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INTRODUZIONE AL MODELLO DI MERTON/KMV

PER LA STIMA DELLE PROBABILITA’ DI INSOLVENZA


DI SOCIETA’ QUOTATE

A CURA DI CRISTIAN EPIS


La piena comprensione del modello KMV per il calcolo del
rischio di default richiede preliminarmente sia la definizione del
concetto di insolvenza (cfr. §1.1), sia una rapida ma indispensabile
analisi del contesto teorico in cui il modello stesso è stato sviluppato.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto considereremo dapprima gli
approcci che in generale stimano il tasso di insolvenza di una società
a partire dai dati disponibili nel mercato dei capitali (cfr. §1.2) per poi
passare, all’interno di questi, ad esaminare quelli basati sulla teoria
del valore delle opzioni (cfr. §1.3) soffermandoci in particolar modo
sulla determinazione della default probability secondo i principi della
contingent claim analysis (cfr. §1.4) da cui il modello della KMV
prende spunto.

1.1: il concetto di insolvenza

Il concetto di insolvenza implica valutazioni e rappresentazioni


della realtà d’impresa differenti in base al tipo di approccio adottato
nell’analisi1.
In un’ottica economica, insolvente è l’impresa incapace di
generare un’eccedenza monetaria tale da garantire in modo duraturo
la copertura del ciclo degli investimenti.
Insolvente secondo un approccio finanziario è, invece, l’impresa
nella quale vengono meno le condizioni di liquidità e di credito
necessarie ad adempiere regolarmente e con mezzi normali alle
obbligazioni contratte nello svolgimento della propria attività.
Infine si ha un’insolvenza giuridica nella quale il fallimento si
configura come lo strumento attraverso cui il legislatore organizza le
conseguenze di uno stato di crisi irreversibile, allo scopo di garantire
la protezione dei diritti dei terzi che sono stati coinvolti.
Indubbiamente il criterio dell’insolvenza finanziaria, grazie

1 Rossi (1986).

2
anche alla disponibilità di alcuni indicatori di facile consultazione2,
rappresenta tra quelli illustrati il più semplice da impiegare ed è
proprio questa sua maggior facilità di utilizzo che ne ha consentito un
consolidamento sempre maggiore a tal punto che oggi il termine
insolvenza viene adoperato come sinonimo di inadempienza.
Una volta precisato che cosa si intende quando si parla di
insolvenza, si può però facilmente constatare l’impossibilità di
stabilire a priori3 se una data società sarà o meno inadempiente ad
una certa data futura dal momento che non si può sapere
anticipatamente se essa sarà in grado di far fronte ai propri debiti. Al
limite si possono effettuare delle stime sulla probabilità di insolvenza
(default probability) per effetto delle quali verrà decisa da parte di chi
concede il credito l’applicazione all’impresa finanziata di differenziali
aggiuntivi al tasso d’interesse normalmente praticato. Tali
differenziali evidentemente saranno tanto maggiori quanto maggiore è
la rischiosità associata all’operazione percepita da parte dei creditori.
A questo punto possiamo osservare che quattro fattori
principali entrano in gioco quando ci si occupa del rischio di credito.
Questi sono4:
 default probability: esprime la probabilità che un debitore non
riesca a rimborsare regolarmente le proprie obbligazioni;
 loss given default: misura la perdita subita dal creditore per
effetto del fallimento dell’impresa finanziata; non è determinabile
con precisione ma può essere stimata in modo ragionevolmente
accurato se si conosce dettagliatamente la struttura del contratto
in essere;
 migration risk: rappresenta il “rischio di migrazione” tra classi
di rating distinte a cui il debitore è soggetto anno dopo anno; in
altri termini si tratta della probabilità che una società ha di

2 Si considerino a tal proposito le informazioni ottenibili tramite la Centrale dei

Rischi.
3 Prima cioè che si verifichi il fallimento.
4 Crosbie (1997).

3
rimanere nella stessa classe di rating in cui si trova oppure di
passare ad una diversa categoria (migliore o peggiore). Tali
probabilità vengono normalmente stimate attraverso la cosiddetta
matrice di transizione5;
 exposure: indica l’ammontare prestato, dunque esposto al
rischio di fallimento del debitore.
Tra questi elementi il più importante ma, al tempo stesso,
anche il più difficile da determinare, è sicuramente la default
probability. A tal proposito si può notare come, contestualmente
all’affermazione del concetto di insolvenza finanziaria, si siano
sviluppati e diffusi svariati modelli accomunati dall’obiettivo di
determinare la probabilità di fallimento associata a ciascuna società
presa in esame. Tra essi, particolarmente significativi sono quegli
approcci che, sfruttando le informazioni implicite nei prezzi di azioni
e di obbligazioni emesse dalle imprese nel mercato dei capitali,
mirano ad ottenere informazioni sul tasso di insolvenza delle imprese
medesime.

1.2: i modelli per la stima dei tassi di insolvenza basati sul


mercato dei capitali

Si tratta di modelli a cui si è giunti sulla base di una logica


molto precisa. Infatti il contemporaneo sviluppo dei mercati
internazionali dei capitali (sia azionari che obbligazionari) e degli
studi teorici in materia di determinazione del prezzo delle attività
finanziarie rischiose ha fatto sì che in molti campi della finanza i
prezzi dei valori mobiliari, in quanto sintetica espressione di tutte le
informazioni disponibili e al tempo stesso delle aspettative degli
operatori, venissero impiegati come informazione primaria per la
stima di altre informazioni6.

5 Si veda a riguardo Estrella (1999).


6 Tra le quali appunto anche il rischio di insolvenza.

4
Tre sono le principali tipologie che rientrano nell’ambito dei
modelli per il calcolo dei tassi d’insolvenza basati sui dati disponibili
nel mercato dei capitali.
La prima comprende tutti gli studi7 che, partendo dalla
struttura a termine degli spread di rendimento tra titoli
obbligazionari rischiosi e titoli risk-free, ricavano le aspettative di
mercato relative al tasso di perdita connesso all’investimento in titoli
rischiosi o, in alternativa, ricavano la default probability
dell’emittente. L’idea di base è estremamente semplice e intuitiva: il
maggior rendimento che il mercato richiede ai titoli obbligazionari
rischiosi, rispetto al rendimento dei titoli risk-free con scadenza
equivalente, riflette in modo adeguato le aspettative che gli operatori
hanno circa la probabilità di insolvenza dell’impresa emittente8.
La seconda tipologia comprende tutti gli approcci9 che, a partire
dai dati relativi ai tassi di insolvenza storicamente registrati dagli
emittenti dei titoli obbligazionari, ottengono informazioni circa la
default probability per società appartenenti alle diverse classi di
rating. In altre parole questi approcci determinano il tasso di
insolvenza di un’impresa sulla base di due informazioni e cioè la
classe di rating in cui si colloca l’impresa considerata e la probabilità
di fallimento storicamente registrata per le società della medesima
categoria di rating.
Vi è infine un terzo tipo di studi nel quale si fanno rientrare
tutti quei modelli che, partendo dalle informazioni relative al prezzo
ed alla volatilità dei titoli azionari e applicando la teoria del valore
delle opzioni, ricavano la probabilità di insolvenza dell’impresa
emittente. Cerchiamo ora di esaminare in modo più approfondito
proprio quest’ultima tipologia di studi.

7 Si vedano in proposito Jonkhart (1979) e Iben, Litterman (1989).


8 In altri termini quanto più consistente sarà lo spread tra i tassi di rendimento
tanto più accentuata sarà la percezione di rischiosità da parte del mercato.
9 Si faccia riferimento in particolar modo a Altman (1989).

5
1.3: l’approccio fondato sulla teoria del valore delle opzioni

Si tratta di un tipo di approccio che deriva dal modello di


pricing delle opzioni sviluppato originariamente da Black e Scholes
(1973) e che si fonda pertanto sui principi della contingent claim
analysis. La sua prima applicazione al rischio di insolvenza è
riconducibile a Merton (1974) la cui elaborazione si basa sul
presupposto che per una società l’insolvenza si manifesta
esattamente nel momento in cui il valore delle attività risulta inferiore
al valore delle passività. Quindi l’evento insolvenza si verifica in
corrispondenza del primo pagamento che l’impresa deve effettuare
quando il valore delle attività è tale da non rendere più conveniente
per gli azionisti adempiere alle proprie obbligazioni. Sono due le
ipotesi più importanti su cui si regge il modello originariamente
sviluppato da Merton. La prima consiste nel fatto che si fa riferimento
al rischio di insolvenza di un emittente di un titolo obbligazionario
zero coupon, rappresentativo tra l’altro di tutto il capitale di debito
dell’impresa. La seconda ipotesi prevede invece che il valore
dell’attività della società esposta al rischio di insolvenza segua un
processo diffusivo geometrico Browniano10. Come si può facilmente
constatare i due assunti ora riportati implicano altrettante importanti
conseguenze, che rappresentano al tempo stesso anche i due limiti11
più evidenti dello studio condotto da Merton. In primo luogo l’aver
considerato uno zero coupon bond comporta inevitabilmente che
l’insolvenza dell’impresa si possa verificare solo ed esclusivamente
alla scadenza del titolo, nel caso in cui il valore di rimborso di
quest’ultimo sia superiore al valore delle attività della società
emittente. In secondo luogo l’ipotesi dello sviluppo dell’attivo secondo
un processo diffusivo geometrico Browniano porta a concludere che
la probabilità di insolvenza rappresenta un valore facilmente

10 {( ) }
Ovvero VT = V T = V0 exp µ − σ 2 / 2 t + σ t Z t .
11 Si vedano a riguardo Sironi, Marsella (1999) e Duffie (1996).

6
prevedibile in relazione all’orizzonte temporale prescelto, in quanto è
prevedibile la distribuzione futura dei possibili valori delle attività
societarie.
Proprio l’esistenza di detti limiti costituisce la ragione
fondamentale che ha portato alle successive generalizzazioni del
modello di Merton. Tra queste si deve innanzitutto ricordare lo studio
effettuato da Black e Cox (1976) la cui importanza è principalmente
legata al fatto che esso ammette che l’insolvenza si possa verificare
anche prima della scadenza del titolo obbligazionario. Ciò è possibile
in due modi: considerando passività con cedole al posto degli zero
coupon bond oppure fissando arbitrariamente una soglia del valore
dell’attivo al di sotto della quale, indipendentemente dai flussi di
cassa dovuti dall’emittente, quest’ultimo fallisce. Analogamente a
quanto avveniva con Merton anche in questa prima generalizzazione
si ipotizza però che il valore dell’attivo segua un processo diffusivo
geometrico Browniano.
Il superamento di questo secondo assunto è stato possibile
solamente grazie ad ulteriori affinamenti della teoria di Merton tra i
quali è opportuno ricordare quelli sviluppati da Madan e Unal (1994)
e da Duffie e Singleton (1994)12. L’elemento innovativo che accomuna
questi modelli consiste nell’ipotizzare che il valore delle attività della
società emittente segua un processo evolutivo “a salti13” anziché un
processo diffusivo Browniano. In questo modo si raggiunge
l’importante risultato che l’insolvenza si possa manifestare come
evento realmente inatteso dal momento che la stessa default
probability varia stocasticamente nel corso del tempo.

12 Importanti sono stati anche i contributi forniti da Duffie, Huang (1994), Jarrow et
al. (1994), Lando (1994) e Jarrow, Turnbull (1994).
13 Si tratta del cosiddetto jump process.

7
1.4: il calcolo della default probability secondo la Contingent
Claim Analysis

A questo punto si può osservare che in tutti i modelli basati


sulla contingent claim analysis il calcolo della probabilità di
insolvenza dipende dalle seguenti tre variabili rilevanti:
 il valore delle attività (value of asset): si tratta del valore di
mercato dell’attivo della società ossia del valore corrente di tutti i
flussi di cassa futuri prodotti dall’impresa, al lordo degli oneri
finanziari ed attualizzati secondo un tasso appropriato;
 il valore delle passività (liabilities): consiste in un valore
contabile rappresentativo dell’entità delle passività dell’azienda
calcolate in base al valore con cui sono iscritte in bilancio; in
pratica si tratta della somma che l’impresa è tenuta a rimborsare
ai propri creditori;
 il rischio dell’attività (asset risk): si traduce nella volatilità del
rendimento del valore di mercato delle attività e ne misura
pertanto il livello di incertezza.
Risulta semplice verificare come le variabili appena elencate
racchiudano effettivamente tutti gli elementi necessari per la
determinazione della probabilità di insolvenza di un’impresa. Vi si
ritrovano difatti: le prospettive di sviluppo tanto dell’azienda quanto
del settore economico a cui quest’ultima appartiene, incorporate
nell’asset value; il rischio finanziario espresso dal rapporto tra il
valore dell’attivo e quello del passivo; il grado di rischio del business
della società implicitamente considerato nell’asset risk.
La rilevanza delle tre variabili considerate può essere
apprezzata analizzando il seguente grafico (Figura 1) relativo alla
distribuzione del valore di mercato futuro dell’attivo e nel quale i
punti A e D rappresentano rispettivamente il valore di mercato
corrente delle attività e quello del debito.

8
Figura 1 - La distribuzione del valore di mercato dell'attivo e la probabilità d'insolvenza

Come è noto, l’insolvenza si verifica nel momento in cui il


valore dell’attivo diviene inferiore a quello del debito e la probabilità
che questo si verifichi, vale a dire la default probability, è data
dall’area evidenziata della coda sinistra della distribuzione sopra
riportata. È immediato concludere che tale area e (quindi la
probabilità ad essa associata) risulta tanto maggiore quanto maggiore
è l’entità del debito (D), quanto minore è la consistenza dell’attivo (A)
e quanto maggiore è la volatilità di rendimento del valore delle attività
(σA).
Delle tre variabili menzionate (A, D, σA) solamente una è nota: il
valore del debito che, come visto in precedenza, è stimabile sulla base
del valore contabile del passivo dell’impresa iscritto in bilancio. Per
quanto concerne invece le variabili rimanenti, cioè A e σA, si può
osservare che si tratta di due incognite la cui valutazione ha luogo,
nei modelli della contingent claim analysis, a partire da un assunto di
base abbastanza innovativo. L’intuizione consiste nell’assimilare il

9
payoff dell’azionista di una società a quello ottenibile da parte
dell’acquirente di un’opzione call di tipo europeo sul valore dell’attivo
della società stessa, con scadenza e prezzo di esercizio
rispettivamente pari alla scadenza ed al valore del debito dell’impresa.
In questo modo se l’attivo a scadenza è uguale o inferiore al debito
esistente, il payoff dell’azionista risulta essere nullo (analogamente a
quello del detentore di un’opzione) e la società di conseguenza viene
lasciata nelle mani dei suoi creditori. Nel caso invece in cui il valore
dell’attivo a scadenza sia superiore a quello del debito, il payoff degli
azionisti è positivo e più precisamente è pari alla differenza tra A e D
(così come il payoff di un’opzione risulta positivo e uguale alla
differenza tra il prezzo di mercato dell’attività sottostante e il prezzo di
esercizio dell’opzione stessa). In questo caso la società non viene più
lasciata nelle mani dei suoi creditori ma continua a rimanere di
proprietà degli azionisti.
Quanto ora detto può essere ancor più chiaramente compreso
facendo riferimento alla seguente rappresentazione grafica (Figura 2)
in cui la variabile E indica l’entità del capitale azionario della società
emittente mentre A e D conservano il medesimo significato visto in
precedenza.

Figura 2 - Valore dell'attivo e valore del capitale azionario [Fonte: Sironi, Marsella (1999)]

10
La retta inclinata a quarantacinque gradi esprime il valore del
capitale azionario alla data di scadenza del debito contratto dalla
società mentre l’altra linea indica il medesimo valore ma ad una data
antecedente.
Il fatto che in corrispondenza di identici livelli dell’attivo (A)
esista una differenza negativa tra il valore del capitale azionario alla
scadenza ed il valore ad un’epoca anteriore può essere facilmente
giustificata tenendo presente che, prima che le obbligazioni societarie
giungano al termine della propria vita economica, vi è ancora una
qualche possibilità che grazie ad appropriate decisioni strategiche
l’attivo possa essere soggetto a incrementi. Si comprende in questo
modo come mai, per valori delle attivo inferiori al debito esistente (D),
la misura del capitale azionario risulta essere positiva anziché nulla
(come accade quando si fa riferimento, invece, al momento della
scadenza delle obbligazioni). Tale incremento di valore del capitale
azionario deriva concretamente dal passaggio di una quota di
ricchezza dai debitori agli azionisti. Infatti, una società che cerchi di
incrementare il proprio attivo è portata ad adottare strategie
tendenzialmente più rischiose e questo determina inevitabilmente un
incremento della probabilità di insolvenza e conseguentemente una
riduzione del prezzo di mercato dei debiti della società a danno dei
creditori. Si può inoltre facilmente intuire come la differenza tra le
due misure del capitale azionario sia tanto maggiore quanto maggiore
è la volatilità del rendimento dell’attivo (σA).
Abbiamo quindi visto che il valore del capitale azionario può
essere paragonato a quello di un opzione call con le caratteristiche in
precedenza specificate. Ora, tenendo presente che il prezzo di
un’opzione è una funzione di cinque variabili (prezzo di esercizio,
valore di mercato dell’attività sottostante, tempo restante alla
scadenza, tasso d’interesse, volatilità dell’attività sottostante), si può

11
impostare la seguente relazione14:

E = f(D, A, σA, T, i)

in cui T e i esprimono rispettivamente la scadenza del debito e il


livello del tasso d’interesse privo di rischio per tale scadenza.
Possiamo a questo punto osservare che tra le sei variabili che
compaiono nella relazione appena esposta soltanto due sono
incognite: il valore di mercato delle attività (A) e la volatilità ad esse
relativa (σA). Le variabili rimanenti (E, D, T, i) sono infatti di
immediata definizione a patto che si abbia a disposizione il prezzo di
mercato delle azioni, indispensabile per la stima del valore del
capitale azionario (E) dell’impresa.
La determinazione delle due incognite richiede necessariamente
l’impostazione di una seconda relazione15 ovvero:

σE = g(D, A, σA, T, i)

Si tratta di una funzione che esprime il legame teorico esistente


tra la volatilità del valore di mercato del capitale azionario (a sua volta
rappresentabile mediante la volatilità σE del prezzo dell’azione) e la
volatilità dell’attivo dell’impresa. In essa, analogamente a quanto
accaduto con la prima relazione illustrata, compaiono solamente due
incognite (A, σA) mentre le altre variabili sono tutte note. Risolvendo il
sistema formato dalle equazioni esaminate (sistema di due equazioni
in due incognite) siamo quindi nelle condizioni di ricavare tanto la
volatilità del rendimento delle attività quanto il valore delle stesse16.
A questo punto, facendo nuovamente riferimento al primo
grafico presentato (Figura 1) si può notare che si hanno a

14 Come riportato nella formula (9) di pagina 164 di Sironi, Marsella (1999).
15 Come riportato nella formula (10) di pagina 164 di Sironi, Marsella (1999).
16 Per una derivazione analitica di quanto detto si veda l’Appendice

12
disposizione tutti gli elementi necessari per il calcolo della default
probability. Infatti D è dato fin dall’inizio mentre A e σA sono stati
ottenuti attraverso la risoluzione del sistema appena visto. Ecco
quindi che abbiamo dimostrato come nei modelli fondati sulla
contingent claim analysis sia possibile pervenire alla determinazione
della probabilità di insolvenza di una società partendo da alcuni dati
che possono essere facilmente reperiti sul mercato dei capitali.
L’eleganza formale e la convenienza di aver identificato fattori di
natura quantitativa rilevanti nella determinazione del tasso di
insolvenza di un’impresa non hanno comunque permesso a questo
tipo di approccio di trovare una grande applicazione pratica17. La
mancanza di lavori empirici è riconducibile principalmente a due
motivazioni. La prima è data dalle difficoltà che si incontrano
nell’individuazione della soglia oltre la quale una diminuzione del
valore di mercato delle attività implica inevitabilmente l’insolvenza. La
seconda ragione consiste invece nel fatto che la struttura finanziaria
di un’impresa non è semplicemente suddivisibile in capitale di rischio
e capitale di debito come è stato fatto nei modelli presi in
considerazione fino ad ora ma solitamente è articolata in maniera più
complessa18.
In ogni caso, un’interessante applicazione fondata sulla
contingent claim analysis che cerca di superare i limiti ora descritti è
quella adottata dalla KMV Corporation, una società statunitense
specializzata nel fornire stime relative alla probabilità di insolvenza di
società quotate e, più di recente, di società non quotate. Come
vedremo nel paragrafo successivo, l’obiettivo che questa società si è
prefissata rimane sempre lo stesso, e cioè la determinazione della

17 Una dimostrazione di questo scarso successo è data dalla relativa carenza di


lavori empirici che hanno tentato di determinare il rischio di credito di particolari
strumenti finanziari seguendo l’approccio in esame. Si consideri a tal proposito
l’analisi che è stata condotta da Jones et al. (1984) sui titoli obbligazionari
investment-grade.
18 A conferma di questa maggior complessità basti pensare al fatto che, in sede di

liquidazione, i debiti presentano solitamente diversi livelli di priorità.

13
default probability di un’impresa; ciò che cambia è il tipo di
procedimento adottato per conseguire tale risultato.

1.5: il procedimento per il calcolo della probabilità di insolvenza


nel modello Credit Monitor sviluppato dalla KMV

Possiamo in generale osservare che esistono tre informazioni


rilevanti nel processo di determinazione della default probability di
una società e più precisamente queste sono: i dati di carattere
finanziario, i prezzi di mercato delle azioni e dei debiti ed infine le
stime soggettive sui rischi e sulle prospettive future dell’impresa.
Tenendo presente che i dati finanziari riflettono ciò che è accaduto
nel passato mentre i prezzi di mercato sono il risultato delle
previsioni che gli investitori fanno circa il futuro della società19, si
può giungere alla conclusione che il procedimento per il calcolo della
probabilità di insolvenza deve essere necessariamente di tipo forward
and backward looking, ovvero deve essere un procedimento in grado
di conciliare i dati storici20 con quelli di mercato21.
L’aver incluso i prezzi di mercato di azioni e debiti tra gli
elementi essenziali per il calcolo della default probability non deve
però indurci a credere che i mercati siano pienamente efficienti22 ma
si vuole solamente sottolineare che ciò a cui si giunge facendo
riferimento ai dati forniti dal mercato rappresenta un risultato
soddisfacente, difficilmente superabile ricorrendo a sistemi

19 A tal proposito possiamo notare che, nel determinare i prezzi di mercato sia delle
azioni che dei debiti, gli investitori utilizzano le stime personali sulle prospettive e
sui rischi dell’impresa nonché i dati finanziari e gli altri prezzi di mercato
disponibili. L’unione tra queste informazioni e la propria capacità di analisi e sintesi
si traduce nella propensione ad acquistare oppure vendere le azioni e i debiti della
società. La formazione dei prezzi di mercato deriva, come a questo punto si può
facilmente capire, dalla combinazione delle volontà di acquisto e di vendita di
numerosi investitori.
20 Backward looking.
21 Forward looking.
22 Ricordiamo che per mercati efficienti si intendono quei mercati nei quali i prezzi

riflettono tutte le informazioni rilevanti.

14
alternativi. Per questa ragione è opportuno che i prezzi, ogniqualvolta
siano disponibili, vengano impiegati nella determinazione del rischio
di fallimento di un’impresa.
In perfetta coerenza con quanto è stato sin qui detto, il modello
Credit Monitor determina il tasso di insolvenza (EDF)di una società
quotata su un mercato regolamentato facendo riferimento sia ai dati
di carattere finanziario sia ai prezzi delle azioni.
Più precisamente, possiamo osservare che il procedimento che
porta all’expected default frequency di un’impresa si articola nelle
seguenti tre fasi23:
I. stima dell’asset value (A) e della asset volatility (σA);
II. calcolo della distance to default (DD);
III. determinazione della default probabilty (EDF).
Cerchiamo a questo punto di esaminare ciascuna di esse in modo più
approfondito.

1.5.1: stima dell’asset value e dell’asset volatility

La probabilità che un’impresa possa attraversare il default


point24 è funzione di due elementi25: il livello delle attività (A) e la
volatilità del loro rendimento (σA).
Tali valori vengono determinati utilizzando un approccio basato
sul pricing delle opzioni del tutto analogo a quello che è stato
illustrato nel paragrafo 1.4. Le azioni vengono cioè assimilate ad una
call scritta sul valore delle attività aziendali sottostanti, con prezzo di
esercizio uguale all’importo nominale del debito. In questo modo è
possibile esprimere il valore della componente azionaria in funzione

23 Cfr. Crosbie (1997).


24 Il default point (o punto di insolvenza) esprime il valore dell’attivo in
corrispondenza del quale ha luogo il fallimento della società; esso viene in modo
approssimativo calcolato somma tra le passività a breve termine più la metà di
quelle a media-lunga scadenza.
25 In realtà occorrerebbe tenere in considerazione anche il rendimento medio delle

attività.

15
dell’attivo e della sua volatilità. Analogamente è possibile definire
anche il legame esistente tra la volatilità delle azioni (σE) e la volatilità
del rendimento delle attività. Quanto detto si traduce nel seguente
sistema di due equazioni in due incognite che abbiamo già avuto
occasione di introdurre in precedenza:

E = f(A,D,σA,T,i)
σE = g(A,D,σA,T,i)

A questo punto possiamo osservare che se la volatilità delle


azioni è, al pari del loro prezzo, direttamente osservabile, allora le
equazioni possono essere risolte simultaneamente permettendo così
di determinare tanto σA quanto A. Tuttavia si verifica spesso che, a
causa della sua notevole sensibilità rispetto alle variazioni dell’attivo,
la volatilità (istantanea) delle azioni sia relativamente instabile26 e che
non vi sia quindi un modo semplice per poterla misurare a partire dai
dati disponibili sul mercato. In situazioni di questo genere il modello
Credit Monitor prevede allora l’impiego di un processo iterativo27 che,
attraverso un limitato numero di passaggi, consente di individuare il
valore di σE28.
Una volta che sono stati determinati il livello dell’attivo e la
volatilità del suo rendimento, è poi possibile scoprire il margine di
sicurezza che divide un’impresa dalla sua soglia di fallimento, ovvero
la distance to default (DD).

1.5.2: calcolo della distance to default

Come bene è evidenziato nel grafico che segue (Figura 3), le

26 Accade cioè che la relazione esistente tra la volatilità dell’attivo e la volatilità delle
azioni, ovvero l’equazione (2) dell’Appendice, valga solamente all’istante.
27 Di tale processo non viene però fornita alcune documentazione specifica.
28 Per un approfondimento circa tale processo iterativo si vedano Crosbie (1997) e

Crouhy, Galai e al. (2000).

16
variabili utili alla determinazione della probabilità di insolvenza di
una società (EDF), per un dato orizzonte temporale (H), sono29:
1. il valore corrente delle attività;
2. la distribuzione del valore delle attività in un momento
futuro corrispondente all’intervallo di tempo preso in
considerazione (H);
3. la volatilità futura dell’attivo sull’orizzonte temporale H;
4. il livello del default point e, quindi, il valore delle passività
iscritte a bilancio;
5. il tasso atteso di crescita delle attività sull’orizzonte H;
6. la distanza dell’orizzonte H.

Figura 3 - Le variabili rilevanti all'interno del Credit Monitor [Fonte: Crosbie (1997)]

29 Cfr. Crosbie (1997).

17
Tra le variabili sopra elencate si instaura una relazione di
causa-effetto30 estremamente utile dal momento che consente agli
analisti che si servono del modello di avere a propria disposizione uno
strumento efficace per valutare quale potrebbe essere l’impatto
provocato sulla società da eventi particolari quali le operazioni di
fusione, quelle di acquisizione, improvvisi e forti ribassi nel prezzo di
mercato delle azioni…
Tenendo presente che l’orizzonte temporale (H) viene fissato
dagli analisti e che il tasso atteso di crescita dell’attivo per il
medesimo orizzonte esercita sulla default probability un’influenza di
fatto trascurabile, si può concludere che le variabili realmente
critiche nella determinazione del tasso di insolvenza di una data
impresa sono le rimanenti quattro. A tal proposito è immediato
verificare che maggiore è il valore delle attività rispetto all’importo dei
debiti in essere, minore è la probabilità di fallimento a cui la società è
esposta31. Analogamente, minore è la volatilità dell’attivo nel corso del
periodo di tempo preso in considerazione, minore è il tasso di default
associato all’impresa.
A questo punto possiamo osservare che, se la distribuzione
futura del valore delle attività fosse nota, allora l’expected default
frequency dell’impresa sarebbe semplicemente uguale alla probabilità
che l’importo finale dell’attivo sia inferiore al default point (sarebbe
cioè uguale all’area ombreggiata di Figura 3). In realtà la
distribuzione all’istante H non è di semplice individuazione né
sembra appropriato il ricorso all’assunzione di normalità o log-
normalità, come invece avveniva con Merton. Queste difficoltà hanno
allora indotto la KMV a privilegiare una distribuzione di tipo empirico.

30 Per una spiegazione più dettagliata su tale relazione causa-effetto si rinvia a


McQuown (1993).
31 Più precisamente possiamo osservare che se l’impresa prende a prestito poco

rispetto al valore di mercato delle proprie azioni, allora i debiti contratti sono
fondamentalmente “sicuri”. Nel caso, invece, in cui la società si gravi
considerevolmente in termini di valore di mercato, allora la probabilità di insolvenza
cresce in maniera sensibile.

18
Più precisamente la società statunitense, prima del calcolo del tasso
di insolvenza, ha introdotto nel proprio modello una fase intermedia
nella quale viene determinata la cosiddetta distance to default (DD).
Questa rappresenta un indicatore del rischio di credito che si basa
sulla distanza, espressa in numero di deviazioni standard, del valore
di mercato delle attività dal default point.
Ad esempio, un valore di DD pari a 4 indica che la distanza dal
punto di insolvenza è uguale a quattro volte la deviazione standard
dell’attivo. Occorre quindi che il valore di mercato delle attività si
riduca di almeno quattro volte la propria volatilità affinché si verifichi
il fallimento dell’impresa in esame.
In termini analitici la distance to default viene pertanto
calcolata come segue:

A − Dp
DD =
A ⋅ σA

ovvero, tenendo presente che:

A – Dp = MNW

dove MNW indica il market net worth, si ottiene:

MNW
DD =
A ⋅ σA

Se, per ipotesi, facciamo riferimento ad una società con asset


value, asset volatility e default point rispettivamente pari a 10
miliardi, 15% e 4 miliardi, allora la distanza dall’insolvenza sarà
uguale a:

10 − 4
DD = =4
10 ⋅ 15%

19
È opportuno ora effettuare alcune importanti osservazioni
riguardo a questa nuova grandezza.
In primo luogo, sulla base della formula appena presentata, è
immediato concludere che la distance to default di una società è
tanto maggiore quanto minore è la volatilità del rendimento delle
attività e quanto maggiore è la differenza tra asset value e default
point.
In secondo luogo è necessario sottolineare l’importanza di aver
diviso il market net worth (MNW) per la volatilità (delle variazioni)
dell’attivo (σAA). Il valore netto di mercato, da solo, non costituisce
infatti un valido indicatore del rischio di insolvenza in quanto non
tiene conto degli effetti (in termini di rischiosità) legati ad elementi
quali la dimensione, il settore di appartenenza e la localizzazione
geografica dell’impresa, che invece bene si riflettono nella volatilità
delle attività32. In particolare, grazie a quest’ultima, siamo nelle
condizioni di porre sullo stesso piano le società rischiose e quelle
stabili33. Si può cioè avere una situazione in cui un’impresa, pur
essendo caratterizzata da un market net worth inferiore a quello di
un’altra impresa34, presenti comunque, rispetto a quest’ultima, una
probabilità di insolvenza uguale o addirittura più bassa e questo a
causa della sua maggior dimensione oppure della maggior solidità
del settore economico o del territorio a cui appartiene cioè, in una
parola sola, a causa della sua stabilità superiore.
La distanza dall’insolvenza si configura pertanto come una

32 Ricordiamo che σA indica la deviazione standard della variazione percentuale


annua del valore delle attività aziendali. Se, ad esempio, una società presenta
volatilità annua pari al 15%, allora ci si deve aspettare che il suo attivo aumenti
oppure diminuisca, nel corso dell’anno, in misura non superiore al 15% del suo
valore iniziale.
33 Dove la stabilità e la rischiosità vengono direttamente definite in base alla

volatilità dell’attivo. Più precisamente si può notare che le società stabili presentano
una volatilità bassa mentre le società rischiose, al contrario, sono caratterizzate da
una volatilità elevata.
34 Il che ci indurrebbe a credere che la sua probabilità di fallimento sia maggiore

rispetto a quella dell’altra società.

20
misura universale del rischio di default in grado di rendere omogenee,
e quindi confrontabili tra loro, società con caratteristiche anche molto
differenti (che possono appartenere a paesi diversi) senza che ciò crei
il benché minimo problema.
La distance to default costituisce l’input indispensabile per la
terza ed ultima fase del modello Credit Monitor: il calcolo della
probabilità di fallimento (EDF), cui è dedicato il paragrafo seguente.

1.5.3: determinazione dell’expected default frequency

La fase oggetto di analisi è senza dubbio quella in cui emerge in


modo più evidente il carattere empirico del Credit Monitor.
La stima della probabilità di insolvenza è infatti basata sulla
cosiddetta “tabella di frequenza”, qui di seguito riportata in una sua
versione semplificata (Figura 4).

9.000 società 15.000 società 30.000 società


720 fallimenti 450 fallimenti 200 fallimenti
EDF = 800 bp EDF = 300 bp EDF = 100 bp

DD = 1 DD = 2 DD = 3

35.000 società 40.000 società 42.000 società


150 fallimenti 20 fallimenti 17 fallimenti
EDF = 43 bp EDF = 7 bp EDF = 4 bp

DD = 4 DD = 5 DD = 6

Figura 4 - Tabella di frequenza [Fonte: Estrella (2000)]

Si tratta di una tabella dalla quale è possibile ricavare la


relazione esistente tra l’expected default frequency e i differenti livelli

21
di distance to default e che è stata ottenuta attraverso un’indagine di
tipo empirico. Più precisamente la KMV, sulla base della storia
relativa ad un ampio campione di imprese35 comprensivo di numerosi
casi di fallimento, è stata in grado di determinare, in corrispondenza
di ciascun orizzonte temporale, la proporzione di società insolventi
per ogni livello di DD.
A questo punto si può facilmente comprendere che per
determinare la probabilità di fallimento relativa ad una data società
(di cui si conosce la distance to default) non si dovrà far altro che
individuare nella tabella di frequenza il valore dell’expected default
frequency associato alle imprese aventi, per lo stesso orizzonte
temporale, la medesima distanza dall’insolvenza della società presa in
considerazione.
Se, ad esempio, riprendiamo il caso numerico visto al paragrafo
precedente ed ipotizziamo che, su 5.000 imprese aventi tutte la
stessa distance to default (cioè DD = 4), si sia registrato il fallimento
entro l’anno solamente di 20 di esse, allora si può concludere che il
tasso di insolvenza ricercato sarà pari a:

EDF = (20/5.000) = 0.004 = 0.4% = 40 bp

come emerge chiaramente anche dal grafico seguente (Figura 5).

35 Il campione in questione comprende più di 100.000 società quotate sul mercato


statunitense (di cui all’incirca 3.400 fallite) che sono state monitorate a partire dal
1973. Ultimamente esso è stato ulteriormente arricchito grazie all’aggiunta di
società appartenenti a continenti diversi da quello americano nel tentativo di
rendere il database il più universale possibile.

22
Punti 180
Base
160

140

120

100

80

60

40

20

0
0 1 2 3 4 5 6 7 8
DD

Figura 5 - Rappresentazione grafica della tabella di frequenza con riferimento ad uno specifico
esempio numerico

Procedendo in questo modo36, il modello Credit Monitor è


quindi in grado di fornire, per ogni impresa quotata, una default
probability definita sulla base di parametri individuali, a differenza di
quanto invece accade riconducendo l’impresa ad una data classe di
rating.
È ora necessario sottolineare che la relazione tra distance to
default e tasso di insolvenza, sintetizzata nella tabella di frequenza,
mantiene la propria validità indipendentemente dal tipo di società che
si considera, dalla sua dimensione o dall’epoca presa in esame. Ciò
dipende dal fatto che, come è stato evidenziato in precedenza37, le
differenze in termini di probabilità di fallimento prodotte da tutte
queste variabili sono già state incorporate in modo adeguato nei
valori di DD.
Si può inoltre aggiungere che gli studi fino ad ora condotti38
hanno mostrano come la relazione in questione possa essere

36 Vale a dire stimando la probabilità di insolvenza non in base all’ipotesi di


normalità della distribuzione dei rendimenti dell’attivo della società, ma
analizzando su base storica la percentuale di imprese fallite in funzione dei livelli di
distanza dall’insolvenza.
37 Cfr. paragrafo 2.2.2.
38 Si faccia riferimento ad esempio a Sellers et al. (2000).

23
impiegata (al limite con alcuni correttivi) anche all’interno di stati
diversi dagli USA a cui, come sappiamo, si riferisce il campione di
società sulla quale la KMV ha basato il proprio studio. Una diretta
conferma di quanto appena detto ci viene fornita dai successi
conseguiti dal Credit Monitor in Europa (specialmente in Inghilterra)
ma soprattutto ci viene data dall’esperienza maturata in Asia.
Facciamo riferimento in particolar modo alla crisi che colpì diversi
paesi asiatici39 alla fine degli anni novanta e che la KMV, grazie al
proprio prodotto, era stata in grado di prevedere con largo anticipo
sugli altri istituti specializzati nella stima dei tassi di insolvenza.
Emblematico è stato, in proposito, il caso della Corea del Sud40 nei
confronti della quale il deterioramento della qualità creditizia venne
registrato dalla KMV già a partire dal 1994, mentre si dovettero
attendere ancora tre anni perché vi fossero analoghe rilevazioni da
parte delle agenzie di rating41. Altrettanto significativo è stato poi il
caso della Thailandia dove l’EDF mediana, relativa ai principali
istituti finanziari e stimata attraverso il Credit Monitor, passò dallo
0.35% nel gennaio del 1996 al 13,11% nello stesso mese del 1998,
costituendo un evidente segnale della crisi che stava per
sopraggiungere42.
La validità del legame esistente tra expected default frequency e
distance to default, anche in paesi diversi dagli Stati Uniti, è una
conseguenza del fatto che la probabilità di fallimento a cui la KMV
giunge costituisce un indicatore esclusivamente economico del
rischio di default. Vengono cioè trascurati aspetti quali la tutela
garantita all’attività produttiva oppure gli aiuti statali, considerando i
quali la tabella di frequenza costruita negli USA, e quindi il database

39 Tra cui ricordiamo Indonesia, Corea del Sud, Thailandia, Singapore e Hong Kong.
40 Per un approfondimento si veda Smith (1999).
41 Più precisamente, la prima segnalazione in tal senso da parte delle agenzie di

rating fu quella fornita da Standard & Poor’s nel novembre del 1997, dopo che la
Corea del Sud si era rivolta al Fondo Monetario Internazionale per chiederne
l’intervento.
42 Cfr. Weiinberg (1998) ed Euromoney Magazine (1998).

24
sottostante, non potrebbero essere impiegati in nessun altro luogo.
Ad esempio è possibile che, come è stato fatto notare da Crosbie43,
mentre in Europa o in Asia una data società sia salvata
dall’insolvenza grazie ad un intervento del governo, negli Stati Uniti la
stessa sia invece lasciata fallire. Tuttavia è necessario tenere presente
che tali interventi non sono esenti da costi, che gravano o sul
contribuente oppure su altri soggetti44. Quanto detto porta a
concludere che la soluzione ottimale consista nell’elaborare un
modello per il rischio di default in cui vengano prese in
considerazione solo ed esclusivamente le variabili di carattere
economico, lasciando poi agli analisti il compito di procedere
all’integrazione di tutti quei fattori, estranei alla sfera economica, che
risultino rilevanti nella realtà dei singoli paesi in cui il modello stesso
viene applicato.
Qualora si volesse effettuare un confronto tra i risultati del
Credit Monitor e quelli delle principali agenzie di rating, è bene
ricordare che, tra l’expected default frequency e le tradizionali classi
di rating, esiste la seguente corrispondenza45 (Tabella 1):

EDF S&P Moody's

2-4 bps AA Aa2


4-10 bps AA/A A1
10-19 bps A/BBB+ Baa1
19-40 bps BBB+/BBB- Baa3
40-72 bps BBB-/BB Ba1
72-101bps BB/BB- Ba3
101- 143 bps BB-/B+ B1
143-202 bps B+/B B2
202-345 bps B/B- B2

Tabella 1 - Corrispondenza tra Expected Default Frequency e classi di rating [Fonte: Bellucci et
al. (1997)]

43 Si veda Euromoney Magazine (1998).


44 Nel caso di alcune imprese asiatiche, infatti, questi costi vengono sopportati
spesso dagli azionisti di società collegate a quelle che si trovano in difficoltà.
45 Tratta da Szego e Varetto (1999).

25
Dalla probabilità di default, ricavata attraverso l’approccio della
KMV, è poi immediato passare al calcolo della perdita attesa sofferta
dal creditore (l’expected loss). Quest’ultima è, infatti, ottenibile
semplicemente come differenza tra due termini. Il primo è dato dal
prodotto tra il tasso di insolvenza della società (cioè l’EDF) ed il valore
nominale del debito46 da essa contratto. Il secondo termine è invece
rappresentato dalla quota47 del capitale prestato che il creditore si
aspetta comunque di recuperare in caso di fallimento dell’impresa
destinataria del finanziamento.
Alla luce di quanto abbiamo detto nei paragrafi precedenti,
possiamo concludere che il processo per la determinazione della
default probability, basato sul Credit Monitor, può essere
schematizzato nel modo seguente (Figura 6).

Mkt Asset Value

Default Point DD

Asset volatility
EDF

Relazione
DD/EDF

Figura 6 - Schema per il calcolo della EDF

Un esempio numerico48 potrà aiutarci ulteriormente a


comprendere il funzionamento pratico della procedura di calcolo ora
descritta. Facciamo riferimento in particolare al caso della società

46 Questo primo termine equivarrebbe all’expected loss qualora il fallimento


significasse la perdita dell’intero capitale.
47 Il cosiddetto recovery rate.
48 Si tratta dello stesso esempio proposto a pag 13 di Crosbie (1997) e a pag 117 di

Estrella (2000).

26
americana Chrysler Motors nei confronti della quale l’applicazione del
modello49 della KMV ha portato ai risultati sintetizzati nella tabella
qui di seguito riportata (Tabella 2).

Variabile Valore Modalità di calcolo


Valore di mercato delle azioni $ 22,572 bn (Prezzo unitario az.)x(N° azioni)
Debiti iscritti a bilancio $ 49,056 bn Bilancio di esercizio
Valore di mercato dell'attivo $ 71,994 bn Option-pricing model
Volatilità dell'attivo 10% Option-pricing model
Default point $ 36,993 bn (Debiti a breve)+(Debiti a medio lungo)
Distance to default 4,8 Applicazione della formula sulla DD

Individuazione sulla tabella di frequenza


dell'EDF associata alle imprese aventi lo
EDF (ad un anno) 21 bp stesso valore di DD

Tabella 2 - Applicazione del CM alla società Chrysler Motors [Fonte: Crosbie (1997)]

1.6: applicazione del procedimento di Black e Scholes al modello


della KMV

Invece di essere di tipo empirico, la fase conclusiva del modello


Credit Monitor può avere carattere matematico-finanziario. Questo si
verifica se, anziché calcolare la probabilità di insolvenza facendo
riferimento ad un campione di società, la si determina applicando il
procedimento di Black e Scholes e quindi partendo da un’ipotesi di
normalità della distribuzione dei valori dell’attivo societario.
Cerchiamo ora di tradurre in termini analitici quanto abbiamo
appena detto.
Innanzitutto, ricordando che la default probability di
un’impresa viene definita dalla KMV come la probabilità che il valore
di mercato delle attività scenda al di sotto del default point, si ha che:

49 Avvenuta nel gennaio del 1998.

27
Pt = Pr[A t ≤ Dp t A 0 = A ] = Pr[ln A t ≤ ln Dp t A 0 = A ] (1)

dove Pt è la probabilità di default al tempo “t” (compreso tra 1 e 5


anni), mentre At e Dpt rappresentano rispettivamente il valore di
mercato dell’attivo della società ed il suo punto di insolvenza,
entrambi riferiti all’istante “t”.
Sapendo, inoltre, che l’evoluzione dell’asset value nel corso del
tempo segue, per effetto del modello di Black e Scholes, la legge50:

dA = µAdt + σ A Adz

possiamo allora concludere che il valore dall’attivo in “t” (sotto


l’ipotesi che il suo valore in zero sia pari ad A) è uguale a:

 σ2 
ln A t = ln A +  µ − A t + σ A tε (2)
 2 

in cui µ e ε indicano rispettivamente il guadagno atteso delle attività


dell’impresa ed una componente aleatoria sul guadagno medesimo.
Giunti a questo punto, combinando la (1) e la (2), siamo in
grado di esprimere la probabilità di default nel seguente modo:

  σ 2A  

Pt = Pr  ln A +  µ − t + σ A t ε ≤ ln Dp t  (3)
  2  

ovvero, dopo aver effettuato alcuni semplici passaggi:

50 Cfr. Appendice.

28
 A  σ 2A  
 ln 
+ µ −  t 
 Dp t  2 
Pt = Pr − ≤ ε (4)
 σA t 
 
 

Assumendo ora che la componente aleatoria (ε) sia


normalmente distribuita51, possiamo allora definire la default
probability in termini di distribuzione Normale cumulativa, cioè:

 A  σ 2A  
 ln + µ − t 
 Dp t  2  
Pt = N − (5)
 σA t 
 
 

Tenendo presente che la distance to default indica quanto una


società è lontana dal fallimento (in numero di deviazioni standard), si
può allora affermare che nel procedimento di Black e Scholes essa è
pari a:

A  σ 2A 
ln 
+ µ− t
Dp t  2 
DD = (6)
σA t

Si osserva infatti che, se il valore delle attività è quello definito dalla


(2), allora la differenza tra esso ed il default point (vale a dire il
market net worth) è esattamente pari al numeratore della formula
appena presentata. Considerando poi che il denominatore della
stessa è costituito dalla volatilità dell’attivo, possiamo concludere che
la (6) riproduce effettivamente la formula classica della DD52.
Dalla combinazione delle due ultime relazioni si ricava quindi
che:

51 Cioè che ε ~ N(0,1).


52 Si veda paragrafo 2.2.2.

29
EDF = N(-DD) (7)

Sotto l’ipotesi di neutralità verso il rischio53, il guadagno atteso


dell’attivo (µ) è uguale, per qualsiasi orizzonte temporale, al tasso
d’interesse privo di rischio (r). Quindi la (5) diviene:

 A  σ 2A  
 ln + 
 r −  t 
Dp  2  
Pt = N  − t
(8)
 σA t 
 
 

Se, da un lato, l’applicazione del modello di Black e Scholes


all’interno del Credit Monitor offre il notevole vantaggio di consentire
il calcolo della probabilità di insolvenza sulla base di un sistema
prettamente matematico-finanziario (senza cioè alcun riferimento a
serie empiriche di dati), dall’altro lato esso presenta però diversi
limiti.
Innanzitutto la distance to default, come emerge dalla (6),
prende in esame solo ed esclusivamente gli incrementi dell’attivo
 σ 2A 

generati dal tasso  µ −  , trascurando in questo modo le uscite di
 2 
cassa legate a dividendi, interessi…
Un altro limite di questo approccio è poi rappresentato dal
carattere certamente approssimativo insito nella distribuzione
Normale che è stata adottata. In particolare si può, a tal proposito,
osservare che la distribuzione di tipo empirico presa come riferimento
dalla KMV presenta code molto più ampie rispetto a quelle della

53Ipotesi che si rivela di grande interesse poiché è da questa che si partirà quando,
nel capitolo successivo, si tratterà di applicare concretamente ad una società il
modello Credit Monitor.

30
Normale54.
Risulta, infine, ulteriormente limitativo ricorrere alla formula
europea, vale a dire assumere che il fallimento dell’impresa si possa
verificare solamente alla scadenza dell’orizzonte temporale preso in
considerazione e non anche ad un istante precedente.

54Ad esempio, se consideriamo il caso di una società con distanza dall’insolvenza


pari a 4, si scopre che la probabilità di default in base alla distribuzione empirica
della KMV è pari a circa lo 0.45% (cioè 45bp), mentre in base alla distribuzione
Normale essa è uguale a zero.

31
Appendice

Abbiamo visto che, in base all’approccio della contingent claim


analysis, assimilando l’azione dell’impresa ad un’opzione call sulle
sue attività, è possibile determinare il valore di mercato (A) e la
volatilità dell’attivo societario (σA). Più precisamente si tratta di
ricavare, con un procedimento inverso rispetto a quello ordinario,
l’asset value e l’asset volatility a partire dalle equazioni relative al
prezzo ed alla volatilità delle opzioni. Presentiamo ora in termini
analitici quanto appena detto.
Innanzitutto si deve partire con l’osservare che l’utilizzo del
modello di Black e Scholes (BS) con riferimento al valore di mercato
delle attività d’impresa55 porta a concludere che quest’ultimo varia
nel tempo in base al seguente processo stocastico:

dA = µAdt + σAAdz

dove dA e µ rappresentano rispettivamente la variazione del valore


dell’attivo ed il tasso di crescita atteso istantaneo di quest’ultimo; dz,
invece, è una variabile aleatoria che un particolare processo
markoviano56.
Ipotizziamo a questo punto che esistano due sole tipologie di
passività e cioè un’unica categoria di debiti ed un’unica categoria di
azioni. Se indichiamo con D il valore iscritto a bilancio dei debiti
rimborsabili al tempo T, allora tra il valore di mercato delle azioni e
quello dell’attivo possiamo individuare questa relazione:

E = AN(d1) − e − rT DN(d2) (1)

in cui E ed r indicano il capitale azionario della società ed il tasso


55
Anziché al prezzo di mercato di un’azione come avviene nella sua elaborazione originaria.
56
Z ∼ N(0, σ√t).

32
d’interesse privo di rischio mentre:

A  σ2 
ln  +  r + A  T
D  2 
d1 = e
σA T

A  σ2 
ln  +  r − A  T
D  2 
d2 = d1 - σ A T =
σA T

in base al lemma di Ito si può poi osservare che, tra la volatilità


delle azioni e quella delle attività, deve essere soddisfatta la seguente
equazione:

A
σE = N(d1)σ A (2)
E

A questo punto risolvendo il sistema in due incognite formato


dalla (1) e dalla (2), siamo in grado di ricavare il valore corrente delle
attività e la volatilità del loro rendimento.
Ad esempio, considerando una società con capitalizzazione di
mercato pari a 3 mld, volatilità delle azioni del 40% annuo e debito
complessivo di 10 mld, l’asset value e l’asset volatility si ottengono
dalla risoluzione del sistema:

3 = AN(d1) − e − rT ⋅ 10 ⋅ N(d2)
A
0.4 = N(d1)σ A
3

che porta al seguente risultato: A = 12.511 mld e σA = 9.6%.

33

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