazione, sebbene si discosti molto dalla remissiva protagonista del romanzo; Oliva e
Mirella sono invece interpretate rispettivamente da Irasema Dilian e Carla Del Poggio,
anch’esse giovani e promettenti attrici del cinema degli anni Quaranta. Il ruolo di Carla Del
Poggio fu delineato dall’intervento dello sceneggiatore e produttore cinematografico Sergio
Amidei, il quale volle sottolineare la necessità di dare al film lo stesso carattere realistico del
romanzo17. Una scelta azzeccata, visto che Del Poggio risulta l’attrice più apprezzata dalla
critica:

Lilia Silvi non è bella ma dimostra come lo spirito sostituisca meravigliosamente la


bellezza. Quando si è giovani è tuttavia abbastanza facile accattivarsi la simpatia del
pubblico con lazzi e birichinerie. Doveva essere così Dina Galli al tempo della terza
normale. Voglio dire che Lilia Silvi è troppo commediante, è troppo poco donna. Irasema
è, al contrario, poco commediante e molto donna. […] Carla del Poggio, invece, mi
sembra naturale, discreta, commovente. Mi convince, si fa voler bene. In lei, che non è
furba, né fatale, né oca, c’è quella finezza, quella signorilità di cui il cinema ha tanto
bisogno. È salubre e attraente, non ha sfrontatezze e non ha matterie. Tutte le mamme,
insomma, vorrebbero avere una figlia così buona e così carina. Questa è la migliore lode
che le si può fare18.

Irasema Dilian risulta invece a molti troppo aerea, troppo raffinata:

C’è qualcosa di complicato, di arcano in lei. Fa pensare insomma più alla contessa di
Castiglione che ad Adelaide Ristori. Irasema minaccia, tanto per intenderci, di diventare,
piuttosto che una grande attrice, una donna troppo bella, una donna pericolosa19.

Luciana Peverelli, al contrario, non risparmia encomi anche per quest’ultima che considera
addirittura «una nuvola trasformata in fanciulla» 20, un personaggio ben riuscito, al punto da

17
Ci si deve fidare della testimonianza di Bragaglia, dato che il nome di Amidei non compare né nei titoli di
testa né in alcuna delle fonti consultate.
18
DIEGO CALCAGNO, 7 giorni a Roma, in «Film: settimanale di cinematografo teatro e radio», 6, 7 febbraio 1942,
p. 4.
19
Ibidem.
20
Cfr. LUCIANA PEVERELLI, Allegre esperienze del mio primo film, in «Film: settimanale di cinematografo teatro
e radio», 39, 27 settembre 1941, p. 2.

7
affermare: «se avessi dovuto creare io, con le mie mani, la figura di «Oliva», non avrei potuto
farla diversamente»21. Nel complesso, i ritratti femminili delle «tre figlie del popolo, ingenue
ma dinamiche» 22, sono stati levigati a favore di un racconto più agile e privo di ombre, a
misura di schermo.
Se la giovane età delle attrici costituì in parte la fortuna di Violette nei capelli, fu però anche
motivo di fastidiosi inconvenienti per la lavorazione del film, che si rivelò piuttosto
tormentosa per il regista, letteralmente perseguitato dai tutori delle interpreti:

Carla del Poggio era costantemente accompagnata dalla madre. Lilia Silvi aveva un
fidanzato che poi sposò, giocatore di calcio, assai geloso, il quale era sempre appostato
sul set come un segugio … E dietro a Irasema Dilian, già interprete di successo nel film
di Vittorio De Sica Maddalena zero in condotta, c’era un’altra madre, la sua, che la
seguiva dappertutto con lo sguardo puntato. […] I tutori non si limitavano a sorvegliare
che le cose andassero per il verso giusto, ma, e fu questa la vera tortura, ognuno di loro
pretendeva di dare consigli affinché la protetta fosse messa più in risalto dell’altra.
Insomma duellavano per i primi piani, beccandosi tra loro perché privilegiassi l’una a
svantaggio dell’altra23.

Nelle vesti di attore troviamo anche l’aiuto regista Steno, e la stessa scrittrice che,
nell’articolo Allegre esperienze del mio primo film, apparso su «Film: settimanale di
cinematografo teatro e radio» nel settembre 1941, afferma: «ci sono anch’io, in una parte di
comparsa di primo piano e quella scena, naturalmente, sarà l’unica tagliata del film» 24. La
pellicola uscì nelle sale nel febbraio 1942, anticipata da una novellizzazione ad immagini,
pubblicata dallo stesso settimanale nel dicembre 1941, quando ancora il film era in fase di
montaggio negli stabilimenti di Cinecittà. Il testo, firmato da Clara Franchetti, in realtà
risulta essere una via di mezzo tra il romanzo e la pellicola, probabilmente perché l’autrice si
affidò al soggetto cinematografico e alle anticipazioni messe a disposizione dalla casa di
produzione. Violette nei capelli è menzionato – curiosità non irrilevante – nel film di
Florestano Vancini, La lunga notte del ’43, girato nel 1960 e liberamente tratto dal racconto
Una notte del ’43, contenuto nella raccolta Cinque storie ferraresi, con cui Giorgio Bassani
vinse il Premio Strega nel 1956. È il novembre del 1943 e la storia si svolge a Ferrara: la
moglie del farmacista Barilari si consulta con il marito sui film da vedere al cinema:

«Al Reale fanno il Leone di Damasco, non so se ti piace. L’avranno preso da uno di
quei libri di Salgari che leggevo da bambino. Dev’essere un film d’avventure con tanti
duelli. Al Nuovo ci sarebbe Süss l’ebreo, film tedesco di propaganda… no, ma sarà una
boiata, non andarci. Aspetta, adesso te li dico tutti, fammi pensare un momento: dunque
al Ristori c’è ancora La cena delle beffe che hai già visto. Ah, sai dove devi andare?
21
Ibidem.
22
Cfr. ANONIMO, Il prossimo film di Lilia Silvi: Violette nei capelli, in «Film: settimanale di cinematografo
teatro e radio», 32, 9 agosto 1941.
23
LAMBERTO ANTONELLI, ERNESTO G. LAURA, Nato col cinema: Carlo Ludovico Bragaglia, cent’anni tra arti e
cinema, cit., p. 73.
24
Cfr. LUCIANA PEVERELLI, Allegre esperienze del mio primo film, in «Film: settimanale di cinematografo teatro
e radio», 39, 27 settembre 1941, p. 2.

8
All’Apollo, fanno Violette nei capelli con Lilia Silvi e Roberto Villa. La Lilia Silvi è
simpatica, ha molta verve, e poi non canta mica male. […] Bada che stasera quando
torni me lo devi raccontare tutto il film, voglio proprio sapere com’è»25

La scelta ricade su Violette nei capelli, ma la proiezione si interrompe – a causa di un


allarme bombardamento – con la scena delle tre giovinette-ninfe, intente a stipulare il loro
giuramento di eterna amicizia.

Echi e richiami letterari per legittimare il “rosa”


Ancor prima di essere una scrittrice di successo prolifica e instancabile Luciana Peverelli
fu un’appassionata lettrice e una grande estimatrice di musica, come suo padre – noto critico
musicale del quotidiano «La Perseveranza» – che gliene trasmise certamente il culto. Sin da
fanciulla fu educata alla conoscenza approfondita dell’arte in tutte le sue manifestazioni,
dalla danza alla letteratura, e a farne parte integrante e necessaria per la propria esistenza.
Complici l’estrazione borghese un po’ snob e l’ambiente milanese, le fu facile frequentare le
sale di teatro, e assistere ad opere liriche e di prosa, classiche o d’avanguardia. Nessuna
lettura le fu preclusa e fu una discreta intenditrice di pittura. Si potrebbe affermare che il più
grande interesse della sua vita fosse il raggiungimento di un’ideale di vita speso all’insegna
dell’arte. Di tale supposizione abbiamo continue conferme nei suoi romanzi, dove spesso
dietro le abitudini e i pensieri delle protagoniste si celano le passioni e gli interessi propri
della scrittrice. Ecco spiegarsi come mai tanto spesso nei suoi romanzi compaiano in diverse
forme la danza e il teatro (Violette nei capelli), e nell’intreccio si insinuino citazioni
letterarie e l’evocazione di un humus culturale ricercato (Vacanze a Montmartre), elementi
che sembrano giustapporsi alle travagliate vicende amorose dei protagonisti, che finiscono
nel complesso col confliggere, anziché integrarsi armonicamente, dando origine a un
cortocircuito dal sapore vagamente kitsch. Così, in Violette nei capelli, Luciana Peverelli dà
sfoggio della sua raffinatezza culturale facendo fremere di ardore Carina, la povera sartina –
che nella realtà sarebbe presumibilmente semianalfabeta – per dei versi tratti da La
Tempesta o da La dodicesima notte di Shakespeare, o facendole recitare la Francesca da
Rimini di D’Annunzio e, nello stesso tempo, divorare I tre moschettieri di Dumas.
Nonostante i primi esperimenti letterari di Luciana Peverelli si orientassero verso contenuti e
forme “alte”, ispirati agli autori più amati nella sua giovinezza, quali D’Annunzio,
Pirandello e Maeterlink, la realtà la condusse alla scoperta di un talento forse inaspettato,
quello di scrittrice di romanzi e racconti rosa, per case editrici e rotocalchi popolari, che le
permisero di accedere a un «filone d’oro»26, guadagnando così tanti soldi da non aver
bisogno di un marito per mantenersi. Come il romanzo, dunque, anche il film di Carlo
Ludovico Bragaglia è intessuto di citazioni letterarie che hanno il chiaro e preciso intento di
definire la fisionomia dei personaggi. Naturalmente, si tratta di “ruberie teatrali”, visto che le
tre protagoniste vivono in questa dimensione altra, nella quale sublimano le proprie
25
Cfr. La lunga notte del ’43, di Florestano Vancini, Italia, 1960, ‘100.
26
Cfr. LUCIANA PEVERELLI, Autobiografia, in Narratrici e lettrici (1850-1950) le letture della nonna dalla
Contessa Lara a Luciana Peverelli, cit., pp. 305-306.

9
contraddizioni e i propri desideri 27. Il teatro è l’unica possibilità di fuga, l’unica opportunità
di diventare altre da sé, e di interpretare la parte che si è sempre sognata per se stesse 28. Sin
dall’attacco, Violette nei capelli è segnato dal dramma shakespeariano della gelosia: la scena
quarta del terzo atto dell’Otello, quella del fazzoletto, che ha come “teatro” la povera
cameretta di Carina:

OTELLO: Ho un brutto raffreddore catarroso che mi tormenta; prestami il tuo


fazzoletto.
DESDEMONA: Ecco Signore.
OTELLO: Quello che ti ho regalato io.
DESDEMONA: Non l’ho con me.
OTELLO: No?
DESDEMONA: No, mio signore.
OTELLO: Molto male. Quel fazzoletto l’ha dato a mia madre una zingara egiziana, una
maga che leggeva nel pensiero. Le disse che finché l’avesse tenuto avrebbe soggiogato
amore e dedizione del marito; ma se l’avesse perso o dato via, sarebbe divenuta odiosa
agli occhi di mio padre, e il suo cuore avrebbe ricercato nuovi amori. Alla sua morte lo
diede a me dicendomi di regalarlo a mia moglie quando mi fossi sposato. Ed è stato
così. Abbine cura, tienilo ben caro, come la pupilla dei tuoi occhi. Perderlo o darlo via
sarebbe una rovina senza eguali.
DESDEMONA: Ė mai possibile?
OTELLO: Si. C’è una malia nella sua trama. Fu tessuto in un’estasi profetica da una
sibilla, che su questa terra per ben duecento volte aveva visto il volgere del sole. Sacri
erano i bachi che ne produssero la seta, tinta nell’elisir di mummia che i sapienti
ricavano dai cuori delle vergini.
DESDEMONA: Ė vero?
OTELLO: Verissimo: perciò abbine cura.
DESDEMONA: Volesse Iddio che non l’avessi mai veduto!
OTELLO: Ah: per che motivo?
DESDEMONA: Perché parlate così duro e concitato?
OTELLO: L’hai perso? Smarrito? Dimmi, non si trova più?
DESDEMONA: Ci protegga il cielo!
OTELLO: Che dici?
DESDEMONA: Non l’ho perso, ma se ci fosse?
OTELLO: Come?
DESDEMONA: Non l’ho perso, vi dico.
OTELLO: Vallo a prendere, fammelo vedere.
DESDEMONA: Ci andrò, ma non adesso, mio signore. È una scusa per stornare la mia
supplica. Vi prego, fate richiamare Cassio.
OTELLO: Va’ a prendere il fazzoletto, ho un presentimento.
DESDEMONA: Su, su: non troverete un uomo più capace.
OTELLO: Il fazzoletto!
DESDEMONA: Vi prego, ditemi di Cassio.
OTELLO: Il fazzoletto!
DESDEMONA: Ė un uomo che ha sempre basato le sue fortune sul vostro affetto,
condiviso i vostri pericoli…
OTELLO: Il fazzoletto!
27
Cfr. FEDERICA VILLA (a cura di), Carlo Ludovico Bragaglia. Violette nei capelli, cit., p. 43.
28
Ivi, p. 32.

10
DESDEMONA: Siete proprio da biasimare.
OTELLO: Cristo!29

La citazione riscritta da Bragaglia è indubbiamente parziale, considerato che tralascia la


parte centrale della scena shakespeariana, incentrata sull’origine e il potere dell’oggetto dato
in pegno:

OTELLO: Ho un tenace raffreddore che mi tormenta, datemi un po’ il vostro fazzoletto.


DESDEMONA: Ecco qua signore.
OTELLO: No, quello che vi desti.
DESDEMONA: Non l’ho con me.
OTELLO: Davvero? Scomparso, dite, non l’avete più?
DESDEMONA: Che il ciel ci protegga.
OTELLO: Voglio che andiate a cercare il fazzoletto.
DESDEMONA: Non so dove trovarlo.
OTELLO: Voglio il fazzoletto, il fazzoletto!30

La scena mantiene una valenza essenziale per definire il personaggio di Carina:


l’alternanza dei toni. La protagonista, tanto innamorata del teatro, della musica e della
poesia, trae dal dramma la possibilità di mettere in scena le sue due anime in contrasto:
interpreta, infatti, il duplice ruolo del moro di Venezia e della bella Desdemona,
dimostrandosi al tempo stesso tanto ferma e decisa quanto dolce e sentimentale. La scena,
però, viene bruscamente interrotta dall’irrompere della matrigna, e alla ragazza sognatrice
non resta che ritornare alla realtà e piangere disperatamente sul proprio letto. Allo stesso
drammaturgo è dedicato il secondo omaggio. Nella scena delle ninfe, Oliva volteggia
leggiadra attraverso le note e le danze de La dodicesima notte, anche se il legame della
ragazza è assai più profondo:

OLIVA: Il mio nome non ha niente a che vedere con le o gli altri antipasti. È stato un
omaggio di mio padre alla bellissima protagonista de La dodicesima notte.
MIRELLA: La dodicesima notte è una commedia di Shakespeare.
CARINA: Lo conosco! Sono andata ieri sera a sentire l’Otello, è lui che l’ha scritto, no?
OLIVIA: Brava, anche a te piace Shakespeare, da noi è come una persona di famiglia.
CARINA: Lo conoscete? È così bravo, deve essere tanto simpatico a parlarci.
OLIVIA: Simpaticissimo.
MIRELLA: Si, perché non le dici addirittura che lo aspettiamo stasera a pranzo?31

Oliva è strettamente legata alla protagonista della commedia inglese. In entrambi i casi,
infatti, le donne sono congiunte indissolubilmente al proprio destino che, testardo, disegna le
loro vite intense, travagliate e intrise di passione 32. Altri debiti col teatro sono il terzo e il
29
WILLIAM SHAKESPEARE, Otello, (a cura di Sergio Perosa), Garanti, Milano, 2000, pp. 131-135.
30
FEDERICA VILLA (a cura di), Carlo Ludovico Bragaglia. Violette nei capelli, cit., pp. 43-44.
31
Ivi, pp. 45-46.
32
Ivi, pp. 46-47.

11
quarto atto di Come le foglie di Giuseppe Giacosa che, sul finire del film, vengono
interpretati sempre da Carina, ma questa volta su un vero e proprio palcoscenico. La sua
storia personale sembra aderire perfettamente al testo originale, con la riproposizione della
“richiesta di matrimonio” e il “ritorno tanto atteso”, che si materializzano sul palco
diventando vera e propria prefigurazione della realtà di Carina:

MASSIMO: Vuoi essere mia moglie, Irene?


NENNELE: Non accetto elemosine.
MASSIMO: Non vuoi?
NENNELE: No.
MASSIMO: Non vuoi volermi bene?
NENNELE: Non è questo, non credo che tu me ne voglia di questo, vai via?
MASSIMO: Si, devo scendere e camminare.
NENNELE: Vuoi che venga con te?
MASSIMO: No, ho bisogno di essere solo.
NENNELE: Vai via offeso?
MASSIMO: No, vado lì sotto a passeggiare.
NENNELE: Non ha capito33.

NENNELE: Ma che hai? È la seconda volta che ti interrompi. Che guardi?


GIOVANNI: Mi era parso di vedere un uomo là sotto gli alberi. Ma mi sarà ingannato.
Tra la luna e le frasche.
NENNELE: C’è. C’è qualcuno.
GIOVANNI: Ah lo vedi?
NENNELE: Ora sta fermo. È nell’ombra. No, no…
GIOVANNI: Lo dici con tristezza. Ti rincresce che non ci sia nessuno? Chi credevi?
NENNELE: Ma pensa! Chi vuoi?...
GIOVANNI: A Tommi credevi?
NENNELE: No. Nessuno.
GIOVANNI: Tu non avrai più cattivi pensieri.
NENNELE: Non mai.
GIOVANNI: Non penserai più a lasciarmi, lasciarmi dovrai pure un giorno. Bisogna
sperarlo. L’avevo sperato…
NENNELE: C’è. Eccolo. S è avvicinato all’ombra della siepe… per sentirci. Lo vedi?
GIOVANNI: Dove?
NENNELE: Là, dietro il cespuglio. Guarda l’ombra che ne getta la luna. Vedi? È
rimasto. Vegliava. È rimasto per me, ha capito.
GIOVANNI: Che dici? Chi è?
NENNELE: Vuoi che lo chiami? Massimo! Vieni34.

Divergenze e adattamenti
I cambiamenti che il film ha apportato al testo originale riguardano prevalentemente il
tono ma anche la struttura stessa del racconto, e furono in gran parte incoraggiati
dall’autrice, che si mostrò abile a manipolare forme linguistiche così diverse. Lei stessa
dichiarò:
33
Ivi, p. 47.
34
Ivi, pp. 47-48.

12
C’è moltissimo di mio in questo film, e tutti i cambiamenti, tutti gli spostamenti, tutte le
nuove idee hanno trovato me consenziente, perché ho seccato durante la preparazione e
la lavorazione del film sceneggiatori, regista e interpreti35.

La morte di Mirella, per esempio, viene omessa senza remore dal film, per lo stesso
motivo per cui viene bandito ogni indugio che possa rappresentare motivo di riflessione e
inficiare il ritmo convulso di Violette nei capelli. Altre variazioni possono benissimo
spiegarsi alla luce del contesto storico-culturale in cui il film venne prodotto: incursioni
autarchiche, infatti, sono ravvisabili qua e là nel film come timidi agganci alla vita reale, e
costituiscono le uniche occasioni di distorsione della fiaba. La milanese Luciana Peverelli,
sebbene citi raramente la sua città, confermando pienamente gli schemi della favola che
rendono superflue precisazioni spazio-temporali, dà costantemente prova del suo
ancoramento alla cultura mitteleuropea nei suoi romanzi, tipica dell’ambiente intellettuale
milanese, citando opere e luoghi d’Oltralpe – come il suo amato Lohengrin di Wagner e le
atmosfere parigine affidate ai brani di Debussy – che mal si adattano all’egemonia del virile
spirito italico imperante nei primi anni Quaranta. Ecco spiegarsi, dunque, come mai nel film
Oliva prosegua la sua carriera al Teatro di Bologna e non in Francia, e perché Giuliano –
interpretato da Roberto Villa – trascorra un periodo di lavoro come ingegnere nelle miniere
della città di Carbonia, uno dei nuovi centri urbani di fondazione fascista in Sardegna, non
menzionato nel romanzo. Tali alterazioni non vengono imposte tassativamente a Peverelli,
che ammette di aver contribuito notevolmente alla realizzazione del film e di averne
approvato felicemente l’orientamento conviviale 36, conscia, forse, della necessità di
uniformarsi al linguaggio prevalente nel cinema di quegli anni, concepito come strumento di
dolce evasione per un pubblico semplice che sogna condizioni di vita e ideali borghesi.
Dopo il mancato esordio de Il bacio di Guya e il successo di Violette nei capelli, Peverelli
continua ad essere impegnata sul terreno dei mélo diretti ad un pubblico femminile, con la
realizzazione delle sceneggiature di Signorinette, film di Luigi Zampa sull’adolescenza e de
La principessa del sogno, ricavato da un suo racconto e diretto da Maria Teresa Ricci e
Roberto Savarese.

Due film fatti da donne: Signorinette e La principessa del sogno


Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Wanda Bontà, edito nel 1938 da Canetta,
nel suo genere il film Signorinette è da considerarsi «un piccolo capolavoro per la freschezza
dell’ispirazione, per la limpidità dell’eloquio narrativo e soprattutto della sua forma» 37. La
critica dell’epoca si dimostra unanime nel giudicare positivamente la pellicola, considerata
la risposta italiana a Little women (1933), di George Cukor, ispirato all’omonimo romanzo
di Louise May Alcott, indicato tra i migliori dieci film dell’anno dal National Board of
35
Cfr. LUCIANA PEVERELLI, Allegre esperienze del mio primo film, in «Film: settimanale di cinematografo teatro
e radio», 39, 27 settembre 1941, p. 2.
36
Cfr. LUCIANA PEVERELLI, Allegre esperienze del mio primo film, in «Film: settimanale di cinematografo teatro
e radio», 39, 27 settembre 1941, p. 2.
37
Cfr. VILMI, Signorinette, in «Lo Schermo: rassegna mensile della cinematografia», 9, settembre 1942, p. 36.

13
Review of Motion Pictures.
Il soggetto, che scorre sul filo della lievità della psicologia femminile delle protagoniste,
è incentrato su una ricca trama che dà luce e vita ai temperamenti di alcune compagne di
studi legate tra loro da profonda amicizia, sebbene appartengano a ceti sociali differenti. Tra
loro vi è l’ingenua, la sentimentale, la sognatrice, quella dotata di esuberante e precoce
femminilità, e quella dal temperamento chiuso e misterioso, tutte con il loro tormento
particolare, colorito di venature sentimentali. Come spiega Luciana Peverelli – in un articolo
pubblicato su «Film: settimanale di cinematografo teatro e radio» nel novembre 1941 – nel
romanzo della sua amica Wanda Bontà lei ritrova il mondo della loro adolescenza: la loro
scuola, le loro compagne, i loro professori38, tanto da proporsi come sceneggiatrice:

Wanda, le dissi – se mi vuoi bene, mi devi dare una prova di fiducia: permettere che
sceneggi io il tuo romanzo. Conosco il sistema dei bravi sceneggiatori: innesterebbero
tutt’altra cosa nel tuo romanzo ed esso perderebbe tutto il suo profumo. […] Se il regista
è un uomo non potrà capire «Signorinette», perché per quanti sforzi faccia, non sarà mai
stato una signorinetta!39.

Con l’idea di dare vita a un’opera completamente “al femminile” le due scrittrici si
rivolsero al produttore per scongiurarlo di affidare la regia a Maria Teresa Ricci Bartoloni,
fiduciose che il film avrebbe preso una piega originale: «insomma, “Signorinette” sarà un
film fatto da donne, e le protagoniste, quasi tutte donne, saranno scelte tra noi, non già tra
dive, ma tra ragazze semplici e naturali» 40. In realtà le cose non andarono come le
immaginarono le due amiche. La regia è firmata, infatti, da Luigi Zampa, mentre Maria
Teresa Ricci Bartoloni compare solamente come aiuto regista. Probabilmente la Imperial
Film preferì affidare la direzione artistica a Luigi Zampa, che si era già pienamente rivelato
come regista e che con Fra Diavolo aveva saputo acquistarsi «il favore del pubblico per la
vivida, agile ed estrosa rievocazione del celebre bandito napoletano» 41, piuttosto che a un
regista emergente, soprattutto se donna. Neppure la scelta delle “signorinette” fu libera: esse,
infatti, hanno i volti di alcune delle attrici più in vista del momento: Carla Del Poggio, Paola
Veneroni, Nella Paoli, Anna Mauri e Giovanna Galletti.
Se ad alcuni il soggetto apparve inconsistente, la sceneggiatura fu invece accurata ed
intelligente, intessuta di dinamismo cinematografico, varia nelle sue ambientazioni e
aderente perfettamente alle parole della scrittrice 42. Tra i critici che non risparmiarono
giudizi impietosi sul film vi fu Giuseppe De Santis, che sulle pagine di «Cinema:
quindicinale di divulgazione cinematografica» affermò: «hanno sceneggiato Luciana

38
«Le creature così umane, semplici, vive del romanzo siamo noi, come eravamo allora. La piccola Iris è
Wanda, in Renata c’è un po’ di me, la Paolona era la nostra cara amica» (cfr. LUCIANA PEVERELLI, Un film fatto
da donne, in «Film: settimanale di cinematografo teatro e radio», 45, 15 novembre 1941, p. 2).
39
LUCIANA PEVERELLI, Un film fatto da donne, in «Film: settimanale di cinematografo teatro e radio», 45, 15
novembre 1941, p. 2.
40
Ibidem.
41
Cfr. VILMI, Signorinette, in «Lo Schermo: rassegna mensile della cinematografia», 9, settembre 1942, p. 37.
42
Ibidem.

14
Peverelli, Luigi Zampa e Gherardo Gherardi conservando una fedeltà assoluta ai principi che
informano i romanzetti per le signorine per bene. E, bisogna proprio dirlo, mai retorica e
banalità sono state impastate tanto degnamente» 43.
Il racconto si dipana tra i banchi di scuola di alcune fanciulle adolescenti. Renata, gaia,
bella, sfrontata, è la più precoce delle ragazze: sogna di diventare presto signorina ed avere
un’avventura amorosa. Molto ricca, frequenta l’ambiente borghese e mondano, e comincia a
flirtare con i ragazzi, innamorandosi prima del giovane odontoiatra Riccardo, per poi
sognare una travolgente avventura d’amore con il maturo letterato Marco Lancia. Presto,
però, si accorge della complessità di un rapporto con un uomo tanto più grande di lei e
capisce di dover riappropriarsi della sua giovinezza. Parallelamente Iris, la sognatrice e
romantica poetessa in erba, dolce e cagionevole, con una madre malata e la responsabilità
del bilancio familiare, cerca di riconciliare Riccardo e Renata. Anche lei scopre le sue prime
frustrazioni, nel momento in cui il padrino deride i suoi componimenti poetici. Tuttavia,
riesce a ritrovare la fiducia nella vita e a scrivere nuove poesie. Paola, la sentimentale dalla
voce d’angelo, grassottella e complessata, ma di buon cuore, soffre della propria goffaggine
e del suo aspetto che le causa beffe da parte delle compagne. La sua unica consolazione è
quella di essere la prediletta del professore di canto – di cui è segretamente innamorata – per
la sua incantevole voce. Infine Gisella, con il suo mistero sul fidanzato lontano e una lite in
famiglia, non sembra poi tanto fatale quanto le parvenze potrebbero far credere 44. Il film,
girato interamente negli stabilimenti di Cinecittà, ricorda il modello classico di Maddalena,
zero in condotta, secondo lungometraggio diretto da Vittorio De Sica, che mette in scena le
avventure di un gruppo di teenager italiane dei primi anni Quaranta.
Sul registro decisamente fiabesco si colloca La principessa del sogno, girato negli
stabilimenti FERT di Torino nel 1942 e diretto da Roberto Savarese e Maria Teresa Ricci
Bartoloni, con la fotografia di Ugo Lombardi, futuro direttore di produzione di Paisà di
Rossellini. Il film cerca di appropriarsi di un linguaggio fantastico in ogni aspetto, grazie
anche al ricorso di modesti effetti speciali, che lo accostano vagamente a Il mago di Oz,
anche se in una versione più contenuta e decisamente meno grandiosa. Tratto da un
«racconto al glucosio»45 di Luciana Peverelli, il film racconta la storia di Elisabetta,
interpretata da Irasema Dilian, eterea e moderna Cenerentola che vive in un orfanotrofio e
sogna di conoscere la madre che l’ha abbandonata. Il riferimento alla celebre protagonista
della fiaba di Peurrault emerge sin dalle prime sequenze, dove si incontra la fanciulla nel suo
ambiente predestinato: il focolare. Anche lei, come quasi tutte le protagoniste dei romanzi di
Peverelli, cerca di evadere da una situazione che la opprime, convinta di dover attendere il
ritorno della madre – una donna di nobile casato – che la riporti al suo castello.
L'immaginazione e il racconto sono per lei una risorsa importante: grazie ad essi, infatti,
riesce a far dimenticare alle altre orfane la loro condizione infelice. Un giorno, però, arriva
43
Cfr. GIUSEPPE DE SANTIS , I film di questi giorni, in «Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica»,
160, 25 febbraio 1943, p. 122.
44
Cfr. VILMI, Signorinette, in «Film: settimanale di cinematografo teatro e radio», 9, settembre 1942, pp. 36-37;
X, A tu per tu con i sogni, in «Film: settimanale di cinematografo teatro e radio», 47, 21 novembre 1942, p. 13.
45
Cfr. VICE, in «Corriere della Sera», 5 settembre 1942.

15
all’istituto una donna elegante che Elisabetta crede sia la madre tornata a riprenderla. In
realtà si tratta di un’attrice di varietà che vuole adottare una bambina. Elisabetta lascia
l’orfanotrofio per recarsi a casa della donna, dove condurrà una vita privilegiata, anche se
costretta a servire le amiche della padrona di casa come una cameriera. La donna la giudica
superba, e la ragazza si sente fuori luogo nella nuova dimora. La sua camera è l’unico spazio
destinato al sogno, dove si perde in una fiaba in cui è protagonista: in un bosco magico
incontra un principe su un cavallo bianco che si innamora di lei e la sposa. Il giovane del
sogno, interpretato da Antonio Centa, esiste davvero, e quando i due si incontrano, si
innamorano perdutamente, ma la famiglia del principe si oppone al matrimonio. La svolta
nel film avviene nel momento in cui la fanciulla accetta la sua umile condizione e, dopo
essere venuta a conoscenza della reale identità di sua madre – l’inserviente dell’istituto
Margot – scopre che la vera nobiltà è quella d’animo. Viene dunque ricompensata, poiché,
mentre ricorre a una fiaba per distrarre le bimbe dell'orfanotrofio, giunge il suo principe
azzurro che le chiede di sposarlo, conducendo la fiaba verso il rassicurante lieto fine, «com’è
eterna regola delle favole ben congedate, da Biancaneve ai Miserabili»46. La critica si mostrò
nel complesso piuttosto indifferente al film, mentre il soggetto di Luciana Peverelli,
imperniato sul motivo delle differenze di classe, fu generalmente considerato un testo
ingenuo, «profondamente compromesso da un potente squilibrio tra gli elementi fiabeschi e
quelli realistici» 47.

Una passione inarrestabile


Nel novembre 1942 iniziano le riprese di Gran Premio, film d’esordio del produttore
cinematografico Giuseppe D. Musso 48, realizzato assieme a Umberto Scarpelli, e tratto
dall’omonima novella di Luciana Peverelli. La sceneggiatura scritta dalla stessa autrice
insieme a Belisario L. Randone e al regista, racconta la storia di un ex proprietario di
scuderie da corsa che, ridotto in miseria, partecipa ad un’asta dove riesce ad accaparrarsi una
cavalla che tempo prima aveva fatto parte della sua scuderia. Dopo qualche tempo la bestia
dà alla luce un puledro che diviene il compagno di giochi della figlia minore. Il cavallino
promette molto bene e viene allenato per correre e divenire un futuro campione. Diventa,
infatti, il favorito del Gran Premio cittadino, nonostante i loschi traffici di un ambiguo
commerciante privo di scrupoli, ottenendo una splendida vittoria. Il film è girato negli
stabilimenti di Cinecittà, ma alterna riprese all’Ippodromo di Villa Glori con immagini di
repertorio di San Siro e di qualche altro campo.
Anche nel dopoguerra il cinema si accosta alla narrativa rosa accentuando, però, i toni
realistici. Il romanzo rosa di origine post-dannunziana, all’insegna delle ambientazioni
sociali aristocratiche e delle passioni violente, viene superato per lasciar spazio a contesti più
umili e quotidiani, in cui ambientare le vicende amorose delle protagoniste, più prossime

46
Cfr. F., La principessa del sogno ovvero: un fiore all’occhiello, in «Film: settimanale di cinematografo teatro
e radio», 17, 25 aprile 1942, p. 15.
47
SANDRO DE FEO, La principessa del sogno, in «Il Messaggero», 8 settembre 1942.
48
Accreditato anche come Giuseppe Musso Jr, e spesso confuso con il regista francese Jeff Musso.

16
alla realtà delle lettrici, e ricche di personaggi dalle passioni meno accese ed astratte, proprio
come quelle narrate da Luciana Peverelli 49. Dal romanzo Il bacio dell’aurora è tratto
François il contrabbandiere, film d’esordio di Gianfranco Parolini, attivo in seguito con lo
pseudonimo di Frank Kramer, e sceneggiato assieme a Umberto Fioravanti. Protagonista
della storia è François, un giovane che si trova costretto a lasciare l’Italia perché coinvolto in
un traffico di stupefacenti. Ritornato in patria dopo due anni, François si innamora di Silvia,
la figlia del boss dello “spaccio” che, dopo aver notato la viva simpatia fra i due, cerca di
mettere in guardia la ragazza, e affida ad un certo “Topo” l’incarico di uccidere François. Il
regolamento di conti causerà la morte di Liala, l’ex fidanzata di François, che non aveva mai
rivelato al giovane di aver avuto una figlia da lui. Un dramma strappalacrime ma a lieto fine,
che si conclude con una nuova vita per François: dopo aver scontato la sua condanna, egli
trascorrerà il resto dei suoi giorni insieme alla figlioletta e all’amata Silvia. Girato nel 1953
ed interpretato da Doris Duranti, il film circola solo nelle sale cinematografiche di alcune
regioni italiane, una strana lacuna se si pensa al favore di cui le scrittrici “femminili”
continuano a godere sul mercato degli anni Cinquanta.
Nel 1955 Luciana Peverelli partecipa alla stesura della sceneggiatura di Non c’è amore
più grande, assieme ad Alessandro De Stefani, con il quale ha già collaborato per la
realizzazione del film Violette nei capelli, e a Carlo Musso. Tratto da un soggetto di Luigi
Angelo Giunta, e diretto da Giorgio Bianchi, il film racconta la storia d’amore nata tra
Mario, un ricco possidente calabrese, e Luisa, una ragazza di modesta condizione. I due
decidono di sposarsi, benché il padre di Mario abbia negato il suo consenso. I due sposi si
trovano in ristrettezze: Mario cerca inutilmente un posto, e Luisa, in attesa di un bambino, in
seguito ad una caduta perde la speranza di poter essere nuovamente madre. Il giudizio del
medico, infatti, la getta nella più nera disperazione, poiché teme che la mancanza di figli
possa allontanare da lei il marito. Quando Mario, che nel frattempo ha trovato un lavoro,
parte per un lungo viaggio, Luisa si accorda con una povera donna, prossima al parto, che
acconsente a cederle il nascituro. Lo stratagemma potrebbe avere successo se a un certo
punto non uscisse di prigione il padre del bambino, il quale approfitta della situazione per
ricattare Luisa. La verità viene a galla e tutti finiscono in tribunale. Messi di fronte al fatto, i
giudici mostrano umana comprensione e Luisa, perdonata dalla legge e dal marito, adotta
come figlio il bambino.
Nate in un periodo in cui alle donne era preclusa la maggior parte delle opportunità
garantite agli uomini, queste opere riflettono il mutamento antropologico in atto nella società
italiana a cavallo tra le due guerre. Non più piegate al duro lavoro nei campi o all’esclusivo
ruolo di genitrici, le donne scoprono in questi anni il valore del tempo libero. Sempre più
spesso sentono l’esigenza di ritagliarsi degli spazi intimi da dedicare a se stesse, e li

49
Cfr. ANNA BANTI, Storia e ragioni del romanzo rosa, in Opinioni, Il Saggiatore, Milano, 1961, ( in
RUGGERO EUGENI, Film, sapere, società: per un'analisi sociosemiotica del testo cinematografico, Vita e
Pensiero, Milano, 1999, p.77).

17
destinano soprattutto allo sport, alla lettura e al cinema. Grazie alle riviste di moda e
spettacolo e alla visione di film “leggeri” – commedie brillanti o melò – esse maturano il
desiderio di sentirsi partecipi e protagoniste attive della propria esistenza, elaborando valori
diversi rispetto a quelli tradizionali. Se è ancora prematuro parlare di emancipazione
femminile in Italia, in questi anni, non si può negare l’importanza del ruolo avuto dal mondo
mediatico nel costruire una nuova forma di coscienza e di identità femminile utile alla
formazione di un humus culturale in cui le donne hanno potuto trovare occasioni di
riflessione e confronto. Il cinema pensato per le donne e dalle donne consente di riconoscere
sullo schermo le proiezioni degli stessi turbamenti del pubblico femminile. Non solo:
scorgere nei racconti per immagini dei volti simili ai propri e assistere a storie molto
prossime alle esperienze quotidiane, fa emergere le donne, anche se illusoriamente e
provvisoriamente, dall'indistinzione dell’anonimato. La presenza sempre maggiore di figure
in cui il pubblico femminile possa identificarsi, nelle copertine delle riviste o come
protagoniste di racconti e visioni palpitanti sullo schermo, si ripercuote necessariamente sul
modo di pensare e concepire se stesse; si affacciano timidamente nuove immagini femminili,
con inedite ambizioni, desideri e aspettative – pur ricondotte semplicisticamente nel
miraggio del “principe azzurro” – proiettate verso il futuro e, soprattutto, orientate alla
scoperta di sé. Dall’altra parte l’industria culturale aderisce al mutamento sociale in atto e
non può che contribuire ad esso, stimolando coi propri prodotti lo sviluppo di nuove
abitudini e necessità nelle donne, identificate non più solo come custodi del sacro focolare
ma, più convenientemente, come preziose consumatrici dell’era moderna.

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