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FuoriFuoco

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© DeriveApprodi

I edizione: giugno 2011

DeriveApprodi srl
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Progetto grafico: Andrea Wöhr

ISBN 978-88-89969-030-4
Augusto Illuminati, Tania Rispoli

Tumulti
Scene dal nuovo disordine planetario
Introduzione

Una tesi semplice: a sovranità rivoluzione, a governance


tumulti. Dunque, teorizzazione dei tumulti prima di
quella della sovranità a ridosso dell’assolutismo cinque-
centesco, ideologia tumultuaria nel declino della sovra-
nità e delle illusioni rivoluzionarie. Precisando, appun-
to, che abbiamo a che fare con condotte simili ma for-
malizzazioni dissimili, soprattutto nel loro rapporto
con una filosofia della storia. Forse anche con oggetti di-
versi: la pluralità pre-moderna di Historiae, la Geschichte
otto-novecentesca come singolare collettivo che impri-
me un’accelerazione impetuosa al corso degli accadi-
menti1, la pluralità nella percezione contemporanea di
serie storiche.
Pratiche, rivendicazioni, vocaboli consonanti: de-
mocrazia, liberazione, tumulti, insurrezione, barrica-
te… Procediamo per associazioni di idee e nomi. C’è
qualcosa in comune, di spendibile oggi? Sì, certo, se tu-
multo è di più agevole pronuncia che non rivoluzione,
di essa meno compromesso e usurato ma che ne trattie-

1. Cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, tr. it.
Marietti, Genova 1986.

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ne la forza, il desiderio, con minori rischi di infilarsi nel
garbuglio di avanguardia e presa del potere, transizione
e potere costituente, riformismo e messianismo. E be-
ninteso dei concetti opposti: potere destituente, contra-
zione nel presente, no future, evento, spontaneità lam-
peggiante… Garbato espediente con cui ci si scosta dal-
la coppia esodo-rivoluzione, dopo aver scavallato quella
rétro di riforme e rivoluzione, ritrovandoci però sulla li-
nea di partenza. Perché i tumulti differiscono fra loro, si
riscontrano in situazioni affini tanto all’esodo quanto
alla rivoluzione e perfino alla controrivoluzione, perché
servono a classificare in negativo una condizione di
apertura: democrazia del tumulto, società del conflitto,
eccedenza pluriversa riguardo a ogni universale concla-
mato. Lo scontro installa e tiene in vita le istituzioni
senza esaurirsi in esse. Costituente e costituzionalizza-
bile, il tumulto non è pertanto mera jacquerie, si oppone
a ogni sublimazione teologica, a ogni rinchiudersi del
molteplice nell’Uno: l’ordine definitivo che segue il
grande disordine, l’armonia restaurata dopo l’ultima
violenza. Nel disincanto post-rivoluzionario il tumulto
promette la revoca fulminea del fatto compiuto, opera
la cacciata simbolica del tiranno, la sospensione illegale
della legge incartata. Fiorisce con il disagio sociale sen-
za contenere di per sé una strategia, che pure potrebbe
veicolare o suggerire. Non legifera sull’universale (co-
me il sovrano, Stato o Rivoluzione) bensì suggerisce
esempi per il bios in comune. Mischia defezione e pro-
testa, exit e voice. Solo in superficie possiede l’istanta-
neità presunta dell’eterno e del miracolo, con cui condi-
vide l’interdizione dell’ordine: in realtà fa presa nella
misura in cui innesta un processo durevole, fa precipi-
tare il clinamen ribelle in sequenza costruttiva, riesce a

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far regola della propria eccedenza, norma della propria
deviazione. Scorre nel fare comune delle singolarità e
delle differenze.
I tumulti del passato – Machiavelli ne sarà campione
– non sono assimilabili se non di striscio a quelli mo-
derni e anche quelli contemporanei sono leggibili in
modo assai diverso a ogni salto di generazione, al punto
tale che perfino gli autori di questo libro devono sotto-
porsi a un incessante travaglio traduttivo delle loro sog-
gettive esperienze. L’unica costante del tumulto (come
del Wunsch freudiano) è di essere particolare, irriduci-
bile e inconfrontabile. C’è qualcosa di persistente fra
piazza del Popolo a marzo 1977 e il 14 dicembre 2010?
Fra Genova 1960 e 2001?
Sali dolcemente il pendio di Belleville per rue Ram-
poneau e arrivi all’angolo con rue Tourtille, dove il 28
maggio 1871 resistette, al dire di Lissagaray, l’ultima
barricata della Comune di Parigi. Per quanto sia uno de-
gli angoli meno gentrificati del quartiere, a tutt’oggi fit-
to di murali e residenze popolari, la memoria delle bar-
ricate vi è appena una traccia nell’immaginazione, riat-
tivabile però quando ritornano le sommosse nelle
banlieues, nei centri di Roma o Londra o Tunisi invasi
dai ragazzi delle periferie – sempiterna figura del mob,
della racaille. Cosa vi è di reale? Cosa di conforme? Nul-
la e tutto. Diciamolo in negativo (è maledettamente più
facile) usando le espressioni oracolari con cui Lacan
conclude il Seminario VII: Alessandro arrivato a Perse-
poli parla come Hitler a Parigi. Sono venuto a liberarvi
da x o da y (le discrepanze di preambolo non contano).
Segue il messaggio decisivo: continuate a lavorare, che
il lavoro non si fermi. Intendiamoci bene, il cambia-
mento non deve diventare l’occasione per manifestare il

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benché minimo desiderio. Per i desideri, ripassate. Pos-
sono aspettare. Fine dell’oracolo.
La rivoluzione troppo spesso termina così. Magari
potremmo ripensarla in altra forma, vedremo. Il tumul-
to sta al di qua del ritorno all’ordine. Per questo è fasci-
noso. Forse insufficiente, facile da sconfiggere, e dopo
tutto torna come prima. Andiamo a scrutare dove porta
il sentiero. Quali territori traverseremo? Dapprima gli
abbagli evolutivi del socialismo ottocentesco, che riflet-
tono lo spontaneo dilagare di una religione del progres-
so e cui si oppone rudemente il tardivo giacobinismo di
Buonarroti e la realtà delle sommosse, poi – con un pas-
so indietro – le premesse teologico-politiche poste dal
monoteismo (neo)platonico e cristiano, infine la sugge-
stione di un politeismo che la faccia finita con l’egemo-
nia dell’Uno. La seconda parte sta più a ridosso del con-
temporaneo: fenomenologia ed esemplarità dell’insor-
genza, l’arco delle differenze che compongono la
democrazia e la sollecitano in senso espansivo, la prati-
ca del comune e dell’eccedenza. Nella logica del tumul-
to la differenza non è sacrificata alla superstizione del
destino rivoluzionario come Ifigenia né testimonia da
nobile vittima del contropotere statuale come Antigo-
ne, ma getta la sua sfida come fuori-di-conto, mette a ri-
schio la vita, ci prova come la nomade Pentesilea2.

2. Molti dei temi del libro sono stati discussi nel corso 2011 della Libera
Università Metropolitana intitolato Le virtù del tumulto: le rivolte tra esodo
e rivoluzione. Siamo grandemente debitori ai contributi dei partecipanti
al seminario e in genere all’esperienza e alla produzione teorica di Esc
Atelier e della rivista «Common», cui entrambi gli autori partecipano.

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Le illusioni del progresso

L’anziano cospiratore Filippo Buonarroti, esule a Bru-


xelles, è curioso come un gatto e si informa presso l’a-
mico Charles Teste sulle recenti teorie saint-simoniane.
Ben poco, però, ne resta convinto, fiutando dietro lo
scientismo odore di sacrestia, sotto gli «industriali» il
vecchio nemico girondino. Il 23 ottobre 1829, registran-
do il frutto delle sue letture, vi trova un’opinione ottimi-
sta «che attribuisce allo stato morale del genere umano
una marcia progressiva verso il bene» e naturalmente
alcuni princìpi economici seguendo i quali l’uomo arri-
verebbe a godere tutto il prodotto del suo lavoro, più la
nota classificazione in savans, travailleurs, artistes, indu-
striels. Osserva allora con aperta sfiducia: «Quanto alla
marcia costante e progressiva verso il bene, mi sembra
di vedere il contrario per ciò che sappiamo dell’antichità
e dei tempi a noi più vicini». Fatica a credere che i servi
della gleba medievali se la passassero meglio degli
schiavi antichi, alla cui preservazione il padrone aveva
almeno un interesse tangibile; né tanto facili dovevano
essere gli affrancamenti nel regime signorile. Temera-
rio è voler giudicare la linea di tendenza del mondo, co-
noscendone così pochi secoli e così male, piuttosto egli

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ha l’impressione che «questa dottrina della marcia pro-
gressiva può essere molto comoda per scusare i pigri,
ma temo che, al posto di fare del bene, non ponga degli
intralci ai lavori degli uomini che desiderano rendersi
utili all’umanità».
In una lettera di poco successiva (aprile 1830) allo
stesso Teste, dopo aver apprezzato alcuni princìpi del
saint-simonismo (educazione comune, denuncia dello
sfruttamento, limitazioni alla proprietà individuale), ne
contesta tre punti chiave: il ruolo degli scienziati, l’indu-
strialismo e il culto del progresso. Sul quale chiosa con
sarcasmo: «Quanto alle dimostrazioni tratte dalla cono-
scenza della natura divina e dalla perfettibilità progres-
siva della civiltà, esse mi sembrano così poco fondate
che non riesco ad applaudire a coloro che ne fanno uso,
a meno che non mi si provi che non ci sono altri mezzi
per operare un po’ di bene su questa terra»1. La perfetti-
bilità garantita dalla civilizzazione (diversa da quella
russoiana che è capacità di evolversi nelle due inverse
direzioni della corruzione e del perfezionamento mora-
le) rimanda a un Dio dagli attributi inconoscibili che do-
vrebbe aiutarci a fare il bene. Infine, non ogni sviluppo
delle nostre facoltà è di necessità un progresso, in parti-
1. La prima lettera è stata pubblicata da J. Kloostermann, An unpublished
Letter of Filippo Buonarroti to Charles Teste, «International Review of So-
cial History» (1988), 33: 202-211. La seconda da A. Saitta, Filippo Buonar-
roti. Contributi alla storia della sua vita e del suo pensiero, Edizioni di Storia
e letteratura, Roma 1950 e 1951, vol. II, pp. 141-145, commentata nel v. I,
pp. 127-130. Per un confronto con la deriva progressista dei neo-babuvisti
(per non parlare dei socialisti «fraternitari» degli anni Quaranta del XIX
secolo), cfr. A. Lanza, All’abolizione del proletariato! Il discorso socialista fra-
ternitario, Parigi 1839-1847, Franco Angeli Storia, Milano 2010, pp. 81-82
e 82/153. Cfr. anche A. Cavazzini, “Efficacité populaire du positivisme”: Le
prolétariat selon le Discours sur l’ensemble du positivisme d’Auguste Comte,
«Cahiers du GRM», n. 1: Penser (dans) la conjoncture, hiver 2010-2011,
Toulouse, EuroPhilosophie Editions.

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colare «un ordre raisonnable de fraternité et d’amour» è
inconciliabile con un’illimitata industrializzazione
combinata con la proprietà, che apre al massimo di
egoismo, competizione e guerra.
Il rivoluzionario, che aveva redatto due anni avanti il
resoconto della Congiura degli Eguali trasmettendo al
XIX secolo il retaggio babuvista e il nome scandaloso di
comunismo, era sicuramente fuori del nuovo clima as-
sociativo e ideale e ancora irretito nelle gerarchie cospi-
rative, eppure quale modernità nel freddo rifiuto delle
consolazioni provvidenzialistiche e delle «magnifiche
sorti e progressive» su cui ironizzava un suo confratello
di Recanati! Non si trattava soltanto della religione scien-
tista del progresso di Saint-Simon e Comte, versione
sgualcita di Hegel, ma di una tendenza che percorre tut-
ta la Francia all’epoca della Monarchia di Luglio e in cui
confluiscono socialismo umanitario, culto della fratel-
lanza e dell’ordine: in altre parole, la consapevolezza di
aver a che fare con la dimensione simbolica – così osten-
tata dal pensiero reazionario – spinge a formulare una
teologia politica innestata senza frizioni sul corpo della
scienza e della sociologia, accartocciate in un quadro di
armoniosa co-evoluzione istituzionale e naturale. Pro-
prio questo conferisce pregnanza all’obiezione «inattua-
le» di Buonarroti: la «sopravvivenza» illuministico-gia-
cobina fa da reagente per scomporre le contraddizioni
fra prassi rivoluzionaria e ideologia social-progressista2.
Quando, nella prefazione al resoconto dell’impresa di
Babeuf, misura «l’infinita distanza fra le dottrine politi-
che attuali e quelle che professavano i democratici nel-
l’anno IV della repubblica francese», egli rilancia la sog-
2. Per molte notazioni al proposito siamo debitori al citato A. Lanza, Al-
l’Abolizione del proletariato!, cit., pp. 35-38.

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gettività programmatica contro gli automatismi sociali,
la scissione contro l’armonia, la dittatura dell’eguaglian-
za (non più della Vertu robespierriana) contro quella del
progresso immanente nella storia. Nella vecchia idea
che occorresse una dittatura transitoria per «sottrarre
per sempre il popolo all’influsso dei nemici naturali del-
l’eguaglianza e rendergli l’unità di volere necessaria per
l’adozione delle istituzioni repubblicane»3 non residua
soltanto la mitologia russoiana del Legislatore e l’ombra
del Comitato di Salute Pubblica, ma agisce l’esigenza di
un intervento politico che faccia «far presa» a incontri
contingenti di cui nulla assicura il pacifico deflusso sul
filo di uno svolgimento positivo.
Ritorniamo sul dubbio innanzi sollevato: è corretto at-
tribuire l’aggettivo «immanente» all’ordine o all’armonia
implicita nello svolgimento sociale e dunque destinato a
realizzarsi mediante l’azione cieca degli uomini? Non ci
scandalizza la religione del progresso e neppure l’equipa-
razione della democrazia al Cristianesimo, laddove (con-
tribuendovi Lamennais) il legame (religio) è assimilato al-
l’imperante fraternité, sublimando l’individualismo a sca-
pito di un rozzo movente utilitario: la democrazia è
vissuta quale fede nella rivelazione della società a se stes-
sa, una società-soggetto che si produce nella storia4. La ri-
voluzione, perfino come evento, è parte integrante di una
rivoluzione-processo, di un discorso di ordine: le barrica-
te sono un passaggio per guadagnare l’armonia, più edifi-
cazione di un giusto assetto che distruzione di uno ingiu-
sto. Così perfino nell’anarchismo di Kropotkin5. Per con-
verso anche Comte immagina nei proletari il più solido

3. F. Buonarroti, Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf, a cura di G.


Manacorda, Einaudi, Torino 1946 e 1971, p. 93.
4. Lanza, cit., pp. 44-52 e 231 sgg.

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baluardo del positivismo e studia come neutralizzare e
«digerire» le vampate rivoluzionarie.
Illusioni riformistiche che l’esperienza deludente
del suffragio universale e le cannonate del giugno 1848
spazzeranno via di volata, ma se ne osservi l’affinità
con la lenta conquista cristiana dell’orbe pagano me-
diante la propaganda, la mutualità e l’esempio, che in-
troduce alla dimensione teologico-politica del radicali-
smo post-giacobino – non ignota peraltro alle idee re-
dentrici dell’illuminismo e alla religiosità deistica
russoiana. Tesi democratica e socialista corrente nell’e-
tà di Luigi Filippo è quella dell’essenza divina della so-
vranità, rovesciamento simmetrico delle dottrine di
Bonald e De Maistre in cui il re è sostituito dal popolo o
meglio dalla società illuminata dalla scienza. La sovra-
nità è potenza senza limiti appartenente solo a Dio e il
popolo la svolge collettivamente, articolandone il carat-
tere trinitario in sovranità di tutti, di ciascuno e di qual-
cuno (Pierre Leroux), tenendo assieme la collettività,
l’individuo, i migliori e concludendo6 con accenti ispi-
rati che «la sovranità, dunque, è la Ragione umana, è la
Parola, è il Verbo, per impiegare il linguaggio dei teolo-
gi». Ne derivano l’integrabilità del conflitto nella socie-
tà e il riassorbimento in essa del potere politico separa-
to, secondo un’evoluzione non priva di sintomi corpo-
rativi ed etnocentrici, che persisteranno fino al
socialismo nazionale di Vichy.
Facciamo i conti con le ragioni profonde di tale mo-

5. Per non parlare della minuziosa economia delle passioni e del ruolo del
calcolo riscontrabili in Kant, Sade e Fourier secondo le memorabili anali-
si di Adorno e Barthes.
6. Voce Consentement nell’Encyclopédie nouvelle, éd. par P. Leroux e J. Rey-
naud, Gosselin, Paris 1840.

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dello. Esso secolarizza la storia sacra in progresso e la re-
ligione in democrazia sociale7. Ma quale religione? Il mo-
noteismo creazionista, dove Dio è causa transitiva (= tra-
scendente) e la società, proiezione del popolo di Dio, as-
sorbe i tratti autoritari e irenici di ogni religione rivelata,
mentre il suo corso è pre-direzionato – si tratti di un dise-
gno intelligente o di una logica scientifica. Nulla a che ve-
dere con il Deus sive Natura spinoziano, la Causa intran-
sitiva (= immanente) la cui assoluta potentia si rifrange
nello jus inalienabile e cooperativamente componibile di
ciascun modo: donde la totale apertura della democrazia,
garantita dal conflitto e dall’esercizio dell’indignatio verso
i soprusi del potere. Cadeva lì ogni metafisica del contrat-
to e dell’armonia prestabilita incanalata verso un fine. Il
diritto naturale, sempre sartum tectum, sbarrava la strada
all’affido a un sovrano onnipotente (immagine di Dio
creatore) cui i sudditi-creature debbano cieca obbedien-
za a prescindere dai contenuti del comando e dai rappor-
ti di forza e utilità. Il socialismo fraternitario non prevede
un monarca assoluto, ma a esserlo è la stessa società con
il suo decorso inevitabile verso il perfezionamento mora-
le e tecnico. Rousseau non aveva fatto che snellire e in-
tensificare il dispositivo del doppio patto hobbesiano,
unionis e subjectionis con delega a un terzo, mediante un
contratto unico e simultaneo e l’autodelega del popolo a
se medesimo, sostituendo cioè una centralizzazione de-
mocratica a quella monarchica e disapprovando le for-

7. Secondo un’azzeccata previsione dell’Enzyklopädie hegeliana (§ 552),


mentre per C. Lefort, Permanence du théologico-politique?, in Essais sur le
politique (XIXe-XXe siècles), Éd. du Seuil, Paris 1986; tr. it. Saggi sul politi-
co, Il Ponte editrice, Bologna 2007, si tratterebbe soltanto di un «fantôme
du théologico-politique» evocato per conferire unità a una società minac-
ciata di dissoluzione per i contraccolpi del rovesciamento rivoluzionario
dell’Ancien Régime.

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mazioni intermedie, partiti e sindacati, come Hobbes
aveva rifiutato libertà di parola e iniziativa ai dissenzien-
ti. Questo hobbisme le plus parfait (lo ammise Rousseau
medesimo nella lettera a Mirabeau del 26 luglio 1767)
aveva molte smagliature e ancor più ne esibirà nell’appli-
cazione giacobina, che forza ma non incongruamente il
messaggio del Ginevrino.
Non solo, infatti, i due miti della caduta corruttiva e
della rivoluzione redentrice sono evocati in esplicita al-
ternativa al peccato originario e alla salvezza – fin qui
potrebbero essere letti, alla Cassirer, quali dispositivi
laici sostitutivi, teodicea che assolve Dio dai mali del
mondo e li scarica sull’avidità di classe – ma essi sono
sganciati da qualsiasi assegnazione di necessità. La cor-
ruzione non insiste nella peccaminosità dell’uomo (il
fallo di Adamo o il «legno storto» kantiano) ma è il pro-
dotto di un funeste hasard, che poteva verificarsi o meno
(l’introduzione della proprietà privata e della divisione
del lavoro); del pari la rivoluzione è un tentativo volon-
taristico di rimediare al male con un’improbabile rige-
nerazione della natura umana nelle rare circostanze fa-
vorevoli. Non a torto Althusser insedia Rousseau nel
pantheon del materialismo aleatorio, malgrado l’evi-
dente contrasto fra l’enfasi sul caso per l’origine della
socializzazione e della lingua e lo sfondo platonico. Ol-
tre ad assodare l’esistenza di una contraddittorietà in-
trinseca, rivelata nel suo patologico senso della perdita
e dell’offuscamento (quanto più si sforza di lodare e ri-
cercare la trasparenza), si può anche ipotizzare un tra-
gitto che si sofferma a lungo in territorio agnostico e di-
derotiano prima di pervenire a un deismo platonizzan-
te. Itinerario che arriva alla grande retorica del nunc
stans – l’eternità divina senza parti – delle Rêveries par-

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tendo da un assunto dell’evoluzione umana per salti ca-
suali, dove è evidente il debito con il XXI pensiero filo-
sofico di Diderot, secondo cui l’universo avrebbe potuto
ingenerarsi grazie a una sequela abbastanza lunga di
colpi di dadi8. Nel progetto (1748) di Rousseau e Diderot
per un giornale letterario, Le Persifleur, e nella mai re-
datta La morale sensitive ou le matérialisme du sage, di cui
al IX libro delle Confessions, compare un’autodefinizio-
ne cangiante dell’identità: «Niente è così dissimile da
me di me stesso, per questo sarebbe inutile definirmi
altrimenti che attraverso questa varietà singolare»9.
Identità è varietà singolare, da sé sempre differente. La
medesima formula che Diderot, memore dei più inten-
si anni di amicizia con Jean-Jacques, 1742-1749, impie-
gherà per il nipote di Rameau!
L’identificazione del sé felice con lo smarrimento
panico nel fluire del cosmo10 è un esito tardo. Qui abbia-
mo una temporalità discontinua che dilacera i perso-
naggi della Nouvelle Héloïse e spiega il saltazionismo
«aleatorio» del II Discours e dell’Essai sur l’origine des lan-
gues. Nel Contrat social, laddove la volonté générale è in-
castrata nel toujours, quelle particuliéres fluttuano a scia-

8. D. Diderot, Pensieri filosofici, a cura di T. Cavallo, Jacques e i suoi qua-


derni, Pisa 1998, XXI, pp. 46-48.
9. Oeuvres complètes, éd. B. Gagnebin-M. Raymond, Pléiade-Gallimard,
Paris 1964, I p. 1108.
10. Luoghi dell’estasi temporale sono la contrazione involontaria del tem-
po nell’illuminazione di Vincennes (1749), la seconda Promenade (risve-
glio sotto le stelle dopo un incidente in campagna), la quinta (dondolio del-
la barca sulle acque del lago di Bienne, fiammanti apologie di Thanatos,
del ritorno all’inerte, atarassia in cui «[on ne jouit] de rien d’extérieur à soi,
de rien sinon de soi-même et de sa propre existence, tant que cet état dure
on se suffit à soi-même comme Dieu». In analogia all’esperienza comuni-
taria della festa e all’esperienza politica della volonté générale, democrazia
diretta e immediata vs la volonté de tous. L’autosufficienza dell’individuo
isolato equivale a quella divina e alla sovranità unitaria e indivisibile.

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me nel tempo e il loro montaggio disorganico aggrega,
in antagonismo con la prima, la volonté de tous, la mag-
gioranza accidentale e manipolata che occorre contro-
bilanciare con artifici procedurali per smantellare l’opa-
cità delle lobbies e il predominio delle passioni egoisti-
che. Infatti, in parallelo al primo e sconfessato
Jean-Jacques, il singolo vuole e disvuole, «ne peut ja-
mais s’assurer d’être le même durant deux instants de
sa vie» e solo la forza comune dello Stato diretta dalla
volontà generale, cioè la sovranità, può accordarne i
tempi secondo morale e ragione11. Convivono due Rous-
seau: l’antifisiocratico e il seguace di Locke, lo pseudo-
primitivista e il teorico della perfectibilité bidirezionale.
Una traccia stabile delle due tesi in conflitto permane
nel processo fratto e casuale della socializzazione, resa
virtualmente possibile dall’inclinazione dell’asse terre-
stre sul piano dell’eclittica: autentico clinamen lucrezia-
no, che genera fasce climatiche differenziate e addensa
in modo ineguale gli uomini in quelle temperate, favo-
rendone gli incontri. Del pari fortuito è l’insorgere dei
cattivi fattori di socializzazione (proprietà, violenza, do-
minio), a stento poi reversibili se non in congiunture for-
tunate e con grandi rischi di disordine. In tali casi si rea-
lizza un movimento di esodo collettivo (verso una nuova
associazione) o individuale – autoesilio che rievoca gli
antichi motivi del platonico e gnostico allógenos, del cri-
stiano straniero a questo eone, del regime del solitario in
Avempace. In entrambi i casi non c’è un adagiarsi nel
corso storico, piuttosto un andare controcorrente, il rifiu-
to del conformismo, la sfida all’esistente.

11. Così nell’abbozzo del CS, il Manoscritto di Ginevra I 4.

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Quel Rousseau e la prassi della Rivoluzione francese
– discontinuità, richiami all’Esodo, casualità di successi e
sconfitte (i colpi di scena che scandirono il rovesciamen-
to di Robespierre), pessimismo di un’avanguardia mino-
ritaria giacobina stretta fra destra e sinistra in urto san-
guinoso per il trionfo della Virtù sul Vizio – tutto ciò sta
dietro quello che potremmo chiamare l’abderitismo di
Buonarroti. Spieghiamo: nella tripartizione kantiana
delle concezioni della storia, l’abderitismo si contrappone
al terrorismo chiliastico, secondo cui vi è un costante re-
gresso verso il peggio, e all’eudemonismo, che invece pro-
pende per il progresso verso il meglio (la tesi cui Kant più
si avvicina, escludendo però ogni garanzia escatologica).
L’abderitismo ravvisa nella storia un guazzabuglio caoti-
co, sia che essa oscilli con andamento ciclico, polibiano,
sia che escluda qualsiasi ordine riconoscibile.
Redigendo nel 1798 il saggio Se il genere umano sia in
costante progresso verso il meglio Kant non ha letto ancora
(ma avverte nell’aria) i testi cardinali di J. De Maistre e
Louis de Bonald, ha esperito le contraddizioni della fase
giacobina della Rivoluzione francese e proprio dal con-
senso entusiasta degli spettatori disinteressati ai suoi
primi atti aveva dedotto i segni prognostici di una dispo-
sizione morale progressiva della specie umana. Non è
arbitrario allora ricondurre la sua condanna del terrori-
smo dei pii visionari anche alle incipienti dottrine con-
trorivoluzionarie quanto intuire una riluttanza a dise-
gnare una storia profetica dell’umanità, tipo la marcia
hegeliana dello Spirito e la più ingenua ricaduta comtia-
na. La condanna dell’abderitismo si basa sul fatto che il
rotolamento della pietra di Sisifo, la neutralizzazione ri-
corrente del bene con il male, la riduzione dell’intero
gioco degli scambi reciproci della nostra specie su que-

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sta terra a un gioco di marionette, finirebbe per dare alla
nostra specie un valore non maggiore di quello delle al-
tre specie animali, che compiono tale gioco con minor
spesa e senza logorarsi l’intelletto. Insomma, il filo con-
duttore asintotico della storia, per Kant, garantisce (con-
tro Spinoza) che l’umanità è un imperium in imperio!
Orbene, Buonarroti è abderita perché non dà per
scontato l’esito della rivoluzione, ne conosce gli alti e i
bassi, li riconduce a rapporti di intensità, casi di fortuna
e forzature volontaristiche, pratica un gradualismo tatti-
co mediante lo strumento iniziatico ed elitario della co-
spirazione. Nel senso che disprezza ogni quietismo
provvidenziale e si mette in gioco di volta in volta, molto
vicino all’impavido stoicismo dell’allievo Blanqui, che
compensa con l’eternità dei moti degli astri la febbrile
partecipazione insurrezionale e i lunghi soggiorni car-
cerari. Si procede a scosse, remotissimi da quell’idea di
«transizione ordinata» con cui ogni volta gli sbigottiti
conservatori fanno fronte ad agitazioni ormai non soffo-
cabili. Il limite, semmai, sta nella pedagogia giacobina
dall’alto, fin troppo trasmessa alle nuove avanguardie.

L’opposizione simmetrica fra socialismo umanita-


rio fraternitario e pessimismo reazionario è messa in
chiaro e al contempo ideologizzata in Carl Schmitt co-
me pseudo-alternativa fra teologia liberale e decisioni-
sta, nel contesto di un’affinità strutturale12 fra pensiero
teologico e giuridico-costituzionale. La teologia liberal-
deista esclude l’intervento diretto del sovrano nell’ordi-
namento vigente, ascolta la vox populi quale voce di Dio

12. Benché presentata in veste di tesi originale, l’affermazione replica l’as-


sunto dell’innominabile Spinoza, che aveva segnalato (Ethica, II, pr. 33,
sch.) lo scambio bidirezionale fra potenza assoluta di Dio e del sovrano,

19
nel pragmatismo dei rivoluzionari americani, ecc., cor-
rispondendo alla vulgata delle dottrine del progresso.
Quella decisionista, dove lo stato d’eccezione sostitui-
sce il miracolo, collima largamente con le dottrine di De
Maistre e non solo dell’amato Donoso Cortés, che ha il
merito di liberare il decisionismo dai residui legittimi-
sti facendone un’apologia della forma dittatura senza
fondamento, funzionale a svariati blocchi sociali.
Riscontriamo analoga simmetria fra riduzione della
Rivoluzione francese a congiura massonica e proget-
tualità cospirativa: i due primi volumi dei Mémoires pour
servir à l'Histoire du Jacobinisme sono pubblicati dall’a-
bate Barruel già nel 1796, l’anno della congiura di Ba-
beuf! La filosofia della storia, nelle due varianti kantia-
ne del terrorismo e dell’eudemonismo, immagina in-
terventi di avanguardia segreta che forzano il corso
spontaneo degli eventi. Il primo filone sfuma nel fanta-
stico, giù giù fino all’antisemitismo del Protocolli, il se-
condo innerva una tradizione che, non a caso, ricalca il
modello gesuitico (esplicito in Nečaev). Il paradosso, re-
plicante il finto primitivismo di Rousseau, è che Buo-
narroti, erede e cronista del babuvismo, riesce a giocare
l’elemento volontaristico e cospirativo (la cui forma è la
dittatura transitoria) verso la processualità teleologica
del socialismo ottocentesco, sparigliandolo con una ci-
tazione arcaica, ponendo l’accento sulla reversibilità dei

ancor prima rivendicata in positivo da Cartesio. Anche Hobbes si era sof-


fermato su concetti simili evocando il personalismo trinitario e Leibniz, ri-
chiamato dallo stesso Schmitt, aveva sottolineato la comune fondazione
fra teologia e diritto sul duplex principium di una ratio naturale e di una
scriptura rivelata. Troviamo la sintesi schmittiana a esordio del II capitolo
della Teologia politica del 1922 (tr. it. in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino,
Bologna 1972, p. 43), laddove si afferma che «tutti i concetti più pregnanti
della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati».

20
fatti storici e delle conquiste rivoluzionarie. Del resto,
non era Sorel intriso di umori Action Française quando
al principio del secolo successivo scatta, lancia in resta,
contro il progressismo positivistico e annuncia l’ambi-
guo mito dello sciopero generale?
Delle due affermazioni del Manifesto degli Eguali, 1)
la Rivoluzione francese è solo il prodromo di un’altra,
molto più grande e solenne, che sarà l’ultima, 2) la rivo-
luzione non è finita, perché i ricchi seguitano a coman-
dare e i poveri a languire nella miseria e non contare
nulla, la prima è mitopoietica (come lo saranno affer-
mazioni consimili di un altro Manifesto nel 1848), la se-
conda cerca di revocare il fatto compiuto del Termidoro,
la prima chiude la storia in via di principio, la seconda la
riapre di fatto. La dinamica del conflitto fra patrizi e ple-
bei, a differenza da Machiavelli, si chiude con l’elimina-
zione dei primi (sintomatico che gli Eguali siano i no-
velli Gracchi), con la fine della storia nella communauté,
ma l’obbiettivo intermedio democratico (il ristabili-
mento della mai applicata Costituzione dell’anno III)
diventa la vera posta del movimento. Una prospettiva
tumultuaria e moltitudinaria, perché ancora non è defi-
nito un proletariato: prospettiva che ridiventa suggesti-
va dopo che la forma proletaria classica si è decomposta
nel postfordismo13.
Non tutto nella contesa teologico-politica è allucina-
zione di cui sia agevole sbarazzarsi: pur eliminando
l’enfasi sul finalismo e l’attribuzione di significato tra-

13. Le critiche usuali all’utopismo babuvista (vedi le formule introduttive


di G. Manacorda alla sua edizione della Cospirazione) riflettono la datata
credenza in una maturazione lineare del movimento socialista culmi-
nante nell’esperienza sovietico-fordista. Già per É. Durkheim (corso ac-
cademico di Bordeaux 1895-1896, ripreso in Le socialisme, sa définition, ses

21
scendente, resta il contrasto fra rivoluzione-evento (en-
nesima secolarizzazione del miracolo) e rivoluzione-
processo (erede dell’evoluzionismo liberale e proto-so-
cialista). Né cambia molto se al vocabolo «rivoluzione»
sostituiamo «esodo». Il riferimento, poc’anzi, a Sorel
fornirebbe parecchi spunti di riflessione sulle ambiva-
lenze del concetto. Ci torneremo.
L’intero repubblicanesimo francese ottocentesco la-
vora sulla memoria della Grande Révolution, instauran-
do paralleli oppure evidenziando scarti rinvianti alla
contrapposizione fra un lento processo spontaneo e le
accelerazioni delle «giornate» rivoluzionarie, salvo a ri-
trovarsi su sequenze periodiche di «evento»: le Trois
Glorieuses del 1830, il febbraio e il giugno del 1848, ecc.
La conclusione provvisoria è che l’uscita dalla Restaura-
zione è segnata dall’idea che esista un decorso inelutta-
bile e che l’elemento sociale predomini sul politico, l’ar-
monia spontanea sulla forzatura volontaristica. Al con-
trario delle apparenze, ciò implica una forte tensione
all’Uno, attingendo la teologia politica del progresso la
propria forza dalla matrice monoteista, di un Dio asco-
so e trascendente, causa transitiva che guida masse e av-
venimenti secondo un disegno intelligente. La società,
corpo di tale Dio, è dunque «organica», riproducendo
assetti della sovranità classica con protagonisti diversi.

débuts, la doctrine saint-simonienne, Librairie Felix Alcan, Paris 1928), tap-


pa fondamentale di siffatto percorso era il passaggio dalla communauté di
consumo, vita e condotta, regolata dalla solidarietà meccanica che annulla
gli individui, all’association socialista di individui consoci liberamente
partecipi secondo una solidarietà organica, dalla comunanza primitiva dei
beni alla produzione cooperativa industriale moderna, dal gruppo fusio-
nale al liberalismo. A questo livello vige la formula saint-simoniana per
cui, nell’associazione universale che subentra allo Stato, l’amministrazio-
ne delle cose sostituisce il governo degli uomini, eliminando ogni opaci-
tà e antagonismo.

22
Come (azzardando una generalizzazione a soli fini eu-
ristici) se si succedessero in modo ricorsivo periodi
«teologici» e fasi a prevalenza tumultuaria (anti-teolo-
giche o di teologia politeistica o di causalità intransiti-
va), che negano il Senso o meglio lo subordinano alla lo-
gica del conflitto, dell’antagonismo e dell’incontro. Fasi
di politica profana, in breve, non di storia sacra più o
meno secolarizzata. Naturalmente i tumulti ci sono
sempre: per fase tumultuaria definiamo quella in cui
domina un’ideologia che si adatta loro, senza omologar-
li in un disegno provvidenziale o dialettico, lasciando
aperto il loro gioco.
Facciamo un passo indietro, per cogliere come si è
arrivati a quello che fino a ieri si era sedimentato nel
senso comune.

23
Come tutto è cominciato

Nella Poetica di Aristotele le cose stanno in quiete: la


storia è pura successione cronologica, mentre un supe-
riore significato compete solo alla narrazione tragica, in
cui gli accadimenti vengono associati e finalizzati. La
seduzione dell’argomento consiste nel delineare una
temporalità quantitativa ma non una filosofia della sto-
ria, perché l’esasperata evenemenzialità inibisce ogni
tendenza teleologica od ogni sezione d’essenza che re-
stituisca un Senso dentro la connessione dei fatti. Tali
connessioni operano in modo costruttivistico e narrati-
vo, riflessione ex post e non constatazione di un percor-
so interno da Origine a Fine – un tema che sarà esplici-
tamente ripreso nell’elogio arendtiano della coppia nar-
razione-novità natale. Compito del poeta è, infatti, dire
non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere
e le possibili secondo verosimiglianza o necessità (katà
to eikòs e to anagkaîon), quanto è più nobile e filosofico
della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’univer-
sale, mentre la storia del particolare, delle cose soltanto
accadute. Per universale si intende «quali specie di cose
a quale specie di persone capiti di dire o di fare secondo
verosimiglianza o necessità, al che mira la poesia pur
ponendo nomi propri» (9, 1451a 36-b9).

24
A ribadirlo il cap. 23, 1459a 22-31, dove si sostiene che
le composizioni epiche «non debbono essere simili alla
storia, nella quale si fa esposizione non di una sola azio-
ne, ma di un solo periodo di tempo, narrando tutte quelle
cose che in questo periodo accadono a una o più persone,
pur essendoci tra questi fatti una relazione meramente
accidentale (hos étuchen). Giacché, come la battaglia di Sa-
lamina avvenne nello stesso tempo in cui ci fu in Sicilia la
battaglia contro i Cartaginesi, senza che i due eventi ten-
dessero allo stesso fine, così anche nelle sequenze di tem-
po [en toîs efexês chronois, nei tempi di seguito] accade a
volte che un fatto segua a un altro senza che da essi risul-
ti un unico fine». La filosofia della storia è ridotta a un efe-
xês pluri-causato e pluri-diretto e solo l’ordine dello scri-
vente traccia un filo nella contingenza di incontri che
hanno fatto presa o che si vuole facciano presa.
Tuttavia già nell’antichità abbiamo due linee di pen-
siero che cominciano a introdurre un significato nella
storia. Una prima è l’ipotesi polibiana che cala nei fatti
umani la visione ciclica del tempo, che gli Stoici aveva-
no applicato alla vita dell’Universo: l’anakúklosis preve-
de la successione periodica di tre forme di governo con
le rispettive degenerazioni (monarchia-tirannide, ari-
stocrazia-oligarchia, democrazia-oclocrazia, si riattacca
con la monarchia e così via). Ogni cosa umana è desti-
nata a degenerare e rigenerarsi, mentre oscuro resta il
ruolo della Fortuna (Tuche) nel susseguirsi e nell’incli-
nare degli eventi.
Una seconda tendenza è riconducibile all’esegesi al-
legorica delle leggende olimpiche e dei poemi omerici1,

1. Sulla quale cfr. I. Ramelli-G. Lucchetta, Allegoria, vol. I, L’età classica, Vi-
ta e Pensiero, Milano 2004, spec. pp. 447 sgg. Sulla sintesi giudaico-ales-

25
che si alimenta di motivi platonici e stoici e tende a far
confluire la ricchezza della tradizione in un imbuto tra-
scendentale. Tale infatti è l’effetto della morte degli dèi
prevista dalla conflagrazione cosmica (la ekpúrosis stoi-
ca) cui sopravvive solo il fuoco-logos. L’eterno ritorno
dell’identico ne è il corollario attinente alla storia, non
disgiunto da tendenze provvidenzialistiche. Decisivo è
l’innesto su questo sfondo del monoteismo ebraico, che
con Filone impiega l’allegoria per acclimatare la Bibbia
nella cultura ellenistica e, all’inverso, per complicarne
speculativamente la lettera, e ancor più del monotei-
smo cristiano che molto presto abbandona il radicali-
smo paolino e cerca una fusion tra follia della croce e sa-
pienza greca, privilegiando ambiti per intrinseco figu-
rali, quali il neoplatonismo. Nella Gnosi e nella
Kabbalah creazione e redenzione pneumatica si vesto-
no da complotto romanzesco, inducendo di rimbalzo
una lettura della storia come congiura teosofica. Facile
intuire l’interesse della filosofia moderna dopo la gran-
de scossa delle rivoluzioni e controrivoluzioni. Scendo-
no di qui le interpretazioni canoniche della filosofia del-
la storia e del progresso come secolarizzazione del trac-
ciato lineare agostiniano dalla creazione all’avvento
redentore di Cristo e alla fine del mondo e le polemiche
anti-moderne che denunciano la rivoluzione totalitaria
e il sacrilego immanentismo2.

sandrina e il ruolo cruciale di Filone allo snodo fra allegoresi stoica e tra-
scendentalismo platonico vedi l’introduzione di R. Radice, pp. 40-45.
2. K. Löwith, Saggi sulla storia, 1949, tr. it. Sansoni, Firenze 1971; Nietzsche
e l’Eterno Ritorno, 1934 e 1955, tr. it. Laterza, Bari 1982. H.-Ch. Puech, in un
saggio del 1950, Temps, histoire et mythe dans le christianisme des premiers
siècles, «Proceedings of the 7th Congress for the History of Religions, Am-
sterdam September 1950», Amsterdam 1951, tr. it. in Sulle tracce della Gno-
si, Milano 1985, pp. 46 sgg., attirò l’attenzione su un testo anteriore ad

26
Che poi il monoteismo esibisca un benigno volto pa-
storale e che una teologia della potestas ordinata riabiliti
la legge di natura e stabilisca il Rule of Law in alternativa
al miracolo e alla decisione emergenziale infondata –
beh, si tratta di varianti del medesimo dispositivo. Né –
tanto per restare all’arco temporale prescelto – le recen-
ti teologie della debolezza (Nancy), della contingenza
(Muraro) e del trattenersi nella potenza (Agamben) si
allontanano troppo dalla kénosis paolina, il cui coeffi-
ciente di paradossalità dipende dall’impianto creazioni-
stico capovolto. Operazione che ha buoni antecedenti
nel rapporto fra Jahvé biblico e Kabbalah luriana. Mette-
re in questione la radice monoteistica è l’unico modo
per scardinare la teologia politica, il cui fascinoso chia-
roscuro cela un progetto di dominio: controllo del retro-
mondo sul mondo, in effetti controllo di una classe sul-
le altre dentro il mondo3.

Agostino, l’Adversus haereses, redatto verso il 180 da Ireneo, vescovo di Lio-


ne, una delle fonti principali dei frammenti dell’allegoresi antica, per svi-
luppare l’idea che la rivelazione si svolge nel tempo con una progressiva
maturazione, per cui il passato prefigura il futuro e giunge a pienezza nel
presente con una recapitulatio. Altri hanno invece additato nel progresso
un processo involutivo, una specie di gnosi moderna che pretende di li-
quidare la trascendenza divina lasciando all’uomo la correzione dei guasti
del mondo (vedi E. Voegelin, La nuova scienza politica, 1952, tr. it. Borla, To-
rino 1968, o il nostro A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Milano
1970). Identico discorso (a parti rovesciate) ritroviamo nella passione gno-
stico-rivoluzionaria di J. Taubes, Escatologia occidentale (1947), a cura di E.
Stimilli, Garzanti, Milano 1997.
3. Paradigmi teologici e correnti profetiche possono svolgere funzioni ri-
voluzionarie. Approcci quietistici ed estatici entrano in contrasto con le
istituzioni e incorrono in persecuzioni, come nell’islamico al-Hallâj e nel
suo collega teopatico cristiano, Meister Eckhart, che l’abisso dell’abban-
dono esonerava dal comando disciplinare e dogmatico. Nel caso di Mar-
gherita Porete, L. Muraro (Le piume del pavone. La politica secondo Marghe-
rita Porete, «Bailamme», n. 28, 2002) osserva che «venendo meno libera-
mente la volontà umana di fare il bene, nella creatura fluisce e agisce
l’essere assoluto, perché Dio è amore e questa è la natura dell’amore, co-

27
Detumescendo le urgenze apocalittiche, la teologia
cristiana della storia e del governo si è suddivisa in di-
versi rivoli, che scendono per due pendii: un profeti-
smo minoritario a forte valenza eversiva riguardo alle
strutture feudali prima e poi signorili (da Gioacchino
da Fiore a Gerolamo Savonarola, dai Patari alle varie ti-
pologie francescane «spirituali»), una stabilizzazione
come dottrina ordinata della convivenza sulla base del
bene comune e dell’equilibrio fra istanze ecclesiali e
laiche nell’arco post-aristotelico che va da Tommaso
d’Aquino a Dante e Marsilio. Tale è il contesto sul quale
si abbatterà la bufera machiavelliana, non senza rece-
pirne alcune istanze.

municarsi, se non trova ostacoli. Può farlo, lo fa in tutte le faccende uma-


ne, se trova il passaggio di un amore libero, di una libertà disarmata», ciò
che configurerebbe una paradossale teologia della contingenza di Dio,
nel senso positivo […] che Dio può capitare a questo mondo. L’anima an-
nientata è questo: la possibilità che Dio venga a questo mondo, che passi
dalla nostra parte. Per questo le scrittrici beghine non hanno in mente […]
la figura medievale del viaggio dell’anima [piuttosto quella] di un andiri-
vieni divino». Per questo alle anime annientate toccherebbe il compito di
governare in caso di emergenza: «Telles gens gouverneroient ung pays,
se il en estoit besoing, et tout sans elles».

28
Istorie

Nelle repubbliche è maggior vita, maggiore odio, più desiderio di ven-


detta.

N. Machiavelli, Il Principe V

Quando Althusser scriveva su Machiavelli, insisteva


sulla solitudine1 che caratterizza il suo pensiero e la sua
figura filosofica: irriducibile all’antico, ma anche al mo-
derno, all’aristotelismo nella variante agostiniano-savo-
naroliana, così come alle teorie della sovranità o della
ragion di Stato2. Machiavelli è solo perché è tra i pochi
che hanno pensato la connessione immanente tra poli-
tica e conflitto3. Per l’antichità l’equivalenza che descrive
e norma il vivere in comune è quella tra politica e con-
cordia, per la modernità, invece, quella tra politica e or-
dine. Nel primo caso il conflitto è sottoposto alla logica
della rimozione – amnesia e amnistia rinnegano il pro-
1. L. Althusser, La solitude de Machiavel, PUF, Paris 1998.
2. G. Duso, Ordine, governo, imperium, in Aa.Vv., Il potere, a cura di G. Du-
so, Carocci, Roma 2006, pp. 29-36. M. Ricciardi, La repubblica prima del-
lo Stato. Niccolò Machiavelli sulla soglia del discorso politico moderno, in
Aa.Vv., Il potere, cit., pp. 37-49.
3. R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Ei-
naudi, Torino 2010, pp. 23-33 e 47-60.

29
blema del disordine4 – nel secondo a quella dell’esclu-
sione – la politica esiste solo quando il conflitto viene si-
stematicamente trasceso.
Per Merleau-Ponty gli scritti machiavelliani contri-
buiscono «alla chiarezza politica», disvelandone la
meccanica interna: «Fra il potere e i suoi soggetti, fra
me e l’altro, non c’è terreno in cui cessi la rivalità. Oc-
corre o subire la costrizione o esercitarla. Machiavelli
parla continuamente di oppressione di aggressione. La
vita collettiva è l’inferno»5. La crisi di cui Machiavelli si
fa carico politicamente e filosoficamente riguarda una
specificità storica e locale – tumulti, fazioni, mutamen-
ti della forma di governo e della gestione del comando,
influenze dei potentati esterni, erano problemi all’ordi-
ne del giorno per Firenze6 – ma più in generale una que-
stione strutturale – temporale e antropologica – che se-
gna le possibilità della vita in comune. La crisi è ineli-
minabile, costitutiva, istitutiva.
Machiavelli sospetta della filosofia: come insegna il
caso di Catone, che tenne fuori dalle porte della città
Diogene e Carneade7, la grandezza di Roma fu possibile
solo a patto di limitare l’influenza dei filosofi. Chiara po-
lemica rivolta al modus operandi degli umanisti, all’idea
dell’otium e delle lettere che contempla un distacco del
letterato dal movimento della vita politica effettiva e una
separazione tra virtù filosofica e virtù politica. Per que-

4. N. Loraux, La cité divisée. L’oubli dans la mémoire d’Athènes, Payot, Paris


1997; tr. it. La città divisa, Neri Pozza, Vicenza 2006.
5. M. Merleau-Ponty, Note sur Machiavel, in Signes, Gallimard, Paris 1960,
pp. 343-364, 364 e 344.
6. R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Sansoni, Firenze 1978; Q. Skin-
ner, Le origini del pensiero politico moderno I, Il Rinascimento, il Mulino, Bo-
logna 1989.
7. IF V, 1.

30
sto Machiavelli inventa un metodo e una prospettiva: i
concetti consuetudinari della storia del pensiero – For-
tuna/virtù, potenza, città – sono decontestualizzati ri-
spetto al senso comune proposto dalla tradizione e ibri-
dati liberamente con i linguaggi professionali della me-
dicina, della navigazione, del diritto. Il risultato è una
filosofia desacralizzata.
Gramsci a tal proposito diceva che Machiavelli ha
scritto libri di «azione politica immediata […] La filoso-
fia della praxis o neo-umanesimo […] non riconosce ele-
menti trascendentali o immanenti (in senso metafisi-
co) ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che
per le sue necessità storiche opera e trasforma la real-
tà»8. La filosofia come prassi si pone il problema della
trasformazione e dell’azione: risponde a un’urgenza e a
un compito determinati9. Alla metafisica in politica,
Machiavelli oppone l’intenzione di seguire «la verità ef-
fettuale della cosa», piuttosto che «l’immaginazione di
essa»10. Se la filosofia della tradizione immaginava nor-
mativamente quale fosse la costituzione politica mi-
gliore, fondandola su un apparato teologico-politico, si
tratta invece per Machiavelli di definire un campo di
azione, delimitato da un tempo che blocca o determina
la riuscita o lo scacco della prova umana. La posta in gio-
co del «riscontro» è una libertà che continuamente si
misura con gli esiti del conflitto, inteso come occasione
circostanziata e finita11. La politica è conflitto e il metodo

8. A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, vol.


I, Einaudi, Torino 1975, Q 5, § 127, pag. 657.
9. L. Althusser, Écrits philosophiques et politiques, tomo II, Stock/IMEC
1995, tr. it. Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999, pp. 34-36.
10. P XV.
11. C. Lefort, Machiavelli e la verità effettuale, in Scrivere, alla prova del poli-
tico, il Ponte, Bologna 2006, pp. 123-157.

31
si deve misurare con questa effettività, pur non esclu-
dendo l’immaginazione, intesa come contro-effettua-
zione ovvero capacità di pensare o agire altrimenti12.
Politica, tumulti, storia: prima di addentrarci nel vi-
vo della proposta machiavelliana occorre specificare
due difficoltà. La prima riguarda il fatto che riferendosi
al lavoro del Fiorentino occorre distinguere i testi, i
committenti, i lettori cui erano rivolti13. Ciò significa che
non si dà un’opera, unica e monolitica, all’interno della
quale bisognerebbe valutare incoerenze e discrasie. Il
Principe, come disse Gramsci, è un Manifesto, le Istorie
Fiorentine hanno tutti i caratteri di un’opera commissio-
nata, infine i Discorsi, rivolti all’ambiente particolare de-
gli Orti Oricellari, in cui i vincoli politici erano di natura
più libera, sono stati scritti per l’eternità. La seconda dif-
ficoltà riguarda le numerose interpretazioni: storica-
mente si sono dati tre modi per studiare Machiavelli,
che si succedono cronologicamente. Il primo è l’anti-
machiavellismo, che di volta in volta additava l’opera del
Fiorentino come consiglio per il tiranno o specchio del
principe, il secondo è il lavoro positivo che è stato fatto
sui testi (F. Chabod, G. Sasso), il terzo modo infine s’in-
terroga sulla posta in gioco che viene sollevata. Su que-
st’ultima linea interpretativa si colloca il lavoro di J. G.
A. Pocock che rinviene nell’opera machiavelliana l’ori-
gine di una tradizione repubblicana alternativa al libe-
ralismo: la libertà dipende dalla partecipazione attiva
della cittadinanza alla vita politica14. Diversamente, C.

12. É. Balibar, «La verità effettuale della cosa». Spinoza et Machiavel, in


Aa.Vv., Spinoza. Ricerche e prospettive. Per una storia dello spinozismo in
Italia, Bibliopolis, Napoli 2007, pp. 189-209.
13. C. Lefort, Machiavelli e la verità effettuale, cit., pp. 128-135.
14. J. G. A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino

32
Lefort elabora l’idea di democrazia selvaggia, come op-
zione valida per frenare la deriva totalitaria insita nell’e-
sperienza sovietica15. La critica di Pocock esclude la di-
mensione del conflitto all’interno della costruzione del-
la libertà politica, quella di Lefort, di contro, la valorizza,
ma conferendogli le caratteristiche dello schema mo-
derno di lotta di classe/rivoluzione.
Quando parliamo di tumulto occorre tenere presente
almeno quattro aspetti: intanto ci riferiamo a una speci-
fica idea di corpo politico, per cui dentro ogni città ci so-
no delle parti, delle aggregazioni, dei gruppi. Il corpo po-
litico è misto, cioè attraversato da relazioni di potere e la
città non è mai uno spazio liscio né pacificato, ma attra-
versato da differenziali di potenza che – in secondo luo-
go – non esauriscono la loro energia e il loro antagoni-
smo una volta che si istituisce un’unità politica. C’è quin-
di un rapporto problematico tra tumulto e istituzione,
nei termini in cui il primo non si risolve in modo lineare
nell’origine della seconda. A questo nodo complesso –
che prelude a un campo di possibilità, di azione e di tra-
sformazione – la modernità, con Sieyès, darà il nome di
potere costituente, intendendo con esso un momento
conflittuale extragiuridico, mai pienamente giuridifica-
bile16. Riferendoci a Machiavelli come al primo filosofo
che ha posto le condizioni di questo problema e ne ha in-
travisto le potenzialità, il termine è necessariamente pie-
gato a un uso anacronistico. Più in generale, l’origine
dell’istituzione non revoca mai in via definitiva il conflit-

e la tradizione repubblicana anglosassone, I. Il pensiero fiorentino, Il Mulino,


Bologna 1980.
15. C. Lefort, Le travail de l’oeuvre. Machiavel, Gallimard, Paris 1972.
16. A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative nel moderno, ma-
nifestolibri, Roma 2002.

33
to. I tumulti si ripropongono modificando, plasmando,
reinventando daccapo le forme istituite. Il conflitto – e
veniamo al terzo aspetto – produce libertà: non in modo
immediato o indifferenziato, ma piuttosto secondo mec-
canismi e dinamiche specifiche, che possono dare vita a
una risoluzione positiva oppure rovesciarsi rovinosa-
mente nel loro contrario: corruzione, schiavitù, licenza.
Il risultato – quarto punto – è una riflessione sulla de-
mocrazia, come pratica inevitabilmente e produttiva-
mente legata al tumulto, ma allo stesso tempo presa nel-
la morsa tra corruzione e fondazione ricorsiva.

Nell’Etica Nicomachea, di cui Machiavelli aveva co-


noscenza diretta, Aristotele definisce il concetto di ho-
mónoia come qualità etica che costituisce il fondamento
della politica: «si dice che le città sono in concordia,
quando i cittadini hanno eguali vedute sui loro interes-
si, e scelgono e prendono le stesse decisioni e mettono
in atto ciò che hanno deciso in comune [koinêi]»17. La po-
litica è la scienza che si occupa della felicità comune, in
quanto bene perfetto ovvero più completo, più degno di
essere scelto e autarchico. La felicità è d’altra parte una
questione di realizzazione della virtù, espressione della
medietà in senso lato, ovvero capacità di scelta raziona-
le secondo le circostanze, frónesis, fuori dagli eccessi18.
C’è un assiologia dentro il paradigma aristotelico tra eti-
ca e politica, tra realizzazione individuale e buona ri-
uscita della vita comunitaria, segnata dalla logica della
misura. In un luogo della Politica l’indicazione diventa
più chiara: la costituzione politica migliore è quella fon-

17. Aristotele, EN IX, 6; 1167a 26 sgg. (corsivo nostro).


18. C. Horn, L’arte della vita. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici, Ca-
rocci, Roma 2004, pp. 82-83 e 130-132.

34
data sulla medietà e sulla classe media, perché «essa so-
la è lontana dal pericolo delle rivolte»19. La politica, in
questo senso, è un dispositivo dell’equilibrio, che deve
mediare, sciogliere, rimuovere il conflitto piuttosto che
prenderlo in carico. In questo paradigma essa è ciò che
s’innesta su una comunità previamente costituita, orga-
nicisticamente coesa. Il discorso aristotelico è governa-
to dalla paura della stasis, della rottura sempre latente
dell’equilibrio della polis – il rischio perenne dell’insor-
genza che impone la conseguente divisione e la cacciata
di una parte dei cittadini.
Per Machiavelli erano chiari i limiti della filosofia e
della storia del tempo, che non avevano dato sufficien-
temente conto delle «civili discordie, e delle intrinseche
inimicizie»20. Il conflitto s’innesta nel punto d’incontro
tra politica e vita, perché la lotta è radicata dentro la na-
tura umana, la determina, assumendo il peso della «ne-
cessità»: «In ogni città si trovono questi dua umori di-
versi; e nasce da questo, che il populo desidera non es-
sere comandato né oppresso da’ grandi, e li grandi
desiderano comandare e opprimere il populo; e da que-
sti dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effet-
ti, o principato o libertà o licenzia»21.
Tutte le città sono divise, secondo una partizione che
assume dei tratti di naturalità. Gli umori costituiscono
gli aspetti originari e «fissi» del corpo singolo, come
della collettività politica, esprimendo due tensioni che
si contrappongono: i nobili sono spinti alla dominazio-
ne, mentre il popolo prova a sfuggire al meccanismo,
desiderando, per parte sua, di non essere comandato af-

19. Aristotele, Politica IV; 1296a.


20. IF, Proemio.
21. P IX.

35
fatto. La divisione naturale della città assume però di
volta in volta una qualificazione socio-politica più preci-
sa: la partizione Plebe-Nobili per quanto riguarda Ro-
ma, quella Popolo-Grandi con riferimento a Firenze.
Vita, desiderio, politica sono addensati nella teoria
degli umori. Il termine è di chiara derivazione tecnico-
medica e la sua origine, per quanto riguarda l’uso che
ne fa Machiavelli è duplice: da un lato si può risalire agli
studi di Alcmeone da Crotone, medico, vicino ai pitago-
rici, dall’altro al corpus ippocratico-galenico. Il primo
aveva elaborato un’interessante analogia tra corpo uma-
no e corpo politico, in cui lo stato di salute era determi-
nato dall’isonomia delle quattro qualità primordiali, di-
vise in coppie di contrari. Per quanto riguarda il corpus,
invece, provando a ridurne l’estremo eclettismo e varie-
tà, l’idea fondamentale, che giungerà fino alla teoria
medica del XVI secolo, è quella della quadripartizione
degli umori, in cui lo stato di malattia o di salute viene
definito sulla base di un mélange che viene giudicato ar-
monioso o meno22. La metafora biologica assume quin-
di, pur nell’uso decisamente libero che ne fa Machiavel-
li, una valenza decisiva per articolare il problema del
conflitto: ogni unità politica è divisa in due parti che si
contrappongono e il cui movimento ne determina la vi-
talità. Il disaccordo, la polarizzazione, l’antagonismo
determinano il flusso, eterno, costante, contrastivo, che

22. Tra gli studi principali sul concetto di umore e le metafore biologiche
nel corso del Rinascimento: L. Zanzi, I “Segni” della natura e i “paradigmi”
della storia: il metodo del Machiavelli, Lacaita Editore, Roma-Bari 1981; Q.
Skinner, Machiavelli, Il Mulino, Bologna 1999, p. 65; M. Gaille-Nikodimov,
Conflit civile et liberté. La politique machiavélienne entre histoire et médecine,
Honoré Champion, Paris 2004; G. Sfez, La raison des humeurs, «Rue De-
scartes» XII-XIII (1995), pp. 11-37; D. J. Hale, The body politic. A political Me-
taphor in Renaissance English Litterature, Mouton, The Hague 1971.

36
regola lo scorrere del tempo, della vita e della politica.
L’unico equilibrio possibile nel processo interminabile
dello scontro tra umori si dà solo a partire da stati par-
ziali. Si tratta sempre di un’incorporazione avida, ma
provvisoria dei flussi esterni per raddrizzare di volta in
volta l’entropia: l’equilibrio è sempre «metastabile»23.
Il desiderio è al centro della dinamica politica: alcuni
desiderano comandare, altri non essere comandati. La
resistenza e la sottrazione sono sempre forme dell’azio-
ne. La passione lega in un’ambivalenza attività e passivi-
tà. Per ogni espressione reattiva si mostra il lato produt-
tivo: il desiderio di non essere comandati si rovescia po-
sitivamente in un’affermazione di libertà24. Eppure è
anche necessario «offendere o essere offeso». Le pas-
sioni sono tanto ambivalenti quanto reciproche: per
non avere timore occorre produrre timore25.
È evidente il debito di Spinoza verso l’acutissimus
Florentinus quando sostiene che il desiderio è espressio-
ne ontologica della potenza del Dio/Natura o mostra co-
me una passione triste quale l’indignatio può rovesciar-
si produttivamente26 e ancora quando chiarisce perché
dalla paura si genera altra paura27. Tumulti e indigna-
zione sono assunti dall’Olandese come costitutivi dello

23. Nel senso di G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, tr. it. a


cura di P. Virno, DeriveApprodi, Roma 20012.
24. D I, 5.
25. D I, 46.
26. Si confronti Ethica III, pr. 22 e Def. Aff. XX, IV, pr. 51 sch. e App. cap.
24 (valutazione negativa) con Tractatus politicus IV, 4 e 6 (valutazione po-
sitiva). Sulla questione vedi L. Bove, La Stratégie du conatus. Affirmation et
résistance chez Spinoza, Vrin, Paris 1996; A. Matheron, L’indignation et le
conatus de l’État spinoziste, in M. Revaut D’Allones, Spinoza: puissance et
ontologie, Kimé, Paris 1994, pp. 153-65; T. Stolze, Indignation: Spinoza on
the Desire to Revolt, University of Massachusetts, Amherst 1992.
27. TP VII, 27.

37
stato civile, senza che vi sia bisogno di patto e volontà
inoppugnabile a immagine di un Dio trascendente,
creatore e ordinatore. L’antropologia negativa è sia per
Machiavelli che per Spinoza semplice realismo, non ri-
caduta nel peccato originario. Di contro, per Hobbes il
problema è escludere il desiderio dalla politica, trasfor-
mandolo in calcolo razionale e codificandolo interior-
mente come interesse. La passione deve essere condot-
ta, guidata, plasmata. Il male giustifica la soppressione
della legge di natura e fonda la necessità apologetica del
potere assoluto28.
Il concetto di umore descrive, in prima battuta, nel
linguaggio machiavelliano la situazione di divisione
nella città, in un modo generale, universalizzante ed
eterno. La politica è sempre conflitto di due parzialità
desideranti che giungono al confronto e, al contempo, è
ricerca di stati di equilibrio parziali. Il quadro, in appa-
renza così chiaro, si complica però nel riscontro storico
e nella determinazione singolare. La teoria politica è
sempre contaminata, mai pura o ridotta a concetto e la
compresenza di contingenza e invarianza, di datità e ri-
corsività produce degli scarti: se gli umori appartengo-
no al tempo dell’eternità, le figure sociali sono assegna-
te alla storicità.
Primo scarto. Machiavelli non si limita a descrivere
in modo neutrale e imparziale il contrasto che agiscono
le parti. Sia confliggere che descrivere il conflitto com-
portano una scelta e un posizionamento. Nella Dedica-

28. Un confronto generale tra Hobbes e Spinoza per quanto riguarda il me-
todo, la teoria delle passioni, e le alternative giuridico-politiche è in F. Del
Lucchese, Tumulti ed indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli
e Spinoza, Ghibli, Milano 2004. Per il rapporto Hobbes-Machiavelli e gli ef-
fetti di sovranità e governamentalità del primo vedi G. Borrelli, Il lato oscuro
del Leviathan Hobbes contro Machiavelli, Cronopio, Napoli 2009.

38
toria al Principe, in cui si affida al linguaggio pittorico
quattrocentesco della perspectiva29, Machiavelli afferma
che: «così come coloro che disegnano e’ paesi si pongo-
no bassi nel piano a considerare la natura de’ monti, si-
milmente, a conoscere bene la natura de’ populi, biso-
gna essere principe, e a conoscere bene quella de’ prin-
cipi, bisogna essere populare». Chi scrive deve
cartografare la realtà collocandosi alla giusta distanza
per poter osservare più precisamente i contorni dell’og-
getto, così come coloro che tumultuano adottano una
prospettiva che per definizione è parziale e di parte30.
Per questo la politica deve essere prospetticamente as-
sunta e guardata dalla parte del popolo, come quell’in-
sieme, che una volta definito come parte e come tutto,
può concretamente produrre una prassi democratica.
Secondo scarto. Nel 1378 a Firenze insorgono i carda-
tori della Lana per protestare contro la crisi prodotta dal-
la guerra degli otto santi e dalla peste nera che dilagava
in Europa. Il tumulto fallisce. Machiavelli dà voce ai
Ciompi nelle Istorie Fiorentine, avendo ben chiara la mi-
sura e le ragioni della loro sconfitta31. Il problema non è
la violenza, anzi: «Debbesi adunque usare la forza quan-
do ce n’è data l’occasione» e l’obiettivo strategico della lot-
ta, come chiarisce il Ciompo nel suo discorso, è alto:
«Spogliateci tutti ignudi, voi ci vedrete simili; rivestite

29. Sul rapporto tra prospettiva e politica, cfr. J. D’Amico, Power and Per-
spective in “La Mandragola”, «Machiavelli Studies», I (1987), pp. 5-16, e R.
Damien, Paysage et lecture chez Machiavel, «Archives de Philosophie»,
LXII (1999), t. 2, pp. 281-95.
30. Cfr. F. Frosini, «Dubitando non incorrere in questo inganno che io accuso
alcuni». Storia, memoria, giudizio nelle Prefazioni e nella Dedicatoria ai Di-
scorsi. Contributo al convegno «Machiavelli. Tempo e conflitto», Bologna
16-17 novembre 2009; F. Frosini, Contingenza e verità della politica. Due
studi su Machiavelli, Edizioni Kappa, Roma 2001.
31. IF III, 13-17.

39
noi delle vesti loro, ed eglino delle nostre, noi senza dub-
bio nobili, ed eglino ignobili parranno, perché solo la po-
vertà e le ricchezze ci disagguagliano». Il limite sta nella
disorganizzazione e nella divisione: perché in una mol-
titudine «sciolta» «bastava una sola voce nel mezzo»,
per scatenare ritorsioni e vendette, perché il furore di un
tumulto privo di strategia facilmente si traduce in popu-
lismo e demagogia. I Ciompi affidano a uno solo, Mi-
chele Lando, le sorti della loro lotta e per questo perdono.
Machiavelli è critico rispetto alla vicenda dei Ciom-
pi, eppure, nel libro commissionato da e dedicato a Cle-
mente VII, Papa mediceo, dà loro voce. I Ciompi non
sono né Popolo, né Grandi, ma Plebe32. A Firenze non
sussiste un’unica divisione binaria, ma ogni raggruppa-
mento o classe sociale è, a sua volta, internamente fra-
zionato e diviso in fazioni, per questo la teoria degli
umori per descrivere la nuova natura del conflitto non è
sufficiente. La Plebe esisteva anche prima, ma come
soggettività politica emerge, performativa e conflittuale
nella realtà fiorentina, solo nel tumulto: i Ciompi ir-
rompono sulla scena politica e se non si fossero ribella-
ti sarebbero probabilmente rimasti senza nome.

È stato giustamente notato che, quando si fa riferi-


mento al concetto di homónoia nell’antichità, non ci si ri-
ferisce a un’idea monolitica e uniforme. Per Socrate e Se-
nofonte vi è concordia quando vi è eunomia, ovvero obbe-
dienza alla legge. Per Pitagora e Plutarco il problema è
stabilire una simmetria tra l’armonia dell’universo e

32. Su questa novità insiste G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo
pensiero politico, il Mulino, Bologna 1993, II pp. 285 sgg., nonché J.-Cl.
Zancarini, Les humeurs du corps politique. Le peuple et la plèbe chez Machia-
vel, «Laboratoire italien», I (2001), pp. 25-33.

40
quella della polis. Sallustio affermava che la concordia de-
riva dal compromesso di un conflitto permanente d’inte-
ressi. Per Aristotele, come si è detto, la homónoia è eudai-
monia. Secondo Savonarola, infine, il problema era ac-
cordare pace civile e pace spirituale, sottomettendo la
prima all’obbedienza alla legge divina33. Machiavelli ap-
prezzava ma combatteva Savonarola, le cui prediche dis-
armate proponevano un modello politico derivato dalla
teologia monoteista. Divisione, parzialità, molteplicità
tracciano la costellazione attorno cui ruota la politica.
Machiavelli pone a suo modo il problema della ricer-
ca di una concordia, di una pace e di un comune, perché
nella sua prospettiva dire che la politica è conflitto non
significa fare l’apologia del caos, ma piuttosto immagi-
nare il rapporto tra tumulti e ordine fuori dallo schema
tradizionale. Il suo dispositivo teorico è antilineare e de-
centrato. Dove c’è tumulto non c’è mai disordine puro
ma produzione positiva di istituzioni, viceversa, una vol-
ta che le istituzioni hanno assunto una loro consistenza,
il tumulto si ripropone in modo interminabile. «Io dico
che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe
mi pare che biasimino quelle cose che furono prima cau-
sa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romo-
ri e alle grida che da tali tumulti nascevano, che a’ buoni
effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino
come ’e sono in ogni repubblica due umori diversi, quel-
lo del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che
si fanno in favore della libertà, nascono dalla disunione
loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Ro-
ma»34. Il tumulto riproduce libertà, inventando nuove

33. Cfr. M. Senellart, La crise de l’idée de concorde chez Machiavel, «Les


Cahiers philosophiques de Strasbourg», II, t. 4 (1995), pp. 117-133.
34. D I, 4.

41
forme istituzionali o trasformando quelle esistenti, ma
non secondo la logica riformista e moderna della media-
zione graduale del conflitto. Non si tratta mai di dar voce
o rappresentare, piuttosto di esprimere secondo un nes-
so causale transitivo: i tumulti favoriscono le buone leg-
gi che determinano la buona educazione che, a sua volta,
inventa delle esemplarità virtuose. L’insieme di questi
elementi codifica una forma di organizzazione.
A Roma, però, il susseguirsi dei tumulti produce po-
tenza, mentre a Firenze apre a una stagione di decaden-
za35. Perché?
La prima ragione è il rapporto inclusivo rispetto al-
l’esterno. Per chiarirlo Machiavelli ritorna all’antico. Ve-
nezia e Sparta si conservarono per lungo tempo senza
che i tumulti scuotessero le loro storie: entrambe aveva-
no forme di governo differenti rispetto a quella romana,
l’una era una repubblica aristocratica e l’altra una mo-
narchia aristocratica, e il numero degli abitanti era ri-
dotto, essendo i loro confini inaccessibili agli stranieri.
A Roma, invece la repressione dei conflitti avrebbe an-
che soppresso la ragione principale dell’espansione36.
Roma è una democrazia tumultuaria e aperta, meglio,
aperta perché tumultuaria. Lo straniero, in quanto ciò
che è estraneo o esterno, può essere oggetto di conqui-
sta oppure tramite di una traduzione che annulla la di-
cotomia fra dentro/fuori37.
La seconda ragione della differenza dei tumulti tra
Firenze e Roma sta nella capacità di istituire. Per Poli-
bio, Aristotele e Savonarola il «re» occupa il posto cen-
35. IF III, 1.
36. D I, 6.
37. F. Frosini, Politica e guerra in Machiavelli, relazione al convegno
«Guerra e violenza-Guerre et violence», Urbino 25-26 ottobre 2010. Rife-
rimenti originali: D II, 3; II, 4; II, 3; I, 6.

42
trale, perché incarna la mediazione conflittuale. Ma-
chiavelli, invece, decentra la raffigurazione politica, po-
larizzando lo scontro antagonistico tra gli umori38. Dal-
l’Uno a-conflittuale si passa al Due.
Roma rappresenta il caso della città che «non sortì
la prima fortuna, sortì la seconda»39. E questa fortuna è
il conflitto. I tumulti inventano il nuovo istituto dei Tri-
buni della Plebe, sperimentando la democrazia secon-
do la forma della costituzione mista che dispone un si-
stema di equilibrio parziale, permettendo al dissenso
di esprimersi. Machiavelli non conosceva il greco e re-
cepisce quanto detto nel VI libro delle Storie polibiane
attraverso la mediazione di Dionigi di Alicarnasso. Se-
condo gli antichi – da Platone in poi – le forme di go-
verno si succedono, percorrendo un ciclo che alterna le
tre forme buone (monarchia, aristocrazia, democra-
zia), alle tre forme corrotte (tirannia, oligarchia, oclo-
crazia). La forma più perfetta dentro il quadro dell’ana-
kúclosis è la mikté che, conservando la potenza triadica
di tutte le forme di governo positive, è la più stabile.
Ma per Machiavelli il ciclo non si può mai percorrere
eternamente: nessuna città e nessuna esperienza politi-
ca può sopravvivere alla distruzione prodotta dalla bar-
barie e dalla guerra civile e la funzione della mikté non è
tanto conservare la stabilità quanto trasformarsi, tratte-
nendo l’inevitabile entropia politica e sociale40.
38. Il riferimento diretto è a R. Esposito, Il posto del re. Metafore spaziali e
funzioni politiche nell’idea di “stato misto” da Savonarola a Guicciardini, «Il
Centauro», XI-XII (1984), p. 45.
39. Sul problema della doppia origine, M. Reale, Machiavelli, la politica e il
problema del tempo: un doppio cominciamento della storia romana. A propo-
sito di Romolo in Discorsi I, 9, «La Cultura», LIII (1985), pp. 45-123.
40. D I, 2; D I, 4. Sulla differenza tra Stato misto in Polibio e in Machia-
velli G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, il Muli-
no, Bologna 1993, I pp. 481-488.

43
Ora il punto è che l’esperimento istituzionale roma-
no della costituzione mista non è esportabile, ripetibile,
imitabile. I tumulti fiorentini non solo non possono ri-
proporre l’istituto dei Tribuni della Plebe, ma neppure
far leva sulla religione degli Antichi che costituiva il col-
lante principale della società romana, costituendosi co-
me l’apparato veritativo della politica (ideologia). A Ro-
ma l’eguaglianza originaria ha prodotto un sistema di
diseguaglianze più diffuse – che saranno la matrice del-
la verticalizzazione del potere cesarista –, a Firenze in-
vece c’è una maggiore «equalità»41. Le condizioni mate-
riali di vita sono differenti. Il feudalismo è finito, tanto
che solo forzatamente si potrebbero costruire «castel-
la» e «ville»42 e Machiavelli fotografa una realtà nuova,
quella mercantile nascente43, segnata da una tendenzia-
le eguaglianza, ma anche da una corruzione più diffu-
sa. Non è possibile riproporre né le stesse forme di go-
verno né gli stessi modelli istituzionali. A Roma e a Fi-
renze, il conflitto, la guerra interna, le discordie danno
luogo a equilibri «metastabili» differenti: se la politica è
inesauribile rispetto all’assetto costituzionale, l’istitu-
zione è un costituito che si riapre incessantemente, una
regola pratico-organizzativa modificabile. Nell’istitu-
zione c’è il tentativo di sottrarsi al fatto che ogni inizio è
una ripetizione ovvero l’esito di una storia precedente e
l’istituzione del tumulto è organizzazione senza model-
lo. Problema che ritroveremo tal quale per i tumulti mo-
derni, se ne scartiamo la facile interpretazione in termi-

41. D I, 18 e 55.
42. DFR, p. 27.
43. F. Raimondi, La “cagione della prima divisione” di Firenze. Per un’inda-
gine sul materialismo di Machiavelli, in Aa.Vv., Machiavelli: immaginazione
e contingenza, Ets, Pisa 2005, p. 241.

44
ni di «evento» (un istantaneo-sempre-nuovo che si ripe-
te eguale a se stesso).
Eppure Machiavelli, anche contro le opinioni di
Guicciardini sull’uso della storia romana44, insiste nel
Proemio A e B dei Discorsi sul valore della mimesi, per-
ché «il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini» non sono
«variati di moto, di ordine e di potenza da quello ch’egli
erano anticamente», pertanto occorre imitare gli anti-
chi, non solo per quanto riguarda le arti, le lettere e la
medicina, ma soprattutto in politica. Secondo Koselleck,
Machiavelli: «collega in una nuova unità il pensiero
paradigmatico al pensiero empirico»45. L’uso dell’imita-
zione non è finalizzato alla ripetizione di un modello: il
passato chiarisce il presente, nella misura in cui anche il
presente riesce a informare il passato, a porre delle do-
mande. A volte il contrasto viene giocato e vissuto per di-
stanziare, come quando il Fiorentino, ormai ex-segreta-
rio scacciato dagli uffici, si ingaglioffa all’osteria di S. An-
drea in Percussine giocando a cricca e poi, la sera,
spogliato di quella veste cotidiana piena di fango si abbi-
glia di panni reali et curiali per leggere Plutarco e Livio,
pascendosi di quel cibo che solum è suo e per cui nacque.
Come nelle scenografie di David, in cui i sanculotti si tra-
vestono da romani, la mimesi riproduce la differenza.
I «medesimi desideri» e i «medesimi umori» condu-
cono a quei «medesimi scandoli» che sempre hanno ca-
ratterizzato ogni tempo e ogni storia46. La natura umana
è immutabile e su questa eternità si dipana e scorre la

44. F. Guicciardini, Lettera n. 263 del 18 maggio 1521, in N. Machiavelli,


Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Milano 1973, p. 1205.
45. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Clueb
2007, p. 34.
46. D I, 39.

45
differenziazione delle storie, l’evento e la deviazione.
Che valore ha allora l’appello all’imitazione? Forse, nella
sua problematicità e fallibilità, essa equivale a una rever-
sibilità locale e parziale della corruzione. La storia degli
antichi è un esempio di riuscite e fallimenti che può es-
sere riproposto e «revocato» proprio per l’instabilità
strutturale dell’incontro, per la priorità della relazione
sui relati47. La possibilità della ripetizione può annullare
gli errori o, viceversa, risultare una parodia degenerati-
va: ça dépend, per dirla con Marx. L’imitazione trattiene
l’entropia, perché può arrestare localmente il processo di
corruzione, riproponendo i successi ed evitando le cause
di sconfitta, stanti i rapporti reali di forza; è la percezione
corretta delle potenze in gioco, che consente di valutare i
caratteri favorevoli dell’occasione per coglierli con pa-
zienza, annodando gli orditi di virtù e fortuna.

«Le inimicizie che furono nel principio in Roma in-


tra il popolo e i nobili disputando, quelli di Firenze com-
battendo si disfinivano»48. Il limite del tumulto è la
guerra civile. Il tumulto è la forza che trattiene la guerra
civile, conserva la potenza del no, producendo imme-
diatamente un’alternativa. Il tumulto funziona solo se
produce effettivamente libertà, istituzione e comune.
Machiavelli si occupa soprattutto di definire come si
perde la libertà, facendola direttamente dipendere dal
grado di corruzione presente in un corpo politico. Nel
caso di una democrazia, quando la malattia della corru-
zione diventa endemica, l’unica alternativa percorribile
è riordinare verticalmente l’istituzione, utilizzando

47. F. Del Lucchese, Tumulti ed indignatio, cit., p. 24.


48. IF III, 1.

46
mezzi «straordinari»49. La libertà è questione di attitu-
dine e pratica dei molti. Coloro che sono abituati a vive-
re sotto il comando altrui – come nel caso della servitù
volontaria di É. de la Boétie – una volta che acquistano la
libertà sono destinati a perderla, come gli animali fero-
ci, addestrati a vivere in una gabbia, una volta liberi non
riescono a sostentarsi autonomamente diventando faci-
le preda di chi li attacca50. Per il contrattualismo moder-
no, la libertà è assenza di limitazioni (trascendenza);
per Machiavelli è potenza prodotta da una molteplicità
(immanenza). Una posta in gioco, un risultato, una
condizione da produrre e non solo ciò che accomuna il
bene soggettivo e quello comunitario, come per la con-
cezione antica: nelle democrazie tumultuarie la prassi
comune dei molti riproduce vita liberata51.
Machiavelli – l’abbiamo già visto nel caso dei Ciompi
– non si esprime in modo gentile rispetto alla moltitudi-
ne (o molti/universale), tanto che quando ne parla in D I,
57 («la plebe insieme è gagliarda, di per sé è debole»), la
definisce negativamente come quell’insieme in grado di
tumultuare, ma incapace di mantenere l’obiettivo politi-
co proposto. Una moltitudine «sciolta» (termine che
Hobbes riprenderà, ancor più in negativo, con la sua dis-
solute multitude) ovvero disorganizzata, atomizzata, sre-
golata, facilmente rinuncia alla protesta e al conflitto,
per perseguire degli interessi individuali. Ma subito Ma-
chiavelli aggiunge contro la «commune opinione» in D
I, 58 che «la moltitudine è più savia e più costante che
uno principe». I popoli sono «vari, mutabili e ingrati»
tanto quanto lo sono i re, perché l’incostanza è costituti-

49. D I, 17-18.
50. D I, 16.
51. D II, 2.

47
va della natura umana. Ma gli affetti sono diversi, i prin-
cipi sono guidati dall’ambizione e dalla conquista, infat-
ti: «le crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei te-
mano che occupi il bene comune; quelle d’un principe
sono contro a chi ei tema che occupi il bene proprio. Ma
la opinione contro ai popoli nasce perché de’ popoli cia-
scuno dice male sanza paura e liberamente ancora men-
tre che regnano; de’ principi si parla sempre con mille
paure e mille rispetti». Quei molti – rinnegati dalla tradi-
zione storica, filosofica, politica – hanno la potenza di un
dio – sono quella potentia Dei modalizzata in potentia
multitudinis che abbiano visto all’opera in Spinoza. La
moltitudine si attiva nell’organizzazione, nella dinamica
autopoietica e positiva che è in grado di produrre, nella
capacità di farsi immediatamente istituzione.

H. Kantorowicz nel suo libro sulla storia della sovra-


nità, I due corpi del Re, distingue aeternitas, tempus e ae-
vum. I due corpi del re indicano la metafora mistico-teo-
logica per pensare lo Stato, il popolo o la patria, ovvero i
governi «politicocentrici» che derivavano la loro genea-
logia dall’idea dell’immortalità e della continuità teolo-
giche – ognuna di queste entità politiche ha un corpo
naturale e finito e un altro, invece, eterno. Il Medioevo,
a partire da Averroè e dalla successiva ripresa scolastica,
rompe il dualismo tra mobilità transeunte del tempo e
un’eternità immobile di Dio, riscoprendo l’aevum, il po-
sto degli angeli: «una specie di durata infinita che aveva
del movimento in sé e quindi anche passato e futuro,
una perpetuità che secondo tutte le autorità era senza fi-
ne»52. L’aevum è il tempo del mutevole, ma infinito.

52. E. H. Kantorowicz, I due corpi del re, Einaudi, Torino 1989, p. 239.

48
Questa nuova categoria influenzò trasversalmente gli
umanisti che, riscoprendo Boezio, nel riferirsi all’eter-
nità di Roma, probabilmente pensavano all’aevum, co-
me momento di temporalizzazione dell’eterno e come
spazio di degradazione e di mutamento dell’Impero.
Dante può essere inserito all’interno di questa corrente
di pensiero, Machiavelli no, poiché abbandona il duali-
smo dei due corpi, per riportare la politica all’unità di
una radicale immanenza. Roma non è eterna, ma sog-
getta a «distruzione».
Tutte le accezioni temporali con cui Machiavelli si
confronta hanno una forte valenza teologico-politica,
proprio in quanto complicate dalla sovrapposizione alle
grandi opzioni classiche (platonica, aristotelica, epicu-
rea, lucreziana) dell’ideologia cristiana, che sussume ap-
punto in un modello teologico tempo e storia, in origine
dati «naturali» (immagine mobile dell’eterno ritmo dei
cieli nel Timeo, numero del movimento nello Stagirita).
L’eternità è il problema che hanno in comune sia il cri-
stianesimo che le teorie della sovranità: l’immortalità di
Dio (e del mondo) garantisce la perpetuità del sovrano.
La potenza, secondo Machiavelli, tende alla dissipa-
zione e immanenza significa anche finitezza. L’entropia
in politica dipende dal tumulto – che produce positiva-
mente del nuovo o che degrada negativamente in guer-
ra civile – e dalla corruzione. Quest’ultimo concetto pre-
senta una molteplicità di aspetti: in senso debole, la cor-
ruzione è decadimento delle consuetudini e dei costumi
– la religione e le armi –, in senso forte, invece, è disso-
luzione dell’ordinamento53, determinato dalla progressi-
va privatizzazione del conflitto politico54. È inversione
53. D I, 16-18.
54. IF VII, 1.

49
del rapporto tra pubblico e privato55. Infine la corruzione
– come per Aristotele – è un qualcosa del tempo, un trat-
to caratteristico del suo fluire e dell’inevitabile usura che
produce. Il tempo trasfigura, tradendo la forma origina-
ria dei corpi. Se però tutti i corpi semplici «hanno il ter-
mine della vita loro» ovvero si corrompono e poi muoio-
no, i corpi misti – come le repubbliche o le sètte – posso-
no invertire il processo naturale, riducendosi «inverso i
principi loro». L’alternativa alla corruzione è il ritorno
all’origine. Non si tratta mai di ripetizione, ma di renova-
tio: si torna indietro (cioè verso l’origine conflittuale, vio-
lenta, fratricida) solo per spostare in avanti il processo;
rinnovare è muoversi tra memoria e oblio. Aristotele e
Polibio utilizzano la figura del cerchio per spiegare il
movimento temporale, Machiavelli, con il ritorno ai
principi, traccia una spirale: lo sguardo al passato tende
verso un nuovo futuro.

Nel Manoscritto Vaticano Rossiano 88456 è contenu-


ta la trascrizione che nel 1497 Machiavelli ha eseguito
del De rerum natura lucreziano. In quello stesso anno,
sia Machiavelli che Guicciardini furono entusiasti
ascoltatori del magistero lucreziano di Marcello Adria-
ni57. Marsilio Ficino, a sua volta, prima favorevole auto-
re di una commentariola sul De rerum natura e fitto di
positive citazioni nelle lettere, nel De voluptate e nel De
55. D I, 7-8.
56. Hanno animato il dibattito sulla trascrizione S. Bertelli, Notarelle ma-
chiavelliane. Un codice di Lucrezio e di Terenzio, «Rivista storica italiana»,
LXXIII (1961), pp. 544-553, e il maggior biografo R. Ridolfi che, se prima
negava l’autografia machiavelliana, poi ammise il contrario: cfr. R. Ridol-
fi, Errata corrige machiavelliano, «La Bibliofilia», LXX (1968), pp. 137-139.
57. A. Brown, The Return of Lucretius to Renaissance Florence, I Tatti stu-
dies in Italian Renaissance history, Harvard Univ. Press, Harvard 2010.
cap. 4, pp. 68 sgg.

50
quattuor sectis philosophorum, divenne dopo il 1473 av-
versario strenuo dell’epicureismo in nome di una teolo-
gia cristiana platonizzante. La battaglia filosofica di Fi-
cino spiega a contrasto il contesto del XV secolo fioren-
tino, attraversato dalle tendenze ateizzanti del
materialismo epicureo, lucreziano e averroista58. Que-
st’atmosfera filosofica influenza Machiavelli.
Secondo Epicuro – nelle poche righe della Lettera a
Erodoto 72-7359 – il tempo non è la duplicazione sensi-
bile di un’idea intelligibile, l’eterno, ma è l’effetto del-
l’accadere delle cose e perciò non può porsi come luogo
teorico di un’unificazione del divenire, piuttosto è
quanto risulta dalla pluralità dei ritmi delle cose esi-
stenti. Esso non va ricondotto alle altre proprietà che
indaghiamo in un oggetto, riferendoci alle anticipazio-
ni (prolépseis) che troviamo in noi stessi, piuttosto a
quell’intuizione immediata in base alla quale parliamo
di «molto» o «poco» tempo. Dobbiamo leggerlo colle-
gandolo alla successione di giorno e notte, «come an-
che alle nostre passioni o alla loro assenza, al moto e al-
la quiete, considerando un accidente particolarmente
connesso (idión ti súmptoma) a queste realtà ciò per cui
parliamo di tempo». Vicino alle inflessioni psicologisti-
che cui minoritariamente apre l’aristotelica Fisica IV
12-14 (e molto più Plotino), il tempo è un sintomo spe-
cifico dell’accadere delle cose60.
58. J. Hankins, The Rebirth of Platonic Theology in Renaissance Italy. Pro-
ceedings of a Conference in Honor of Michael J. B. Allen, Florence, 26-
27 April 2007. Eds. James Hankins and Fabrizio Meroi. To be published
by the Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento and The Harvard
University Center for Italian Renaissance Studies http://nrs.harvard.
edu/urn-3:HUL.InstRepos:2936369.
59. Epicuro, Lettere, a cura di N. Russello, Rizzoli, Milano 2004, pp. 100-101.
60. V. Morfino, Il tempo della moltitudine, manifestolibri, Roma 2005, pp.
146-48.

51
Il discorso si fa più chiaro se però si integra quella
pagina enigmatica con l’esposizione del pensiero epicu-
reo che risulta dai commentatori posteriori, riassunti in
Sesto Empirico. «Epicuro, come ci insegna Demetrio
Lacone, afferma che il tempo è accidente di accidenti, in
quanto è connesso ai giorni, alle notti, alle stagioni, alle
affezioni e all’assenza di affezioni, ai movimenti e agli
stati di quiete. Tutti questi sono accidenti che soprav-
vengono a realtà diverse, e il tempo, che a tutti questi è
connesso, potrebbe a buon diritto chiamarsi accidente
di accidenti»61.
Lucrezio in De rerum natura I, 445-482, afferma che
il tempo non è in alcun modo una natura come il vuoto
e la materia, non ha una sua sussistenza separata dalle
cose che accadono, ma deriva da questo accadere:

Ergo praeter inane ut corpora tertia per se


Nulla potest rerum in numero natura relinqui
[…]
Tempus idem per se non est, sed rebus ab ipsis
consequitur sensus, transactum quod sit in aevo,
tum quae res instet, quid porro deinde sequatur.
Nec per se quemquam tempus sentire fatemdumst
Semotum ab rerum motu placidaque quiete.
[…]
Perspicere ut possis res gestas funditus omnis
Non ita uti corpus per se constare neque esse,
nec ratione cluere eadem qua constet inane,
sed magis ut merito possis eventa vocare
corporis atque loci, res in quo quaeque gerantur 62.

61. Sesto Empirico, Adversus mathematicos, X 219.


62. «Dunque, oltre il vuoto e la materia, una terza natura/non può in al-
cun modo essere annoverata fra le cose. […] Ugualmente il tempo non

52
Le res gestae storiche (i fatti narrati nell’Iliade) sono
dunque eventa, accidenti dei corpi e dei luoghi, non suc-
cessioni del corso scandito dai cieli del Timeo o dal tem-
po-numero dello Stagirita. Ogni istante contiene in sé
una policronia o una pluralità delle durate (IV, 794-706):

An magis illud erit verum? Quia tempore in uno,


quod sentimus, id est, cum vox emittitur una,
tempora multa latent, ratio quae comperit esse 63.

Per Epicuro e Lucrezio il potere della necessità è li-


mitato dal clinamen: una contingenza ontologica, una
deviazione costitutiva dell’aggregazione atomica che si
riflette anche nel margine di libertà concesso all’azione
umana. Machiavelli utilizza i termini «necessità» e «ca-
so» in accezione diversa dalle categorie fisico-cosmolo-
giche: si tratta principalmente di «bisogno», la costri-
zione in cui gli uomini vengono a trovarsi per mancan-
za di alternative valide nei propri comportamenti. È
dunque un contrassegno dell’azione, che può essere li-
bera di scegliere diverse strade o costretta dalla necessi-
tà a operare in un unico modo.
Vi è tuttavia un significato più ampio di necessità,
intesa quale principio ontologico che governa la realtà,

esiste di per sé, ma dalle cose stesse / deriva il senso di ciò che si è svolto
nei secoli, / di ciò che incombe o poi seguirà nel futuro./ Né si deve am-
mettere che qualcuno avverta il tempo / separato dal movimento delle co-
se e dalla placida quiete. […] Così che puoi vedere con chiarezza che tutti
indistintamente gli eventi / non sussistono di per sé, né sono come i cor-
pi, / né si possono dire della stessa natura del vuoto, / ma sono tali che
giustamente li puoi denominare / accidenti della materia e dello spazio,
dove si produce ogni cosa» (tr. it. di Luca Canali).
63. «Altro e diverso è il vero. Poiché in un singolo istante / che percepia-
mo – il tempo di emettere un’unica voce –, / si celano numerosi attimi, di
cui la ragione scopre l’esistenza».

53
e proprio qui si rivela un’analogia con l’impostazione lu-
creziana. Per Machiavelli è possibile imitare gli antichi
perché gli uomini non sono diversi da come erano in
quei tempi. Certo ogni storia è una determinazione sin-
golare: Sparta, Roma, Venezia, Firenze, sono casi irri-
petibili, punti di precipitazione temporalmente unici.
Sono mutati i fatti concreti, le situazioni storiche, ma
ciò non impedirebbe l’imitazione a chi di quelle storie
avesse «vera cognizione» e volesse gustarne il vero «sa-
pore», perché «gli uomini […] nacquero, vissero e mori-
rono, sempre, con uno medesimo ordine»64. La struttu-
ra delle azioni umane presenta delle costanti e delle re-
golarità che, al servizio dell’agire virtuoso, tracciano la
possibilità della loro ripetizione ma anche il rischio di
ricadere negli stessi errori.
Per Machiavelli l’attitudine e l’azione dipendono dal
tempo: essere «impetuoso» o «respettivo», saper co-
gliere il kairós o procedere con pazienza dipende dalle
occasioni che si incontrano. Politica e tempo si annoda-
no in un intrico inscindibile, perché la prima si defini-
sce proprio come quell’insieme di azioni conflittuali
che gestiscono e si fanno carico di un certo tempo o di
una certa storia – il problema della virtù è sempre quel-
lo di costruire degli argini e di adattare nel «riscontro»
–, il secondo, nelle vesti della Fortuna, lavora come un
fiume in piena, invadendo e modificando ogni paesag-
gio predefinito.
Che la fortuna sia arbitra della metà delle nostre azio-
ni e che l’altra metà sia in nostro potere significa non so-
lo riconoscere il limite dell’agire umano, ma che nessu-
na azione è in nostro potere se la virtù non è sufficiente e

64. D I,11.

54
l’occasione non è colta, mentre ogni azione è in nostro
potere se la virtù è preparata e riesce a cogliere l’occasio-
ne65. Soluzione nient’affatto scettica, piuttosto di reali-
smo radicale. Il caso, come nella tradizione atomistica e
lucreziana, sembra un elemento spontaneo che inesora-
bilmente abita il mondo umano, senza che gli uomini
sappiano sempre riconoscerlo in modo da cogliere l’oc-
casione. Conoscendo però il principio generale possia-
mo genericamente prepararci a gestire la fortuna, secon-
do virtù. Una teologia del Deus sive Fortuna, secondo la
celebre battuta di Strauss66. Una filosofia dell’immanen-
za, del movimento (senza éschaton liberatorio) e della
pluralità che interrompe la linearità sovrana.
I tumulti machiavelliani non sono i nostri e neppure
l’atteggiamento di Machiavelli è quello nostro: in mez-
zo c’è passata, entro una logica di sovranità e di merca-
to, la costituzione delle classi moderne e la loro crisi. La
teoria del tumulto, nel modo in cui è stata pensata dal
Fiorentino, esclude la logica moderna della rivoluzione:
lo scontro incessante degli umori non si spinge mai fi-
no al punto di rovesciare l’assetto sociale di partenza67. I
tumulti contemporanei hanno già assorbito la tensione
rivoluzionaria della trasformazione complessiva della
vita, lasciandosi dietro le distinzioni ammodernanti

65. La logica che sottende il rapporto di virtù e fortuna non è quindi sin-
tetizzabile attraverso la categoria di «linearità causale». Tra virtù e fortu-
na si danno o si possono dare una serie di incontri (logica dell’incontro),
che possono riuscire o fallire, far presa o meno. A tal proposito rinviamo
a un inedito di L. Althusser, Sur la genèse, di prossima pubblicazione su
«Décalages», 2, 2011, a cura di V. Morfino. Per una trattazione più com-
pleta si vedano gli scritti degli anni Ottanta tradotti in L. Althusser, Sul
materialismo aleatorio, Unicopli, Milano 2000.
66. L. Strauss, Voce Machiavelli, in L. Strauss, J. Cropsey, Storia della filo-
sofia politica I, Il melangolo, Genova 1993, p. 31.
67. D I, 37 e 55.

55
che separano sociale e politico, lavoro ed esistenza. Co-
me per Spinoza, occorre distinguere il detto dal non-
detto perché in quel contesto indicibile, non articolabile
nella congiuntura. Rimane la pura ricezione della stra-
tegia dell’incontro – tra azione e occasione, tra tumulti e
istituzioni – che inibisce la chiusura sovrana e consente
ad altri pensieri, ad altri movimenti di raggruppare di-
versamente i termini della relazione.

56
Leviathan e Contr’Un

I primordi dell’assolutismo stanno già nelle monarchie


nazionali del XIV-XVI secolo coeve alla fioritura italiana
dei Comuni e alla loro trasformazione signorile, anzi in-
terferenti con esse fino alla sottomissione e assorbimen-
to. La dottrina della sovranità, che vi si riallaccia, non è
una sovrastruttura giuridico-costituzionale appiccicata
ma funge da apparato legittimante e performativo, è a
tutti gli effetti un althusseriano apparato ideologico di
Stato, formandone direttamente concetto e pratica.
Trascorriamone le varianti in termini di stile: archi-
tettura, iconografia, moda. Hobbes ci fornisce la versio-
ne barocca1: un automa composto da tanti piccoli uomi-
ni come in un assemblaggio di Arcimboldo, scelte agi-
tate da teatro elisabettiano, artificio scenografico,
decapitazioni. L’introduzione al Leviathan, evocando il
celebre frontespizio dell’edizione a stampa inglese del
1651, spiega che quel montaggio descrive il common-
wealth, or state (in Latin, civitas), which is but an arti-
ficial man, though of greater stature and strength than the

1. Per l’analisi iconografica raccogliamo le suggestioni di M. Bertozzi, Tho-


mas Hobbes. L’enigma del Leviatano (Bovolenta, Ferrara 1983), rist. Un’ana-
lisi della storia delle immagini del Leviathan, «Storicamente», 3 (2007).

57
natural, for whose protection and defence it was intended;
così sdoganando il volto demoniaco del mostro, cui pu-
re continua ad applicarsi la citazione biblica iscritta nel
frontespizio in questione: Non est potestas super terram
quae comparetur ei, Iob. 41.24. A differenza dal disegno
originale di Hollar, che effigiava il futuro re Carlo II, la
stampata ha un’inquietante somiglianza con il Lord
Protettore, Oliver Cromwell. A ogni buon conto il Levia-
tano, animale marino esaltato nel medesimo anno del-
l’Atto di Navigazione, pilastro dell’imperialismo navale
inglese, è quel mortal god to which we owe, under the im-
mortal God, our peace and defence (L XVIII). Sempre nel
1651 l’incisione che precede la terza parte della traduzio-
ne inglese del De Cive raffigura Carlo I con bello traccia-
to sul collo il segno del taglio. La panoplia allegorica è
servita completa.
La sovranità lockiana è una versione leviatanica ad-
dolcita, spoglia di orpelli figurativi, il cui liberalismo è
offerto, a pari titolo, dal sistema di garanzie e dalla so-
stanziosa definizione della proprietà-lavoro che radica
nell’appropriazione della natura l’individualismo pos-
sessivo di Hobbes. Senza il Locke filtrato nell’Émile non
si capirebbe lo hobbisme le plus parfait di Rousseau. Con
il Ginevrino abbiamo la versione arcadica della sovrani-
tà, che tiene conto dell’irriducibilità dell’individuo, del-
l’uomo di cuore e di natura, all’assolutezza del patto so-
ciale che confisca (e poi restituisce) ogni proprietà e di-
ritto nella volonté générale: ma come ne tiene conto?
Rendendo possibile in ogni attimo l’esodo, l’esilio del
singolo dalla società, permettendo in sottrazione alla
nuova associazione quella che è la regola del virtuoso
nell’associazione ingiusta, però in nessun caso avallan-
do un diritto di resistenza. Anzi, la volonté générale è

58
contrapposta alla volonté de tous, che poi altro non è che
il pluralismo liberale. Passione dell’unità: arcadica, per-
ché collegata a un dato incoercibile di natura che non è
hobbesiano (essendo calvinisticamente assillato, il sag-
gio ateo di Malmesbury, dalla natura lapsa e dalla dottri-
na del peccato originario), arcadica nell’incipiente affla-
to neoclassico che toccherà ai giacobini lasciar sboccia-
re appieno.

Passiamo ai contenuti. La chiave di volta del discorso


sovrano è l’irresistibilità del potere. Secondario ne è il de-
tentore (il terzo pattizio in Hobbes, monarca assoluto o
dittatore, il popolo autocontrattante in Rousseau, il rule
of law in Locke o in Kant), l’importante è che ci sia rappre-
sentazione (con modalità svariate di rappresentanza) e
che non persista diritto di resistenza. Si tratta di un discor-
so, di un raddoppio dello stato di fatto in termini teologi-
ci o di un’ideologia giuridica che aiuta la repressione del-
la resistenza con il rifiuto del diritto corrispondente fa-
vorendo la concentrazione tendenziale del potere con la
proclamata indivisibilità della volontà generale. La prati-
ca assolutista è duplicata da una filosofia politica, il tenta-
tivo di regolamentare o espungere il conflitto si esprime
in una sanzione teorica della sedizione (Hobbes) o della
frammentazione della volonté de tous (Rousseau). Qui
conta l’uso degli interpreti non autorizzati dei filosofi: la
persecuzione delle sette millenariste da parte di Crom-
well e poi nella Restaurazione, il divieto di organizzazio-
ne sindacale già nella Grande Révolution (legge Le Cha-
pelier, 1791). Il Tutto è l’universale, la Parte è sovversio-
ne, l’Uno rende Dio, il molteplice è la disunione del
diaballein, il mettere zizzania, il calunniare che è nativo
del diábolos. La pluralità anarchica di Behemoth against

59
Leviathan, della multitudo, la spregevole racaille, il mob
(mobile vulgus), irrequieta idra dalle molte teste.
In compiuta coerenza la temporalità specifica della
costituzione del patto in Hobbes è l’istantaneità dell’eter-
no, l’analogia con il fiat creatore di Dio: Lastly, the pacts
and covenants, by which the parts of this body politic were at
first made, set together, and united, resemble that fiat, or the
Let us make man, pronounced by God in the Creation (L, in-
troduzione). Abbiamo visto come in Rousseau la volonté
générale porti il segno del nunc stans e del toujours verso la
fluttuante reversibilità delle volontés particuliéres e della
manipolabile maggioranza della volonté de tous. Non po-
trebbe esserci contrasto più netto al pluriverso temporale
lucreziano di Machiavelli e al suo protagonismo plebeo.
L’Uno richiede il fiat e il toujours, la dissoluta multitudo è
policronica e poliritmica. La «soglia» machiavelliana ac-
quista ora una bella pregnanza profetica!
Il discorso si raffina passando, già in Hobbes, dal-
l’insostenibile isolamento del monarca ereditario alla
legittimazione della dittatura senza fondamenti, poi al-
l’assolutezza democratica senza fazioni di Rousseau, al-
l’equilibrio dei poteri nello Stato di diritto kantiano alias
monarchia costituzionale, infine allo Stato etico hege-
liano, che recupera l’individualità corporea ereditaria
del monarca. Varianti dell’Uno teologico-sovrano, cui si
fa divieto di ogni reale resistenza: in punta di diritto per
l’astrattezza kantiana dell’intelletto, Verstand, in pro-
spettiva per la ragione, Vernunft, hegeliana, dove il lavo-
ro del negativo perfeziona il dominio immanente dello
Spirito oggettivo sugli elementi in cui di volta in volta si
incarna per contrasto. In Hegel, a differenza da Hobbes
di cui pure è l’autentico erede, il vagabondo non è più
frustato e messo al lavoro in fabbrica o ai remi sulla ga-

60
lera, ma preservato e valorizzato come lavoratore pro-
duttivo fordista e più tardi auto-imprenditore postfordi-
sta, i predicatori sovversivi non sono più impiccati ma
fagocitati e trascinati nella processione mondana di
Dio. Ogni particolare è sussunto dialetticamente nel-
l’Universale.
Armonia e progresso sono il risvolto sociale del di-
scorso sovrano, che si snoda in concomitanza con la ri-
voluzione industriale e la riforma democratica e libera-
le dello Stato a partire dalla metà del XVIII secolo. Su-
perfluo rammemorare come ciò si articoli nei classici
della filosofia2 (anticipati pragmaticamente da Fergu-
son, Smith, Turgot e Condorcet), interessante regi-
strarne la piatta ricaduta nel discorso politico francese
– sia borghese che socialista –, perché è dentro di esso,
con un consapevole retroterra di sinistra hegeliana,
che si formano le categorie marxiane, in primis quella
di rivoluzione.

Un passo indietro. Cosa si stacca e oppone in quel ci-


clo temporale al discorso sovrano, che è discorso dell’U-
2. Per la bibliografia: I. Kant, Kleinere Schriften zur Geschichtsphilosophie,
Ethik und Politik, (revisione di K. Vorländer, Leipzig 1913), tr. it. Scritti po-
litici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956 e 1965; i §§ 83-84
della Kritik der Urteilskraft (Berlin, Akademie-Ausgabe V, 1913, tr. it. Criti-
ca del Giudizio, Bari 1997, pp. 542-557); G.W.F. Hegel, Die Phänomenolo-
gie des Geistes (1807), in Gesammelte Werke, B. IX, a cura di W. Bonespien
e R. Heede, Hamburg 1980, tr. it. Fenomenologia dello Spirito, Rusconi,
Milano 1995, specialmente pp. 68-69, 84-89, 484-485, 1064-1065;
Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821), §§ 196-201, tr. it. Lineamenti
di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1913, rist. 1965, pp. 175-178. Nel primo
la sistematica repressione delle inclinazioni sensibili e delle pretese di fe-
licità a favore di imperativi universali per astrazione, nel secondo la po-
tenza ascetica del negativo per staccare ogni accidente dal suo vincolo vi-
vente aprono la strada, nel segno del progresso, alla disciplina fordista e
al regno postfordista dei codici immateriali e del riconoscimento subal-
terno della relazionalità auto-imprenditoriale.

61
no indiviso e della non-resistenza? Spicca in prima li-
nea la solitaria battaglia di Étienne de la Boétie nel Con-
tr’Un3, la sua condanna della servitù volontaria come pa-
tologia della sovranità. Egli denuncia in anticipo l’auto-
ma-aggregato del frontespizio hobbesiano: da dove ha
potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli ave-
te prestati voi? come può avere tante mani per prender-
vi se non è da voi che le ha ricevute? e i piedi con i quali
calpesta le vostre città non sono forse i vostri? I piccoli
uomini, che fanno la forza del mostro, ritirino il loro de-
voto ossequio e il tiranno crollerà da sé. Natura è libertà,
innaturale è la schiavitù eppure vi ci si assuefa per catti-
va educazione, mentre l’alimentano paura, superstizio-
ne e soprattutto la catena di favori e complicità che scen-
de a cascata dal tiranno e dalla sua cerchia ristretta. Il
potere non è un oggetto difeso dalle alabarde, bensì una
catena, un legame gommoso che elude i veri interessi e
le passioni sfruttando invece la propensione spontanea
alla servitù, una distorsione del desiderio che subentra
al fallimento nel desiderare la libertà, la ricerca ostinata
di sicurezza e protezione, il fascino stregonesco «del so-
lo nome di uno». Precoce avvertimento biopolitico.
Viene poi l’antibarocco Spinoza, erede del realismo e
della dinamica tumultuaria machiavelliana, con una
teologia del Deus sive Natura e della Causa intransitiva
immanente alla concatenatio del mondo, che inaugura
l’apertura illuministica, culminante con la Rivoluzione
francese – un radical enlightenment che ha poco a che fa-
re con il liberalismo di Locke, Voltaire e Turgot. La sua

3. Étienne de la Boétie (1553 ?), Discorso sulla servitù volontaria, tr. it. Jaca
Book, Milano 1979. Affidato in punto di morte a Montaigne e piratato da-
gli ugonotti nel 1574. Ripreso da Marat, Teste, l’amico di Buonarroti, e
Landauer.

62
multitudo, che esprime modalmente la potenza della So-
stanza, è una risposta alla denigrazione hobbesiana del-
la dissolute multitude quanto riempimento positivo del ri-
fiuto laboétiano dell’Uno. Moltitudine (non popolo) tra-
versata dal conflitto machiavelliano degli umori,
legittimati nella misura in cui resta sempre vigente la
legge naturale, lo jus equivalente alla potenza e all’insop-
primibilità dei conatus plurali. Donde la flessibilità e fun-
zionalità dei patti agli stati effettuali, l’inutilità di una teo-
ria del contratto sociale e l’assenza di qualsiasi teodicea
che non sia il riconoscimento che tutto sta in ordine così
come sta. Il fattore dinamico resta l’indignatio, stavolta
con netta prevalenza dell’umore sovversivo, istanza co-
stituente non solo per la democrazia ma per ogni asso-
ciazione collettiva. Questo il dato teorico saliente, sebbe-
ne poi le preferenze personali di Spinoza vadano a un fe-
deralismo liberale dei ceti borghesi emergenti, versione
moderata delle istanze democratiche affiorate nei dibat-
titi di Putney durante la Rivoluzione inglese4.

Les citoyens timides, les hommes qui aiment leur repos, les heu-
reux du siècle, les sangsues de l'Etat et tous les fripons qui vivent
des abus publics ne redoutent rien tant que les émeutes populai-
res ; elles tendent à détruire leur bonheur en amenant un nouvel
ordre de choses.

J.-P. Marat, Protestation contre la loi martiale, «L’ami du peuple»


(1791)

Ah, le sanguisughe, i buoni borghesi che amano il


loro riposo: disposti ad amare la Repubblica e l’ordine
abusivo, atterriti dalle sommosse che pure sono la ga-
ranzia della Repubblica!

4. Cfr. A. Illuminati, Spinoza atlantico, Mimesis, Milano 2008.

63
La Rivoluzione francese, che infrange e conferma la
sovranità ancien régime, mantiene intimamente le con-
traddizioni russoiane dentro un doppio registro: logica
dell’unità (la Nazione in luogo del Monarca, l’Uno deca-
pitato) e pluralità dei tumulti. Mito repubblicano e pra-
tica insorgente, indivisibilità della volontà generale e
agitazione dei club, Legge e picche. Un’antinomia desti-
nata a rigenerarsi in tutte le rivoluzioni seguenti, con il
primo membro aureolato da provvidenziale necessità,
il secondo esplosivo secondo una stridente contingen-
za, riuscita o fallimento di incontri e scontri, perpetua
rimessa in discussione degli equilibri. Metafisica dell’u-
nità della Legge è la Vertu giacobina (coniugata al Terro-
re, dio mio era inevitabile): con il che la storia lo è ormai
di masse e cambia di segno la laica virtù del principe
machiavelliano (non la crudeltà che l’accompagna!), si
trasferisce dal corpo dell’attore politico allo Stato astrat-
to. Il taglio spettacolare della testa del re si rifrange nel-
l’applicazione dell’anonima ghigliottina ai nemici della
Virtù. I Levellers e Spinoza avevano giustamente diffida-
to di tali soluzioni sbrigative e Winstanley aveva irriso a
chi pretendeva di scalzare l’albero della tirannia tron-
cando qualche fronda. Stiamo al cuore della sovranità e
il ciclo delle metonimie si chiude con Napoleone che si
autoimpone sulla testa una corona. Proprio adesso He-
gel vede passare sotto le sue finestre lo Spirito del mon-
do a cavallo. La storia ha fatto la sua provvista di Senso.
Curioso che nella fase della Convenzione e poi nel-
l’intermezzo direttoriale «egizio» e nel pomposo neo-
classicismo imperiale tornino anche le vesti classiche:
David abbiglia nei quadri i giacobini con i panni antichi
(Spinoza e Rousseau avevano tramandato la lezione
machiavelliana) e li fa indossare ai figuranti nelle feste

64
civiche, prima di virare dai costumi repubblicani a quel-
li cesariani per Napoleone. Le rivoluzioni giocano all’i-
mitazione, inscenano il risveglio dei morti (la marxiana
Totenerweckung), si propongono di restaurare impreci-
sate età dell’oro e citano il passato vintage: la moda è so-
rella della morte per Leopardi e della storia per Benja-
min. Quanto faceva Machiavelli per Roma repubblica-
na, ora lo si fa a livello di mezzi di comunicazione di
massa e sono citazioni intrise di sangue e di virtù civica
e bellica. Festa, corteo e iconografia interrompono il
corso della storia sacra alla Bossuet e del pacifico pro-
gresso economico di stampo fisiocratico o turgotiano.
Si cita un’origine remota come si calendarizza un nuo-
vo inizio. L’anno I della Repubblica. I mesi si sdraiano
sulla natura: Ventoso, Pratile, Germinale…Ancora la
Commune de 1871 vorrebbe replicare quella del 1793 e a
ragione Courbet in una riunione del Consiglio, il 1 mag-
gio 1871, si scaglia contro l’applicazione dei vecchi ter-
mini à notre Révolution. La ripetizione scatena l’effetto
farsesco su cui si è soffermato Marx nel 18 Brumaio di
Luigi Bonaparte auspicando (illusoriamente) che la fu-
tura rivoluzione proletaria avrebbe saputo fare a meno
di siffatti travestimenti. Non è facile condividere quella
speranza, che coronava una filosofia progressista con la
sospensione delle contraddizioni, l’amministrazione
neutra dell’associazione generale.
Tanto varrebbe dire che l’epoca dei tumulti si è chiu-
sa perché è subentrata la grande rivoluzione risolutiva,
che ha cancellato ogni andirivieni nel tempo, anzi l’uni-
fica facendolo svanire nella sovranità totalmente diffu-
sa. Kojève aveva le sue ragioni a ipotizzare una fine
marx-hegeliana della storia. Per fortuna Marx si smenti-
sce, abbraccia con la Comune di Parigi l’effrazione del-

65
l’Uno-macchina statuale, rimette in gioco la politica,
l’insurrezione che devia ogni direzionalità, dimentica
gli appuntamenti con la Storia e ridimensiona l’Evento
a incontro che fa o non fa presa. Per quel che resta nella
trama della sovranità, il suo concetto di rivoluzione con-
tinua a suscitare difficoltà: questioni che sarà la pratica
a dirimere ma su cui è degno riflettere.

66
Il ritorno degli dèi

Il vantaggio più grande del politeismo. Che il singolo si eriga il suo


proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi di-
ritti – questa fino a oggi è stata considerata come la più mostruo-
sa di tutte le umane aberrazioni e come idolatria in sé: in realtà
quei pochi che osarono ciò, hanno sempre sentito la necessità di
una apologia davanti a se stessi, ed essa di solito s’esprimeva in
questi termini: «Non io! Non io! Ma un Dio attraverso di me!».
Fu nell’arte e nella forza mirabili di plasmare dèi – il politeismo
– che questo istinto poté disgravarsi, purificarsi, giungere a per-
fezione, nobilitarsi. […] Al di sopra e fuori di sé, in un lontano ol-
tremondo, si poteva vedere una molteplicità di norme: un dio non
era la negazione o la bestemmia di un altro dio! Qui per la prima
volta furono permessi individui, qui per la prima volta si onorò il
diritto degli individui. L’inventare dèi, eroi e superuomini di
ogni specie […] costituì l’inestimabile propedeutica per la giusti-
ficazione dell’egoismo e della sovranità del singolo: la libertà che
si accordava al dio contro gli dèi, la si attribuì infine a se stessi
contro leggi e costumi e vicini. Il monoteismo, invece, questa ri-
gida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e unico –
la fede quindi in un dio normativo, accanto al quale non ci sono
che dèi falsi e bugiardi – costituì forse il pericolo più grande nel
corso dell’umanità fino a oggi […] quell’arresto prematuro, già da
un pezzo raggiunto, per quel che c’è dato sapere, dalla maggior
parte delle altre specie animali: in quanto esse tutte credono in
un animale unico, normativo e ideale della loro specie e hanno
definitivamente tradotto in carne e sangue l’eticità del costume.
Nel politeismo era come preformata la libertà di spirito e la mul-
tiforme spiritualità dell’uomo: la forza di crearsi occhi nuovi e
personali, sempre più nuovi e personali: cosicché per l’uomo

67
soltanto, in mezzo a tutti gli animali, non esistono orizzonti e
prospettive eterne.

F. Nietzsche, La gaia scienza § 143

Prendiamola alla lontana, è un metodo efficace. Il poli-


teismo declina con la scomparsa di ogni residuo equili-
brio, con la dinastia degli Antonini, fra imperatore e ce-
to senatorio e l’emergere di un’ideologia autocratica del-
l’Uno (Mitra poi Cristo)1, riacquista forza, in teologia
politica, con il declino del monoteismo nell’ultima epi-
fania: la marcia hegeliana di Dio sulla terra2. Nietzsche,
con la svalutazione dello storicismo e della verità neu-
tra, istruisce una teologia binaria di Dioniso e Apollo
(ternaria, mantenendoci Cristo); privilegia comunque,
nel suo elogio del polimorfismo, la pratica della sogget-
tivazione. Max Weber pone il politeismo di valori incon-
ciliabili a cornice dell’agire politico appassionato, po-
liarchia che smista etica dell’intenzione e della respon-
sabilità. Con toni meno enfatici, Foucault e Althusser
hanno inserito una zeppa nel flusso facendo saltare la
linearità unitaria del Dio-storia. Al divino incarnato

1. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Bari 1996, pp. 306 sgg. Plotino
sarà la più alta espressione filosofica del primato dell’Uno, cui si attribui-
sce il significativo epiteto di basileus, re (Enneadi V, 5, 3), culmine di un or-
dine necessario del mondo, che non si lascia alterare dalla casualità epi-
curea, dalle «vane deviazioni (parenklísesis kenaîs)» degli atomi (ib. III 1,
16). Nella ripresa rinascimentale la verticalità di Plotino ispirerà Marsilio
Ficino, ideologo dei Medici, il clinamen improgrammabile di Lucrezio il
repubblicano Machiavelli.
2. Ben commentata, con accenti polemici verso la ricezione socialdemo-
cratica, da F. Engels: «Secondo la concezione filosofica, lo Stato è la «rea-
lizzazione dell’Idea», ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio
filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia eterna si realizza o si
deve realizzare. Di qui una superstiziosa idolatria dello Stato e di tutto ciò
che ha relazione con lo Stato», 1891, prefazione agli scritti marxiani sulla
Comune di Parigi.

68
succede una politica profana. Pro-fano, davanti e fuori
dal tempio, dal fanum, non da sinagoga, chiesa o mo-
schea. Vocabolo in origine pagano e che tale dovrebbe
conservarsi, perché l’irradiazione del tempio monotei-
stico non concede reale estraneità ma solo laicizzazio-
ne, trascrizione degli effetti soprannaturali sulla con-
dotta civile, trasferimento dall’Uno divino all’Uno del
potere. Una pseudo-immanenza peggiore della tra-
scendenza, nel tragitto scalare che va dal sacerdozio alla
sovranità alla polizia.
La secolarizzazione della storia sacra non compren-
de soltanto lo spostamento degli attributi divini su Ori-
gine, Senso e Fine, necessità del corso storico, coinci-
denza hegeliana di razionale e reale, ma anche la misti-
ca dell’interruzione messianica e dello svuotamento:
per quanto per-versa, un’identica logica monoteistica al-
lignava, per deriva neoplatonica, nella Gnosi e nella
Kabbalah. Il blochiano spirito dell’utopia, la disconti-
nuità storica e il profano benjaminiano si sporgono sul
Telos senza toccarlo: il Regno di Dio, nel Frammento teo-
logico-politico, non è suo scopo (Ziel = Telos) bensì termi-
ne, limite (Ende), il Profano è approssimazione al Re-
gno messianico, aspirazione a tramontare nella felicità,
restitutio in integrum mediante caducità e nichilismo.
Siamo qui agli estremi del monoteismo (come da ulti-
mo in Agamben e Nancy), nondimeno ancora nel suo
cerchio ipnotico. La seduzione del tramonto sconta un
ethos cristiano, chiude con nostalgia un decorso unifica-
to. D’accordo, partiamo di lì, ma ormai ne siamo fuori.
Machiavelli, Nietzsche e Weber sono i convitati as-
senti dal convito teologico-politico schmittiano allestito
intorno alla decisione e allo stato d’eccezione. Schmitt
si muove fra due poli, quello teologico-liberale della po-

69
testas ordinata (in seguito stabilizzato e corretto con una
ripresa dell’istituzionalismo) e quello decisionista della
potestas absoluta, precipitato attraverso Duns Scoto e
Ockham in Hobbes. Il suo partito preso è trovare un de-
cisore precostituito, esattamente il problema opposto a
quello machiavelliano, perché per il Fiorentino il deci-
sore (il principe nuovo) si staglia sullo sfondo di nessi
ancora indeterminati che precedono qualsiasi occasio-
ne e dalla sua gestione sono risolti, non è metafora di
Dio creatore ex nihilo. La definizione spinoziana della
potentia come intransitiva e la sua indifferenza alla per-
sonalizzazione del comando ereditano quella postura
machiavelliana e anti-teologica. O, meglio, teologico-
politeista, che fa fuori in cielo e in terra esclusività e tra-
scendenza del potere.
Riprendiamo qui un passo di Max Weber a lungo pre-
so per metaforico. Egli, dopo aver messo al primo posto
fra le virtù dell’uomo politico la passione come Sachlich-
keit, dedizione appassionata a una causa, Dio o diavolo
che sia, passione in cui si intrecciano etica dei principi e
della responsabilità, e aver richiamato giustappunto Ma-
chiavelli, che dichiarava preferibile la salvezza della pa-
tria a quella dell’anima, insiste sul fatto che noi apparte-
niamo contemporaneamente a diversi ordini di vita,
soggetti a leggi diverse fra loro e cui dobbiamo sacrifica-
re come i Greci ai loro dèi, pur sapendo che spesso erano
reciprocamente incompatibili. In tal senso non esiste un
monopolio della decisione nello stato d’eccezione, piut-
tosto un conflitto ricorsivo in cui l’apparato statale può di
volta in volta schierarsi o arbitrare, un insopprimibile
Polytheismus der Werte3. Qui, come nella descrizione del-

3. L’espressione, liberamente desunta da J. Stuart Mill, è adoperata da

70
la democrazia comunale come potere in sostanza «ille-
gittimo»4, eccedente dal basso per coniuratio ogni ordi-
namento, Weber apre a una dimensione più problemati-
ca del suo pensiero. Dal disincanto del mondo e dalla
neutralizzazione burocratica rispunta il carisma in con-
flittuale pluralità. La chiamata (Beruf) si fa parte contro la
totalità, spartisce i chiamati in un dissidio infondabile.
Chi vive nel mondo (ricordiamo dell’esergo nietzschia-
no la distanza fra uomo mobile e animale istintualmen-
te infisso nella nicchia dell’eterno) deve scegliere quali di
questi dèi vuole o deve servire e si allontana sempre più
dal Dio unico. Nel saggio Due vie del 1916 il politeismo
sta sotto il segno occasionale dell’infatuazione bellica di
potenza, l’onnipotente Macht-Pragma, ma a sconfitta av-
venuta riemerge una dialettica più cumulativa della re-
sponsabilità e dell’onore del politico vs la fedeltà esecutiva
del burocrate sine ira et studio, pertanto gli si addice il
possedere spirito di parte, ira et studium. Ciò che è trasfe-
ribile alla lotta di classe, come dimostrò il suo allievo Lu-
kács in Storia e coscienza di classe, tanto influente sul pri-
mo operaismo italiano.
È quel politeismo dei valori, ispirato a Machiavelli e
Nietzsche, a indurre per contraccolpo l’enfasi schmit-
tiana sulla teologia politica, la piegatura in senso reazio-
nario di un’aporia già esistente in Weber, ispiratore del-

Weber in vari luoghi, di recente antologizzati da F. Ghia in Max Weber, Il


politeismo dei valori, Morcelliana, Brescia 2010. Il testo essenziale di rife-
rimento è M. Weber, Politik als Beruf, Duncker & Humblot, München-
Leipzig 1919, tr. it. in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Tori-
no 1948, rist. 1966, pp. 45 sgg.
4. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen 1922, neu hrsg.
von J. Winckelmann, 1956, Zweiter Teil, Kap. IX, 7.Abschn. (Die nichlegi-
time Herrschaft), pp. 727 sgg.; tr. it. Economia e società, Comunità, Milano
1961, vol. II, pp. 541 sgg.

71
l’art. 48 della Costituzione di Weimar sui poteri presi-
denziali. L’autonomia del politico è l’estremo sgancia-
mento dal polimorfismo biopolitico: la proiezione teo-
logica ne è l’ultima de-naturalizzazione.

A conferma dell’iscrizione schmittiana nella filiera


monoteista sta il peso del peccato originario a giustifi-
cazione della labilità creaturale che impone il ricorso al-
l’arbitraria decisione sovrana. Una corrente carsica che
va da Agostino a Hobbes ed esce in superficie con Do-
noso Cortés, tanto caro al giurista di Plettenberg. La
triade perfetta invalidante la legge di natura è: creazio-
ne, caduta peccaminosa, distruttibilità del creato. Basti
mettere accanto – per tornare all’epitome metafisica del
politico – la ferma convinzione machiavelliana nell’e-
ternità del mondo, che insomma nullam rem e nilo gigni
divinitus umquam (Lucrezio, De rerum natura I, 150),
con il diktat hobbesiano nell’appendice latina al Levia-
than, secondo cui Dio ha creato l’universo ex nihilo, non
ut Aristoteles, ex materia praesistente e alla fine butterà al-
l’aria tutto, per cui caelum et terra renovabuntur qua for-
ma et specie vult Deus5, dunque potrà distruggerlo in
ogni momento, invalidando la legge naturale e facendo-
ne malleabile argilla nel processo di autorizzazione e
delega pattizia al sovrano. Credenti in una religione del-
l’ordine (Cortés), atei devoti (Hobbes) e cinici cultori
della decisione (Schmitt) vogliono trattenere il caos con
totale indifferenza alla natura del katechon (nessuno è
meno legittimista di loro), pongono un problema reale

5. Th. Hobbes, Opera philosophica quae latine scripsit omnia, ed. W. Mole-
sworth, apud Longman Brown Green et Longman, Londini 1839-1845,
rist. fototipica, Aalen, Scientia, 1961 III, p. 513; tr. it in Scritti teologici, a cu-
ra di G. Invernizzi e A. Lupoli, Franco Angeli, Milano 1988, p. 207.

72
(il rattrappirsi della dinamica conflittuale moltitudina-
ria in regole provvisorie), tendono a risolverlo con una
gigantesca riduzione di complessità dai tratti a volte da-
tati, passibile però di riciclo in governance coercitiva del
comune, in contenimento elastico della democrazia. Il
potere pastorale è una tecnologia interna alla sovranità
monocratica adattabile alla flessibilità autoritaria post-
fordista: ordine e pensiero unico foggiato dal mercato
svelano la complementarità di sovranismo e liberali-
smo, disciplina e controllo6. Ben prima di Foucault, il
giovane Leo Strauss aveva intuito che il politico schmit-
tiano era un liberalismo di segno rovesciato7.

La Rivoluzione come Idealtypus – altra cosa sono


quelle effettive – si trascina dietro una traccia della Re-
denzione in cui culminava il primo segmento della sto-
ria. La sua idea nasce sul terreno della sovranità che le
offre il bersaglio della rivolta, il luogo da occupare per il
ricambio di potere, il modello di strutturazione interna
simmetrico e antagonista. Sarà la New Model Army per
i rivoluzionari inglesi e la dittatura poggiata sul Long
Parliament per Cromwell – in opposizione e a perfezio-
namento dell’assolutismo Stuart –, l’accentramento e il
6. Fondamentali al riguardo i corsi di M. Foucault al Collège de France
del 1977-1978 (Sécurité, territoire, population) e del 1978-1979 (Naissance
de la biopolitique), tr. it. Feltrinelli, Milano 2005. In termini tecnici filoso-
fici, «lo Stato postfordista assicura una sorta di surrettizia realtà politico-
militare a quell’ens rationis che l’Universale, come tale, è. La democrazia
rappresentativa e gli apparati amministrativi operano la sostituzione si-
stematica del Comune, individuabile ma non-predicabile, con l’Univer-
sale, predicabile ma non-individuabile», P. Virno, E così via, all’infinito,
Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 207.
7. Anmerkungen zu Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, «Archiv für
Sozialwissenschaften und Sozialpolitik», Tübingen, vol. 67, n. 6, Au-
gust-September 1932, pp. 732-749; tr. it. in L. Strauss, Gerusalemme e Ate-
ne, Einaudi, Torino 1998, pp. 379 sgg.

73
regime di salute pubblica giacobino, a ripresa dell’asso-
lutismo di Luigi XIV infiacchito dai successori – ripresa
convalidata dal Direttorio e dall’Impero. Per la Rivolu-
zione russa sarebbe sviante un’equazione fra dittatura
del proletariato e autocrazia zarista, mentre il dato rile-
vante è la funzione disciplinare del partito ricalcata sul-
l’organizzazione fordista del lavoro, cioè il corrispettivo
della burocratizzazione e gestione imprenditoriale del-
lo Stato moderno (Weber). Abbiamo pertanto uno Sta-
to-fabbrica dentro un’economia di piano, ultima e sfor-
tunata epifania della sovranità che purtroppo ha posto
un’ipoteca gravosa sulla progettualità rivoluzionaria
dell’intero XX secolo.
Sul piano concettuale, il discredito dei modelli rivo-
luzionari (di come sono state idealizzate le rivoluzioni
concrete) comporta una decostruzione dell’apparato in-
terpretativo filosofico: Origine, Senso, Fine. Non stia-
mo qui a rivangare le critiche althusseriane miranti a
suggerire il dispositivo dell’incontro contingente che si
fa necessario (fino a revoca del fatto compiuto) solo do-
po aver fatto presa. Una svolta epistemologica del gene-
re costringe a riposizionare altri assunti che pure conte-
stavano la modellistica rivoluzionaria classica. Non ne
esce indenne neppure l’opposizione fra storia dei vinci-
tori e dei vinti, perché entrambe condividenti un mede-
simo itinerario (rispettivamente liscio o increspato), l’u-
na il concavo dell’altro convesso. Perfino la distinzione
fra rivoluzione ed esodo si rivela problematica, data l’in-
tercambiabilità delle auto-definizioni (lampante nella
Rivoluzione inglese per la fraseologia esodale delle
componenti più radicali): negli anni Trenta era corrente
il paragone fra Mosè e Lenin e fra la Gpu e la tribù dei
Leviti, con il cui aiuto il profeta aveva disperso i retro-

74
gradi adoratori del vitello d’oro. Non è con un muta-
mento lessicale che aggiriamo il problema.
Stiamo entrando in una nuova Età dei Tumulti, degli
Umori irriducibili e irrappresentabili. Come interpre-
tarla? Con intelligenza Badiou distingue fasi rivoluzio-
narie e «intervallari», in cui le sommosse tengono aper-
to il discorso, testimoniano le contraddizioni e prepara-
no gli elementi della rivoluzione, in primo luogo il
partito e una strategia di cambiamento8. Esempio: la fa-
se che va dal 1815 al 1905-1917. Saremmo propensi piut-
tosto a studiare la forma-tumulto in sé, non quale pre-
parazione e deviazione rispetto a un ulteriore (la rivolu-
zione), sostituendo quindi all’alternanza metafisica fra
periodi rivoluzionari e intervallari quella storica tra fasi
di potere illegittimo e di legittimazione sovrana. Le pri-
me riconoscono la legittimità del tumulto, le seconde lo
esorcizzano. Le prime si fondano e si consolidano sullo
scatenarsi dei tumulti, le seconde sulla loro soppressio-
ne. Più complesso è anche il meccanismo di scambio
delle parti fra dominatori e dominati, poiché ne va della
stessa definizione del ruolo-dominio e del posto del ne-
mico. La turbolenta vita comunale e la teorizzazione
machiavelliana del conflitto pongono fine all’assetto
feudale e alla dottrina scolastica (tomista) del summum
bonum in un ordinamento plurale gerarchico. Sgom-
brano la strada allo Stato moderno e alla sovranità, ma
ancora non ne partecipano, sono un interludio illegitti-
mo che non aspira al riconoscimento, per esempio alla
Ragion di Stato e alle sue fantasmagorie.
La teoria antimoderna del conflitto in Machiavelli
potrebbe suggerire delle indicazioni utili per la filosofia
8. Seminario del 19 gennaio 2011 a commento delle insurrezioni magh-
rebine, reperibile on line. Distinzione affatto consueta, alla Camus.

75
contemporanea, proprio laddove quest’ultima si misu-
ra con il problema della crisi della sovranità. Crisi che
non è fine, quanto piuttosto nuova snodatura del co-
mando politico – governance – e della produzione giuri-
dica – frammentazione giuridica e pluralità degli ordi-
namenti9. La sovranità entra in crisi, quando i processi
di globalizzazione diventano diffusi e radicali dilatan-
do, attraverso la generalizzazione dei processi econo-
mici e comunicativi, i confini territoriali. Ciò non signi-
fica che si abbattano in modo immediato le frontiere,
piuttosto gli spazi del divieto e le forme di chiusura ter-
ritoriali si articolano in modo differente. Le tradizionali
fonti giuridiche di autorità vengono modificate e molti-
plicate, dal momento che la produzione di diritto non è
più affidata esclusivamente all’apparato legislativo in ri-
ferimento alla fonte costituzionale, ma è piuttosto rego-
lata da una serie di micro o macro-realtà che eccedono
la dimensione statuale (regioni, multinazionali, web).
Abbiamo una trasformazione della forma-Stato ovvero
una modificazione strutturale del rapporto interno ai
poteri statuali. Il rapporto tra individuo e autorità o tra
società e Stato si trasmuta e le forme tradizionali della
rappresentanza subiscono la stessa crisi cui è soggetta
la sovranità. Globalizzazione indica sia lo spazio unico
e comune del mondo, sottoposto a dilatazione dei confi-
ni economico-culturali, che la riproduzione delle diffe-
renze, soprattutto temporali, tra storie locali, spesso di-
stanti l’una dall’altra.
Le tematiche machiavelliane rivelerebbero allora la

9. Per un riferimento sommario P. Grossi, Prima lezione di diritto, Later-


za, Roma-Bari 2007; S. Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal
Medioevo all’età globale, Mondadori, Milano 2008; G. Teubner (a cura di),
Global Law without a State, Dartmouth Publishing, Aldershot 1997.

76
loro proficuità, non tanto perché nell’epoca post-statua-
le si tornerebbe a una sorta di Medioevo sul piano delle
strutture politiche e giuridiche – ipotesi suggestiva, so-
prattutto per quanto riguarda il versante economico-ca-
pitalistico, in cui elementi di nuova accumulazione ori-
ginaria sono commisti a forme più antiche di gestione
del potere e dell’economia (rifeudalizzazione) – ma pro-
prio per la prospettiva metodologica e l’indicazione po-
litica di massima che sollevano. Il Segretario fiorentino
invitava da un lato a pensare la concretezza e la materia-
lità del reale, dall’altro a rivalutare la storia, in un’ottica
in cui la memoria deve sopportare un certo grado di
oblio. In secondo luogo la storia, se l’eternità riguarda la
perpetuità del movimento e non del mondo – corpo co-
me gli altri sottoposto a corruzione –, comporta sempre
una pluralità di narrazioni diverse tra loro. Infine, dal
punto di vista del progetto politico e della strategia dis-
corsiva, l’orizzonte tracciabile a partire da Machiavelli
abbraccia il problema della democrazia in quanto prati-
ca di una molteplicità, che non ne garantisce una volta
per tutte la stabilità e la chiusura, essendo continua-
mente consegnata al rischio (o all’opportunità) del tu-
multo. Una politica aperta, esposta costantemente al
conflitto. Un autentico politeismo, mentre la governa-
mentalità offre pluralità e polimorfismo, dentro però
un dispositivo esclusivo di veridizione, quello del mer-
cato finanziarizzato.

Toutes les révolutions modernes ont abouti à un renfor-


cement de l'État (Camus). Le grandi rivoluzioni attraver-
sano prassi e teoria della sovranità legittima centraliz-
zata che si instaura, ogni volta mutando e rafforzando il
proprio assetto grazie a una generalizzazione del tu-

77
multo funzionale al primato sociale dell’Uno, al com-
pattamento del comando, dell’amministrazione e del-
l’accumulazione di capitale in Stati-Nazione egemonici
una volta liquidate le aspirazioni più estreme (Levellers,
sanculotti, vecchia guardia leniniana, banda maoista
dei 4). La legittimabilità delle rivoluzioni, sancita da
Kant, rende bene il loro inserimento ideale nell’ordine
sovrano. Del resto, esse vengono canonizzate post fac-
tum, festeggiate quando i loro effetti si sono compiuta-
mente sprigionati, anzi esauriti. Come per il sociali-
smo, il momento brutto della rivoluzione è quando vie-
ne realizzata.
Non meraviglia perciò che la crisi odierna della so-
vranità e il costituirsi di un assetto mondiale insieme
multipolare e multilivello, per un verso, rilanci nella go-
vernance elementi supplementari di mediazione che ri-
cordano il Medioevo (o almeno il bonum commune nella
versione della seconda Scolastica di Suárez, adattata già
agli Stati moderni e alla fondazione soggettiva della
proprietà), per l’altro sperimenti il ritorno di un ciclo in-
sorgente e l’emergenza di pratiche di potere illegittimo
che della fluida governance costituiscono il rovescio e
svolgono un loro discorso sul comune. In tal caso i tu-
multi non possono passare per embrioni di rivoluzioni,
ma vanno valutati nella loro specifica capacità di defini-
re una fase storica di esito imprevedibile non destinata
tuttavia a ripercorrere la consueta trafila: lotta sponta-
nea, rappresentanza, partito, conquista legittima(bile)
dello Stato esistente.
In primo piano balza non il perfezionamento rivolu-
zionario dell’Uno (con conseguente servitù volontaria),
ma la sua frattura che può declinarsi tanto come esodo
quanto nella versione comunarda, della rottura della

78
macchina statale. Al centro si colloca l’insorgenza oppo-
sta all’obbedienza, quindi pratiche (arcaicamente recupe-
rate come diritto) di resistenza versus l’irresistibilità della
legge, slittata da macchina disciplinare ad apparato di
controllo, normatività frammentata e incistata nel bios.
Contro le virtù della rassegnata obbedienza per hob-
besiana obbligazione o in cambio dei vantaggi dello Sta-
to sociale si leva non solo la constatazione che obbe-
dienza e rassegnazione non sono più virtù (ultimo eco
dell’antitesi neo-aristotelica medievale magnanimitas-
humilitas), ma la determinazione delle virtù della disob-
bedienza insorgente. Virtù moltitudinarie, non più del
Principe o della Nazione. Dovremmo, in luogo di rinne-
gare, rileggere la tematica della rivoluzione otto-nove-
centesca come Machiavelli e i giacobini facevano con
Roma. Tramandandola nell’imitazione-citazione e tra-
dendola nella sostanza. Non ci guidino Mnemósune, la
musa della memoria, né Prometeo, colui che calcola in
anticipo – i donatori di senso (immaginario) provenien-
te dal passato o dal futuro, origine e fine – piuttosto ci
traini l’immaginazione del e nel presente, la capacità di
narrazione costituente alternativa a ogni shock economy
dello stato d’eccezione, pretestuosa ricomposizione
delle categorie sovrane in via di dissoluzione, Leviatano
clownesco e occasionale.

Ai regimi di veridizione, flessibile o eccezionalista,


in cui si disintegra l’intenibile verità del sovrano si op-
pongono contro-condotte produttive di valori di parte.
Opposizioni modulari. Il politeismo della grande politi-
ca di Nietzsche e Weber si infiltra fin nel quotidiano mi-
nore. Che poi era la machiavelliana logica degli «omo-
ri» e del loro sfogarsi nell’intervallo laico fra l’ordine

79
pseudo-cristiano medievale e quello della sovranità ra-
zionale per contratto. Animata e pluriversa immanenza
fra due trascendenze dell’Uno, libera da ogni tentazio-
ne di miracolo divino o di stato secolare d’eccezione.
Riferisce Aristotele (De part. anim. A; 5, 645a 17) che
alcuni stranieri vollero visitare Eraclito. Avvicinandosi,
essi lo videro mentre si riscaldava a un forno. Si arresta-
rono sorpresi, soprattutto perché, scorgendoli esitanti,
egli li incoraggiò, invitandoli a entrare con queste paro-
le: «anche qui sono presenti gli dèi». Nei tumulti dei
precari, il cui soggiorno nell’indigenza è alquanto diver-
so da quello heideggeriano, si affollano gli dèi, non il
dio unico della Rivoluzione.

80
Insorgenze

Qu’est-ce qu’un homme révolté ? Un homme qui dit non. Mais


s'il refuse, il ne renonce pas : c'est aussi un homme qui dit oui,
dès son premier mouvement […] Je me révolte, donc nous som-
mes […] La révolte donne sans tarder sa force d’amour et refuse
sans délai l’injustice […] Son honneur est de ne rien calculer, de
tout distribuer à la vie présente et à ses frères vivants. La vraie gé-
nérosité envers l'avenir consiste à tout donner au présent.

A. Camus, L’homme révolté (1951), I e V

Buon profeta, Camus. Perciò cieco al presente e illumi-


nante per il futuro, incapace di solidarizzare sino in
fondo con le rivolte della sua Algeria, istruttivo su quel-
le maghrebine odierne, facendo

come quei che va di notte


Che porta il lume dietro e sé non giova,
Ma dopo sé fa le persone dotte (Purg. XXII, 67-69).

Assumiamone il fuoco sul presente, il dire di sì che espan-


de l’immediato verso il futuro invece di reprimerlo in vista
di una felicità dilazionata, il rifiuto del calcolo e dei fini ul-
timi. In un tumulto il no all’ingiustizia va di pari passo con
il sì amoroso alla vita propria e degli altri, plasma dal gesto
singolare il noi collettivo: «io mi rivolto, dunque noi sia-

81
mo». Scartiamo tutta la metafisica dell’assurdo, l’umane-
simo antitotalitario e teniamoci questa declinazione del-
l’attiva generositas spinoziana che tacita le sirene della pau-
ra e della speranza calcolante, rilancia l’indignatio e fa del-
la rivolta la forma superiore di vita transindividuale, il
ricongiungimento alle proprie potenze.

Cominciamo buttandoci nel mezzo delle cose, nelle


vicende di questa contingente stagione politica. Contin-
gente non vuol dire irrilevante perché oggi è così e doma-
ni cosà, al contrario contingente è rilevante perché solo
quanto oggi è così possiede un’essenza individuale ed è
materia di racconto esemplare. A causa della sua stessa
fugacità, che partecipa del comune più che dell’universale.
Verità effettuale della cosa, cui è degno andare drieto
(scrisse il Maestro). Sull’orizzonte si allineano in grande
mischio guerre, esodi, sommosse a intensità variabile,
precariato e declassamento. C’è un filo conduttore che li
accomuna? Una composizione a suo modo affine e con-
grua alla forma-tumulto? C’è un tratto specifico dei tu-
multi più recenti rispetto a quelli che si sono succeduti a
partire dalla fine del secolo scorso e che già discordavano
dalla dialettica novecentesca di sovranità e rivoluzione?

Antica è l’interdipendenza fra guerra e tumulto, sia


nel senso che il tumulto si trasformi in guerra civile,
stasis, sia che la guerra esterna sfoghi il tumulto, ne di-
rotti l’energia verso la conquista territoriale. Il primo
caso è quello che assilla la storiografia greca, intenta a
scrutare nella città divisa1 il rischio dello scioglimento

1. N. Loraux, La cité divisée, cit. Alla ribellione come protesta contro le dis-
eguaglianze (dià tò ánison he stasis) è consacrato l’intero libro V della Poli-
tica aristotelica.

82
del legame sociale (lue: dissensione, discordia, rivolu-
zione) e l’opportunità di un aggiustamento conciliato-
rio di rapporti irrigiditi, di una loro cardatura che dipa-
ni la matassa, di uno sgranchirsi, di uno slacciare i no-
di (diálusis). Il secondo è esposto nella storiografia
romana e potentemente ripreso e interpretato da Ma-
chiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.
Egli rompe con il paradigma aristotelico e poi tomista
della homónoia ponendo il conflitto come condizione
ineliminabile dell’azione politica e definendolo come
tensione fattuale e passionale tra due gruppi, naturali-
sticamente concettualizzati quali omori. Tumulti e dis-
sensioni sono fecondi in quanto generano istituzioni,
per esempio i Tribuni della Plebe (e qui stiamo nel-
l’ambito del ruolo costituente della stasis), ma anche in
quanto si scaricano in un dispositivo di espansione ter-
ritoriale e colonizzazione, invece occasionale nella
frammentata realtà greca. La vitalità interna di una re-
pubblica, ovvero il fatto che si esprimano dei tumulti,
favorisce l’ampliamento, mentre una rigida pacifica-
zione interna costringe uno Stato a rimanere entro i
propri confini. Punto naturale di partenza è che la re-
pubblica romana viene qualificata dal popolo in armi e
l’espansione militare che la caratterizza, a differenza
da quanto avviene nel principato, è finalizzata al bene
comune. Si dà pertanto una continua traduzione di in-
terno ed esterno e l’irrequietezza repubblicana si rove-
scia al di là delle frontiere come eternità del movimen-
to della guerra: all’equilibrio concorde e al regime mi-
sto subentra una dislocazione vertiginosa, lucreziana
mors immortalis (De rerum natura III, 869).
Tiriamo le fila: dissolvere la concordia è un rischio e
un’occasione ricostruttiva, una distruzione creativa a

83
volte indistinguibile da una vera guerra, una diffusione
contagiosa del conflitto.
Venendo a epoche più recenti e riscontrando che do-
po il 1848 tutte le rivoluzioni e insorgenze si sono pre-
sentate in concomitanza con una guerra (1871, 1905,
1917, agitazioni succedute alla I e II Guerra mondiale,
Lunga Marcia cinese, movimenti di decolonizzazione)
o direttamente come guerra civile (1936 in Spagna), po-
tremmo stringere un’ulteriore annodatura – in ordine
variabile – fra guerra, tumulti e migrazioni. Vi sono sta-
ti in Europa grandi spostamenti di massa, a causa dei ri-
assetti statal-nazionali che hanno seguito le due guerre
mondiali, ed essi hanno avuto solo marginali motiva-
zioni economiche, coincidendo anzi con il blocco delle
partenze di poveri europei verso l’America del Nord e
del Sud. Alla vigilia della II Guerra vi fu una cospicua
emigrazione politica collegata alla vittoria nazi-fascista
e franchista e alle persecuzioni razziali e durante la
guerra lo sterminio di ebrei e zingari può essere letto
come un paradossale trasferimento verso la morte, co-
me del resto era accaduto nel 1915 per gli armeni sulla
direttrice Anatolia-deserto mesopotamico. Il ciclo che
però ci interessa è quello del secondo dopoguerra, una
volta terminate le dislocazioni dei tedeschi dall’Est al-
l’Ovest e di alcune minoranze etniche in Russia e Cau-
caso verso Est. Questo ciclo è essenzialmente economi-
co e procede negli anni Cinquanta dai paesi mediterra-
nei verso la Germania e il Belgio e poi, all’interno delle
penisole iberica e italica, dalle campagne verso le aree
industrializzate. Dalla metà degli anni Settanta, inaridi-
to o quasi il deflusso dalla costa Nord del Mediterraneo,
nuove leve sono risucchiate dal Maghreb e dalla Tur-
chia, per non parlare dei pieds noirs algerini costretti a ri-

84
fugiarsi nella Francia meridionale e dell’Aliyiah degli
ebrei dei paesi islamici verso Israele (date cruciali:
1948, 1962, 1967).
Dall’ultimo decennio del XX secolo il ciclo ha assun-
to caratteri differenti. Dopo la caduta del Muro di Berli-
no nel 1989 sono iniziate grandi manovre per disinte-
grare quello che restava dell’ex-impero sovietico e di
esperienze anche eterodosse di socialismo «reale». Ri-
volte più o meno pilotate dagli Usa allora veramente im-
periali, egemonici senza rivali per un breve periodo, e
guerre civili con obbiettivi di pulizia etnica sobillate dal-
la Germania, con accompagnamento spirituale vatica-
no, poi prese in mano con maggior interventismo dagli
Usa e partecipate dal governo D’Alema, hanno devastato
l’area balcanica e danubiana spingendo centinaia di mi-
gliaia di rifugiati verso l’Europa centrale e l’Italia: serbi,
bosniaci, albanesi, kosovari, romeni e quelli perseguita-
ti da tutte le parti in causa, gli zingari. L’impulso iniziale
sono state le stragi e le rivolte: il degrado economico con-
nesso con la guerra e il neoliberismo generalizzato han-
no mantenuto i flussi anche dopo effimeri armistizi.
Tutto sommato, il processo è stato tenuto sotto con-
trollo per un certo periodo: i Balcani sono stati riorga-
nizzati in un normale assetto subalterno agli interessi
non aspramente confliggenti di Germania e Usa, un
paio di narco-Stati vengono tollerati, un po’ di manodo-
pera sfollata è stata riassorbita in Centro-Europa e la
manovalanza criminale si è assestata in Italia portando-
si dietro una buona scorta di armi da guerra. Gli zinga-
ri, si sa, sono zingari e affliggono la brava gente in tutto
il continente – rom e romeni, che confusione. Si è ri-
usciti perfino a delocalizzare un po’ di industria nei pae-
si dell’Est dopo aver distrutto quella locale, anzi alcune

85
delle città-simbolo dei bombardamenti e delle rivolte
(Kraguievac, Timisoara) sono diventate approdi dell’e-
sodo di capitali che è il complemento di quello delle per-
sone. Chissà se un analogo discorso non varrebbe an-
che per i trasferimenti latinos dal Centro-America verso
gli Usa, equiparando a vere guerre le guerriglie dei de-
cenni passati e le mattanze dei narcos di oggi. Comun-
que, un buon rinforzo, finita la campagna jugoslava, è
venuta dalle due guerre del Golfo, dalle persecuzioni ai
curdi fraternamente condotte dai turchi e da Saddam
Hussein, dall’invasione dell’Afghanistan. La madre dei
profughi è sempre feconda.
Il ciclo tumulti-migrazioni si sta oggi spostando ver-
so la sponda meridionale e orientale del Mediterraneo
ma è molto meno controllabile, per il degrado della
compattezza imperiale (massima al tempo di Clinton e
di Bush padre e artificialmente pompata sotto Bush ju-
nior) e la fallimentare ricaduta delle campagne in Irak e
Afghanistan che Obama ha controvoglia ereditato.
Inoltre la priorità delle insorgenze autonome, non pro-
grammate o assistite dall’esterno (Tunisi, Kasserine, Al-
geri, Alessandria, Il Cairo, Sana’a, Benghazi, Daraa)
sull’intervento bellico (Odyssey Dawn) introduce una
nota inedita rispetto al passato. Il recupero neocolonia-
le è possibile solo di rimbalzo, contrasta con una spinta
endogena che sopravvive e si diffonde orizzontalmente
in tutto il Maghreb e il Mashrek grazie alle divisioni in-
terne all’Impero, anzi – diciamolo pure – per il fatto che
l’Impero si sta disgregando in poli antagonistici e pro-
prio l’emergere di nuovi centri economici e strategici
(dalla Cina al Brasile) ravviva i vecchi contrasti africani e
mediorientali fra Usa, Inghilterra e Francia, sopiti du-
rante la Guerra Fredda (ricordiamo la lezione di Suez!) e

86
il fugace egemonismo statunitense negli anni Ottanta-
Novanta dello scorso secolo.
Come mai egiziani e tunisini fanno la rivoluzione
nei loro paesi e, ciò non di meno, continuano a espatria-
re, anzi accelerano profittando della caduta dei control-
li? Quelli che fuggono non sono un sottoprodotto della
guerra o della decomposizione del socialismo reale co-
me lo erano kurdi, romeni o kosovari, ma co-protagoni-
sti effettuali delle rivoluzioni, fratelli di quelli che sono
rimasti in loco a combattere. La combinazione di voice
ed exit, protesta e defezione, avviene non tanto nel sin-
golo paese quanto su scala mediterranea e secondo una
serie di fasi: 1) la rivolta cambia il regime e 2) consente
la fuga, così che 3) l’arrivo dei profughi innesta la prote-
sta nei paesi di destinazione o di passaggio (l’Italia),
mettendo in crisi la loro compagine politica e ravvivan-
do altre situazioni di lotta. Non si tratta di episodi occa-
sionali (Lampedusa, Manduria, Ventimiglia) ma di un
nuovo clima di indocilità e partecipazione che sta espor-
tando frammenti di Tunisi e del Cairo nel torpido am-
biente italiano. L’East End londinese e le banlieues pari-
gine e lionesi, d’altronde, dove si erano sedimentati im-
migrati di seconda e terza generazione, avevano già
offerto esempi significativi di tale risonanza. Rosarno
aveva interrotto una rassegnata invisibilità nel duplice
segno della disperata rivolta e del rabbioso pogrom di ri-
sposta, anticipando uno scenario cambiato rispetto a
quelli di inizio millennio. Ora la primavera araba pone
in un unico gesto il diritto alla libertà interna e il diritto
alla mobilità internazionale, il che vuol dire esportazio-
ne della libertà in senso inverso a quello delle guerre
«umanitarie», dai subalterni ai colonizzatori, dai paesi
ex-coloniali alle metropoli.

87
La riflessione sulla tipologia inedita dei tumulti me-
diterranei, il confronto con quelli europei contempora-
nei, il nesso con i fenomeni complementari di migra-
zione delle persone e dei capitali sono i luoghi di verifi-
ca del dispositivo della finanziarizzazione e della crisi.
Se la finanziarizzazione globale non è una deviazione
parassitaria rispetto all’economia «reale» (cioè all’estra-
zione di plusvalore), bensì una forma di accumulazione
del capitale, coerente con i processi di produzione so-
ciale e cognitiva del valore e con il passaggio dalla sovra-
nità alla governance, i tumulti indicano lo sporgere di
nuove figure della cooperazione e la loro ribellione alle
strategie globali di assoggettamento e sfruttamento.
Inevitabile dunque tenere assieme l’alto e il basso, le di-
namiche geostrategiche e i movimenti di massa della
migrazione e della precarietà, la guerra e le insorgenze.
L’accostamento fra precari e migranti non va preso
per espediente retorico, consueto nella pubblicistica e
nell’agitazione movimentista, ma esplorato a livello di
paradigma e nella sua costituzione storica, che segna
uno scarto rispetto al passato: della composizione socia-
le e della migrazione.
Nell’epoca classica della sovranità e del fordismo,
cioè del monopolio giuridico statale e dell’estrazione
prevalente del plusvalore in fabbrica, allo sfruttamento
del lavoro sul mercato si accompagnavano forme bruta-
li di controllo dei subalterni, nelle pratiche «liberali» di
polizia e nella gestione separata coloniale, ma è solo nei
regimi autoritari della prima metà del Novecento che (a
prosecuzione degli esperimenti precedenti e non senza
imitazioni formalmente liberali) si mette in piedi una
produzione sistematica di «superfluità» – secondo il
termine arendtiano – mirante a togliere di mezzo gli in-

88
desiderabili con una gamma di usi ed esclusioni che an-
dava dal lavoro forzato sino al genocidio. Il Lager nazista
diede la prevalenza quasi subito allo sterminio sul lavo-
ro coatto, il gulag staliniano assomigliava, malgrado le
pretese riabilitative, a un regime schiavile comportante
di frequente la morte per esaurimento. Le forme estre-
me sono scomparse dopo la conclusione della Seconda
guerra mondiale, quelle meno cruente sono sopravvis-
sute, trattenendo le vittime in una condizione simboli-
ca intermedia fra vita e morte, fra visibilità e invisibilità.
La produzione di superfluità è, per sua essenza, genera-
zione di isolamento e impotenza, intensifica un’attitu-
dine all’atomizzazione endemica nel moderno e mira a
privare gli uomini di mondo, distruggendo non solo
l’attività politica e la cooperazione ma sradicando lo
stesso bios, la vita qualificata ridotta a nuda vita.
Il Lager era la forma estrema di esibizione della su-
perfluità di un gruppo etnico o sociale e al contempo di
ammonizione per chi resta fuori ma potrebbe finirvi
dentro ad arbitrio del potere. Non è un punto d’arrivo
obbligato (infatti oggi ce ne sono versioni più miti, i
Cpt, Cie, Cara, ecc.) e sono diversi gli «ospiti» (tranne
gli zingari, guarda caso), ma attenzione a come ci si ar-
riva: censimento identificativo di una specie, gradua-
zione di diritti di assistenza e cittadinanza fino alla
completa esclusione, spostamento incessante per far
vedere che non hanno comunanza comunitaria e terri-
toriale con gli altri, che sono infatti «superflui», dunque
impiegabili a piacere in qualsiasi tipo forzato di lavoro
e, al limite, macellabili nell’indifferenza. Oggi il massa-
cro non è la regola, se non del pogrom saltuario di av-
vertimento (Castel Volturno, Rosarno), mentre prevale
l’uso di campi e centri a varia denominazione come fil-

89
tri per la manodopera illegale e inviti eloquenti a obbe-
dire in silenzio. La tattica del villaggio recintato (ultimi
Manduria e Mineo) è di richiudere un certo numero di
clandestini con la speranza di un permesso di soggior-
no da profughi e la paura dell’espulsione, lasciando
scappare i più intraprendenti con il miraggio della fuga
in Francia o Germania e la realtà dell’assorbimento nel
lavoro nero o nella manovalanza criminale.
Alla visibilità ostentata del campo e della miseria
del rifugiato fresco di sbarco corrisponde l’invisibilità
sistemica del clandestino, come un tempo all’anima-
lizzazione conclamata dell’ebreo nel ghetto la sparizio-
ne nel fumo dei camini. Oggi il clandestino invisibile è
messo al lavoro, in condizioni di semi-servaggio, ap-
paltato alla camorra, manovrato secondo i ritmi della
crisi, mentre un suo campionario visibile è sballottato
qua e là come un tempo sui treni di Eichmann o mo-
strato in Tv nel reality di Lampedusa o dei campi noma-
di assiduamente smantellati e reimpiantati a ogni rogo
di bambini – versione artigianale dei forni crematori
del passato. Separare dal resto della popolazione i
«pacchi» da accatastare su qualche collina della vergo-
gna o da spedire in giro per l’Italia, esasperare la preca-
rietà di cui i migranti sono paradigma esibendo la loro
instabile diversità serve, proprio forzando il paradig-
ma, per impedire che i consimili «nazionali» vi si rico-
noscano e solidarizzino, insinuando anzi che se i me-
no sfortunati indigeni osassero ribellarsi potrebbe toc-
care loro la stessa sorte degli allogeni. Rendere
«superflui» gli ebrei esortava anche i non-ebrei a desi-
stere da qualsiasi resistenza. Oggi gli obbiettivi sono
più modesti e utilitari, siamo in democrazia e c’è la glo-
balizzazione, diamine! La spettacolarizzazione dell’in-

90
visibilità è la forma mediatica dell’esclusione includen-
te che oggi prevale: Lampedusa, l’isola degli infami.
Se il clandestino è un essere in carne e ossa, la clande-
stinità è un prodotto giuridico e sociale, fabbricato secon-
do un piano preciso che la prevede come parte di un ditti-
co: regolari e clandestini. Non ci sono gli uni senza gli al-
tri, dunque occorre fissare una distinzione arbitraria che
tuteli una minoranza costruendo una maggioranza de-
privata di diritti e abbandonata allo sfruttamento più tur-
pe sotto l’etichetta, ora «operosa» non genocida, di «su-
perfluità». Il dispositivo attuale implica invero tre bloc-
chi: regolari con permesso di soggiorno collegato a un
contratto, clandestini espellibili (ma di rado espulsi), asi-
lanti. Il terzo gruppo, ben poco tutelato nella legislazione
nazionale rispetto agli standard europei, è appendice del-
le campagne belliche calde o fredde. Nell’Europa di ante-
guerra i rifugiati «famosi» (i Thomas Mann, gli Einstein)
servivano a giustificare la campagna anti-nazista, mentre
gli altri rifugiati erano rinchiusi nei campi, belli che pron-
ti per l’imminente invasione tedesca. Cani con collare e
cani randagi – commentava Arendt. Nel dopoguerra gli
esuli di Oltrecortina e i fuggiaschi dalla Germania orien-
tale e dai Sudeti servivano alla propaganda anticomuni-
sta, dopo la caduta del Muro i rifugiati bosniaci e kosovari
facevano parte del progetto di intervento disintegrante in
Jugoslavia. Oggi i richiedenti asilo sono diventati imba-
razzanti, perché Usa ed Europa non riescono a utilizzarli
in un progetto neocoloniale, stante l’impossibilità di se-
parare la fuga dalla tirannide e dalla guerra rispetto all’e-
sodo economico. Nessuno se li vuole accollare, forse per-
ché provenienti spesso da aree oppresse da «amici» del-
l’Occidente (kurdi, palestinesi, irakeni, maghrebini). La
categoria di asilanti provvisori si profila quale comoda

91
scusa per non adottare in Italia una legislazione moderna
in materia e al contempo aggirare il divieto di esportare
clandestini in altri paesi europei: un trucco da guitti per
conservare e svuotare il reato di clandestinità!
Ci interessa però il ruolo paradigmatico del clande-
stino in relazione al precario, la doppia produzione di
superfluità e invisibilità nel cerchio magico della finan-
ziarizzazione e del lavoro postfordista. Per questo enfa-
tizziamo la complementarità, davvero «globale», degli
effetti della migrazione di persone e di quella di capitali.
La prima sforna superfluità ai piani bassi, per così dire,
dell’edificio sociale. La seconda ai piani alti. Lì, nomadi
non sono i poveracci ma i capitali, i ricchi manager e im-
prenditori che vivono sui jet, magari i tirapiedi addetti al
downsizing, al taglio delle teste, come il personaggio in-
terpretato da George Clooney «fra le nuvole», Up in the
Air. Tutto vi funziona all’inverso: quelli che rimangono
fermi – gli addetti alle industrie delocalizzate, i licenzia-
ti per riduzione del personale, ecc. – sono gettati sul
mercato irregolare, nel migliore dei casi con un kit per il-
ludersi di ricominciare o passando per il purgatorio del-
la cassa integrazione, nel peggiore buttati sul lastrico do-
po aver radunato la loro roba in un cartone. Marchionne
sta sempre in volo, mentre gli stanziali operai di Mira-
fiori, Melfi e Pomigliano rotolano nella precarietà attra-
verso la moltiplicazione dei turni di lavoro e il subappal-
to. Progettazione e fabbricazione delle vetture si sposta-
no da Torino a Detroit lasciandosi dietro i disoccupati.
Brasile, Tychy e Kraguievac diventano la Lampedusa de-
gli investimenti, la derelitta Italia ne è la Tunisia o la Li-
bia. Il referendum nelle filiali Fiat è come il permesso di
soggiorno: o mangi questa minestra o esci dalla finestra.
Esci tu per espulsione, esce l’impresa per delocalizzare.

92
Se teniamo conto del fatto che una discreta quota del
Pil (25%?) viene prodotta attraverso il lavoro nero e l’eco-
nomia illegale, possiamo concludere che i trasferimenti
di capitale (quello spostato dalla Fiat e quello ripulito da
camorra, mafia e ’ndrangheta) stanno in assoluta sinto-
nia con i fenomeni esodali di massa: dal Terzo Mondo di
manodopera poco qualificata o non riconosciuta (laurea-
ti e professionisti che però sono impiegati da edili o in-
fermieri o badanti), di cervelli italiani verso sistemi edu-
cativi e scientifici stranieri più accoglienti. Spesso i me-
desimi malavitosi organizzano il traffico dei capitali e la
tratta dei clandestini e fanno eleggere un ceto politico
che chiude un occhio su entrambi i flussi. Maria Stella
Gelmini e baroni presiedono alla fuga dei cervelli.
La simmetria non è però perfetta: tratteggia, in con-
giunto, la friabilità strutturale di un’economia italiana
in degrado e dismissione, ridotta al montaggio subal-
terno di prodotti a bassa intensità di capitale e solo mar-
ginalmente presente in prima persona nei processi di
finanziarizzazione. Il 47,8% degli occupati (il doppio
che in Francia e in Germania) è impiegato in piccole e
micro-imprese, a regime preminente di sub-appalto,
che coprono il 94% dell’offerta di lavoro e utilizzano il
nero a scialare. I pochi comparti manifatturieri appeti-
bili sono poi sistematicamente abbandonati alla con-
quista da parte di multinazionali estere, con scarsi stru-
menti di protezione pubblica, smantellati dal centro-si-
nistra e oggi ipocritamente rimpianti da Tremonti.
Tuttavia ben diversa è la rilevanza dei flussi. Quello dei
capitali definisce lo scivolamento dell’Italia verso una
collocazione periferica nello scontro che lacera l’Impe-
ro in contraddizioni interne sempre più similari a quel-
le dell’imperialismo inizio XX secolo – vedi l’impresa li-

93
bica in corso e il nostro coinvolgimento tragicomico in
essa –, mentre lo scaricarsi delle migrazioni mediterra-
nee sulla Penisola ne fa il laboratorio politico di un con-
flitto virtuale in cui, per la prima volta, condizione pre-
caria e migrante non sono soltanto due facce della stes-
sa medaglia, ma una germinale aggregazione
moltitudinaria di resistenza.
Il tratto che congiunge il migrante e il precario e per
cui il primo fa da modello al secondo è la ricattabilità
per sostituzione. Ogni rivendicazione del clandestino
(a) e ogni retrocessione da regolare a irregolare (b) co-
stituisce il grado zero del ricatto: al prossimo barcone
che arriva (a), addio permesso di soggiorno (b). La sosti-
tuibilità avviene in simultanea sul mercato del lavoro e
sui diritti di cittadinanza2 o meglio di ospitalità tollera-
ta, coinvolge comunque una riduzione di agibilità civile
e una minaccia penale (reato di clandestinità). Il preca-
rio è «semplicemente» esposto al ricatto economico, si
tratta infatti di un lavoratore «libero», perfino dotato
(ancora per poco) di una famiglia che lo sostiene, men-
tre il migrante deve inviare a casa parte della retribuzio-
ne e magari finire di saldare il debito per la traversata.
Se il denaro (nexus hominum et rerum) costituiva una
plausibile sintesi sociale nell’èra della commensurabili-
tà tra valore e lavoro, in quella dell’incommensurabilità
postfordista è la mappa dei tumulti a far da indice della
composizione sociale comparata3, secondo una scala

2. La concessione e il ritiro arbitrari del diritto di cittadinanza sono una ti-


pica pratica coloniale di discriminazione elastica della popolazione, che
viene importata nelle metropoli dopo la decolonizzazione. Sul piano spa-
ziale la banlieue sostituisce il quartiere indigeno o ebraico d’oltremare.
3. Idea esposta da Paolo Virno nel terzo incontro del seminario 2011 della
Lum, Le virtù del tumulto. Indice qualitativo e non quantitativo per la so-
pravvenuta incommensurabilità, del resto ben più significativo del nu-

94
che prende in considerazione il comune dell’agire più
che l’universale dell’essenza. Frequenza e intensità dei
tumulti segnalano gli incrementi della povertà collegati
ai trionfi neoliberisti e all’aumento delle materie prime
alimentari (frutto di speculazioni finanziarie sui futures
più che di calamità naturali), ancor più i fallimenti della
promessa di una società della conoscenza che avrebbe
soddisfatto un crescente livello di istruzione in termini
occupazionali e salariali. Basta allora una scintilla4. Il
rogo di Mohamed Bouazizi, giovane avvocato costretto
a fare il venditore ambulante a Sidi Bouzid e vessato dal-
la polizia, rogo che ha dato il via alla rivolta tunisina, è
l’indice di una scolarizzazione in contrasto con le possi-
bilità di impiego. Dopo anni di crescita sostenuta la Tu-
nisia è incappata nella crisi globale e da ultimo ogni an-
no 30.000 giovani diplomati e laureati sono rimasti
senza lavoro, formando una sacca di disoccupazione
enorme cui dittature locali e strategie europee di re-
spingimento hanno negato ogni sbocco, fino all’esplo-
sione contagiosa delle ribellioni e alla riapertura selvag-
gia delle frontiere in tutto il Maghreb, dove si riversano
anche i profughi dal retrostante Sahel. In Egitto oltre il
40% della forza-lavoro e l’80% dei disoccupati ha in
mano un diploma: un tempo avevano accesso automati-
co (mal pagato) alla pubblica amministrazione, perso
con le riforme neoliberiste di Sadat e Mubarak.
La situazione del diplômé chômeur maghrebino è af-
fine a quella, su livelli economici più elevati o almeno
tamponati dal sostegno familiare, del graduate without
mero dei locali gay che R. Florida usava per cartografare diffusione e con-
sistenza della creative class.
4. «Nascono le rivolte non per piccole cose, ma da piccole cose [ou perì mi-
krôn all’ek mikrôn]: in realtà si ribellano per cose di grande importanza [pe-
rì megalon]», Aristotele, Politica V, 4; 1303b 18-19.

95
future, protagonista delle simultanee agitazioni studen-
tesche europee. Se ci limitiamo all’Italia, uno dei paesi
in maggior affanno della Ue, la somma di disoccupati,
cassintegrati e inattivi raggiunge il 15% (ma quella gio-
vanile sfiora il 30% e la popolazione attiva femminile è
al di sotto degli standard europei) e il 75% dei nuovi as-
sunti hanno contratti atipici (quando ne hanno uno),
percepiscono cioè un salario massimo di 800 € per circa
9 mesi, collocandosi nella fascia di povertà relativa se
non assoluta. Lo sfruttamento della produttività del tes-
suto sociale passa in prevalenza attraverso il lavoro ne-
ro: il disoccupato intellettuale è privo di sostegno pub-
blico o di flexsecurity ma – al contrario dei colleghi ame-
ricani e di molti europei – non è (ancora) angariato
dall’indebitamento infinito per gli studi5. Il laureando è
avviluppato in una rete di stages e tirocini obbligatori e
non retribuiti, assillato dall’aumento delle tasse univer-
sitarie cui corrispondono servizi sempre più scadenti,
illuso dalla moltiplicazione di costosi e ridondanti ma-
ster. Il declino della scuola e dell’università pubblica, ol-
tre a dequalificare i saperi, restringe drasticamente le
possibilità di impiego nel settore educativo e in tutte le
aree la cui espansione dipende dalla ricerca. La guerra
all’intelligenza, che in Occidente corrisponde alla crisi
del capitalismo cognitivo ma in Italia è raddoppiata dal
populismo, liquida le utopie della società della cono-
scenza e si intreccia alla deindustrializzazione e una
complessiva decrescita di produttività e innovazione.

5. Per capricciosa coincidenza, dentro o a fianco al generale indebitamen-


to dei ceti medi in declino per trattenere un livello confacente di consumi
dilazionando e accrescendo con gli interessi l’impoverimento, vi sono due
categorie impegnate a lungo e spesso senza successo nel ripagare il debito
contratto: gli studenti universitari, in regime di tasse stratosferiche e di
banche «liberali», e i migranti strozzati da agenzie mafiose e scafisti.

96
L’invito ministeriale ad accontentarsi di lavori umili
e non corrispondenti al titolo di studio, così come il ri-
lancio dell’anacronistico apprendistato e la retorica su-
gli istituti tecnici, accentuano la sostituibilità del lavora-
tore intellettuale pareggiandolo a quello tradizionale al-
l’interno di un paradigma dominato dalla ricattabilità
del migrante. Il referendum a Pomigliano e Mirafiori
ricalca la logica schizofrenica del permesso di soggior-
no e dell’espulsione. L’apprendistato giovanile e il mito
dell’educazione permanente per classi di età più elevate
riconoscono il crescente fattore intellettuale in ogni ti-
pologia di prestazioni ma solo per dequalificare in mo-
do omogeneo tutte le categorie, eccedenti rispetto alle
possibilità occupazionali e retributive del sistema. Al
contempo l’impossibilità di trovare un lavoro adeguato
e ancor più a tempo indeterminato – scontata ricaduta
di una crisi a jobless recovery, quando pure ci sia ripresa –
viene attribuita a insufficiente formazione, a scarsa vo-
lontà di formarsi. Il povero, al solito, viene reso colpevo-
le della sua condizione, stavolta non secondo un mar-
chio statico (i poveri ci saranno sempre tra voi), ma per
poca elasticità nel seguire la dinamica dello sviluppo.
Ciò vale per il «bamboccione» sfigato quanto per il li-
cenziato di mezz’età, per i Neet (not in education, em-
ployment or training) e per i cassintegrati cronici.
La frequenza e l’intensità con cui siffatte figure si fa-
ranno protagoniste di tumulti scandirà la metrica del
costituirsi di una composizione moltitudinaria attiva
ovvero di una sinergia di differenze singolari sulla
traiettoria che va dalla passività sfruttata alla coopera-
zione. Dall’isolamento (la spinoziana solitudo), limite
inferiore della messa in superfluità del precario e del
migrante nel mercato internazionale del lavoro, alla

97
presa di parola e all’ingresso nell’agire politico, tappa
obbligata per passare da una composizione moltitudi-
naria in sé a una per sé. Ancora an sich e für sich? Ebbene
sì. Il discrimine tumultuario (uscita dalla paura e con-
fronto di potenza) misura non solo una distribuzione
altrimenti irregistrabile delle forze ma la loro sintassi
costituente, in primo luogo autocostituente, processo
di soggettivazione che rimette in gioco l’ordine esisten-
te. Un rivoluzione culturale dall’interno e contro il capi-
talismo cognitivo e le sue recinzioni.
Mentre la classe in sé, almeno a un certo stadio evolu-
tivo, aveva raggiunto dimensioni tali di omogeneità e
concentrazione nei luoghi di lavoro e di residenza da es-
sere immediatamente riconoscibile e attiva a livello eco-
nomico-sindacale, il precariato in sé è frammentato,
sommerso, indeterminato nella tipologia (si pensi agli
incerti confini fra professionalità autonoma e prestazio-
ne subalterna) e raggiunge visibilità rivendicativa quan-
do entra in lotta, con un’autodefinizione al contempo
sindacale e politica. Il lavoratore atipico o pseudo-auto-
nomo non è immediatamente un proletario sfruttato:
già il proclamarsi tale impone un riconoscimento pub-
blico non ovvio, una crepa in una segregazione autoriz-
zata per legge. Non solo è materialmente difficile per un
lavoratore a progetto o interinale o per una partita Iva
realizzare un’azione collettiva e localizzata come uno
sciopero, ma spesso è difficile individuare la controparte
e far valere le garanzie di un dipendente scioperante.
Allo stessa maniera l’immigrato (tanto più se giuridi-
camente clandestino e/o impiegato nel sommerso) che
si ribella mette a rischio i propri già esigui diritti di per-
manenza legale nel Paese di arrivo, rendendo difficile
sceverare un comportamento rivendicativo da un agire

98
politico (la cittadinanza è affare della polis), uno sciopero
da una sommossa (vedi Rosarno). Si sono trovati in una
situazione tanto diversa quei nuclei operai «stabili» e
«garantiti» per definizione e per tradizione sindacale
che hanno dovuto decidere per referendum se accettare
pesanti deroghe contrattuali o veder sparire i posti di la-
voro? Il consenso coatto al padrone non era il loro per-
messo aleatorio di soggiorno? La fuga della fabbrica a
Detroit non equivaleva a un rimpatrio in Libia? Dunque,
nel silenzio complice della politica, il loro no non fu un
atto direttamente politico oltre che sindacale? La princi-
pale battaglia di opposizione condotta in Italia nel 2010!
Quanti drammatizzano in Italia la spaccatura fra ga-
rantiti e non-garantiti, sulla scia di una profezia di Asor
Rosa che aveva qualche plausibilità negli anni Settanta,
rischiano di fare la figura dei tragediatori o tragicatori.
Nel gergo malavitoso e carcerario i primi esagerano a
parole per coprire la rinuncia a un’azione criminosa o a
una vendetta, i secondi diffondono false notizie per
spargere zizzania. In realtà, la condizione non-garanti-
ta ha invaso quella presunta garantita (chiamata società
dei due terzi, per sottostima della frazione a rischio)
estendendosi a categorie una volta immuni: giovani
medici, aspiranti ricercatori o liberi professionisti, psi-
cologi, informatici, insegnanti. Il taglio della spesa pub-
blica e la bufera della crisi colpiscono con durezza setto-
ri di ceto medio, rendendo nebulose le loro prospettive
ed erodendone il potere d’acquisto. Non è agevole trac-
ciare un confine fra precari e non, venuta meno l’eredi-
tarietà del ruolo sociale e la mobilità ascensionale colle-
gata agli studi. Si profila piuttosto uno strappo genera-
zionale, addensandosi gli effetti della precarizzazione e
della disoccupazione soprattutto sotto i 35-40 anni, do-

99
ve si registra il maggior numero di perdite del posto di
lavoro che si aggiunge alla difficoltà di trovarne. Vi si
dovrebbe addizionare la fascia over 50 dove l’uscita dal
posto comporta l’impossibilità quasi automatica di re-
cuperarne uno equivalente.
Le invettive contro i «privilegiati» e la pretesa di atte-
nuare le tutele giuridiche e occupazionali dei presunti
tali a vantaggio di giovani e atipici sono infondate e si ri-
ducono a subdoli tentativi di accelerare lo smantella-
mento delle garanzie esistenti e acuire così la deregula-
tion del mercato del lavoro laddove già impera la flessi-
bilità selvaggia. La frattura fra i due settori – tale solo
incrociando la tipologia lavorativa con la classe d’età e
mettendo in conto le diverse prospettive pensionistiche
secondo l’anzianità e la proporzione fra regime contri-
butivo e retributivo6 – in effetti è una frontiera assai per-
meabile verso il basso, è cioè facilissimo (tranne per i di-
pendenti pubblici, ma in Inghilterra neppure per loro)
scivolare nella disoccupazione secca o nell’inferno pre-
cario in cui non ci si può neppure ammalare o, se don-
ne, restare incinte. Ogni contrapposizione risulta per-
ciò tragicatoria, per far litigare pensionati e disoccupati,
operai tutelati dall’art. 18 e co.co.pro., laddove la funzio-
ne dei dipendenti e pensionati «garantiti» è essenzial-
mente quella di alloggiare e mantenere figli e nipoti con
trasferimenti e integrazioni di reddito. La scomparsa fi-
6. Sopra i 65-70 anni le pensioni comprendono un congruo numero di
anni a regime retributivo (più favorevole), che cala con il decrescere del-
l’età a favore del meno vantaggioso contributivo. In pratica si scende dal
95% dell’ultima retribuzione verso il 60-70%. Chi oggi ha la fortuna di
aver conseguito da poco un posto fisso difficilmente raggiungerà il 50%,
ma per qualche anno può contare sulle pensioni ed eventuali risparmi
parentali. Chi ha un contratto atipico non percepirà nessun trattamento o
quasi, godrà per poco del sussidio dei nonni e di certo non potrà contare
su quello dei genitori.

100
siologica di quegli strati o l’anticipata espulsione dal la-
voro – principale causa della contrazione dei consumi –
spinge le successive generazioni precarie al di sotto dei
livelli di sussistenza, rivelando la mostruosità autodi-
struttiva di un sistema di abbassamento sistematico dei
salari erogati e differiti (servizi sociali attuali e pensioni
future). La famiglia è un ammortizzatore a scadenza.
I fenomeni di pauperismo, che ritornano fra precari
e migranti con tutto il corteo dei malanni ottocenteschi
(de-sindacalizzazione, questione abitativa, prostituzio-
ne, accattonaggio, etilismo, tubercolosi, epidemie), se-
gnano il limite estremo di una omogeneizzazione tra fi-
gure sociali destabilizzate o congenitamente non acce-
denti alla stabilità per fattori etnici, generazionali o di
sesso (tasso femminile di inattività e più agevole licen-
ziabilità). Omogeneità di condizione e di reddito che
coinvolge (in Italia come in America) frazioni prima an-
noverate fra i ceti medi: white collars decaduti, proprieta-
ri di case insolventi, blue collars di aree industriali smo-
bilitate. Omogeneità che va di pari passo con l’atomiz-
zazione, remotissima da qualsiasi presa di coscienza
immediata. Tuttavia base oggettiva di esplosioni im-
provvise di rivolta al di là di una certa soglia e in questo
assai simile (a parte la composizione demografica, che
trattiene la rivoltosità in misura proporzionale all’età)
alle turbolenze dei paesi arabi.
In tali figure la diffusa indistinzione fra prestazioni fi-
siche, relazionali e linguistiche del lavoro postfordista7 si
manifesta prima in negativo attraverso una difficoltà di
resistenza organizzata, poi si rovescia in positivo attraver-

7. E i processi formativi che lo precedono e accompagnano, gettando nel


campo precario quanto ruota intorno alla scolarizzazione e al life long
learning.

101
so l’immediata politicità della battaglia economica riusci-
ta: riuscire vuol dire in primo luogo scatenarla, meglio se
la si vince, ma l’importante è non sottrarvisi – vecchio di-
scorso, già per la Comune del 1871! Si passa da un livello
in sé virtuale, sociologico, disperso, al per sé insieme eco-
nomicistico e politico della contestazione aperta. Indubi-
tabilmente la metamorfosi della classe in moltitudine –
che della prima mantiene molti colori – implica alcuni
aggiustamenti concettuali in merito alla coscienza (di
classe e moltitudinaria), alla nozione di avanguardia, alla
differenza fra tumulto e rivoluzione. Quello che non
scompare, la corrente carsica risorgiva, è la lotta di classe.

102
Exemplar humanae vitae

Se il tumulto fa da indice alla composizione del lavoro


sociale immediatamente politico, lo è in quanto nega le
figure separate del «produttore» e del «cittadino», infi-
ciando ogni resa del tempo individuale di lavoro e del
diritto individuale di cittadinanza su base nazionale. La
cancellazione della barriera fra lavoro privato e agire
pubblico, póiesis e praxis, uno squarcio nella griglia dis-
tributiva dei benefici del salario e della cittadinanza ri-
mescola e potenzia voice ed exit, facendone strumenti
intercambiabili di resistenza ed emancipazione. La cir-
colazione non autorizzata dei corpi (globale e legale è
solo quella delle merci) rovescia l’ordine della superflui-
tà dall’interno del mercato globale, a patto che la politi-
cità del lavoro si riversi in agire sovversivo. A tali condi-
zioni (non sempre ricorrenti ovunque e a breve) il para-
digma precario-nomadico si converte in potenza
moltitudinaria, avvia un percorso di liberazione.
Non si deprechi l’indeterminazione dello schema-
indice: il tumulto è segno vuoto, ogni volta riempito da
condotte singolari che si costituiscono nel «fra» trans-
individuale, mediante un agire collettivo che tiene irri-
solte le loro dissonanze. La progettualità riformistica o

103
rivoluzionaria inerente al modello sovrano – malgrado
ogni merito acquisito nel passato – oggi risulta un co-
acervo di segni pieni, ripetizione balorda di fissazioni
repressive o emancipatorie che non mordono più la
realtà e adornano le effettive e concorrenti tattiche im-
periali dentro la finanziarizzazione globale. La cattiva
generalizzazione in nome di presunti valori universali
(oggettività del mercato) associa in Occidente governi e
opposizioni perpetuando la stagnazione e la demoraliz-
zazione. Le presunte compatibilità impediscono le al-
ternative. L’affannosa caccia alla riduzione dei deficit
statali è forse il caso più clamoroso di un’invenzione di
modelli operativi «universali» che approfondisce e ag-
grava la crisi cui tenta di dare risposte. Il risanamento
del debito sovrano se la batte con il neo-keynesismo
quanto a vaniloquio masochista.
Nella sua debolezza il tumulto segue per lo meno al-
tre strade. Egemonizza o ci prova offrendosi in qualità
di imitabile e fugace esempio, non legiferando o per im-
plementazione disciplinare (non ne ha i mezzi tecnici)
e neppure proponendo una ripetibilità stretta (non ne
ha voglia). Opera, in linguaggio kantiano, nella modali-
tà del giudizio riflettente non di quello determinante.
Sarebbe un esperimento non vincolante e non riprodu-
cibile, se stessimo in un laboratorio. Indica solo che è
possibile e giusto ribellarsi e che a volte la ribellione ha
successo. Le situazioni di partenza sono inconfrontabi-
li per molti aspetti, non esiste – diversamente da una
certa tradizione rivoluzionaria – un meccanismo sta-
diale predeterminato e diretto a scopi uniformi. Non si
può dire, prendiamo la Tunisia, che sia una rivoluzione
socialista o comunista ma neppure una democratico-
borghese che poi passerà a una fase più avanzata. Ci so-

104
no, secondo i delusi, rivoluzioni tradite, sviate, ma co-
me parlare di tumulti traditi, se essi sono segni vuoti,
indizi prognostici senza profezia determinata? Né si dà
esportazione di tumulti. La leggendaria volatilità dei
movimenti testimonia la loro presa diretta sulla contin-
genza dell’incontro quanto l’inaffidabilità del suo far
presa e perciò sollecita l’invenzione di campi inediti di
continuità organizzativa. Lievi e pervicaci quei moti,
meritano di meglio che un ennesimo partitino.
Un exemplar non vuole essere un modello positivo
(l’Ottobre, la Lunga Marcia) o negativo (il giugno 1848, la
Comune, il 1905), piuttosto un concentrato intensivo di
esperienze, che si propaga per contagio senza la pretesa
di applicare tutti i connotati dell’originale, l’attestazione
di una possibilità1. Stiamo sul terreno della retorica, anzi
proprio del sillogismo retorico aristotelico (enthúmema)
in cui la premessa maggiore è semplicemente probabile.
Ogni esempio è alla lettera irripetibile, specie di un uni-
co individuo, legge singolare, risultando dotato di un
corredo virale e mutante. Mentre l’Universale è un ens
rationis, il Comune è una realtà indipendente dal pensie-
ro (il preindividuale simondoniano) e l’exemplar spino-
ziano ne è una cartografia modale, una composizione in
re, individuabile e non-predicabile, diversa dal nominali-
smo di Bene, Male, Ordine, Disordine, Uomo – concetti
universali predicabili e non-individuabili2.
1. Nello spinoziano TTP XIV Dio come exemplar della vera vita è il primo
dei fundamentalia fidei, cioè di una dottrina interconfessionale dell’obbe-
dienza e non della verità; nell’originale di Uriel da Costa (cui Baruch ren-
de omaggio, senza imitarlo) exemplar è un drammatico resoconto auto-
biografico, che prelude al suicidio. Il naturae humanae exemplar della pre-
fazione a Ethica IV è un modello pratico per far risaltare il gioco degli
affetti incrementali e decrementali della potenza, del bene e del male re-
lativizzati al conatus umano.
2. P. Virno, Convenzione e materialismo. L’unicità senza aura (1986), II ed.

105
Tale antitesi copre quella di moltitudine e Stato e
svela la mistificazione del monopolio statale dell’agire
politico e della produzione giuridica, esclusiva che la ri-
voluzione inverte senza destituire, mentre l’esemplari-
tà del tumulto si tiene dentro la dimensione del Comu-
ne, con vistosi limiti di fallibilità quanto più resta in-
condiviso non riuscendo a formare una sfera pubblica.
Con ciò altro non diciamo se non che il tumulto resiste,
vince e fa presa nella misura in cui innesta un ciclo per-
manente di tumulti nella doppia accezione di espansio-
ne orizzontale e moltiplicazione nel tempo. La rapida
diffusione delle rivolte nel Maghreb e nel Mashrek e il
susseguirsi di diverse ondate nello stesso paese hanno
fatto massa critica e consolidato le basi di un cambia-
mento ancora limitato ma promettente.
Non diversa è stata la dinamica delle rivoluzioni, il
cui inserimento in una logica sovrana non toglie talune
affinità con i tumulti con cui spesso si confondono, spe-
cialmente laddove si siano sviluppate negli anelli debo-
li del sistema imperialistico e tutto sommato fuori da
dove le collocavano la visione stadiale mainstream e il
gradualismo riformistico. Il modello standard delle ri-
voluzioni non ne esaurisce la realtà, come quello della
sovranità conteneva eccedenze che alla lunga avrebbero
preso il sopravvento smentendone le interpretazioni
ideologiche forzose. Di qui l’impressione che non tutto
il nuovo sia radicalmente tale e dunque il presente ci
spinga a rileggere pagine del passato e a riattivarle in
maniera non estetizzante. I fallimenti e i punti ciechi
delle rivoluzioni sono istruttivi e a volte i tumulti calpe-

DeriveApprodi, Roma 2011, p. 61. Sull’inerenza circolare ex ante del Sin-


golare e del Comune, contro l’intersoggettività ex post degli individui nel-
l’Universale statale, cfr. dello stesso E così via all’infinito, cit., pp. 197 sgg.

106
stano sentieri interrotti. Rubare le rivoluzioni effettuali
all’archeologia industriale abbandonandovi solo la loro
finzione ideologica è il compito retrospettivo di un nuo-
vo ciclo insorgente. All’opposto dei giacobini che si mi-
sero toghe romane, le insurrezioni socialiste del XIX se-
colo – da Jaurès a Mathiez – infilarono tute blu ai sancu-
lotti. Una revisione storiografica è effetto collaterale di
ogni stagione di lotte: la Comune parigina e il 1905 rus-
so ne sembrano il target ideale.
Il tumulto-esempio, nel suo scarto dalla rivoluzione,
non perde carattere costituente e una temporalità pro-
cessuale, dotata di densità, co-implicazione di tempi e
soggettività diversificati e contrastanti. Qualcuno lo tra-
sfigura in miracolo, stato d’eccezione in cui si sperimen-
ta una diversa esperienza del tempo – più mitico e festi-
vo che lineare – in cui la dimensione simbolica prevale
su quella progettuale e, almeno nella percezione sogget-
tiva dei rivoltosi, la rivolta varrebbe in sé, al di là delle sue
ripercussioni immediate. Essa è sempre inattuale, rap-
presenta nella sfera politica l’«intersezione del tempo
mitico e del tempo storico» e proprio la sua apparente in-
sensatezza maturerebbe la coscienza umana in pienez-
za di significati più di una rivoluzione riuscita3. Si po-
trebbe obbiettare a questo schema fascinoso che tale

3. F. Jesj, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino


2000, pp. 56 e 19. La concentrazione redentrice del vissuto mitologico
nel tempo della rivolta o nel sartriano gruppo in fusione è un dato reale
della psicologia rivoluzionaria, indipendente dalla realizzazione, ma po-
co significativo per stabilire una differenza tipologica dei movimenti, che
si instaura (con grande somiglianza dei comportamenti e delle emozio-
ni) solo in rapporto al regime di sovranità. L’illud tempus del mito, l’estasi
del nunc stans, la memoria del futuro anteriore descrivono dall’interno
un’esperienza che preferiamo incardinare a un ciclo del potere e della sua
scomposizione. La stessa riabilitazione delle tonalità emotive e l’ipotesi
che passato e futuro siano predicati del presente ne fanno parte.

107
dualismo sembra ripetere quello di eccezione e norma,
decisione sovrana e legge ordinaria, come se la prima,
nel suo gesto sospensivo, non ratificasse l’esistenza del-
la seconda e la dittatura infondata non fondasse la nuova
norma, alla lettera Grund-norm. Ancora il liberalismo ro-
vesciato che Strauss, maligno, imputava a Schmitt. Inve-
ce la rivolta, come il clinamen lucreziano e come l’esem-
pio, è norma a se stessa, legge singolare, eccezione non-
eccezionale, generandosi nel vuoto senza riferimenti
anteriori, autonomia non normabile dunque irriportabi-
le alla figura giuridica dello stato d’eccezione. In un pas-
saggio folgorante delle Lotte di classe in Francia, primo ar-
ticolo, Marx lo riassume con accenti machiavelliani: Der
Ausbruch des allgemeinen Mißbehagens wurde endlich
beschleunigt, die Verstimmung zur Revolte gereift durch
zwei ökonomische Weltereignisse. Cioè: «Lo scoppio del
malcontento generale fu alfine accelerato e il malumore
maturò in rivolta grazie a due avvenimenti economici
mondiali» – la malattia delle patate e i cattivi raccolti del
1845 e del 1846, una specie delle rivolte maghrebine
«per il pane»…Ver-stimmung = mal-umore. Marx pensa
nella congiuntura, afferra una propensione permanente
che si cala in un contesto globalizzato e si scandisce poi
nello spessore di uno svolgimento. Una durata propria,
autocostituita (sebbene non mitica), irriconducibile a
transizione graduale, evenemenziale, di una storicità
preesistente. L’esempio è anche lezione.
L’interruzione istantanea del tempo canonico pre-
suppone che esista qualcosa di simile e commensurabi-
le, una durata uniforme di cui la rivolta (ma in verità
ogni stato d’eccezione, anche reazionario, perfino l’e-
stasi jüngeriana della mobilitazione totale bellica) sia
deroga. Come ogni trasgressione, conserva i limiti che

108
ritualmente infrange. I rivoluzionari che sparano agli
orologi testimoniano per assurdo l’affidabilità dei cro-
nometri. L’Intero è poroso, non lo si taglia per disconti-
nuità. L’insurrezione non è pars totalis che riassume la
storia e neppure il suo rovescio estatico. È decentra-
mento rispetto a nessun centro. Si sopravaluta la visco-
sità del continuum: non esiste uno scorrimento omoge-
neo del tempo e l’istante stesso è pluralità e composizio-
ne di forze.
L’aspetto destituente e catartico del tumulto – impre-
vedibilità, inafferrabilità, defezione dal progetto – non è
gesto muto e sospeso estraneo alla dialettica fra potere
costituente e costituito. Si appoggia su reti preesistenti
che si attivano al momento opportuno. Ha una propria
loquace e strutturata temporalità che non si scarica nel-
l’esplosione iniziale (l’abbiamo visto durare invero gior-
ni e giorni in avenue Bourguiba e a piazza Tahrir), ma
ricomincia dopo ogni successo, filtra sotto terra, riappa-
re, stringe e disfa compromessi, produce istituzioni sui
generis e le modifica senza tregua. Oppure, in Occiden-
te si manifesta periodicamente in «giornate», annodate
però da un lavoro interstiziale organizzativo sottratto al-
la contemplazione dei cacciatori di eventi e alle fanfare
del gesto senz’opera.
L’esemplarità è il terminale di una paziente mobili-
tazione, laddove l’originalità sta nella divergente tessi-
tura organizzativa, non rispondente a vecchi canoni di
partito, sindacato, avanguardia, ma neppure vergine di
vecchi tic e trucchi. La condensazione tiene in acrobati-
ca tensione le differenze. Il gap generazionale incide
sulle lotte europee: il lato buono è che i residui del rifor-
mismo sono abbastanza scarsi nella più giovane classe
d’età, il lato cattivo è che essa è minoritaria nella popola-

109
zione e la ricomposizione delle generazioni e degli inte-
ressi non è un dato scontato, ma una delle poste in gio-
co del movimento. In paesi più giovani i tumulti, par-
tendo da posizioni più arretrate, dispiegano le loro virtù
con maggiore efficienza e rapidità.
In mancanza di un disegno intelligente della Storia
e (per fortuna) di un progetto organico di Rivoluzione
mondiale, la comunicazione fra tumulti nel cerchio del
Mediterraneo avviene per risonanza, forma di trasmis-
sione e ricezione dell’esempio che non richiede neppu-
re il contatto fisico del contagio. Va a vedere che stavolta
funziona e innesta sequenze più complesse e dialetti-
che. Se a livello dell’in sé sociale il moltitudinario vive in
prima battuta la partecipazione a cerchie diverse, la so-
vrapposizione di insiemi eterogenei che ne definisce
un’identità ibrida e incerta ma estremamente più po-
tente della coscienza spontanea omogenea di classe4, il
tumulto porta politicamente in atto, traduce in per sé e
propaga orizzontalmente quell’operatività indetermi-
nata che nessuna pratica ricompositiva astratta riusciva
a mobilitare, tanto meno un attardato discorso sulla
proletarizzazione.

4. Cfr. relazione di Alberto De Nicola al seminario Lum 2011 (Roma –


Esc Atelier), atti in corso di pubblicazione.

110
La metapolitica non è una virtù

La forma-tumulto si esibì nel ’68 e nel ’77 ancora avvilup-


pata nella severa uniforme della rivoluzione proletaria o
nello smagliante patchwork dell’esodo. Non vogliamo
parlare di abbagli ma di travestimenti in qualche modo
legittimi – in fin dei conti i cortei operai non mancarono
nel maggio ’68 francese e corso Traiano fu simbolo del-
l’autunno caldo italiano, mentre il nostro ’77 vide la cen-
tralità del proletariato giovanile e una depistante simula-
zione terroristica dell’insurrezione. Il maggio fu, secon-
do l’indimenticabile metafora di Blanchot, come se il
popolo di Israele si fosse riunito per l’Esodo e poi si fosse
dimenticato di partire. Il ’77 fu l’apice della più gigantesca
e deliberata defezione dal lavoro di fabbrica che il decli-
nante fordismo avesse conosciuto. In ogni caso la teoria
politica risultò scollata dall’insieme dei fenomeni, sfor-
zandosi di aggiornare vecchie categorie con la sostanzia-
le aggiunta di una critica del lavoro e di una diversa valu-
tazione delle differenze di genere. I frutti sarebbero arri-
vati negli anni successivi e i nuovi episodi di
contestazione timidamente sviluppatisi nel deserto degli
anni Ottanta e poi sempre più intensamente fino al vol-
gere di millennio con Seattle e Genova sarebbero sfuggiti

111
alla griglia interpretativa rivoluzione/esodo per acquisire
la configurazione di tumulto, che poi hanno mantenuto
fino all’odierno dilagare. Logico che a ciò si accompa-
gnasse un dibattito teorico svecchiato, potentemente fe-
condato da autori già presenti negli anni Sessanta ma
non ancora egemonici (da Althusser a Foucault, da De-
leuze a Negri), delineando soprattutto in Francia una spe-
cifica riflessione sulla democrazia, che sgombrava il ter-
reno da vecchie tematiche a costo però di una drastica e
molto arendtiana espulsione dell’economico-sociale dal
campo del politicamente significativo.
Partiamo da uno di questi autori, Claude Lefort allie-
vo di Merleau-Ponty, già incontrato a proposito di Ma-
chiavelli, 44-enne nel 1968, che scrive al proposito alcu-
ni importanti contributi fra il 1981 e il 19921. Il tema del-
la divisione nella vita sociale (tra potenti e deboli, ricchi e
poveri, uomo e donna, tra i popoli) domina già il lavoro
su Machiavelli e arriva poi a constatare che la democra-
zia non nasconde tale divisione proprio perché il luogo
del potere non è incarnato in nessuna persona, resta un
luogo vuoto, indeterminato. Stiamo cioè all’opposto
della saturazione totalitaria (secondo la lezione di Han-
nah Arendt, da cui il Nostro parte, e dall’esperienza di
Socialisme ou Barbarie), dove il conflitto è soppresso e la
società si pretende trasparente a se stessa per liquida-
zione dei nemici.
Andando in ordine inverso: il totalitarismo è un pro-
dotto degenere della democrazia, che a sua volta nasce
dalla disincarnazione dell’immagine tradizionale della
sovranità, impersonata dal doppio corpo del Re (quello

1. Ci soffermiamo sui saggi contenuti in L’invention démocratique. Les li-


mites de la domination totalitaire, Fayard, Paris 1981, ed Essais sur la politi-
que, cit.

112
di Kantorowicz). Il potere moderno perde ogni carattere
organico-personale e accetta solo configurazioni in-
compiute e reversibili. La democrazia è una scena sim-
bolica, senza fondo e contorni, aperta alla determina-
zione della pluralità sociale, con un centro irrappresen-
tabile, che esclude la materializzazione di un Altro
trascendente o dell’Uno immanente. Questo produce
insicurezza, stress, disincanto, assenza di tenuta sim-
bolica, cui il totalitarismo promette una via d’uscita sug-
gerendo il fantasma di una comunità immanente, l’i-
dentità sostanziale fra un corpo sociale coeso e il potere
incarnato, fino al corpo dell’Uno, dell’Egocrate al verti-
ce. È il trionfo della servitù volontaria dei sudditi-sog-
getti, della religione immanente dello Stato nella fusio-
ne fra organicismo e artificialismo per i dominanti.
La democrazia tiene invece ferma l’alterità, la scis-
sione originaria e interminabile del sociale già colta da e
in Machiavelli contro ogni vaneggiamento sulla fine
della storia, sopporta l’esistenza di interessi divaricati e
di opinioni opposte fino al limite dell’incompatibilità,
non contempla progetti o scopi definiti, è una cassetta di
strumenti messi temporaneamente a disposizione di
quanti conseguono la maggioranza. Società senza cor-
po che mette in scacco la rappresentazione di una totali-
tà organica. Il comune vi si esprime attraverso i segni
della divisione e del conflitto, senza garanzie di omoge-
neità, anzi in una dinamica che si nutre dell’eterogeneo,
privilegia il numero sulla sostanza e sfiora l’anonimato,
l’uomo della folla. Le istituzioni rappresentative non
esauriscono la democrazia, ma vi rientrano a pieno tito-
lo i movimenti sociali che si battono per nuovi diritti.
Non solo il potere ma neppure il sapere appartiene a
nessuno, se non nei vaniloqui dell’essenzialismo ideo-

113
logico: infatti nel luogo vuoto della democrazia non c’è
congiunzione possibile fra potere, legge e sapere, non
se ne può enunciare il fondamento e l’essenza del socia-
le si sottrae in una fuga interminabile di domande sen-
za risposta certa. La democrazia è auto-fondata, senza
legittimazione religiosa o etica e proprio questa contin-
genza assoluta l’infragilisce esponendola al deraglia-
mento totalitario.

Miguel Abensour si inserisce nel dibattito francese


sulla democrazia, provando a separare il termine dall’e-
quivalenza che tradizionalmente (anche da Lefort) veni-
va stabilita con Stato o regime rappresentativo, caratte-
rizzando il processo democratico attraverso un conflitto
che si mantiene dentro la cornice statuale e i suoi dispo-
sitivi unificanti2. La democrazia insorgente – stando al
neologismo di Abensour – o «vera» è l’«irruzione del de-
mos», l’azione politica che taglia le continuità prestabili-
te, istituendone di nuove. Immediatezza e continuità nel
tempo pongono il problema della rottura, ma anche del
consolidamento temporaneo e revocabile di un insieme
di azioni conflittuali, come nel caso della Rivoluzione
francese tra 1789 e 1799, in cui l’insurrezione del popolo
non solo affermava pratiche che si muovevano contro lo
Stato, ma istituiva «un modo d’essere del politico, sotto il
segno del non-dominio […] un legame politico non co-
strittivo, egualitario, contro l’ordine»3. Democrazia se-
condo la logica dell’insorgenza significa insurrezione
che non si attesta sull’istantaneità dell’evento, ma segue
lo sviluppo di una durata creatrice e aperta all’innovazio-

2. M. Abensour, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machia-


velliano, Cronopio, Napoli 2008, pp. 19-20 e 174-197.
3. Ivi, pp. 8-9.

114
ne, stabilizzandosi temporaneamente in istituzioni anti-
statuali libere dal dominio e dalla forma della legge. La ri-
cerca di un principio di an-archia in politica secondo la
suggestiva quanto improbabile lettura heideggeriana di
Schürmann – essere senza fondamento, cominciamen-
to, comandamento – disvela, per Abensour, la condizio-
ne ontologica del vivente – vita priva di forma (Simmel)
–, l’originarietà del conflitto dei tous uns: comunità di sin-
golarità contro il tous Un dello Stato.
L’imprinting arendtiano4, ovvero la denuncia del tota-
litarismo come devastazione traumatica dell’esperien-
za relazionale, del Mit-sein, e trionfo della desolazione e
della servitù volontaria nell’individuo atomizzato, pri-
vazione e non eccesso di politica, serve per un verso a
mostrare i limiti di una democrazia imperfetta mera-
mente rappresentativa, distrutta dalla logica astratta del
capitale, per l’altro assegna alla trascendenza democra-
tica (unico effettivo antidoto al miraggio totalitario di
un accesso sostanzialistico al sociale) il carattere altret-
tanto astratto di una libertà senza contenuti, di un rico-
noscimento infinito dell’altro, secondo la formula di Le-
vinas. La storia è percorsa dal tumulto e la libertà cresce
e si fa spazio all’interno del conflitto, impedendo che un
particolare si arroghi un potere universale, che lo Stato
spenga la democrazia, che la pluralità irriducibile del
sociale venga ricondotta all’Uno. La libertà è condizione
ontologica della politica, permettendo nuovi inizi me-
diante la presenza degli altri e il confronto reciproco. La
forma a priori dell’agire politico e lo spirito libertario

4. Aa.Vv., H. Arendt, a cura di S. Forti, Milano 1999 (saggi di C. Lefort, La


questione della politica, pp. 1 sgg., M. Abensour, Contro un fraintendimento
del totalitarismo, pp. 16 sgg.); Id., Per una filosofia politica critica, Jaca
Book, Milano 2011.

115
post-totalitario riprendono la democrazia selvaggia le-
fortiana e disegnano uno stato d’emergenza sospeso, il
vuoto nel momento in cui si produce una decisione che
si pronunci per il possibile ignoto in esso latente. Tale
Bescheidung heideggeriana si sposa con la riproposta di
un testo giovanile di Marx, la Critica della filosofia hege-
liana del diritto pubblico (1843), in cui il discorso politico
è esente ancora da contenuti sociali e delinea una meta-
politica radicale senza classi. Non a caso uno scritto di
schietta ascendenza russoiana, come russoiano è l’affla-
to insorgente di tutto l’indirizzo democratico francese
che qui abbiamo apprezzato e marcato nel suo limite.

Jean-Luc Nancy, sulla comune base arendtiana, rilan-


cerà tal quale quel giro di argomenti. Basti una citazione,
che del resto urbanizza l’autocritica di Bataille: «Di con-
seguenza, comune non ha niente a che vedere con una
“comunità” che sarebbe un attributo o una qualità degli
esseri. Comune designa l’apertura dello spazio fra gli en-
ti (o cose) e la possibilità indefinita, forse infinita che
questo spazio si apra e si riapra esso stesso come anche
che si modifichi e si modalizzi esso stesso, che talvolta si
chiuda anche (ma mai sino al punto di lasciare un unico
“ente” isolato che scomparirebbe nello stesso istante del
suo isolamento)»5. Una teologia monoteistica della de-
bolezza, che mostra l’inagibilità politica terminale della
democrazia-apertura, del vuoto non qualificato se non
per estromissione delle tendenze totalizzanti, insomma

5. J.-L. Nancy, Comunismo, il termine, in Aa.Vv., The Idea of Communism,


Verso Books, London-New York 2010; tr. it. L’idea di comunismo, Deri-
veAppprodi, Roma 2011, pp. 177-178. Il testo decisivo dell’autore è La com-
munauté désoeuvrée, Bourgois, Paris 1983; tr. it. La comunità inoperosa, Cro-
nopio, Napoli 1992. Vedi anche F. De Petra, Comunità, comunicazione, co-
mune. Da Georges Bataille a Jean-Luc Nancy, DeriveApprodi, Roma 2010.

116
di quel mero pluralismo liberale avanzato che in fondo
era l’approdo di Lefort. Dovremo cercare altrove i conte-
nuti praticabili di una communauté désoeuvrée, per non
restare ingabbiati nella suggestiva famiglia lessicale di
comunità, comunicazione, comune, comunismo senza
trovare il bandolo della matassa, il punto di applicazione
effettuale, che a nostro avviso ha proprio a che fare con la
forma-tumulto, con le sue determinanti contempora-
nee. Concludiamo con la constatazione davvero machia-
velliana che è possibile allargare, disincarnare e de-pro-
ceduralizzare la democrazia soltanto criticandola dal
punto di vista dei suoi fallimenti, delle risposte insoddi-
sfacenti, di quanti ne sono esclusi/e. «Bassi nel piano a
considerare la natura de’ monti».

Riflettendo sulla differenza fra l’espressione inglese


the man I love e quella francese l’homme que j’aime, Mer-
leau-Ponty osservava che il pronome relativo passava nel
primo caso nel linguaggio come un vuoto tra le parole6.
Un blanc entre les mots… Fenomenologia gershwiniana
che potremmo estendere alla democrazia, dove le lacune
indicano la possibilità del fuori-di-conto di irrompere
nello spazio pubblico, di perturbare la distribuzione con-
sueta delle parti, di inserirsi nell’entre della relazione
scambievole, a turno (katà meros) fra chi ha parte al pote-
re e chi lo subisce, nella duplice méthexis aristotelica al-
l’árchein o all’árcheisthai7. E quel blanc – in realtà saturo
dei conflitti di cittadinanza – ce lo possiamo immaginare

6. Signes, Gallimard, Paris 1960, pp. 54-55.


7. Politica III, 4; 1277a 23 sgg. Sulla duplice virtù di comandare e obbedi-
re propria del cittadino libero anche in occasionali opere servili cfr. ib.,
1277b 8 sgg., I, 5; 1254a 20 sgg., 7; 1255b 16 sgg. e VII, 3 nonché 14; 1332b
41 sgg.

117
scritto dalla voce di Billie Holiday o dal sax di Bird, che
The Man I love hanno riempito. La moltitudine, costi-
tuendosi in un agire politico che rompe la simmetria, si
colloca in quello spazio bianco, è un soggetto definito
dalla partecipazione a due termini contrari8, che sono poi
gli «umori» machiavelliani di non volersi far comandare
e opprimere e di voler comandare e opprimere.
Una soggettività che si insinua in una frattura del-
l’ordine normale, che si nomina per paradosso, in
quanto non risulta avere titoli spendibili di governo,
neo-formazione politica per infrazione alla vigente poli-
teía, presa in carico del torto originario della discrimina-
zione. Il vuoto della democrazia si apre allora a un’ecce-
denza che si produce sistemicamente al proprio inter-
no, nello stesso scarto della differenziazione fra
democrazia e governo rappresentativo ipotizzata da
Bernard Manin9, in cui il secondo agisce sempre da li-
mitazione oligarchica della prima fino ad assumere la
forma di democrazia dei partiti o del pubblico, cioè di
personalizzazione della leadership.
La democrazia, per Rancière, diciamo meglio la de-
mocrazia moltitudinaria non è un regime come gli altri,
bensì uno strappo nella logica del comando, dell’arché. Il
demos della demo-crazia (la moltitudine) è la gente che
non conta, an-archica, che non ha titolo per essere conta-
ta. Nel II canto dell’Iliade, vv. 198 sgg., Odisseo, in una fa-
se di vacillamento dell’autorità militare, ribadisce con ac-
centi sprezzanti l’autorità dell’Uno: uno sia il capo, uno il

8. Seguiamo e integriamo l’argomentazione delle Dix thèses sur la politi-


que di J. Rancière, pubblicate in appendice alla II edizione di Aux bords du
politique, La Fabrique, Paris 1988, tr. it. in «La rosa di nessuno», n. 3,
2008, dedicata al Potere destituente, Mimesis, Milano 2008, pp. 156 sgg.
9. Principes du gouvernement représentatif, Calmann-Lévy, Paris, 1995; tr.
it. Principi del governo rappresentativo, Il Mulino, Bologna 2010.

118
re, non è bene che i molti comandino10, e soprattutto che
non si azzardi a prendere la parola chi non conta nulla in
guerra e nel Consiglio (en polémoi enaríthmios out’enì
boulêi), laddove enaríthmios è quello che manca al conto e
vi si aggiunge per farlo tornare, il fuori-conto. Dopo di
che l’astuto guerriero bastona ignominiosamente Tersi-
te, che aveva osato, con parresia fuori luogo, accusare
Agamennone, peraltro con i medesimi argomenti di
Achille. Il demos «è la parte supplementare rispetto a
ogni computo delle parti della popolazione… il supple-
mento che disgiunge la popolazione da se stessa sospen-
dendo le logiche della dominazione legittima»11. Conta-
re le parti reali, presenti ed elencabili istituisce la police,
«una partizione del sensibile il cui principio è l’assenza
di vuoto e di supplemento»12, identità di politica e Stato,
mentre la politique vuole perturbare tale aggiustamento
supplementando la comunità proprio con i senza-parte
e rendendola così più vasta, una nuova totalità. Anzi, la
politica esiste nel momento in cui l’ordine naturale del
dominio viene interrotto dall’istituzione di una parte dei
senza-parte: «tale istituzione rappresenta il tutto della
politica come forma specifica di legame e definisce l’ele-
mento comune della comunità politica, ovvero divisa,

10. Aristotele, Politica IV, 4; 1292a 10 sgg. interpreta tale polukoiraníe co-
me degenerazione demagogica della democrazia, dove governano le de-
cisioni assembleari e non le leggi. Per la diffidenza dello Stagirita verso
una democrazia dei poveri e la denuncia delle aporie e instabilità di una
politeía dell’eccessiva libertà e scambiabilità fra governare ed essere go-
vernati, cfr. ib. VI, 2-5, fino alla sprezzante elencazione dei sintomi di un
regime demagogico alternativo all’oligarchia: «bassa nascita, povertà, la-
voro manuale [agéneia penia banausia]», 1317b 40.
11. Rancière, cit., tesi 5.
12. Ib., tesi 7. Il termine police – il lato opaco della politeía – rinvia alla tra-
dizione settecentesca e hegeliana di amministrazione e sicurezza sociale
ma in sostanza si riferisce alle pratiche moderne di governance.

119
fondata su un torto che sfugge all’aritmetica degli scam-
bi e dei rimedi», al di fuori restano soltanto l’ordine del
dominio o il disordine della rivolta13.
Prendiamola sotto un altro profilo: l’immissione di
nuovi soggetti inflaziona la domanda politica e fa della
democrazia l’opposto della luhmanniana riduzione di
complessità e di qualsiasi deflazione dell’offerta. Si inne-
stano processi singoli di complicazione, che natural-
mente non sono in sé interminabili ma lasciano inter-
minabile il processo complessivo. Ogni volta vengono
divelti gli steccati del «permesso» e se ne definiscono di
nuovi, chiarendo bene che sono provvisori e scavalcabili.
Se la legge interpella i cittadini costituendoli in indi-
vidui, responsabilizzandoli (colpevolizzandoli) in sog-
getti giuridici, dunque interpella anche i manifestanti,
chiedendo di esibire documenti di identità che essa
stessa ha fornito, in veste di police disperde le manife-
stazioni invitando i passanti a «circolare», perché «non
c’è niente da vedere»! Il tumulto – commentiamo – è
proprio il modo per trasformare uno spazio di «circola-
zione» in uno spazio pubblico, dove anche Tersite abbia
voce e stinga l’apologia dell’Uno. L’essenza della politica
e della democrazia è proprio la manif, la manifestazione
del dissenso che indica in ogni mondo la presenza di
due mondi14, la divisione dell’Uno nel Due. La politica,
nella sua essenza, non è comunicazione fra interlocuto-
ri definiti, accordo ragionevole, ma machiavelliana dis-
sensione, litigio, différend, non aggregato di tecniche del
consenso bensì soggettivazione dissensuale15 nella quale

13. J. Rancière, La mésentente, Galilée, Paris 1995; tr. it. Il disaccordo. Poli-
tica e filosofia, Meltemi, Roma 2007, p. 33.
14. Ivi, tesi 8.
15. Ivi, tesi 10. Indicazione tanto più importante in quanto oggi sono atti-

120
la società differisce da sé mostrando quanto l’avvenire
possa scostarsi da un presente congelato. Police vs tu-
multo: ognuno ne afferra la portata!
Però, restiamo vigili. Tersite, una volta silenziato,
esce di scena dall’Iliade. Ma non nelle varianti omeriche
– posticce o censurate. Quinto Smirneo nelle Posthome-
rica (III-IV secolo), lo Pseudo-Apollodoro nell’Epitome
della Biblioteca ed Eustazio, arcivescovo di Tessalonica
(XII secolo) nei Commentarii ad Homeri Iliadem perti-
nentes ne fanno il testimone dello scempio necrofilo che
Achille compie dopo il duello con Pentesilea sul cadave-
re dell’Amazzone spogliato dall’armatura. Testimone ir-
ridente ad Achille e non si capisce se solidale con la vit-
tima, comunque ammazzato con un pugno dall’eroe in-
furiato. Indice ambiguo, non di meno, che non ogni
fuori-di-conto esprime la differenza e che il vuoto, l’a-
pertura democratica – anche nella formula ben più ra-
dicale di Rancière rispetto a Lefort – va significata attra-
verso un contenuto storico. Pensare in congiuntura
spinge fuori della definizione: occorre cioè arrischiare
il contenuto datato della congiuntura (sarà la differenza
di genere, lo statuto precario del lavoro, l’irruzione del
migrante e il meticciato culturale), senza di che ci si
blocca nella compiacenza procedurale, ci si accontenta
del pluralismo lasciando sullo stesso piano le forze an-
tagonistiche, si urbanizza anzi l’antagonismo in agoni-
smo, la politique in metapolitica.
Ogni ontologia del vuoto, infatti, rischia di schema-
tizzare la politica come insieme delle condizioni che
vi processi di de-soggettivazione miranti a indebolire le condotte antago-
nistiche: che la governance comporti una moltiplicazione di procedure di
autorizzazione che avvantaggiano i governanti rispetto ai governati e va-
nificano le possibilità di de-authorisation dei singoli cittadini mostra bene
la continuità con i classici dispositivi della sovranità.

121
rendono possibile la politica. Ciò senza dubbio permet-
te l’irruzione delle parti di volta in volta escluse e integra
il quadro liberal-democratico con esperienze consiliari,
partecipative, assembleari, ma lascia indefiniti i sogget-
ti e il loro rapporto con l’esperienza lavorativa, quasi a
separare l’agire politico puro dalla trasformazione della
vita e della produzione, perdendo la politicità e produt-
tività congiunte delle relazioni e instaurando una logica
della cittadinanza estesa, dove la battaglia contro il torto
sostituisce quella contro lo sfruttamento. Non che sia
poco, ma il rischio di un superiore formalismo lampeg-
gia a intermittenza e la suggestione dell’evento istanta-
neo valorizza il tumulto sganciandone tuttavia l’impre-
vedibile libertà dai rapporti concreti e dalle condizioni
di sedimentazione sociale.
Scriveva C. Lonzi (Sputiamo su Hegel): «Noi viviamo
questo momento e questo momento è eccezionale. Il
futuro ci importa che sia imprevisto piuttosto che ecce-
zionale». L’eccezionale sta nei contenuti della vita e
l’imprevisto svuota la metastoria.

122
Pentesilea: attraverso le figure
della differenza

Se credi questo, sbagli: a Pentesilea è diverso. Sono ore che avan-


zi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o ancora fuori […]
Se nascosta in qualche sacca o ruga di questo slabbrato circon-
dario esista una Pentesilea riconoscibile e ricordabile da chi c’è
stato, oppure se Pentesilea è solo periferia di se stessa e ha il suo
centro in ogni luogo, hai rinunciato a capirlo. La domanda che
adesso comincia a rodere nella tua testa è più angosciosa: fuori
da Pentesilea esiste un fuori? O per quanto ti allontani dalla città
non fai che passare da un limbo all’altro e non arrivi a uscirne?

I. Calvino, Le città invisibili

Con le pubblicazioni di Rivolta Femminile uscite tra il


1970 e il 1972 Carla Lonzi pone la questione della diffe-
renza sessuale. L’obiettivo strategico era l’affermazione
pratica di un gesto di rivolta dentro la rivoluzione, dal
momento che la rottura doveva essere intrapresa non
solo nei confronti del sistema culturale e sociale com-
plessivo, ma anche rispetto ai gruppi politici1. Mettiamo
da parte la riduzione che pure viene operata tra le diver-
se anime del movimento, perché passando per Marx e
arrivando a Hegel, secondo Lonzi, il problema che al
fondo rimane è il seguente: «La Fenomenologia dello Spi-

1. Cfr. relazione di Federica Giardini sul 1968 al seminario Lum 2011 (Ro-
ma – Esc Atelier), atti in corso di pubblicazione.

123
rito è una fenomenologia dello spirito patriarcale, incar-
nazione della divinità monoteista nel tempo. La donna
vi appare come immagine il cui livello significante è
un’ipotesi di altri»2. Ulteriore teologia monoteista che
percorre strade parallele rispetto a quella soggiacente al
dispositivo sovrano, non contemplando la differenza,
se non nell’ordine dell’esser posto dall’altro maschile.
Proviamo ora a dilatare la serie numerica oltre l’Uno e il
Due, fino a includere nella differenza la molteplicità.
Non si tratta di dire che l’Uno è molteplice, ma di fare
direttamente presa sulla molteplicità differenziata3, as-
sumendo che la logica del dualismo, che contrappone
l’uomo alla donna – dal punto di vista bio-anatomico4 –,
il corpo alla mente5, il privato al pubblico6, viene sempre
operata nella forma dell’assoggettamento, dell’esclusio-
ne e della riconduzione di una parte all’altra. La diffe-
renza sessuale si sottrae al procedimento dialettico, co-
me chiarisce Lonzi, perché: «sul piano donna-uomo
non esiste una soluzione che elimini l’altro»7, la mossa
politica delle donne è già su un altro piano8 – prendendo
per buono quanto fin qui detto, è tumultuaria/esodante
e non rivoluzionaria – e per questo si vanifica la pro-
spettiva della «presa» del potere. La differenza è a-sim-
metria radicale tra i sessi e dissonanza9, per dirla con
2. C. Lonzi (1970), Sputiamo su Hegel e altri scritti, et al., Milano 2010, p. 10.
3. R. Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea. Verso una
lettura filosofica delle idee femministe, La Tartaruga edizioni, Milano 1994,
p. 250.
4. Ivi, p. 87.
5. Ivi, p. 197.
6. Ivi, pp. 253-254.
7. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 20.
8. Ivi, p. 42.
9. Cfr. R. Braidotti, Dissonanze, cit., p. 275. La dissonanza è anche quella
tra teorie femministe e teorie post-strutturaliste che propongono la ride-
finizione del soggetto, seguendo strade diverse.

124
Rosi Braidotti. La metafora tonale e quella prospettica
dichiarano l’impossibilità della complementarietà, del
rispecchiamento e della fusione, opponendo positività,
spostamento, stridore.
Sempre Lonzi sostiene che la differenza sessuale è
la differenza di base dell’umanità, spingendosi provoca-
toriamente a dire che: «l’uomo nero è uguale all’uomo
bianco, la donna nera è uguale alla donna bianca»10. As-
sumiamo fino in fondo che la differenza è una questio-
ne «esistenziale» – cioè relativa al corpo e all’esperienza
– provando a complicare le due equivalenze proposte e
notando che F. Fanon affronta il tema da tutt’altra pro-
spettiva: «Il Nero vuole essere Bianco. Il Bianco si acca-
nisce per realizzare la condizione di uomo […] Il Bianco
è chiuso nella sua bianchezza. Il Nero nella sua nerez-
za»11. La differenza – questa volta nominata esclusiva-
mente al maschile – viene spostata su un piano ulterio-
re: il bianco e il nero non si equivalgono, perché i dispo-
sitivi di segmentazione e separazione agiscono per
successive differenziazioni, il cui risultato sono il Bian-
co e il Nero in quanto oggettivazioni costruite. Questo
approccio sbieco alla differenza coglie al contempo il li-
mite della promessa emancipatoria della Rivoluzione
francese (in parallelo ai Giacobini neri di C. L. R. James)
e l’impossibilità di ripetere sul terreno coloniale il mec-
canismo della Fenomenologia dello Spirito hegeliana, che
prometteva la conciliazione dialettica fra Servo e Signo-
re, legge del cuore (Antigone) e legge della polis (Creon-
te), mediante il sacrificio produttivo del primo termine
al secondo in vista di una sintesi. Il sessismo e il razzi-

10. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 14.


11. F. Fanon, Pelle nera maschere bianche. Il Nero e l’Altro, tr. it. Marco Tro-
pea Editore, Milano 1996, p. 9.

125
smo seguono la logica binaria dell’Uno/Due perché la
differenza viene sempre affermata come distinzione
biologica e al contempo surrettiziamente ricondotta al-
la presunta unicità di una parte. Il riconoscimento falli-
sce per eccesso di identità e fissità gerarchica.
Proviamo a insistere, seguendo Angela Davis, sul-
l’intersezione produttiva delle differenze lungo la linea
del colore, del sesso e della classe12, realizzata concreta-
mente nel taglio operato dall’esperienza tumultuaria.
Nell’indicare la differenza sessuale come prototipo13, va-
le, a nostro avviso, tanto l’esemplarità della differenza
tra uomo e donna, quanto la riproducibilità dello sche-
ma di differenza su diversi livelli. Se la dialettica riporta
la differenza alla separazione rettilinea dell’Uno/Due o
alla sfericità della sintesi, guardando ai lavori di M. C.
Escher, possiamo invece disegnarla secondo l’architet-
tonica degli oggetti impossibili, frattalizzati, topologi-
camente estranei l’uno all’altro. Nella Metamorphose
ogni animale o insetto è separato e distinto, ma scor-
rendo la stringa, ognuno diviene altro, così come i piani
non sono più disposti né aggregati nel rispetto delle di-
rezioni prospettiche stabilite, ma connessi secondo una
nuova geometria.

Virginie Despentes sostiene programmaticamente


che quello che è mancato nelle odierne società occiden-
tali è stato un processo di emancipazione maschile.
«C’è stata una rivoluzione femminista. Delle parole so-
no state articolate, a dispetto della buona educazione, a
dispetto delle ostilità. E continuano a scorrere. Ma, per
il momento, niente riguardante la mascolinità. Silenzio
12. A. Davis, Bianche e nere, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1985.
13. R. Braidotti, Dissonanze, cit., p. 186.

126
spaventato dei maschietti fragili»14. Le donne nella lotta
si sono separate, messe in discussione, hanno distinto
il clitorideo dal vaginale, sperimentato l’autocoscienza,
si sono emancipate – se beninteso il termine non signi-
fica adeguamento agli standard e alla rappresentazione
del potere maschile –, mentre gli uomini non hanno
mai problematizzato la propria sessualità, decostruito i
ruoli prefissati, affrontato la loro vulnerabilità. Gli avve-
nimenti più recenti, esacerbando il legame irrisolto tra
sesso e potere (e violenza), confermano il problema se-
gnalato dalla Despentes, a dispetto delle opinioni dei
molti che si sono affaccendati esclusivamente per rista-
bilire una pubblica morale che rendesse giustizia alla
dignità e all’integrità della donna. Quando Michel Fou-
cault affrontava il problema della sessualità superando
l’«ipotesi repressiva» e dimostrando come fosse piutto-
sto la risultante positiva e storica dell’intreccio tra poteri
e discorsi, indicava non solo il rapporto più generale tra
sesso e gestione della vita15, ma anche le due polarità at-
torno cui ruota buona parte del problema politico-go-
vernamentale oggi.
La differenza sessuale rimane un nodo irrisolto e un
campo di agitazione ancora non completamente per-
corso. La posta in gioco non è il progresso verso un mo-
dello, né il ritorno all’autenticità, ma l’espressione viva
della differenza come nome singolare che contiene in
sé il molteplice secondo il modello delle «costruzioni
impossibili» di Escher. Si può applicare lo schema del-
l’anticipazione cronologica e ontologica della lotta e del-
la resistenza rispetto alla riorganizzazione dei dispositi-

14. V. Despentes, King Kong Girl, tr. it. Einaudi, Torino 2007, p. 113.
15. Cfr. M. Foucault (1976), La volontà di sapere, tr. it. Feltrinelli, Milano
1994.

127
vi di potere anche al femminismo, quando si provano a
interpretare le condizioni attuali delle migranti, stu-
dentesse, precarie, fuori dalla teoria del dominio e del-
l’oppressione dell’uomo sulla donna e guardando piut-
tosto alla trasformazione prima prodotta dai movimen-
ti e poi riassorbita da nuove tecniche di gestione della
differenza, della sessualità e della vita. Il richiamo al
monoteismo e alla cristianità non è mai solo il tentativo
di ripristinare un passato o un’origine più pura, ma un
travestimento simbolico di nuove tecnologie di control-
lo, che si misurano con forme di vita altrettanto mutate
(crisi della forma parentale e polimorfismo sessuale).
Del pari, la prospettiva del dominio e dell’oppressione,
istituendo un dislivello assoluto tra chi agisce e chi sub-
isce, rischia sempre di favorire l’idea che la strutturazio-
ne dei rapporti sia atemporale, eterna e immodificabile.
Con il rischio connesso che assuma lo stesso mood an-
che la rivoluzione…
«C’è una forma della forza, che non è né maschile,
né femminile, che impressiona, spaventa, rassicura.
Una facoltà di dire no, di imporre i propri punti di vista,
di non tirarsi indietro»16. Dentro i tumulti di oggi sono
giunte, seguendo sentieri sotterranei di trasmissione,
le pratiche del femminismo di ieri: partire da sé (in
quanto corpo, condizione ed esperienza), rifiuto della
presa del potere, costruzione di simbolici alternativi, af-
fermazione di creatività non riducibili alle consuetudi-
ni discorsive. Quando si lotta, si conosce o si sceglie
sempre la posizione da cui si parte. Ma l’inquietudine
che muove l’esperienza del tumulto (come quella della
militanza) sta nell’invenzione di «costruzioni impossi-

16. V. Despentes, King Kong Girl, cit., p. 114.

128
bili» tra piani di differenza molteplici e – mentre vengo-
no fissati gli obiettivi strategici e individuata la mobile
controparte «nemica» – nella trasformazione radicale
delle condizioni e delle espressioni di esistenza. Nel tu-
multo si sperimenta la differenza come politeismo. Si
tratta sempre di una scommessa, di un tentativo che
può anche incappare in atroci e si spera occasionali fal-
limenti, come nel caso egiziano che, a rivolta conclusa,
ha riproposto l’aggressione alle donne «indecorose»
che «pretendevano» di manifestare per strada.
La rottura tumultuaria non garantisce sic et simplici-
ter l’affermazione di nuove forme di vita e la composi-
zione distonica tra differenze. Foucault, quando si pro-
pone di definire la genealogia della governamentalità a
partire dalla pastorale cristiana, indica anche quali furo-
no i meccanismi specifici di resistenza al potere in
quanto capacità di condurre17. Il potere pastorale, nella
sua specifica tecnologia che si applica a una molteplici-
tà in movimento (come a un gregge), che punta alla ge-
stione dell’insieme e, al contempo, al controllo indivi-
duale, con la finalità di condurre omnes et singulatim alla
salvezza, sarà modello per la polizia settecentesca, per i
dispositivi di sicurezza e controllo e per il welfare state
nelle economie liberali. La qualità specifica dei mecca-
nismi governamentali sta nella produzione di «un sog-
getto assoggettato attraverso reti ininterrotte di obbe-
dienza»18. Governare significa guidare il desiderio e i
modi di vita altrui, attraverso la regolazione di verità va-
lide per tutti e la fissazione delle norme, rivolte alla sup-
posta salvezza comune. Ma c’è anche un rifiuto di esse-

17. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al College de Fran-


ce (1977-1978), tr. it. Feltrinelli, Milano 2007, p. 144.
18. Ivi, p. 141.

129
re governati in generale o sotto certe condizioni che si
esprime come attività positiva e sfugge alla sostantifica-
zione: le controcondotte non sono puramente passive
(come la cattiva condotta) e non sono delimitate a un
soggetto nominalmente circoscritto. Il termine contro-
condotta può essere profittevole solo se usato nella sua
capacità trans-individuale di trasformazione. Esso non
è mera opzione del singolo che si realizza nell’opposi-
zione-a e in questo senso equivale a concetti quali «for-
ma di vita», insistente sulla dimensione istituente di un
comune, o «espressione di esistenza», che manifesta
piuttosto modi di vivere legati a un nuovo processo
esperienziale. Le rivolte di condotta, ci dice Foucault,
hanno la loro specificità: «sono distinte dalle lotte politi-
che o economiche per obiettivo e per forma»19, ma s’in-
trecciano produttivamente con queste altre due forme
del conflitto. Nel tumulto si realizza la contemporanei-
tà della lotta contro lo sfruttamento, del conflitto che
mette in crisi la decisione politica (e le sue istituzioni) e
della lotta contro i modi di governo della vita. La nuova
configurazione di piani di differenza e della loro reci-
proca connessione secondo delle geometrie impossibi-
li – diversamente della scala infinita di Penrose non si
tratta di produrre un’illusione o un’allusione, ma di
mettere insieme piani che sono sempre altri – non si
palesa nello squarcio prodotto dal fulmine dell’evento
tumultuario, ma nella continuità prodotta dalle forme
organizzative, prima e dopo il tumulto.

Ritorniamo alla differenza. Nell’Edipo a Colono sofo-


cleo, dopo che la maledizione del Padre si abbatte sui fi-

19. Ivi, p. 146.

130
gli/fratelli, Eteocle e Polinice, Edipo inizia la propria pe-
regrinazione accompagnato dalla figlia/sorella Antigo-
ne. La prima variante ottimizza la fedeltà al padre, che si
conclude nell’atto di sepoltura. Nell’Antigone Sofocle
propone una seconda variante, narrando la storia dell’i-
stanza etico-politica di colei che disobbedisce agli ordi-
ni di Creonte, dando sepoltura al fratello e decretando
così la propria morte20.
Antigone figura per eccellenza della differenza (eti-
ca, sessuale, politica) che rompe l’ordine comunitario vi-
ve di una lunghissima storia21. Ripercorriamo somma-
riamente alcune celebri interpretazioni, che per la mag-
gior parte valorizzano il nesso fra rapporti di genere e
guerra, fra differenza e Stato. Per Hegel, ella rappresen-
ta storicamente il passaggio dal matriarcato al patriarca-
to. È differenza in quanto immediatezza senza sintesi,
legge del cuore contro logica del potere, istanza etica che
si oppone a quella politica dello Stato, per esserne subito
riassorbita. Esplicitamente nelle Lezioni di estetica e im-
plicitamente in Fenomenologia VI A b 3 Hegel addita nel
contrasto fra Antigone e Creonte quello tra la Famiglia e
lo Stato, entrambi unilaterali, ma dove la prima resta al-
l’eticità naturale, nella quale l’unità è posta come già da-
ta, il secondo comporta il passaggio alla cultura e alla ri-
flessività che rifiuta l’immediato e lo trasforma in Spiri-
to. La coscienza etica di Antigone è la più pura in quanto
essa è consapevole della colpa, della trasgressione della
legge della polis, facendosi così pathos dell’individuo.
Creonte, farà trionfare la comunità sul principio sedizioso

20. Una buona panoramica del mito e delle fonti è offerta da R. Graves, I
miti greci, tr. it. Longanesi, Milano 1995, pp. 338-349.
21. Cfr. a F. Brezzi, Antigone o la philia. Le passioni tra etica e politica, Fran-
co Angeli, Milano 2007.

131
della singolarità, ma al prezzo di configurare il diritto su-
premo come torto supremo. Hegel, si badi, non condan-
na né disprezza Antigone, tutt’altro, anzi ella impersona
la legge della debolezza e dell’oscurità che resta la radice
sotterranea dello spirito manifesto e l’elemento femmi-
nile (eterna ironia della comunità) esalta il momento
della giovinezza (l’elemento maschile immaturo) che ri-
mescola continuamente l’astratto dominio della comu-
nità, movimenta la sostanza etica nelle forme della guer-
ra. La vittimità femminile ha un ruolo dialettico positivo
in Hegel, ma la sua lettura del mito incastra Antigone in
un ruolo subalterno. Si trasfigura dialetticamente una
visione storicamente datata della donna e della guerra
porgendola come eterno naturale, sia pure da rimescola-
re nella riflessività dello Spirito.
La rilettura brechtiana (a base Hölderlin) di Antigo-
ne come eroina antimilitarista e antinazista nella Ger-
mania dell’aprile 1945, capovolge l’elogio hegeliano del-
la guerra valorizzando la vittimità eroica: «Esci dalla pe-
nombra e cammina / davanti a noi ancora un poco, /
gentile, con il passo leggero / della donna risoluta a tut-
to, terribile /per i terribili […] ti faceva orrore la vita in-
degna / e non fosti indulgente / in nulla verso i potenti,
e non scendesti / a patti con gli intriganti… Una varian-
te in cui il potere riceve tutta la sua non mediabile ini-
quità e la tenace debolezza della resistenza continua a
identificarsi, al livello più nobile, con la differenza di ge-
nere (pietà femminile versus orrore bellico.
L’elogio della vulnerabilità e il suo sottinteso aggan-
cio a una differenza di genere e a un’appartenenza ai vin-
ti (quasi quel gender fosse esonerato dalla storia dei ma-
schi vincitori) – come la rivendicazione adorniana dei va-
lori della vita offesa – testimoniano la ribellione a una

132
società autoritaria e patriarcale, tuttavia… Tuttavia Nietz-
sche ci ha resi avvertiti di quanta violenza repressa,
quanto risentimento alligni nella vittima. Come dunque
sia necessario, nel compensare il torto, uscire dalla logi-
ca della vendetta e dall’idealizzazione (masochista o sa-
dica) della vittima. Sangue e adrenalina da paura eccita-
no il predatore e incattiviscono la preda che scampa. Il si-
stema oppressione-predazione resta intatto.
Da una prospettiva impercettibilmente variata, Carla
Lonzi, senza citarla esplicitamente, fa riferimento ad An-
tigone, perché «nel manifestarsi della donna quale “eter-
na ironia della comunità” noi riconosciamo la presenza
dell’istanza femminista di tutti i tempi»22. L’ironia consi-
ste nello spostarsi su un piano diverso o nel risignificare i
significanti dell’ordine discorsivo prevalente. È una spe-
cie di surrealismo senza inconscio, perché procedendo
per associazioni creative che rovesciano ed esodano dalla
situazione problematica di partenza, esso è già affidato al-
l’esteriorità del gesto o dell’atto di parola.
Luce Irigaray23 sostiene che Antigone, rifiutandosi
di obbedire all’editto creonteo, interrompe con la sua
azione la legge (e la dialettica) sovrana, maschile, fami-
liare. C’è correlazione tra la differenza concepita secon-
do dialettica e la guerra, tra la Famiglia e lo Stato: l’ap-
propriazione maschile della donna – ovvero la riduzio-
ne della differenza femminile all’Uno maschile – è
strettamente intrecciata con l’appropriazione dei corpi
da parte del potere; il dovere femminile di seppellire il
cadavere fa parte di una cultura della morte24. C’è una

22. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 19.


23. Cfr. L. Irigaray, Speculum. Dell’altro in quanto donna, tr. it. Feltrinelli,
Milano 2010, p. 202.
24. Ivi, pp. 199-201.

133
traduzione per assimilazione tra leggi del femminile e
del virile: «Per dove la loro differenza passerà nel movi-
mento ulteriore dello spirito? Anzi come questo risolve-
rà tale differenza? Dandosi successivamente e retroatti-
vamente il diritto di legiferare al riguardo, enunciando
il suo divenire, senza tener conto del fatto che un certo
processo di enunciazione, ispirato com’è dal desiderio
di ritrovare il medesimo, ha già espulsa da sé la diffe-
renza»25. Per Hegel, tra fratello e sorella non vi può es-
sere desiderio e questa assenza incrina anche la dialetti-
ca del riconoscimento, che nelle pagine dedicate a Si-
gnore e Servo parte dal desiderio per sublimarlo in una
forma più colta e cosciente di rispecchiamento. Iriga-
ray, al contrario, dimostra che la reciprocità tra consan-
guinei non è possibile perché il riconoscimento è sem-
pre inficiato dalla posizione di partenza di colui e di co-
lei che enuncia. La donna resta alienata nella possibilità
di enunciazione, dipendente dal linguaggio del maschi-
le – parte che al contempo viene identificata con l’uni-
versale e a cui viene ricondotta la differenza sessuale.
Antigone incarna il femminile e il maschile (nell’azione
e nella rivendicazione diventa virile, dichiara lo stesso
Creonte), parla pubblicamente, attirandosi le simpatie
degli schiavi, silenziosi di fronte al potere26, e disobbe-
disce. Antigone è figura di un principio di rivolta contro
l’«universalità formale e vuota» che lega la famiglia alla
guerra (e allo Stato) e che, rompendo quell’universalità,
viene a sua volta sepolta viva.
Secondo Judith Butler: «la forza di Antigone […]
sembra avere a che fare non semplicemente con il mo-
do in cui la parentela esprime la sua rivendicazione al-
25. Ivi, p. 208.
26. Ivi, p. 203.

134
l’interno del linguaggio dello Stato, bensì con la defor-
mazione sociale della parentela idealizzata e della so-
vranità politica […] Con la sua azione essa vìola sia le
norme di genere sia quelle di parentela»27. Antigone
disobbedisce due volte: la prima quando seppellisce il
fratello, la seconda quando rivendica il suo gesto, rifiu-
tando l’autorità costituita, assorbendone il linguaggio
(maschile) e affermando la propria autorevolezza28. È la
stessa discendenza di Edipo a riprodurre l’assurdità del-
la situazione di partenza che compromette il vincolo
consueto della parentela. La tragedia palesa il divieto
dell’incesto e la legge su cui si fonda l’identità psichica
dell’Io, secondo Freud, o nomina i confini dell’ordine
simbolico, secondo Lacan. La morte di Laio o di Antigo-
ne è sempre al contempo fisica, psichica e sociale.
Sia Hegel che Lacan idealizzano la parentela. Per il
primo Antigone rappresenta i «termini della parente-
la», per il secondo ne incarna invece i limiti, nel primo
caso la morte di Antigone definisce l’assorbimento del-
la famiglia da parte dello Stato, nel secondo segna il
confine di accettabilità culturale e di «vivibilità» (non ci
può essere desiderio tra fratello e sorella)29. Butler a sua
volta attualizza il personaggio, rileggendolo nel quadro
della crisi del modello familiare e della norma eteroses-
suale. La situazione contemporanea è post-edipica. An-
tigone tradisce la normatività tradizionale imponendo
una norma contingente che si esprime direttamente
nell’azione e nell’operatività, per questo non «rappre-
senta una perversione della legge», ma un ripensamento

27. J. Butler, La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la mor-


te, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 18-19.
28. Ivi, pp. 19-26.
29. Ivi, pp. 43-78.

135
del divieto stesso: «Pur non essendo propriamente
un’eroina queer, Antigone rappresenta emblematica-
mente una certa fatalità eterosessuale ancora da inter-
pretare […] A quali altre modalità di organizzare la ses-
sualità potrebbe dare origine prendere in considerazio-
ne quella fatalità?»30.

Butler aveva ben colto la relazione hegeliana tra sub-


ordinazione femminile e guerra: «Il tentativo di snatu-
rare con mezzi femminili l’universalità che lo Stato rap-
presenta viene quindi annullato da un movimento op-
posto dello Stato, che non si limita a interferire nella
felicità familiare, ma recluta la famiglia al servizio della
propria militarizzazione»31. Già Lonzi ne evidenziava
gli effetti: la violenza primaria sulla donna da parte del-
l’uomo si replica con la violenza esercitata sul giovane
maschio (e sulla famiglia in generale)32.
Secoli prima già l’ateo e antimilitarista Lucrezio ave-
va individuato il nesso tra il sacrificio della donna e
quello dell’uomo per la guerra: «Così in Aulide l’altare
della vergine Trivia/ turpemente violarono col sangue
d’Ifianassa gli scelti/duci dei Danai, il fiore di tutti i
guerrieri […] Né in quel momento poteva giovare alla
sventurata / l’avere per prima donato al re il nome di pa-
dre. / Infatti, sorretta dalle mani dei guerrieri, è condot-
ta tremante/ all’altare, non perché dopo il rito solenne /
possa andare fra i cori dello splendente Imeneo, / ma
empiamente casta, proprio nell’età delle nozze, / per-
ché cada, mesta vittima immolata dal padre, / affinché
una fausta e felice partenza sia data alla flotta. / Tanto

30. Ivi, pp. 98-99.


31. Ivi, p. 55.
32. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 19.

136
male poté suggerire la religione»33. La profezia voleva
che Agamennone, per salpare alla volta di Troia e di-
struggerla, sacrificasse una delle tre figlie ad Artemide
e la prescelta fu Ifigenia-Ifianassa. Tra le varianti del mi-
to, il punto di rilievo del testo lucreziano non è tanto la
condanna della guerra, ma l’identificazione della donna
come vittima di una guerra altrui, la guerra del padre.
Una certa concezione della differenza corre sempre il
rischio della stigmatizzazione: il tratto di vulnerabilità
che può essere individuato in alcuni soggetti diventa
victimacy vera e propria34. Ifigenia è sia figura della dif-
ferenza sessuale vittimizzata, cui esposizione e fragilità
vengono verticalmente assegnate per giustificare la ge-
stione del potere politico e delle forme del controllo, sia,
a intenderla e aggiornarla, la sacrificabilità del presente
nelle rivoluzioni – scontando la trita metonimia per cui
il futuro programmato è maschile, la spensierata im-
mediatezza del presente femminile.
Cosa accade nel caso di Grace, la protagonista di
Dogville, quando la donna da vittima diventa carnefice
(doppia figura della Grazia divina, doppia incombenza
della teologia politica)? È di nuovo V. Despentes a de-
scrivere efficacemente la novità della situazione: «i cor-
pi delle donne appartengono agli uomini solo se in
cambio i corpi degli uomini appartengono alla produ-
zione in tempo di pace, allo Stato in tempo di guerra. La
confisca del corpo delle donne avviene contemporanea-
mente alla confisca del corpo degli uomini […] Il soldato

33. Lucrezio, De rerum natura I, 80 sgg. (tr. it. Luca Canali). Si noti la so-
stituzione del cruento sacrificio bellicamente orientato (casta inceste ho-
stia concideret) all’altrettanto cruento sacrificio della verginità claro Hyme-
naeo, che sarebbe la «normalità» della gestione parentale.
34. Fondamentali le ricerche di Gayatri Chakravorty Spivak (1999), Criti-
ca della ragione postcoloniale, tr. it. Meltemi, Roma 2004.

137
più noto della guerra in Iraq è una donna»35, come dire
che una serie di orrori oggi sono bi-gender.

Christa Wolf, quando afferra in Cassandra la figura


della differenza e della dissidenza, critica a ragion vedu-
ta Pentesilea, che non viene mai nominata nelle pagine
dell’Iliade, mentre in Stesicoro e nella tradizione post-
omerica e iconografica la sua presenza è decisamente at-
testata. La regina delle Amazzoni, figlia di Ares – che
aveva la guerra iscritta nel Dna – fuggendo con il suo
esercito di dodici donne dalla furia delle Erinni, approda
a Troia, dove si distingue nell’obbedienza a Priamo, ucci-
dendo molti Greci e respingendo dalle mura della città
Achille. Nelle varianti di Quinto Smirneo e dello Pseu-
do-Apollodoro, Achille, pur amando Pentesilea, alla fine
la uccide in battaglia36. La regina, rifiutando l’amore, era
stata condannata da Afrodite a suscitare in ogni uomo
un desiderio violento nei suoi confronti: l’elmo e l’arma-
tura servivano a celare il suo corpo dal desiderio maschi-
le. Su questa base Eustazio di Tessalonica narra una ver-
sione più macabra della fine dell’Amazzone, perché
Achille, rispettando la consuetudine di spogliare il cada-
vere del nemico, scopre un corpo di donna e, folgorato
dalla sua bellezza, compie un atto di necrofilia37.
La Wolf ritorna sul rapporto tra società patriarcale e
cultura della guerra, mostrando come nel caso di Pente-
silea quell’originaria violenza maschile venga fatta pro-
pria dal femminile. L’amazzone cerca lo scontro per lo

35. V. Despentes, King Kong Girl, cit., p. 17.


36. R. Graves, I miti greci, cit., pp. 627-634.
37. Eustathius, Eustathii archiepiscopi Thessalonicensis commentarii ad Ho-
meri Iliadem pertinentes, vols. 1-4 (ed. Marchinus van der Valk), Brill, Ley-
den 1971-1987.

138
scontro, non condivide la posizione di mezzo di Cassan-
dra, la sua incapacità di scegliere tra amico e nemico38.
Ella non combatte solo contro i Greci, ma «contro tutti i
maschi», per il suo esercito di donne è come «un re» – ha
incorporato il tratto maschile di comando – e Cassandra
non può sopportare che anche una donna, rifiutando il
linguaggio della propria diversità e uniformandosi al
comportamento maschile da «macellai», possa nutrire
un desiderio di morte: «queste uccidono quelli che ama-
no, amano per uccidere». Una scelta di separazione e di
guerra. Ma c’è un’altra Amazzone, Mirina, con cui pur
nella loro differenza Cassandra costruisce un rapporto
di sorellanza e di composizione, e poi ci sono le donne
dello Scamandro che hanno ricostruito fuori dall’opzio-
ne bellica un altro tipo di comunità: «Tra uccidere e mo-
rire c’è una terza via: vivere», come spiega la schiava Cil-
la. La spirale della violenza guerrafondaia, che si duplica
nella morte della regina delle Amazzoni e nella rivisita-
zione della necrofilia di Achille – «I maschi, deboli, ma
con il prepotente bisogno di vincere, si servono di noi co-
me vittime per poter conservare il sentimento di sé» –, si
conclude prima con lo strazio del corpo di Pentesilea,
trascinata dai cavalli lungo il campo – «straziare la don-
na per ferire il maschio» –, poi con un funerale in cui tut-
te le donne si riuniscono e riproducono nei confronti del
primo greco che incontrano il linciaggio originario – lo
stupro e il genocidio – che nella guerra si manifesta.
Pentesilea, in questa prospettiva, anticipa la donna sol-
dato contemporanea, che ha concepito l’emancipazione
femminile come la riproposizione più bieca del modello
e degli strumenti di potere maschile. Ma è anche colei

38. C. Wolf, Cassandra, tr. it. e/o, Roma 2011, pp. 10-11, 120, 121, 123, 125.

139
che rivendica, insieme alle altre Amazzoni, la propria
autonomia nella separazione – a differenza della tradi-
zione antica, nell’opzione di Wolf, Pentesilea, non obbe-
disce agli ordini di Priamo.
Pentesilea, come Ifigenia e Antigone, è inserita nella
problematica che connette la differenza sessuale alla
guerra. La guerra esterna mossa nei confronti del nemi-
co e la guerra interna – che procede per esclusioni bina-
rie, come nel caso della coppia vittima-predatore – prati-
cata nei confronti dell’estraneo. L’unica forma di conflit-
to pensabile per il mondo greco e per quello moderno.
Proviamo a ricercare altre Pentesilee, che possano esse-
re metafora della differenza intesa come «costruzione
impossibile», del tumulto che inventa una novità istitu-
zionale e di una soggettivazione che prende su di sé un
tratto guerriero – ripiegamento della forza che proble-
matizza ma non esclude aprioristicamente la violenza –,
irriducibile allo stigma dell’esclusione, della vittimizza-
zione e della chiusura identitaria della diversità. Diversa-
mente da Antigone e Ifigenia, Pentesilea non resta sola,
sta nel mezzo di una «muta» di sorelle attive.
Contrariamente alla tradizione, che vuole Pentesilea
ferita a morte da Achille, innamorato di lei, nella trage-
dia di Kleist è Pentesilea a uccidere Achille, di cui è inna-
morata, ricambiata. Ma non lo uccide soltanto: lo sbra-
na. Secondo la loro legge, le Amazzoni non possono sce-
gliersi l’uomo che vogliono, ma devono avere colui che
sconfiggeranno in battaglia. Pentesilea, invece, vuole
Achille: glielo aveva profetizzato la madre morente e lei
se ne innamora non appena lo vede sul campo di batta-
glia. Lo insegue, ma sarà lei a essere vinta e questo un’A-
mazzone non può accettarlo, è contrario alla legge. Per
questo Achille la sfiderà di nuovo, folle d’amore, deciso a

140
farsi battere per poterla avere. Ma Pentesilea non capisce
il gioco di Achille, è pazza ormai, lo affronta con un se-
guito apocalittico, cani, elefanti, carri falcati. Lo colpisce
con una freccia e lo sbrana, insieme alle sue cagne, ca-
gna lei stessa. In seguito, in stato confusionale, non si ri-
corderà di averlo fatto e saranno le compagne a dirglielo,
a malincuore39. Carmelo Bene metterà in scena Pentesi-
lea la macchina attoriale – Attorialità della macchina, ri-
montando diverse fonti, tra cui quella di Kleist – atto uni-
co in ventiquattro scene che già precorreva lo spirito
cinematografico. C. B. come attore-macchina (la soli-
tudine sulla scena è produttivamente connessa con l’am-
plificazione della phoné) rappresenta il teatro come non
luogo e la processualità della soggettivazione senza Io,
oltre il maschile e femminile. Dopo aver contrapposto il
porno all’eros, gli oggetti parziali alle rappresentazioni
del soggetto, il desiderio al piacere («la voglia della
voglia») il femminile ritorna, nella riattualizzazione del
teatro elisabettiano («il non contemporaneo come presa
sul reale»). La donna manque, non perché è ciò che man-
ca nella tensione del desiderio verso un oggetto, ma nei
termini del divenire e del concatenamento («la muta»):
il femminile è fuori dalla donna40.
Carmelo Bene compone il suo lavoro teatrale, tenen-
do sullo sfondo le anticipazioni di Deleuze-Guattari,
che in Millepiani citano Pentesilea per chiarire cosa sia
un «regime di segni» – la proposizione «ti amo» tra
Pentesilea e Achille è controsignificante ovvero è presa
nel rapporto polemico e di forza tra i due; questa speci-
fica enunciazione si distingue da qualsiasi altro «ti

39. H. von Kleist, Pentesilea, tr. it di E. Filippini, Einaudi, Torino 1989.


40. Ringraziamo Francesco Brancaccio per i chiarimenti e i video su C. B.

141
amo»41 –, per definire la differenza secondo la logica del
divenire e per mostrare la funzione della «macchina da
guerra nomade» rispetto all’«apparato di cattura dello
Stato». Il secondo e il terzo uso della figura di Pentesilea
chiariscono la relazione che intercorre tra differenza/
divenire, tumulto e istituzione: l’espressione «macchina
da guerra» non è l’equivalente del conflitto tra popoli o
tra Stati, ma sta per insubordinazione, rivolta e sot-
trazione, agìta da un insieme di molteplicità tra loro con-
nesse42. «Pentesilea infrange la legge della muta, muta
di donne, muta di cagne, quando sceglie Achille come
nemico preferito. E tuttavia è attraverso questa scelta
anomala che ognuno entra nel suo divenire-animale, di-
venire-cagna di Pentesilea, divenire-balena del capitano
Achab»43. Pentesilea è differenza nel senso del divenire.
Mentre la «storia naturale» concepisce la differenza se-
condo la serie – ogni termine deriva da quello preceden-
te per filiazione – o secondo la struttura – tra termini di-
versi sussiste una proporzione –, la differenza/divenire
non mima, non identifica, non sta per altro e non produ-
ce filiazioni44.
Ritornando al caso della Grecia, Vernant poteva dire
che il matrimonio sta proporzionalmente alla donna
come la guerra all’uomo, così la donna che rifiuta il mat-
rimonio sta al guerriero che si traveste da ragazza45. La
differenza di Pentesilea ha invece a che fare con una

41. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, tr.


it. Castelvecchi, Roma 2006, pp. 230-231.
42. Sul tema ha originalmente contribuito Francesco Raparelli, nella re-
lazione al seminario Lum 2011 su Macchine da guerra e moltitudine. Un
ringraziamento analogo a Marina Montanelli
43. G. G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., pp. 363-364.
44. Ivi, pp. 348-357.
45. Ivi, p. 356.

142
muta, una banda e una molteplicità: che Pentesilea di-
venga animale non riguarda la trasformazione reale del-
la donna in animale, ma, nietscheanamente, la scoperta
dell’esteriorità e della moltitudine che abitano ogni di-
venire. Quando Pentesilea diviene-animale produce un
concatenamento con termini che sono eterogenei, in-
concepibili nella logica della filiazione e della pro-
porzione: «Le bande, umane e animali, proliferano con
i contagi, le epidemie, i campi di battaglia e le cata-
strofi»46. L’Amazzone però è un capo banda, «un indi-
viduo eccezionale», un’anomalia. Per Deleuze-Guattari
non c’è contraddizione tra banda e posizione di ec-
cezionalità, perché la «posizione periferica» dell’out-
sider o di colui che si colloca sulla frontiera permette
continuamente di deterritorializzare la muta e di isti-
tuire un rapporto di alleanza, secondo patto tra le singo-
larità, che si muove ai margini delle istituzioni centrali e
costituite. La politica delle Amazzoni – delle mute, dei
divenire-animale – rischia sempre di essere catturata
dagli Stati e ridotta «a rapporti di corrispondenza totem-
ica o simbolica»47, alla filiazione e alla proporzione.
Ma non esiste un solo caso di divenire (divenire-bam-
bino, vegetale, donna, animale) e il divenire riguarda le
intensità, per questo «tutti i divenire sono già moleco-
lari»48, si tratta di un processo di desiderio che riguarda
la velocità o la lentezza delle particelle. Tutti i divenire,
inoltre, «passano per il divenire-donna»49: a partire da
questa nuova prospettiva sul divenire come differenzi-
azione, trasformazione di una micro-molteplicità,

46. Ivi, p. 360.


47. Ivi, p. 368.
48. Ivi, p. 400.
49. Ivi, p. 406.

143
Deleuze-Guattari rileggono la questione della differenza
sessuale. La donna, se guardata rispetto agli organi, alle
funzioni e alla forma, in un rapporto di distinzione bina-
ria rispetto a un uomo, è un’«entità molare». In politica
sarà allora necessaria sia una capacità molare delle
donne per porsi come «soggetto di enunciazione», sia
un processo politico molecolare: «la donna come entità
molare deve divenire-donna, perché a sua volta l’uomo lo
divenga e possa divenirlo»50. Achille e Pentesilea si
amano: costruiscono un’alleanza nel mezzo dei loro
rispettivi divenire51, un patto a partire dalla loro differen-
za. Le Amazzoni sono però una «macchina da guerra»,
anteriore, esteriore, «altrove» rispetto allo Stato, «in cui
la giustizia, la religione, gli amori sono organizzati in
modo esclusivamente guerriero». Seppure la cattura sta-
tuale sia sempre un rischio per le Amazzoni, che «ap-
paiono come la folgore, “tra” i due Stati, greco e troiano»,
il movimento nomadico, veloce, segreto della macchina
da guerra – della differenza come divenire e agencement
tumultuario – non si oppone in modo massivo, frontale,
rivoluzionario, piuttosto percorre le linee dei bordi, del
confine, provando continuamente a spostare il rischio
dell’assorbimento nelle istituzioni costituite52.

Ritornando al futuro attraverso il passato, anche Ero-


doto53, aveva intravisto nella figura delle Amazzoni un’al-
leanza guerriera (tumultuaria) delle differenze, un radi-
cale spostamento di piano, per parafrasare Lonzi, che si
connette con piani ulteriori, alla Escher. I Greci, dopo la

50. Ivi, p. 404.


51. Ivi, p. 407.
52. Ivi, pp. 522-523.
53. Erodoto, Storie, IV libro (110-117).

144
vittoria a Termodonte, avevano imprigionato tutte le
Amazzoni (Oiorpata – quelle che uccidono i maschi),
che all’improvviso si vendicano dei loro carcerieri, s’im-
possessano della nave che non sapevano governare, pro-
cedendo alla deriva e finendo occasionalmente sulle co-
ste della terra scita. Il primo incontro si svolge nelle mo-
dalità della battaglia, tanto più che gli Sciti si accorgono
di avere a che fare con donne solo quando si «impadro-
niscono dei cadaveri». Secondo incontro. Stupiti (e ben
diversi dal necrofilo Achille) non procedono nello scon-
tro e inviano un gruppo di giovani in pari numero per os-
servarle ed eventualmente accoppiarsi con esse (vive). La
tattica seguita (avvicinamento gentile e imitazione dei
costumi nomadi) produce il suo effetto e cominciano a
formarsi delle coppie, prima instabili, poi fisse.
In seguito – prosegue Erodoto – unirono gli accam-
pamenti e abitarono insieme, ciascuno con la donna a
cui si era unito la prima volta. Le Amazzoni entrano nel-
la normalità, ma in una normalità anomala. In primo
luogo, «i mariti non furono capaci di imparare la lingua
delle mogli, ma le mogli compresero il linguaggio dei
mariti». Nel linguaggio segreto, generato da un’attitudi-
ne e non da una scelta settaria, comunque istituziona-
lizzando un’autonomia nella forma di vita che priva
l’antagonismo di ogni traccia cruenta ma tutela la sepa-
razione e al contempo la comprensione. Chi conosce le
due lingue è più potente, come il migrante che si impa-
dronisce del dialetto del suo indifferente ospite, perfino
come il Servo hegeliano che scalza il Signore. Le Amaz-
zoni sono in grado di tradurre le lingue, senza che la lo-
ro sia sottoposta all’assimilazione o all’esclusione scita.
Che succede poi? Quando riuscirono a capirsi fra di
loro (in quel modo asimmetrico che si è detto), gli uo-

145
mini dissero alle Amazzoni: «Noi abbiamo genitori e
anche dei beni; smettiamola dunque di condurre que-
sto genere di vita e torniamo a vivere con tutta la gente;
come mogli avremo voi e non altre». Ma esse a tale pro-
posta risposero: «Noi non potremmo abitare insieme
con le vostre donne: le nostre usanze e le loro sono ben
differenti; noi tiriamo con l’arco, scagliamo lance, an-
diamo a cavallo e non abbiamo mai imparato i lavori
femminili; invece le vostre donne delle cose che abbia-
mo detto non ne fanno nessuna: attendono invece ai la-
vori femminili restando sui carri, a caccia non ci vanno,
non si muovono mai. Non potremmo andare d’accordo
con loro. Perciò se volete tenerci come mogli e mostrar-
vi giusti, andate dai vostri genitori, prendete la parte dei
beni che vi spetta e tornate qui; dopodiché ce ne vivre-
mo per conto nostro».  
I giovani si convinsero e agirono così. Quando ebbe-
ro ottenuta la parte dei beni loro spettante e furono tor-
nati dalle Amazzoni, le donne dissero ancora: «Noi ab-
biamo paura, anzi terrore, di dover vivere in questo pae-
se, dopo avervi sottratto ai vostri padri e dopo i molti
danni arrecati ai vostri territori. Voi ci ritenete degne di
esservi mogli, ecco allora come dobbiamo fare, noi e voi
insieme: allontaniamoci da questo paese, andiamo ad
abitare al di là del Tanai» (l’odierno Don). Il processo
istituzionale giunge al culmine dell’emancipazione per
conversione dalla differenza bellicosa. «E anche in que-
sto i giovani obbedirono», constata Erodoto. Si diresse-
ro verso nord e si insediarono nella località dove tutt’og-
gi dimorano. «E da allora le donne dei Sauromati vivo-
no secondo le antiche abitudini: vanno a caccia a
cavallo, assieme ai mariti e anche senza di loro, vanno
in guerra e sono abbigliate esattamente come i ma-

146
schi», parlano la stessa lingua degli Sciti, «ma con qual-
che errore, fin da principio, perché le Amazzoni non l’a-
vevano imparata bene». Resta una traccia del salto di
paradigma, una piega nel linguaggio pubblico che la-
scia affiorare quello segreto. «Ed ecco cosa è stabilito
per le nozze: nessuna fanciulla può sposarsi se non ha
prima ucciso un uomo in guerra. Alcune di loro, non ri-
uscendo a soddisfare tale compito, muoiono vecchie
senza essersi sposate».

Al termine del labirinto (caro a un’altra eroina della


differenza dionisiaca, Arianna, che invece il fratellastro
Minotauro aveva contribuito ad ammazzarlo) stringia-
mo sul nesso differenza di genere-tumulti. Poco dialet-
tici, non troveremo una composizione bensì un paralle-
lismo delle ambiguità. Non avendo natura essenziale e
identitaria le differenze, non avendo iscrizione in una
possibile filosofia della storia o teologia politica il tu-
multo, è impossibile annettere a entrambi i campi una
valenza costante e dunque fondarvi una nozione stabile
di violenza o di inimicizia. Alfine liberi dal pregiudizio
del destino, cromosomi o storia stadiale. Né vittima né
dark lady (popolarmente né santa né puttana) la donna,
né selvaggio né pacifico il tumulto (come la Rivoluzione
non viaggiava fra Virtù e Terrore, secondo il grandioso
ma non imparziale assunto di Hegel). In ogni noir che
si rispetti ci sarà nel personaggio un tratto dominante o
un’ambiguità costitutiva prevalente, altrimenti il pub-
blico non segue e non impara. Ma ci sono tanti film e ro-
manzi diversi, tante provvisorie soggettivazioni e il loro
circuito è infinito, ogni arresto su un’identità ne rende
falso il grano di verità. Se non c’è naturalità (se tutto è
naturale), se tutto è grado intensivo e modale di potenza

147
del Deus sive natura, se la relazione e l’incontro ri-deter-
minano ogni volta le componenti che vi entrano, la
complicazione delle differenze non è tolta e conservata
nei e dai tumulti – aufgehoben nella Restaurazione dia-
lettica sovrana, di cui il mito della Rivoluzione era il
simmetrico – piuttosto contagia tutto l’arco delle insor-
genze, a volte le rende indecifrabili, a volte le potenzia.
Buona la seconda.

148
Il fulmine a mani nude

Life is full of pain, I’m cruisin’ through my brain


And I fill my nose with snow and go Rimbaud,
Go Rimbaud, go Rimbaud

Patti Smith, Horses

L’identificazione della politica con la monopolizzazione


statuale dell’agire politico, che lo sequestra e sopprime,
e l’assorbimento della politica nel mercato (fine della
storia e scioglimento nel mediatico) offuscano la cre-
scente contraddizione fra finanziarizzazione globale e
democrazia conseguente, estesa a chi è senza-parte e
senza-titolo. Il dominio della rendita ci sta ributtando
nella miseria proletaria dell’Ottocento. Facciamo allora
un balzo di tigre nel passato.
L’adolescente Rimbaud è scappato a Parigi nella pri-
mavera 1871 per partecipare alla Comune, vuol farsi
veggente, ladro di fuoco, mediante un lungo, immenso,
ragionato disordine (dérèglement) di tutti i sensi. Canta
le mani di Jeanne-Marie, mani proletarie scurite dal la-
voro e pallide di povertà, dolci e forti, carezzevoli e capa-
ci di trascinar via i cannoni della Guardia Nazionale di
Montmartre. Non sono mani da vittima sottomessa:

149
striate di belladonna, come le streghe loro antenate, è
carne che canta inni di rivolta non invocazioni di pietà
(Leur chair chante des Marseillaises / et jamais les Elei-
sons), sono mani che impugnano armi e bottiglie di pe-
trolio nella città insorta protendendosi au grand soleil
d’amour chargé. Il tumulto cancella suore e cortigiane,
languide dame e sigaraie fatali, fa emergere «il diritto
uguale di tutti ai beni e alle gioie di questo mondo, la di-
struzione di ogni autorità, la negazione di ogni freno
morale», ovvero «se si scende alla radice delle cose, la
ragion d’essere dell’insurrezione del 18 marzo e il pro-
gramma della terribile associazione che le ha fornito un
esercito», come deplorò scandalizzata l’inchiesta parla-
mentare sui fatti.
In Marx1 la democrazia comunarda è espansiva, una
durch und durch ausdehnungsfähige politische Form, ca-
pace di dilatarsi, di stendersi su tutte le condotte di vita
singolari e collettive, un regime che si fa pregio dell’in-
compiutezza, in cui l’universalità è propriamente isti-
tuita dal farsi carico dell’irrealizzato non dalla posizione
di valori precostituiti o da procedure legittimanti. Era
quel tipo di democrazia grazie a cui la classe operaia
può zerbrechen, spezzare la macchina dello Stato (Staat-
smaschinerie) invece di impossessarsene così com’è, bel-
l’e pronta (fertig) e farla funzionare secondo i propri sco-
pi: perciò la Comune si configurava quale forma deter-
minata (bestimmte) della «repubblica sociale», in diretta
antitesi all’Impero. Marx immagina la possibilità di ar-
restare e invertire il processo di progressiva centralizza-
zione e separazione di un apparato monopolistico stata-

1. Un Marx felicemente lontano dal teorico del socialismo scientifico e dal


dirigente della battaglia anti-libertaria della I Internazionale, piuttosto
pensatore a pieno titolo della congiuntura rivoluzionaria.

150
le integrato a un mercato concorrenziale già tendenzial-
mente oligopolistico; il Lenin di Stato e rivoluzione ri-
prenderà il programma in un ambito imperialistico or-
mai consolidato al (presunto) ultimo stadio. Entrambi
pensano a un’opposizione fra stadio di sviluppo del ca-
pitalismo e democrazia radicale diretta e anti-burocrati-
ca (quella della vile multitude parigina), al cui interno
eventuali soluzioni dittatoriali imposte dalla guerra ci-
vile dovrebbero accelerare un programma di estinzione
dello Stato. Le cose andarono diversamente, si sa.
Marx suggerisce che allacciare la democrazia tumul-
tuaria, federale e popolare a un programma di emanci-
pazione degli operai e di «trasformazione dei mezzi di
produzione in semplici strumenti di un lavoro libero e
associato» renderebbe alfine possibile l’impossibile co-
munismo: der «mögliche» Kommunismus. Non c’è con-
trapposizione di principio fra democrazia e comuni-
smo, piuttosto autosuperamento. Nessuna enfasi sul-
l’impossibile, tanto meno sulla coppia lacaniana
impossibile-reale e conseguenti declinazioni messiani-
che. Il problema è se e quale sviluppo della democrazia
apra una sequenza successiva di comunismo. Risolle-
vare il tema oggi, edotti come siamo di un lungo ciclo di
illusioni e fallimenti, dalla «provvisoria» dittatura del
proletariato al governo della cuoca leniniana, significa
fare i conti innanzi tutto con la nuova forma della con-
traddizione, pur in un contesto non troppo divergente
dagli antagonismi imperialistici di un tempo, con un
capitalismo finanziarizzato che ha svuotato le forme
democratiche che in altre circostanze l’avevano suppor-
tato. Il legame fra capitalismo e democrazia si è allenta-
to, se non rotto. Per questo ci piace la forma-tumulto, ri-
sposta locale esile quanto tenace alla sussunzione del

151
plusvalore nella rendita finanziaria, dunque alla sua du-
plice qualificazione: predominio della strategia globale
sull’economia del profitto aziendale, gestione ammini-
strativa e manageriale delle relazioni politiche, in paro-
le povere guerra e governance.
La proposta marxiana di un comunismo possibile, a
forzatura dei limiti di un’esperienza democratica e anti-
statuale, si smarca da qualsiasi Idea eterna del comuni-
smo e altre ricette per la cucina dell’avvenire. Riapriamo
allora a brutto muso il dossier Platone. In lui c’è una for-
mulazione piena e positiva del comunismo perenne,
senza eguaglianza e senza democrazia. Il comunismo è
appannaggio di un’elite antropologica (gli uomini dall’a-
nima d’oro), imposta sulle altre caste e trasmessa con
una pedagogia autoritaria2. Stride lo scarto fra comuni-
smo perfetto e democrazia, replicante su scala collettiva
il primato della ragione individuale, che accede alle
Idee, sui sensi insistenti nell’ingannevole molteplice.
Democrazia, invece, per noi è doxa, fallibili opinioni co-
struite nella relazione, flusso impersonale di affetti, di-
struzione di quanto impedisce «il diritto uguale di tutti
ai beni e alle gioie di questo mondo».
Nell’VIII libro della Repubblica platonica (Politeía,
2. Già Aristotele, dedicando nella Politica i primi 6 capitoli alla polemica
antiplatonica, affermava che lo Stato è per natura pluralità (plêthos) e avvi-
cinandosi all’Uno si riduce a famiglia e a individuo, autodistruggendosi
(II, 2; 1261a 18-19); per di più gli uomini dall’anima d’oro, cui spetta il go-
verno, saranno sempre gli stessi, motivo di ribellione per tutti gli altri (ib.,
5; 1254b 7 sgg.). Lo stesso termine politeía viene a indicare per metonimia
una democrazia temperata, fondata sulla prevalenza del ceto medio (IV,
12), non controllata dai poveri sfaccendati e dalla classe degli artigiani e
meccanici (tò bánauson). Tesi ribadita nella modellistica costituzionale di
VII, 9, che esclude dalla vera cittadinanza attiva la vita dei lavoratori e dei
mercanti (oute bánauson bion out’agoraîon) e perfino dei contadini, per-
ché il requisito della virtù e della prassi politica è il tempo libero, scholé,
1328b 38-1329a 2.

152
557a-b) i poveri, affogate nel sangue o espulse le altre fa-
zioni, si suddividono le cariche senza titolo, addirittura
per sorteggio. I cittadini sono liberi, franchi di parola e
possono fare ciò che vogliono, organizzandosi la vita a
piacere. Sembrerebbe il regime migliore, un mantello
trapunto di ogni colore, un poikilon himation, gradito a
donne e fanciulli che amano l’assortimento, anzi la
femminea frenesia dello shopping, poiché «chi vuole
istituire uno Stato deve recarsi in una città democratica
e scegliere la forma di governo che gli piace, come se si
recasse a una fiera delle costituzioni, e fondare il suo
Stato in base a questa scelta». Il guaio è che in tale città
non c’è obbligo di governare, neppure se si è in grado,
né obbligo di essere governati, se non lo si vuole. In-
somma, l’anarchia. Raffigurazione negativa che si tra-
manda nei commenti medievali, tranne il Libro dell’ordi-
namento politico di al-Fârâbî, che (almeno in quel testo)
loda libertà ed eguaglianza della jamâ’iyya democratica,
sebbene si tratti pur sempre di una variante «ignoran-
te» delle città, poco valida in termini di universalismo.
Essa è felice e attraente, raccoglie ogni stile di vita come
un vestito di broccato dalle tinte sgargianti, non vi sono
né governanti né governati e lo straniero non si distin-
gue in nulla dall’autoctono.
Dovremo aspettare la multitudo spinoziana, perché
si drappeggi in quel poikilon himation di cui la dissoluta
multitudo di Hobbes si vergognava e di cui torna a van-
tarsi la potencia plebeya dalla composizione variopinta,
abigarrada, di cui ci parla Álvaro García Linera3. E natu-

3. La potencia plebeya. Acción colectiva e identidades indígenas, obreras y po-


pulares en Bolivia, Clacso coediciones-Prometeo libros, Buenos Aires
2008, discusso nell’intervento di B. Bosteels, in Aa.Vv., L’idea di comuni-
smo, cit., pp. 64 sgg.

153
ralmente la moderna lotta di classe, e poi le ondate ri-
correnti dei senza-titolo e dei senza-parte, fino a quei
migranti, paradigma di ogni precarietà, che resuscite-
ranno, all’interno dello Stato-nazione e di un mercato
globalizzato segmentato da frontiere-filtro, il rapporto
di convivenza paritaria fra autoctono e straniero incri-
nando l’universalismo eurocentrico e le banalità del ri-
conoscimento dialogico.
Riguadagnare il platonismo dentro una progettualità
comunista attuale, fino alla boutade badiousiana di tra-
durre Politeía con Du communisme, significa sottostima-
re l’eterogeneità permanente di una logica dell’emanci-
pazione rispetto al modellamento disciplinare e alla dis-
tribuzione dall’alto di un sapere liberatorio. Il rischio di
un’imposizione ai soggetti-lavoratori dall’esterno, il co-
munismo degli uomini platonici dall’anima d’oro river-
sato sugli uomini dall’anima di ferro, ha registrato trop-
pi fallimenti nell’esperienza rivoluzionaria per essere ri-
lanciato con un richiamo sfacciato alla matrice filosofica
ultima. La pedagogia autoritaria del Partito non viene
certo migliorata dall’elaborazione del lutto per l’Idea e
dalla retorica del fallimento eroico. Dai fallimenti si im-
para per correzione o adeguamento alle mutate condi-
zioni, non civettando con gli spettri. All’Idea Badiou affi-
da la possibilità anticipatoria che un Evento possa spri-
gionare nuovi possibili, non previsti dall’ordinamento
dello Stato-mercato, ma prezzo ne è il considerare la de-
mocrazia come spazio delle prescrizioni statali di possi-
bilità e impossibilità, quindi un terreno non fertile per il
comunismo. Donde la già criticata riduzione dei tumul-
ti a cicli intervallari fra una rivoluzione e l’altra oppure il
loro incastro nello schema della rivoluzione-Evento che
ricalca alcune delle letture passate dell’Ottobre o della Ri-

154
voluzione culturale, appena scevre da contorni provvi-
denziali. Non disdegnati invece da +i,ek, il più arrogan-
te esponente di un comunismo speculativo e letterario4.
Era più spassoso il situazionismo d’antan.
Un dimesso ripiegamento sulla democrazia e sui tu-
multi – il coacervo di movimenti che alterano lo stato
presente delle cose – lascia riprender fiato per immagi-
nare il comunismo effettuale dentro uno sviluppo inter-
no alla democrazia plurale, con le vertenze sul comune,
la creazione di istituzioni che siano regole e forme di vi-
ta sottratte alla finanziarizzazione e alla governance stata-
le, l’abolizione del monopolio dell’agire politico e del co-
mando giuridico-amministrativo che oggi agisce a di-
struzione e non più sulla base teorica della democrazia.
La critica dal basso della rappresentanza si moltiplica
con la sua erosione dall’alto: la controparte del tumulto
non è più un istituto liberale delegato, ma un apparato di
gestione amministrativa ormai molto alla lontana colle-
gabile con qualche forma di rappresentanza. Il decadere
della sovranità rende desueta la rivoluzione e consegna
al tumulto il segno dell’imprevedibilità, dell’«inattuali-
tà» vivente. Ricordiamo però che l’evento sta all’inizio di
un processo e, se fa presa, esige continuità. Non sospen-
de o rivela bensì ristruttura il tempo (di cui il potere ave-
va il monopolio) e le soggettività. A queste condizioni la
democrazia non è più progetto metapolitico, si radicaliz-
za e, forse, trapassa in altro genere.
Il trapasso si compie attraverso una pratica del co-
mune che valuta tale non solo i beni naturali e artificiali

4. Per le posizioni descritte cfr. i saggi di Rancière, Badiou e +i,ek in Idea


del comunismo, cit. Il giudizioso anti-pedagogismo rancièriano viene da
Le maître ignorant: Cinq leçons sur l’émancipation intellectuelle, Fayard, Pa-
ris 1987; tr. it. Il maestro ignorante, Mimesis, Milano 2008.

155
condivisibili senza recinzioni e spesso senza scarsità (la
conoscenza) ma e soprattutto l’eccedenza. Il fuori-di-
conto non è soltanto ciò che dilata incessantemente i li-
miti della democrazia – a ondate successive lo sono sta-
ti i proletari, le donne, le tribù precarie, gli immigrati –
ma tutto quanto viene scartato dai dispositivi di valoriz-
zazione (prima secondo la legge del valore, poi secondo
le strategie speculative della finanza) e che è il vero plu-
sprodotto sociale, quello che nel Pil figura al negativo
dell’irrealizzabile perché non assoggettabile a rendita.
Il non brevettabile, la scienza disinteressata, la versatili-
tà culturale, il lavoro (non servile) di cura, la conoscenza
che non genera profitti privati, la ricchezza immateriale
delle relazioni senza di cui la stessa attività produttiva
sarebbe impensabile5. Ci fermiamo, per schivare le ten-
tazioni liriche cui ogni formulazione affermativa del co-
munismo espone.
Il tumulto è un rivelatore di eccedenza, oltre che di
resistenza all’oppressione. Nella bassa materialità delle
sommosse vive l’esperienza più sofisticata di quanto per
la valorizzazione capitalistica e finanziaria è eccedenza
inutilizzabile o sfruttabile e che per noi è desiderio senza
eccesso6, ragionevole adempimento di un exemplar hu-

5. Non intendiamo affatto sostituirci ai movimenti nell’indicazione dei


contenuti programmatici. Osserviamo soltanto che le molteplici propo-
ste di reddito di cittadinanza e di Welfare del comune mirano a scardina-
re il sistema delle compatibilità finanziarie e a valorizzare le condizioni
di riproduzione di una generazione, altrimenti destinata alla miseria e al-
l’estinzione biologica. Già adesso lo scarto fra Italia ed Europa ratifica la
particolare miopia dei ceti governanti del nostro Paese entro una più ge-
nerale incapacità strategica degli amministratori del Finanzcapitalismo.
6. Spinoza, E IV, pr. 61: Cupiditas, quæ ex ratione oritur…est ipsa hominis
essentia, seu natura, quatenus determinata concipitur ad agendum ea, quæ
per solam hominis essentiam adæquate concipiuntur… ac proinde hæc Cupi-
ditas excessum habere nequit.

156
manae vitae. L’impeto del dissenso forza la barriera di
volta in volta innalzata fra utile e utilizzabile, violenza da
propulsione democratica traboccante o violenza da so-
vrano o governamentale contenimento. Le dighe con cui
i virtuosi prevengono l’avversa fortuna non sono le stes-
se con cui il potere si protegge dalla moltitudine. Dal
punto di vista della moltitudine, la violenza che ripara
non è la stessa che distrugge, come Althusser piega la
frase machiavelliana «perché colui che è violento per
guastare, non quello che è per racconciare, si debbe ri-
prendere» (D I, 9). Ogni tumulto preso a sé è disciplina-
bile, la sua ciclica riemersione no. In ciò si radica un’eti-
ca della fiducia moltitudinaria senza demagogia della
spontaneità né pedagogia della trasmissione autoritaria.
Etica sobria e virtuosa della fragilità e della potenza, del-
la contingenza modale del desiderio, la cui versione pub-
blica è l’umore di non essere comandati e oppressi. La
vera virtù moltitudinaria è la refrattarietà all’interpella-
zione che produce identità rigide e assoggettate.

Il potere sovrano si è affermato sovrastando i conflit-


ti civili ed esorcizzando la plebe sovversiva. Scarta la pro-
spettiva repubblicana di Machiavelli e ne conserva solo
l’autonomizzazione dei laccioli religiosi e morali. Il rea-
lismo senza conflitto diventa mero cinismo, ragion di
Stato. Il problema hobbesiano è sconfiggere i tumulti e
la dissoluta moltitudine che li alimenta. Sono la maledi-
zione da scongiurare, i veleni dell’Idra dalle molte teste.
Le istituzioni e le delibere ben ponderate si contrappon-
gono alle confuse decisioni assunte nei tumulti (De cive,
VI 20). La prima preoccupazione degli agenti del potere
è to suppress tumults (Leviathan XXIII), spesso alimentati
da una falsa libertà contrapposta all’autorità (ib. XXI e

157
XXIX). Qui Hobbes si oppone direttamente alle idee dei
repubblicani suoi contemporanei, di Algernon Sidney,
che esalta i civil tumults contro la tirannia. Ciò è noto
quanto la rivalutazione spinoziana del dissenso.
Per una bizzarra nemesi, il declino delle pratiche e
ideologie sovrane è di nuovo segnato dai tumulti, come
prima del loro consolidarsi. Se la rivoluzione era anco-
ra accettabile – in fin dei conti Hobbes aveva flirtato con
Cromwell e l’ultra-hobbesiano Rousseau precorso il
1789 – per il suo traversare e invertire la macchina so-
vrana senza destituirla, il tumulto rimette in discussio-
ne l’esclusiva statale della violenza e dell’agire politico,
la trasformazione della forza bruta in legalità obbligan-
te. Il potere legittimo è questo, Weber lo dice a chiare let-
tere: monopolio fondato sulla separazione dell’eserci-
zio dalla fonte della potenza, controllo sovrano sulle ar-
mi e sugli uffici, separazione degli operai dai mezzi di
produzione. Weber sa bene che prima dell’assolutismo
avevamo il potere illegittimo, quello dei Comuni fondati
sulla conjuratio contro l’ordine feudale. E sospetta nei
Soviety e nei Räte del 1918 il riemergere di quel creativo
dis-ordine. Oggi, scaduta l’epoca delle rivoluzioni o al-
meno di una loro interpretazione schematica, sedizio-
ne, defezione e tumulti riaprono una storia non-sovra-
na, segnano il tramonto di un’esperienza circoscritta
del dominio. Se a presiedere il culto dello Stato venne
chiamato il duro Creonte, relegando Antigone nel ruo-
lo di vestale della vita offesa, se anche la Rivoluzione ri-
chiese le sue vittime sacrificali, novelle Ifigenie immo-
late perché la flotta guerresca potesse salpare, e la più
aspra cattura in una logica estranea ha cercato di neu-
tralizzare la nomade potenza di Pentesilea e della sue
compagne, il tumulto risuscita – in quella differenza

158
estrema e mal assimilabile – quanto la dialettica (o una
dialettica malintesa) ha finora appiattito in una dimen-
sione «naturale» sfruttata e sottaciuta, sfruttata in
quanto sottaciuta, data per scontata ed espunta dalla
storicità. Lo risuscita e, certo, rischia di nuovo di occul-
tarlo in Occidente, in Asia e nel mondo islamico per la
pressione contrastante di altre priorità. Diciamolo per
evitare illusioni palingenetiche, abbreviazioni del labi-
rinto tumultuario.

Il tumulto segnala una conflittualità interminabile,


di volta in volta composta e riaperta, senza mai prendere
una tonalità catecontica, cioè di freno a un male assolu-
to. Abbiamo lotte, ostacoli da rovesciare e nemici con no-
me, cognome e bandiera, ma si tratta di inimicizia ben
temperata, occasionale come gli incontri che determina-
no successo o sconfitta, non di un dato esistenziale in-
trinseco – la serietà della vita, il riconoscimento attraver-
so la contesa e il rischio, insomma tutte le sublimazioni
dell’immagine patriarcale dell’uomo che esce dalla ca-
verna con la clava per riportare cibo a donna e figli. Il
duello con il nemico è la variante etico-pratica dell’uscita
conoscitiva dalla caverna per contemplare con esattezza
le Idee e il Sole-Bene, l’Uno superessentialis (uperoúsios)
della mistica neoplatonica e dell’ideologia sovrana. In-
gannevole era la moderazione dello schema schmittiano
amico-nemico, che civilizzava lo justus hostis a mezza
strada fra la troppo urbana e liberale rivalità del gioco e
del mercato, da una parte, e gli eccessi dell’inimicizia as-
soluta dall’altro. Schmitt stesso si era reso conto che, fos-
se colpa di Versailles o di Hitler o di entrambi, lo schema
post-westfaliano di un’inimicizia controllata e pur tutta-
via virilmente combattiva stava cedendo davanti al dila-

159
gare di posture distruttive, miranti allo sterminio inte-
grale del nemico, sulla base di motivazioni morali uni-
versalistiche – ma il naturalismo razziale era venuto pri-
ma della giustizia di Norimberga!
Quanto le ipocrite deprecazioni del giurista cattoli-
co-nazista (con prevalenza postbellica del primo agget-
tivo) fossero presaghe della giustizia infinita e delle
guerre «umanitarie» avvenire è risaputo, ma qui voglia-
mo concludere su una prospettiva più radicale, che
mette in questione la metafisica dell’inimicizia sotto-
stante sia lo jus publicum europaeum che le guerre civili
pre-westfaliane e quelle contemporanee a spazialità illi-
mitata. Anche nel primo caso (la violenza pubblica te-
nuta sotto controllo) l’accento cade sull’«estremo grado
d’intensità di un’unione o di una separazione, di un’as-
sociazione o di una dissociazione», insomma sulla di-
stinzione, non derivabile da altri criteri ma originaria,
di Freund e Feind, il secondo dei quali riconducibile es-
senzialmente a der Fremde, lo straniero, l’esistenzial-
mente estraneo e, al caso, uccidibile. La guerra di an-
nientamento estremizza tale situazione, soprattutto il
suo sganciamento dei limiti territoriali. Il bombarda-
mento intelligente con droni teleguidati è soltanto un
inasprimento tecnologico dell’ideologia della guerra ci-
vile. La liquidazione del terrorista con deprecabili effet-
ti collaterali replica la strage di San Bartolomeo e Dio ri-
conoscerà i suoi.
Torniamo allora a un assunto già accennato e appli-
cabile imparzialmente alla guerra fra Stati e a quella ci-
vile. L’illegalismo religioso (da Marcione e dal libertini-
smo gnostico fino agli antinomiani eretici continentali
e Ranters inglesi) scontava l’eccellenza della Legge cui
contrapporsi. L’illegalismo secolare, apologia della fu-

160
ria plebea e dello sterminio degli oppressori, inverte il
monopolio sovrano della produzione giuridica e dell’u-
so legittimo della violenza e la figura del nemico dello
Stato, autore del crimine supremo contro il contratto
che istituisce la sovranità e il suo detentore. La formula-
zione assolutista di Leviathan XXVIII – oltre a trasferire
in ambito laico deconfessionalizzato la figura dell’ereti-
co quale nemico di Dio e obbiettivo del braccio secolare
della Chiesa – corrisponde letteralmente a rovescio alla
messa hors la loi rivoluzionaria del Re (e poi dei nemici
del popolo). Il 13 novembre 1792 Louis de Saint-Just
ammonì la Convenzione a non considerare Luigi XVI
un cittadino sottoposto a giudizio: il re che ha fatto il
male del proprio popolo gli è diventato straniero e, in
quanto tale, altro non è che un nemico, non lo si può
«giudicare come cittadino, ma come ribelle», per diritto
di guerra non secondo la legge civile7. Su questo piano
la sovranità e il suo rovescio rivoluzionario impattano
con una metafisica della violenza e della legge e se ne
avvalgono per individuare prima il nemico (il sovversi-
vo o il re, a turno) e poi combatterlo espellendolo dal
consorzio civile. La legge diventa un’arma per l’esclusio-
ne dal bios. Non per aver contravvenuto alle consuetudi-
ni d’Inghilterra (Carlo I), ma per la sua sola esistenza
(Luigi XVI) il re viola la legge. L’hostis publicus è diventa-
to pubblico criminale, fuorilegge.

7. Discorsi alla Convenzione, Oeuvres complètes, Fasquelle, Paris 1908, I pp.


364 sgg.; tr. it. Feltrinelli, Milano 1952, pp. 15-23. In siffatto soggiornare
nella sovranità si manifesta la medesima contraddizione per cui, metten-
do poco più tardi il Terrore all’ordine del giorno, Saint-Just vorrebbe che
si agisse in silenzio, per non essere costretto a giustificare l’analogia con
gli arbìtri monarchici e per mantenere sgombro e impersonale il posto
del potere, C. Lefort, La Terreur révolutionnaire, in Essais cit.

161
Nel crepuscolo della sovranità barcolla la dimensio-
ne nazionale del teatro, l’ancor controllabile nomos della
terra e del mare, in compenso si espande l’inimicizia su
scala planetaria diventando assoluta. Schmitt l’aveva ca-
pito e anche proiettato in uno scenario futuribile – la
guerra aerea. La belligeranza infinita contro il terrori-
smo eredita ed esaspera tutti i tratti che avevano identifi-
cato il politico classico (sovrano) come dialettica limitata
di nemico-nemico e il tardo-politico del totalitarismo (e
della liberazione da esso) come regno dell’inimicizia in-
condizionata. La Vertu risorge da zombie come scontro
di civiltà, Bene contro Male (versione Star Wars), Amore
contro Odio (parodia made in Arcore). Teologia del bene
imperiale appiccicata sopra pratiche di governance a bas-
so tasso di sovranità, ruolo correttivo della guerra come
compensazione di una perduta esclusiva interna sulla
produzione giuridica e sulla forza. Nell’èra della biopoli-
tica il terrorista come nemico dell’umanità, alien, si travi-
sa da nemico «qualunque».
Bisogna piuttosto accettare la normalità della violen-
za e dell’inimicizia, senza farne una metafisica (né re-
pressiva né sovversiva), così come le pratiche illegali e
disobbedienti non si costituiscono mai in teologia del-
l’anti-legge e del dissenso a ogni costo, legittimando il
polo negato, il Dio cattivo o Antica Legge della Gnosi, lo
Sim (Stato imperialistico delle multinazionali) brigati-
sta, i Crociati giudeo-cristiani, l’Emirato salafita, i Ro-
gue-States, ecc. Credere nel Diavolo non è altro che cre-
dere in Dio. Il sogno pastorale del non-potere rispec-
chia la fissa del Palazzo d’Inverno. La soggettivazione
dissensuale forma in positivo per differenza, non irrigi-
disce un’identità cristallizzata sulla sovversione per
principio. Non c’è diritto di bensì pratica di resistenza,

162
opposizione determinata, non nichilismo sistematico.
Il conflitto interminabile passa per la violenza che «rac-
concia» e per la modifica incessante delle regole (per va-
ri gradi di inimicizia permutabile), ma non investe, se
non per retorica occasionale, nella Violenza creatrice e
definitiva, levatrice della Storia per parto cesareo, nell’e-
pica del male da estirpare.
Nel tumulto si mischiano istanze di esodo e di rivo-
luzione – i due nomi che con accenti diversi hanno
espresso la volontà di cambiare i soggetti e il mondo, di
ridefinirsi reimpostando le relazioni sociali. Di solito
con esodo si intende una migrazione a nuove forme di
vita sul modello dell’uscita degli Ebrei dalla schiavitù
d’Egitto e di tutte le ripetizioni ad essa ispirate: dalla
Guerra dei Contadini di inizio Cinquecento o dalla resi-
stenza dei Paesi Bassi agli spagnoli alla guerra civile in-
glese del Seicento, dall’Underground Railroad degli
schiavi fuggiaschi prima e durante la guerra di Seces-
sione alla defezione dal lavoro salariato nella seconda
metà degli anni Settanta italiani. Rivoluzione o insurre-
zione descrivono pratiche più dirette di assalto al pote-
re, a variabile tasso di coscienza e organizzazione, sem-
pre peraltro sottomesse all’alea della congiuntura e
sprovviste di intrinseca necessità. L’opposizione dei
due termini è frutto di una diversa concezione della sto-
ria, non un dato storico oggettivo. Il tumulto sfoggia in
blocco, con respiro più corto, i tratti che per convenzio-
ne si associano alle due magiche etichette di esodo e ri-
voluzione e sulla sua logica ha da misurarsi la bellige-
ranza e la stessa categoria di nemico.
Nemico è chi intralcia l’esodo e la rivolta, nella micro-
fisica dei comportamenti e stili di vita e con gli apparati
della repressione, non è (contrariamente a Schmitt) ciò

163
che fornisce identità politica per separazione e conden-
sazione, che stabilisce il proprio per contrasto all’estraneo;
l’essenziale nell’inimicizia non è la facoltà di uccidere
(nei tumulti si muore e si fa morire) ma l’antinomia au-
tentico/inautentico. Non soltanto la violenza che conser-
va diverge dalla violenza che cambia, ma il furore identi-
tario, quello che pretende di fare comunità, differisce
dalla soggettivazione dissensuale, che fa pratica del co-
mune nella differenza. Nella così complicata differenza.
La coppia amico-nemico naturalizza la guerra (al
contempo nell’ontologia e nell’inconscio), il tumulto
virtuoso istituisce nuove relazioni e, se si serve della
forza, lo fa per tutelarle contro chi le ostacola, contro
chi si fa occasionalmente nemico. Differenza intricata
e inappariscente, la cui consapevolezza è essa stessa
parte del processo transindividuale di soggettivazione.
Sembra difficile da spiegare, ma chiunque si rivolta e
passa dall’io al noi lo sperimenta con genuina imme-
diatezza. I shall overcome era un inno di trepida speran-
za nella giustizia divina, We shall overcome – un piccolo
ritocco – inaugurò una stagione di battaglie terrene, un
intreccio di alterazioni relazionali molecolari e conflit-
ti collettivi. Se la produzione bio-politica produce per
l’essenziale forme di vita, idee, passioni, rapporti socia-
li e questo è il comune da fare e difendere8, è evidente
che la battaglia per il comunismo si svolge sullo stesso
terreno della democrazia e della politique come partage
del comune (Rancière). Le istituzioni che il tumulto
sollecita sono al contempo relazioni e regole di control-
lo, il vuoto del «fra», dell’intervallo che inibisce la fu-

8. M. Hardt, Il comune nel comunismo, in Idea di comunismo, cit., pp. 161-


163.

164
sione comunitaria e totalitaria, ma un vuoto saturato e
suturato dagli affetti e dalla condivisione cooperante
delle differenze. Le istituzioni mettono in forma il dis-
ordine, regolano il dérèglement trattenendone il movi-
mento tumultuoso e indirizzandone l’energia: gli argi-
ni machiavelliani sfruttano il fiume rapinoso della For-
tuna, l’eccezionalità del presente.
Fuori dal quale, come fuori dalla Pentesilea calvinia-
na, non c’è un fuori.

165
Indice

Introduzione 5
Le illusioni del progresso 9
Come tutto è cominciato 24
Istorie 29
Leviathan e Contr’Un 57
Il ritorno degli dèi 67
Insorgenze 81
Exemplar humanae vitae 103
La metapolitica non è una virtù 111
Pentesilea: attraverso le figure della differenza 123
Il fulmine a mani nude 149
finito di stampare nel mese di giugno 2011
presso la tipografia Iacobelli – Pavona (Roma)
per conto delle edizoni DeriveApprodi

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