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Mentre Marx colloca al cuore della produzione capitalistica il rapporto tra capitale e lavoro, e che quindi ci sia
estrazione di plus valore durante il processo lavorativo (il che stabilisce una contrapposizione di classe tra la
borghesia, detentrice dei mezzi di produzione, e il proletariato, che è costretto a vedere in cambio di un salario
la propria forza lavoro), per Baran e Sweezy la contrapposizione tipica del modo di produzione capitalistico,
e che spiega le relazioni di sfruttamento che poi si instaurano a livello internazionale tra i diversi paesi, è quella
tra stati ricchi e stati poveri ( tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati).
L’origine storica del capitalismo per Frank deve essere retrodatata rispetto alle teorie correnti, egli sposta
l’origine del sistema capitalistico nelle prime fasi di colonizzazione del Nuovo Mondo. In particolare, secondo
Frank, il modo di produzione capitalistico è caratterizzato da tre contraddizioni:
• L’espropriazione del surplus economico e la sua appropriazione da parte di una minoranza: l’idea anche qui
che ci sia un surplus economico della società e che questo venga continuamente appropriato d aparte di
una minoranza. E questo non riguarda solo i rapporti tra la metropoli e le colonie (o per dirla come
Frank, tra il centro metropolitano e i satelliti periferici), ma riguarda l’intera catena gerarchica che parte
dalla metropoli e arriva ai centri nazionali, da questi penetrano i centri locali fino a pervenire ai piccoli
contadini ed ai lavoratori senza terra, cioè c’è una gerarchia di sfruttamento che consistono nel fatto che
a ogni anello della catena c’è una minoranza che si appropria del surplus economico prodotto dalla mag-
gioranza che sta al di sotto. Frank si esprime in questo modo:
“ad ogni anello di questa catena, una minoranza dominante esercita un potere monopolistico
sulla maggioranza sottostante, espropriando una parte o la totalità del surplus da questa pro-
dotto e appropriandosene per il proprio uso nella misura in cui non viene a sua volta espro-
priata da una minoranza sovrastante ancora più esigua”
• La polarizzazione del sistema capitalistico in un centro metropolitano e in satelliti periferici: sviluppo e
sottosviluppo sono due facce della stessa medaglia. Una volta che le colonie vengono inglobate nel mer-
cato capitalistico è chiaro che si determina in esse e nel tempo si consolidano delle condizioni di sottosvi-
luppo, a cui corrisponde lo sviluppo dei paesi che formano la metropoli. Una volta creatosi un legame di
dipendenza, lo sviluppo della metropoli cresce e si accresce il sottosviluppo nelle colonie, condizionando
la loro struttura interna. Quindi è obbiettivo della minoranza (il centro metropolitano), a mantenere il sot-
tosviluppo. È il sottosviluppo ad alimentare i paesi sviluppati.
Come potrebbero i paesi sottosviluppati a uscire da questa condizione? Secondo Frank l’unico modo
è interrompere le relazioni economiche con la metropoli e con i paesi sviluppati. Quindi giungere a
una sorta di autarchia. Finché non si cambia questo sistema, i paesi sottosviluppati non potranno mai
emanciparsi.
• La continuità della struttura metropoli-satellite nel corso dell’intera storia dello sviluppo capitalistico: la
contraddizione tra sviluppo e sottosviluppo non è una tappa della storia del capitalismo, ma una sua carat-
teristica costitutiva che si riproduce continuamente a causa dell’espansione del capitalismo verso il tra-
guardo finale del mercato mondiale. Tutta questa non è solo una fase che verrà superata, ma per Frank è
un aspetto strutturale del modo di produzione capitalistico che si perpetua indefinitivamente a causa
dell’espansione del capitalismo stesso.
Rispetto a Marx cambiano le coordinate, perché per Marx il processo di produzione del capitale av-
viene principalmente nel corso del processo lavorativo, mediante l’estrazione di surplus dalla forza
lavoro impiegata. Mentre per Frank e per i teorici della dipendenza il capitalismo si basa sull’estra-
zione di plus valore dalla forza lavoro impiegata nel processo lavorativo, ma si basa sull’espropria-
zione del surplus prodotto dai paesi satelliti da parte delle metropoli, e quindi dello sfruttamento dei
paesi sottosviluppati da parte dei paesi sviluppati. Sempre una relazione di sfruttamento è, ma non è
solo più tra borghese e proletario, ma tra paesi ricchi e poveri. Ma per i teorici della dipendenza non
c’è nulla di naturale nel sottosviluppo (come invece pensava la teoria dello sviluppo economico, che
vedeva nel sottosviluppo la fase iniziale da cui sono partiti tutti i paesi), il sottosviluppo è un PRO-
DOTTO del capitalismo, è quindi per sottrarsi a questa logica di sfruttamento bisogna interrompere,
da parte dei satelliti periferici ogni relazione commerciale coi paesi sviluppati.
Da parecchi è stata messa in discussione la nozione di base di queste teorie (quella Di Frank della Teoria della
dipendenza e quella di Baran e Sweezy del Capitalismo monopolistico) ovvero quella di surplus economico
della società. Ed è messa in discussione perché il surplus economico della società originerebbe dal fatto che in
un a fase di capitalismo monopolistico in cui la pressione concorrenziale viene meno, a ogni diminuzione dei
costi di produzione corrispondo una crescita esponenziale dei profitti. Quindi il presupposto è che diminuisca
o addirittura venga meno la concorrenza tra le imprese che è quello che secondo i teorici del capitalismo
monopolistico dominato dalle società per azioni giganti avverrebbe di fatto.
• In effetti tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni’70 la competizione inter-capitalistica (quindi la con-
correnza tra le varie imprese) si è ripresa, quindi il surplus economico o non c’è più, o non è più crescente,
si ridimensiona. La concorrenza tra le imprese capitalistiche è tornata a essere forte.
• Altra critica che viene fatta è nei confronti dell’idea dell’aristocrazia operaia, ovvero che ormai la classe
lavoratrice sia per la maggior parte integrata nel capitalismo e quindi sia passiva politicamente. La critica
prende spinta proprio perché alla fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 la classe operaia si mobilitò (in
Italia venne chiamato l’autunno caldo 1969), che ha portato a grandi conquiste sindacali – es: lo statuto
dei lavoratori- e che contraddice almeno in parte l’idea che invece ormai la classe operaia sia integrata nel
sistema e politicamente inerti e indifferenti e passivi. Questa fase di mobilitazione di massa che investe
tutti i paesi occidentali sembra dimostrare il contrario.
• Altra critica viene fatta sulla concezione di stato che queste teorie presuppongono (cioè quelle nei quali sia
nel capitalismo monopolistico che in quelle della dipendenza non c’è posto l’autonomia dello stato, che
vuol dire che non c’è posto per l’autonomia politica rispetto alla sfera economica che è dominante). Que-
sta critica ha portato, soprattutto nella scienza politica, alla cosiddetta “riscoperta dello stato”.
Coloro che si riconoscono in questa riscoperta dello stato, negano che lo stato sia asservito agli inte-
ressi del capitale e che le classi politiche dei paesi satelliti siano asservite totalmente ai paesi svilup-
pati, quindi prive di autonomia politica, come sostenuto dalle due teorie prima citate (cioè la visione
riduzionista del ruolo dello stato e della politica). E non solo negano che lo stato sia così asservito agli
interessi del capitale come presuppongono queste teorie ma negano anche che le classi politiche dei
paesi che formano i satelliti periferici (le colonie) siano esse pure totalmente asservite ai paesi svilup-
pati e siano dipendenti da qui paesi. Credono che gli stati sottosviluppati godano di maggiore autono-
mia di quanta affermata nelle teorie.
• L’ ultima critica riguarda il concetto dell’imperialismo: a ragionare di questo è stato soprattutto “Giovanni
Arrighi”, il quale ha osservato che l’uso che in queste teorie si fa del termine IMPERIALISMO sia un uso
inappropriato, nel senso che si riscopra una certa vaghezza del concetto di imperialismo, che arriva dal
fatto che tutti questi teorici che abbiamo studiato di fatto considerano l’imperialismo e lo stadio monopo-
listico dello sviluppo capitalistico come sinonimi. E considerano l’imperialismo e lo stadio monopolistico
del capitalismo come l’ultimo stadio dello sviluppo capitalistico. Se tu pensi che imperialismo e capitali-
smo monopolistico vogliano dire la stessa cosa e rappresentano lo stadio finale dello sviluppo capitalistico
e poi vedi che poi invece il capitalismo continua, cioè che non crolla, sarai costretto se non vuoi buttare a
mare la tua teoria a stiracchiare il concetto. Cioè a ricomprendere sotto la voce di imperialismo duna serie
di situazioni tra loro molto diverse. Arrighi dice che “si parla di imperialismo sia in presenza di un dominio
politico formale sia in presenza di un controllo informale, si parla di imperialismo quando per esempio gli
stati uniti forniscono a dei regimi autoritari, ma si parla di imperialismo anche quando gli stati uniti per
esempio forniscono appoggi a dei processi di democratizzazione, si parla di sfruttamento delle colonie da
parte della metropoli quando per esempio ci si appropria delle materie prime di cui questi paesi sono ricchi
ma si parla di imperialismo anche per esempio quando i paesi sviluppati attraversi gli aiuti allo sviluppo
erogano degli aiuti ai paesi sotto sviluppati”
L’imperialismo diventa un qualcosa in cui facciamo stare tutto e il contrario di tutto, perché se vo-
gliamo considerare l’imperialismo come lo stadio monopolitisico del capitalismo, ultimo stato del ca-
pitalismo, è necessario ampliare il concetto dell’imperialismo, perché lo stadio del capitalismo mono-
polistico non dà segni di finire.
Se ti pensi chi l’imperialismo, sinonimo di capitalismo monopolisticco definisca la fase finale dello
sviluppo capitalistico e poi vedi che lo sviluppo capitalistico continua, se non vuoi rinunciare alla tua
teoria devi farci entrare, sotto la categoria di imperialismo e capitalismo monopolistico tutti gli svi-
luppi successivi. Questo significa che osservare l’imperialismo diventa una formula utilizzata per in-
dicare genericamente qualsiasi forma di subordinazione o di sfruttamento che abbia a che fare con la
dinamica capitalistica e che è una definizione piuttosto vaga.
Capitalismo storico
Tutte le teorie mpondo si basano su una logica accumulativo capitalistica ma il capitalismo storico si è affer-
mato a partire dal XIV secolo. Ed è un sistema (l’economia mondo capitalistica) in cui si afferma come pre-
valente a livello sociale una logica operativa per cui il surplus realizzato nel processo produttivo deve essere
adoperato con l’obiettivo e l’intento primario della sua auto espansione, quindi reinvestito per l’auto espan-
sione. Quindi la strutturazione del sistema internazionale in stati nazionali indipendenti e sovrani (stati west-
faliani) è la modalità attraverso cui meglio si riesce a realizzare quella espansione del capitalismo attraverso il
consolidamento di mercati sempre più ampi dove poter vendere le merci che sono prodotte.
Anche Wallerstein come Frank osserva come il capitalismo è strutturata in maniera tale che all’interno di essa
si determinano dei meccanismi di scambio ineguale. Cioè delle relazioni di sfruttamento. In particolare, si
realizza un processo di polarizzazione tra il centro e le periferie del sistema. Quindi si determina una gerarchia
anche politica che però non è altro che la conseguenza della divisione del lavoro propria dell’economia mondo.
Questo scambio dell’economia ineguale fa si che il surplus prodotto nella periferia tenda a spostarsi verso il
centro.
La collocazione di un paese nel centro o nella periferia di questa economia mondo non è una collocazione data
una volta per tutte. Frank riteneva che i paesi sottosviluppati potessero emanciparsi dalla loro condizione di
sottosviluppo solo se interrompevano le loro relazioni economiche commerciali con i paesi sviluppati.
Wallerstein invece sostiene che un paese nel corso della sua storia può magari essere prima parte della periferia
dell’economia mondo e poi entrare a far parte della metropoli, e potrebbe anche aver luogo il processo inverso.
In generale, una periferia nell’economia mondo è il settore geografico la cui produzione riguarda essenzial-
mente beni di scarso valore, ma che è parte del sistema globale di divisione del lavoro, perché le merci sono
indispensabili nell’uso quotidiano.
-La prima differenza tra centri e periferie dell’economia mondo sta nella diversa produzione merceologica,
nelle periferie le materie prime e nel centro i prodotti manufatti.
-Anche nelle modalità di controllo della forza lavoro, c’è lavoro coatto, in alcuni casi schiavile nelle periferie
e c’è lavoro salariato nei centri.
-Muta anche la configurazione dello stato, di solito i paesi della periferia dell’economia mondo hanno forme
di organizzazione statati deboli mentre invece sono stati forti quelli dei paesi centrali.
- Anche i rapporti di potere politico possono essere diversi, nel senso che nelle aree periferiche dell’econo-
mia mondo prevale l’aristocrazia rurale, i grandi latifondisti terrieri. Mentre negli stati centrali dell’economia
mondo prevale la borghesia industriale.
E a ogni livello c’è una maggioranza che si appropria del prodotto della minoranza. Ma per Wallerstein un
paese nel corso della sua storia può essere prima parte della periferia, poi far parte della metropoli e vice-
versa, quindi un paese originalmente metropoli e poi diventare periferia. Generalmente i paesi del centro
sono paesi forti, le periferie sono deboli. Nei paesi del centro prevale solitamente la borghesia industriale,
nelle periferie prevale l’aristocrazia latifondista.
Wallerstein ci parla anche di aree geografiche che non fanno ancora parte dell’economia mondo, ma che po-
tranno essere incorporate e di paesi che lui definisce Semiperiferie, cioè una via di mezzo tra centro e periferia,
cioè dei paesi che per alcuni degli aspetti che abbiamo visto (cioè la produzione merceologica, le modalità di
controllo della forza lavoro, la configurazione dello stato) presentano aspetti simili a quelli dei paesi centrali e
altri invece simili a quelli dei paesi periferici.
Comunque, ogni economia mondo tende a produrre una forte gerarchia tra le diverse aree geografiche e tra gli
stati. E se dal ‘500 l’unica forma che ha assunto il sistema mondo è quella dell’economia mondo perché nessun
tentativo di costruire un impero mondo è andato a buon fine.
A più riprese nel corso dell’età moderna e contemporanea, alcuni stati hanno tentato di conquistare nel si-
stema internazionale una posizione di supremazia. Wallerstein dice che l’egemonia (questa parola viene
usata in maniera diversa da Wallerstein) si afferma soltanto:
“quando la corrente rivalità tra le cosiddette “grandi potenze” è così sbilanciata che una potenza può
massicciaemte imporre le sue regole e i suoi interessi nell’arena economica, politica, militare e anche cul-
turale”
Egli fa derivare l’egemonia principalmente dall’economia. Cioè le radici dell’egemonia sono essenzialmente
delle radici economiche. Perché la base materiale dell’egemonia risiede nella capacità delle imprese dello stato
egemone di operare in modo più efficiente rispetto alle imprese di qualunque altro paese nelle tre arene fon-
damentali che sono quelle della produzione industriale, del commercio e della finanza. Quando uno stato riesce
a dominare in queste tre arene fondamentali allora riesce a diventare potenza egemone. Le imprese che risie-
dono nello stato egemone sono più efficienti delle imprese di qualunque altro stato in queste tre dimensioni
fondamentali.
Wallerstein individua solo tre cicli egemonici nella fase della modernità:
• L’egemonia delle province unite olandesi nel 1624-1672;
• L’egemonia del regno unito durante il regno della regina Vittoria (1800);
• L’egemonia degli USA nel secondo dopoguerra.
Anche Wallerstein si pone il problema di quando e perché una potenza egemone comincia a declinare. Cioè
quali sono le condizioni che determinano l’avvicendamento dei cicli egemonici. E se per Wallerstein le radici
dell’egemonia sono principalmente radici economiche allora anche le ragioni del declino della potenza ege-
mone saranno economiche. Dipenderanno dal progressivo indebolimento delle imprese che risiedono nel ter-
ritorio dello stato egemone e la loro capacità di essere più efficienti delle altre imprese negli altri stati nei
settori fondamentali. Quindi quando altre imprese di altri stati iniziano ad essere più efficienti allora inizia il
declino della potenza egemone.
Lui rifacendosi ad una teoria dei cicli di un economista russo dei primi del 900, osserva come ogni ciclo
egemonico preveda una prima fase A, in cui un le imprese dello stato egemone riescono a mantenere il mono-
polio in determinati settori cruciali, e di una seconda fase B in cui invece i monopoli cominciano ad esaurirsi
e cominciano i conflitti per il controllo di nuovi monopoli emergenti.
In particolare, Wallerstein osserva che una delle ragioni principali per le quali una potenza egemone può de-
clinare sta nel fatto che una volta che:
“sì è venuta a creare una nuova egemonia per mantenerla sono necessari finanziamenti massicci che inevi-
tabilmente né segnano il declino e scatenano le lotte per la successione”
la necessità di conquistare l’egemonia e di diventare il luogo principale dell’egemonia spinge gli stati a do-
tarsi di una forza militare tale da vincere una guerra mondiale, ma una volta che si è venuta a creare una
nuova egemonia, per mantenerla sono necessari finanziamenti massicci, che ne segnano il declino e che sca-
tenano le lotte per la successione.
Se le ragioni per cui un’egemonia emerge sono economiche, anche le cause del declino sono economiche.
Egli scrive:
“la conservazione di una soverchiante supremazia militare e di un primato politico non può che en-
trare in contrasto con il declino dell’efficienza relativa delle imprese del paese egemone”