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Altri saggi di teoria del diritto

2
I.
Il problema della validità in Kelsen *

1. Introduzione

Non c’è dubbio che la teoria pura del diritto pretenda di essere una teoria positivista e normativista, ma è
dubbio che tale obiettivo possa dirsi raggiunto. Kelsen è perfettamente consapevole dei pericoli che
minacciano la sua teoria:

Una teoria positivistica del diritto ha il compito di trovare la corretta via di mezzo tra due estremi. Un
estremo è la tesi che tra la validità, come Sollen, e l’efficacia, come Sein, non vi sia relazione alcuna,
che la validità del diritto sia totalmente indipendente dalla sua efficacia. L’altro estremo è la tesi che la
validità del diritto coincida con la sua efficacia 1.

Il primo estremo è rappresentato dalle teorie del diritto naturale, il secondo dalle teorie “realiste”. La via di
mezzo scelta da Kelsen è caratterizzato da due tesi: la tesi della separazione e la tesi della normatività. La
prima tesi sostiene che non vi è relazione necessaria (cioè concettuale) tra diritto e morale. La seconda
sostiene la separazione tra diritto e fatti: il diritto consta di norme che non possono essere ridotte a fatti.
Tuttavia è dubbio se Kelsen possa sostenere conseguentemente queste due tesi, se la sua via di mezzo
tra la Scilla del fattuale e il Cariddi del diritto naturale non conduca ad un naufragio tra i due scogli. Bruno
Celano, in un libro recente2, sostiene che Kelsen fallisca su entrambi i fronti: tanto la tesi della separazione
quanto la tesi della normatività, a conti fatti, risultano insostenibili per la teoria pura.
La minaccia per la tesi della normatività sta nella relazione tra validità ed efficacia. Kelsen sottolinea
ripetutamente che l’efficacia è solo una condizione sine qua non per la validità, e non una condizione per
quam. Ma non è affatto chiaro che cosa egli intenda con queste espressioni.
Si potrebbe pensare che l’efficacia sia una condizione solo necessaria, ma non sufficiente, di validità. Ma
i testi di Kelsen non lasciano dubbi che le cose non stanno affatto così. La norma fondamentale è
presupposta solo se l’ordinamento giuridico, che su di essa riposa, è efficace ed ogni volta che è efficace,
del tutto indipendentemente dal contenuto dell’ordinamento stesso. Pertanto, l’efficacia è una condizione
necessaria (non c’è validità senza efficacia) e al tempo stesso sufficiente (ogni ordinamento efficace è
valido) per presupporre la norma fondamentale; sicché l’efficacia è l’unico criterio di validità.
D’altra parte, se la validità è intesa come obbligatorietà della norma, allora l’affermazione che una norma
è valida ha carattere normativo: è la prescrizione di comportarsi così come prescrive la norma.

Che una norma rivolta alla condotta degli uomini sia valida significa che è obbligatoria, che gli uomini
devono comportarsi nel modo richiesto dalla norma 3.

Ma allora la scienza giuridica non è una descrizione avalutativa del diritto positivo, bensì un’ideologia
politica, una giustificazione del diritto esistente, sotto forma di dovere di applicare, ed obbedire a, qualunque
diritto esistente4. È ciò che Bobbio ha chiamato “positivismo ideologico” 5. Se ogni ordinamento giuridico è
giusto, l’efficacia è l’unico criterio di giustizia del diritto. Delle due tesi menzionate sopra non resta nulla.
In questo lavoro, vorrei assumere la difesa della teoria pura contro questa interpretazione pessimista:
non solo contro Celano, ma soprattutto contro lo stesso Kelsen. Non c’è dubbio che molte formulazioni
kelseniane siano incompatibili con il suo positivismo normativista. In quel che segue proporrò, più che una
interpretazione, una ricostruzione della teoria pura del diritto.
In questo senso considererò come fondamentali e pertanto intangibili le seguenti tesi della teoria pura.
Tutte le affermazioni di Kelsen che risultino incompatibili con tali tesi (e, come vedremo, ve ne sono molte)
devono essere eliminate dalla teoria pura perché essa possa essere considerata una teoria coerente.
(1) Positivismo giuridico. Tutto il diritto è diritto positivo, cioè consiste di norme create ed estinte
mediante atti umani.

*
El problema de la validez en Kelsen, in R. Vázquez (ed.), Filosofía jurídica. Ensayos en homenaje a Ulises
Schmill, México, Porrúa-ITAM, 2005; traduzione di Riccardo Guastini. L’autore stesso ha corretto alcuni
errori del testo originario.
1
H. Kelsen, Reine Rechtslehre, II ed., Wien, Franz Deuticke, 1960, p. 215 (d’ora in avanti abbreviato in
RR2); trad. it., La dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1966.
2
B. Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen. Una introduzione critica, Bologna, Il Mulino, 1999.
3
RR2, p. 196.
4
B. Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen, cit., p. 383.
5
N. Bobbio, El problema del positivismo jurídico, Buenos Aires, Eudeba, 1965, pp. 46-49 [cfr. N. Bobbio, Il
positivismo giuridico, Torino, Giappichelli, 1961, n.e.1996; Id., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano,
Comunità, 1965].
3
(2) Scetticismo etico. Non vi sono norme vere: le norme in generale, e le norme morali in specie, non
sono né vere né false. Non vi sono fatti normativi che corrispondano a fatti morali, e pertanto non è possibile
una conoscenza oggettiva della morale.
(3) Separazione tra essere e dovere. Dal fatto che una cosa sia non segue che debba essere, e dal fatto
che una cosa debba essere non segua che sia.
(4) Avalutatività della scienza giuridica. La scienza giuridica consiste nella descrizione del diritto positivo,
non nella sua valutazione. La valutazione degli ordinamenti giuridici positivi come giusti o ingiusti pertiene
alla politica, non alla scienza.

2. Validità come appartenenza

Non è facile rispondere alla domanda che cosa intenda Kelsen per “validità” alla luce di formulazioni le
più diverse. Si possono però fissare almeno due concetti diversi che, negli scritti kelseniani, appaiono sotto il
nome di “validità”: validità come appartenenza di una norma all’ordinamento giuridico, e validità come forza
obbligatoria della norma.
Forza obbligatoria è chiaramente un concetto normativo. Per contro, l’appartenenza è un concetto
descrittivo: l’affermazione che una norma appartiene ad un ordinamento giuridico è una proposizione
descrittiva, suscettibile di essere vera o falsa. Si tratta, inoltre, di un concetto relativo: della relazione tra una
norma, un sistema di norme, ed un momento temporale. Una norma può appartenere ad un sistema e non
ad un altro; può appartenere ad un sistema in un momento dato e non in un altro.
Kelsen introduce il tema dell’appartenenza con la seguente domanda: «Che cosa costituisce una pluralità
di norme in unità? Perché una determinata norma appartiene ad un determinato ordinamento?». Purtroppo il
testo continua così: «Questa domanda è strettamente connessa ad un’altra: Perché una norma è valida?
Quale è il suo fondamento di validità?»6.
La risposta a questa seconda domanda mostra che si tratta di un problema ben diverso: «Che una norma
rivolta alla condotta degli uomini sia valida significa che è obbligatoria, che gli uomini devono comportarsi nel
modo richiesto dalla norma». La questione dell’appartenenza di una norma ad un sistema e la questione
della sua obbligatorietà devono essere tenute accuratamente distinte.

3. Sistema e ordinamento

Quand’è che una norma appartiene ad un ordinamento? La risposta di Kelsen a questa domanda è:
quando è stata creata da un’autorità competente di tale ordinamento (la competenza essendo determinata
da una norma superiore che autorizza a creare la norma in questione). Come vedremo in seguito, questo
non è l’unico criterio di appartenenza. Ma, prima di analizzare questo punto, conviene distinguere tra
sistema e ordinamento, cosa che Kelsen purtroppo non fa.
Userò il termine “sistema” per designare un insieme di norme riferito ad un momento temporale dato: si
tratta di un sistema “momentaneo” nel senso di Raz 7. Per “ordinamento giuridico” intenderemo invece una
sequenza temporalmente ordinata di sistemi 8. I punti temporali con cui sono connessi i sistemi giuridici sono
determinati dagli atti di creazione e di abrogazione di norme. (Mi riferisco qui esclusivamente a norme
statuite, lasciando da parte le norme consuetudinarie.) Ogni intervallo tra due atti di questo tipo determina la
durata di un sistema. Ne segue che i sistemi giuridici, normalmente, durano poco, poiché ogni volta che una
norma si aggiunge all’insieme mediante un atto di creazione, o si elimina mediante un atto di abrogazione,
abbiamo un nuovo sistema. L’identità del sistema è determinata dall’identità dei suoi elementi (norme). Un
ordinamento giuridico, per contro, può avere lunga durata.
Se si interpreta la validità nel senso di appartenenza come esistenza di una norma, occorre distinguere
tra l’esistenza in un sistema e l’esistenza in un ordinamento. Una norma esiste in un sistema quando
appartiene ad esso, ed esiste in un ordinamento quando appartiene ad un sistema di tale ordinamento.
L’esistenza di una norma in un ordinamento può essere discontinua.
Ad ogni momento t in cui una norma è creata od abrogata corrisponde un sistema normativo S t, ma tale
sistema comprende altresì tutte le norme create e non abrogate dalle autorità competenti prima del
momento t, tutte le norme non abrogate che appartengono a tutti i sistemi antecedenti nel tempo.
Qui nasce tuttavia una difficoltà. Per appartenere ad un sistema, una norma deve essere stata creata da
un’autorità competente, ma la competenza dipende da norme appartenenti al sistema. La caratterizzazione
6
RR2, p. 196.
7
J. Raz, The Concept of a Legal System, Oxford, Oxford University Press, 1970 [trad. it., Il concetto di
sistema giuridico, Bologna, Il Mulino, 1977].
8
Questa distinzione è stata introdotta per la prima volta in C.E. Alchourrón, E. Bulygin, El concepto de
orden jurídico, in “Crítica. Revista Hispanoamericana de Filosofía”, VIII, n. 23, 1976, pp. 3-23, ed è stata poi
adottata da numerosi autori. Cfr. J.J. Moreso, P.E. Navarro, Orden jurídico y sistema jurídico, Madrid, Centro
de Estudios Constitucionales, 1993.
4
dell’appartenenza in termini di competenza e della competenza in termini di appartenenza può facilmente
risolversi in un circolo vizioso. Se la creazione da parte di un organo competente fosse l’unico criterio di
appartenenza, allora la definizione di sistema normativo sarebbe davvero circolare. Ne segue che devono
esservi norme che appartengono al sistema senza essere state create dalle autorità competenti. Sono
queste le norme primitive del sistema (von Wright le chiame norme sovrane9, e Caracciolo norme
indipendenti10). Per ragioni logiche, in ogni sistema devono esservi norme primitive. L’insieme delle norme
primitive deve includere delle norme di competenza che autorizzino determinti organi a creare nuove norme:
questo è ciò che Kelsen chiama una (storicamente) prima costituzione in senso materiale11.
Un ordinamento giuridico può essere definito in termini di costituzione materiale come l’insieme di tutti i
sistemi che contengono la stessa prima costituzione materiale, cioè le stesse norme primitive. L’unità di
questa sequenza, ossia l’identità dell’ordinamento, è determinata dalla prima costituzione in senso materiale.
Il criterio per identificare le norme che appartengono a un determinato sistema S t di un ordinamento
giuridico può essere formulato mediante le tre regole seguenti12:

(i) L’insieme I (i.e., le norme della prima costituzione) appartiene a S t.


(ii) Se una norma N1 appartenente a St attribuisce all’organo x la competenza a creare la norma N 2 e x
crea N2 in un momento antecedente a t (o nello stesso momento t) e N 2 non è stata abrogata in un
momento antecedente a t (o nello stesso momento t), allora N 2 appartiene a St.
(iii) Tutte le norme che sono conseguenza logica delle norme appartenenti a S t appartengono anch’esse
a St .

La regola (i) enumera le norme primitive. Si tratta di una definizione estensionale.


La regola (ii) costituisce il criterio per la derivazione dinamica delle norme, giacché consente
l’introduzione di nuove norme mediante la creazione e l’eliminazione di norme mediante atti di abrogazione.
La regola (iii) costituisce il criterio per la derivazione statica delle norme, giacché chiude il sistema
mediante il concetto di conseguenza logica13.
Queste tre regole costituiscono una definizione ricorsiva del sistema normativo S t. Mediante
l’applicazione successiva di tali regole si può determinare se una norma appartenga o no al sistema in
questione.

4. Validità, efficacia, e norma fondamentale

La distinzione tra validità come appartenenza e validità come forza obbligatoria permette di chiarire le
relazioni tra validità ed efficacia.
L’appartenenza di una norma ad un sistema normativo è del tutto indipendente dalla sua efficacia (si
ricordi che qui stiamo parlando di norme statuite). E’ perfettamente sensato domandarsi se una determinata
norma appartenga ad un sistema giuridico anche quando né la norma né il sistema in questione siano
efficaci. L’appartenenza dipende, nella teoria di Kelsen, dal fatto che la norma sia stata creata da un’autorità
competente; l’efficacia non gioca qui alcun ruolo, e non è neppure menzionata nella definizione di
appartenenza. Ciò che invece dipende sì dall’efficacia, per Kelsen, è la forza obbligatoria delle norme: una
norma totalmente inefficace e un ordinamento giuridico totalmente inefficace non sono considerati
obbligatori14.
D’altra parte, la presupposizione della norma fondamentale è del tutto non necessaria per definire
l’appartenenza. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un criterio di identificazione, come quello contenuto nelle
tre regole indicate sopra. È vero che Kelsen si interroga anche sul fondamento di validità della prima
costituzione, ma si riferisce ovviamente alla forza obbligatoria, e non all’appartenenza. Interrogarsi
sull’appartenenza all’ordinamento giuridico della prima costituzione non ha senso, perché l’ordinamento si
definisce precisamente in termini di quella costituzione. La catena della derivazione dinamica comincia con
la costituzione: si tratta, per definizione, del primo anello della catena. Per conseguenza, i problemi di
appartenenza e di identità del sistema possono essere trattati senza necessità di presupporre una norma
fondamentale.
Queste sono due importanti conseguenze della distinzione tra obbligatorietà e appartenenza.
9
G.H. von Wright, Norm and Action. A Logical Enquiry, London, Routledge & Kegan Paul, 1963, p. 199.
10
R. Caracciolo, El sistema jurídico. Problemas actuales, Madrid, Centro de Estudios Constitucionales, 1988.
11
RR2, p. 228 ss.
12
Si tratta di una versione semplificata. Cfr. E. Bulygin, Sobre la regla de reconocimiento, in “Doxa”, 9, 1991,
p. 257 ss., spec. pp. 263-266 [trad. it., Sulla regola di riconoscimento, in E. Bulygin, Norme, validità, sistemi
normativi, Torino, Giappichelli, 1995].
13
Secondo Kelsen, entrambi i princìpi – quello statico e quello dinamico – operano nel sistema giuridico.
Cfr. RR2, p. 200.
14
RR2, pp. 218-219.
5

5. Validità come obbligatorietà

Dall’analisi che precede emerge che tanto la norma fondamentale quanto l’efficacia sono connesse in
Kelsen con l’obbligatorietà, e non con l’appartenenza. La confusione tra questi due concetti, per i quali
Kelsen usa lo stesso termine “validità”, solleva notevoli difficoltà nell’interpretazione dei testi kelseniani.
Dobbiamo ora analizzare più in dettaglio il concetto di obbligatorietà. Alf Ross ha obiettato all’uso del
concetto di obbligatorietà da parte delle teorie positiviste 15. Una norma è obbligatoria allorché ci si deve
comportare in conformità ad essa: ma che significa questo “deve”? Di che tipo di dovere si tratta?

Un dovere è sempre un dovere di tenere un determinato comportamento. In questo caso il


comportamento richiesto è “obbedire al diritto”. In qual modo obbediamo al diritto? Adempiendo i
nostri obblighi: per esempio, pagando i nostri debiti. Ne segue che l’obbligo di obbedire al diritto non
prescrive alcun comportamento che non sia già prescritto dal diritto stesso. Di qui si deduce che, se il
dovere di adempiere le prescrizioni di un ordinamento giuridico deve significare qualcosa di diverso
dagli obblighi prescritti direttamente da tale ordinamento, la differenza non può stare nel
comportamento richiesto – ossia in ciò cui siamo obbligati – ma può solo stare nel modo in cui siamo
obbligati a comportarci. Il significato della forza obbligatoria inerente ad un ordinamento giuridico
consiste in questo: che gli obblighi giuridici stabiliti dalle regole del sistema – per esempio, l’obbligo di
pagare un debito – non sono meri doveri giuridici derivanti dalla minaccia di sanzioni giuridiche, ma
anche doveri morali, nel senso aprioristico di obblighi morali veri derivanti dai princìpi del diritto
naturale, che conferiscono all’ordinamento giuridico la sua validità o forza obbligatoria. Il dovere di
obbedire al diritto è un dovere morale verso il sistema giuridico, non un dovere giuridico conforme ad
esso. E un dovere verso il sistema giuridico non può derivare dal sistema stesso: deve derivare da
regole o princìpi esterni al sistema 16.

Ross afferma che una teoria positivista del diritto, come la teoria pura, non può usare questo concetto di
validità come forza obbligatoria senza infrangere i limiti di una scienza giuridica avalutativa, e convertirsi,
pertanto, in una variante del giusnaturalismo, che Ross chiama “quasi-positivismo”. Siamo dunque di fronte
a un dilemma: o la forza obbligatoria non è altra cosa dal dovere giuridico, ma allora l’affermazione che le
norme giuridiche hanno forza obbligatoria è vuota, e pertanto superflua, perché non dice altro se non che si
deve fare ciò che comunque si deve fare; oppure si tratta di un dovere morale, ma ciò è incompatibile con il
positivismo kelseniano.
Una interpretazione simile della forza obbligatoria s’incontra anche in altri autori. Raz distingue tra due tipi
di normatività: normatività sociale e normatività giustificata 17, e attribuisce a Kelsen quest’ultima:

Kelsen usa solo il concetto di normatività giustificata [...] A suo avviso, un individuo può considerare
un sistema giuridico come normativo solo se lo considera moralmente obbligatorio18.
Giudicare il diritto come normativo è giudicarlo come giusto, e implica sostenere che ad esso si deve
obbedire19.

Un’analoga interpretazione della validità kelseniana si trova in Nino:

Predicare la validità di un sistema giuridico (come pure di una singola regola giuridica) è affermare che
esso ha forza obbligatoria, che le sue prescrizioni costituiscono ragioni concludenti per agire 20.
I giudizi di validità (ivi inclusi quelli sulla norma fondamentale) prescrivono che le azioni comandate
dalle norme cui si riferiscono siano compiute21.

15
A. Ross, Validity and the Conflict between Legal Positivism and Natural Law, in “Revista jurídica de Buenos
Aires”, 4, 1961, pp. 46-93 (versione bilingue, inglese e castigliana); la versione castigliana è riprodotta in A.
Ross, El concepto de validez y otros ensayos, Buenos Aires, Centro Editor de América Latina, 1969 [trad. it. in
A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Bologna, Il Mulino, 1982].
16
A. Ross, Validity and the Conflict between Legal Positivism and Natural Law, cit., pp. 18 s.
17
J. Raz, Kelsen’s Theory of the Basic Norm, in Id., The Authority of Law, Oxford, Clarendon Press, 1979, pp.
122 s.
18
J. Raz, Kelsen’s Theory of the Basic Norm, cit., p. 134.
19
J. Raz, Kelsen’s Theory of the Basic Norm, cit., p. 137.
20
C.S. Nino, Some Confusions surrounding Kelsen’s Concept of validity, in “Archiv für Rechts- und
Sozialphilosophie”, 64, 1978, p. 357 ss.; riprodotto parzialmente in S. L. Paulson, B. Litchewski Paulson
(eds.), Normativity and Norms. Critical Perspectives in Kelsenian Themes, Oxford, Oxford University Press,
1998, pp. 253 ss.
21
C.S. Nino, La validez del derecho, Buenos Aires, Astrea, 1985.
6
Però, mentre Ross afferma che l’uso del concetto di forza obbligatoria viola i princìpi fondamentali del
positivismo kelseniano, Raz e Nino lo considerano degno di lode.
Ritengo che la nozione di forza obbligatoria, così come la usa Kelsen, sia davvero incompatibile con il
programma positivista dello stesso Kelsen. Credo anche, però, che sia necessario introdurre un nuovo
concetto – il concetto di applicabilità – per dare conto di alcuni aspetti del diritto che in Kelsen appaiono
connessi al suo concetto di validità.

6. Applicabilità

Credo che il concetto di validità possa essere reinterpretato in modo da evitare tanto la sovrapposizione
tra la forza obbligatoria e i doveri giuridici, quanto ogni connotazione morale. La validità può essere
concepita come un dovere non morale, ma giuridico. Per evitare confusioni, userò al riguardo il termine
“applicabilità”22. Una norma è applicabile a un caso quando il giudice ha il dovere di applicarla al caso in
questione. Questo dovere è stabilito dalle norme giuridiche positive che chiamerò norme sull’applicazione.
Questo concetto è descrittivo, giacché descrive il dovere del giudice di applicare una determinata norma, e
tale dovere non ha alcuna connotazione morale, essendo stabilito da norme giuridiche positive.
Come funzioni l’applicabilità può essere illustrato con un esempio preso dal diritto penale. Il principio è
che le norme penali non hanno efficacia retroattiva, e pertanto non devono essere applicate a reati
commessi prima della loro promulgazione. In virtù di questo principio, si deve applicare la legge che era
vigente al momento della commissione del reato, anche quando tale legge sia stata posteriomente abrogata.
Ma tale principio è limitato da altri princìpi. In conformità all’art. 2 del codice penale argentino, il giudice deve
sempre applicare la legge più favorevole al reo, anche quando questa sia stata in vigore solo per un periodo
intermedio tra il momento in cui il reato fu commesso e quello in cui lo si giudica. La situazione è dunque la
seguente: il giudice deve confrontare tutte le norme penali che si riferiscono al reato in questione e che
appartengono a tutti i sistemi dal momento della commissione del reato fino al momento in cui il giudice
deve pronunciare la sentenza, e applicare poi la norma che risulti più favorevole al reo. Si tenga presente
che tutte queste norme, eccetto l’ultima, sono norme abrogate. È pertanto insostenibile l’opinione,
abbastanza diffusa, che il giudice debba sempre applicare il diritto vigente. Ciò mostra che l’abrogazione
tocca solo l’appartenenza delle norme al sistema, ma non la loro applicabilità. Una norma abrogata non
appartiene ai sistemi posteriori alla sua abrogazione, ma può essere nondimeno applicabile.
Una norma come l’art. 2 del codice penale argentino è una tipica norma sull’applicazione, che obbliga il
giudice ad applicare una determinata norma. Si tratta di una norma positiva, e il dovere da essa stabilito è
un dovere giuridico, non morale. D’altra parte, tale dovere non si sovrappone ai doveri stabiliti nel codice
penale. Quest’ultimo obbliga il giudice a dettare la sanzione corrispondente al reato commesso, mentre la
norma sull’applicazione determina quali norme del codice penale debbano essere applicate al caso in
questione. Il giudice deve scegliere tra diverse norme, e le norme sull’applicazione forniscono precisamente
il criterio per compiere tale scelta.

7. Applicabilità e appartenenza

Il concetto di applicabilità deve essere chiaramente distinto da quello di appartenenza. Vi sono qui due
problemi da considerare.
In primo luogo, la distinzione tra appartenenza e applicabilità consente di chiarire un problema che
Kelsen non ha mai potuto risolvere. E’ il problema delle norme irregolari, cioè delle norme che non sono
state create da organi competenti (o perché non è stato seguito il procedimento fissato, o perché sono stati
oltrepassati i limiti di competenza dell’organo), come è il caso delle norme incostituzionali. Kelsen tratta il
problema sotto la rubrica dei “conflitti tra norme di grado diverso”.
Una consegenza della definizione di appartenenza è che una norma, la quale non sia stata dettata da un
organo competente, non appartiene al sistema; tuttavia, una tale norma può essere applicabile fino a che
non sia stata dichiarata incostituzionale dall’organo a ciò competente (il tribunale costituzionale o un giudice
ordinario). Kelsen si trova in una situazione sgradevole: da un lato, la norma in questione, in ipotesi, non è
stata creata da un organo competente, sicché dovrebbe essere invalida; dall’altro lato, però, poiché la
validità è l’esistenza specifica delle norme23, Kelsen non può negare che la norma sia valida. Come risultato

22
Ho introdotto io stesso questo termine in Time and Validity, in A. A. Martino (ed.), Deontic Logic,
Computational Linguistics and Legal Information Systems, Amsterdam, North-Holland, 1982 [trad. it., Tempo e
validità, in E. Bulygin, Norme, validità, sistemi normativi, cit.]. Il concetto è poi stato analizzato e sviluppato in
varie pubblicazioni di J.J. Moreso e P.E. Navarro, di cui cfr, Applicabilità ed efficacia delle norme giuridiche, in
P. Comanducci, R. Guastini (eds.), Struttura e dinamica dei sistemi giuridici, Torino, Giappichelli, 1996.
23
RR2, p. 9.
7
di questo dilemma, Kelsen si vede costretto alla famosa teoria della clausola alternativa tacita, che è
insostenibile per ragioni logiche24.
In secondo luogo, l’insieme delle norme applicabili ad un caso – contrariamente ad un’opinione
abbastanza diffusa – non deve necessariamente essere un sottoinsieme di un determinato sistema giuridico.
Può accadere – e spesso accade – che risultino applicabili norme che non appartengono al sistema giuridico
del giudice, o norme che appartengono ad un ordinamento diverso, e persino norme che non sono affatto
giuridiche.
L’applicabilità di norme appartenenti ad ordinamenti diversi da quello del giudice accade tanto
frequentemente che vi è un ramo specifico della scienza giuridica che se ne occupa: il diritto internazionale
privato. Un tribunale cileno può essere obbligato, dalle norme del diritto cileno, ad applicare una norma
paraguayana, senza che per questo la norma in questione si converta in norma cilena. Il diritto
internazionale privato si interessa precisamente a quei casi in cui si deve applicare il diritto straniero, senza
che per questo esso smetta di essere quello che è: diritto straniero.
Può anche accadere spesso che il giudice sia obbligato ad applicare norme che non appartengono al
sistema al momento della sua decisione. Qui si possono distinguere varie ipotesi. Può trattarsi di norme che
appartengono ad altri sitemi del medesimo ordinamento, il che accade ad esempio quando si applicano
norme abrogate. Ma può anche succedere che i giudici siano obbligati o autorizzati ad applicare norme
morali, senza che sia specificato di quale morale si tratti. Per fare un esempio, si veda l’art. 953 del codice
civile argentino, che dispone la nullità di ogni atto “contrario al buon costume”. Per decidere se questo
articolo sia applicabile, i giudici devono ricorrere a norme morali. Ma il fatto di applicare una norma morale
non la converte in norma giuridica.

8. Forza obbligatoria e applicabilità

A differenza della forza obbligatoria, che è un concetto normativo, tanto l’appartenenza quanto
l’applicabilità sono concetti descrittivi. Spesso tutti e tre i concetti sono usati con il nome di “validità”, e
questo è specialmente vero in Kelsen. Resta da dire che è consigliabile tenerli distinti.
Tutti e tre sono concetti relazionali, ma si tratta di relazioni distinte. L’appartenenza è una relazione tra
quattro elementi: un sistema normativo, una norma di competenza di tale sistema, un atto di creazione
normativa, e una norma creata da questo atto. La forza obbligatoria, come la definisce Kelsen, è una
relazione binaria: tra una norma e la validità (ma nel senso di obbligatorietà) di un’altra norma. L’applicabilità
è una relazione tra cinque elementi: un sistema normativo, una norma sull’applicazione di tale sistema, un
tribunale, un caso, e la norma applicabile (una norma è applicabile quando una norma sull’applicazione
obbliga, o autorizza, il tribunale ad applicarla a un determinato caso).
La differenza importante tra obbligatorietà e applicabilità sta in questo: che il concetto relativo di
obbligatorietà presuppone il concetto assoluto di obbligatorietà, e ciò non succede con l’applicabilità Ciò
dipende dal fatto che Kelsen definisce l’obbligatorietà in relazione alla forza obbligatoria di un’altra norma: il
fondamento di validità di una norma può solo essere la validità di un’altra norma 25. L’applicabilità, per contro,
è relativa all’esistenza e non all’applicabilità di una norma sull’applicazione. Questa differenza conduce a
conseguenze molto importanti, che sono state segnalate da G.H. von Wright 26, che seguo su questo punto.
Il concetto di validità – come definito da Kelsen – è analogo a quello di verità. Ma il concetto relativo di
verità presuppone il concetto assoluto. Che una proposizione sia vera in relazione ad un’altra può solo
significare che, se la seconda è vera, allora è vera anche la prima: la verità della prima proposizione è
relativa alla verità della seconda. Ma la verità di questa seconda proposizione dipende dalla verità di una
terza, e così avanti. Se non si vuole che questa sequenza sia infinita, essa deve terminare con una
proposizione la cui verità sia non relativa ad un’altra proposizione, ma assoluta.
Analogamente, se la validità (intesa come obbligatorietà) di una norma è relativa alla validità (intesa
come obbligatorietà) di un’altra norma, allora la sequenza delle norme non è infinita – e, trattandosi di norme
positive, certo non può esserlo – deve terminare con una norma la cui validità non dipende da alcuna altra
norma, cioè è assoluta. Pertanto, per ragioni logiche, devono esservi norme assolutamente obbligatorie. In
questo senso, la obbligatorietà relativa, così come è definita da Kelsen, presuppone la obbligatorietà
assoluta.
Ma l’idea di una norma assolutamente obbligatoria è inaccettabile per il postivismo di Kelsen, perché la
validità assoluta può essere attribuita solo al diritto naturale. Per sfuggire a questo dilemma, Kelsen ricorre

24
Su questo problema si veda R. Vernengo, La función sistematica de la norma fundamental, in “Revista
jurídica de Buenos Aires”, I-II, 1960, p. 207 ss.; C.S. Nino, La validez del derecho, cit.; L. Gianformaggio, S.
Paulson (eds.), Cognition and Interpretation of Law, Torino, Giappichelli, 1995 (specialmente i saggi di E.
Bulygin, Cognition and Interpretation of Law e Some Replies to Critics; S. Nannini, Legal Validity and Conformity
to Law; nonché J. Ruiz Manero, On the Tacit Alternative Clause).
25
RR2, p. 196.
26
G.H. von Wright, Norm and Action, cit., pp. 194-197.
8
alla teoria della norma fondamentale. La validità della costituzione, e con essa dell’intero ordinamento, si
basa su una mitica norma fondamentale.
Ma, come ha sottolineato von Wright, l’analogia tra verità e validità è ingannevole. La validità può essere
definita in relazione all’esistenza, anziché alla validità, di una norma superiore. Questo concetto di validità,
per il quale io uso il termine “applicabilità”, non presuppone un concetto assoluto. In altre parole, il problema
che Kelsen cerca di risolvere con l’aiuto della sua norma fondamentale non si pone rispetto all’applicabilità,
poiché questo concetto è definito in relazione non all’applicabilità, ma all’esistenza di una norma
sull’applicazione. Una norma è applicabile quando una norma sull’applicazione obbliga o autorizza un
tribunale ad applicarla a un determinato caso, ed è inapplicabile quando la sua applicazione è proibita. Ciò
significa che quando non vi è una norma sull’applicazione corrispondente, la norma non è né applicabile, né
inapplicabile. Banalmente: l’applicabilità presuppone l’esistenza di norme sull’applicazione, Una soluzione
analoga al problema dell’applicabilità si trova in Hart, per il quale si può parlare di validità solo entro la
cornice di una regola di riconoscimento 27. La stessa regola di riconoscimento non è né valida, né invalida:
non ha senso interrogarsi sulla validità della regola di riconoscimento. La situazione delle norme
sull’applicazione è analoga28.
Ne segue che l’ipotesi della norma fondamentale non è necessaria per il concetto di applicabilità. Una
norma sull’applicazione è a sua volta applicabile quando vi è una norma sull’applicazione superiore che ne
prescrive l’applicazione. Ma questa catena di norme sull’applicazione non può essere infinita. Per ragioni
logiche, devono esservi norme sull’applicazione ultime, che non sono né applicabili né inapplicabili.
Interrogarsi sulla loro applicabilità non ha senso.
Per Kelsen la forza obbligatoria è intimamente legata all’efficacia. Celano 29 sostiene, con buone ragioni,
che nella teoria pura del diritto l’efficacia è condizione necessaria e sufficiente di obbligatorietà delle norme,
e su questo basa la sua critica della teoria kelseniana.
Una questione interessante è la relazione tra efficacia e applicabilità. La questione deve essere sdoppiata
in due domande. (1) Deve una norma essere efficace per essere applicabile a un caso? (2) Perché una
norma sia applicabile, deve essere efficace la relativa norma sull’applicazione?
La risposta alla prima domanda è senza dubbio negativa. Se l’efficacia di una norma consiste nel fatto
che è obbedita o applicata 30, allora l’applicabilità di una norma deve essere completamente indipendente
dalla sua efficacia, giacché la norma è applicabile prima che possa essere applicata. La questione se il
tribunale corrispondente applichi effettivamente una norma ad un caso al quale essa è applicabile è del tutto
irrilevante per la sua applicabilità.
Anche la risposta alla seconda domanda è negativa, quando siano in questione norme statuite. Se
l’appartenenza è indipendente dall’efficacia, allora una norma sull’applicazione appartiene al sistema
indipendentemente dalla sua efficacia. La situazione è più complicata quando siano in questione norme
consuetudinarie, poiché la loro esistenza e quindi anche la loro appartenenza consiste nella loro efficacia.
Ma questo problema sfugge ai limiti del presente lavoro.

9. Considerazioni finali

Le conclusioni più importanti che si possono inferire dalla discussione precedente possono essere
riassunte nel modo che segue.
(1) In Kelsen il termine “validità” è ambiguo. Si possono distinguere almeno due concetti molto differenti
che figurano sotto questo nome: appartenenza e obbligatorietà.
(2) Appartenenza è un concetto descrittivo. L’enunciato “La norma N appartiene al sistema S” esprime
una proposizione vera o falsa. Obbligatorietà è invece un concetto normativo: l’enunciato “La norma N ha
forza obbligatoria” esprime una norma, come tale né vera né falsa.
(3) Se l’appartenenza è interpretata come esistenza di una norma, allora è necessario distinguere tra
sistema e ordinamento. Un sistema normativo è un insieme di norme riferite ad un momento temporale. Un
ordinamento normativo è un insieme (una sequenza temporale) di sistemi normativi. Ciò obbliga a
distinguere tra l’appartenenza di una norma ad un sistema e l’appartenenza di un sistema ad un
ordinamento.
(4) Data l’ambiguità del termine “validità”, il problema della relazione tra validità ed efficacia si duplica, e
richiede un duplice trattamento. Tra appartenenza ed efficacia non vi è alcuna relazione (quando siano in
questione norme statuite).
(5) Per definire l’appartenenza, l’ipotesi della norma fondamentale risulta del tutto non necessaria. Solo
per la validità come forza obbligatoria Kelsen ha bisogno della norma fondamentale.

27
H.L.A. Hart, The Concept of Law, Oxford, Clarendon, 1961.
28
Cfr. P.E. Navarro, C. Oronesu, J.L. Rodríguez, La aplicabilidad de las normas jurídicas, in P. Comanducci,
R. Guastini, Analisi e diritto 2000. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, Giappichelli, 2001, p. 132 ss.
29
B. Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen, cit.
30
RR2, pp. 10, 122.
9
(6) Il concetto di forza obbligatoria è interpretato da molti autori (Ross, Raz, Nino, Celano) come dovere
morale di obbedire al diritto, il che è incompatibile con il positivismo di Kelsen.
(7) Tuttavia, l’obbligatorietà può anche essere interpretata come un obbligo giuridico, per il quale io uso il
termine “applicabilità”. Una norma è applicabile quando un’altra norma giuridica positiva (detta “norma
sull’applicazione”) stabilisce il dovere del giudice di applicarla a un determinato caso.
(8) L’applicabilità non deve essere confusa con l’appartenenza. I giudici possono essere obbligati o
autorizzati ad applicare norme che non appartengono al loro sistema e neppure al loro ordinamento
giuridico.
(9) L’analisi della struttura formale di questi due concetti mostra che l’applicabilità è cosa assai diversa
dall’obbligatorietà, come la intende Kelsen. La sua definizione di obbligatorietà relativa presuppone
l’obbligatorietà assoluta, il che conduce alla supposizione della norma fondamentale. Ma l’ipotesi della
norma fondamentale risulta non necessaria per l’applicabilità.

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