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Prima lezione 16 ottobre: “Petrocchi”

14 Settembre 2021 saranno 700 anni dalla morte di Dante.

Dante nacque sotto il segno dei gemelli, ma non sappiamo la data precisa. A Ravenna, quando morì, gli
furono attribuiti onori insoliti per l’epoca, segno che terminò la sua vita come un personaggio famoso.

L’ultimo centenario, nel 1921, cade poco prima del periodo fascista e, proprio in quel periodo, la figura di
Dante viene molto strumentalizzata dal fascismo.

Dante non ha sempre avuto tutto il prestigio di cui gode ora. Per molti secoli la sua fama era stata oscurata
da Petrarca, considerato più raffinati dal punto di vista della poetica. Viene sì collocato nel pantheon della
poetica italiana, ma, inizialmente, non il grande modello (che era Petrarca per la poesia e Boccaccio per l
prosa). Il suo culto ha un brusco risveglio tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Del resto come
potevano, in periodo illuministico, interessarsi ad un poeta che si era occupato dell’aldilà? Uno dei primi ad
interessarsi su Ugo Foscolo, con le sue lezioni londinesi, è in questo periodo che avviene il sorpasso ai danni
di Petrarca. Sarà in epoca risorgimentale e romantica ad essere riscoperto e a diventare il vero fulcro della
storia italiana.

Dante diventa padre della lingua italiana, a differenza di Petrarca aveva assunto un impegno civile. Viene
riconosciuto per il suo patriottismo.

Dante fu uno strumento utile per i patrioti italiani, tra cui Giuseppe Mazzini. Veniva considerato un grande
patriota.

Egli era un guelfo bianco, ma Foscolo affermò che in lui c’era una sorta di ghibellinismo sotterraneo, e
neanche troppo. Col suo mettersi contro il papa e la chiesa, assume quella sfumatura neoghibellina. Questa
riscoperta, però, contiene in sé una forzatura del personaggio.

Questa nazionalizzazione di Dante subirà la sua impennata all’altezza della prima guerra mondiale. Prima di
entrare in guerra gli interventisti strumentalizzarono alcuni versi danteschi.

Non tutto quello che fu prodotto in quel periodo è mera propaganda. Alcuni provarono a farne una lettura
apolitica, venivano chiamati “dioscuri”. Croce e Gentile (ministri della pubblica istruzione), massimi esperti,
fecero una lettura di Dante contrastante. Nascono entrambi dal neoidealismo, la fase filosofica che viene
dopo lo spegnimento dell’ideologia del positivismo. C’è questa rinascita neoidealista a cui aderiscono
entrambi. Nascono dallo stesso ceppo e radice a prenderanno due diverse strade. Croce si dedicherà
all’interpretazione storicistica ed estetica nella lettura delle opere d’arte, Croce svilupperà la corrente
filosofica dell’attualismo. Inoltre, Croce fu un antifascista, Gentile un fascista. Entrambi redigeranno
manifesti degli intellettuali, antifascisti e fascisti.

Il testo finale della Divina Commedia è frutto di un compromesso tra numerosi modelli della Divina perché
non ci è giunto il manoscritto integrale. Ma non solo della Commedia, bensì di tutti i suoi scritti. Di Dante
non abbiamo nulla, nemmeno la sua firma o la sua calligrafia.

In parte questa mancanza ha a che fare con la sua vita da esule.

Alcuni manoscritti furono rovinati dalle continue ricopiature. Gli ultimi tredici canti del Paradiso erano stati
persi, poi (racconterà Boccaccio) furono ritrovati nell’intercapedine del muro dal figlio Jacopo.

Irrimediabilmente perduto il manoscritto originale, l’attuale testo è arrivato a noi tramite un insieme di 600
(800 se anche i parziali) manoscritti della Commedia. Il lavoro del filologo è impressionante. Ovviamente
non tutti sono corretti, presentano tutti una variante testuale. Il filologo lavora sugli errori, tramite gli errori
riesce a lavorare sulle parentele tra codici. È impossibile leggere tutti i manoscritti e paragonarli tutti tra di
loro. La presenza di errori uguali o simili genera legami di parentela tra manoscritti, l’uno è stato scritto
dall’altro.

Ancor più pericolose per il filologo sono le varianti, ovvero modifiche dell’autore o dello scriba (variante
congetturale) che non sa cosa scrivere e prende una decisione propria. Le più pericolose sono le varianti
adiafore, ovvero quelle indifferenti per il significato del testo. Parole sostituite o modificate che
apparentemente funzionano lo stesso, hanno comunque un senso logico all’interno della frase.

Essendo impossibile paragonarli tutti, alcuni filologi (tra cui Michele Barbi) si erano accorti che vi erano
errori che venivano ripetuti, sempre presenti in zone dette sensibili. Michele Barbi ne individuò 396, luoghi
dove più frequentemente si erano verificati errori, li chiamò “loci critici”.

Così si pensò di paragonare soltanto quei loci critici e così fu fatto nell’edizione critica di fine 1800 fino
all’edizione critica del 1921, data del centenario.

Questo passo avanti, però, non bastava ancora per poter arrivare ad un testo unico e condiviso.

Un’edizione critica fu affidata a Giorgio Petrocchi che, in dieci anni, indagò la mole gigantesca dei
manoscritti. Al termine del suo lavoro venne fuori il suo stemma codicum che resta l’ipotesi di ricostruzione
del testo della Commedia più attendibile che abbiamo.

Redatto nel 1966/1967 e premesso all’edizione critica che cambia anche il nome alla Divina Commedia,
togliendo l’aggettivo Divina posto da Boccaccio. La chiama “Commedia secondo l’antica vulgata”, ovvero
secondo gli antichi manoscritti.

Petrocchi tiene presente non tutti i manoscritti, ma solo quelli datati tra la morte del poeta (1321)
all’operazione culturale che fece Boccaccio (1355) che iniziò la ricopiatura del testo della Commedia per
regalarlo a Petrarca che era sempre stato snob nei confronti dell’opera.

Boccaccio, per rendere il testo della Commedia più piacevole a Petrarca e a chi ascoltava le sue lecture
dantis, ne modificò la sintassi.

Petrocchi così fece riferimento solo ai testi e manoscritti che furono scritti prima, ovvero ventisette.

Le lettere in corsivo sono i manoscritti perduti ma che possiamo ricostruire dai codici che abbiamo. Le sigle
sono i manoscritti che possediamo, sono l’abbreviazione del nome del codice che coincide col proprietario
o con la sigla della biblioteca che lo possiede.

Sono presenti due macrogruppi: alpha e beta. I codici del ramo alpha sono stati allestiti e ricopiati in ambito
toscano, quelli del ramo beta (molto minori) sono codici allestiti in ambito padano-romagnolo.

Prima di Petrocchi era sempre stato privilegiato il ramo alpha e in particolare il codice Trivulziano (Triv.).

Petrocchi non si fida del ramo alpha, anche perché essendo più folto di manoscritti richiede più ricopiature,
che indubbiamente riportano più errori. Non si fida, inoltre, per un altro motivo, ovvero perché il ramo
alpha era stato ricopiato nella bottega di Ser Nardo da Barberini, copista di professione, i cui allievi
ricopiavano in serie i codici, quindi di fattura non pregiata. Petrocchi diffida dai poeti perché tendono a
correggere il testo manipolandolo.

Il codice Landiano del ramo beta vive di una particolare situazione. Si trova nella biblioteca di Piacenza, è
del 1936 e, esaminandolo con una lampada al quarzo, ci si accorge che il testo presenta una rasura, ovvero
una correzione fatta sulla pergamena (che veniva lisciata con la pietra pomice la quale permetteva di
riscriverci sopra). Venne fuori così che il codice venne scritto da un copista marchigiano, Antonio da Fermo,
per Beccario da Beccaria, e che circa vent’anni dopo una mano ignota aveva corretto la patina linguistica,
togliendo i padanismi e correggendo, tenendo presente i codici provenienti dal ramo alpha, quello toscano.
Il codice Landiano risulta uno dei più importanti perché non è troppo distante dall’originale.

Un altro codice importante è l’Urbinate, passato attraverso pochissimi passaggi e facilmente riconducibile
all’originale.

Il testo della Commedia che oggi leggiamo è scaturito dalla concordanza dei tre codici, per Petrocchi, più
simili all’originale che sono il Trivulziano, il Landiano e l’Urbinate.

Seconda lezione 19 ottobre: “I centenari danteschi”


Si celebrano due centenari di Dante, quello della nascita e della morte. Il secondo è più importante.

Dante nasce nel 1265 e muore nel 1321.

Celebrare i grandi personaggi con centenari serve anche ad avvalorare i modelli del patriottismo.

Spesso queste celebrazioni vengono strumentalizzate o assumono una valenza politica.

Il centenario del 1865 è importantissimo, è la prima vera festa nazionale dell’Italia unita. In questa
circostanza la figura di Dante viene molto strumentalizzata, si genera una vera e propria idolatria, viene
riscoperto come il primo teorico dell’Italia unita (pur non essendo così), veniva visto come un profeta
dell’unità.

Dante si presta benissimo ad incarnare quei valori civili e patriottici di cui l’Italia aveva bisogno. Inoltre, si
presta, grazie al suo ghibellinismo e alla sua visione (pur essendo un guelfo bianco).

Petrarca viene soppiantato da Dante, che era stato inizialmente posto in secondo piano.

Dante divenne il vero poeta di una poesia laica, civile e nazionale. Si prestava bene anche per la presenza, lo
studio e l’utilizzo delle invettive (presenti nella Commedia). Viene proposta un’immagine di Dante insolita,
quella del Dante “guerriero”, che in vita prestò servizio militare come prima linea di cavalleria dell’esercito
all’età di ventitré anni, partecipò inoltre alla battaglia di Campaldino.

Petrarca passivo, bellezza vuota.

Dante viene territorializzato, ciascun comune o paese che si vede citato nella Commedia dedica statue, vie
o piazze al poeta.

Le statue di Dante hanno tutte un particolare in comune. È un Dante fantastico, non risponde alla
descrizione fisica che ne fa Boccaccio, è possente, ha sempre la mano alta ad indicare qualcosa, è un Dante
guida e vate.

Fulvio Conti disse che il centenario del 1865 fu promosso dal basso, fu un moltiplicarsi di iniziative
provenienti dai piccoli comuni. Anche il re Vittorio Emanuele partecipò, ma più distaccato perché il Dante
che viene esaltato è quello repubblicano, quello della corrente che voleva l’Unità nazionale ma
repubblicana. In realtà Dante vagheggiava il ripristino dell’Impero ma sappiamo che il suo pensiero può
essere molto manipolato.

La città di Firenze rivendicò le ossa e le spoglie del proprio figlio, ma la risposta fu categoricamente
negativa. Esse sono riposte in una cappella a Ravenna, luogo di morte del poeta.

Il successo del centenario del 1865 portò all’idea di celebrare il centenario della visione dei tre regni della
Commedia nel 1900 (sappiamo che Dante ebbe la visione la settimana santa del 1300).
Terza lezione del 22 ottobre: “Benedetto Croce”
Benedetto Croce era un filosofo. Scriveva per la rivista “La critica”, essendo anche un critico letterario.

Il suo antifascismo fu tollerato dal regime, ebbe come compagna la casa editrice Laterza di Bari.

A differenza sua, una serie di intellettuali (come Gramsci) furono esiliati. A Croce non toccò tutto questo
perché egli era un filosofo già molto noto prima che il fascismo prese potere. Per Mussolini era
antipubblicitario, era un personaggio troppo ingombrante e famoso per trattarlo come fu fatto con
Matteotti e Gramsci, avrebbe destato troppo scalpore. Inoltre Croce fu sì uno degli oppositori del Regime,
già dal 1925, è pur vero che mai aderì ad ideologie politiche particolarmente pericolose per il Regime. Non
fu mai Marxista, mai vicino alle idee del Socialismo estremo. Non idealizzò mai correnti politiche opposte al
fascismo, si limitò a criticarne alcuni aspetti. Questo lo rese agli occhi di Mussolini non troppo pericoloso.
Così fu lasciato “in pace”, continuò così la sua carriera intellettuale ma in modo più riservato.

Croce fu, in prosecuzione di quella che era l’ideologia del suo maestro (ovvero Hegel), un teorico dello stato
etico. Da lui prese questo concetto, lo stato etico è il passo che precede lo stato totalitario (che poi fu
portato avanti dal fascismo). È uno Stato che è garante della distinzione tra bene e male, che promulga
delle leggi che inducono il cittadino a comportarsi secondo il bene e non il male. Stabilisce dei principi etici
per tutti.

Successivamente alla Prima Guerra Mondiale, della quale fu sostenitore, Croce modificò il suo pensiero e si
accorse, all’altezza della pubblicazione del suo libro su Dante, che la concezione dello Stato etico che guida
il cittadino verso un bene stabilito per legge e che entra massicciamente nella privacy del cittadino
stabilendo cosa deve fare e cosa no, trascinava pericolosamente verso lo stato totalitario, ciò che poi
accadde.

Gentile e Croce furono amici fino al ‘21/’22, ma già esistevano differenze nei loro pensieri. Croce iniziò a
rigettare lo stato etico, potendo essere un’anticamera pericolosa alla dittatura, Gentile rimase convinto
sostenitore dello Stato etico.

Uno degli aspetti che più ci interessano della filosofia di Croce è l’estetica, uno dei suoi pezzi forti. Chiedersi
cosa sia l’arte, a tutti i livelli, anche letteraria. Croce si oppose al positivismo, fu uno dei più fermi
oppositori, rivendicando contro il predominio della scienza un’altra forma di conoscenza: l’arte. Non è la
scienza l’unico sistema di conoscere il mondo ma una delle possibilità, l’altra è l’arte, come forma di
conoscenza del mondo che ci circonda. In che modo? In forma intuitiva. Ci fa conoscere i sentimenti, il
mondo, in modo emotivo, intuitivo irrazionale.

Un altro asse portante della sua filosofia è lo storicismo, ovvero l’importanza data nello studio di qualsiasi
fenomeno e della sua contestualizzazione storica. Non è possibile studiare un fenomeno storico, scientifico,
artistico prescindendo dalla sua contestualizzazione storica. I due assi portanti del suo pensiero filosofico
sono l’estetica e lo storicismo.

L’introduzione del volume “La poesia di Dante” di Croce è la parte più importate. Qui troviamo le ragioni di
questo libro, espresse dall’autore. Ragioni che ci riportano all’atmosfera del centenario del 1921.

Leggere questo libro in maniera decontestualizzata sarebbe particolarmente fuorviante, avremmo


l’impressione che Croce odi Dante e faccia di tutto per sminuirlo, invece ha l’esigenza di porre un freno a
quella dantemania che in quel periodo si stava diffondendo spropositatamente.

Nella Commedia di Dante ci sono moltissimi passi criptici, di difficile comprensione. Uno è il passo
famosissimo del “veltro” del Canto primo. Che cosa rende intrigante l’interpretazione? L’idea
dell’indovinello che è alla base, che Dante stesso voleva creare e che mai è stato risolto ma che bensì ha
dato adito a numerose interpretazioni. Nell’ultimo Canto del Purgatorio Dante dice che “il cielo sta
preparando un cinquecento dieci e cinque che ucciderà la prostituta e il gigante”. L’indovinello proposto da
Beatrice è stato sottoposto a interpretazioni svariate. Molti altri passi controversi riguardano i personaggi
minori dei Canti, spesso posti in disparte. Nel Canto dei suicidi, ad esempio, tutti ricordano Pier delle Vigne
ma non del morto suicida per impiccagione che pronuncia una parola in francese che per Dante aveva un
significato a noi sconosciuto.

Per Croce analizzare tutti questi passi è un esercizio sterile ed inutile. Per lui molto probabilmente Dante
voleva creare mistero, il passo deve rimanere indecifrato perché è così che voleva il poeta.

Il testo di Croce comincia con la dedica a Gentile. Fin dall’inizio Croce è chiaro, entra in un campo non suo e
lo fa con l’atteggiamento di chi, non essendo addetto ai lavori, si può permettere il lusso di criticare tutto
ciò che era stato scritto fino ad ora. Croce vuole sgomberare il campo del Dantismo e della critica dantesca
di tutto ciò che l’ha preceduto, perché hanno solo reso poco gradevole la lettura di Dante.

Croce definisce tutti gli studi fatti su Dante “allotri”, ovvero inutili. Hanno solo spezzettato la figura di
Dante. Sono un’esagerazione, un eccesso di spiegazione.

Afferma che questa tradizione inizia fin da subito, con i suoi figli che redigono commenti sui canti.

Non è ben chiaro quando cominciò o finì di scrivere i Canti delle varie Cantiche. Ci sono delle ipotesi ma
nessuna certezza. Croce non s’interessa delle date, dice che non è importante.

Un altro aspetto sulle quali si sono fondate un sacco di dichiarazioni allotrie è circa la spiegazione delle
allegorie. Croce dice che bisogna prima leggersi e godersi la poesia di Dante, poi, solo in un secondo
momento, ci si può dedicare ad uno studio più attento. Per Croce voler interpretare per forza un’allegoria è
una violenza testuale, l’autore può aver inserito un’allegoria poco chiara di proposito, perché non voleva
che fosse chiara a tutti.

L’allegoria è come una serratura. Se l’autore vuole farcela capire, ci fornirà all’interno del testo anche la
chiave. Se non inserisce la chiave né all’interno del testo né degli altri testi, allora è impossibile aprire
quell’allegoria e volerla forzare a tutti i costi è un errore metodico.

Sul De Vulgari Eloquentia dice che non c’è niente di nuovo, anzi, Dante ritratta teorie già note dell’origine e
diffusione del linguaggio, non inaugura la moderna filologia né contiene nulla di rilevante, se non il voler
ricercare una lingua comune per tutta l’Italia. La cosa rivoluzionaria è il mostrare l’esigenza di una lingua
comune, importante per un’idea di nazione. Il primo documento del formarsi spirituale della nazionalità
italiana.

Sul De Monarchia afferma che anziché opera di scienza politica, è un’opera di pubblicistica.

Secondo Croce “il troppo è troppo”, si può continuare a interpretare Dante in quel modo ma è sbagliato.
Non bisogna mai dimenticare la cosa più importante, che prima di tutto Dante fu poeta.

Egli affermerà che l’allegoria non esiste, possono accadere due cose quando un poeta utilizza un’allegoria: il
caso in cui un’allegoria è perfettamente fusa ed amalgamata con il testo poetico ed il lettore non si accorge
di star partecipando ad un significato allegorico poiché la poesia rimane intatta (un esempio ne è Virgilio,
che è sì la ragione umana ma è un personaggio a tutto tondo, soffre e gioisce come un essere umano, è
amalgamato perfettamente), oppure, il caso opposto, quando il poeta non riesce a fondere l’allegoria con il
substrato poetico ed il lettore non riesce a coglierla (ad esempio l’allegoria del veltro o delle tre belve, si
capisce chiaramente che quella è un allegoria ma è anche difficile da capire, non è fusa con il testo.
Il modo più limpido è l’explanatio verborum, capire a livello lessicale cosa volesse dire il poeta (la parafrasi).
Non chiarire al cento per cento il senso delle parole può addirittura rendere più suggestivo quel passo.

È chiaro, però, che non in tutti i casi si riesca a chiarire il senso preciso di talune parole (explanatio
verborum), rilasciando al testo una sorta di oscurità. Croce afferma che l’oscurità di Dante è normale, in
quanto la lingua che egli utilizzò è molto ricca e antiquata, numerose sono i riferimenti storici e le
terminologia filosofiche appartenenti ad una cultura oltrepassata.

Anziché riconoscere questo stato di fatto e rassegnarvisi, i dantisti si attaccano a quei versi oscuri con
tenacia e frenesia e non cessano di proporre nuove e spesso bizzarre interpretazioni litigandovi intorno.

Quarta lezione 26 ottobre: “Struttura e poesia nella Commedia”


Oggi concludiamo il discorso teorico sull’introduzione di Croce del libro “La poesia di Dante”.

Croce critica anche l’estetica romantica, il romanticismo, che tanto aveva contribuito ad esaltare la figura di
Dante.

Croce ammette che l’elemento passionale è alla base della poesia, ma i romantici ne danno un’accezione
sbagliata. Secondo Croce è una passione a senso unico, estrema. Croce contesta ai romantici l’aver
individuato la bellezza dell’arte nelle passioni estreme.

Per passionalità estrema si intende quella fatta di furore, rabbia, desiderio, ribellione, il byronismo
letterario, del quale si sostanziò molto la poesia di Foscolo. È una passionalità che non vede mezze misure,
e che portò poi al Risorgimento. È quella che emerge dalle “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, che non accetta
nessun compromesso.

Questo errore dei romantici è presente anche nella critica dantesca. Croce critica il “primato dell’inferno”.

È una cantica che non poteva non piacere di più, rispetto alle altre due, ai romantici. Si inizia, soprattutto
con De Sanctis, a credere che il livello poetico dell’Inferno è il più elevato, è come se la poesia scemasse con
Purgatorio e Paradiso.

Ancora oggi l’Inferno è la cantica che ricordiamo di più, che più viene illustrata, teatralizzata, rappresentata.
Il Paradiso viene considerato più dottrinale.

Croce dice che il criterio da sostituire all’eccessiva cavillosità della scuola storica del positivismo (ovvero
indagare le minuzie allegoriche) o l’eccesso di passione dei romantici (andando ad esaltare solo l’Inferno), è
il criterio dell’estetica idealistica, nonché il suo criterio. È il criterio della intuizione lirica, Dante va letto non
spezzettandolo in minuzie filologiche, non esaltando solo i momenti di passionalità, ma lasciandosi guidare
nella lettura dalla propria personale intuizione lirica. Il lettore deve leggere il Poema libero dai giudizi degli
altri e deve lasciarsi guidare nella lettura non dal gusto dei tanti critici che si sono espressi a riguardo, ma si
deve lasciare guidare dalla propria sensibilità lirica. È una questione di sensibilità personale, non ha senso
fare come i romantici che ritagliarono gli episodi più passionali gettando via tutto il resto.

Croce, parlando di Dante, affermò che la sua poesia è quasi unicamente la poesia della Commedia.
Sgombera e liquida tutte le sua altre opere poetiche. Le opere minori sono minori, è inutile paragonare “le
melensaggini” con la poesia della Commedia. Afferma, così, che l’eccessiva fama di “Vita Nova” o
“Convivio” sono ingiustificabili, perché sono opere non particolarmente originali e non troppo elevate.

Croce disse che lo Stilnovo è talmente avulso dal resto della poesia dantesca che non vi è più nella
Commedia. La pratica stilnovista non è più rintracciabile nella poesia della Divina Commedia, questo, però,
è in contrasto con molti versi dell’Inferno. Croce afferma che a livello stilistico di stilnovismo non c’è nulla. È
una dura affermazione. Attualmente chiunque criticherebbe questa affermazione.

Croce disse che Dante è figlio del suo tempo, non è originale dal punto di vista ideologico, teologico o
dottrinale, politico e linguistico. La sua vera grande originalità è nella sua capacità di sintesi poetica. È
originale l’idea di aver reso poesia la scienza, filosofia, politica, religione, tutte in un’unica opera, cosa che
nessuno prima d’ora aveva fatto.

Il vero intento di Croce non è denigrare il nostro maggior poeta, ma, tutt’altro, è specificare quella che fu la
sua vera bravura, allontanandosi da quella dantemania poco obiettiva.

Il capitolo “La struttura della Commedia e la poesia” è il più importante dello scritto crociano. In questo
modo sottintende che nella Commedia non c’è solo poesia.

Cos’è il dualismo struttura-poesia?

Croce afferma che la struttura è la topografia fisica e morale di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Questa non è
poesia, è l’architettura del viaggio dantesco che spesso molti critici pongono all’inizio dei loro libri. Non
sono particolari degni di troppa attenzione, perché si tratta di un’opera poetica e non scientifica, è normale
che alcune cose possano non essere chiare. La poesia della Commedia non è nella struttura.

La rappresentazione dei tre regni non è né poesia, né scienza, perché la scienza non ammette
l’immaginazione. Si potrebbe chiamare un “romanzo teologico”, il fine del quale è divulgare e rendere altrui
accetto e desiderabile qualcosa che si crede e si desidera, presentandolo con l’aiuto dell’immaginazione.

Croce definì questa struttura una cornice che contorni e chiuda uno o più quadri.

Croce fa un parallelo tra Dante ed il Faust di Goethe. Afferma che il Faust sia meglio riuscito nel fondere
struttura e amalgama poetica, la struttura non è più visibile, sono un tutt’uno con la poesia.

Trova, però, un contrasto quasi pieno coi maggiori drammi di Shakespeare, in cui lo schema o struttura
nasce dal motivo poetico, e non c’è struttura e poesia, ma tutto è omogeneo, tutto è poesia.

Ammira, però, l’architettura della Commedia, celebrandone le linee, le proporzioni e le rispondenze


matematiche dei tre regni ma critica chi finisce per parlare di “bellezza estetica” come bellezza addizionale
all’altra, ovvero della poesia.

Le parti strutturali della Commedia non bisogna né prenderle come schietta poesia, né respingerle come
poesia sbagliata, bensì rispettarle come necessità pratiche dello spirito di Dante e soffermarsi poeticamente
su altro.

Bisogna leggere Dante come tutti i lettori ingenui lo leggono. Badando poco all’altro mondo, nient’affatto
alle allegorie e godendo molto delle rappresentazioni poetiche.

Lezione 5 del 29 ottobre: “Inferno IV e Purgatorio III, V”


Cominciando con l’Inferno Croce evidenzia che non è particolarmente ben avviato, dice che stenta a
decollare per qualità nei primi canti. Si ritiene addirittura che i primi sette canti furono scritti prima
dell’esilio e che, a causa di quest’ultimo, interruppe la stesura della Commedia riprendendola in esilio.

Presenterebbero, diceva Croce, “edera e mattoni”. De Sanctis, invece, alludeva alla poesia dell’Inferno
come la migliore delle tre cantiche.
Il canto IV è secondo Croce mal riuscito. A Croce non piacioni i temi dell’intercanto, ovvero gli espedienti
retorici che Dante usa più volte per cambiare canto o scene.

All’inizio del canto IV Dante si sveglia sulle rive dell’Acheronte. Dante nota lo sguardo impallidito di Virgilio.
Così gli chiede come può fidarsi di lui se lo vede “dubbiare”, ovvero nel dubbio. Virgilio risponde che non è
paura ma pietà e compassione per le genti che son quaggiù. Virgilio avvisa Dante che si tratta di spiriti non
battezzati. Virgilio ebbe meriti in vita ma ciò non bastò, perché nacque prima del Cristianesimo. Virgilio
afferma che il loro è un dramma tutto interiore, dell’anima, soffrono il non poter conoscere Dio. Dante
chiede se è mai uscito qualcuno. Virgilio racconta che era da poco in questo posto (morì diciannove anni
prima della venuta di Cristo) che scese negli Inferi una figura possente e coronata (Gesù Cristo. Sono
informazioni ritrovate nei vangeli apocrifi).

A Croce non piace questo canto perché pieno di elenchi ed enumerazioni, non c’è nulla di poetico in tutto
ciò ma anzi stancano il lettore.

Continuando il viaggio Dante nota che ci sono anime in un castello, sono illuminate da una luce, che
rappresenta la luce della ragione. Chiede come mai queste anime sono separate dalle altre, chiede
cos’hanno di meglio rispetto alle altre. Dante inserisce un secondo elenco, forse presentando quelli che
furono i suoi modelli (Omero, Orazio, Ovidio e Lucano). Il modo in cui viene accolto da questa cerchia di
poeti classici è una sorta di autoinvestitura, autoproclamazione.

I 7 cerchi di mura potrebbero significare le 7 partizione della filosofia e le 7 porte le arti liberali del trivio e
quadrivio. L’accesso al castello avviene attraverso ciò. Dante dice di attraversare il fiume “come terra dura”.
È chiaro che ciò non è possibile, perciò è chiaro ed evidente che si tratta di un’allegoria, talmente nota che
si scosta troppo dalla struttura.

Terzo elenco che, secondo Croce, interrompe la lettura. Elenco che viene interrotto in modo poco brusco e
poco poetico (“non posso continuare ad elencare perché devo terminare il canto”). Queste frasi fanno
intendere, secondo Croce, che si trattano ancora di errori da rodaggio.

Inserisce alla fine del canto la tecnica della suspance, per invogliare a proseguire la lettura.

Dante termina i canti con un verso singolo (non sciolto) che rima con il secondo verso della terzina che lo
precede.

III Purgatorio:

Croce ritiene che ha una tonalità media. Siamo nel luogo dei morti scomunicati che devono attendere
trenta volte il periodo di scomunica prima di percorrere le 7 balze. In questo canto vengono riprese le solite
scene. Le anime guardano incuriosite Dante e Virgilio, in particolare il fatto che Dante proietti la sua ombra
per terra. Dante lo chiede a Virgilio e Virgilio risponde, “abiurando la ragione”, dicendogli anche più di ciò
che aveva chiesto. Incontro con Manfredi, nella descrizione del viso ritorna il tema della divisione, dello
spaccato.

Croce disse che non c’era traccia di Stilnovo nella Commedia ma, un critico, afferma che in questa terzina
(quella della descrizione di Manfredi) sono presenti tutti i caratteri dello stilnovismo, ma nella descrizione di
un uomo e non di una donna.

Le ferite di Manfredi sono tutte frontali, su viso e petto, a dimostrare che morì degnamente in battaglia,
combattendo faccia a faccia e non scappando. Egli prega di salutargli la figlia e dirle il vero, che è salvo e
non all’Inferno.
Lezione 6 del 2 novembre: “Paradiso XIV, XX, XXX”
Terza cantica: Paradiso

Esaminiamo le tre immagini dei canti 14, 20 e 30.

Croce critica chi vede nel Paradiso una sorta di discesa verso il basso, mancanza di poesia. Critica, però, gli
intellettuali ottocenteschi che leggono la cantica secondo la propria sensibilità, quella che ritiene
l’attenzione delle passioni forti ed estreme. Dice che il Paradiso non è una cantica qualitativamente
inferiore, ma ha caratteristiche proprie.

Anche l’approccio di Dante ai dannati è diverso in quanto manca l’elemento visivo essendo tutti fasci di
luce, vi è una mancata riconoscibilità, sono tutti bozzoli luminosi che si distinguono in base al grado di
beatificazione. Dante chiede frequentemente di spiegare di chi si tratti.

Il Paradiso è la cantica della manifestazione della verità divina, perciò il ruolo di Beatrice non è speculare a
quello di Virgilio. Il senso di guida di Beatrice è molto più forte di quello di Virgilio. Beatrice è una
mediatrice tra l’umano ed il divino, non è un semplice docente che spiega.

Dante afferma che appena l’ha ritrovata gli sembra di averla persa di nuovo, perché ella non è la Beatrice
della Vita Nuova ma è molto arricchita da significati allegorici.

Il loro rapporto è molto diverso rispetto a quello che ebbero in vita. Dell’amore di Dante per Beatrice resta
ben poco. Si dice questa cantica sia più didascalica delle altre, Dante è visto come un alunno che deve
superare un esame, l’essere assunto in Paradiso (estrinsecato particolarmente nei canti XXIV, XXV e XXVI).

Croce contesta che questo didascalismo sia tipico del Paradiso ed assente nelle altre cantiche, non è
d’accordo, secondo lui è presente nell’intera Commedia, semplicemente la maggiore evidenza nel Paradiso
è data dal fatto che essendo la cantica finale della esplicitazione della verità rivelata, necessariamente
questo aspetto dell’apprendimento e promozione dell’allievo Dante deve essere più evidente. È molto
didascalico, ad esempio, il canto XI dell’Inferno, quello in cui Virgilio per aiutare Dante a sopportare il puzzo
della corruzione che veniva dalle fogne, gli spiega l’ordinamento morale dell’Inferno (legge del
contrappasso, gironi, bolge, pene, ecc.).

Nuclei tematici del Paradiso secondo Croce: la presenza della luce.

Gli spettacoli luminosi ai quali Dante assiste sono numerosissimi, fino ad arrivare al bagliore accecante della
manifestazione della divinità. Si possono individuare tre spettacoli luminosi con un’intensa significazione
allegorica: nel 14esimo, 20esimo e 30esimo canto del Paradiso.

I canti centrali, quelli del dialogo con Cacciaguida, sono quelli del rimpianto, in cui viene rievocata la Firenze
del passato, quelli in cui viene postulato il valore profetico di Dante.

Canto XIV, verso 103:


prima di salire al Cielo di Marte, Dante assiste ad una manifestazione della divinità di Cristo, uno dei primi
tre grandi spettacoli luminosi che Croce evidenzia.

La luminosità fortissima di questa scena ha abbagliato Dante, i cui occhi non sono abituati, ed ha reso
impossibile a Dante spiegare e riportare a parole ciò che ha visto.
Tema dell’ineffabilità = difficoltà nel riportare a parole la straordinarietà del Paradiso.

Dante afferma di non saper formulare una similitudine per spiegare cos’ha visto, ma chiunque vorrà seguire
Cristo lo perdonerà quando anche lui vedrà quella luce ed immenso spettacolo.
Per dare un’idea del brilluccichio di luci in quella croce, Dante li paragona alle particelle di polvere che
vengono illuminate da uno spiraglio di luce causato dalla finestra lasciata socchiusa. Prima dice di non saper
paragonare ciò che vede, poi usa il paragone con il pulviscolo atmosferico. Potrebbe sembrare uno
scadimento, ma per Croce questo è proprio una ricchezza, che squarcia la poesia dottrinale ed elevatissima
del Paradiso, sono proprio quei versi che restano più impressi nella memoria del lettore.

I paragoni e le metafore che Dante inserisce sono state spesso criticate e viste come uno scadimento della
poesia, essendo difficile paragonare il bagliore di Cristo o dei Santi. Per Croce, invece, sono un punto di
forza della cantica.

Molto spesso vista e udito, luce e musica/canto si uniscono, come in una sorta di sinestesia perpetua. Nei
versi seguenti, infatti, paragona la giga (strumento a corda medievale) e l’arpa, che generano un suono
grazioso anche a chi non è in grado di cogliere la linea melodica principale, così da quelle luci si diffondeva
una melodia, un inno, un canto di lode, che procurava un vero e proprio rapimento mistico, anche senza
percepire distintamente le parole del canto.

Dante si accorge che era un inno di lode perché ogni tanto sente “resurgi” e “vinci”. Afferma di non essere
mai stato così rapito ed in estasi come in quel momento. Croce, che rivendicò l’assenza dello stilnovismo in
questo poema, viene smentito con questa poesia di lode, col tema dell’innamorarsi (seppur spirituale) o
dell’essere vinti dall’amore. Sono tutti temi tipicamente stilnovisti.

Canto XX Paradiso, verso 1:

Il tema della luce lo ritroviamo per l’altro sole, ovvero l’aquila imperiale, il fulcro di tutto il discorso sulla
corruzione dell’umanità che Dante ascolta per poi riferire. Questa figura si compone nel Cielo di Giove al
passaggio di Dante.

Quest’aquila ha appena terminato una lunga invettiva contro il potere temporale. La soddisfazione di
questo gigantesco uccello, per aver soddisfatto Dante dei suoi dubbi, si manifesta con l’aumento della sua
luce.

Nel Medioevo si riteneva che il sole fosse l’unica luce presente e quindi le stelle brillassero perché riflesse
dal sole che si trovava basso, in posizione opposta. Questo comportamento del cielo viene in mente a
Dante quando vede riflesse le stelle che formano l’aquila in Cielo e risplendono sempre più intensamente
intonando canti non del tutto comprensibili a Dante.

Poi continua dicendo che gli parve di sentire il mormorio di un fiume che discende con le sue acque limpide
saltano di sasso in sasso mostrando, attraverso il rumore che produce, la ricchezza delle acque che produce
la sua sorgente, ovvero in cima al monte.

Paragona, ancora, il formarsi della voce attraverso il corpo dell’aquila fino al suo uscire dal becco al suono
che prende forma nel collo della cetra e all’aria soffiata dentro la zampogna che prende forma sonora al
foro d’uscita.

Croce critica questi paragoni identificandoli come scadenti, sono immagini mal riuscite, restano fredde e
non commuovono la sensibilità del lettore. Salva solo i quadretti presi dalla realtà quotidiana come la
polvere, il ruscello, tutte immagini che comunque hanno di particolarmente coinvolgente.

Diverso è il terzo caso, nel canto XXX Paradiso.

Siamo nell’Empireo, vera sede dei beati.

La salita di Cielo in Cielo che Dante compie lo porta ad incontrare diverse schiere di Beati ripartite in una
gerarchia che va da Cielo della Luna al Cielo delle Stelle Fisse, tutti Cieli in movimento. La realtà è che le
anime discendono dalla vera sede, cioè l’Empireo, schierandosi nei loro luoghi solo ed esclusivamente per il
passaggio di Dante, in suo onore. È quasi un voler venire in contro al pellegrino.

Per indicare questo ascendere delle anime verso la Candida Rosa per ricollocarsi nel loro posto, Dante
utilizza l’immagine della nevicata al contrario. Questa immagine, secondo Croce, è molto diversa dalle altre
due. Secondo il critico è il passo più bello del Paradiso, la visione di luci è molto coinvolgente perché basato
su un fraintendimento iniziale che rende accattivante questa immagine.

Verso 55:

Dante ha chiesto chiarimenti a Beatrice su ciò che sta vedendo, quando all’improvviso viene colto da
un’immagine che inizialmente gli appare chiara ma poi si rende conto che è una sua illusione.

Si rende conto che le sue facoltà visive e sensoriali erano accresciute, si sta preparando alla visio dei. La sua
vista fu riaccesa e sollecitata da una “novella vista”, una luce così intensa che i suoi occhi non riuscivano a
difendersi. La luce fortissima aveva l’aspetto di un fiume, un fiume fra due rive, dipinte di primavera.

Da questa torrente di luce uscivano delle scintille di luce, che saltavano fuori da ogni parte e si inserivano in
quelli che gli sembravano essere i fiori che tappezzavano le due rive. In modo simile al rubino che viene
circoscritto nell’oro.

Poi, come api inebriate dal profumo di questi fiori, si risprofondavano all’interno di questo fiume di luce e
se una entrava l’altra ne usciva fuori. Un continuo rimbalzare tra gorgo di luce e sponde fiorite.

La tessitura retorica di questo passo è di livello altissimo, c’è un intreccio di immagini, almeno tre. Fiume e
sponde, pietre preziose incastonate, ape (che non viene nominata) ed i suoi movimenti, tutte immagini
sovrapposte l’una all’altra e strettamente interconnesse, impossibili da separare.

Ovviamente Dante sa e capisce che ciò che vede non è la realtà, ma significano altro. Perciò Beatrice gli dice
che, se vuole capire di più, gli conviene bere quell’acqua che vede. Il tema dell’acqua che può ristorare lo
spirito è un richiamo evangelico alla samaritana che dà da bere a Cristo.

Beatrice dice che non è ciò che egli ha di fronte ad essere acerbo, ma è Dante ad avere una vista che non è
ancor in grado di percepire un’immagine così superba.

Se negli altri due casi Dante aveva visto, inizialmente rimase accecato ma poi riuscì a capire di cosa si
trattava, era riuscito anche a spiegare subito con delle similitudini ciò che lui vedeva, in questo caso invece
è diverso, Dante non riesce a spiegare, produce immagini che però sono fuorvianti e tengono sospeso il
lettore. Beatrice lo invita a chinarsi verso questo fiume e a bere con le ciglia, immergendo gli occhi in questa
strana acqua.

Dante di fronte all’invito di Beatrice immediatamente obbedisce, lo fa velocemente, come un bambino che
si sveglia e piange perché vuole bere il latte, quindi è affamato.

Non appena Dante si avvicinò all’acqua, “bevendo dalle palpebre”, si accorse che ciò che gli sembrava un
fiume aveva una forma tondeggiante. Era lo spettacolo gigantesco della Candida Rosa, con le due schiere
dei beati con da una parte i credenti in Cristo venturo (i personaggi ebrei del Vecchio Testamento) e i
credenti in Cristo venuto (i cristiani). Le scintille altro non sono che gli angeli che fanno da spola fra la
divinità ed i beati, creano con il loro andirivieni un dialogo costante. Tutte le anime fissano la divinità,
questo punto luminosissimo. Del resto “angelos” in greco voleva dire messaggero. I fiori sono le anime dei
beati.

Come l’attore di teatro, finito lo spettacolo, toglie la maschera, così adesso Dante vide ambedue le corti del
cielo, vede cosa è realmente, che prima gli era sembrato un paesaggio primaverile.
Il verso “ambedue le corti” può essere interpretato in due modi diversi: chi sostiene che le due tipologie di
beati siano quelli prima e dopo la venuta di Cristo e chi sostiene che le due corti siano beati e angeli.

Lezione 7 del 5 novembre: “Gentile e la filosofia di Dante. Purg XVIII e Par XXI”
Passiamo da Croce a Gentile, da un filosofo all’altro, furono entrambi titolari del ministero dell’Istruzione.

La filosofia di Gentile prende il nome di attualismo. Ovvero quanto un’opera d’arte o letteraria sia
importante ancora nel presente, quanto possa ancora dire del mondo di oggi. Si è occupato moltissimo di
filosofia platonica e di Leopardi.

I suoi testi sono di più difficile lettura rispetto a quelli di Croce (invece piuttosto discorsivi). Il metodo di
Gentile è più serrato e cavilloso, più ragionato.

Croce disse che chi legge romanticamente Dante lo sfigura e lo tradisce. Non è un eroe romantico.

Gentile afferma che la Commedia è opera filosofica oltre che poetica. In essa il concetto generale
dell’universo non è un presupposto della visione poetica nell’anima del poeta, ma è l’essenza stessa della
trama generale dell’opera. In Dante la filosofia non è il particolare e l’accessorio; ma il generale, l’insieme, il
principale. La poesia piuttosto è nei particolari. E questa è la differenza tra lui e i puri poeti.

Gentile, quindi, si oppone a Croce. Sin dall’inizio sostiene che egli non sia un poeta puro ma un poeta-
filosofo, conscio e consapevole. Ciò che è diverso nella concezione gentiliana è che Dante facendo poesia fa
anche filosofia. Per Gentile è inammissibile scindere poesia e struttura (che egli chiama filosofia o pensiero).
La parte dottrinale non è scindibile, sono un tutt’uno, fa parte della mentalità medievale di Dante che
sostanzialmente vedeva tutto in forma allegorica.

Il capitolo 4 “La filosofia di Dante” del libro di Gentile postula due modi diversi di leggere Dante. Gentile
dice (pag. 279) che esistono il modo classico ed il modo romantico. Secondo il metodo classico si cerca di
individuare quali siano le teorie di riferimento che quell’autore ha (ad esempio nella poesia leopardiana le
teorie sono quelle illuministe, perché il padre era un fervente illuminista, ma possiamo mai leggere
Leopardi solo secondo queste teorie? Assolutamente no, perché avremmo una lettura molto parziale del
poeta). L’altro metodo, che Gentile definisce romantico, consiste nel mettere in rilievo anche
l’interpretazione dell’elemento subiettivo ed individuale, proprio della personalità dell’artista. Manca
l’analisi della personalità dell’autore, non è possibile studiare un autore senza studiarne la personalità ma
solo le teorie che troviamo nell’opera. Ovvero studiare il modo in cui egli percepì le teorie, in cui egli crebbe
e studiò.

Gentile fa l’esempio di Platone e di Leopardi. Un filosofo ed un poeta al limite della poesia e della filosofia,
l’un l’altro.

Interpretando Platone secondo il metodo classico egli sarebbe il filosofo dell’ottimismo assoluto perché
“nel mondo delle idee tutto è perfetto”, dovrebbe essere il pensatore dell’ottimismo, perché ci mette
davanti agli occhi non la realtà ma un’idea perfetta della realtà. Se davvero fosse soltanto questo Platone
non capiremmo tanto altro di questo filosofo. Analizzando anche la sua personalità ci accorgiamo che la
tensione, il tendere verso questo mondo delle idee, è un’aspirazione continua dell’uomo che genera
sofferenza perché quella perfezione non potrò mai essere realizzata sulla Terra. Viene fuori quindi un tratto
di pessimismo che in Platone non ci aspetteremmo, pessimismo dovuto alla continua ansia di tendere alla
perfezione senza mai riuscirci.

Stessa cosa si potrebbe dire di Leopardi. Gentile dice che Leopardi non era pessimista ma egli utilizzava le
idee dell’Illuminismo, il materialismo illuminista. A ben leggere Leopardi è vero che nelle sue opere la parte
di puro pensiero porta verso il pessimismo (il tema della natura matrigna, ecc). Ma se analizziamo le opere
pensando alla sua personalità troveremmo l’input della solidarietà umana, del combattere la natura
stringendo rapporti fraterni. Quindi quello di Leopardi non è un vero e proprio pessimismo perché arriva ad
un aspetto propositivo, alla solidarietà. Se noi non osservassimo Leopardi a tutto tondo tenendo presente la
sua personalità e biografia non ci renderemmo conto che ciò che definiamo pessimismo era in realtà un
ottimistico consiglio dato all’uomo verso una società più giusta.

Lo stesso discorso e metodo di lettura (romantico) si deve utilizzare con Dante.

La filosofia di riferimento di Dante è l’aristotelica tomistica, Tommaso d’Aquino, ma egli rielabora in modo
personale questo discorso.

Gentile dice che leggendo Dante col metodo classico diremmo che è scolastico, ed anche umile.
Analizzando la sua vera originalità noteremmo che egli prese questa filosofia scolastica e ne fece poesia, un
poema, la utilizzò non per farne un trattato (ci provò col Convivio che poi venne interrotto, secondo Gentile
perché si rese conto che non era quello a cui Dante ambiva) ma per fare un’opera poetica, cosa che fino ad
allora nessuno fece mai.

Gentile dice che la filosofia scolastica è solo lo sfondo di un quadro in cui Dante getta le sue creature.

Critica chi taglia nelle allegorie la parte che ci piace di più, perché in quegli anni in cui Dante scrive
l’allegoria era una forma mentis, non ha senso cavillare troppo su.

Gentile fu un fascista critico, non approvò mai i metodo violenti e le forme razziali contro gli ebrei, non
strumentalizzò mai il pensiero dantesco.

La percezione della filosofia scolastica da parte di Dante non è acritica ma è dinamica, perché egli la
ricombina secondo la sua personalità. La filosofia tomistica/scolastica utilizzava la logica e la razionalità per
arrivare alla dimostrazione del concetto di Dio.

Dante, se fosse stato un banale scolastico non avrebbe mai scritto determinati versi del XVIII canto del
Purgatorio e XXI canto del Paradiso, che affrontano la questione dell’imperscrutabilità divina, cioè
l’impossibilità di penetrare fino in fondo nella mente divina, nella sua volontà, potenza (anche da parte dei
santi più santi).

All’inizio di Purgatorio XVIII, cornice quarta degli accidiosi/pigri, Dante sta chiedendo a Virgilio la natura
dell’amore (passo che probabilmente non sarebbero mai piaciuto a Croce in quanto molto dottrinale),
Virgilio dice che l’amore può essere seme di virtù ma anche pene, non è sempre positivo ma può generare
cose buone o cattive. Dante insiste e prova a chiedere più dettagli. Dal verso 10 Dante rialimenta la
conversazione perché ne vuole sapere di più.

Nei versi finali della Commedia Dante analizza la propria sensibilità e passione, aggira l’ostacolo della
descrizione di Dio e descrive la sua auto percezione, come si sentiva lui nel momento di ecstasy di fronte
alla visuale divina. Questo metodo non ha niente a che fare con la filosofia scolastica o dottrinale, ma bensì
con quella mistica.

In questo modo Gentile smonta l’idea che Dante abbia utilizzato in modo passivo la filosofia scolastica nel
suo poema, ma bensì egli la rielabora in modo personale contaminandola con altre filosofie, ecco perché
per Gentile è anche filosofo oltre che poeta.
Nel canto 21 del Paradiso:

Dante viene sconvolto da un silenzio assoluto ed improvviso. Gli viene spiegato che troppo dolce sarebbe la
musica di quel cielo (Saturno) che si avrebbe il dissolvimento dell’anima mortale di Dante, non potrebbe
udirla, gli farebbe male.

Chiede come mai ogni volta si avvicina a lui una sola anima e in base a cosa viene scelta l’anima che si
avvicina. Gli viene risposto che è l’alta carità (Dio) a decidere, a “sorteggiare”, non sono le anime a
scegliere.

Lezione 8 del 9 novembre: “Il profetismo. Arrigo VII, Epistola II, V, VI


Differenza metodologica tra Croce e Gentile.

Croce attraversa i cento canti raccontandoli e soffermandosi sugli aspetti più importanti. Gentile non spazia
in tutto il poema ma estrapola alcune tematiche. La prima è la presenza della filosofia dantesca, Gentile si
interroga sulla natura della filosofia dantesca, se sia o meno un approccio originale (per Croce no per
Gentile sì). Un’altra grande tematica è quella del profetismo, poi quella del rapporto coi classici.

Il suo approccio, quindi, è per filoni tematici.

Studiando la Commedia viene fuori l’originalità dell’approccio dantesco nei confronti delle dottrine
teologiche e filosofiche del suo tempo. Dante è un grande rimescolatore, ma questo approccio ha
evidentemente un corollario: per Gentile in Dante c’è del profetismo. Nel senso che egli assume in se stesso
il ruolo di indicare all’umanità, contemporanea e dei secoli futuri, la strada giusta da percorrere,
essenzialmente quella politica.

Infatti in un passo dice di rivolgersi “a coloro che questo tempo lo chiameranno antico”, con l’intenzione che
a sua opera non si deve fermare ai suoi tempi ma deve andare avanti.

A pag. 203 Gentile dice che Dante è sì poeta e filosofo, ma fondamentalmente è un uomo d’azione, le cose
non vanno scisse. Non si può capire Dante se lo si studia solo dal suo punto di vista poetico o filosofico.

Per Gentile, a differenza di Croce, tutte le sue opere sono importanti, anche quelle giovanili. Molti passaggi
della Commedia sono chiari tenendo un occhio al Convivio, vengono spiegati lì, perciò non può essere
un’opera “mal riuscita”, come affermava Croce. Tanti passaggi della Commedia (tra cui il famoso “mezzo
del cammin di nostra vita”) sono spiegati nel Convivio. Gentile, sul De Vulgari Eloquentia, afferma che “è il
primo sguardo gettato dal pensiero umano sulla vita, ossia sull’essenza storica del linguaggio”. Il De Vulgari
Eloquentia è un’opera estremamente rivoluzionaria che si riflette sul linguaggio come fenomeno storico per
la prima volta. I due libri (primo completo e secondo a metà) delineano l’intuizione diretta della nazionalità,
lo stretto legame che c’è tra lingua e nazione. È la prima volta che ad una lingua si fa corrispondere un
popolo, che qualcuno lega le popolazioni italiane con un “cemento” che è la lingua. Sono idee
rivoluzionarie, per la prima volta espresse da un letterato. È comunque una lingua che non esiste, ma che
Dante progetta per il futuro, che è tutta da costruire. Dunque l’elemento nazionalista è alla base dell’opera.

La Monarchia, che secondo Croce non era originale, per Gentile è rilevante per capire il percorso di
maturazione di Dante. L’errore di Croce fu credere che il discorso politico che Dante affronta nel Monarchia
sia un discorso spicciolo, volto sostanzialmente ad ottenere il suo ritorno a Firenze. Dante, esiliato nel
gennaio del 1302, lavorò fino alla fine della sua vita per programmare il suo ritorno a Firenze, senza mai
riuscirci. Il discorso politico contenuto è invece alto, elevato, che traccia un’asse che serve a delineare i
corretti rapporti tra Stato e Chiesa. Dante, invece, anticipa addirittura il senso moderno con un’altra idea
rivoluzionaria, la separazione tra lo Stato e la Chiesa. Libera Chiesa in libero Stato (ne parla a pag. 207).
Chiunque la legga attentamente si renderà conto che l’obiettivo non è condannare la Chiesa o rilegarla a
minori compiti, ma è stabilire corretti rapporti.

La Monarchia è opera rivoluzionaria.

Gentile scrive nel 1921, Mussolini non è ancora salito al potere (lo farà un anno dopo, nel 1922) e non è
ancora stato siglato il concordato dei Patti Lateranensi (accadrà nel 1929). Quando accadrà, Gentile rimarrà
deluso da Mussolini, considerando questo patto un tradimento della sua idea di libero rapporto di
separazione fra i due poteri. Riterrà che quello di Mussolini sia stata un’eccessiva concessione alla Chiesa.
Gentile dà importanza alla Chiesa ma rimarrà sempre laico.

Secondo Dante Stato e Chiesa devono collaborare, hanno bisogno l‘uno dell’altra come Virgilio e Beatrice
(Stato e Chiesa, ragione e teologia). Ci dev’esser leale e reciproca collaborazione, oltre che rispetto. In tutto
questo il pellegrino Dante rappresenta il profeta che fa esperienza (di questa leale collaborazione)
scendendo negli Inferi e la riporta al mondo terreno. Alla fine, però, Beatrice senza Virgilio non sarebbe
nulla, e soprattutto, nel momento più importante del viaggio, in Paradiso, Dante si affida alle filosofie
mistiche e non alla teologia di Beatrice.

Nell’ultima terzina di pag. 209 dice che è il nostro cattivo comportamento ad essere la causa della sporcizia
che c’è nel mondo, e non la nostra natura ad essere corrotta. Gentile commenta subito dicendo che è
un’eresia, perché nella dottrina cristiana la natura è corrotta dall’inizio, da quando nasciamo col peccato
originale (altrimenti non si spiegherebbe il finire nel limbo dei bambini nati non battezzati). Ecco perché
dice che è un’eresia, non c’era in nessuna scuola teologica questo pensiero (non bisogna pensare che Dante
fosse un applicatore pedissequo della filosofia scolastica).

Questo pensiero è originalissimo, Dante non applicava la filosofia pedissequamente, cosa che invece Croce
diceva, affermando che Dante non aveva detto nulla di nuovo dal punto di vista filosofico ma il suo unico
merito era stato quello di trasportare la filosofia scolastica in poesia.

La questione del profetismo di Dante è una storia vecchissima. Esistono profezie ante eventum, che devono
ancora accadere nel momento in cui scrive, sono spesso desideri di Dante stesso, necessariamente, quindi,
il suo linguaggio poetico sarà più vago. Fondamentalmente tutte le sue profezie hanno un dettaglio
comune, ovvero suggerire che sta per arrivare una nuova era, un salvatore che ristabilirà l’ordine e
permetterà, inoltre, a Dante stesso di tornare a casa. A questa profezia sono riconducibili tre passaggi, uno
in ogni cantica. Il primo è quello del veltro (I canto Inferno), il secondo richiamo è quello della misteriosa
sigla numerica del 500, 10 e 5, il terzo richiamo è Arrigo VII di Lussemburgo che, incoronato imperatore
quando Dante era in esilio, decide di scendere in Italia per farsi incoronare imperatore dal papa Clemente V
(il papa del trasferimento della sede papale ad Avignone, papa odiato da Dante), per sedare le rivolte e per
ristabilire la calma. Quando Dante scopre questa sua volontà lo considera come un messia, le Epistole VI e
VII in alcuni paragrafi fanno ben capire il suo entusiasmo perché egli smista consigli a Firenze e
all’imperatore stesso. Verso Firenze critica il non essersi chinati all’imperatore disceso dall’Austria con
pochi soldati per sedare i conflitti. Furioso l’imperatore mostrò il suo lato malvagio, compiendo massacri, lui
che era sempre stato buono e pacifico. Scatenò l’ira del papa che quindi gli voltò le spalle.

Dante chiede ai fiorentini, nelle Epistole, come fanno a comportarsi in modo così folle, ribellandosi
all’Imperatore che è un potere istituito da Dio.

Nel paragrafo 5 Dante parla del “giogo della libertà”, il concetto moderno di leggi. L’esercizio della libertà
della persona è limitato dalle leggi, ma per essere limitato correttamente queste leggi devono essere giuste
perché altrimenti il cittadino non rispettandole esercita la sua libertà sfrenata. Non possono che essere
giuste le leggi dell’Imperatore, quelle volute da Dio. La vera libertà, secondo Dante, è la libera adesione alle
limitazioni che le leggi impongono, il vero esercizio della libertà è la spontanea adesione a quel limite che
delle leggi giuste mi impongono. Dante dice che non si accorgono che è la cupidigia che li domina, è
l’avarizia, che li proibisce di ubbidire alle santissime leggi fatte ad immagine per l’uomo sulla giustizia
naturale. Rifiutare l’Imperatore non è desiderare la pace ma è una manifestazione di limitatezza mentale
perché è solo accettandolo che può esserci un clima di pace nel quale esercitare la meglio la libertà tanto
desiderata.

La figura dell’Imperatore viene trasfigurata in senso biblico, si parla di profezia, di Isaia (colui che profetizzò
più da vicino la venuta di Gesù), facendo riferimenti non casuali all’Antico Testamento. Il valore di Arrigo
viene esaltato al punto di presentarsi come la volontà di Dio.

Dante, però, nelle Epistole critica duramente anche Arrigo, che impaurito dall’aggressività dei fiorentini si è
fermato in Lombardia, in attesa di capire come comportarsi. Non si aspettava minimamente un tale
ginepraio di lotte e fazioni anche all’interno di stessi comuni. Fatica a comprendere questa realtà
conflittuale che c’è in Italia. Dante, così, gli scrive un’Epistola di fuoco, si chiede se è lui quello che stanno
aspettando o se si è illuso. Proprio lui che aveva chiamato Cesare, Augusto, di cui aveva baciato la terra
dopo essere arrivato in Italia. Gli dice, addirittura, di vergognarsi, perché il mondo intero lo aspetta quando
egli si è rintanato nella pianura padana. Lo avvisa dicendogli che, mentre lui è titubante, le forze guelfe si
stanno organizzando con il papa e sperano che l’Imperatore si impigrisca, abbandonando la sua idea
iniziale.

Quando Arrigo riuscì ad assumere, seppur con un’umilissima cerimonia (alla quale non prese parte
nemmeno il papa), la corona imperiale, risalendo per la Toscana, non si sa bene come (probabilmente
malaria), morì giovanissimo. Con lui morirono anche tutte le speranze di Dante.

Canto Paradiso XVII, verso 70:

Siamo in uno dei canti conclusivi del trittico di Cacciaguida, trisavolo di Dante. C’è una profezia ante
eventum, utilizza un linguaggio profetico, allude senza dire niente chiaramente. Gli narra come sarà il suo
esilio.

Ad un certo punto gli delinea anche le tappe dell’esilio. Il primo rifugio dove sarà trattato umanamente sarà
Verona Scaligera, che ha come stemma una scala sulla quale è stato imposto il simbolo dell’aquila
imperiale, a suggellare la fedeltà all’imperatore. “Il gran lombardo” è Bartolomeo della Scala, il “vero
signore” che lo aiuterà senza metterlo nelle condizioni umilianti di dover chiedere. Con lui vedrai un
bambino le cui virtù sono ancora ignote, avendo solo nove anni, ma prima che “il guasco”, ovvero Clemente
V, inganni l’alto Arrigo, sarà maturo per manifestare la sua virtù, non solo in ambito militare.

Stiamo parlando di Cangrande della Scala. Di lui potrai fidarti, aspettati molti benefici e la possibilità di
cambiare la tua condizione.

Mentre Dante scrive questi versi è a Verona, presso Cangrande, è ovvio che questi passi fungono da
encomio al signore che lo stava ospitando.

Cacciaguida conclude dicendogli che queste sono le chiose di ciò che gli fu detto. Si riferisce, ovviamente,
alle parole che già Ciacco e Brunetto Latini gli avevano riservato predicendogli il futuro.

Canto Paradiso XXX, dal v. 124.

La fiumana di luce si è trasformata in un gigantesco anfiteatro, un’enorme rosa. Dante e Beatrice si trovano
nel cuore della Rosa emettendo profumo di lode, è una rosa che conosce solo la primavera.

Beatrice lo invita a guardare quanto è affollata, ci sono ancora pochi posti disponibili. Secondo alcuni si
riferiva al fatto che il giorno del giudizio fosse vicino. Dante scorge un seggio vuoto ma con una corona
poggiata sopra. Beatrice capisce che Dante si stia chiedendo per chi sia riservato, così gli dice che quel
posto, prima che egli muoia e venga in Paradiso (Dante si dice da solo che finirà in Paradiso) sarà occupata
dall’alto Arrigo, con anticipo, prima che il suo compito venga portato a termine. Dante ritiene che Arrigo sia
arrivato troppo presto, prima che l’Italia potesse capire la sua importanza. Per la seconda volta viene
nominato Arrigo VII e per la seconda volta viene preceduto dal termine “alto”.

Lezione 9 del 12 novembre: “Il profetismo. Inferno I, Purgatorio XVI, XXXIII”


Profetismo e politica.

La profezia di Dante è il cuore dello scritto gentiliano. Il tema a lui più caro è quello politico e il profetismo
legato alla questione politica.

Bisogna sfatare il mito che i sesti canti sono quelli politici. La politica serpeggia in quasi tutti i canti della
Commedia.

Primo canto Inferno. Le tre fiere, la più pericolosa è la lupa. Riceve soccorso pronto di Virgilio. Virgilio, per
Gentile, oltre che la ragione, è l’impero, lo Stato. Quell’Impero augusteo propedeutico alla venuta di Cristo.
La lupa impedisce l’andare (dell’essere umano, fino ad ucciderlo), è allegoria di cupidigia, avarizia, eccessivo
attaccamento alle cose terrene.

Identità del veltro. Cruces dantesco, parte più cruciale e controversa. Gentile evita di voler dare a tutti i
costi una natura a questo veltro. Egli non avrà sete né di territorio, né di conquiste, né di denaro (un verso
simile contraddistingueva Cangrande della Scala nel XVII dell’Inferno). La sue caratteristiche saranno
sapienza, amore e virtù. La sua origine (nazione) sarà “tra feltro e feltro”. Tra Feltri e Montefeltro?
(indicando quindi la zona romagnola, idea che riaffiorerà con Mussolini). Il feltro cioè panno posto dentro
l’urna dove i principi elettori di Germania depositavano le schede per l’elezione del nuovo imperatore?
Urna dei cardinali del Conclave? Non lo sapremo mai.

L’ambiguità di questa figura di “grande rinnovatore” è forte perché sembra inizialmente avere gli attributi
di un grande sovrano, successivamente un personaggio di Chiesa, come può essere un papa ma anche un
imperatore. Voler dare a tutti i costi un volto storico è sbagliato ed inutile.

Di una cosa siamo certi, ovvero dello stretto legame con l’Italia.

Il veltro riuscirà a perseguire la lupa, ovvero la cupidigia, finché non la farà sprofondare nell’Inferno.

Nel libro I capitolo XI del Monarchia si dice che il monarca ha completamente abolito il desiderio di
possedere, allontanata la cupidigia nulla più ostacola la giustizia. L’imperatore non può essere affetto da
cupidigia perché egli già possiede tutto l’Impero, è come se fosse immune.

L’idea di Stato forte ed etico era già da parecchio promulgata da Gentile, prima che Benito Mussolini la
espose con le sue idee.

Gentile non era cattolico, era un filosofo laico. Dava però molta importanza alla religione come collante
ideologico di una nazione. La sua idea di stato o nazione è diversissima rispetto a come siamo abituati a
pensarla noi. Lo stato gentiliano, ovvero etico, è uno stato nel quale c’è una grande omogeneità etnica,
culturale, religiosa. Uno stato che è un corpo sociale unico.

L’idea di Impero che aveva Dante non era coincidente con il Sacro Romano Impero (germanico), ma con
l’Impero romano, perciò Gentile dice di far attenzione, Dante non era un germanofilo, non stava spingendo
l’Italia tra le braccia della Germania (Gentile scrive questo alla fine della Prima Guerra Mondiale,
disilludendo molte persone). Ma anzi, Dante critica anche quell’Impero (vedi come si rivolge ad Arrigo VII).
Ovviamente sostiene Gentile che Dante è ingenuo, quasi infantile quando vagheggia un Impero Romano
che non può più tornare.

Il veltro è sì un restauratore dell’Impero, ma con un occhio di riguardo verso l’Italia.

L’idea dell’Impero di Dante può essere risemantizzata in chiave moderna.

L’Italia deve recuperare in sé la capacità di irradiare cultura agli altri popoli, esattamente come faceva ai
tempi di Augusto.

Dante riteneva che la donazione di Costantino aveva spezzato una volta e per sempre l’armonia fra Impero
e Chiesa, perché da quel momento ci fu una confusione tra i poteri.

Gentile ritiene che le “profezie” di Dante in realtà sono dei desideri, probabilmente irraggiungibili ma per la
quale vale la pena lottare. Spesso riguardano gli equilibri tra Stato e Chiesa.

Tutte le profezie si assommano in una sola: quella di Beatrice nel Paradiso Terrestre. Alla fine della cantica
del Purgatorio, subito dopo la mistica processione sulla storia della Chiesa.

La profezia di Beatrice viene pronunciata poco dopo la scomparsa di Virgilio. Beatrice utilizza un linguaggio
tipico apocalittico, profetico, volutamente oscuro. Gentile dice che è inutile cercare di individuare gli
elementi della profezia e spiegarli, perché Dante voleva essere oscuro.

Verso 31 canto XXXIII Purgatorio:

Beatrice invita Dante a liberarsi da timore di chiedere e dalla vergogna, gli dà del “tu”. Gli dice di non
parlare come un profeta che sogna, ma devi passare alla proclamazione della verità (quindi passa dal
Vecchio al Nuovo Testamento). Gli dice di cambiare tipologia di profetismo.

Gli dice, inoltre, che “il vaso” ovvero il carro della Chiesa, che fu infranto dal serpente (il male) e che era
stato ricoperto da una pioggia di piume (donazione di Costantino), fu e non è. Che significa? Che ciò che hai
visto non è più così? Quindi la Chiesa non è più corrotta? O il contrario, ovvero che il carro che hai visto in
origine splendere fu splendido e puro e ora non lo è più perché corrotto? Per Gentile vale l’accezione
positiva, ovvero non è più così. Di chi potrebbe essere il merito? Di Dante stesso.

Lo tranquillizza perché sta per arrivare, e lo vede osservando la rotazione delle costellazioni oltre che il
volere di Dio, “un cinquecento diece e cinque” mandato da Dio che ucciderà la prostituta assieme a quel
gigante che delinque con lei, ovvero la Chiesa corrotta e il potere corrotto, vanno puniti sia potere spirituale
che temporale.

A chi si riferiva Dante? Va interpretato come cifre arabe? Va fatta la somma? Vanno tradotti in numeri
romani? Quindi D X V ovvero dux, quindi condottiero. Non poterono che pensare, ovviamente, a Mussolini.

Può voler dire Dominus Kaligrande Veroni? Quindi Cangrande della Scala.

È evidente che sia un enigma che Dante non vuole che venga decifrato. Lo si può notare dai versi successivi,
in cui dice che la sua narrazione è buia e deve esserlo, rendendo così l’intelletto meno predisposto a capire.

Ben presto saranno i fatti a chiarire tutto, non sforzarti ma aspetta.

Beatrice gli dice a Dante di prendere nota e raccontare tutto senza omettere nulla.

Per concludere quindi Gentile dice (pag. 167) che la lupa è la Chiesa e Virgilio l’Impero, pronto a salvarla
con un rinnovamento totale.

Dante, ritiene Gentile, è un poeta universale, che non può non piacere in qualsiasi cultura o momento
storico, ha il dono dell’universalismo inoltre è un grande riformatore, unico nel suo genere, lo accosta ad
altre due figure riformatrici del cristianesimo ma meno efficaci: San Francesco e Girolamo Savonarola.
San Francesco, però, sbagliò in quanto tentò di riformare la Chiesa solo nell’aspetto intrinseco e spirituale,
riportandola alla sua purezza dal punto di vista contenutistico. Savonarola fece il contrario, riformò la
Chiesa esclusivamente nel suo rapporto con lo Stato, quindi nella sua esteriorità materiale e sociale. Dante
è l’unico che ha un’idea chiara e precisa, ovvero che il rinnovamento della Chiesa è inscindibile dal
rinnovamento dell’Impero. Senza la riforma di una di queste due è impossibile riformare l’altra. Gentile
utilizza Dante per dimostrare la sua idea di Stato forte, porta l’acqua al suo mulino.

A pag. 169 dice che la profezia che Dante predice non è un indovinello da risolvere con una soluzione, ma
un’idea di eterno presente, un progetto che non si sa se si realizzerà o meno, che non è nel presente di
Dante e nemmeno in quello di Gentile mentre scrive.

Dante guarda la Chiesa insieme allo Stato, precorre Cavour e Ricasoli, pone il problema di un rapporto
difficilissimo e di equilibrio quasi impossibile. La Chiesa non si può separare dallo Stato né ignorare
reciprocamente. La religione interessa a gentile perché è uno dei collanti più utili al popolo e allo stato. E
come si ottiene questo delicatissimo equilibrio? Caricando il potere temporale di una potenza infinita,
enorme, l’unica in grado è uno stato fortissimo, ma la Chiesa povera e spirituale deve essere l’alimentatrice
di quel fuoco etico.

Il canto XVI Purgatorio:

E’ un canto estremamente buio, quasi infernale.

Dice che il mondo è invaso da malizia, privo di ogni virtù. Il tema è anche quello del rapporto tra libero
arbitrio e volontà divina. Tema che spesso ritorna nella Commedia. Viene descritto il rapporto ma non viene
data una soluzione. Al verso 88 dice che l’anima “nasce semplicetta”, ovvero buona ma fragile, capace di
inclinarsi verso tutto ciò che le provoca interesse (la trastulla). Tutto ciò finché “guida o fren non torce suo
amore” ovvero le due forze che devono correggere le disposizioni dell’anima, per guida si intende il potere
della Chiesa che deve persuadere e per freno la forza frenante delle leggi dello Stato. È importante avere un
monarca forte che riesca a vedere della città terrena “almeno la torre”, ovvero la giustizia, la virtù umana
che spica di più.

Il problema non è la mancanza di leggi ma chi dovrebbe farle applicare.

Lezione 10 del 16 novembre: “Il canto di Sordello. Purgatorio VI”


Lettura integrale di Purgatorio VI.

Le anime dei morti violentemente si sono affollate addosso a Dante, sono nella seconda balza
dell’Antipurgatorio ed intonano il Salmo “Miserere” chiedendogli insistentemente suffragi. Devono
attendere un tempo pari alla durata della loro vita terrena, prima di accedere alle sette cornici e compiere
l’espiazione dei peccati. Il tempo di attesa può diminuire grazie a suffragi di persone vive, ecco perché
chiedono aiuto Dante. Dante li paragona a chi, dopo il gioco della zara, segue il vincitore. Il gioco, di
provenienza araba, era diffuso lungo tutta la penisola. È assai probabile che Dante abbia asisstito realmente
ad una scena del genere. Questo quadretto realistico muta il tono rispetto al canto precedente, quello di
Buonconte, Jacopo del Cassero o Pia de Tolomei.

Brusco mutamento di tono all’inizio del canto. Gentile lo riconduce a quella che secondo lui è la cifra
dialettica della poesia del Purgatorio, nel senso che riesce ad accordare anche motivi discordanti. Ecco
perché dice che nel canto precedente il tono è più elevato, c’è pathos, in questo si abbassa. Perché la
poesia dialettica giustifica la presenza di toni così discordanti.
Gentile (pag. 221) definisce la poesia del Purgatorio “arte pienamente adeguata all’umana natura”.

Tra la folla c’era l’Aretino (Benincasa da Laterina) che fu ucciso da Ghin di Tacco, “l’altro” ovvero Guccio de
Tarlati, Federico Novello (ghibellino ucciso da uno dei Bostoli, nemici dei Tarlati, sua famiglia di
appartenenza), “quel da Pisa” ovvero Gano degli Scornigiani (pisano ucciso dal Conte Ugolino, o da suo
nipote, all’interno delle lotte per il predominio su Pisa), Marzucco, “conte Orso” ovvero Napoleone degli
Alberti, Pier de la Brosse, “la donna di Brabante” ovvero Maria di Brabante (che avrebbe ingiustamente
accusato Pier di tradimento del re).

A proposito di Pier utilizza l’espressione “l’anima divisa al cuor suo”, fa riferimento al concetto della
divisione, così come “si parte” al verso 1, latinismo da partire, dividere. Queste espressioni sono scelte
lessicali non casuali. Vengono fatte in relazione al messaggio politico che Dante vuole esprimere nella
seconda parte del canto, ovvero l’opposizione concettuale tra divisione ed unificazione. Dante denuncerà le
lotte di unificazione che attraversano la penisola e al contempo auspicherà che la penisola possa
ricompattarsi attraverso la restaurazione del potere imperiale.

A questa stessa opposizione concettuale di divisione ed unificazione si rifà anche la struttura del canto,
diviso in due parti, una narrativa ed una di ispirazione politica. Sono due parti tenute insieme dall’episodio
centrale dell’abbraccio di Virgilio e Sordello, abbraccio che si traduce ad un livello formale nell’andamento
circolare che assume questo canto che Dante sceglie di avviare con una similitudine (quella del gioco della
zara) e si conclude ancora con la similitudine dell’inferma che si gira nel letto (ovvero Firenze).

Il personaggio francese, Pier de la Brosse, era di umili origini che era riuscito ad essere nominato
ciambellano dal re di Francia Filippo III ed a diventare suo uomo fidato. Finché, caduto in disgrazia, venne
giustiziato su ordine regio per responsabilità di Maria di Brabante, alla quale Dante stesso si rivolge
invitandola a pentirsi della sua colpa, ovvero aver ingiustamente accusato Pier di tradimento della corte
nella guerra contro Alfonso X di Castiglia.

I personaggi elencati da Dante sono tutti accomunati dal fatto di essere vittime di lotte di fazione, nelle
quali è in gioco il potere e riusciamo a cogliere l’intento dantesco, ovvero tratteggiare un quadro politico
del suo tempo poco corretto e leale.

La presenza del personaggio francese, posto in rilievo sottolineandone la provenienza francese utilizzando
dei gallicismi in finale di verso nella terzina al verso 20, vuole indicare la denuncia di Dante alla corte
francese e segnatamente Filippo IV che violava l’autonomia spirituale della Chiesa con le sue imposizioni
rivolte a papa Clemente V, il quale poi in funzione antifrancese appoggerà Arrigo VII di Lussemburgo che
avrebbe dovuto ricomporre i conflitti italici.

Quello che può sembrare un mero elenco è un passo dal forte spessore storico biografico che prepara
quella che sarà la parte strettamente politica nella seconda parte del canto.

Dopo essersi liberato dalle anime che gli pregavano di far pregare per loro (insistente richiesta di suffragi
facendo ricordo al poliptoto pregar-prieghi), Dante ha un dubbio di natura dottrinale circa l’efficacia della
preghiera di fronte al giudizio divino: egli ricorda, avendo letto un passo dell’Eneide (precisamente si
riferisce al libro 7 ed all’incontro tra Sibilla e Palinuro), che le orazioni non possono piegare o mutare un
decreto del cielo, quindi divino.

Virgilio gli spiega che quelle anime non sperano in vano, perché l’ardore di carità con cui i vivi pregano i
morti può modificare la durata della pena. Precisa che, nel punto dell’Eneide a cui Dante fa riferimento, gli
uomini, essendo pagani, non potevano pregare Dio ed avere quindi la sua intercessione.
Il verso 36 “se ben si guarda con la mente sana” è sicuramente caratterizzato da un’intonazione polemica
nei confronti delle sette eretiche, in particolar modo quella dei Catari, che avevano avuto larga diffusione a
Firenze e negavano la dottrina cristiana dei suffragi per le anime del Purgatorio.

I due proseguono il loro cammino.

Incontrano un’anima seduta tutta sola. Si avvicina a quell’anima “lombarda, altera e disdegnosa” (superba).
Chiedono informazioni sulla via, l’anima chiede di dove sono, Virgilio risponde di Mantova e Sordello si
presenta, essendo Mantovano, ed abbraccia Virgilio suo compatriota.

L’abbraccio dei due può definirsi quasi patriottico. Questi versi sono il vero motore di questo canto politico,
in questo momento, infatti, Dante sente ancor di più lo sdegno verso lo stato di conflittualità in cui versava
a quei tempi la sua patria. Conflittualità che confliggeva non solo le varie città ma anche gli stessi
concittadini. Tanto è lo sdegno che egli non riuscirà a proseguire la narrazione senza prima sfogarsi con
un’invettiva.

Sordello si presenta come un personaggio superbo, disdegnoso, solitario, noncurante, enfatizzato dai
termini in inizio verso 59 “sola soletta” e in fine di verso 72 “tutta in sé romita”, come a voler concludere
questa sua accezione negativa e dare il via alla trasformazione di Sordello che poi diverrà disponibile e
magnanimo verso i due.

La figura di Sordello ricorda gli spiriti magni del grande Castello, descritti con “occhi tardi e gravi, di grande
autorità ne’ lor sembianti” ed anche a Farinata degli Uberti, particolare notato anche da Croce che definì
Sordello il Farinata del Purgatorio. Anche Gentile, segnalando l’uso del sintagma “vedi là” al v. 58, stesso
sintagma utilizzato per Farinata, si mostra d’accordo con quanto detto da Croce.

I due, in particolare, si assomigliano per l’immobilità statuaria e per il loro forte senso di appartenenza alla
propria città. È evidente anche che, se a Farinata interessava sapere a quale fazione appartenesse Dante, a
Sordello interessa solo sapere se i due sono suoi concittadini. Gentile ha additato nel personaggio dantesco
di Sordello una personificazione dell’amor di patria, enfatizzata dalla ripresa che Sordello fa di alcuni
elementi linguistici del volgare di alcune città vicino Mantova, quali Cremona, Brescia e Verona. Dante loda
in un passo del De Vulgari (libro I, cap. XV) nominandolo “uomo di alta eloquenza che abbandonò il volgare
della sua patria non solo in poesia ma in qualunque forma di espressione”.

L’identità storica di Sordello è omessa all’interno del testo dantesco al punto che non ci è nemmeno dato di
capire a quale gruppo di anime dell’Antipurgatorio appartenga. Appare piuttosto come figura
essenzialmente patriottica e, nel canto successivo, lascerà intendere di essere un poeta inchinandosi a
Virgilio dopo averlo riconosciuto come “gloria di latin per cui mostrò ciò che potea la lingua nostra”.

Dal verso 86 comincia l’invettiva politico civile: successione incalzanti di apostrofi.

1. Rivolta all’Italia…

…ridotta allo stato servile, luogo di dolore, nave senza timoniere in tempesta, non più signora di popoli ma
luogo di corruzione. Dante si chiede a cosa servì il corpus iuris civilis con cui Giustiniano riordinò il diritto
romano se il trono imperiale è vacante e manca chi possa far rispettare quelle leggi, senza le quali, dice
Dante, la vergogna sarebbe minore. L’Italia è serva, privata della libertà civile che secondo Dante può
derivare soltanto dalla restaurazione dell’ordine imperiale perché soltanto l’imperatore può farsi garante
della giustizia. È un Italia ridotta allo stato servile perché in balia di dispotici regimi signorili, che detenevano
illegittimamente il potere, e di governi popolari ad alto tasso demagogico, ai quali Dante si riferirà ai versi
124 “chè le città d’Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene”.
Con “Marcel” si riferisce a Caio Claudio Marcello che fu console romano filopompeiano, oppositore di
cesare, a voler intendere che ogni villano che viene parteggiando si fa nemico dell’Impero.
Al v. 78, contrappone al termine basso “bordello” quell’espressione “donna di provincie”, latinismo da
domina provinciarum, ripreso da una glossa del corpus iuris civilis, un aforisma quindi di giuristi.

Nell’ultima terzina, v. 88, si è avviato un procedimento metaforico afferente al campo semantico equestre
che proseguirà anche nelle apostrofi successive. È un procedimento che si può far risalire significativamente
all’immagine dell’Imperatore come cavalcatore dell’umana volontade. Quest’immagine è attestata nel
trattato IV del Convivio.

2. La gente di Chiesa…

… che dovrebbe essere devota, dedita alle cose spirituali, e che invece approfittando della vacanza del
seggio imperiale pretendeva di assumere su di sé anche la gestione delle cose temporali, che non le
competono, senza esserne in grado ed andando così ad acuire ulteriormente quello stato di conflittualità in
cui versava la penisola. Ne scaturisce così un’immagine di un Italia come “fiera che è fatta fella”, ovvero un
animale selvaggio diventato riottoso.

3. O Alberto tedesco…

… che ha abbandonato l’Italia divenuta indomabile e violenta, tu che dovresti salire sulla sua sella. Dante
invoca sulla sua stirpe una punizione divina. La colpa fu quella di essersi trattenuto in Germania senza aver
mai messo piede nella penisola per farsi incoronare imperatore (errore che commise anche il padre
Rodolfo). Dante si riferisce anche al suo successore, Enrico VII di Lussemburgo, nel quale Dante riponeva in
vano la sua speranza. È questo il punto in cui, alla denuncia circa le lotte di fazione si affianca la risoluzione
che Dante propone che è quella della restaurazione imperiale.

4. Fiorenza mia…

… di cui questa digression non ti tocca. È ovviamente a registro ironico, in alcuni punti sarcastica. È
un’intonazione alimentata dalla sua esperienza di esule, dolore tanto più forte quanto più è grande l’amore
per la sua città. Paragona la sua Firenze al resto della penisola, lei che, secondo il poeta, poteva assurgere
come caso più emblematico di decadenza.

Tra le pagine della lettura gentiliana di questo canto potrà sembrare che Gentile stia cedendo alla retorica
nazionalista, per esempio a pagina 231 e 232. Siamo in realtà ben lontani dall’intonazione propagandistica
che si vede ben attestata entro la pubblicistica di quegli anni. Piuttosto è da leggere la fiducia di Gentile di
veder realizzarsi, nello Stato italiano messo in piedi da Mussolini, quello che era lo Stato etico da lui
teorizzato. In queste pagine si può scorgere l’autonomia critica che Gentile mantenne nei confronti del
regime, soprattutto per quanto concerne le pratiche violente messe in atto dai fascisti. A pag. 227, infatti,
Gentile definisce il patriottismo incarnato da Sordello come “il patriottismo dell’amore, non quello dell’odio,
della pace non della guerra, che ci lega ai fratelli e non che ci schieri in campo contro lo straniero.”

Lezione 11 del 19 nov: “La corruzione della Chiesa. Inf XIX, Purg XXVII e Par XXVII”
Profetismo. Tema della Chiesa.

La questione della corruzione della Chiesa attraversa tutta la Commedia.

Canto XIX Inferno, interamente dedicato alla condanna della corruzione ecclesiastica. Male bolge, papi
simoniaci. Il tono dell’invettiva è reiterato. Il canto comincia con un’apostrofe a Simon mago che cercò di
comprare il dono del colloquio con lo spirito santo: tema dell’acquisto dei beni spirituali mediante il denaro
(siamo nel cuore della tematica della corruzione potere ecclesiastico).
L’apostrofe è anche ai miseri e spregevoli seguaci che i beni spirituali ricevuti da Dio gratuitamente,
vendevano spudoratamente. Per loro suona la tromba (quella del giudizio? Dell’Apocalisse). Esse sono nella
terza bolgia, dei fraudolenti. In questo caso frode di ambito ecclesiastico.

Le male bolge sono una serie di vallate concentriche scoscese, incastrate una nell’altra sormontate da una
serie di ponticelli rocciosi che le mettono in comunicazione.

Questa bolgia è grigiastra, piena di fori e pozzetti dai quali fuoriescono gambe e fiamme. Dante deve
spiegare questa immagine e per farlo ricorre ad una similitudine, chiara solo ai contemporanei di Dante
perché allude al battistero di Firenze che è stato poi modificato.

“fatti per loco d’i battezzatori” = non è chiaro se i pozzetti erano fatti per alloggiarvi i battezzatori (i
sacerdoti che battezzavano, che vi trovavano riparo dalla folla. Va ricordato a quel tempo, a Firenze, si
battezzava solo due volte all’anno), o fatti apposta per i riti battezzatori (ovvero in quei pozzetti
s’immergevano i bambini, erano fonti battesimali). Uno di quei pozzetti, non molto tempo fa, “lo spaccai”,
dice Dante, a causa di uno che all’interno rischiava di annegare (non sappiamo se bambino o battezzatore).

Dante quindi ruppe uno dei pozzetti per salvare la vita a qualcuno. Ma il pozzetto era di marmo, è possibile
che Dante l’abbia spaccato? Probabilmente in qui pozzetti venivano inserite delle anfore ricolme d’acqua.

Non riusciamo a decifrare bene queste immagini anche perché non sappiamo com’era fatto il Battistero nel
1300.

Dante riprende la narrazione descrivendo cosa vede (le anime nel fuoco).

Nella Pentecoste le fiamme scesero sulle teste degli apostoli, i dannati di questa bolgia hanno le fiamme ai
piedi, quindi a voler dimostrare il rovesciamento e il contrappasso.

Dante nota un’anima che sembra soffrire più degli altri, chiede chi sia e si fa accompagnare da Virgilio.

Dante chiede all’anima di parlare e, per descrivere il modo in cui attende la risposta si paragona al
sacerdote che attende dall’assassino, ovvero l’incaricato di suicidio, il sicario, il nome del mandante, pena la
morte per asfissia a testa in giù sotto terra.

Dante prende il ruolo del confessore, si invertono le parti. Colui che deve confessare le sue colpe è un
ecclesiastico (il dannato) ed il confessore è un laico (il papa).

L’anima non sa con chi sta parlando, crede sia Bonifacio VIII ma, se così fosse, la sua capacità di leggere il
futuro l’avrebbe mentito, perché aveva predetto la morte di Bonifacio ben più avanti. Gli chiede se è già
così sazio di ricchezze, quelle ricchezze di cui non si è fatto scrupolo di trarre con inganno (si riferisce al
fatto che aveva indotto Celestino V all’abdicazione, per poi prenderne il posto), per poi farne strazio.

Dante rimane interdetto, non sa che rispondere. Prende la parola Virgilio, invitandolo a dirgli che non è
colui che credi.

L’anima si presenta, egli è stato un papa, “veramente figliuol de l’orsa”, ovvero della famiglia degli Orsi. Il
“veramente” sta ad indicare il fatto che lo fu di nome e di fatto, perché l’orso era considerato un animale
ingordo. A parlare è Giovanni Gaetano Orsini, ovvero papa Niccolò III. Era simoniaco verso i parenti,
vendendo cariche (nepotismo).

Poi spiega come funziona il meccanismo. Il dannato con le gambe che scalciano è l’ultimo ad esservi entrato
in ordine cronologico, sotto di lui ci sono altri dannati sempre a testa in giù, i loro corpi si sono appiattiti
lungo i lati del corpo roccioso. L’anima afferma che presto Bonifacio prenderà il suo posto, ma ci starà poco
coi piedi a prender fuoco perché verrà da Occidente un altro papa laido, ovvero Clemente V, a causa delle
sue opere luride.
Clemente V, però, muore nel 1314, dunque per aver scritto questo Dante o compose la Commedia
successivamente al 1314 (ma questo porterebbe la datazione della composizione troppo oltre i limiti
immaginati) o vi rimise mano successivamente, dopo aver già scritto Purgatorio e Paradiso.

Parte un’invettiva molto famosa, interna al testo, senza interrompere la narrazione.

Poi terzina contro Costantino imperatore. Dante dice che non fu male la sua conversione, ma quella dote
che dalle sue mani prese il primo papa, che divenne ricco ma ricco non doveva essere. La dote a cui Dante
fa riferimento è il falso documento della donazione di Costantino, che metteva nelle mani del papa il potere
temporale e dava giurisdizione e possibilità di disporre di tutti i territori dell’Impero, quindi l’incoronazione
del papa era non solo un’investitura divina ceduta all’imperatore, ma anche una trasmissione del potere
temporale.

Gentile (pag. 160) dichiara che il problema della donazione, che Dante riteneva autentico, è la sua
illegittimità perché chi dava non poteva dare ovvero l’imperatore che non aveva la facoltà di alienare da sé
il potere temporale, essendo l’impero nato da volontà divina a scopo preparatorio della venuta di Cristo.
L’imperatore ha giurisdizione su tutto ma non ha il diritto di alienare da sé il potere temporale. Inoltre, chi
ricevette, non poteva ricevere, anche il papa infatti non poteva ricevere perché, secondo un passo di
Matteo, la Chiesa doveva rimanere povera, lontana da oro e argento. Gentile la mette quasi su termini
giuridici.

Dante riteneva sì che la Chiesa non poteva possedere direttamente beni materiale, certamente non per
arricchirsi, era giusto però che possedesse per trasformare quelle proprietà in opere di carità. Era giusto
quindi che toccasse l’oro e l’argento ma farne il giusto uso. A pag. 162 si spiega come è solo dall’attenta
separazione di questi due poteri che si può avere il massimo beneficio dal potere temporale. Infatti il
sovrano, per Gentile, completa l’azione redentrice di Cristo. Cristo viene a redimere l’uomo ma la sua
redenzione è incompleta, nel senso che è una porta aperta verso l’aldilà ma non impedisce l’uomo di
compiere il male sulla Terra, l’unico argine di compiere il male sulla vita terrena è quello imposto dalle leggi
di uno Stato giusto e forte. È importante anche la vita della Chiesa ma è troppo poco se non coadiuvato dal
potere dello Stato che promulghi leggi in gradi di irreggimentare il cittadino. Così si raggiunge il
completamento della redenzione dell’essere umano. “All’eterno non si sale se non attraverso il temporale”,
dice Gentile.

Purgatorio XXVII, si prepara l’addio a Virgilio.

L’addio si avvia co l’affiancamento di Stazio nei canti XXI-XXII fino alla fine del Purgatorio. Alla comparsa di
Beatrice Dante si gira e non trovandolo più piange come un bambino.

Da v. 124 parte l’ultimo discorso di Virgilio. Si conclude con lo “stupendo saluto”, come dice Gentile, in cui
Virgilio dice a Dante di non aspettarsi più niente da lui, non ha più bisogno di lui, è stato risanato. Lo invita a
seguire il suo libero arbitrio, ora restaurato, e ad inseguire Beatrice. Virgilio lo rende re di sé stesso, per
quella che è la competenza di Virgilio, per il resto ci penserà Beatrice.

Paradiso XXVII, cielo delle Stelle fisse, presenza di San Pietro.

Ad un certo punto la luce del beato Pietro cambia colore diventando rosso ed accendendo di rosso tutto il
cielo, questo indica l’ira e la rabbia di tutti i beati (sta per pronunciare la più violenta invettiva di tutta la
Commedia). Con il paragone delle penne degli uccelli, secondo il prof. Tateo, Dante vuole indicare che sta
per cambiare registro stilistico.

Dal v. 22 San Pietro si riferisce direttamente a Bonfacio, “colui che in terra usurpa il luogo mio”. Che ha reso
una fogna il luogo del suo martirio, ovvero piazza San Pietro.
“là giù” verso 27 potrebbe indicare l’Inferno, ma anche e soprattutto Roma, il Vaticano, il che renderebbe
ancora più aspra e dura l’invettiva. La teoria trova conforto nei versi precedenti e nella ripetizione di “luogo
mio, luogo mio, luogo mio” ripetuto da San Pietro, che si riferiva appunto a Roma/Vaticano.

Lezione 12 del 26 novembre: “Convivio I, Paradiso XXIV”


Gentile ritiene le opere minori sono propedeutiche alla comprensione della Commedia. È impossibile
affrontare lo studio della Commedia scartando o liquidando le opere minori.

Ritiene il Convivio l’opera nella quale concentra le proprie conoscenze filosofiche nel modo più esplicito.

La genesi o è concomitante all’inizio della Commedia o di poco dopo, tra il 1306 e il 1309. Doveva essere
un’opera enciclopedica abbracciando tutto lo scibile dell’epoca. Divisa in 14 volumi con un primo libro
introduttivo, di premessa. Gli altri 13 libri dovevano essere la spiegazione in prosa volgare di canzoni
dottrinali che Dante aveva composto in precedenza ma che reinterpreta nel Convivio.

Dante voleva portare alla ribalta due novità: la prosa filosofica in lingua volgare (per renderle comprensibili
anche a chi non era a conoscenza del latino) ed abbracciare tutto lo scibile.

L’opera resterà interrotta all’altezza del libro 4. Il primo è introduttivo. Gli altri tre contengono una canzone
dottrinale ed un ampia spiegazione della canzone stessa.

Le ragioni che portarono Dante a non completarla non sono note. Molto probabilmente perché non
soddisfatto dello schema meramente filosofico, perché di poetico nel Convivio non c’è niente. Le canzoni
sono tutte interpretate filosoficamente. Probabilmente Dante ne risentì dell’inadeguatezza dell’opera e si
dedicò esclusivamente alla Commedia.

Gentile dice che l’aspetto filosofico in Dante non è affatto secondario, anzi. La filosofia è l’essenza stessa
dell’opera dantesca. La presenza dottrinale-filosofica non è d’intralcio all’aspetto poetico, non la rovina e
non la interrompe. Chi pensa che vada analizzata a parte sbaglia, filosofia e poesia sono strettamene
interconnesse.

Anche quando la dottrina traspare, quando Dante troppo scopertamente mostrava l’aspetto didascalico
(specialmente nel Paradiso), quando Virgilio spiega a Dante l’ordinamento morale di innumerevoli cose. Ma
anche quei punti, secondo Gentile, sono lo stile di Dante.

Nel canto XXIV del Paradiso Dante dimostra che per una parte della sua vita si è dedicato agli studi filosofici
come consolazione alla morte di Beatrice e all’esilio che gli è stato imposto.

Dante frequentò l’Ateneo bolognese.

Nel libro II capitolo XII del Convivio racconta del suo approccio alla filosofia. Racconta di quanto fu duro
all’inizio, ma poi divenne semplice come gli studi di grammatica che fece da giovane.

In questo periodo vede la fase della poesia della Vita Nova come una fase conclusa.

Parla del conforto degli studi religiosi, comincia a seguire lezioni e discorsi, comincia a percepirne “i benefici
e la dolcezza”.

Nel libro I capitolo I del Convivio Dante spiega le ragioni del suo passaggio alla Filosofia. Dice che il desiderio
naturale di tutti gli esseri umani è la conoscenza, ma non tutti possono averne accesso (come spiega nel
paragrafo VII).
VII: “Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca! e miseri quelli
che colle pecore hanno comune cibo!” = qual è l’ostacolo dalla sapienza filosofica? La lingua latina, perché
lezioni e trattati erano tutte in lingua latina. Usa in questo capitolo la metafora della mensa.

Da qui nasce il titolo dell’opera, ovvero Convivio, cioè banchetto. Le pietanze del banchetto sono le canzoni
di Dante ed i pane è il commento, fatto per la prima volta in volgare.

Per Dante la conoscenza filosofica è una sorta di consolazione, ma non può tenerla per sé sapendo che ci
sono persone che non possono accedervi.

Convivio è un’opera rivoluzionaria per Gentile, è la prima opera filosofica in volgare italiano. Dante
conclude la stagione filosofica europea internazionale che si affidava esclusivamente alla lingua latina.

Trattato I, Cap. I, Paragrafo X: Dante dice di essere ai piedi dei più grandi filosofi e di raccogliere le briciole
che essi lasciano cadere.

Paragrafo XVI: avverte che non vuole prendere le distanze e ripudiare la sua poesia giovanile (Vita Nova),
ma vuole più virilmente trattare quei temi. Gentile dice che non ha più l’età per la poesia giovanile, la sua
età avanzata e tutto ciò che gli era accaduto l’aveva reso un uomo diverso e perciò la poesia d’amore non
faceva più per lui. Dante non rinnega ma vuole approfondire in senso filosofico e dottrinale.

Dante si stava ridefinendo come intellettuale. Da poeta d’amore e politico della sua prima fase, ora si
ridefinisce come uomo di dottrina, dispensatore di sapere, lontano ormai dalle questioni di politica (questo
è ciò che vorrebbe farci credere, ma non è così e lo vedremo soprattutto negli accenti contro Arrigo VIII, in
cui lo invita ad attaccare Firenze).

Trattato I, Cap. III, Paragrafi 4-5: Dante esprime tutta la sua amarezza per l’esilio. Racconta di quanto egli
soffra l’allontanamento dalla città che l’ha visto nascere e crescere, afferma che spera di tornarci e di
passarci gli ultimi giorni della sua vita. La cosa più dolorosa dell’esilio è che spesso questa piaga viene
ingiustamente imputata al piagato, che viene sempre visto con sospetto, è una piaga umiliante.

Dice di essersi sentito come una nave senza vela e timoniere, sballottato di qua e di là. Si è dovuto
presentare diversamente da com’era e da come lo avevano immaginato (Dante fu priore). Si è sentito
invilito, umiliato. La cosa che più lo rattristò è che non si svilì soltanto la sua immagine, ma addirittura la sua
condizione di esule si riverberò in negativo sulle sue opere.

Sono due passaggi molto forti, Dante sembra quasi confidarsi col lettore.

Dante si mostrerà nell’opera un esperto conoscitore di tutte le fonti filosofiche, passate o presenti.

Nonostante ciò qualcosa andò storto. Dante non era un filosofo, non era nelle sue corde. Si vide confinato
in un ruolo di prosatore filosofico che gli stava stretto, lo soffocava. Probabilmente per questo interruppe la
stesura del Convivio, non ne era completamente soddisfatto.

Dante vorrebbe andare oltre, vorrebbe ambire a quello che è il suo vero grande modello, cioè Virgilio.
Secondo Gentile è a questo punto che nella mente di Dante la figura di Virgilio diventa centrale, attorno alla
quale meditare e forse costruire il nucleo centrale della Commedia.

Perché Virgilio? Perché fu l’apice della cultura imperiale romana. Era recepito successivamente come una
figura anche in senso filosofico, maestro, grande sapiente e persino vaticinatore (Ecloga 4 di Virgilio e
nascita del “puer” che avrebbe rinnovato il mondo, in realtà però faceva riferimento all’età augustea e al
rinnovamento della civiltà e non la venuta di Cristo). Era una figura carica di significati filosofici e mitologici,
alcuni addirittura lo considerarono mago.
È probabilmente all’altezza del Convivio che Dante medita su questa figura. Gentile si spinge oltre arrivando
a pensare che molto probabilmente la composizione della Commedia non avvenne nell’ordine dei canti
come ci sono giunti, ma probabilmente i primi canti sono stati scritti successivamente. Il primo canto scritto
da Dante, forse, fu il IV dell’Inferno, quello degli spiriti magni e del limbo, intellettuali precristiani, pagani,
classici. Tutti i nomi che cita dei filosofi in quel canto sono tuti filosofi classici che troviamo anche nel
Convivio. La sostanza filosofica del canto IV è talmente vicina a quella del Convivio che induce Gentile a
pensare che sia stato quello il primo canto scritto.

Trattato I, Cap II, Paragrafo XV: ritorna sulla questione del timore dell’infamia, del voler superare la propria
immagine infamata dall’esilio. Il tema dell’esilio traspare qua e là nel Convivio, lo ritroviamo ancora in varie
forme ed è molto importante il discorso che ad un certo punto Gentile estrapola dal capitolo IV del trattato
I. è un discorso fondamentale, Dante arriva al cuore, all’essenza del suo discorso: perché il volgare.

È una sorta di carità intellettuale verso chi non può avere conoscenza. Ma le vere motivazioni sono altre,
chiarite in questo capitolo. Secondo Gentile Dante conchiude ed italianizza la storia della filosofia europea,
conclude il capitolo della scolastica come sistema filosofico europeo somministrato esclusivamente in
latino. Apre con il Convivo la stagione della filosofia italiana.

Dante non prende completamente le distanze dalla filosofia scolastica. Spiega tre motivazioni per l’uso del
volgare nel Convivio (Gentile le spiega a pag. 16):

- “Cautela di disconvenevole disordinazione” = sarebbe stato fuorviante un commento di canzoni in


volgare fatto in latino. Se bisogna convertire in sostanza filosofica i testi volgari (le canzoni) sarebbe
contraddittorio commentarle in latino. Se son scritte in volgare vanno commentate in volgare. Il
latino non sarebbe stato utile per nessuno, chi è straniere comprende il latino ma non può leggere
il volgare, chi è italiano comprende molto di più il volgare.
- “Prontezza di liberalità” = volontà di elargire anche ai non dotti, ai non accademici, la scienza,
teologia e dottrina contenuta in queste canzoni.
- “Naturale amore alla propria loquela” = amore sconfinato per la propria lingua. È la motivazione
che piace di più a Gentile.

Trattato I, Cap. XIII, Paragrafo IV: questo mio volgare fu la lingua che permise ai miei genitori di conoscersi e
di unirsi, è lingua materna. È la lingua di mio madre e di mio padre. È come se fosse il fuoco che ha forgiato
la mia esistenza. Il latino viene dopo, è la lingua della maturità. “Manifesto in lui essere concorso alla mia
generazione, ad aver contribuito alla mia nascita, dunque io esisto perché esisteva il volgare”.

Gentile riprende questo paragrafo a pag. 18 e dice che Dante il volgare “se lo sente proprio nell’anima, nel
volgare vede plasmato il suo pensiero filosofico”. Dante pensa in volgare e non in latino.

Dante afferma che al volgare si può chiedere di più, anche la conoscenza filosofica e non solo la poesia
d’amore.

Paragrafo XII: Dante afferma che l’argomento del Convivio sarà insieme poesia e filosofia, proprio come il
suo maestro (Virgilio) comandava. Dante osa in questo paragrafo. Si paragona a Cristo che moltiplica i pani
e i pesci. “Questo sarà quel pane orzato, del quale satollerano migliaia”. Paragona l’utilizzo del volgare a
questa scena biblica.

Canto XXIV Paradiso: primo dei tre canti dell’esame. Dante viene esaminato sul tema di fede, speranza e
carità. In questo canto viene esaminato da San Pietro sulla conoscenza profonda della fede.

Verso 46: Dante descrive il momento in cui si appresta a sostenere l’esame. Si paragona al “baccelliere”, il
più bravo della classe che è in attesa e cerca di ripassare nella mente tutti gli argomenti per non essere
colto impreparato, finché il maestro non propone la questione. Allo stesso modo si preparava Dante a
rispondere a qualsiasi domanda di San Pietro che nel frattempo ascoltava Beatrice che gli presentava il
cammino del poeta fiorentino, in veste di allievo in questo caso.

Verso 52: San Pietro chiede a Dante cos’è la fede. Dante chiede a Beatrice se può parlar, ella acconsente e
Dante spiega cos’è la fede cercando di rispondere mostrando tutta la sua conoscenza. Dice che la fede è il
fondamento, il principio essenziale delle cose che speriamo di conseguire ma anche l’argomento, la prova, il
fondamento da cui partiamo per credere in quelle verità di fede. L’argomento delle non parventi, è
l’argomento sia delle cose che speriamo sia delle cose che non riusciamo a percepire coi nostri sensi. La
fede è il fondamento di tutto.

San Pietro approva, ma gli chiede di spiegarsi meglio. Chiede se nella sua “borsa” di buon cristiano c’è
questa ricchezza.

Ecco perché Gentile ritiene che in realtà gli aspetti filosofici di Dante non si limitano alla semplice scolastica.
Questo dialogo fa capire che la piattaforma è quella scolastica ma Dante attinse anche ad altre correnti.

Dante risponde a San Pietro che i profondi misteri che in Cielo gli sono stati svelati, in Terra la loro esistenza
è ammessa solo per atto di fede. Ora Dante può vedere la verità. Da questa fede dobbiamo dedurre per
logica, (sillogizzar, ovvero dedurre secondo sillogismi), tutte le verità senza intervento ausiliari di altre prove
(come la vista), è perciò che la fede assume la denominazione di argomento, viene derivata sillogizzando.

San Pietro non è ancora convinto. Dante conosce bene questa “moneta”, ovvero la fede, “ma dimmi se tu
l’hai nella tua borsa”, dimmi se hai fede.

Dante risponde di sì, ce l’ha “lucida e splendente”. San Pietro vuole sapere da dove viene questa gemma
preziosa che è la fede, qual è la fonte. Il dibattito si fa acceso, botta e risposta. La abbondante pioggia dello
Spirito Santo che si è aperta su Vecchio e Nuovo Testamento è il vero sillogismo, motivo razionale, che ha
conchiuso nella mente la dimostrazione a Dante.

La presenza dei testi sacri ha convinto Dante, la fede gli viene dalla conoscenza dei testi sacri ed ogni altra
spiegazione è inutile.

“E come mai ritieni che sia veritiera parola di Dio?” chiede San Pietro. Dante risponde che la prova quasi
sperimentale che gli dimostra la verità sono i miracoli. L’argomentazione che Dante dà è la meno razionale.

San Pietro incalza. Chi ti dà per certo che i miracoli sono esistiti? Come fai a considerare la veridicità dei
testi sacri con qualcosa che si trova nei testi sacri? La risposta di Dante è che il vero miracolo è la
conversione del mondo al Cristianesimo, che da un piccolo nucleo si sia diffuso nel mondo intero.
Basterebbe anche solo quest’ultimo miracolo come spiegazione.

Verso 133: Dante risponde che “a tal credere non ho prove” né fisiche né metafisiche, però crede.

Gentile dice che questo suo modo di concludere l’esame (che verrà superato) dà alla fine delle
argomentazioni che sono tutto fuorché scolastiche, fanno riferimento a nuovi modi di pensare già legati alla
mistica.

Dal Convivio si passa da scolastica a filosofia nazionale (ma teniamo a mente il pizzico di patriottismo di
inizio Novecento in cui scrive Gentile).

Il Convivio è un prosimetro, misto tra poesia e prosa.

Lezione 13 del 30 novembre: “Inverno II e XV, Paraiso XXV”


Canto XV Inferno, verso 61: incontro con Brunetto Latini
Discorso del dualismo etnico all’interno della società fiorentina, che sarebbe composta da due elementi. La
componente romana, quella onesta e predominante e quella fiesolana, degli uomini inurbati, scesi dalla
collina per guadagnare denaro. Dante attribuisce la colpa della corruzione a questo secondo gruppo, i
fiesolani, che in origine discesero da Fiesole. Questa vecchia fama dei fiesolani risalirebbe addirittura alla
congiura di Catilina, alla quale avrebbero preso parte, contro Cesare.

Brunetto Latini era un intellettuale raffinatissimo, era guelfo e fiorentino, anch’egli fu esiliato e si recò a
Parigi dove si aprì ad una veduta europeista, si trova all’Inferno per il peccato di sodomia. Dante, però, lo fa
esprimere con un linguaggio proveniente dal mondo agricolo, rurale, contadino, che non ci aspetteremmo
da un così raffinato letterato.

Brunetto comincia con una profezia post eventum sull’esilio di Dante.

Dante risponde a Brunetto che ciò che egli narra circa la vita di Dante, lo scrive nel suo libro della memoria.
Lo conserva dentro di lui pronto ad integrarlo con qualcosa che sarà detto successivamente, da una donna
(Beatrice).

Nel XVII del Paradiso gli verrà detto “figlio, queste son le chiose” come rimando al XV dell’Inferno e
chiusura della profezia.

Dante accetta con serenità dolente questa profezia di Brunetto, è pronto ad affrontare ciò che la fortuna gli
riserverà e farà notare a Brunetto che ai suoi orecchi quelle parole non son nuove (si riferisce, infatti, a
Ciacco nel canto VI dell’Inferno e a Farinata nel canto X dell’Inferno).

Strettamente collegato a queste profezie è il passo seguente:

Canto XXV, Paradiso, l’incipit è dedicato a quella che è la speranza di Dante quando ogni speranza è
cessata:

Dante riferendosi al suo poema sacro al quale hanno collaborato la scienza terrena e la scienza teologica, al
punto tale che lo sforzo lo ha “reso macro”, cioè deperire, dice che, se mai dovesse accadere che (sempre
questo poema) possa “vincere la crudeltà che fuor mi serra”, ovvero che lo tiene fuori dalle mura di Firenze,
allora “ritornerò poeta” e “prenderò ‘l cappello”, cioè ritornerà con un’altra voce ed un altro aspetto
(secondo alcuni perché vi tornerà da vecchio, secondo altri come Mirko Tavoni, intendeva di tornarci sotto
un’altra forma, un altro aspetto, cioè sotto forma di libro, di Commedia. Sarà il suo testo ad avere l’onore di
tornare a Firenze ed andare in giro per l’Italia. A quel punto della stesura della Commedia, infatti, Dante
aveva ormai già abbandonato le speranze di tornare in patria) e prenderà la corona poetica, cioè d’alloro
(alla quale ha sempre ambito ma che non ha mai ottenuto).

L’uso del termine “poeta” per mano di Dante è molto rivoluzionario, perché fino ad allora nel De Vulgari
aveva detto che il nome di poeta spettasse soltanto ad i poeti classici, era più corretto chiamare i poeti
volgari “rimatori” o “trovatori”, attribuisce quindi a se stesso un nome ed una dignità che doveva
appartenere solo ad i poeti classici.

Successivamente Dante si autoincoronerà in Cielo, come uomo di fede e come poeta, direttamente per
mano di San Pietro. In questo passo Dante si presenta come i nuovo Virgilio, anzi, meglio di Virgilio stesso
perché avendo superato l’esame con San Pietro è anche un ammaestratore teologico. È un vero e proprio
scavalcamento del modello da lui stesso scelto, ovvero quello virgiliano.

Il canto II dell’Inferno è detto interlocutorio. Dante dopo il conforto iniziale per aver ricevuto aiuto da
Virgilio mostra timore di fronte al percorso che Virgilio gli ha indicato, teme di non essere adatto ed in
grado. Virgilio per convincerlo fa riferimento a tutta la catena della grazia che si è attivata in Paradiso per
lui, dalla Madonna, ai santi fino ad arrivare a Beatrice per lui. Di fronte a questa spiegazione Dante recupera
la convinzione ed accetta la guida di Virgilio.

Gentile (pag. 23-24) dice, su Virgilio, che se la scienza teologica bastasse a soccorrere Dante ci andrebbe
direttamente Beatrice a soccorrere Dante. L’inferiorità ontologica di Virgilio rispetto a Beatrice, i suoi limiti
e tutti questi aspetti che verranno marcati durante la Commedia, non significano che il suo ruolo sia
inferiore rispetto a Beatrice. Il suo ruolo è propedeutico. L’impossibilità della ragione di andare oltre in
alcuni casi non significa che sia inutile.

Verso 10: Dante chiede al poeta, Virgilio, di esaminarlo, di verificare se la sua anima è pronta a compiere il
viaggio. Quello che chiede Dante è anche un esame di tipo poetico, chi meglio di Virgilio può esaminare le
sue capacità poetiche e capire se è degno e capace di descrivere una così alta materia?

Virgilio racconta che è stato chiamato da Beatrice, che non si muove per sé ma per ciò che si dice e vuole in
Cielo. Non può scendere direttamente Beatrice perché ha bisogno dello strumento, della chiave per aprire
la ragione di Dante. Beatrice convince Virgilio dicendo che quando tornerà nel regno dei Cieli porterà la
lode di Viriglio davanti a Dio. È una frase sibillina, una grossa inesattezza, Virgilio è un dannato, privato per
sempre della grazia divina. Perché una beata dovrebbe lodare un dannato agli occhi di Dio? È un passo che
ha aperto, insieme ad altri, una questione ancora irrisolta.

L’opinione di Giovanni Pascoli che dedicò tra il 1898 e il 1912 diversi saggi all’interpretazione della
Commedia è che in questi due versi si celi la criptosalvezza di Virgilio. Ovvero, dopo aver terminato questo
compito, grazie alle lodi di Beatrice potrà un giorno accedere anche lui al Paradiso.

Virgilio accetta e chiede a Beatrice cosa l’ha spinta così tanto da superare il disgusto di scendere giù
all’Inferno. Innanzitutto Beatrice ormai è beata, perciò le fiamme dell’Inferno non la tangono. Ma c’è una
donna gentile nel Cielo che ha avuto pietà per Dante, al punto tale che mitica temporeggiando il giudizio
duro che Dante avrebbe già meritato. È la Madonna che però non viene mai nominata, così come Cristo o
Dio. La Madonna, però, non si smuove direttamente ma utilizza Santa Lucia, protettrice della vista alla quale
Dante si affidò quando soffrì di dolori agli occhi ed impaurito dal perdere la vista.

Lucia si muove e si avvicina a Beatrice chiedendole di soccorrere colui che l’amò tanto e che per causa sua
uscì dalla schiera volgare (v. 105). Alla morte di Beatrice infatti Dante lascia la poesia volgare ed intraprende
una poesia più elevata, spirituale, poi passerà addirittura alla filosofia.

Beatrice, poi, si rivolge a Virgilio, perché sa che il suo parlare onesto è l’unico modo di aver presa sull’animo
di Dante. La fede e teologia non bastano da sole, ha bisogno della razionalità per allettare Dante.

La Madonna, Santa Lucia e Beatrice sono tre momenti della grazia. Secondo Gentile (pag. 30) la “grazia
preveniente” è la Madonna, quella grazia che scende sul fedele quando egli ancora non se n’è reso conto,
previene la sua richiesta. Poi c’è la grazia dell’illuminazione, ovvero Santa Lucia, in cui l’anima si rende
conto del suo errore. Infine c’è la grazia operante, quella che fattivamente si muove e va incontro alla
persona smarrita, ed è rappresentata da Beatrice. Le tre grazie potrebbero essere associate anche alla
Trinità.

Questa catena, però, s’interromperebbe se l’anima non venisse incontro alle grazie con la ragione, che da
sola non basta ma è fondamentale.

Lezione 14 del 3 dicembre ’20: “Matelda. Purgatorio XXVIII, XXX, XXXI”


La teologia Beatrice ha bisogno del Virgilio impero/ragione, ma, ad un certo punto, Virgilio dovrà cedere il
momento. Il passaggio di guida avverrà in modo molto articolato. L’addio straziante di Virgilio che
scompare viene preparato attraverso Virgilio e Dante stesso attraverso una serie di passi.

Il passaggio è molto prolungato. Dura circa sei canti e mezzo. È fatto di vari momenti e trapassi e
soprattutto caratterizzato dalla presenza di uno dei personaggi più enigmatici, ovvero Matelda.

La sua identità è ancora oggi oggetto di discussione.

XXVII Purgatorio: investitura intellettuale da parte di Virgilio

Verso 94 = descrizione di un sogno, il terzo ed ultimo della Commedia. È un sogno ispirato a fatti e
personaggi del Vecchio Testamento.

Racconta che nell’ora prima dell’alba, in sogno gli parve di vedere una giovane donna camminare per una
distesa erbosa e nel frattempo raccogliere fiori cantando e dicendo: “Chiunque chieda quale sia il mio nome
sappia che io sono Lia e muovo le mie belle mani per farmi una ghirlanda, per compiacermi guardando me
stessa. Tuttavia accanto a me c’è mia sorella Rachele che non si distrae mai dalla sua immagine, fissando se
stessa nello specchio tutto il giorno.”

Vengono descritte due donne, Lia e Rachele. L’una raccoglie fiori per adornarsi e specchiarsi, l’altra siede
tutto il giorno senza mai svagarsi e distrarsi. Sono chiaramente due comportamenti simbolici.

Continua dicendo: “lei è felice che i suoi begli occhi siano intenti a rimirare la sua immagine, esattamente
come sono felice io di adornarmi di fiori con le mie mani. Lei è appagata dalla vista di se stessa, io mi sento
appagata dall’operare”.

Rachele, nel vecchio Testamento, fu sorella di Lia moglie di Giacobbe. Per la legge ebraica, Giacobbe, pur
innamorato di Rachele era costretto a sposare prima la maggiore delle due sorelle per poi, alla morte di
essa, ambire alla seconda. Sposò quini prima Lia per poi avere Rachele.

È evidente la simbologia, il rapporto fra vita attiva e vita contemplativa. Tra la vita spesa correttamente
nelle opere e quella nella contemplazione delle bellezze sovra sensoriali e sovrannaturali.

Ambedue sono corrette e giuste: la vita attiva porta l’uomo a rapportarsi con il prossimo tramite l’azione e
l’agire, la vita contemplativa, però, sembra completare l’essere umano. Aristotele riteneva che la vita
contemplativa fosse la vetta più alta della tipologia di vita umana per eccellenza, senza però disprezzare la
vita attiva, vista come percorso per raggiungere quella contemplativa.

Questo sogno precede di pochi versi l’incoronazione intellettuale fatta da Virgilio a Dante, ed anche l’ultima
volta che Virgilio parla nella Commedia. Essenzialmente è questo l’addio di Viriglio, è l’ultima volta che ha
da dire qualcosa a Dante e da lì in poi si farà da parte.

Al v. 138 Virgilio pone un’alternativa a Dante: “seder ti puoi e puoi andar tra elli” (riferendosi ai fiori). Anche
qui è nascosto il dualismo tra vita attiva e contemplativa. Lo lascia e congeda dandogli la possibilità di
sedersi ed aspettare (vita contemplativa) o prendendo l’iniziativa ed avviarsi (vita attiva).

Dante sceglie di incamminarsi verso la foresta del Paradiso terrestre, sceglie la vita attiva.

Negli ultimi sei canti dei Purgatorio è quasi sempre solo o comunque circondato da pochissimi altri
personaggi. Si affianca come guida Stazio e, nel canto XVIII anche il personaggio di Matelda.

Canto XXVIII Purgatorio


Nel cuore dell’Eden, una selva ridente impregnata da un’atmosfera primaverile, c’è una sorgente dalla
quale si diramano due fiumi: Lete ed Eunoè. Le acque del Lete si ottiene l’oblio, ovvero la dimenticanza di
tutte le azioni negative, ha quindi il valore sacramentale di un nuovo battesimo. L’Eunoè (invenzione
dantesca), invece, restituisce la memoria delle buone azioni.

Ad un certo punto, al v. 25, Dante trova un impedimento. Incontra un ruscello dalle acque trasparentissime
che gli impedisce di andare oltre.

Dal v. 34 Dante spiega che si fermò coi piedi ma con gli occhi andò avanti. Dualismo vita attiva che si ferma,
ma inizia la vita contemplativa. Ammirava la bellezza dei rami e della natura.

Lì apparve una donna soletta che camminava e cantava cogliendo alcuni fiori. Richiama il sogno che è stato
appena narrato, quello in cui Lia raccoglieva i fiori. Tutti i sogni prefigurano in forma simbolica ciò che sta
per avvenire.

La donna non verrà mai nominata se non alla fine del canto XXXIII, nel quale scopriremo che si chiama
Matelda.

Il suo camminare assomiglia ad una danza. La descrizione richiama lo stilnovo, che Gentile disse che Dante
abbandonò con la Vita Nova.

Dal v. 76, ad inizio di verso, esordisce con il “voi”. Si rivolge a Dante, che è un vivo, a Virgilio che è un
dannato e a Stazio che è un futuro beato. Questo voi inevitabilmente nella sensazione del lettore accomuna
questi tre personaggi.

V. 133 = Matelda, per saziare la sete di sapere circa i due fiumi, ne fa un corollario, anche se non le è stato
chiesto.

Dante, dopo la spiegazione di Matelda sul monte Parnaso e sui vecchi poeti, si gira verso i “suoi” poeti (si
riferisce ad entrambi, anche a Virgilio) e vede che questi avevano accolto la spiegazione di Matelda con un
sorriso, con la consapevolezza della propria imperfezione.

Pascoli pensò che, siccome Matelda è preposta all’immersione di tutte le anime e che dovrà immergere sia
Stazio che Dante, anche Virgilio raggiunse la salvezza.

Pascoli ritiene che questa donna rappresenti l’arte, la forma più alta possibile di vita attiva. È enigmatica
perché sarebbe l’unico personaggio guida a non avere una chiara identificabilità storica, non vi è traccia da
nessuna parte. Si dice sia una suora di clausura, ma ipotesi scartata. Un’altra ipotesi è quella di Matilde di
Canossa, noto personaggio che tra il 1000/1100 portò papa ed imperatore ad una riconciliazione nel suo
castello. Ma sono tutte ipotesi da scartare perché questo personaggio, che ricopre il ruolo di custode del
Paradiso, dovrebbe ricoprire questo ruolo da sempre, dalla morte di Cristo. Se associata ad un personaggio
storico, morto dopo Cristo, questo lascerebbe un periodo vuoto in cui qualcun altro avrebbe dovuto
custodire quel luogo.

Gentile ritiene che la sostanza allegorica di Matelda non è l’arte, ma l’anello di congiunzione, di passaggio,
di transizione tra Virgilio e di Beatrice, avendo quindi un po’ della materia dell’uno ed un po’ dell’altra.

Il passaggio da Virgilio non credente e pagano a Beatrice sarebbe stato troppo brusco, Matelda serve da
anello mancante.

Matelda raccoglie dalle mani di Virgilio la perfezione dell’uomo terreno, forgiato da egli stesso.

Virgilio viene chiamato solo una volta “padre” nell’Inferno e tante volte nel Purgatorio. Paradossalmente,
man mano che si raffreddano le capacità di guida di Virgilio nel Purgatorio, aumenta la sostanza affettiva
dei due personaggi. Virgilio assiste a tutto, scompare solo nel momento in cui appare Beatrice.
Ma sappiamo che Virgilio esce di scena già parecchio prima, quindi perché resta? Perché egli, fino
all’incontro con Matelda, capisce tutto, può assistere. Scompare quando appare in scena cole che mai può
capire, ovvero la fede (Beatrice) in Dio.

Canto XXIX, verso 55: di fronte al corteo mistico, Dante stupito si gira verso Virgilio per vedere come egli
reagisce. La reazione è lo stupore, il maestro non è più maestro perché reagisce come il discepolo, ha
bisogno anche lui di una spiegazione.

Canto XXX, verso 28: apparizione di Beatrice. La reazione di Dante è molto stilnovistica, intessuta di
languori, sensi di svenimento. Anche qui Dante si volge per vedere la reazione di Virgilio, ma non può
vederla perché Virgilio non c’è più. La reazione di Dante alla sua visione è molto stilnovista, in risposta a
Croce che disse non esserci stilnovismo nella Commedia. Prende la parola Beatrice che lo chiama per nome
e lo rimprovera di piangere non per la scomparsa di Virgilio ma per ben altre cose.

Canto XXXI, verso 115: avviene un prodigio. Dante ha assistito alla mistica processione, ha visto il grifone
nella sua doppia natura che è rimasto fermo dinnanzi a lui. Dante immerge i suoi occhi in quelli di Beatrice
che, però, non guardano lui ma fissano gli occhi del grifone. Il riflesso nel grifone negli occhi di Beatrice
mostra un’aquila che si trasforma in leone e viceversa. Questo avviene perché Beatrice come scienza della
fede è l’unica in grado di spiegare ciò che gli occhi umani non sarebbero in grado di percepire da soli,
ovvero il mistero della doppia natura di Cristo.

Lezione 15 del 7 dicembre: “Dante e San Bernardo. Paradiso X, XX, XXXI, XXXIII”
Tutti gli ultimi canti del Paradiso sono occupati dalla preparazione alla visione, il rapimento mistico per
eccellenza.

Canto XXX, dal v. 19: il tema è sempre quello della verità rivelata, dell’ineffabilità, dell’impossibilità di
penetrare nel mistero divino.

Dante descrive la bellezza di Beatrice, impossibile da descrivere a parole al punto che solo Dio (“lo suo
fattore”) può comprendere e concepire la sua bellezza.

A questo punto della narrazione Dante si dichiara sconfitto, vinto, più di quanto non sia mai stato sconfitto
nessun poeta dalla materia non trascrivibile. Dante quindi dichiara l’impossibilità di trovare uno stile
letterario per Beatrice e l’impossibilità di stare dietro alla sua bellezza. Talmente tanto che la sua mente si
scinde dalla sua memoria, l’incapacità di descrivere deriva anche dall’incapacità di ricordare quella bellezza.

Dante dice che dal primo giorno che vide il suo viso fino a questo momento, era sempre riuscito a trovare le
parole precise per descriverla. Perciò, di fronte a questa situazione, Dante preferisce abbandonare le armi
poetiche e lasciarle a chi sa farlo meglio di lui.

Canto XXXI, v. 52: ancora più evidente è il discorso sul misticismo, è il momento dell’avvicinamento tra
guide (Beatrice e S. Bernardo).

È un addio quello di Beatrice simile a quello di Virgilio, è improvviso e si spegne in un sorriso.

Dante contempla la magnificenza delle schiere di beati sui loro seggi. Aveva ricompreso l’insieme della
Grande Rosa, al centro della quale si trova, osservando da lontano le anime che lo circondano.
Si volge verso Beatrice con la voglia di poter domandare e chiedere chi siano tutti quei beati e di dargli
spiegazioni rimaste in sospeso.

Dante si volta ma Beatrice non c’è più. Vede un anziano (“sene”: numerosi sono i latinismi). Aveva un
atteggiamento affettuoso e pio, come di un padre. Fino ad allora Dante non riusciva a distinguere le anime,
li paragonò infatti a dei bozzoli luminosi, da lì in poi il potenziamento della vista di Dante aumenta sempre
di più. Ora riesce a distinguere la fisionomia dei beati.

Dante è contento di avere al suo fianco S. Bernardo ma chiede subito “Ov’è ella?”. Beatrice per permettergli
di arrivare alla visione divina lo affida nelle mani di San Bernardo, campione di misticismo.
La teologia non basta fino alla fine.

S. Bernardo indica a Dante “il terzo giro del sommo grado”, lì dove Beatrice splende incoronata di raggi
luminosissimi. La distanza tra i due, però, non impedisce l’immagine di Beatrice ad arrivare agli occhi di
Dante.

Dante si lascia andare ad un’apostrofe per la sua amata donna: “donna motivo di mia speranza, che ti sei
abbassata al punto mio, devo a te e solo a te le tante cose che ho veduto e compreso e riconosco il tuo
potere e la tua bontà come emanazione della grazia e della virtù. Cerca di custodire in me, fino alla mia
morte, quella magnificenza e capacità di elevarmi spiritualmente che è stata resa sana da te”.

“Così orai”, dice Dante, come avesse appena detto una preghiera. Beatrice lo guarda da lontano e gli
sorride. L’ultimo gesto di Beatrice è lo stesso di Virgilio (XXVIII Purgatorio) e sarà lo stesso di San Bernardo.

San Bernardo invita Dante a bearsi della vista di questa rosa per allenarsi alla vista finale. “vola con li occhi
per questo giardino”

San Bernardo si presenta. È uno dei principali artefici del culto mariano. Ha avuto un’intensa vita pratica ma
anche scrittore mistico. Teorizzò la possibilità di poter salire alla divinità verso la contemplazione. Ha
esercitato con sommo grado le virtù della vita attiva ma poi si è dato alla contemplazione.

Paradiso, Canto XXXIII, v. 46: visio dei

Quello che si aspetta il lettore, cioè di veder descritta la divinità, è destinato ad arenarsi. Dante non ci prova
nemmeno. Piuttosto si dedica all’autoanalisi del venir meno alla possibilità di descriverla. È riuscito a
trattenere nella memoria più che pochi frammenti.

S. Bernardo lo invita a guardare oltre la Candida Rosa, lì dove Dante vede inizialmente solo un punto
omogeneo, un’unica luce. Da quel momento le sue capacità cognitive divennero sproporzionate di fronte a
quelle descrittive. Cede la memoria, cede la poesia e così muore la poesia. È il momento dell’excessus
mentis, della fuoriuscita dell’anima da sé.

Come chi sogna e non sa descrivere, come si scioglie la neve al sole, come si disperdeva la sentenza della
Sibilla (che scriveva il suo vaticinio sulle foglie, poi disperse con il vento). Dante dismette i panni di poeta
ma chiede alla divinità di restituirgli qualcosa per poter narrare ciò che ha visto, non per la sua gloria ma
per la gloria della divinità stessa.

È un momento di solitudine, non c’è più neanche San Bernardo.

Gentile (pag. 40) afferma che questi passi non sono più teologia ma ascensione mistica.

La scelta di San Bernardo è indispensabile perché la teologia (Beatrice) non basta per raggiungere la
divinità. Serve la contemplazione, San Bernardo aveva contemplato in vita.

Quando Dante contempla la divinità, a detta di Gentile, compie un errore. Nell’insistere con la possibilità di
poter mettere in parola ciò che vede è come se commettesse un errore.
La parola è il logos per eccellenza, quando metto qualcosa in parole l’ho razionalizzata. Non si può mettere
in parole, o versi, qualcosa che non è chiara nemmeno a me. L’ostinarsi a chiedere il potenziamento del
proprio logos è un errore, perché non si può, la vera e unica strada è quella della contemplazione mistica e
dell’ineffabilità. Infine Dante capisce che non può continuare a chiedere il potenziamento perché
resterebbe legato ad un errore.

Dante inizia il suo percorsa da razionalista, quindi aderente alla filosofia scolastica, ma termina da mistico,
con il misticismo.

Resta secondo Gentile un dualismo insanabile nella scolastica, perché pretende di affrontare con logica e
razionalità anche ciò che logico, come la divinità, non è.

La distanza tra lui e Beatrice, quando elle lo lascia, è allegorica: è la distanza tra la scolastica ed il
misticismo.

Dante, secondo Gentile, è come se fosse il punto finale della filosofia medievale. Dopo Dante si inizia la
filosofia moderna, umanistica, la separazione definitiva del mondo filosofico da quello della fede, della
religione. Due mondi che la scolastica aveva tentato di mantenere uniti e legati. Non è un mondo ateo
quello che viene dopo Dante ma è un mondo in cui la filosofia avrà il suo spazio e la fede il suo.

Lezione 16 del 10 dicembre ’20: “Paradiso VI. Dante e la mitopoiesi fascista”


Canto VI Paradiso: secondo la tradizione i sesti canti hanno una marcata valenza politica. Vale un po’ meno
per il sesto del Paradiso.

È ambientato nel cielo di Mercurio, a parlare è l’imperatore Giustiniano e famoso per il Corpus Iuris Civilis e
la sua attività da imperatore bizantino. Ci interessa l’excursus fatto sulla storia dell’impero romano, al di
sotto della protezione delle ali dell’aquila, simbolo imperiale.

Questo canto, insieme a quello di Sordello, furono particolarmente oggetto di strumentalizzazione in epoca
Rinascimentale e Fascista. Il ritmo del canto è particolarmente calzante, per certi versi somiglia alle strofe
geografiche del “5 maggio” di Manzoni.

Il canto si apre con la condanna della donazione di Costantino, che determina l’inizio del percorso di
corruzione della Chiesa.

Nelle prime terzine Giustiniano spiega come rapidamente sia arrivato il potere nelle sue mani. La terzina
inziale parla di una rima ferita all’ordine dell’Impero, il trasferimento della sede dell’Impero da Roma a
Bisanzio, da Occidente ad Oriente, “in senso contrario al moto del ciel”. Lì si stabilì per oltre duecento anni
nella parte più estrema dell’Europa passando lo scettro del potere di mano in mano, fino a giungere a
Giustiniano, che parla in questi versi.

“Fui Cesare e sono Giustiniano”, nel senso che fu imperatore ma ormai non lo è più, rimane solo se stesso,
Giustiniano. Prima di cominciare l’opera di legiferazione credeva nell’eresia monofisista, ovvero quella che
crede che Cristo avesse solo una natura umana e non divina. Ma il papa Agapito lo convertì e lo battezzò
alla fede divina, sincera, raddrizzando le sue convinzioni.

La sua opera di legislatore cominciò nel 528. Tutti gli episodi narrati di seguito a proposito delle guerre
Puniche, di Scipione, dei successi di Cesare e del rapporto con Pompeo, sono assolutamente manipolati da
Dante, modificati allo scopo di far coincidere tutti gli elementi in maniera tale che ne emerga un affresco
coerente con la provvidenzialità dell’impero.
Es: l’opera di legislazione iniziò nel 528, la conversione si ebbe successivamente, ma Dante convertì la data
della promulgazione del Corpus Iuris Civili per farla coincidere con quella della conversione e per far
dipendere l’illuminazione giuridica dell’imperatore proprio dallo spirito santo. Tutto viene sottomesso alla
provvidenzialità del disegno divino dell’aquila.
v. 86: “terzo Cesare”, vero culmine dello splendore dell’Impero, non Giulio, non Augusto, ma Tiberio,
perché sotto il suo Impero sarebbe avvenuta la passione di Cristo.

Questo discorso termina con l’invettiva di Giustiniano contro Guelfi e Ghibellini, che si oppongono alla
fatalità dell’aquila, all’Impero, che è non solo follia ma anche blasfemia. È un discorso ritrovato anche
nell’Epistola VI di Dante, che condannava i fiorentini che ostacolavano la discesa di Arrigo VII.

Dante e la propaganda fascista


Con Ventennio ci si riferisce ai ventun anni di regime fascista, dalla marcia su Roma del 28 ottobre 1922,
fino al pomeriggio del 25 luglio 1943, ovvero quando Mussolini, in minoranza al Parlamento, viene fatto
arrestare da Vittorio Emanuele III. Fino al 25 aprile 1945 vi è governo Badoglio, che nasce con l’armistizio
dell’8 settembre del ’43 e sarà quel governo che si alleerà con gli americani. In quei due anni che seguono
quel pomeriggio accadranno molte cose, dalla Resistenza al rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma,
oltre che fosse ardeatine ed intoppo dell’armistizio. Mussolini nel frattempo finisce come prigioniero
protetto nelle mani di Hitler e fonda la RSI (Repubblica Sociale Italiana o Repubblica di Salò), uno Stato
fantoccio che controlla a stento parte del centro e nord Italia, ormai Mussolini è esautorato.

Nel Ventennio, però, la fascistizzazione non avviene da un momento all’altro ma in maniere massiccia nelle
strutture dello Stato e della cultura negli Anni ’30, quando Giovanni Gentile ha già abbandonato il
Ministero. La fascistizzazione è capillare, pervade scuole, università, organizzazioni culturali.

Cosa succede alla letteratura italiana? Molti autori e testi vengono utilizzati a scopo propagandistico.
In particolar modo Dante, ma anche Petrarca ed Alfieri.

Tutti questi autori divennero funzionali al culto del duce. Il processo di mitopoiesi di alcuni letterati non
nasce col Fascismo, ma già con il Risorgimento nel secondo ‘800. La Lanfranchi ritiene che tutto sommato,
in quell’epoca, era un meccanismo ancora troppo debole. L’idea che l’unificazione dell’Italia fosse qualcosa
di fatale, voluto dal destino ed auspicato già dagli autori precedenti, era un’idea che serpeggiava già in
quegli anni, per esempio con Mazzini. Il Fascismo, però, amplifica in negativo questa strumentalizzazione
già in atto nell’800.

Chi collaborò a questo processo di mitopoiesi? Intellettuali di vario livello e spessore che contribuirono a
creare questo legame tra poesia e Regime. Ovviamente avvenne con vari livelli di qualità, ci furono
intellettuali di spessore e non.

Nel 1938 (anno delle leggi razziali) esce l’edizione critica di Giuseppe Mandelli, aggiornata dopo quella del
’21, il lavoro forse più serio prima dell’intervento filologico di Petrocchi. Essendo un lavoro di revisione
testuale tecnico sembrerebbe non prestare minimamente il fianco alla propaganda fascista, eppure nella
prefazione di Francesco Sapori trova spazio l’appropriazione ideologica, egli dice infatti che “il poema è il
vaticinio della nuova Italia imperiale” ovvero la giustificazione delle mire imperialistiche dell’Italia fascista,
come se Dante fosse solo questo. Continua “in Dante messo in bando dalle ingiustizie feroci ravvisiamo
l’Italia fascista”, si paragona l’esilio di Dante e la sua critica nei confronti delle istituzioni medievali al
destino dell’Italia dopo la metà degli anni ‘20 che fu sottoposta dalla Società delle Nazioni a sanzioni
economiche dopo l’inizio della conquista dell’Africa Orientale in barba ai divieti di Francia ed Inghilterra.

La storia personale di Dante, viene paragonata all’Italia vessata da nazioni invidiose di lei e del suo percorso
coloniale. Percorso associativo bizzarro.

Si cerca profetismo ovunque, anche dove non c’è. È il caso di Petrarca, autore di “Africa” che, sotto la lente
del Regime, viene individuato come stimolo a continuare la guerra coloniale in Africa stessa. Il riferimento a
Petrarca giustifica nel più nobile dei modi il massacro degli etiopi.
Anche Leopardi, in un suo lavoro meno conosciuto, “Paralipomeni della Batracomiomachia”, poemetto
satiro sulla lotta tra rane e topi, viene strumentalizzato. In questo poemetto viene intravista un’ottava, una
strofa in cui Leopardi satireggia contro il popolo italiano che non è in grado di recuperare i fasti del passato
e di proporsi come guida culturale. Il riferimento era di tutto altro genere, si riferiva alla cultura illuminista e
alla grettezza della cultura marchigiana e laziale che non si era aperta all’illuminismo. Questa strofa e in
particolare l’ultimo verso “regina torneria la terza volta” è stato molto strumentalizzato, divenne la base
del mito della Roma fascista, la cosiddetta terza Roma. Quando Mussolini varò il progetto dell’Eur, quartiere
ammirato, nasce come quartiere per l’Expo che si doveva tenere nel 1942, Eur è l’acronimo di Eur42 ovvero
Esposizione Universale Roma 1942, nel discorso sul progetto dell’architetto Piacentin, l’architetto del
Regime, Mussolini parlerà di una “terza Roma”, alta sui colli fatali. La Roma fascista doveva essere il terzo
momento nella storia provvidenziale di Roma, dopo quella di Augusto (Imperiale), quella dei Papi
(Rinascimento) e infine quella Fascista.

Sostanzialmente la macchina della mitopoiesi agisce senza nessun rispetto verso il contesto storico da cui
venivano i versi strumentalizzati.

Bodero dice che solo dal punto di vista fascista si può intendere ciò che Dante voleva dire.
Come un messaggio rimasto nascosto nei tempi e che si realizzava nel regima fascista italiano e imperiale.
Dante viene visto come profeta non solo dell’Italia unita, ma dell’Italia che finalmente vuole affermare sé
stessa come potenza internazionale e quindi nuovamente sede dell’Impero. Il discorso dell’appropriazione
di Dante è duplice perché, se gli altri intellettuali venivano utilizzati a scopo propagandistico per legittimare
le azioni coloniale, Dante viene usato per legittimare la costituzione dello stato totalitario, quindi sia politica
interna (stato totalitario) sia versante politica estera (legittimazione politica impresa coloniale), la sua
strumentalizzazione è duplice.

Francesco Ercole, dopo Gentile, sotto Mussolini, sarà Ministro dell’Istruzione. Secondo la Lanfranchi, che
scrisse il testo in esame (Verrà un dì l’Italia vera), Ercole disse (nel 1917) che l’Italia finalmente unita
riemergeva come potenza al pari delle altre nazioni europee e a quel punto poteva diventare di nuovo il
cuore dell’Impero. Ercole, in realtà, non parlava di fascismo o colonialismo, perché ancora troppo presto.
Quando parla di sede dell’Impero universale non sogna davvero che l’Itala torni al centro dell’Impero, (nel
1917, dopo la disfatta di Caporetto? Impossibile). Piuttosto si riferisce (non di certo a Mussolini, perché
ancora presto) ma alla capacità dell’Italia di essere guida spirituale per il mondo occidentale, cioè ripetere
quello che era stato il ruolo dell’Italia nel Rinascimento, polmone della cultura e dell’arte europea, parla di
Impero universale ma più in senso ideale che non statuale.

Secondo la Lanfranchi, Gentile si prestò molto più di Ercole al processo di mitopoiesi, citando il capitolo “la
profezia di Dante” del libro “Studi su Dante” afferma che, in quel saggio, Gentile ritiene che Dante
profetizzava una pacificazione tra Stato italiano e Chiesa, un rapporto ricostruito fra potere temporale e
spirituale, in cui il potere spirituale fosse totalmente libero dai lacciuoli di quello temporale.

La Lanfranchi cita De Carlo che chiede se non sembra a chiunque proprio Mussolini quel veltro che doveva
riconciliare la Chiesa e lo Stato, lui che nacque nella Romagna (tra Feltro e Montefeltro) e che accostò
Chiesa e Stato con i Patti Lateranensi.

Gentile si appropria di Dante per due forme di profetismo, storico e ideale. Quello storico è alla De Carlo,
che vede avverarsi in Mussolini la profezia di Dante, quello ideale è di Mussolini, che parla sempre senza
mai alludere a Mussolini. Gentile parla di uno Stato forte, ma lo fa nel 1918, periodo in cui il Governo cade
spesso, la maggioranza non regge mai troppo. Era a quello che si riferiva e non al fascismo.

Fubini, nel ’28 (quattro anni prima fu ammazzato Matteotti), disse che bisognava evitare in tutti i modi gli
anacronismi che falsano l’interpretazione del contesto storco.
Bruno Nardi, figlio intellettuale di Gentile, pubblica un testo sul profetismo di Dante, opponendosi alla sua
strumentalizzazione, afferma che poco importa se le sue profezie si sono avverate o no, ciò che importa è la
dimensione ideale di quel profetismo, che cosa significava per Dante profetizzare l’avvento di un salvatore
in Italia. Ci interessa quale fosse la base ideale di questo profetismo, cosa sognava, non se si sarebbero
attuate o no.

Alla Lanfranchi sfuggono le ultime pagine (pag. 169) del saggio di Gentile. Egli disse che la profezia di Dante
non è qualcosa da interpretare storicamente, ma ciò che si agita come eterno presente, una sorta di meta
ideale da tener presente. Esattamente quello che diceva Nardi.

L’idea di Stato che aveva in mente Dante, dice Gentile, è un’ideale. È qualcosa per la quale dobbiamo
faticare per costruire, ma è qualcosa che l’Italia e l’uomo non raggiungerà mai. È una meta verso la quale
tendere ma non potremo mai dire di aver completato l’opera, è un’idea eternamente irrealizzabile, un
progetto ideale. Esattamente quello che dice Nardi.

Peccato che la Lanfranchi considera quello che disse Nardi in opposizione, com’è giusto che sia, a tutto ciò
che fu prodotto in epoca fascista, includendo, però, anche Gentile.

Gentile tenne sempre fuori i suoi studi letterari da quelli politici, checché ne dica la Lanfranchi.

Lezione 17 del 14 dicembre: “Domenico Venturini: Dante e la propaganda fascista”


Prof. Bordasco su Domenico Venturini.

Domenico Venturini è l’autore del volume “Dante Alighieri e Benito Mussolini” pubblicato nel 1927, assurge
a caso esemplificativo della fascistizzazione dell’opera dantesca che si ebbe in ambito pubblicistico.

Fu pubblicato non solo tra le opere per l’incremento della letteratura fascista ma anche a beneficio
dell’Opera Nazionale per il cimitero monumentale del Grappa. Il cimitero è uno dei sacrali militari voluti dal
fascismo. L’opera, quindi, è strettamente legato ai programmi politici del Regime.

Capitolo I: consiste in alcune pagine celebrative del genio dantesco che servono a preparare l’uso
nazionalistico di Alighieri. La grandezza dantesca, infatti, diventa la grandezza della nazione italiana.
A pag. 12, Venturini scrive che “all’Italia basta Dante per essere nel pienissmo diritto a menar vanto”.
Il Venturini celebra il genio dantesco per la vividezza con cui è riuscito a rappresentare ogni cosa, a pag. 14
definisce il Poema “un continuo collegamento d’ipotiposi, una vivacissima pittura che parla alle orecchie”.

Capitolo II: L’uso nazionalistico dell’Alighieri lo si può rinvenire già nel secondo capitolo in cui il Venturini
definisce, già nel titolo, il poeta fiorentino come un antesignano dell’Unità d’Italia. Di fronte ad una penisola
che, nel XIII secolo era ancora frazionata dal punto di vista politico, Dante riuscì a concepirla come una
nazione unita, sia linguisticamente (sostenendo nel De Vulgari l’esistenza di un volgare comune) e sia
geograficamente segnandone più volte i confini.

Nella prefazione Amilcare Rossi riconosce il valore di quanto scritto dal Venturini esaltandone in particolar
modo “l’entusiasmo di fascista”.

Capitolo IV: primo dei due capitoli sulla questione profetica si apre proponendo la tesi che Venturini si
appresta a dimostrare, ovvero (a pag. 23) afferma che solo con l’ascesa di Benito Mussolini si hanno
sufficienti elementi per affermare che il grande vaticinio dantesco sul Veltro ha raggiunto finalmente la sua
completa applicazione storica.

Seguono una decina di pagine in cui Venturini prepara la dimostrazione di questa sua tesi ricostruendo il
violento clima politico che si respirava a Firenze nel ‘300.
Le fonti del Venturini sono autorevoli e vengono menzionate di volta in volta. Cita Leonardo Aretino, cioè
Bruni, nella prima metà del ‘400 fu Cancelliere fiorentino. Cita una delle postille contenute dentro il Codice
Caetani, un manoscritto della Commedia attribuito all’umanista Marsilio Ficino. Cita ancora lo storico
Isidoro del Lungo, il letterato ginevrino Sismonde de Sismondi e il dantista svizzero Giannandrea Scartazzini.

Quella coscienza da erudito che viene riconosciuta a Venturini della Prefazione non può esser negata, ma è
pur vero che non aggiunge nulla alla dimostrazione della sua tesi affinché possa farla ritenere valida.
perché quella ricostruzione (ovvero sul clima politico che si respirava a Firenze nel ‘300) è servita a
Venturini soltanto per individuare un’analogia in fatto di politica tra l’epoca di Dante ed i tempi
immediatamente precedenti all’avvento del fascismo. Un’analogia che doveva fungere da presupposto per
allargare anche al XX secolo quella medesima necessità avvertita dall’Alighieri circa la venuta di un Veltro
che la tesi venturiniana riconosce in Mussolini.

Qual è questa analogia in fatto di politica? Pag. 35 Venturini afferma che già ai tempi di Dante ancora nei
primi decenni del ‘900 vi era sul territorio una radicata presenza di uomini che non per amor patrio ma solo
per brama di potere ricoprivano degli incarichi pubblici, determinando così continui rivolgimenti in ambito
politico con cui precludevano la stabilità dell’Italia non essendo in grado di reggerne le sorti.

Ancora a pag. 35 il Venturini riconosce che questa è una sorta di legge propria della storia politica, dai
tempi di Dante fino ad ora.

Lo scrittore ripropone la sua tesi in termini diversi per imprimerla nella mente del lettore e scandirla ogni
volta aggiungendoci nuovi dati. È ben evidente come in questo volume la retorica abbia avuto buon gioco.
Venturini si sforza di conferire sistematicità ad un’idea largamente diffusa.

Venturini comincia ad argomentare la sua tesi a partire da pag. 37 aggiungendo una precisazione finora
omessa, ovvero che nella mente dantesca la figura del Veltro, “se si vuole stare alla storia”, veniva ad
identificarsi con il Signore di Verona Cangrande della Scala. Voleva fare riferimento al verso 105 di Inferno I
“e sua nazion sarà tra Feltro e Feltro”, ovvero che il salvatore d’Italia sarebbe nato tra la località veneta di
Feltre e quella di Montefeltro, i limiti territoriali del dominio signorile di Cangrande. Invece, quando
Venturini dice “se si vuole stare alle replicate dantesche dichiarazioni” doveva riferirsi al verso 94 di
Paradiso XVII “in non curar d’argento né d’affanni”, il passo in cui Cacciaguida concedeva un elogio a
Cangrande lasciando intendere che da lui ci si aspettano grande cose.

Nonostante una scarsa probabilità di un’identificazione dantesca di Cangrande con il Veltro, essa può
essere riconducibile al fatto che egli aveva ricevuto la nomina a vicario imperiale da Enrico VII e, a seguito
della morte di quest’ultimo, agì come difensore della causa ghibellina, ponendosi a capo del ghibellinismo
italiano. Proprio questo può aver indotto il Venturini a sostenere l’opinione circa un’identificazione
dantesca di Cangrande col Veltro, che rimane comunque scarsamente probabile.

In che maniera viene argomentata la tesi del Venturini? Da pag. 37 la dimostra commentando alcuni versi di
Inferno I (relativi alla profezia del Veltro) ed alcuni versi di Paradiso XVII (relativi alla profezia dell’esilio
dantesco pronunciata da Cacciaguida) pronunciandoli in stretta relazione tra loro. Il suo commento, però, è
orientato a far corrispondere ogni tratto della figura dantesca del Veltro con la persona di Mussolini, in una
maniera del tutto arbitraria che non può poggiare su nessuna fondata osservazione.

La virtù esibita da Cangrande, coincidente secondo Venturini con il Veltro, che lo avrebbe portato a
disprezzare ricchezza e fatiche militari, poteva rinvenirsi nella condotta assunta dal Duce. Citerà,
addirittura, alcune parole di Mussolini quali “le società umane non si sviluppano e non grandeggiano se non
c’è disinteresse in chi comanda” che sarebbero, secondo Venturini, l’esatto commento del verso dantesco
“questi non ciberà terra né peltro”.
Lega, inoltre, le parole pronunciate da Cacciaguida a Cangrande (riguardo il giusto operato che avrebbe
dovuto attuare, in quanto figura che si legava alla possibilità di una restaurazione del potere imperiale) alle
contingenti vicende storico politiche.

Venturini continua riepilogando tutti i dati finora argomentati ed aggiungendone sempre di nuovi.

Venturini, consapevole dell’abuso propagandistico che sta facendo dell’autorità letteraria dantesca, quasi
provvede a prevenir un’eventuale accusa di esagerazione incalzando le sue affermazione con le frasi “non
esageriamo affatto” e ancora “senza tema di esagerazione”.

Fa bene a preoccuparsene considerando quello che scrive nelle pagine successive.


Egli procede a completare il ritratto del Veltro mussoliniano attraverso il riconoscimento nel Duce delle
prerogative assegnate da Dante alla figura del Veltro, ovvero “sapienza, amore e virtute” ma anche “ardire
e franchezza”.

Venturini fa notare che furono proprio l’ardore e la franchezza a dare agli italiani la fatidica Marcia su
Roma. In questo caso, però, l’errore di Venturini fu quello di riferire al Veltro quell’endiadi di “ardire e
franchezza” che in realtà nella Commedia Virgilio riferì a Dante dopo essersi mostrato dubbioso circa il suo
viaggio ultramondano.

Le altre tre prerogative, “sapienza, amore e virtute”, sono pienamente riconoscibili nel Duce:

- Con la sapienza il Mussolini avrebbe riformato l’organizzazione ed il funzionamento dei vari ambiti
politici, varando riforme a livello nazionale.
- L’amore l’avrebbe dimostrato nell’attaccamento al glorioso passato romano della nazione italiana.
Afferma, senza esitazione, “è questo l’amore che Dante voleva nel Veltro” e ancora “queste
nobilissime parole del Duce avrebbero riempito di gioia l’esule”.
- Le virtù del Duce, invece, sono così tante che destano la meraviglia e l’ammirazione anche dei
nemici.

Il discorso sulla profezia dantesca viene interrotto solo per essere ripreso nel penultimo capitolo, per
lasciare impresso al lettore l’idea principale del testo, ovvero Mussolini salvatore d’Italia.

Con le parole di Beatrice del “cinquecento diece e cinque” il riconoscimento di Mussolini riesce al Venturini
ancora più facile, potendo sfruttare l’ipotesi largamente sostenuta secondo cui trascrivendo a lettere le
cifre romane ed invertendo le ultime due si ottiene il termine latino “DVX”.

Il Venturini (a pag. 109) afferma che Dante avrebbe preannunciato l’avvento non soltanto della personalità
di Mussolini, ma persino quel titolo di Duce con cui Mussolini si pone a capo dello Stato italiano.
Il DVX dantesco aveva quella missione di restaurare i degenerati rapporti tra la Chiesa e l’Impero
restituendo al secondo piena autorità sulle cose temporali. Restaurazione che proprio Mussolini si
apprestava a compiere. Infatti, sebbene solo l’11 febbraio del 1929 furono stipulati i Patti Lateranensi, ben
parecchio tempo prima furono emanate alcune concessioni alla Chiesa, tra cui l’insegnamento obbligatorio
della religione cattolica nelle scuole elementari. Inoltre, proprio l’anno precedente alla pubblicazione del
Venturini, quindi il 1926, Mussolini avviò con la Santa Sede dei colloqui in vista di un accordo istituzionale.
Ecco perché, già prima del concordato dei Patti, Ventrini poté dire che Mussolini rispettò quanto afferito da
Dante alla figura del DVX.

Capitolo V: può considerarsi una prosecuzione del discorso venturiniano sulla profezia.

All’interno della struttura metodicamente studiata di questo volume, non può ritenersi casuale la scelta di
far seguire il capitolo “Dante ed il delitto politico” subito dopo aver proposto quella risoluzione fascista del
profetismo dantesco ante eventum che gli è servita a legittimare attraverso l’autorità letteraria dell’Alighieri
l’instaurazione del Regime in Italia. Infatti in questo capitolo Venturini intende ammonire al riconoscimento
della legittima presenza di Mussolini a capo dello Stato italiano sia pur tacitamente, facendo notare che tra i
traditori ai quali Dante ha riservato la parte più bassa dell’Inferno, vi sono anche quelli da considerare tra i
più grandi criminali politici, ovvero Bruto e Cassio, che tradendo Cesare tradirono l’Impero, e Giuda, che
tradendo Gesù tradì la Chiesa.

Attraverso quella che sembra essere un’illustrazione di parte dell’Inferno dantesco passa anche un
ammonimento verso chi diffida dal riconoscere la figura del duce. Quando il Venturini, infatti, dice “chi è
attento alla vita di questi (cioè all’imperatore e al pontefice) è nemico pubblico e sceleratissimo perché
dispregia humana iura et divina” sta sottintendendo nella figura imperiale la figura dello stesso Mussolini,
che esplicitamente si poneva agli occhi del popolo italiano come un continuatore degli imperatori romani.
È un ammonimento che si riferisce in particolare ai tre tentativi di attentato ai danni del Duce, tutti
scampati da Mussolini.

Risulta evidente alla luce di tutto ciò quanto all’interno del testo l’opera dantesca venga piegata ai fini delle
ultime vicende del regime. Si avverte persino la volontà di strappare anacronisticamente il consenso per
alcune iniziative fasciste.

Venturini, inoltre, riprendendo ancora la figura letteraria ed umana di Dante, ricorda l’origine romagnola e
l’esperienza di esule di Mussolini. Propagandisticamente parlando, però, non fu una buona mossa.
L’esilio mussoliniano, infatti, è più una fuga del Duce stesso per sfuggire al servizio militare. Un dato
biografico che certamente non andava a sostegno della politica nazionalista che Mussolini stava attuando in
quegli anni. Oltre che non è paragonabile affatto all’esperienza d’esilio che toccò a Dante per essersi
esposto in prima persona entro le complicate faccende politiche della sua citta durante il priorato svolto tra
il giugno e l’agosto del 1300. Nonostante Venturini stesso fa notare il difficile paragone tra i due, trae
comunque come conclusione il fatto che entrambi provarono le umiliazioni della povertà, dell’esilio e il
dolore della lontananza dalla patria.

La questione circa l’origine romagnola di Mussolini ha indotto Venturini ad intitolare un capitolo “Dante e
la terra di Romagna”, in cui si premura di ridimensionare la portata delle parole pronunciate da Dante in
Inferno XXVII in risposta a Guido da Montefeltro, definendole parole di rampogna.

Nel saggio di Ercole citato dalla Lanfranchi “L’unità politica della nazione italiana e l’impero nel pensiero di
Dante” non è ammissibile rivenirvi alcune implicazione fascista. Quell’interpretazione statalista dell’impero
dantesco di cui parlava la Lanfranchi non può essere inteso come un tentativo di legittimare lo stato di
Mussolini ma è riconducibile a quella che è stata l’intuizione di Ercole e cioè che secondo Dante la penisola
veniva a costituire una nazione unita non solo geograficamente, linguisticamente e culturalmente ma anche
da un punto di vista politico, mantenendo una sua autonomia di vero e proprio Stato, pur rimanendo
soggetta ad una superiore autorità imperiale. Nel pensiero dantesco la portata universalistica dell’impero
non soltanto non annulla la possibilità che ci sia un stato italiano ma addirittura lo presuppone essendo
l’imperatore innanzitutto il re della nazione italiana, in quanto re dei romani, di quel popolo a cui per diritto
storico spetta il potere imperiale. Questa intuizione è giuridicamente fondata.

Dante, secondo Ercole, auspicava che ciò che era teoricamente previsto in ambito giuridico si
concretizzasse anche in un fatto politico, e cioè che avrebbe dovuto esserci un primato italiano sul mondo,
nel senso che il re della nazione italiana è un re imperatore, a differenza degli altri.
Lezione 18 del 17 dicembre: “Il Danteum di Terragni e Lingeri”
Concludiamo con un episodio di dantismo mai posto alla ribalta.

Stiamo parlando dell’episodio del Danteum, un edificio mai realizzato. Dante fu usato a tutti i livelli:
celebrativo, come accadde con Venturini, ma anche a livello di propaganda visiva, col Danteum (poi mai
realizzato). Il Regime nel Ventennio cercò consenso attraverso tutti i canali possibili. Uno degli aspetti che
persiste ancora tutt’oggi è l’elemento architettonico.

L’esempio più noto è il Palazzo della Civiltà, chiamato volgarmente il “Colosseo quadrato” che celebrava
nascostamente il Duce (i sei ordini di archi in orizzontale per i nove in verticale richiamano il numero delle
lettere del nome Benito Mussolini). È l’emblema dell’Eur, doveva essere il quartiere dell’expo del 1942, mai
realizzato a causa della Seconda Guerra Mondiale, e doveva essere anche il quartiere della terza Roma.

Marcello Piacentini, detto l’architetto del Ventennio, fu autore di un altro simbolo del Ventennio, ovvero
l’Università di Roma “La Sapienza”. Anche a Foggia Piacentini pose mano, in particolar modo nel Palazzo
degli Studi (Liceo Classico Lanza) o la struttura di Piazzale Italia.

Nel 1938, anno delle leggi razziali, l’Accademia di Brera di Milano suggerisce al Duce di preparare l’Expo
aggiungendo nel quartiere Eur di Roma un edifico che celebrasse la più grande gloria letteraria d’Italia,
ovvero Dante.

Il progetto fu affidato a Giuseppe Terragni, un comasco famoso per la “Casa del fascio” di Como che ha la
caratteristica di permettere la penetrazione della luce da tutte le parti. Egli progettava edifici che giocavano
con l’elemento luminoso. Ideò, così, un tempio che doveva essere dedicato esclusivamente al culto di
Dante: il Danteum.

Il tema del culto di Dante non nasce col Ventennio ma già con le celebrazioni del 1865. La sacralizzazione
della figura di Dante è cosa Risorgimentale, viene semplicemente ripresa ed amplificata dalla propaganda
fascista. L’edifico doveva ospitare sicuramente una biblioteca dedicata a Dante ma anche un centro studi
danteschi. La particolare originalità era che questo edificio doveva architettonicamente alludere agli aspetti
essenziali e fondamentali della Divina Commedia, doveva essere una trasfigurazione allegorica del Poema.

Come sede, però, non fu scelta la zona dell’Eur, che in quegli anni veniva allestita in vista dell’Expo Roma
del 1919, ma bensì vicino gli attuali Fori Imperiali, nella zona occupata ora da casette medievali di fronte la
Basilica di Massenzio. Via dell’Impero è una zona particolarmente esposta, perché la via delle parate
militari. Insieme a Via della Conciliazione (quella che porta a San Pietro) sono le due vie che più
caratterizzano gli interventi urbanistici del fascismo a Roma. Rappresentano un po’ Stato e Chiesa, i due
ambiti nei quali si mosse Mussolini per la trasformazione del paesaggio urbano di Roma.
Sarebbe stato il primo caso di traduzione di un’opera letteraria in linguaggio architettonico.

Per farsi aiutare nella realizzazione Terragni chiese aiuto ad uno scrittore attualmente un po’ dimenticato
(forse perché colpevole di non essere stato un oppositore del Regime) ovvero Massimo Bontempelli. Molto
attivo in quegli anni e, insieme a Dino Buzzati, fondatore di quella corrente del realismo magico, letteratura
fatta da atmosfere oniriche, simboliche, disimpegnate dal punto di vista politico e sociale. Il tema
dell’edificio magico ed incantato, in cui in visitatore si trova quasi sospeso tra cielo e terra, si ritrova anche
in alcuni racconti di Buzzati.

Ciò ne scaturì un edificio molto all’avanguardia per l’epoca. Purtroppo del progetto ne restano solo degli
acquerelli di Mario Sironi, il pittore del regime, caduto in disgrazia per il suo legame col fascismo.

Il punto di accesso doveva essere un corridoio strettissimo che avrebbe portato il visitatore all’interno di
uno spazio vuoto, rappresentazione dei 35 anni di vita del poeta, il vuoto esistenziale prima del “mezzo del
cammin”. Dopodiché il visitatore si sarebbe trovato davanti 100 colonne di travertino bianche che venivano
coronate in alto da una serie di fessure che permettevano l’ingresso della luce. Le colonne rappresentavano
i 100 canti della Commedia, ma anche la forma stilizzata della selva oscura.

L’Inferno sarebbe stato un vano col soffitto molto basso che dava l’idea di soffocamento. Era sorretto da
una colonna centrale di marmo bianco ed una serie di nicchie laterali. Nel soffitto vi erano dei tagli per
lasciar passare poca luce.

La sala del Purgatorio avrebbe avuto le pareti in travertino bianco ed una serie di finestre poste su soffitto,
non ci sarebbero state finestre laterali.

Il consiglio che diede Bontempelli a Terragni fu quello di scegliere un elemento della Commedia e cavalcarlo
fino in fondo. Terragni scelse certamente l’elemento numerico (la ripetizione del 3, del 7, del 10) ma anche
e soprattutto la luce, elemento unificante di tutto il Poema che è giocato sull’aumento progressivo della
luminosità.

Gli ambienti non dovevano essere sale espositive, né essere occupati da mostre. Dovevano essere visitati
così, lo spettatore doveva viaggiare nel poema.

La sfida più grande era proprio la rappresentazione del Paradiso.

Terragni aveva immaginato per il Paradiso una sala sorretta da 33 colonne di cristallo Guss tedesco, prima
tipologia di cristallo antiproiettile, 33 come i canti della Cantica del Paradiso. Una sala con soffitto in
cristallo e colonne in cristallo, quasi a privare la colonna (simbolo di solidità) della sua essenza.

All’esterno, in basso rispetto al muro di contenimento di travertino bianco, doveva scorrere una sorta di
fregi a bassorilievo di Sironi.

Di questo esperimento, purtroppo, ne resta solo un progetto, una relazione tecnica.

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