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STORIA DELLA PALETNOLOGIA

Per affrontare il problema della percezione che gli antichi ebbero dei periodi che chiamiamo «Preistoria» e
«Protostoria» non si può non citare il poeta latino Lucrezio (94-50 a.C.):

«…In antico le armi erano mani, unghie, denti, pietre e rami, frammenti di selve e, appena furono note, le
fiamme del fuoco. Più tardi si scoprì la forza del ferro e del bronzo; ma l’uso del bronzo era noto prima del
ferro, perché ha natura più duttile ed è più abbondante. Col bronzo lavoravano il terreno e suscitavano gli
scontri guerreschi e producevano vaste ferite, razziavano campi e bestiame. Chi era nudo ed inerme, cedeva
senza difficoltà agli armati. Poi a poco a poco venne la spada di ferro e cadde in disuso la falce di bronzo;
cominciarono a fendere il terreno col ferro, e si riequilibrarono gli incerti conflitti di guerra…» (De rerum
natura, VI, 1283-1295)

La fase prescientifica

Lo straordinario passo del De rerum natura di Lucrezio – straordinario per lucidità e “correttezza”! –
dimostra che la coscienza dell’esistenza di una antichità «remota» e di una progressiva evoluzione della
civiltà umana scandita da trasformazioni di tipo tecnologico e – il che è fondamentale – da parallele e
conseguenti trasformazioni di tipo economico-sociale era già quindi pienamente presente negli intellettuali
di epoca romana; e, come indicato dall’altrettanto famoso passo degli Ἔργα καὶ Ἡμέραι di Esiodo, nel quale
si parla della successione delle mitiche età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro, tale consapevolezza
può essere proiettata all’indietro per lo meno all’VIII-VII secolo a.C.

Tale consapevolezza non si tradusse tuttavia mai in un atteggiamento di tipo «scientifico» – e non ci si
riferisce ovviamente al concetto moderno di «scienza»! – verso la materialità di queste epoche più remote;
per quanto riconosciute come tali, le testimonianze materiali della remota antichità – che restava avvolta
nelle nebbie del mito – erano osservate infatti secondo l’ottica del mirum, cioè del meraviglioso, dello
straordinario, dello strano, del sorprendente –; un mirum che si poneva a cavallo tra le sfere – in larga
misura non disgiunte – del divino e del fenomeni naturali e che, molto spesso, era utilizzato – dai potenti –
per affermare la propria ricchezza e, in maniera più esplicitamente politica, la propria posizione dominante.

Svetonio (70-126 d.C.) – ma gli esempi potrebbero essere molti – nella Vita di Augusto, ci dice ad esempio:
«…Le sue [casa] invece, sebbene modeste, le fece abbellire non solo con statue e con quadri, ma anche con
porticati e con boschetti, e anche con oggetti curiosi per antichità e rarità, come sono i resti enormi di bestie
mostruose scoperti a Capri e chiamati ossa dei giganti e armi degli eroi…» (De vita Caesarum, II, 72)
Augusto era venuto evidentemente in possesso – e aveva utilizzato come mirabilia per abbellire la sua
dimora – di resti di grandi animali estinti e, forse, di manufatti in metallo di epoca preprotostorica che
venivano interpretati come resti dei mitici giganti e armi appartenute ad altrettanto mitici eroi.

→Cratere corinzio databile alla metà del VI secolo a.C. con scena mitica incentrata sull’uccisione di un
mostro; nella testa della bestia è difficile non vedere – per dimensioni, caratteristiche morfologiche e
cromatiche una rappresentazione molto fedele – forse dal vero! - del cranio di un grande dinosauro
carnivoro

«…Merione diede a Odisseo l’arco, la faretra e la spada, e sul capo gli pose un elmo di cuoio, con molte
strisce saldamente intrecciate all’interno e al di fuori bianchi denti di cinghiale dalle candide zanne, fitti e
disposti con ordine da una parte e dall’altra…» (Iliade, X, 255-260) L’elmo a zanne di cinghiale è un elmo
tipico dei guerrieri micenei di più altro rango ed è stato in uso tra tra il XVI e il XIII secolo a.C. L’Iliade, come
è noto, ebbe una lunghissima gestazione – orale – tra il XII e l’VIII secolo a.C. e probabilmente sono nel VI
secolo a.C. assunse forma scritta. La straordinaria aderenza della descrizione alla realtà (archeologica) non
può che derivare da autopsia. Si tratta quindi o di un frammento di testo davvero collocabile nella tarda età
del bronzo e conservatosi perfettamente o di un passo composto in fase più tarda sulla base di un antico
cimelio.

Lo stesso Svetonio, nella Vita di Galba, ci offre un elemento chiave per comprendere un’altra importante
categoria interpretativa applicata in antico – ma che, come si vedrà, avrà una lunghissima vita – ad alcune
classi di manufatti pre-protostorici, in particolare le asce in pietra levigata o metallo e le punte di freccia in
selce; narrando dei fatti prodigiosi che annunciarono la successione tra Nerone e Galba, Svetonio scrive
infatti: «…Poco tempo dopo un fulmine cadde in un lago di Cantabria e furono scoperte dodici scuri, segno
incontestabile del [suo] potere sovrano…» (De vita Caesarum, VII, 8). Le dodici asce – verosimilmente in
bronzo e interpretabili come un ripostiglio, o come offerte votive alle acque secondo un rituale tipico
dell’età del bronzo e della prima età del ferro – vengono lette come ceraunia – dal greco κεραυνός,
«fulmine» – cioè come prodotti della conflagrazione dei fulmini, in questo caso scagliati da Giove come
segno dell’assenso divino all’imperium di Galba.

→Alle asce e alle punte di freccia pre-protostoriche viene attribuito un significato particolare – connesso
alla loro origine mirabilis – anche nei secoli successivi; anzi, esse vengono ben presto ri-utilizzate come
talismani con poteri magici

→Nella tradizione norrena, Thor, il dio del tuono, è armato di un grande martello, Mjöllnir; il nome «Thor»
e le sue varianti derivano tutte dal proto-germanico *Thunraz, cioè «fulmine», «tuono»; nelle lingue
germaniche odierne: inglese thunder, olandese donder, tedesco Donner

→Nella Margarita philosophica, enciclopedia redatta dall’umanista tedesco Gregor Reisch intorno al 1493 e
pubblicata a Friburgo nel 1503, un’incisione raffigura la caduta di due pietre dal cielo durante una tempesta
con fulmini; la pietra più piccola, che uccide un uomo, rientra pienamente nella categoria dei ceraunia

Marbodio, vescovo di Rennes, vissuto tra il 1040 e il 1123, nel suo Lapidarius, incentrato sulle proprietà dei
minerali, descrive le qualità terapeutiche dei ceranunia e in particolare la loro efficacia a protezione dai
fulmini; il Medioevo cristiano nord-europeo «scopre» e si sofferma però anche sui monumenti megalitici
dell’età del rame – i menhir (dal bretone men «pietra» e hir «lungo»), i dolmen (in bretone «tavole di
pietra»,) i cromlech e gli henges – per l’interpretazione dei quali si pone sulla scia della tradizione classica,
ma aggiungendovi ulteriori elementi che attengono alla sfera del fantastico; Saxo Grammaticus, chierico
danese vissuto tra il 1150 e il 1220 circa, nel suo Gesta Danorum parla dei monumenti megalitici – in
particolare dei dolmen – come di «tombe di giganti»; Geoffrey di Monmouth, vissuto in Britannia tra 1100 e
1155, nel Tractatus de Mirabilibus Britanniae, cita Stonehenge e afferma che questo straordinario
monumento fu trasportato dall’Irlanda dal mago Merlino, connettendolo inestricabilmente alla saga di re
Artù.

→Un gigante aiuta il mago Merlino a costruire Stonehenge secondo la miniatura contenuta in un
manoscritto del Roman de Brut del poeta normanno Wace – vissuto tra il 1100 e il 1174 – databile alla
prima metà del XIV secolo; si tratta della più antica rappresentazione nota di questo notissimo
monumento

→Olav Manson, vescovo e umanista svedese noto anche come Olaus Magnus, nella sua Historia de
Gentibus Septentrionalibus, pubblicata nel 1533, si chiede se le catene montuose della Svezia siano opera
dei giganti; a questi attribuisce anche i moltissimi monumenti megalitici diffusi in questa regione

Johan Picardt (1600-1670), religioso e medico tedesco, nella sua opera sui monumenti megalitici della
regione di Drehnte, nei Paesi Bassi, interpreta ancora i dolmen come costruzioni e dimore dei mitici,
mostruosi giganti.
Nei Monumenta Inedita Rerum Germanicarum di Ernst J. de Westphalen, pubblicato a Lipsia nel 1739, i
dolmen vengono ancora visti come luoghi di convito di diavoli e mostri secondo la più genuina tradizione
medievale. Il collegamento dei monumenti megalitici della pre-protostoria con la sfera demoniaca – sia
essa impersonata dagli idoli pagani, dai diavoli, dalle streghe, ecc. – è una costante del Cristianesimo fin
dall’Alto Medioevo; e numerose sono le testimonianze di menhir, dolmen, cromlech, statue-stele, distrutti
o «resi innocui» attraverso l’apposizione di croci o altri simboli cristiani.

Le interpretazioni «fantastiche» che si erano affermate a partire dall’epoca classica e che, sull’auctoritas
degli scrittori e dei poeti greci e latini, erano state assunte – e arricchite – nel Medioevo, attraversano
quindi l’Umanesimo e il Rinascimento per arrivare alle soglie dell’«Età dei Lumi», senza risentire in alcun
modo della «Rivoluzione scientifica» di Copernico, Galileo e Newton; a partire dal ‘500, tuttavia, il nuovo
approccio scientifico allo studio della natura e dei meccanismi che la regolano – il quale prende piede
proprio a partire da questo secolo – inizia ad essere applicato anche alle testimonianze materiali di epoca
pre-protostorica; tra ‘500 e ‘700 si viene quindi a delineare una situazione – che è solo apparentemente
paradossale, dato che, come si è visto, per certi aspetti caratterizza anche il mondo contemporaneo – in cui
il filone di interpretazione «fantastico» e quello «scientifico» procedono in maniera del tutto parallela e
indipendente; in questo senso, peraltro, le situazioni che vengono a delinearsi da un lato in Europa centro-
settentrionale e dall’altro in Italia non presentano differenze sostanziali; l’unica differenza macroscopica è
la effettiva maggiore attenzione che nei paesi del Centro- e Nord-Europa viene prestata alle evidenze
preprotostoriche rispetto a quanto, nello stesso torno di secoli, si fa in Italia. Le motivazioni che stanno alla
base di questa differenza sono trasparenti: in Europa centro-settentrionale le manifestazioni più
monumentali – che da sempre catalizzano l’immaginario – sono quelle di epoca pre-protostorica in Italia le
manifestazioni più monumentali – che da sempre catalizzano l’immaginario – sono le vestigia dell’antichità
classica, soprattutto romana. Nel 1480 vengono scoperti sull’Esquilino i sotterranei della Domus Aurea; i
pittori del tempo iniziano a calarsi in questi ambienti – popolarmente chiamati «grotte» – per studiarne e
copiarne i cicli pittorici; da questa prassi nasce una delle categorie decorative che avranno maggiore
fortuna e maggiore influenza della storia dell’arte moderna europea, cioè quella delle «grottesche».

Il 27 agosto 1515, papa Leone X Medici nomina Raffaello soprintendente alle antichità di Roma con
giurisdizione su tutto il patrimonio archeologico della città; nel 1519 il pittore, assieme a Baldassarre
Castiglione, invia al pontefice una lettera sul tema della protezione e conservazione delle vestigia antiche;
la lettera accompagnava una raccolta di disegni degli edifici della Roma imperiale eseguita dal pittore su
incarico del papa stesso. Uno dei temi che meglio mostra la coesistenza nell’Europa di un approccio
«fantastico» e di un approccio «scientifico» allo comprensione delle evidenze materiali della pre-
protostoria è quello dell’interpretazione dei «Campi d’Urne»; Barthélemy de Granville, in Le Livre des
porpriétés des choses, pubblicato nel 1485, riprendendo la tradizione medievale, spiega la presenza di
raggruppamenti di centinaia di vasi in ceramica nel terreno – che oggi sappiamo essere grandi necropoli a
incinerazione dell’età del bronzo e della prima età del ferro – come il prodotto di generazione spontanea.

Nel 1562 il pastore luterano Johannes Mathesius afferma: «…È degno di nota che questi vasi presentino
forme tanto varie da essere uno diverso dall’altro e che, finché sono interrati, restino molli come corallo
sott’acqua, mentre si seccano appena esposti all’aria […]. Si dice che un tempo ci fosse una tomba, con le
ceneri di un defunto come dentro un’urna antica. Ma dal momento che i vasi si trovano solo nel mese di
maggio, quando è manifesta la loro presenza nei monticelli che si formano, come se la terra fosse gravida –
e questo indizio può essere utile per chi ne va in cerca –, penso dunque che siano di origine naturale,
estranea all’intervento dell’uomo, ma creati da Dio e dalla Natura…»
Il naturalista tedesco Georg Bauer – meglio noto come Georgius Agricola – nel suo De natura fossilium libri
X, pubblicato nel 1546, scrive tuttavia: «…La gente ignorante della Sassonia e della Bassa Lusazia crede che
questi contenitori crescano nella terra, quelli della Turingia che fossero utilizzati da scimmie, che un tempo
abitavano le caverne del Seeberg. Esaminandoli si scopre che sono urne, nelle quali gli antichi Germani, non
ancora cristianizzati, conservavano le ceneri dei defunti…» (De natura fossilium, 1546)

→L’approccio «scientifico» all’analisi delle evidenze materiali della preprotostoria si manifesta anche in una
netta trasformazione nei criteri di riproduzione, ad esempio, dei monumenti megalitici; il disegno di un
dolmen contenuto nel manoscritto History of Penbrokeshire, redatto nel 1603 da George Owen, naturalista
e precursore della geologia stratificata, denota un un interesse al rilievo del monumento quasi in termini
«anatomici». Il ‘500 è anche il secolo della conquista del Nuovo Mondo e quindi del contatto non solo con i
grandi imperi mesoamericani, ma anche con le popolazioni native che erano rimaste a un livello di
complessità molto inferiore; i primi resoconti di viaggio, nei quali sono descritti – e spesso riprodotti – usi e
costumi, ma anche strumenti, armi, ecc. dei «selvaggi», imprimono un forte impulso alla lettura dei
manufatti pre-protostorici fuori dall’ottica «fantastica»: si tratta del primo germe di quello che sarà il
«comparativismo etnografico».

→In precedenza come dimostrato da queste miniature di fine ‘400 la percezione dell’uomo «primitivo» si
basava sulla Bibbia e sugli autori classici e medievali; la prima, tratta da Les Quatre états de la société,
raccolta di poesie moralizzanti, riguarda L’Homme sauvage ou l’État de natur; la seconda è relativa a Le
secret de l’histoire naturelle contenant les merveilles et choses mémorables du monde, un’opera di
compilazione geografica e mitologica. In questo senso, particolare importanza riveste A Brief and True
Account of teh New-found Land of Virginia, pubblicato dall’inglese Thomas Harrot, nel 1588; l’edizione del
1592 è corredata da acquerelli di John White che rappresentano usi e costumi dei «selvaggi» del Nord
America; questi ultimi rappresentano inoltre il modello per la rappresentazione degli antichi Britanni.

Nel quadro generale del filone di approccio «scientifico» allo studio delle evidenze materiali della pre-
protostoria, la figura sicuramente più importante e in anticipo sui tempi è in ogni caso quella di un italiano;
Michele Mercati (1541-1593), prefetto dell’Orto botanico di Roma e archiatra pontificio, riceve da papa
Gregorio XIII Boncompagni l’incarico di fondare la collezione naturalistica – soprattutto mineralogica –
vaticana; Mercati realizza una collezione di grande importanza – la Methalloteca – composta da campioni di
terre, minerali, fossili e anche manufatti di epoca pre-protostorica; quello che più colpisce di questa
collezione è il suo rigoroso ordinamento, e la modernità con cui è concepita anche dal punto di vista del suo
utilizzo per lo studio. I materiali della collezione, ospitata in una sontuosa e luminosa sala, erano conservati
all’interno di armadi, ordinati e numerati da I a XIX, dotati di un’anta a ribalta che poteva essere utilizzata
come tavolino di lavoro e studio. La collezione era articolata in due sezioni: ΟΡΥΚΤÀ – che comprendeva
campioni di rocce, minerali, fossili, ecc. – e ΜΕΤΑΛΛΕΥΤÀ – che comprendeva i metalli –; tra gli ΟΡΥΚΤÀ vi
erano anche oggetti pre-protostorici in pietra→ Gli oggetti pre-protostorici, inseriti nella sezione degli
ΟΡΥΚΤÀ, erano conservati nell’armadio «VIIII LAPIDES ιδιóμορϕοι IDEST PECULIARI FORMA PRAEDITI», cioè
«Pietre ιδιóμορϕοι cioè dotate di una forma particolare». Mercati compila anche un catalogo illustrato, la
Metallotheca Vaticana, che descrive approfonditamente la collezione; quest’opera viene tuttavia
pubblicata a cura del medico romano Giovanni Maria Lancisi solo nel 1717.

L’aspetto fondamentale della riflessione di Mercati sui ceraunia è l’interpretazione – modernissima e


corretta – che egli ne dà, distaccandosi completamente dalla tradizione che risale all’auctoritas dei classici –
in particolare, nello specifico, di Varrone e Plinio – e che, come si è visto, avrà fortuna e credito per lo meno
fino al XVIII secolo; nella Methalloteca Vaticana Mercati scrive infatti: «…Il ceraunio, comunemente
chiamato “freccia”, è frequente in Italia. È ricavato da una selce dura e sottile, a cui viene data la forma di
un dardo triangolare acuminato. Due sono le ipotesi circa la sua origine: la maggior parte della gente crede
che sia prodotto dal fulmine, chi studia la storia è convinto invece che si ottenesse colpendo con violenza
una selce durissima, in un periodo antecedente a quello in cui il ferro fu adoperato per le follie della guerra.
Gli uomini più antichi utilizzarono come coltelli delle schegge di selce…»

La Methalloteca di Mercati – pur caratterizzata da importanti peculiarità – si inserisce pienamente in uno


dei fenomeni più tipici di quel nuovo tipo di interesse per la natura e per la storia dell’uomo che prende
piede proprio a partire dal XVI secolo: il «collezionismo»; il fenomeno, che ha il suo massimo sviluppo tra
fine ‘500 e ‘600 e consiste nella creazione di grandi collezioni composte da un’amplissima gamma di
materiali (minerali, fossili, piante, ossa umane e animali, animali impagliati, ma anche oggetti etnografici,
reperti archeologici delle più varie epoche e delle più svariate provenienze, monete, ecc.), si declina in due
modi diversi: da un lato le collezioni dei nobili e dei sovrani – cioè le Wunderkammern, le «stanze delle
meraviglie» –, dall’altro le collezioni degli studiosi – cioè i Musea –; le motivazioni, i metodi di realizzazione
e gli obiettivi che stanno alla base della creazione delle Wunderkammern e dei Musea sono molto diversi.
Le prime sono il riflesso della volontà dei potenti di mostrare – a pochi – la propria posizione privilegiata
attraverso il possesso non più solo di tesori e di reliquie, ma anche di mirabilia della natura e dell’uomo; i
secondi sono invece gabinetti di studio, rigorosamente ordinati, accessibili e quindi realizzati anche con
l’intento didattico e pedagogico di far scoprire al visitatore esterno e non specialista il macrocosmo del
mondo attraverso il microcosmo della collezione.

Uno dei primi esempi di museum è quello del naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi; la collezione,
composta da 7000 «piante essiccate in quindeci volumi» e 18000 «diversità di cose naturali», è definita
significativamente dallo stesso Aldrovandi «microcosmo di natura» e «teatro». Il Musaeum metallicum di
Aldrovandi, la cui composizione ci è nota dall’edizione di Bartolomeo Ambrosino del 1637-1642,
comprendeva, anche oggetti etnografici – provenienti anche dal Nuovo Mondo – reperti di epoca pre-
protostorica sia in ceramica, sia soprattutto in pietra levigata e selce.

Il museo del naturalista napoletano Ferrante Imperato in un’incisione dell’Historia Naturale Libri XXVIII, del
1599; la collezione, perfettamente ordinata e conservata in una stanza sontuosa e ben illuminata,
comprende anche una biblioteca; dei nobili la stanno visitando con una guida. La collezione del botanico
veronese Francesco Calzolari (1522-1609) – meglio nota come Museum Calceolarium – in un’incisione del
1622; l’analogia con la struttura e l’organizzazione del gabinetto di Ferrante Imperato è evidente.

Il personaggio che riesce a realizzare una sintesi tra l’approccio di tipo «scientifico» allo studio della natura
e della più remota antichità e quello riflesso nelle Wunderkammern è il medico, biologo e filologo danese
Ole Worm (1588-1654); Worm realizza una grande collezione – nota come Museum Wormianum – con
caratteristiche compositive e di organizzazione analoghe agli altri musei; il lavoro di Worm innesca però un
processo di progressiva presa di coscienza da parte dei sovrani danesi dell’importanza delle antichità per la
ricostruzione della storia nazionale; nel 1630, infatti, viene emesso un editto che regola la tutela del
patrimonio archeologico; sotto Federico III, inoltre, il Museum Wormianum entra a far parte delle Ole
Worm (1588-1654) collezioni reali di Copenhagen.

Con il Danicorum Monumentorum libri sex: e spissis antiquitatum tenebris et in Dania ac Norvegia
extantibus ruderibus, pubblicato a Copenhagen nel 1643, Worm formalizza inoltre un altro concetto
fondamentale per i successivi sviluppi degli studi pre-protostorici; scrive infatti: «…Dal momento che il
nostro [dei Danesi] passato è difficile da indagare, la maggior parte degli eruditi volge le spalle al dovere
verso la patria e, trascurando le antichità locali, si dedica a quelle di altri paesi. Ma trascurare ciò che è
vicino e andare in cerca di ciò che è lontano non è una virtù, ma un difetto. Da un simile atteggiamento
deriva necessariamente che atti, riti, istituzioni, leggi, vittorie, trionfi, monumenti e una serie di trofei del
valore dei Danesi restano sepolti nell’oscurità, velati di eterno oblio…»
Il ‘600 è anche il momento in cui si affronta – per la prima volta di nuovo dopo le elaborazioni di Beda il
Venerabile (ca. 673-735) – il problema dell’antichità della terra e dell’uomo in termini «assoluti»; Prima di
entrare nel merito di questo aspetto, è necessario chiarire il significato di due termini chiave dal punto di
vista della cronologia, vale a dire quelli di «cronologia relativa» e «cronologia assoluta»
«CRONOLOGIA RELATIVA»: è quel tipo di cronologia che stabilisce una relazione di anteriorità o posteriorità
tra due manufatti, contesti, strati, ecc. Essa stabilisce cioè solo se un oggetto o un complesso di oggetti
sono stati prodotti prima o dopo altri, se uno strato si è formato prima o dopo altri; è del tutto
«atemporale» – cioè non è agganciata al calendario – e non si esprime quindi in date a.C. o d.C.
«CRONOLOGIA ASSOLUTA»: è quel tipo di cronologia che colloca manufatti, contesti, strati, ecc. all’interno
di un range temporale – che piò essere più o meno preciso – agganciato al calendario; essa si esprime
pertanto in date a.C. o d.C.

Il ‘600 è anche il momento in cui si affronta – per la prima volta di nuovo dopo le elaborazioni di Beda il
Venerabile (ca. 673- 735) – il problema dell’antichità della terra e dell’uomo in termini «assoluti», cioè a
livello «calendarico»; se ne interessano molti studiosi e per tutti il punto di partenza è la Bibbia; negli
Annales Veteris Testamenti, a prima mundi origine deducti, pubblicato nel 1650, il vescovo anglicano
irlandese James Ussher, afferma che Dio creò l’universo – e con esso l’uomo – nel 4004 a.C., a mezzogiorno
in punto; John Lightfoot, rettore dell’Università di Cambridge, precisò poi la data: 23 ottobre; il tutto può
far sorridere, ma lo sforzo dà l’idea dell’importanza del tema, al quale, peraltro si interessa anche Isaac
Newton, che propende per la data del 4000 a.C. Ci sono però, come sempre, voci fuori dal coro. Nel 1655 il
filosofo francese Isaac La Peyrère nella lettera Praeadamitae sive Exercitatio super Versibus duodecimo,
decimotertio, et decimoquarto, capitis quinti Epistulae D. Pauli ad Romanos, quibus inducuntur Primi
Homines ante Adamum conditi, a partire dalla constatazione che la Bibbia non poteva che essere la storia
del solo popolo ebraico e che quindi Adamo non poteva essere il progenitore di tutti gli uomini – ma solo
degli Ebrei! –, teorizza l’esistenza di altri uomini – definiti «pre-adamitici» – e, prendendo a sostegno della
propria tesi le popolazioni del Nuovo Mondo – che non potevano evidentemente avere avuto alcun
contatto con gli Ebrei –, propone, di fatto, un «poligenismo» ante litteram. Il «caso La Peyrère» attira subito
l’attenzione del Sant’Uffizio; il filosofo è accusato di eresia e nel 1657 abiura davanti al Papa.

Tra la fine del ‘600 e il Congresso di Vienna, tenutosi tra il 1814 e il 1815, l’Europa centro-settentrionale e
l’Italia prendono strade molto diverse nell’approccio allo studio e all’interpretazione delle testimonianze
materiali della pre-protostoria. In Europa, infatti, l’interesse sia per il mondo classico, sia per le vestigia le
antichità preistoriche e protostoriche, attraversano tanto l’Illuminismo quanto il primo Romanticismo; in
Italia, invece, le poche ma significative esperienze prodottesi tra la seconda metà del ‘500 – a partire da
quella, straordinaria, di Michele Mercati – e il ‘600 non hanno alcun seguito; un peso notevole nell’avvio di
questo processo di netta – e per certi aspetti ancora non sanata – separazione dei percorsi hanno avuto
due fatti: 1) l’attecchimento in Europa della lezione di Worm, la quale da un lato metteva l’accento
sull’importanza della ricostruzione anche del passato «difficile da indagare» – i.e. il passato privo di fonti
scritte – per una piena comprensione della storia dei singoli Paesi, dall’altro fondava un metodo per la
classificazione e lo studio sia dei materiali, sia del «paesaggio archeologico»; 2) il fatto che, invece, in Italia,
la lezione di Michele Mercati è rimasta ignota fino al 1717, e quindi, di fatto, «lettera morta».
Un’incisione del Bevölkertes Cimbrien, pubblicato dal naturalista tedesco Johann Daniel Major nel 1692,
testimonia non solo l’interesse per i monumenti pre-protostorici – in questo caso dei tumuli – , ma anche
l’avvio di una riflessione sui metodi di scavo di questi complessi; il tumulo B è indagato con sezione a
quadrante, il t. A con una trincea che espone due sezioni trasversali. Un’eccezionale attenzione all’analisi
della stratigrafia dei tumuli – siano essi preistorici o di epoca vichinga – è testimoniata da alcune sezioni –
verosimilmente le prime mai pubblicate! – contenute negli Atlantica del medico e rettore dell’Università di
Uppsala, in Svezia, Olof Rudbeck; l’opera data 1697.
Nel 1685, l’abate di Cocherel, in Normandia, scopre, nell’omonima località, una tomba megalitica e la scava
assieme al padre benedettino, studioso di antichità e di paleografia, Bernard de Montfaucon (1655-1741);
la tomba comprendeva una ventina di scheletri con corredi costituiti da asce in pietra, punte di freccia in
selce e vasi; nel corpo del tumulo, in un livello superiore, vi era inoltre una tomba a incinerazione; nel 1719
de Montfaucon, pubblicando i risultati dell’indagine – si tratta della prima vera relazione di scavo nota! –,
scrive: «…Sembra che questi barbari non conoscessero l’uso del ferro, del rame o di altri metalli…»; e
confrontando la tomba principale con l’incinerazione: «…non v’è dubbio che fosse la sepoltura della più
remota antichità…».

Da parte di de Montfaucon nessun accenno alla datazione delle tombe; egli tuttavia aggiunge alla
descrizione dei contesti la lettera di Jaques Christophe Iselin, antiquario di Basilea, il quale, oltre a fornire
confronti con analoghe tombe scoperte in Germania e in altre parti dell’Europa del Nord, consiglia di
classificare le sepolture in base gli strumenti rinvenuti «in associazione» nel corso dello scavo, seguendo
l’ordine si successione delle Età della Pietra, del Bronzo e del Ferro desumibile dagli autori dell’antichità
classica; è la prima volta che il paradigma classico delle «Tre Età» viene utilizzato per classificare un
«contesto» archeologico e per per proporne una collocazione cronologica che, oggi, definiamo «relativa».

I ceraunia continuano ad occupare un posto importante; l’opera pubblicata nel 1738 dal naturalista svedese
Kilian Strobaeus sulla storia di questi oggetti – da lui correttamente interpretati come strumenti pre-
protostorici – testimonia la grande attenzione che viene ora riservata alla loro fedele riproduzione.

Nell’ambito dello studio dei monumenti megalitici e dei tumuli – che, ovviamente, riveste ancora
un’importanza chiave – un ruolo fondamentale è svolto dall’antiquario inglese William Stukeley (1685-
1765); nei primi decenni del ‘700, Stukeley, nel quale convivono mentalità antiquaria e approccio
«scientifico», avvia un lavoro di sistematica ricognizione sui megaliti inglesi; importanti sono le sue
osservazioni sui resti di faune all’interno dei monumenti megalitici e soprattutto le indagini di superficie –
una specie di survey ante litteram – per l’identificazione di altre evidenze, il rilievo di dettaglio delle
strutture e del contesto topografico e ambientale in cui si trovano, la loro distribuzione areale. La
persistenza della mentalità antiquaria in Stukeley è tuttavia dimostrata dal fatto che egli interpreta
Stonehenge come un tempio utilizzato dai druidi dei Celti di Britannia; nel 1750, infatti, pubblica a Londra
un’opera dal titolo parlante, cioè Stonehenge. A Temple Restor'd to the British Druids.

Nel 1724, il gesuita francese Joseph-François Lafitau pubblica Moeurs des sauvages amériquains
comparées aux moeurs des premiers temps, esito della sua esperienza missionaria presso gli Irochesi del
Canada; benché incentrato soprattutto sulle pratiche religiose, si tratta del primo trattato in cui la
comparazione etnografica viene utilizzata in funzione archeologica.

Il ‘700 illuminista è anche il momento delle prime riflessioni sull’evoluzione delle società umane, o meglio
dell’evoluzione sociale dell’umanità; figura chiave in questo senso è quella di Charles-Louis de Sécondat,
barone di Montesquieu (1689-1755), il quale nel suo De l'Esprit des loix del 1748 utilizza la base economica
delle comunità come criterio per distinguere stadi di evoluzione sociale diversi, anzi di «stato politico»: i
cacciatori-raccoglitori «selvaggi», i pastori «barbari», gli agricoltori, ecc.; in Montesquieu ci sono in luce
quindi quelle categorie di classificazione delle formazioni sociali dell’antichità pre-protostorica, che
attraverso la mediazione di altri filosofi, soprattutto anglosassoni, arriveranno, negli anni ‘70 dell’‘800, a
Lewis H. Morgan.

Nel 1724, Filippo Buonarroti pubblica il De Etruria Regali Libri Septem, opera compilata su incarico del
Granduca di Toscana Cosimo II dallo storico scozzese Thomas Dempster tra 1611 e 1619; l’uscita del libro
innesca un fenomeno caratteristico della cultura italiana del ‘700 : l’«Etruscheria», cioè l’interesse ossessivo
per le antichità etrusche, che catalizza l’interesse di molti eruditi; l’«Etruscheria» che non è né storiografia
né archeologia – e che ben presto assume i connotati di una vera «Etruscomania» – determina una
frenetica attività di campo volta al recupero della maggiore quantità possibile di vestigia riferibili agli
Etruschi; un’attività che, condotta con metodi assolutamente non scientifici, comporta Cosimo II de’ Medici
(1590-1621) enormi guasti al patrimonio archeologico.

Nella prima metà del ‘700, Carlo III di Borbone, re di Spagna e di Sicilia, avvia imponenti scavi nelle città
distrutte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; nel 1738 iniziano i lavori a Ercolano, nel 1748 a Pompei: agli
occhi dell’alta società e degli intellettuali italiani ed europei si apre un nuovo, immenso universo di «rovine
classiche», peraltro molto meno «rovine» di quelle di Roma e della Magna Grecia; gli scavi, per quanto
rigorosamente organizzati, vengono però condotti senza alcun metodo scientifico; il loro obiettivo è, ancora
una volta, quello di recuperare «tesori» – siano essi i manufatti, gli edifici o i grandi cicli pittorici – per
accrescere il prestigio in questo caso della dinastia dei Borboni.

In questo momento chiave che si colloca tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’‘800 – tra Neoclassicimo e primo
Romanticismo – l’Italia è la meta principale del Grand Tour; e le imponenti vestigia dell’antichità classica –
da Roma, ai templi della Magna Grecia e della Sicilia – diventano la principale attrattiva.

Una delle poche eccezioni nel panorama italiano è quella del gesuita molfettese Giuseppe Maria Giovene
(1753-1837); negli anni ‘80 del ‘700, Giovene, discendente da una nobile famiglia ma di idee progressiste –
partecipò attivamente all’esperimento della Repubblica Partenopea del 1820 –, studiò a fondo i depositi
delle grotte che si aprivano sulle pareti verticali della grande dolina carsica nota come Pulo di Molfetta; i
depositi di tali grotte, costituiti in gran parte da livelli di guano di pipistrello e ricchi di nitrati, attirò infatti
l’attenzione del governo borbonico che, a partire dal 1748, autorizzò la costruzione, sul fondo del Pulo, di
una «nitriera» – cioè di una fabbrica di salnitro – che doveva servire l’esercito.

Le esperienze italiane entro certi limiti accostabili a quella di Giovene al Pulo di Molfetta si contano sulla
dita di una mano; nel 1816-1817, nel pressi di Caselgandolfo, Alessandro Visconti scopre una sepoltura
della fase finale dell’età del bronzo e, nell’ottica antiquaria dell’epoca, la ricollega alla mitica città di Alba
Longa; nel 1826 Alberto Ferrero della Marmora (1789-1863), generale dell’esercito del Regno di Sardegna il
Voyage en Sardigne, in cui si sofferma anche sui nuraghi; della Marmora rileva le analogie esistenti tra
queste importanti vestigia dell’età del bronzo sarda con e altri megalitiche mediterranei – in particolare
delle Baleari –, ma le interpreta erroneamente come costruzioni fenicie.

→Perché si è scelto di utilizzare come cesura chiave anche all’interno di questa fase della Storia della
Paletnologia il Congresso di Vienna e l’avvio della Restaurazione? Perché esso segna la fine
dell’imperialismo napoleonico e il ritorno – politico, ma anche ideologico – dell’Europa degli Stati Nazionali.

Fase scientifica (FASE FORMATIVA, 1850-1860)

Gli sviluppi che la geologia, le scienze naturali e l’interesse stesso per le fasi più remote della storia umana
conoscono nella prima metà dell’‘800 nell’Europa centrosettentrionale rappresentano le premesse per lo
sviluppo della «Paletnologia» come disciplina scientifica anche in Italia; sul piano filosofico, questo periodo
corrisponde all’affermazione del Positivismo; l’atto di nascita di questo movimento – che prende il nome
dal termine positum, «ciò che è posto», cioè fondato sui fatti concreti» – è considerato il Catéchisme
politique des industriels , pubblicato da Henri de Saint Simon nel 1823-1824; la sua vera affermazione di ha
tuttavia con il Course de Philosphie Positive dato alle stampe da Auguste Compte nel 1830; il Positivismo –
che si sviluppa a partire da alcune istanze dell’Illuminismo, ma che, soprattutto per quel che riguarda la
concezione della storia, condivide diversi elementi anche con il Romanticismo – ha come principi guida la
fiducia – anzi, sarebbe più corretto dire la «fede» – nella «regione» e nella «scienza» e la visione del
«progresso scientifico tecnologico» come base del progresso sociale inteso anche come processo di
miglioramento delle condizioni di vita; questo movimento, inoltre, traina e nello stesso tempo è trainato
dall’altro grande fenomeno che contraddistingue questo periodo storico, cioè la «Rivoluzione Industriale»;
non a caso, in breve tempo esso viene a configurarsi come l’elaborazione ideologica propria della borghesia
industriale e progressista europea. L’importanza in questa temperie si attribuisce al «progresso»
rappresenta una delle condizioni base per l’affermazione anche della «nuova scienza» paletnologica che si
configura, prima di tutto, come strumento di investigazione dell’intero «progresso» dell’umanità.

Nel 1830, il geologo scozzese Charles Lyell (1797-1875) dà alle stampe quello che rappresenta il contribuito
chiave della moderna geologia, cioè i Principles of Geology; in questo lavoro, che ebbe diverse edizioni,
Lyell, a partire dalle tesi di James Hutton – il quale, sulla scorta dei lavori di Lehman, enunciò per primo in
modo compiuto la fondamentale «legge della sovrapposizione degli strati» – afferma che i lenti fenomeni
naturali attuali (sedimentazione, erosione, avanzamento o ritiro dei ghiacciai, ecc.) possono
adeguatamente spiegare i mutamenti geologici delle epoche passate; in questo modo Lyell proietta la
storia della terra in una dimensione temporale enormemente profonda.
→Il frontespizio del Principles of Geology è arricchito da un’incisione che ritrae le colonne del c.d. «Tempio
di Serapide» a Pozzuoli; le perforazioni causate dai litodomi danno la misura del livello di sommersione
dell’edificio causata dal bradisismo flegreo: nulla di più efficace per mostrare le trasformazioni che i lenti,
impercettibili fenomeni naturali determinano sulla crosta terrestre.

Nel 1859, Charles Darwin (1809-1882) pubblica quello che sarà forse il libro più dirompente dell’epoca
moderna: On The Origin of Species; In base alle osservazioni effettuate alle Galapagos durante un viaggio
intorno al mondo effettuato a bordo del brigantino HMS Beagle, Darwin formula la teoria dell’evoluzione
delle specie animali e vegetali per selezione naturale agente sulla variabilità dei caratteri ereditari e della
loro diversificazione e moltiplicazione per discendenza da un antenato comune; anche Darwin, amico di
Lyell e fortemente influenzato dalla sua opera, proietta la storia degli esseri viventi – e con essi dell’uomo –
in una dimensione temporale fino ad allora Charles Darwin (1809-1882) mai immaginata.
→In On The Origin of Species Darwin dedica una sola riga al problema enorme dell’origine dell’uomo;
suona però quasi come una predizione del peso che la sua teoria avrà su di esso: «…luce si farà sulle origini
dell’uomo e la sua storia…».
La prima traduzione italiana di On The Origin of Species viene edita a Modena nel 1864, quindi solo cinque
anni dopo la sua uscita; gli autori sono il naturalista Giovanni Canestrini – che avrà una parte importante
anche nello sviluppo della Paletnologia italiana – e dall’ingegnere Leonardo Salimbeni. La loro traduzione
diffonde immediatamente la teoria di Darwin anche al di fuori della ristretta cerchia dei naturalisti; famosa
è una conferenza pubblica tenuta a Torino nel 1864 dallo zoologo Filippo de Filippi sul problema –
ovviamente tra i più sentiti – della derivazione dell’uomo e della scimmie da un antenato comune.

Nel 1816, Christian Jürgensen Thomsen (1788-1865) viene nominato responsabile reale per la raccolta e la
conservazione delle antichità nazionali danesi, con l’obiettivo – auspicato già dal suo predecessore, Rasmus
Nyerup – di creare, a Copenhagen, un museo nazionale; il museo viene inaugurato nel 1819 e Thomsen ne
è il primo curatore; nel 1836 Thomsen pubblica il catalogo completo del museo, il Ledetraad til Nordisk
Oldkyndighedœ; per la prima volta una collezione viene rigorosamente ordinata in senso cronologico sulla
base del «sistema delle tre età» – già formulato dal gesuita francese Nicolas Mahudel alla metà del ‘700
sulla base di Lucrezio – prendendo come criterio distintivo la materia con cui Christian Jürgensen Thomsen
(1788-1865) erano stati prodotti i manufatti da taglio.

→Il termine «Neolitico» – dalle parole greche νέος «nuovo» e λίθος «pietra» – è stato coniato Sir John
Lubbock (1834-1913). Il termine compare per la prima volta in Pre-historic Times, pubblicato a Londra nel
1865, e indica, in contrapposizione al termine «Paleolitico» – altra coniazione di Lubbock – la fase più
recente dell’età della pietra, l’«Età della Pietra Nuova» appunto.
La proposta di inserire un’età del rame tra il Neolitico e l’età del bronzo viene avanzata durante l’ottavo
Congrès international d'anthropologie et d'archéologie préhistoriques tenutosi a Budapest nel 1876;
l’intuizione si deve allo studioso ungherese Ferencz Aurelius Pulszky (1814-1897) che, nel 1884, sempre a
Budapest, pubblica il fondamentale Die Kupfer-zeit in Ungarn.

Nel 1825, il geologo Jacques Boucher de Crèvecœur de Perthes (1788-1868) viene nominato successore del
padre come sovrintendente alla dogana di Abeville, in Piccardia, nel Nord della Francia; fin dal 1830
Boucher de Perthes effettua varie ricognizioni e scopre e recupera numerosi strumenti in selce nelle ghiaie
del fiume Somme; la scoperta fondamentale avviene tuttavia nel 1846: analizzando una sezione esposta
lungo i terrazzi della Somme identifica infatti strumenti in selce in associazione stratigrafica con ossa di
animali estinti, in particolare di elefante e rinoceronte; nel 1847 pubblica Antiquités celtiques et
antédiluviennes. Mémoire sur l'industrie primitive et les arts à leur origine nel quale propone l’esistenza
dell’uomo nel Pleistocene; fu tuttavia solo nel 1858, grazie all’intervento di Joseph Prestwich, che l’ipotesi
di Boucher de Perthes fu accolta.
La scarsa attenzione che, inspiegabilmente, Boucher de Perthes riserva alla fedele riproduzione
dell’industria litica rinvenuta a Menchecourt-les-Abbeville nelle Antiquités celtiques et antédiluviennes, è
uno dei motivi per cui la sua rivoluzionaria scoperta fu inizialmente accolta con un certo scetticismo.

→Tra le evidenze più diffuse lungo le coste della Danimarca – e più in generale dei paesi scandinavi – vi
erano i c.d. kjøkkenmøddinger (o «chiocciolai»), enormi ammassi di conchiglie la cui natura non era tuttavia
chiara.
Nel 1848 la Reale Accademia Danese delle Scienze affida lo scavo e lo studio di queste particolari evidenze a
una commissione composta dall’archeologo Jens Jacob Worsae (1821-1885), allievo di Thomsen, dal
geologo Johan Georg Forchammer (1794-1865) e dallo zoologo Johannes Japetus Steenstrup (1813-1897). I
tre studiosi indagano, ciascuno secondo le proprie competenze, uno dei kjøkkenmøddinger più noti e
giungono alla conclusione che si trattava di un grande ammasso di resti di pasto di gruppi umani preistorici:
si tratta della prima, fondante ricerca «interdisciplinare».

Nel 1846 – tre anni dopo che Antonio Salvagnoli Marchetti aveva presentato il rinvenimento di strumenti
litici e ossa di animali estinti all’Argentario – Luigi Ceselli, capitano del Genio dello Stato Pontificio, scopre
nelle brecce quaternarie di Ponte Mammolo, vicino Roma, selci lavorate e resti di Ursus spelaeus; la notizia
viene presentata pubblicamente all’ Accademia dei Quiriti nel 1853; vista l’ostilità della Chiesa nutre nei
confronti delle nuove teorie evoluzionistiche e l’ipotesi dell’esistenza di un «uomo antidiluviano» la
scoperta di Ceselli viene accolta con scetticismo e sarcasmo; gli Stromenti in silice della prima epoca della
pietra della campagna romana viene infatti pubblicato nel 1866, quando ormai all’Unità d’Italia manca solo
l’annessione dello Stato Pontificio.

Nel 1850, il geologo imolese Giuseppe Scarabelli Gommi Flamini (1820-1905), dà alle stampe, a Bologna, le
Osservazioni intorno alle armi antiche di pietra dura che sono state raccolte nell’Imolese; in questo lavoro
Scarabelli – che, come si vedrà, rappresenta una delle figure più importanti della Paletnologia italiana della
seconda metà dell’‘800 – pubblica in maniera sistematica e con disegni di straordinario dettaglio gli
strumenti in selce – di epoche molto diverse, che vanno dal Paleolitico inferiore all’età del rame – rinvenute
nel corso delle ricognizioni effettuate in prima persona sui terrazzi fluviali del Santerno; il materiale litico
raccolto sui terrazzi del Santerno rappresenta il primo nucleo della grande collezione che Scarabelli sta
mettendo insieme a Imola. Scarabelli riserva un’attenzione particolare all’analisi tecnologica dell’industria
litica; lo dimostra la Tavola dimostrante la scheggiatura di alcune pietre lavorate, quaternarie, dell’Imolese,
in cui gli strumenti sono disegnati secondo i due prospetti principali e in sezione; vengono inoltre
accuratamente indicati i singoli stacchi e, con pattern diverso, la presenza di cortice.
→metodo analitico utilizzato dallo studioso e tecnica per passare dall’analisi alla riproduzione: i margini dei
singoli stacchi vengono evidenziati con china bianca, in modo da rilevare – e mantenere rilevata – a
sequenza di scheggiatura.

[INCISO→ PALETNOLOGIA ITALIANA: I FONDATORI (1860-1871)]

La fortissima accelerazione che l’approccio scientifico allo studio della preprotostoria conosce in ambito
europeo soprattutto tra gli anni ‘30 e gli anni ‘50 dell’‘800 ha quindi in Italia un riflesso pressoché
immediato; le esperienze di Salvagnoli Marchetti, Ceselli e soprattutto di Scarabelli – nel quale si nota un
metodo di approccio scientifico decisamente più maturo, derivante certamente dalla sua formazione
geologica – rientrano chiaramente nel filone di studi sull’«antichità dell’uomo» – o «uomo fossile», o
«uomo antidiluviano» – avviata in Francia da Boucher de Pertes a seguito delle scoperte nella valle della
Somme; si tratta però di esperienze che non hanno seguito immediato, che, cioè, non innescano
direttamente un processo di diffusione degli studi a macchia d’olio e privo di soluzioni di continuità.
Un altro aspetto chiave da tenere presente per meglio comprendere l’avvio degli studi paletnologici in Italia
è il clima politico nel quale la «Nuova Scienza» attecchisce e inizia a svilupparsi; si tratta, come è evidente,
degli anni del Risorgimento, dei moti insurrezionali, delle Guerre d’Indipendenza e dell’Unità dell’Italia; la
Paletnologia italiana inizia quindi a svilupparsi quando l’Italia non esiste ancora come «Nazione»; anzi essa
si sviluppa in parallelo con la nascita stessa della «Nazione» italiana e questo avrà un reciproco peso
fondamentale!

Ripresa discorso generale

Nell’inverno 1853-1854 , a causa di temperature particolarmente rigide e di una prolungata aridità, si


verifica un forte e generalizzato abbassamento del livello dei laghi alpini e lungo lo sponde di molti di essi –
in particolare quelli di Zurigo, Bienne e Neuchâtel – vengono in luce distese di pali immersi in strati
ricchissimi di frammenti ceramici, strumenti in pietra e in osso-corno, oggetti in bronzo, reperti zoologici e
botanici; Ferdinand Keller (1800-1881), presidente della Società degli Antiquarti di Zurigo, avvia ricerche
sistematiche in questi siti e propone di riconoscere in questi «campi di pali» i resti di insediamenti
preistorici costruiti ad una certa distanza dalle antiche rive dei laghi e caratterizzati dalla presenza di
capanne costruite su grandi piattaforme lignee continue sorrette da pali e collegate alla sponda da
passerelle sopraelevate.
Keller comprese immediatamente che i villaggi di tipo palafitticolo si potevano riportare a due principali
modelli, vale a dire quello della palafitta in senso proprio – intesa come struttura su pali infissi
verticalmente in prossimità della sponda lacustre sulla quale si stendeva un assito che ospitava le abitazioni
– e quello della bonifica – nella quale le abitazioni insistevano su una piattaforma artificiale rialzata,
realizzata mediante la stesura regolare di cassoni lignei, inframezzati e costipati con materiale stramineo,
terra, pietrame, ecc.

Erodoto, nel libro V delle sue Ἱστορίαι, nel quale tratta delle guerre persiane, descrive come segue un
vllaggio sul lago Prasia, in Mecedonia: «…[Megabazo, generale di Dario I-ndr] tentò di sottomettere anche
quelli della palude, che sono sistemati come segue: in mezzo al lago si innalzano piattaforme di legno fissate
sopra lunghi pali; l’unica e angusta via d’accesso dalla terra ferma è un ponte. I pali destinati a sorreggere le
piattaforme li piantarono anticamente tutti gli abitanti assieme; dopo di allora li erigono in base a questa
regola: portandoli dal monte detto Orbelo, chi si sposa pianta tre pali per ciascuna moglie […]. Abitano in
questo modo: ognuno sul tavolato dispone di una capanna, dove vive, e di una botola che immette sul lago
attraverso le tavole. I bambini in tenera età li legano per un piede con una corda per paura che rotolino di
sotto» (Erodoto, Ἱστορίαι, V, 16)
Il modello kelleriano si basa principalmente sui dati archeologici registrati nel corso delle ricerche condotte
sulle distese di pali identificate lungo le sponde dei laghi svizzeri; esso tuttavia si fonda anche sulla lettura
critica sia delle fonti classiche – in particolare di alcuni luoghi delle Storie di Erodoto –, sia delle prime
esperienze etnografiche; particolarmente significativo è il Voyages de la corvette l’Astrolabe exécuté par
ordre du Roi pendant les anées 1826-1829 edito a Parigi nel 1830- 1833 dall’ufficiale di marina Jules S.
Dumont d’Urville (1790-1842); l’ipotesi di Keller, incide fortemente nel costume del tempo, e contribuisce
in maniera decisiva all’affermazione del mito romantico delle palafitte o delle «città lacustri».

La scoperta delle palafitte determinò anche la nascita della prima, pionieristica archeologia subacquea;
questo acquerello ritrae un momento delle ricerche subacquee condotte nel 1854 nelle palafitte del Lago di
Zurgo da Adolphe Morlot, François Forel, e Frédéric-Louis Troyon; Vingt mille lieues sous les mers di Jules
Verne sarà pubblicato solo quindici anni dopo, nel 1870. Si moltiplicano anche i «cercatori di palafitte» e i
«pescatori di antichità»; gli oggetti – soprattutto quelli in bronzo, ovviamente – venivano recuperati con
grandi pinze in metallo innestate su lunghe canne; il «pinzettone» era impiegato tuttavia anche nelle
condotte con finalità scientifiche e di ricerca → La scoperta delle palafitte influenza in maniera profonda
l’immaginario collettivo della seconda metà dell’‘800 e diventa un fenomeno di costume: si afferma in
breve tempo il mito romantico della Bel Age du Bronze Lacustre. La nascita del mito delle palafitte
corrisponde solo in parte alla ri-creazione di un mondo immaginario: la temperie positivista pervade anche
gli artisti che fantasticano sulle situazioni, ma per le strutture riprendono i dati positivi.
Il modello palafitticolo elaborato da Keller all’indomani delle scoperte del 1853- 1854 entra
progressivamente in crisi, tanto che nel momento forse più buio della pre-protostoria – gli anni cioè della
Seconda Guerra Mondiale – l’esistenza delle palafitte intese in termini kelleriani viene di fatto negata; la
riscoperta delle palafitte e la conferma della correttezza delle ipotesi di Keller è un fenomeno piuttosto
recente; data a partire dagli anni ‘80 del ‘900.

Il vero atto di nascita della Paletnologia italiana viene collocato nel 1860 e ha due protagonisti ben precisi: il
geologo e naturalista di origine francese Pierre Jean Édouard Desor (1811-1882) e il geologo torinese
Bartolomeo Gastaldi (1818-1879); Desor si interessa alla pre-protostoria dopo un viaggio in Scandinavia
dove conosce Thomsen, ma è a Neuchâtel, in Svizzera, che si avvia la sua attività scientifica e il campo
d’indagine principale è quello sulle palafitte sarà tra gli organizzatori del primo Congrès International de
Préhistoire, tenutosi a Neuchâtel nel 1865; il nome definitivo di questi importanti appuntamenti scientifici
sarà, a partire dal 1867, Congrès international d'anthropologie et d'archéologie préhistorique.

Bartolomeo Gastaldi (1818-1879), è uno dei pionieri nello studio della geologia delle Alpi, nonché tra i
fondatori del Club Alpino Italiani; dopo la laurea in Giurisprudenza segue la sua vera passione, e alla fine
degli anni ‘40 si trasferisce a Parigi per studiare all’École des mines, cove conosce Quintino Sella, anche lui
geologo, anche lui piemontese; nel 1854 Sella riceve l’incarico di riordinare la collezione mineralogica
dell'Istituto Tecnico di Torino e si associa nel lavoro Gastaldi, il quale, nel 1855, viene nominato segretario
dell’istituto che, nel 1860, diventa Scuola di applicazione per gli ingegneri; Gastaldi è in contatto con
numerosi studiosi francesi e svizzeri che, in quanto in larga misura geologi e naturalisti, si interessano anche
di pre-protostoria e tra questi vi è Édouard Desor, già un’autorità nel campo dello neonato studio delle
palafitte e della Bel Age du Bronze Lacustre.
Nel 1860, solo sei anni dopo la scoperta delle palafitte svizzere, Desor e Gastaldi organizzano una
ricognizione lungo la sponda piemontese del Lago Maggiore per verificare se le palafitte fossero presenti
anche lì – già qualche anno prima il Genio Militare austriaco aveva identificato insediamenti di tipo
palafitticolo a Peschiera del Garda –; la ricognizione ha esito fortunatissimo: a Mercurago, nei pressi di
Arona, Desor e Gastaldi identificano infatti una grande palafitta e ben presto Gastaldi vi avvia ricerche e
scavi. Accanto alle attività di ricerca sul campo, Gastaldi – fin da giovane età e con una accelerazione negli
anni ‘50 dell’‘800 – svolge anche una capillare attività collezionistica; nel suo Museo Celtico, Peroni ha
voluto vedere il primo embrione di quello che sarà il Museo Preistorico Nazionale voluto da Luigi Pigorini; il
Museo Celtico si trovava infatti a Torino, capitale del Regno, ed era costituito sia da materiali recuperati da
Gastaldi in prima persona, sia da oggetti acquisti per dono o scambio provenienti un po’ da tutta la
Penisola. Dal 1861 Gastaldi è assistente di Sella presso la cattedra di Mineralogia e Geologia e dal 1863 lo
sostituisce come professore ordinario; tutta l’attività scientifica di Gastaldi – sia in campo paletnologico, sia
soprattutto in campo geologico – va di pari passo con la sua funzione di docente; un docente molto amato
dai suoi allievi per la sua preparazione e per la sua umanità. Nel dicembre 1860, lo stesso anno della
scoperta della palafitta di Mercurago, Gastaldi si reca al Museo Archeologico di Parma per prendere visione
delle collezioni prepreistoriche presenti in questo museo – che, in realtà, versavano in una situazione
deplorevole – in particolare dei materiali daele marniere; l’obiettivo di Gastaldi era quello di verificare le
analogie e le differenze di questi materiali con quelli di Mercurago; nell’occasione, Gastaldi viene in
contatto con Pellegrino Strobel, docente di Geologia all’Università di Parma, al quale chiede di avviare
ricerche sistematiche sulle marniere; ma conosce anche il giovanissimo Luigi Pigorini, allora «alunno»
presso il museo parmense.

→Che cos’erano le marniere? Marniere – o marne o mare – erano chiamate le collinette artificiali diffuse in
tutta la Pianura Padana corrispondenti a ciò che resta(/va) di quei grandi insediamenti dell’età del bronzo
che oggi chiamiamo terramare; le marniere sono state fruttate fin dal ‘700 come cave di terre fertilizzanti –
conosciute con il termine tecnico di terre mare o terre marne –; esse, in quanto resti di insediamenti, sono
infatti costituite di spessi depositi stratificati di terreno caratterizzato oltre che da manufatti in materiale
non deperibile, da una altissima componente organica.
«…Questo [terremare - ndr] è il nome che i nostri contadini danno alle terre azotate, chiamate cimiteriali dal
Venturi, e da altri impropriamente terremarne. Il primo di questo termini […] è troppo speciale e non
comprende le varie sorta di quei depositi, e il secondo conduce in errore, poiché ovunque, anche tra noi, per
marna si intende il calcare argilloso. Onde non perpetuare questa fonte di equivoco […] adottammo la
suddetta denominazione volgare, la quale, se non ha il vantaggio di di esprimere un’idea, non offre almeno
lo svantaggio di darne una falsa…» P. Strobel, Le terremare dell’Emilia. Prima relazione, 1862.
Le marniere sono componenti chiave del paesaggio antropico padano; esse infatti soprattutto a partire dal
Medioevo diventano «trappole insediative»; la loro posizione sopraelevata rispetto alla pianura – soggetta
ad esondazioni e impaludamenti – le rende particolarmente appetibili per questa funzione; in questo
affresco cinquecentesco del castello di Spezzano è ritratta la marniera di Montale, nel Modenese, occupata
da una chiesa e un piccolo borgo.

L’atto di nascita degli studi scientifici sulle marniere è senza dubbio la ricognizione che, nel luglio 1861,
Pellegrino Strobel, a seguito del contatto con Gastaldi, effettua a Castione dei Marchesi, nel Parmense; il
direttore della cava gli aveva infatti dato notizia del rinvenimento di strutture lignee a palafitta; questo
episodio porta lo studioso, da un lato, grazie all’aiuto del giovane Pigorini, ad avviare un’ampia ricerca di
tipo territoriale volta a stendere un regesto – che poi diventerà una carta topografica – delle marniere,
dall’altro all’apertura del primo scavo regolare in uno di questi contesti; Strobel e Pigorini, infatti,
nell’autunno 1862, effettuano limitati ma importanti sondaggi proprio nella grande marniera di Castione.

«…Un fatto importantissimo che non era noto al Gastaldi, si è l’esistenza di palafitte al disotto di alcune
nostre marniere. Avvisato dall’ing. Bertè della scoperta di tali costruzioni sotto la terra marna di Castione di
Borgo S. Donnino, la visitai in questi giorni […]. Trovasi questa marniera a levante ed al piede della
collinetta, su cui ergesi il così detto Conventino. […] Inferiormente ad esso, ed a 4 metri circa dal colmo del
colle, si trovò per tutta la estensione dello scavo […] una palafitta composta da pali, lunghi 2 metri, l’uno
quasi a contatto dell’altro, attualmente inclinati a N.E. - e probabilmente questa costruzione si estenderà
anco pel resto della base del colle…» (P. Strobel, Gazzetta di Parma, 28 luglio 1861)

→L’ottima conservazione delle strutture lignee della «palafitta» di Castione consente a Strobel e Pigorini di
proporre la prima ipotesi ricostruttiva di quello che dovevano essere l’aspetto originario e i dettagli
costruttivi delle strutture lignee delle terremare, cioè palafitte su impalcato aereo basso.

Stroble e Pigorini interpretano da subito le marinere come resti di grandi insediamenti – palafitte in sponda
a bacini palustri in particolare – risalenti all’età del bronzo; non tutti gli studiosi di antichità dell’epoca
accolgono tuttavia questa proposta; il principale oppositore di Strobel e Pigorini è padre Celestino
Cavedoni (1795-1865), modenese, al tempo autorità indiscussa in materia di antichità; Cavedoni, teologo,
studioso di filologia e di antichità, strenuo oppositore delle nuove teorie evoluzionistiche – quindi
esponente di quell’antiquaria che dominò il panorama intellettuale italiano per tutto il ‘700 –, riteneva che
le marniere altro non fossero che aree sacrificali utilizzate dai Galli Boi o grandi ustrina (luoghi di
cremazione) di età romana. Il 1865, un anno dopo la pubblicazione da parte di Strobel e Pigorini de Le
terremare e le palafitte del Parmense. Seconda relazione, sintesi delle ricerche condotte dai due studiosi
fino a quel momento, coincide con un «cambio di rotta» nell’archeologia terramaricola; Strobel lascia
infatti Parma e si trasferisce in Argentina per contribuire alla fondazione della facoltà di Scienze Naturali
dell’Università di Buons Aires; l’attività di Strobel in Argentina consente di inquadrare meglio la figura di
questo studioso, una figura che, almeno nell’ambito delle riflessioni di preistoria, è rimasta spesso
schiacciata tra quelle di Chierici e, soprattutto, del suo assistente di un tempo, Pigorini. Strobel, infatti, per
certi aspetti, rappresenta uno studioso e un uomo davvero proiettato verso la modernità e incarna forse
meglio di ogni altro lo spirito positivista sotto il quale nacque la scienza preistorica; durante il viaggio in
piroscafo verso l’Argentina fa infatti tappa a Capo Verde e qui analizza le analogie tra i depositi antropici dei
villaggi indigeni e quelli osservati nelle terramare: è, di fatto, il primo esempio di studio
«etnoarcheologico»; avvia ricerche di tipo etnografico – ma sempre con un approccio molto archeologico –,
spingendosi fino in Patagonia e nella Terra del Fuoco; è tra i primi e più entusiasti naturalisti ad utilizzare la
fotografia come strumento di documentazione.

In concomitanza con il soggiorno di Strobel in Argentina e con l’assenza di Pigorini, in viaggio di studio in
Italia centro-meridionale, l’archeologia terramaricola fu di fatto presa in mano da Gaetano Chierici (1819-
1886), prete, professore di filosofia al liceo e fondatore del Museo di Reggio Emilia; Chierici – già
interessato all’archeologia reggiana e iniziato alla ricerca preistorica nel 1862 da Pigorini stesso; appartiene
alle frange più progressiste del clero italiano e, come tale, è aperto e interessato agli stimoli provenienti
dalle scienze naturali e condivide l’approccio al dato «positivo»; la sua formazione rimane tuttavia di tipo
umanistico ed è proprio all’imprinting di Chierici che si deve l’innesco della riflessione (anche) storica sulle
terremare; Strobel, da naturalista, non era andato oltre il dato.

Grazie a scavi come quelli effettuati nei siti della Montata e de Il Monte di Montecchio, già nel 1867 Chierici
propone di identificare nelle marniere resti non di palafitte poste in sponda a aree umide, ma di grandi
insediamenti di forma quadrangolare, cinti da un potente terrapieno e da un ampio fossato – legati tra loro
a livello genetico – e da case a palafitta su impalcato aereo; al V Congresso di Antropologia e Archeologia
Preistoriche, tenutosi a Bologna nel 1871, Chierici presenta compiutamente il suo modello terramaricolo,
modello che, pur con correzioni anche sostanziali, rappresenterà il riferimento-base del modello elaborato
successivamente da Pigorini grazie agli scavi di Castione dei Marchesi e Castellazzo di Fontanellato.

→Il modellino – opera di Chierici e realizzato con legno, argilla, sabbia, muschio e vetro – propone una
terramara quadrangolare, cinta da argine che delimita un bacino artificialmente inondato mediante un
canale che a monte prende acqua dal torrente e che viene mantenuta a livello tramite un emissario posto
nell’angolo settentrionale, prospiciente il torrente; da notare che manca il fossato perimetrale che Chierici,
in un primo tempo, ipotizzava all’interno del bacino.
Al Congresso di Bologna del 1871 Chierici presenta compiutamente il suo modello terramaricolo: Nel 1884,
all’Esposizione Universale di Torino, Chierici presenta questo disegno ricostruttivo Prospetto e spaccato
d’una terramara con i dati positivi della fossa, dell’argine, della palafitta e della pianta rettangolare (1,100)
«…Le palafitte (…) e numerose osservazioni di piante e spaccati mi hanno condotto a riconoscere in queste
stazioni dell’età del bronzo una costruzione d’impiantamento eseguita a disegno in un luogo scelto in
sistema costante. In un piano accessibile ad acque derivate dal torrente vicino rinchiudevasi dentro
un’arginatura di terra o di ghiaia uno spazio quadrangolare orientato: ivi dentro alzavasi la palafitta e sul
palco coperto d’uno strato di sabbia calcare fabbricavansi a regolare distanza le capanne, né murate, né
intonacate d’argilla, ma di legno solo e di paglia. L’acqua tirata da un punto superiore del torrente inondava
il bacino scolando dalla parte opposta. Da botole gettavansi i rifiuti de’ pasti, le immondezze e le ceneri de’
focolari, onde sotto il palco si formavano cumuli, che pur si veggono a distanza in media di 7 metri,
stratificati e dilatati dall’acqua, di materia leggermente depositata con argilla e colla sabbia portata
dall’acque stessa, le quali poi costrinsero gli abitatori ad alzare il palco. Il bacino più o meno colmato rimase
in secco, ma seguitò in più luoghi l’abitazione sulla palafitta, che anzi dilatossi intorno e formò un secondo
strato di terramara asciutta a e compatta, la quale nel centro coperse la prima…» (G. Chierici, Le antichità
preromane della provincia di Reggio nell’Emilia, 1871)

→L’analogia tra il modello terramaricolo elaborato da Chierici tra anni ‘60 e primissimi anni ‘70 e quello che
è il modello attuale è indicativa della lucidità e della straordinaria capacità dello studioso di fare sintesi di
dati disarticolati.

La forma quadrangolare degli insediamenti terramaricoli e la rigorosa ortogonalità del loro assetto abitativo
interno vengono interpretate come il riflesso di un rigoroso sistema di progettazione degli insediamenti che
richiama le regole chiave della ritualità etrusco-italica che sta alla base della delimitazione degli spazi sacri
e, in quanto atto rituale, anche delle città: nei terramaricoli, quindi, si riconoscono i progenitori degli Italici,
gli «Italici primitivi». Lo scorcio degli anni ‘60 dell’‘800 rappresenta tuttavia un momento chiave anche dal
punto di vista – fortemente sentito da tutti gli studiosi, a partire da Gastaldi – dell’accreditamento della
Paletnologia italiana a livello internazionale e, in particolare, nei confronti della Francia; l’occasione fu data
dall’Exposition Universelle di Parigi del 1867; nell’esposizione, voluta da Napoleone III per glorificare il
Secondo Impero e la potenza della Francia anche sul piano culturale e dell’innovazione tecnologica, nella
Galerie de l’Histoire du travail vennero per la prima volta esposti oggetti pre-protostorici italiani fuori dal
territorio nazionale. L’Exposition Universelle tenutasi tra il 1°aprile e 3 novembre 1867 fu un evento di
portata straordinaria, che incise nella società francese – ma con fortissime ripercussioni anche a livello
internazionale – a tutti i livelli; non a caso Édouard Manet, uno dei grandi esponenti dell’Impressionismo,
fece delle strutture dell’esposizione, approntate allo Champ-de-Mars, l’oggetto di un suo dipinto.

Nel 1871 si tiene a Bologna il V Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia Preistoriche; la


riunione scientifica – che vide la partecipazione dei principali studiosi d’Europa, ma che, nel contempo,
innescò una forte polemica interna alla comunità scientifica italiana – rappresenta da un lato il definitivo
ingresso della Paletnologia italiana nel contesto scientifico europeo, dall’altro la formalizzazione del ruolo
trainante del giovane Luigi Pigorini.

Fase pigoriniana (1871-1925)

Luigi Pigorini (1842-1925) nasce a Fontanellato, nell’allora Ducato di Parma e Piacenza, da una famiglia
borghese, ma entra ben presto sotto la protezione dei potenti conti Sanvitale; fin da giovanissimo dimostra
un grande interesse per l’antichità, soprattutto per la numismatica e la sfragistica; l’11 giugno 1858 entra
infatti come «alunno» – una figura intermedia tra il tirocinante e l’assistente volontario – al Museo di
Parma, allora diretto da Michele Lopez; e, come si è visto, proprio in qualità di «alunno» del Museo di
Parma, nel 1860 incontra da un lato Bartolomeo Gastaldi, dall’altro quello che sarà il suo vero primo
maestro nello studio della preprotostoria, cioè Pellegrino Strobel, con il quale, nel 1861, inizia gli studi Luigi
Pigorini (1842-1925) sistematici sulle marniere.
La formazione universitaria di Pigorini non è però né naturalistica, né umanistica; nel 1865 si laurea in
Scienze politico-amministrative, con la chiara intenzione di entrare nell’amministrazione del neonato Stato
unitario: gli era quindi ben chiaro fin da subito che per fare in modo che la Paletnologia diventasse una
disciplina a tutti gli effetti era necessario incidere in maniera profonda nella macchina dello Stato, sia a
livello politico-istituzionale, sia a livello accademico; in questo senso acquisisce molto presto un ruolo
chiave a livello nazionale: nel 1866-1867 diventa infatti responsabile delle rubriche paletnologiche
dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica e dell’Annuario scientifico-industriale; il 24 marzo 1867 viene
invece nominato direttore del Regio Museo di Antichità di Parma.

Una delle tappe principali della carriera istituzionale di Pigorini è rappresentata dal viaggio che, alla fine
degli anni ‘60, su incarico del Ministero della Pubblica Istruzione, egli compie nell’ex Stato Pontificio e
nell’ex Regno delle Due Sicilie per analizzare la situazione dell’archeologia i questi territori; di questa
esperienza – alla base della quale sta evidentemente la volontà del Ministero di procedere a una
uniformazione e a una razionalizzazione dell’attività archeologica – Pigorini scrive: «…non per colpa della
poca operosità degli egregi naturalisti ed archeologi di cui si onora la città eterna, ma per la maniera degli
ordini politici da cui dipendono, i quali loro non consentono di annunziare alcuna verità o professare scienza
alcuna, che dalle teorie bibliche non parta per mettere poscia novellamente capo ad esse…»

Lo spartiacque nella carriera di Pigorini – e nelle vicende stesse che portarono la Paletnolgia italiana ad
imporsi come disciplina scientifica formalizzata e riconosciuta, le quali tanto devono al progetto pigoriniano
– è però il 1875; il 28 marzo di quell’anno, infatti, il trentatreenne Pigorini, ormai pienamente inserito nel
sistema ministeriale, viene nominato Capo Sezione della Direzione Generale dei Musei e degli Scavi di
Antichità di Roma e da questa posizione egli avvia il suo lungimirante progetto scientifico – ma anche
politico-istituzionale e accademico – finalizzato alla promozione della Paletnologia; i punti cardine del
progetto di Pigorini, che ha un respiro di tipo nazionale e internazionale, sono tre, e si realizzano nel giro di
soli tre anni.
Il Bullettino di Paletnologia Italiana è in realtà il prodotto della sinergia tra Pigorini e i suoi due maestri, cioè
Strobel, dal quale egli assorbì l’approccio di tipo più propriamente naturalistico, e Chierici, dal quale mutuò
sia l’attenzione alla stratigrafia, sia, soprattutto l’approccio di tipo storico allo studio della preprotostoria; la
direzione del B.P.I. fu infatti per molti anni condivisa dai tre, anche se i rapporti interni a questa sorta di
«triumvirato» non furono sempre piani.

Programma: Gli studi e le scoperte d’archeologia, detta preistorica, procedono anche in Italia con sì mirabile
incremento, che ormai torna impossibile agli studiosi aver pronta notizia d’ogni cosa, che nei diversi luoghi
della penisola si venga osservando e pubblicando, né d’altra parte hanno sempre gl’investigatori agevol
modo di far noti i risultati delle loro indagini. Il danno che ne soffre la scienza, è poi tanto più grave per ciò,
che i suoi cultori d’ogni paese aspettano dall’Italia la soluzione di molti importanti problemi, specialmente
pei rapporti, che restano da mettersi in luce fra le età preistoriche e le storiche in tutta Europa. Animati dal
desidero di provvedere quanto sta in noi al bisogno, abbiamo unito l’opera nostra per redigere e pubblicare
ogni mese un BULLETTINO DI PALETNOLOGIA ITALIANA, del quale è scopo:
1.° annunziare le nuove scoperte, che si fanno in Italia, relative ad età non illustrate nella storia;
2.° porgere compendiose notizie delle pubblicazioni nazionali e straniere, che riguardino quelle oscure età
del nostro paese;
3.° dare la statistica delle collezioni paletnologiche esistenti in Italia e dei loro successivi incrementi

Il B.P.I. anche in termini di impianto si configura come uno strumento di studio e ricerca; in esso la
completezza delle informazioni va di pari passo con la facilità di consultazione e di reperimento dei dati;
esso infatti presenta una ampia sezione di indici organizzati «per autori», «per titoli e per materie» –
laddove «per materie» ci si riferisce alla tradizionale suddivisione nelle tre età –, «per luoghi» e «per regioni
e province», riflesso evidente della nuova Italia unita. Il B.P.I. si caratterizza anche per l’utilizzo ampio e
programmatico delle riproduzioni grafiche di materiali, contesti, ecc., sempre come fondamentale
strumento di lavoro; il disegno – e, successivamente, anche la fotografia – sono visti come parte integrante
dei contributi scientifici, in sé e come mezzo per poter trasmettere agli altri studiosi la materialità delle
evidenze nel modo più corretto ed efficace possibile.

→Il disegno diventa anche strumento fondamentale – e insostituibile – per visualizzare, nel quadro del
procedimento comparativo che è caratteristico fin dall’inizio degli studi di pre-protostroria, le analogie e le
differenze tra materiali e contesti appartenenti ad aree geografiche e/o a epoche diverse. Il disegno è
essenziale anche per confortare le ipotesi interpretative sulla funzione dei manufatti pre-protostorici
elaborate sulla base dell’altro tipo di comparivismo caratteristico della Paletnologia, cioè quello
etnografico.

Il secondo punto – corrispondente alla creazione di un grande museo che raccogliesse il maggior numero
possibile di testimonianze pre-protostoriche della Penisola – si realizza tra il il 1875 e il 1877 con la
fondazione, al Collegio Romano, del Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico; questo museo, di cui
Pigroni assume la direzione e che mostra in maniera chiara l’ottica nazionale – non scevra di implicazioni di
tipo politico – con cui lo studioso vede la Paletnologia italiana ha quindi da subito un «doppia anima»: una
archeologica e una etnografica.
→Perché si sceglie come sede al Collegio Romano? Il Collegio Romano, istituzione voluta nel 1534 da
Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, per l’istruzione degli appartenenti all’ordine, e
realizzato tra 1582 e 1584 da Gregorio XIII Boncompagni, era sede del Museum Kircherianum, una grande
collezione realizzata a partire dal 1651 dal gesuita tedesco Athanasius Kircher; essa comprendeva anche
molti oggetti pre-protostorici ed etnografici.

Il Museo, la cui realizzazione fu possibile grazie al decisivo intervento dell’allora Ministro della Pubblica
Istruzione Ruggero Bonghi, fu inaugurato pressoché vuoto; dal 1875, infatti, Pigorini avvia una capillare
attività di acquisizione di collezioni e di materiali scavati ex novo per riempirlo; così lo studioso ne descrive
l’organizzazione e la funzione nel 1881: «…Il Museo è diviso in due grandi classi, la preistorica e
l’etnografica. Comprende la prima quanto nelle provincie italiane e nelle contrade estere lasciarono le varie
genti, dall’età archeolitica al chiudersi della prima età del ferro. Nell’altra ammirasi ciò che fabbricano od
usano famiglie viventi, rimaste quali più, quali meno in condizioni di civiltà inferiori alla nostra, a partire
dallo stato selvaggio. E la ragione del parallelo fra le due classi sta in ciò, che nella infinita varietà di usi e
costumi di popoli meno civili di noi, trovasi oggi ancora l’immagine del nostro passato più lontano, la
spiegazione della maniera di vita e dei processi industriali delle popolazioni preistoriche…» (L. Pigorini,
Bullettino di Paletnologia Italiana, 1881).

Il principale strumento che Pigorini mise in atto per arricchire in neonato – e pressoché vuoto – Regio
Museo Nazionale Preistorico Etnografico fu quella di acquisire sistematicamente le collezioni che, nel
tempo, i diversi studiosi e cultori di pre-protostoria avevano creato in tutto il territorio nazionale. L’attività
di Pigorni fu capillare, a tratti quasi ossessiva e, talvolta, metodi utilizzati sfiorarono i limiti dell’ortodossia,
tanto che Pigorini fu soprannominato «Squalus vorax»; essa, inoltre, determinò un forte conflitto con
quegli studiosi – in primis Chierici – che credevano invece fermamente nell’importanza dei musei locali
come strumenti per conservare, valorizzare e trasmettere le «memorie patrie», cioè le specificità dei singoli
territori: è l’innesco di quella polemica tra CENTRALIZZAZIONE e DECENTRAMENTO che ancora oggi è viva
nel dibattito sui musei archeologici.

Il terzo punto – corrispondente alla creazione di un cattedra universitaria di Paletnologia – si realizza, grazie
ancora all’appoggio del ministro Bonghi – che, come si è visto, tanta parte ebbe anche nella fondazione del
Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico –, nel 1877; il 30 novembre Pigorini è nominato professore
straordinario di Paleoetnologia all’Università di Roma, mentre dal 9 novembre 1890 al 10 gennaio 1917
sarà in ruolo come professore ordinario; il 25 febbraio 1917, dopo il congedo, è nominato professore
emerito.

Il progetto politico-culturale di Pigorini va di pari passo con la sua attività di ricerca. In essa il problema delle
terremare riveste – e continuerà a rivestire fino alla sua morte – un posto di primo piano; da questo
momento, l’approccio pigoriniano alla «questione terramaricola», procede ancora di più su due binari
distinti ma strettamente interrelati, cioè:
1) grazie a un nuovo, esteso scavo a Castione dei Marchesi, riprende il problema della struttura e
dell’organizzazione delle terramare; l’ultima parola in merito era stata infatti quella di Chierici nel 1871;
2) affronta ex novo, benché sulla scorta delle riflessioni di Chierici, il problema storico della civiltà delle
terremare e quello, ben più ampio, del popolamento dell’Italia nella pre-protostoria e, in Luigi Pigorini
(1842-1925) particolare, nell’età del bronzo.

→Il nuovo scavo nel sito di Castione – ampiamente compromesso dalla cava di marna – si svolge nel 1877,
e già il 18 giugno 1878 Pigorini ne presenta i risultati all’Accademia dei Lincei; il contributo Terramara
dell’età del bronzo situata in Castione dei Marchesi (Territorio Parmigiano) esce però solo nel 1882; lo
scavo procede su due fronti distinti: da un lato viene approfonditamente analizzata e rilevata una grande
sezione – messa in luce del fronte di cava – che intercetta sia parte dell’abitato, sia l’imponente sistema di
perimetrazione; dall’altro viene aperto un settore di scavo diremmo oggi in open area. La situazione dello
scavo è eccezionale; infatti, non solo si espone un settore esteso dell’abitato, contraddistinto da una
grande quantità di pali pertinenti alle strutture abitative di tipo palafitticolo, ma anche un imponente
contrafforte ligneo «a gabbioni» che, secondo Pigorini, era la sostruzione del terrapieno.
Sulla base dei dati dello scavo del 1877 a Castione, Pigorini formula quindi il primo spet del suo modello
terramaricolo; secondo lo studioso – che in ciò deve moltissimo a Chierici – le terremare sono grandi
insediamenti dell’età del bronzo di forma quadrangolare, contraddistinti da un sistema di perimentrazione
composto da un terrapieno in terra armata con «gabbioni» lignei e da un fossato inondato, e da un’area
abitativa interna con strutture di tipo palafitticolo, al di sotto delle quali erano gettati gli scarichi domestici;
osservando l’esistenza nei livelli abitativi di resti vegetali e di insetti non acquatici, Pigorini deduce e
propone però che le palafitte non insistessero su un un bacino umido, ma fossero all’asciutto; la
conservazione dei legni è spiegata ricorrendo all’ipotesi della formazione di un ambiente umido secondario,
quindi post-deposizionale.

→L’ultimo step della riflessione pigoriniana sul modello terramaricolo corrisponde allo scavo, svoltosi tra il
1883 e il 1889 – mediante soprattutto carotaggi e piccoli saggi – nel sito di Castellazzo di Fontanellato,
sempre nel Parmense. Con lo scavo di Castellazzo – che ha i connotati di una ricerca volta a confermare «a
tutti i costi» la correttezza di un’ ipotesi precostituita –, Pigorini, esasperando la posizione di Chierici e
integrandola con la propria, ingabbia definitivamente il modello: le terremare sono sì insediamenti dell’età
del bronzo cinti da terrapieno e fossato, con palafitte in asciutto, ma presentano anche un orientamento
canonico secondo i punti cardinali e la loro organizzazione interna è contraddistinta non solo da un tessuto
rigidamente ortogonale con strade che intersecandosi ad angolo retto definiscono degli isolati
quadrangolari, ma anche da una struttura rituale – che, di fatto, ripropone in piccolo i caratteri della
terramara – nella quale è da riconoscere il punto dal quale venne tracciato idealmente il progetto del sito.
Ma, secondo Pigorini, che cosa rappresenta, sul piano storico, questa conformazione dei siti terramaricoli?
dato che le terremare sono progettate e realizzate secondo regole perfettamente sovrapponibili a quelle
della dottrina augurale etrusco-italica – non a caso la presunta area sacra interna è definita templum, cioè il
luogo dal quale l’augure proiettava a terra la struttura quadripartita del cielo –, esse rappresentano, come
del resto aveva già ipotizzato Chierici, le più antiche testimonianze abitative degli «Italici primitivi»; questa
ipotesi – da tempo completamente rifiutata – ha tuttavia un peso fondamentale per il secondo tema sul
quale Pigorini concentra le proprie ricerche e riflessioni, cioè il popolamento pre-protostorico dell’Italia.

La ricostruzione del popolamento pre-protostorico dell’Italia è in realtà un tema che occupa l’intera vita di
Pigorini, dalle primissime ricerche fino a poco prima della morte; la ricostruzione che lo studioso elabora – e
che va sotto il nome di «TEORIA PIGORINIANA» – ha quindi un tempo molto lungo di gestazione e
elaborazione e procede per progressive e successive precisazioni del modello, determinate anche dalle
nuove scoperte, quindi dall’incremento dei dati. Per comprendere appieno la «TEORIA PIGORINIANA» – che
va calata nel secolo in cui essa fu elaborata, e non valutata con l’ottica attuale – bisogna chiarire due
aspetti, che, fino ad oggi, sono rimasti sottotraccia, cioè: 1) si tratta di una elaborazione interpretativa su
base esclusivamente archeologica; 2) le sue implicazioni storiche – e forse politiche – derivano solo dalla
identificazione dei terramaricoli con gli «Italici primitivi» operata da Pigorini sulla scorta di Chierici.

La «TEORIA PIGORINIANA» è sintetizzabile come segue: 1) all’inizio dell’età del bronzo, gruppi di
«palafitticoli» nord-alpini – provenienti dall’Europa orientale – sarebbero scesi in Italia settentrionale,
insediandosi sulle sponde dei laghi di questo territorio; 2) gruppi di «palafitticoli» sud-alpini si sarebbero
poi spostati nella Pianura Padana, dando vita alle civiltà delle terremare; 3) verso la fine dell’età del bronzo,
i «terramaricoli» = «Italici primitivi», giunti al loro apogeo, si sarebbero diffusi lungo la Penisola per avviare
relazioni con i mercanti provenienti dalla Grecia micenea; in ciò essi avrebbero diffuso il modello
insediativo della terramara e il rituale funerario dell’incinerazione; 4) dalla diffusione dei «terramaricoli» =
«Italici primitivi» si sarebbero quindi sviluppati i diversi popoli che caratterizzarono l’Italia nell’età del ferro,
gli «Italici» appunto; 5) la stessa fondazione di Roma sarebbe un esito di questo lungo processo.

→L’ultimo articolo di Pigorni, pubblicato nel 1921, si intitola significativamente. Perché la prima Roma è
sorta sul Palatino; in esso lo studioso richiama la tradizione della Roma quadrata di epoca romulea e ne
mette in collegamento sia la forma, sia la procedura rituale della sua fondazione con le evidenze
archeologiche delle terremare; quasi che Roma rappresentasse l’ultimo, straordinario atto della vicenda
storica dei «Tarramaricoli» = «Italici primitivi». Secondo Peroni, nella «TEORIA PIGORINIANA» vi è una
potente risvolto politico, quasi che essa fosse stata elaborata con l’intento di giustificare storicamente il
processo di unificazione dell’Italia. Sia il processo di popolamento dell’Italia da parte dei «Tarramaricoli» =
«Italici primitivi», sia l’unificazione procedono infatti da Nord verso Sud e si concludono con l’ingresso a
Roma, nuova Capitale→ La «TEORIA PIGORINIANA» – e in generale il progetto di Pigorini – hanno
sicuramente un risvolto politico, che è quello dell’interesse per la ricostruzione e per la «valorizzazione» del
passato più remoto della Nazione, anche nell’ottica pedagogica di insegnarlo ai neonati «Italiani», nel
rispetto da un lato delle specificità regionali, dall’altro del sostrato comune da cui esse sono nate.

→La tendenza a ricercare le «origini della Nazione» non è solo italiana; a partire dagli anni ‘60 Napoleone III
promuove scavi ad Alesia, l’ultima roccaforte dei Galli contro le legioni di Cesare, e sul sito nel 1866 fa
erigere una statua a Vercingetorige, eroe dell’indipendenza gallica…ma anche dei Francesi del Secondo
Impero e della Terza Repubblica, liberi dall’ideologia di Bonaparte.

→Nel 1876, dopo la nascita dello Zweites Deutsches Reich – guidato dal Kaiser Guglielmo II e dal cancelliere
Otto von Bismarck –, a Detmodl, in Renania settentrionale-Vestfalia, nella parte meridionale della Foresta
di Teutoburgo, viene inaugurato l’Hermannsdenkmal, cioè il gigantesco monumento – iniziato nel 1838 –
dedicato ad Arminio, il capo della tribù germanica dei Cherusci che, il 9 d.C., annientò le legioni guidate dal
generale Publio Quintilio Varo.

La «TEORIA PIGORINIANA» resta tuttavia una elaborazione archeologica basata su dati (ritenuti) reali, e non
può in alcun modo essere abbassata a una ricostruzione artificiale ad usum della politica. Se la si analizza
nel dettaglio, infatti, il processo di popolamento della penisola da parte dei «Tarramaricoli» = «Italici
primitivi» non ripercorre affatto il processo di unificazione dell’Italia.
Infatti: 1) l’origine dei «Tarramaricoli» = «Italici primitivi» va ricercata in Europa orientale; i Savoia sono
invece una dinastia occidentale, e la Francia di Napoleone III ebbe un ruolo chiave nell’Unità di’Italia; 2) il
processo unitario parte sì da Nord, dallo Scoglio di Quarto, ma procede dal Sud, a partire dalla Sicilia, che
non fu mai raggiunta dai «Tarramaricoli» = «Italici primitivi»

La fase di sviluppo della Paletnologia italiana che si è definita «fase pigoriniana», non vide ovviamente solo
l’attività di Pigorini; sebbene questo studioso fosse il «padre padrone» della pre-protostoria italiana, essa
conobbe infatti un grande fervore di studi, l’emerge di figure di altissimo profilo scientifico e acquisizioni
che, sia in termini di scoperta, scavo e studio di contesti, sia in termini di sviluppo delle metodologie e della
ricostruzione storica, rappresentano ancora oggi delle pietre miliari; nella «fase pigoriniana» si possono
identificare due linee di sviluppo piuttosto chiare, che, peraltro, corrispondono, almeno in parte, a due
momenti successivi; la cesura cronologica tra questi due momenti si può collocare verso la fine degli anni
‘80 dell’‘800; essi si possono così sintetizzare: 1) fino alle fine degli anni ‘80 – ma talvolta anche nel
decennio successivo – prosegue l’attività di quelli che potremmo definire «padri fondatori»; in questo
senso fondamentale risultano i contributi e le riflessioni soprattutto di Chierici, che non riguardano
direttamente il problema delle terremare; 2) nella seconda metà degli anni ’70 e soprattutto negli anni ’80,
si avviano le ricerche di studiosi che potremmo definire di «seconda generazione», che, non di rado, sono
promosse – e comunque controllate – da Pigorini.

→Nel 1925, Pigorini, «padre padrone» della Paletnologia italiana per circa un cinquantennio, muore, a
Padova, dove si era trasferito: si tratta, anche simbolicamente, della fine di un’epoca; l’archeologia
preprotostorica italiana, a parte qualche luminosa eccezione – in primis Paolo Orsi – piomba in una crisi
profonda dalla quale uscirà, lentamente e in tempi e modi diversi a seconda delle aree, solo negli anni
successivi al secondo dopoguerra e oltre; le cause della crisi sono già in nuce alla fine dell’ ‘800, ma una
accelerazione potente vengono dati dall’Idealismo di Benedetto Croce e dall’avvento del Fascismo, che,
salito al potere nel 1922, proprio nel 1925 si trasforma anche Luigi Pigorini (1842-1925) formalmente in
dittatura. Sul piano ideologico e propagandistico per giustificare la fondazione del nuovo impero, il
Fascismo si rivolge alla Roma dei Cesari; il 9 maggio 1936, presa di Addis Abeba, Mussolini conclude il
discorso con parole eloquenti: «…Levate le insegne o legionari, le insegne, il ferro e i cuori a salutare, dopo
quindici secoli, la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma…».

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