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TULLIO DE MAURO – SEMANTICA

Forse il più grande linguista del 900. Morto nel 2017. Tra le sue opere anche l’edizione critica commentata
del corso di linguistica generale di Saussurre. Nel 67 scopre dalle carte originarie del corso del 1916 che non
è un’edizione di pugno di Saussurre ma un’edizione collezionata dai suoi allievi che nel 1916 pubblicano le
lezioni di tre corsi, era dunque un’edizione non corretta dal punto di vista filologico, che non solo metteva
insieme questi appunti di questi e di altri allievi in un modo che non rappresentava correttamente il pensiero
saussuriano. Prima uno studioso, Baudel fa un’edizione critica delle carte manoscritte, poi De Mauro nel 67
ricostruisce la correttezza della sequenza del Corso di Linguistica Generale di Saussurre e la sua edizione
diventa l’edizione standard mondiale basata sulle fonti manoscritte. Nel 2005 continua a lavorare sulle carte
manoscritte, l’archivio degli scritti Saussuriani è a Ginevra, nel 2005 escono anche gli scritti inediti di
Saussurre di linguistica generale sempre curati da De Mauro, che viene ricordato per questa sua opera di
ricostruzione del pensiero autentico di Saussurre. Altro punto per cui De Mauro è un punto di riferimento
importante è Storia Linguistica dell’Italia unita 1963, a cui segue Storia Linguistica dell’Italia repubblicana,
non è una storia dell’italiano ma una storia linguistica del paese, dal 1861 al 1945, tutto ciò che accade
dall’unità al 45 dal punto di vista linguistico. Quindi non solo l’evoluzione delle strutture linguistiche ma
anche degli usi, comportamenti linguistici dei parlanti. Il Gradit, il più grande dizionario dell’italiano
esistente, pubblicato in diversi anni; Minisemantica del 1982 e Lezioni di Linguistica Teorica del 2008, i
lavori in cui De Mauro sviluppa più approfonditamente e chiaramente la sua teoria linguistica che ha al
centro la semantica.

Il saggio è composto da diverse parti. Una parte introduttiva in cui De Mauro fa una breve storia del nome
semantica, l’invenzione del termine è relativamente recente, è 8ooesco, come spesso accade in linguistica ma
ancor di più accade a chi si occupa di significato, stabilire come si deve chiamare la scienza che si occupa del
significato non è semplice: ci sono problemi definitori della disciplina stessa; il secondo capitolo parla delle
accezioni del termine semantica, sviluppate sia dal punto di vista storico che teorico. Poi De Mauro dà una
sua definizione di semantica abbastanza ampia, molto saussuriana, va molto al di là dei confini lessicali e
strettamente connessi al significato di tipo denotativo.

Un argomento che de mauro solleva è quello della semantica come disciplina, come area di studi di tipo
semiotico, che non si occupa solo di significato delle parole ma del significare, cioè di come i segni
significano. Il problema che De Mauro si pone non è “cosa significa questa parola o questa frase”, ma come
le lingue producono il significato, una domanda più ampia. Prosegue affrontando questo problema in modo
analitico, passo passo. Espande la sua teoria rendendosi conto che per capire come le lingue significano,
come si costruisce il significato nelle lingue verbali, non basta guardare solo le lingue verbali, ma anche altri
codici di comunicazione e occuparsi del problema del significare in tutti i tipi di codici usati dagli esseri
umani. Questo è il punto centrale della teoria demauriana. Il problema della semantica ci porta molto al di là
della semantica in senso stretto, ci porta a dover studiare e confrontarci con un ambito molto più ampio che
potremmo definire “come è fatto il codice lingua e come sono fatti gli altri codici che usano gli esseri umani,
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in che modo il codice lingua si distingue dagli altri codici e permette alcune cose che gli altri codici non
consentono?”

INIZIO

La semantica è un termine recente introdotto da Michel Breal alla fine dell’800. Fino a quel momento non ci
si occupava molto di semantica. Anche la grammatica comparativa, la grammatica 800esca che studiava le
leggi fonetiche dei fratelli Grimm, studiava fonetica fonologia e morfologia, il problema del significato era
tenuto molto marginale, la semantica era marginale nell’interesse dei grammatici, anche perché non è di
facile trattazione, tanti livelli di significazione si intrecciano anche in frasi semplici e banali. Comparandolo
a lingue diverse tipologicamente e genealogicamente, il problema esplode. Non è un caso che la semantica
fosse marginalizzata. Inoltre la grammatica tradizionale greco latina non aveva interesse per la semantica,
più per morfologia e sintassi. La semantica emerge inaspettata quando si imparano le lingue straniere, ci si
accorge che è molto più complicata del tradurre parole. Il fatto che fino al 1883 non ci fosse un termine
dedicato allo studio delle significazioni, dei significati è rivelatore della sua natura di Cenerentola della
riflessione linguistica.

Semantica può voler dire due cose: può indicare i fenomeni semantici o lo studio dei fenomeni semantici.
Analisi semantica di dati linguistici, studiamo fenomeni; oppure lo studio delle teorie semantiche, studiamo
la disciplina. La storia si riferisce ai fatti concreti, oppure la conoscenza di quel che è avvenuto.

La prima accezione che riguarda i fenomeni viene da DM definita accezione realistica; la seconda accezione,
lo studio dei fenomeni: accezione epistemica.

Epistème riguarda la conoscenza. Dunque la seconda accezione indica la conoscenza, lo studio dei fenomeni
non indica i fenomeni stessi ma la loro conoscenza, indagarli, studiarli. A questo punto, date queste piccole
premesse, la domanda delle domande è: dato che la semantica è lo studio dei fenomeni, assumendo
l’accezione epistemica, dobbiamo però prima di studiarli capire che cosa studiare, l’oggetto è definito dalla
teoria stessa. Quindi dobbiamo rispondere a queste due domande fondamentali: Che cos’è il significato? E
quindi che cos’è la semantica?

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Le domande che si pone DM sono un po’ le domande che implicitamente ci siamo fatti noi nelle osservazioni
dei dati. Cioè il significato riguarda solo le parole? No. Allora riguarda le parole nella frase? No. Nel testo?
Forse. Ma allora forse il significato non è delle parole, è di tutto il testo (pensiamo alle vignette di Altan), ma
del testo come vignetta o di quel testo in Italia nel 2021? (come entità formale o testo calato nelle varie
situazioni pragmatiche) De Mauro dice qualcosa di più, non solo la vignetta di Altan oggi o nel 2050, ma
questa vignetta così come la capisce oggi il signor Rossi sarà capita allo stesso modo? Forse no, le nostre
conoscenze enciclopediche interferiscono con i nostri processi di comprensione. Le vignette, anche
sincronicamente, non sono capite allo stesso modo da tutti. Non è dunque il testo formale a determinare la
comprensione ma c’è molto altro dietro.

Dunque DM dice, o amplieremo la nostra considerazione dalle parole ad altri simboli, o forse dobbiamo
prendere in considerazione altre cose oltre alle parole (nelle vignette i disegni). Ma questo non riguarda solo
le vignette: e se dobbiamo prendere in considerazione altri simboli, quali?

De Mauro già in partenza, già prima di rispondere alle domande cruciali si chiede in che modo, in che senso
parlare di significato?

Dobbiamo prendere in considerazione tutto ciò che è segno oppure (visto che la parola segno indica qualcosa
di molto vasto, anche vago labile) dobbiamo prendere solo i segni dei linguaggi artificiali e logici? Oppure
ancora, andando in cerca di maggiore definitezza cioè cercando di aggrapparci a qualcosa che sia più
definito, più certo, più sicuro cercheremo di occuparci sia di linguaggi artificiali sia di lingue storiche e
cercheremo all’interno delle lingue storiche (lingue verbali) di guardare solamente ai valori denotativi, che
sono molto più circoscritti (valore descrittivo del nome). Allora dice De Mauro forse dobbiamo limitarci solo
al valore descrittivo e lasciamo perdere tutto quello che è flou – vago, indeterminato, più difficile da
imbrigliare in categorie fisse?

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Questa è la premessa, ma prima di tutto dobbiamo definire cos’è il significato e entro quali confini ci
dobbiamo muovere. Certamente noi ci occuperemo di semantica nella sua accezione epistemica però pure
avendo fatto questa scelta dobbiamo ancora fare delle distinzioni.

Prima di entrare in medias res dobbiamo vedere come si sono comportati gli altri studiosi: in qualsiasi
disciplina e teoria che aspiri ad essere scientifica la prima cosa è confrontarsi con gli altri scienziati. Infatti
dice

Abbiamo dunque due accezioni: realistica e epistemica. In questo momento ci interessa quella

epistemica – nella quale gli studi di semantica si sono precocemente sdoppiati: da un lato si sono occupati di
semantica in senso epistemico gli studiosi delle lingue; dall’altro si sono occupati di semantica gli studiosi di
logica e di matematica, molto interessati (lo sono ancora oggi) a cercare di definire con esattezza e precisione
i termini da loro usati.

Problema della sinonimia.

Uno studioso di informatica non può permettersi l’incalcolabilità delle sinonimie: in un algoritmo, in un
calcolo, in un’espressione aritmetica non si può avere un segno che vuol dire per esempio sia +2 che -2
(come prezzi pazzi e prezzi folli). I logici, i matematici sono molto interessati ai significati soprattutto perché
delle lingue verbali non si può fare a meno; non si può comunicare solo attraverso i simboli matematici, ma
ci vuole anche il linguaggio verbale. Io devo usare la lingua per esprimere un assioma, deve essere un
linguaggio che non deve lasciare dubbi, che non sia soggetto a interpretabilità. Uno scienziato di scienze
dure, anche quando usa il linguaggio storico naturale deve essere certo di non poter essere frainteso e quindi
molti logici e matematici si sono occupati di semantica per cercare di imbrigliare il linguaggio storico
naturale, per usare delle proposizioni definitorie che non permettessero una interpretabilità. Anche i dogmi
delle fedi sono aperti a interpretabilità tanto è vero che sono nate le eresie.

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C’è un filone di linguisti che si sono occupati della semantica che De Mauro fa risalire a John Locke (600)
che fu ripreso da Peirce che introduce il termine semiotica mentre Saussurre la chiamerà semiologia. Dal
punto di vista etimologico semiotica e semiologia sono la stessa parola, derivano da semainon (greco)
significare, come semantica; però semiotica è la scienza dei segni più che del significato, e lo stesso si
intende oggi per semiologia.

Ma nell’accezione originaria sia di Peirce che di Saussurre anto la semiotica quanto la semiologia dovevano
occuparsi della significazione nel complesso, cioè non limitata ai segni verbali, De Mauro sosteneva infatti
che dobbiamo guardare al di là dei segni verbali. Quindi De Mauro si rifà ad una tradizione che parte da
Locke, passa per Peirce e che trova la sua espressione più moderna in Saussurre e che oggi è interpretata
forse al meglio da alcuni studiosi di pragmatica (ma vedremo come chiamare pragmatica è limitante).

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Che cos’è una teoria: non solo un’opinione ma una sistematizzazione che sia falsificabile o verificabile e
quindi autocorreggibile.

Chiarita questa lunga premessa de mauro spiega l’obiettivo della sua trattazione: costruire in modo critico e
autocorreggibile le linee di una semantica integrata la quale si qualifichi come parte di una teoria generale

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dei segni (punto cruciale) l’una e l’altra, la parte e l’intero (cioè la teoria generale dei segni e la semantica)
… del sapere scientifico: cosa dice de Mauro: voglio fare una semantica integrata che non si occupi solo
delle lingue verbali (teoria generale dei segni) e che in modo sistematico, ordinato, accolga i contributi non
in modo sparso confuso ma in modo non eclettico (contrario di eclettico: integrato sistematico), contributi
che vengano da qualsiasi direzione, dal sapere scientifico organizzato, quali la filologia, la psicologia, la
storia la logica la sociologia, la teoria dei sistemi ovvero l’informatica – non basta limitarci alle parole, al
testo, ai linguaggi verbali, dobbiamo costruire una semantica integrata in una teoria generale dei segni che
sia critica autocorreggibile, quindi che sia sistematica ed esplicita (secondo la definizione di teoria, un dei
requisiti principali di teoria è essere esplicita in tutte le sue parti, non può essere un’intuizione, ma la teoria è
qualcosa che esplicitamente spieghi dei fenomeni), dunque una teoria che deve prendere dal sapere
scientifico, da filologia psicologia storia logica linguistica sociologia e teoria dei sistemi/informatica.

DEFINIZIONE DI SEMANTICA

Date tutte queste premesse, la semantica definita da De Mauro è “Lo studio delle relazioni tra gli insiemi di
segni (quindi non menziona né parole né lingue storico naturali) grazie ai quali si comunica e i campi di
contenuto sui quali si proiettano (cui vertono i segni, a cui questi segni -de mauro non dice “si riferiscono”
perché non vuole fare riferimento ai referenti, ma si proiettano)”

Il contenuto è una massa informe, tutto quello che vogliamo comunicare, una nebulosa, questa massa è
informe finché questi segni non vi si proiettano sopra: sono i segni che danno forma al contenuto: infatti i
segni sono la forma del contenuto, finché non ho un segno per esprimerlo il contenuto non è che non esista,
ma è informe.

Le scienze del linguaggio hanno avuto difficoltà a spiegare, a studiare i fenomeni semantici. Invece

un aiuto dallo studio della semantica è arrivato dalle scienze dure, dai logici e dagli studiosi dei linguaggi
formali.

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DM dice: da un lato i linguisti hanno cercato di limitarsi allo studio del significato denotativo, quindi allo
studio per esempio dei nomi nella loro funzione descrittiva, quella che per intenderci potremmo trovare nel
dizionario, mentre i logici matematici si sono resi conto che formulare proposizioni logiche e proposizioni
che non si prestassero a fraintendimenti, come diceva Wittgenstein (vissuto inizi 900) “è complicato”, non è
schematizzabile perché le frasi delle lingue storico-naturali nel linguaggio ordinario (termine tecnico che qui
da un lato vuol dire linguaggio di tutti i giorni, dall’altro linguaggio non formale) si prestano a molti possibili
fraintendimenti. Antoine Arnauld e Claude Lancelot in “Grammaire générale et raisonnée”, dicevano che un
nome, oltre alla significazione distinta, ne ha altre confuse che si possono chiamare connotazioni (gatto
micio – differenza connotazione/ denotazione, di tipo affettivo, sociale).

È chiaro che la semantica non è un settore della linguistica ma è un campo d’indagine molto più ampio
perché non si limita solo allo studio del linguaggio verbale ma è inclusivo della significazione attraverso i
segni che va al di là del linguaggio verbale e include altri codici di comunicazione. Naturalmente il
linguaggio verbale ha un posto privilegiato nello studio del rapporto tra segni e contenuto, perché tutto si può
tradurre in lingua. Quando De Mauro parla di semiotica intende codice di comunicazione “Una lingua è una
semiotica – un codice di comunicazione - nella quale qualsiasi altra semiotica è traducibile” io posso
prendere una proposizione di fisica matematica, di qualsiasi argomento e tradurla in parole.

L’onniformatività semantica fa sì che tutto si può tradurre in lingua ma non è vero il contrario: tale
traducibilità si basa sul fatto che le lingue, e le lingue soltanto, sono in grado di formalizzare qualunque
materia. Da un lato il linguaggio verbale non è altro che uno dei possibili linguaggi che gli uomini usano,
dall’altro è il più potente dei linguaggi, potente nel senso che può esprimere il massimo dei significati
possibili.

La semantica del linguaggio verbale è una delle tante semantiche non funziona in isolamento: possiamo
capire la semantica solo all’interno di un complessivo orizzonte semiotico (cioè la capiamo soltanto se la
mettiamo a confronto con gli altri tipi di semantica, cioè con gli altri codici) e la dobbiamo studiare “per

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genus proximum et differentiam specificam” – per le sue specifiche particolarità / specificità sia negli
elementi che la differenziano dagli altri codici.

Noi abbiamo prima visto come le parole non bastino da sole per capirci, dobbiamo fare appello a molte altre
semantiche. Il compito che ci aspetta nelle prossime lezioni è vedere come è fatto il significato del
linguaggio verbale ma studiare come è fatta la significazione nei codici usati dagli uomini. Perché la
semantica integrata all’interno di una teoria generale dei segni, è di fatto una teoria della semantica dei segni
possibili.

19.04.21

Secondo De Mauro la semantica è l’insieme delle relazioni tra insiemi di segni e campi di contenuto.

Questo vuol dire che la semantica delle lingue storico naturali non dipende dai referenti: esiste un’immagine
ingenua del significato delle lingue sulla base della quale i significati dipendono dai referenti, come una
copia del mondo, cioè l’idea che le lingue non facciano altro che riflettere ciò che c’è nel mondo, es.
abbiamo il significato montagna perché ci sono le montagne, luna perché c’è la luna, ecc., questa è una
posizione referenzialista forte sostenuta da Aristotele, il quale affermava nomina sunt consequentia rerum. In
realtà il mondo esterno, i referenti sono segmentati in modi diversi nelle varie lingue del mondo. le lingue
non segmentano la realtà esterna allo stesso modo (es gli eschimesi hanno 11 modi diversi per indicare il
bianco della neve, noi 200 modi per indicare la pasta). Il mondo non produce significati, sono gli esseri
umani che attribuiscono significati al mondo.

Altra posizione molto forte è che i significati siano innati: la


GRAMMATICA GENERATIVA DI CHOMSKY si fonda sull’idea che i significati sono innati, che esiste
una grammatica innata (grammatica intesa come sistema linguistico), che le lingue coincidono con la facoltà
del linguaggio e che quindi esistono dei semi, cioè elementi minimi semiologici, che sono innati coni quali
tutte le lingue del mondo costruiscono i loro significati. Anche questa è un’ipotesi non sperimentalmente
sostenibile; altra posizione quella di Wittgenstein, sostiene che la semantica delle lingue sia solo nelle parole,
noi ci formiamo significati che derivano dalle parole, non dipendano dal mondo, da idee innate, ma dalle
parole, esclusivamente dalla nostra lingua, che noi per esempio in Italia abbiamo il significato no vax perché
esiste il movimento, è la lingua che determina ciò che noi significhiamo.

De Mauro ha una posizione più autenticamente saussuriana, una posizione intermedia, che consiste nel fatto
che noi costruiamo i significati in un rapporto di relazione con il mondo, un rapporto reciproco tra referenti e
proiezione di significati sui referenti.

CIRCUITO DELLA PAROLE

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Se Homer dice “adesso a nanna”, Maggie deve operare un percorso dall’udito al cervello e la sequenza
fonica deve essere trasformata in significanti. Maggie nel corso della giornata avrà sentito sequenze diverse e
sequenze simili. Deve segmentare queste sequenze riconoscere i significanti, e può farlo attraverso i
significati.

Maggie deve districarsi tra diverse sequenze (deve cercare di capire se Homer ha detto adesso a nanna, o
adesso a ninna, adesso a nina, adesso a nonna); ha un segnale fonico (nel parlato spontaneo abbiamo la
coarticolazione quindi “adessannanna”), deve riuscire a isolarlo, accoppiarlo ad un senso che per Maggie
potrebbe essere “ora devo dormire” e in questo caso abbiamo dei segnali, uno acustico, e un senso, ora devo
dormire. il senso non è ancora il significato ma è il contenuto legato all’esperienza personale, visto dal punto
di vista del parlante, che può variare. Per un genitore stremato può voler dire “finalmente adesso mi riposo”,
il senso non è ancora il significato ma è il contenuto visto dal punto di vista del parlante. Tuttavia come
utenti di un codice non possiamo limitarci al senso né al segnale perché sensi e segnali sono infinitamente
variabili (pensiamo se l’avesse detto un parlante con accento romagnolo: avremmo avuto adescioananna,
fricativa palatale, e quindi un segnale acustico diverso). Come utenti di un codice dobbiamo astrarre dalla
concretezza dei segnali e dei sensi e riportare sia il senso sia il segnale ad un livello astratto. Il livello astratto
del contenuto si chiama significato. II segnale acustico viene riportato ad un significante. Come diceva
Saussurre signto+signte sono il retto e il verso di uno stesso foglio, riconosco l’uno in base all’altro,
significante è il trasportatore del significato, entrambi sono astratti, forme a cui riconduco la concretezza del
senso e del segnale. Indipendentemente dal punto di vista del parlante, Maggie o sua mamma o suo papà
condividono un significato astratto, per cui adesso a nanna o nanna vogliono dire nel loro codice di
comunicazione la stessa cosa. L’insieme del significato e del significante costituiscono il segno.

De Mauro spiega come questo procedimento possa avvenire anche in altri tipi di codice, non solo nella
lingua. Ma avviene formando codici di tipo diverso. Qualsiasi codice di comunicazione deve basarsi su
questo procedimento. I diversi codici di comunicazione però possono differire per alcune delle loro
proprietà.

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Perché si possa avere un rapporto semiotico (quindi abbiamo che capito che semiotico vuol dire
“significante”, che produce significati) e quindi un atto semiotico/ un atto significativo, non è possibile che
l’emittente e il ricevente operino solo su entità particolari, sull’hic et nunc, quindi non è possibile usare solo
sensi e segnali, non possiamo solo avere elementi immediati ma dobbiamo trasferire questa immediatezza su
un piano astratto di codice.

Ogni rapporto semiotico […] quindi di due sistemi di classi:

una mediazione delle forme che sono il signto e il signte e l’insieme di due classi, le classi del signto e le
classi di signti: anche il più semplice dei codici semiologici implica questa impostazione. Non è possibile
fare altrimenti. Naturalmente l’unico vincolo che hanno i codici è che i segni (significati e significanti) siano
identificabili. Quindi qualsiasi codice è basato sul principio x sta per y, adesso a nanna – ora devo andare a
dormire. L’unico vincolo è l’identificabilità, cioè che i parlanti hanno la possibilità di identificare i segni.

Identificare è l’operazione di pertinentizzazione: perché i parlanti riconoscano i segni di un codice devono


sapere identificare gli elementi che li distinguono dagli altri segni. Indipendentemente dal dialetto, sono tutti
lo stesso significante, tutti foni diversi ma vanno ricondotti agli stessi significanti, agli stessi fonemi. Questo
può accadere attraverso un processo di pertinentizzazione: capire che ci sono dei tratti di identificazione che
sono sufficienti per identificarli come elementi significanti. Lei sa, ha imparato, che pur essendoci
un’enorme apparente variazione ci sono degli elementi che non devono variare: il fricativo può essere
fricativo, poi può essere palatale, alveolare, ma la frizione è un elemento sufficiente per renderlo
identificabile. Il fonema è un significante astratto che raccoglie le varie realizzazioni concrete che possono
differire le une dalle altre ma che devono mantenere almeno alcuni tratti significanti, pertinenti. Dobbiamo
riconoscere gli elementi pertinenti per distinguerli. Ci sono dei tratti di identificazione che sono sufficienti
per identificarli come elementi significanti.

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Un codice ha come unico vincolo l’identificabilità dei suoi segni, e l’identificazione avviene attraverso
un’operazione di pertinentizzazione io devo indicare gli elementi pertinenti per l’identificazione dei segni.
Naturalmente che cosa io rendo pertinente dipende in primo luogo da come sono fatti gli utenti, per esempio
gli esseri umani non sentono gli ultrasuoni, quindi dovremo utilizzare elementi in grado di gestire. (Delìe è
un altro modo per dire segnali che DM usa per indicare segnali non solo linguistici, è un iperonimo di
segnale). C’è un limite materiale nella scelta degli elementi pertinente, inutile es di scegliere gli ultrasuoni
come elemento pertinente perché gli uomini non potranno sentirli; c’è dunque un limite materiale delle scelte
arbitrarie. Importante l’aggettivo arbitrario perché ciò che io sceglierò come pertinente è del tutto arbitrario.
Es. è pertinente la lunghezza consonantica: la lunghezza della laterale L tale per cui io possa distinguere pala
da palla. Questa distinzione non è pertinente in inglese per esempio, dove è invece pertinente la lunghezza
vocalica, come lo era in latino. La scelta dei tratti pertinenti è del tutto arbitraria: perché in inglese è
pertinente la lunghezza vocalica e in italiano quella consonantica? Per una serie di fenomeni diacronici del
tutto arbitrari.

Il primo limite all’arbitrarietà è di tipo materiale, che dipende da come sono fatti gli utenti le cui capacità
percettive determinano quello che può essere scelto.

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Esiste poi un’arbitrarietà formale determinata dallo scopo che vogliono raggiungere gli utenti e dal numero
delle entità che voglio distinguere, e quindi abbiamo una arbitrarietà materiale e una arbitrarietà formale; dati
questi due tipi possiamo scegliere i tratti che vogliamo e possiamo essere liberi di fatto di scegliere le qualità
che vogliamo. Nelle varie lingue non tutte le lingue scelgono gli stessi tratti pertinenti, per cui la distinzione
tra i vari fonemi delle varie lingue non sono sempre fatte sulla base degli stessi tratti pertinenti, ed è questo il
motivo per cui quando apprendiamo una lingua straniera non siamo in grado di distinguere dei fonemi gli uni
dagli altri sia quando ascoltiamo sia quando li produciamo perché non ci sono nella nostra lingua materna.

SISTEMA Un codice, cioè un sistema, è costituito da 2 classi che sono definibili e identificabili sulla base di
questi tratti pertinenti. Quindi devono essere distinguibili (quindi si tratta della classe dei significati e dei
significanti) e devono essere in grado di distinguere l’insieme dei segni e devono potersi identificare
raggrupparsi in modo tale che distinguano ciascuna entità del sistema, ciascun segno del sistema in un modo
finito - una fricativa palatale si identifica in quanto tale, non può avere un numero infinito di elementi che la
identificano – quindi per identificare un fonema, un monema, un morfema diamo una serie di tratti pertinenti
di numero finito e che ci permettono di identificare questi elementi. Come sono fatti questi tratti pertinenti:
possono identificare o un elemento che non è ulteriormente scomponibile, es il fonema, oppure un elemento
che è ulteriormente scomponibili, es il morfema, che si può scomporre in fonemi. Quindi abbiamo anche
segni come i monemi o i morfemi sono i segni più piccoli possibili che sono elementi di prima articolazione
che si possono scomporre ulteriormente in elementi di seconda articolazione.

Una volta chiarito come deve essere fatto un codice vediamo quali codici di comunicazione sono possibili e
come si possono classificare:

Classificazione dei codici - per de mauro esistono 4 criteri generali che ci permettono di classificare tutti i
codici di comunicazione

1. Articolatezza: la scomponibilità. Un codice articolato è un codice i cui segni sono scomponibili. Lingue,
aritmetica sono articolati, ma noi usiamo codici di comunicazione che non sono articolati, cioè codici i cui
segni non sono ulteriormente scomponibili. De Mauro fa l’esempio dei gesti. I gesti sono un elemento di
comunicazione molto rilevante tra gli esseri umani. Abbiamo gesti coverbali (integrano il linguaggio

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verbale) e simbolici (che trasmettono significato di per sé). Esempio il gesto “che vuoi dire” non è
scomponibile ma nella sua globalità. È l’intero gesto che significa “che vuoi dire”, non posso scomporlo in
parti più piccole che producono significato la cui unione è distinguibile.

Il codice del semaforo: il semaforo è un codice di comunicazione molto importante. Se il semaforo è rosso
vuol dire alt nel suo complesso, cioè non possiamo scomporre quel significante rosso in ulteriori elementi
che lo compongano, nella sua totalità vuol dire alt. È un codice molto elementare, molto semplice, in cui
l’intero significante rosso e l’intero significante verde vogliono dire rispettivamente alt e via libera. Abbiamo
un codice di comunicazione che però non ha segni articolati, scomponibili. Invece lingua e aritmetica sì.

2. Finitezza: naturalmente quando un codice non ha segni scomponibili ha un numero finito di segni: il
semaforo ha tre segni mentre lingua e aritmetica hanno un numero infinito di segni. Non abbiamo codici non
articolati a numero infinito di segni perché gli esseri umani hanno una memoria limitata, o meglio finita,
quindi non potrebbero imparare un numero infinito di segni se non sulla base di regole combinatorie. Noi
produciamo un numero infinito di numeri perché li produciamo sulla base di regole combinatorie, non perché
li impariamo a memoria globalmente uno alla volta, e questo accade anche con le parole: noi conosciamo un
numero potenzialmente infinito di parole perché abbiamo delle regole di formazione delle parole, quindi le
impariamo in modo composizionale. Il numero infinito dei segni è proprio solo dei codici articolati.

L’articolatezza si può manifestare in molti modi diversi: come nelle lingue e nell’aritmetica in modo tale che
la disposizione degli elementi sia significativa, per esempio che ab sia diverso da ba: nelle lingue è così.
Arpa e rapa hanno stessi foni e fonemi ma la loro disposizione produce parole diverse. Quindi la
disposizione vocale vibrante e vibrante vocale è pertinente in italiano (e in generale nelle lingue la
disposizione dei fonemi è pertinente. La stessa cosa vale per l’aritmetica per cui 13 e 31 non sono lo stesso
segno. Questo naturalmente aumenta la combinabilità rendendo più numerose le possibilità di
comunicazione.

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Abbiamo anche un’altra possibilità: che sia distintiva l’iterazione, cioè la ripetizione e che quindi a diverso
da aa che sia diverso da aaa. Certamente vero in aritmetica e anche nelle lingue relativamente alla durata e
non necessariamente in tutte le lingue.

Terza possibilità vera per i calcoli ma non è vera per le lingue cioè che il numero dei posti, dei
raggruppamenti, sia infinito. Teoricamente potrebbe essere possibile avere una parola di 50 suoni ma di fatto
non è concretamente esistente nelle lingue del mondo perché c’è un limite fisico nella realizzazione fonica
dei suoni.

Nei codici che hanno un numero infinito di segni abbiamo 3 possibilità, teoricamente tutte realizzate dalle
lingue ma di fatto le prime due sono realizzate dalle lingue, la terza è veramente realizzata solo nei calcoli.

3. Sinonimia.
4. Incalcolabilità della sinonimia, che De Mauro chiama metaforicità. Quando una sinonimia è incalcolabile
è possibile allargare espandere i significati delle parole in modo non prevedibile e trasferire significati delle
parole anche in altri campi. Questa trasferibilità dei limiti dei significati viene chiamata da De Mauro
metaforicità, perché le metafore non sono altro che il trasferimento di significato ad un ambito diverso da
quello originario: metafora semplice proporzione di similitudine. Trasferisco il significato ad un altro ambito.
Quindi l’indeterminatezza, la capacità di allargare i significati viene chiamata da De Mauro metaforicità.

Con questi 4 criteri De Mauro si propone di classificare i codici semiologici, inizia la classificazione dei
codici di comunicazione.

Molto semplici, i CODICI A SEGNI NON ARTICOLATI che hanno un numero finito di segni.

I primissimi tipi di codice per la loro semplicità sono le spie luminose. Accensione segnalata dalla spia
luminosa. In realtà si tratta di un codice a due segni: spia luminosa e assenza di spia luminosa.
Apparentemente sembra un solo segno ma l’assenza di spia luminosa è un segno di per sé. Non articolati
(acceso/spento non ulteriormente scomponibile), molto elementari ma usatissimi nella comunità umana.
Codici non articolati a due segni. l’assenza di segno è essa stessa un segno.

CODICI SERIALI. Il cui significato è dato dalla disposizione in serie. Segni zodiacali hanno significato
perché sono in una certa progressione e indicano una sequenza temporale. Ariete: persone nate da x a y e il
suo significato è indicare quello spazio temporale precedente al Toro e successivo a Pesci. Il significato del
segno è determinato anche dalla sua serialità, dalla posizione nella serie. Sono anch’essi non articolati, la
serialità si basa sulla finitezza.

CODICI A SEGNI ARTICOLATI DI NUMERO FINITO - alfabeto morse. Articolato perché i segni sono
formati da punti e linee che riproducendo le lettere dell’alfabeto il numero è finito. Quindi è articolato perché
scomponibile ma il numero di segni non è infinito. Altro es., le carte da gioco. Quelle da poker/ canasta si
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basano su tre principi - i semi, colori, numeri. Sono articolate (perché si combinano e usano tre criteri
pertinenti: il colore, il numero; Regina di cuori, 2 di quadri, 9 di fiori…) però sono di numero finito (52
carte) pur essendo articolati. Altro gioco articolato e a numero finito sono gli scacchi. Segni articolati ma di
numero finito.

CODICI A SEGNO ARTICOLATO DI NUMERO INFINITO

La numerazione araba, 10 segni: numeri da 0 a 9 che si possono combinare, la disposizione è pertinente per
cui 13 è diverso da 31, è consentita la ripetizione per cui possiamo avere 111, e soprattutto possiamo avere
un numero infinito di posizioni e di conseguenza un numero infinito di segni.

Questo vale anche per la numerazione romana. Ogni segno è scomponibile in elementi più piccoli e sono
infiniti. Abbiamo, tra questi codici a numero di segno infinito, codici che consentono la sinonimia. I calcoli -
4+1 è sinonimo di 5. Ma un altro codice che consente la sinonimia è la notazione musicale. Ha numero di
segni infinito con sinonimia calcolabile. Semibreve ha valore di 4/4 e ogni minima vale metà della
semibreve, due minime valgono una semibreve, due crome valgono una semiminima, ecc. Possiamo avere
una combinazione teoricamente infinita. Anche la notazione musicale permette un numero infinito di segni e
permette la sinonimia, ci sono segni che permettono di rappresentare porzioni di tempo più piccole che
sommate sono sinonime dei segni che indicano porzioni di tempo più lunghe. Questi sono codici a segni di
numero infinito che permettono la sinonimia.

Prima di arrivare alle lingue De Mauro si sofferma sulle differenze tra lingue e calcoli.

La prima differenza che va notata è sul fatto che c’è un’oscillazione individuale e collettiva del vocabolario,
cioè ciò che distingue gli utenti dei calcoli e delle lingue è il fatto che non c’è una conoscenza identica del
codice. Un parlante di una lingua può conoscere un numero di vocaboli infinitamente maggiore/ minore
rispetto a un altro utente, cosa che non può accadere in un calcolo: per conoscere l’aritmetica devo conoscere
tutti i segni dell’aritmetica, non posso conoscere i numeri fino a 5, mentre per quanto riguarda le lingue
possiamo avere delle oscillazioni individuali e collettive, quindi gruppi di persone che hanno delle disparità
nella conoscenza del numero dei segni.

L’omonimia. Consiste in parole o espressioni che hanno la stessa forma, lo stesso significante che però
hanno significati diversi, questo non può accadere nei calcoli, perché ingenererebbe confusione. Un calcolo
deve avere certezza del significato di un’espressione.

Contraddittorietà interna alla stessa proposizione e tra proposizioni diverse. Un calcolo non può essere
contradditorio mentre le lingue possono avere contraddittorietà interna (Odi et amo): questo non può
succedere in un calcolo, che deve essere definito. Oltretutto possiamo avere enunciati che sono palesemente
falsi o che contraddicono idee definite: possiamo produrre attraverso la lingua proposizioni che
contraddicono assunti dati per veri, questo non può accadere in un calcolo. Questi elementi non possono
succedere all’interno di un calcolo. Abbiamo verbi parole espressioni che a seconda del contesto possono
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significare cose diverse (tale tipo di contraddittorietà di sintagmi omonimi dà luogo alla figura retorica della
antanaclasi, che consiste nell'usare nel medesimo periodo la stessa parola ma con significato diverso, per es.:
Non sempre è la rosa rosa); possiamo avere un’autocontraddittorietà interna, dire Io mento, oppure La
presente asserzione è falsa, tutto ciò non può avvenire all’interno di un calcolo.

Possiamo avere un elenco di parole scombinato apparentemente, e ogni elenco di parole è sempre e
comunque possibile. Abbiamo le liste: posso dire Maria ha comprato mele, alberi, tavoli, fiori… e fare un
elenco lunghissimo di parole, e questo è sempre possibile, mentre in un calcolo non è possibile realizzare un
elenco di numeri senza che siano connessi da segni.

Possiamo correggere in fase di produzione sia orale che scritta, possiamo autocorreggerci parlando ma anche
come forma retorica (Ti amo, ma che dico ti amo, ti idolatro) questo naturalmente non è possibile in un
calcolo.

Autonomia e riflessività: attraverso la metalinguistica parlare della lingua stessa, mentre non si può usare
l’aritmetica per parlare dell’aritmetica.

Tutti questi elementi fanno sì che le lingue e i calcoli sebbene siano entrambi codici a segni articolati, a
numero infinito di segni, in realtà non siano lo stesso tipo di codice, presentano differenze che li distinguono
radicalmente.

22.04.21

Proprietà fondanti del codice lingua secondo De Mauro (cap7 dal parlato alla grammatica)

Arrivati a un certo punto nell’evoluzione della specie è lecito supporre, dice De Mauro, che c’è stato il
bisogno di creare nuovi sensi, nuovi segni che esprimessero dei significati nuovi e quindi questo abbia spinto
la specie a forzare i limiti della determinatezza di un codice: quello che accade nei calcoli, ossia il fatto che i
significati siano stabiliti una volta per tutte, può andare bene se la sfera dei significati che bisogna esprimere
(il campo semantico) è limitato, ma se un codice come le lingue devono poter esprimere tutti i significati
necessari alla specie, a una comunità o a tutte le comunità del pianeta, i codici devono essere fatti in modo
tale da poter essere forzati, poter avere dei segni che siano indeterminati, in cui l’indeterminatezza sia la
condizione primaria. Qui indeterminatezza viene usato da De Mauro come sinonimo di vaghezza vuol dire la
possibilità di una parola, di un segno, di estendere il suo significato fino ad abbracciare sensi nuovi e
imprevedibili senza mutare il codice (poli, gate) che quindi avviene non solo per i lessemi lessicali ma anche
per i lessemi grammaticali, lo abbiamo visto con tipo.

Tipo è una parola che vuol dire impronta in greco che nelle lingue che lo hanno preso dal greco (non solo le
romanze, anche il russo, lo svedese) finisce col voler dire “modello”. La parola tipografia si riferisce a
impronta. Oggi in italiano e in molte altre lingue è diventata preposizione (non fare tipo lui), segnale
discorsivo ecc. Noi possiamo quindi cambiare il significato delle parole, espanderlo, aggiungere o togliere

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significati, da lessicale farlo diventare grammaticale e viceversa, per esempio quando diciamo “pro e contro”
sono due preposizioni latine da noi utilizzate come dei nomi, vantaggi e svantaggi. Questa è ciò che De
Mauro chiama indeterminatezza /indefinitezza o vaghezza. Questo permette alle lingue di acquisire sempre
nuovi significati e di abbandonarne altri, e succede senza che i parlanti debbano negoziare il codice. Questa
indeterminatezza o vaghezza avviene anche sul piano del significante, non solo significati: cambiamo i
significanti senza rendercene conto. Es. la fricativa alveolare intervocalica è in italiano standard sorda, casa.
Però per una serie di motivi sociolinguistici la realizzazione sonora è settentrionale ed ha acquisito prestigio.
Molti parlanti la usano senza per questo essere percepita come una realizzazione regionale, cosa che invece
sarebbe accaduta solo 50 anni fa. Cambiamo quindi anche la percezione di ciò che è regionale e non,
prestigioso e non, anche sul piano del significante le cose cambiano. Continuamente noi modifichiamo i
segni di una lingua: perché accade questo? Se un matematico cambiasse il segno + e lo realizzasse con
un’altra forma, lì sì che ci sarebbe bisogno di un congresso di matematici che lo stabilisce, perché nessuno
capirebbe più nulla. Come mai questo non avviene nella lingua: esiste una cooperazione tra i parlanti tale
che, di fronte a un elemento nuovo tanto sul piano del significato quanto sul piano del significante, la
reazione del parlante non è non comprendere e manifestarlo, la lingua è un sistema adattativo: i parlanti
hanno un atteggiamento cooperativo, sanno fin dai primi momenti della propria vita che il codice può
prevedere realizzazioni foniche diverse, pronunce diverse, e quindi si abituano, sanno che come utenti del
codice si devono adattare. Ci sono enormi varietà: le voci delle persone con cui entrano in contatto, i
significati evolvono in rapporto all’età dell’utente (nanna associato a sensi diversi ma il significato rimane lo
stesso). Preliminare al funzionamento del codice un accordo e una cooperazione tra parlanti.

Viceversa per l’aritmetica e per i calcoli essendo codici non adattativi ma formali non c’è questo
presupposto, anzi il presupposto è esattamente il contrario: che il codice non si discosti da ciò che è stato
formalmente deciso. Non è esclusa l’invenzione di un nuovo segno, un matematico può inventato, ma questo
deve essere deciso, stipulato, introdotto nella comunità degli utenti e spiegato e accettato. Questo accade
anche per la comunità di linguisti.

Nella nostra comunità prendiamo delle abitudini linguistiche, anche nelle comunità più ristrette, dove le
abitudini entrano a far parte del nostro lessico privato. Noi siamo aperti alla possibilità di accogliere nuovi
sensi, nuove espressioni per indicare un insieme di concetti, ma non saremmo disposti a stravolgere la
terminologia formale che è stata stipulata. Utilizziamo contemporaneamente linguaggi formali quando
necessario, ma il linguaggio quotidiano è un linguaggio che è pronto ad allargarsi e restringersi per fare
spazio ai cambiamenti. Dice De Mauto, possiamo estendere i confini di ogni monema (altro termine per dire
morfema) e abbracciare sensi nuovi e imprevedibili, e anche significanti, perché abbiamo bisogno come
specie di affrontare elementi imprevedibili: non possiamo sapere ciò di cui avremo bisogno domani.

La lingua per essere semioticamente onnipotente (per poter esprimere tutti i significati possibili necessari alla
specie finché questa esisterà) non può essere rigida come un calcolo ma deve prevedere flessibilità che De
Mauro chiama indeterminatezza o vaghezza.
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La vaghezza è chiaramente una condizione segnica non soltanto semantica. Dove essa è presente
investe del pari dignificante e significato. Il segno, più che circoscrivere con precisione una classe
di segnali capaci di indicare i sensi di una classe circoscritta con altrettanta precisione, è lo
strumento di un’attività allusiva, di un gioco orientato a stabilire un’intesa.

Vaghezza non è rilassamento né del significante né del significato ma la possibilità di oscillazione tra forme
più nitide e forme più rilassate. Nel nostro parlare oscilliamo tra rigore e rilassatezza, cioè noi siamo in grado
non solo nella nostra vita o giornata ma addirittura all’interno di una stessa conversazione di passare da un
linguaggio molto formale ad uno molto rilassato in cui non usiamo lo stesso rigore. Io posso dire il morfema
è il segno più piccolo un’unità dotata di significato e significante ulteriormente scomponibile in unità di
seconda articolazione che sono i fonemi, che sono dotati solo di significante e privi di significato ecc., altresì
dire nella stessa frase per spiegare meglio il morfema è un pezzetto che ha un suo contenuto, un suo
significato, si può dividere in altri pezzetti…, “pezzetto” non è un termine tecnico né rigoroso, non ha molto
senso usarlo perché sia morfema che fonema sono astratti mentre pezzetto indica anche qualcosa di concreto,
quindi è fuorviante in quanto il morfema è astratto (non è la materia acustica, la materia acustica sono i
segnali, foni: il fonema è la rappresentazione astratta della materia acustica). Noi abbiamo la possibilità di
usare anche a livello di significante delle espressioni che sono più formali, rigorose, iperarticolate e invece
delle realizzazioni di segnale ipoarticolate che facciamo maggiore difficoltà a interpretare. Dire che
possiamo usare segni indeterminati vuol dire che possiamo oscillare dal massimo del rigore dell’aritmetica,
della linguistica, al massimo di rilassatezza e dire “scusa mi passi quel coso”, coso massimo
indeterminatezza ma perfetto in quel contesto.

Vaghezza e metaforicità non sono solo condizioni di espressioni e interpretazioni approssimative, ma sono
anche condizioni del costituirsi di espressioni fortemente determinate e formali. Oscillare tra la precisione e
l’imprecisione. Entrambi gli usi sono vitali. Non ce n’è uno migliore dell’altro, abbiamo bisogno di entrambi
gli usi e di poter oscillare tra i due poli. Questo è possibile dice De Mauro perché come diceva Saussure per
una lingua sono da considerare fattori interni, cioè necessari alla sua forma e funzionalità, il tempo e la
massa parlante. Per massa parlante si intendono i parlanti, l’accordo tra i parlanti. Se non ci fosse
l’atteggiamento adattativo cooperativo tra i parlanti, questa oscillazione e potenziale mutamento di
significato e significanti non potrebbe avvenire. Dice De Mauro in ciò si può vedere una conseguenza
specifica ed esclusiva dell’essere il senso di una parola di un segno linguistico indefinitamente estensibile

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talché se una lingua avesse solo due segni, tutti i sensi possibili si ripartirebbero su di essi: se noi
immaginassimo una lingua con solo due segni due distribuiremmo tutti i sensi su ti essi. La cosa che rende
possibile l’estensibilità dei significati e dei significanti, cioè dei segni, è il fatto che i parlanti sono creatori
della lingua stessa. Noi non siamo utenti esterni al codice, ognuno di noi è un parziale creatore del codice. La
massa parlante/ i parlanti sono un fattore interno, costitutivo della lingua stessa. Questo si vede bene dal fatto
che il lessico è in continuo rinnovamento. Il lessico è uno dei settori linguistici in cui queste evoluzioni si
vedono più chiaramente. Ci fa notare De Mauro che alcuni di questi cambiamenti resistano nel tempo altri
no. Può succedere che alcuni mutamenti linguistici abbiano durata effimera e scompaiano (poli nel senso di
corruzione si pensava potesse durare per qualche anno, circoscritto a tangentopoli, e invece è resistito e
perdura anche laddove non ha a che vedere più nulla con tangentopoli, cosa che è accaduta con gate e si è
radicato per indicare cose che con Nixon non hanno più a che fare. Ci sono però parole che possono durare
per una stagione politica). Alcuni fenomeni si stabilizzano e altre no: Più una parola è usata, più sarà
probabile che questa parola acquisti tanti significati: la statistica linguistica ha mostrato che le parole di alta
frequenza sono le parole che poi hanno acquisito più significati, non è un caso che il primo nome in ordine di
frequenza in italiano è la parola “cosa”. Può essere sia concreto che astratto e può indicare sia un inanimato
sia un umano. Le parole più usate sono le parole che hanno un alto numero di significati.

Non necessariamente tutte le accezioni hanno la stessa frequenza: parole con più significati (de mauro fa
l’esempio di cane, l’animale e la parte del fucile, la seconda accezione è molto meno frequente
dell’accezione primaria); addirittura a volte le accezioni metaforiche possono diventare più frequenti
dell’accezione primaria. Polirematiche: parole che sembrano dei composti (es pollice verde, luna di miele),
non lo sono ma funzionano come se lo fossero. Esempio: cartone animato. È talmente diventato frequente
che viene usato senza animato, “vediamo i cartoni”. Sono andata a Salerno e ho visto molti cartoni,
l’accezione primaria è il materiale, se si trova in una frase con un verbo compatibile (vedere/ trasportare i
cartoni), l’accezione secondaria è la prima a venire in mente. Se ad un segno associamo un aggettivo creiamo
una polirematica, se togliamo l’aggettivo il segno conserva il significato della polirematica e questa seconda
accezione diventa quella primaria in molti contesti nel nostro lessico mentale. Questa è la potenza semiotica
delle lingue. È la vaghezza e l’indeterminatezza cui De Mauro si riferisce, ciò che distingue le lingue da
qualsiasi altro tipo di codice.

Capitolo 7 utile come ultima lettura

Parla di come funzionano i testi parlati. Riepilogo della comunicazione parlata.

Utile osservare i testi parlati per studiare la grammaticalità, il funzionamento del sistema, perché la
comunicazione parlata è la più frequente e sarà primaria per tutta la vita.
Usiamo per comunicare tutte le risorse comunicative possibili, le integriamo con gli usi linguistici, facciamo
massimo uso dei processi indessicali quindi della deissi anche dell’indessicalità gestuale (il fatto che
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indichiamo), e usiamo strutture ad alto rendimento funzionale, usiamo parole che hanno un ampio spettro
semantico (e anche sintattico: anche dal punto di vista sintattico le lingue tendono a preferire strutture
multifunzionali, che possono essere usate in tante situazioni diverse. A parità di condizione cerchiamo di
allineare le strutture sintattiche, le sequenze, e quelle prosodiche). In generale, quando parliamo usiamo
deissi, ripetizione, bassa referenzialità, molte parole polisemiche, sintassi additiva e tendiamo ad
ipoarticolare, tendiamo a coarticolare vari foni insieme, parliamo velocemente acceleriamo moltissimo man
mano che ciò che diciamo non è importante (per esempio quando ci salutiamo sulla porta di casa), formule
rituali di saluto senza funzione informativa. Quando non dobbiamo dare informazioni importanti, e lo scopo
della conversazione è solo intrattenerci, non abbiamo bisogno di iperarticolare. Lo scritto viceversa è sul
fronte opposto. Lo scritto a stampa è iperarticolato per definizione. Di conseguenza il parlato presenta una
minima specificazione potenziale a tutti i livelli mentre lo scritto una massima. Naturalmente sia il parlato sia
lo scritto possono variare molto, il parlato di una lezione universitaria è molto specificato, la lista della spesa
è ipospecificata, quindi tendenzialmente siamo più specifici quando scriviamo ma soprattutto nelle
condizioni di formalità. Come dice De Mauro abbiamo una varietà di manifestazioni linguistiche che
possono mostrare una indeterminatezza, vaghezza che può andare dal massimo al minimo rigore (o come
dice lui rilassatezza) dipendentemente dallo scopo della conversazione, ma tendono ad essere correlati
(quindi non obbligatoriamente connessi, solo correlati) anche con il parlato e con lo scritto. Questo anche,
banalmente, perché è più frequente scrivere di cose formali e parlare di cose familiari piuttosto che
viceversa, a meno che non sia un professore che spiega. Dipende dalle condizioni della comunicazione.
Siccome è più probabile spiegare l’algebra per iscritto e parlare con gli amici si tende ad essere più rigorosi
nello scritto e meno nel parlato. La indeterminatezza o metaforicità, qui chiamata compiutezza del segno,
cioè la possibilità che la lingua sia diversa a seconda delle situazioni, abbia un numero di tratti identificativi
molto diversi – compiutezza del segno – passami il cacciavite a stella 3,5/ passami quel coso  la situazione
dà sufficienti informazioni al mio interlocutore. Questo avviene anche a livello di Realizzazione fonica: se
sono stanca, se sono al bar, articolerò la mia richiesta in maniera differente (mi dai un caffè/ un caffè per
favore) parlato diverso a seconda delle situazioni (famiglia/ estranei). Punto centrale: le teorie grammaticali
tendono a presentarci il segno come determinato in un unico modo, come se non ci fosse variazione, come se
la comunicazione fosse portata sempre e comunque solo dalla compiutezza dei segni verbali, funzionale alla
completezza delle frasi, ma non è così. In realtà in alcuni casi ci affidiamo alla completezza dei segni, in
moltissimi casi alla cooperazione tra parlanti, alla capacità dei parlanti di compiere inferenze, e quindi
possiamo non usare segni compiuti ma fortemente IPOSPECIFICATI: Condizione più diffusa nella
comunicazione quotidiana. Infiniti modi per articolare in casa, nel contesto familiare, e comunque saremo
capiti (diverso ad un colloquio di lavoro). Questa possibilità di variazione dall’iperspecificato (De Mauro:
formale, rigoroso) all’ipospecificato (De Mauro: rilassato) è continua ma è di norma assente dalle
rappresentazioni grammaticali, che ci danno come rappresentazione sempre e solo un unico modello:
l’iperspecificato. Questo lo si vede soprattutto attraverso i dati di parlato, è chiaro che la prosa a stampa, un
saggio di linguistica tenderà all’iperspecificato, anche se i romanzi contengono molti dialoghi. Punto centrale

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del saggio di dm è insistere sul fatto che anniamo un enorme variazione negli usi perché i parlanti sono per
l’appunto parte integrante della costruzione della lingua, cioè il ruolo della coppia produttore destinatario è
centrale: non c’è comprensione linguistica senza una relazione attiva tra i parlanti.

Diceva Saussure e ha ricordato De Mauro, In nessun momento la lingua esiste fuori dal fatto sociale, perché
essa è un fenomeno semiologico. La sua natura sociale è uno dei suoi caratteri interni.  quindi se il suo
carattere sociale e la relazione tra gli interlocutori è interna al funzionamento, e la pragmatica è ciò che
descrive la relazione tra gli interlocutori, è giusto ritenere la pragmatica separata dalla grammatica (cioè
mettere da una parte la grammatica come sistema di funzionamento della lingua e da una parte la pragmatica
come sistema di relazioni tra i parlanti)? La pragmatica è parte integrante della grammatica di una lingua: le
relazioni tra i parlanti sono necessarie al funzionamento della grammatica di una lingua. Se non fosse così la
lingua somiglierebbe molto ad un calcolo. Invece la lingua per funzionare ha bisogno di una relazione di
cooperazione tra i parlanti. Se la grammatica deve rappresentare il codice che descrive e quindi il suo
funzionamento, se noi guardiamo al parlato che è la modalità nativa di apprendimento di acquisizione del
codice, nonché la modalità più usata dagli esseri umani per tutta la vita, allora osservando i dati di parlato –
ma non solo – emerge una grammatica che ha unità linguistiche plurideterminabili, cioè variabili, in cui la
stabilità va cercata nella relazione tra i parlanti e non tanto in una stabilità dei segni, perché i segni sono
instabili per definizione, e quindi non sono tanto la stabilità dei segni o il contesto da soli che ci aiutano, ma
il contesto e l’accordo tra gli interlocutori, i quali si pongono in un atteggiamento di cooperazione e
collaborazione. Senza questa capacità adattativa degli esseri umani di accogliere nuovi sensi nei segni del
codice, non basterebbe il contesto. Quindi è necessaria una precondizione: il fatto che i parlanti sappiano che
tanto chi ascolta tanto chi parla costruisce e negozia insieme il significato dei testi. Quando si dice che c’è il
lector in fabula (U. Eco) il lettore è un interprete, è questo non riguarda solo la critica letteraria, ma tutte le
espressioni linguistiche: in quanto utenti, parlanti in generale, noi siamo fabbricatori di sensi, e il nostro
feedback come ascoltatori, l’uso di segnali fatici, le richieste di completamento e chiarimento, attraverso
questi processi di costruzione di senso è possibile comunicare e accogliere nuovi sensi per vecchie parole e
nuove parole con nuovi sensi. Quindi non c’è ragione di credere che pragmatica e grammatica siano due
oggetti distinti, ma sono due oggetti compenetrati.

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