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1 Rossi (1986).
2
anche alla disponibilità di alcuni indicatori di facile consultazione2,
rappresenta tra quelli illustrati il più semplice da impiegare ed è
proprio questa sua maggior facilità di utilizzo che ne ha consentito un
consolidamento sempre maggiore a tal punto che oggi il termine
insolvenza viene adoperato come sinonimo di inadempienza.
Una volta precisato che cosa si intende quando si parla di
insolvenza, si può però facilmente constatare l’impossibilità di
stabilire a priori3 se una data società sarà o meno inadempiente ad
una certa data futura dal momento che non si può sapere
anticipatamente se essa sarà in grado di far fronte ai propri debiti. Al
limite si possono effettuare delle stime sulla probabilità di insolvenza
(default probability) per effetto delle quali verrà decisa da parte di chi
concede il credito l’applicazione all’impresa finanziata di differenziali
aggiuntivi al tasso d’interesse normalmente praticato. Tali
differenziali evidentemente saranno tanto maggiori quanto maggiore è
la rischiosità associata all’operazione percepita da parte dei creditori.
A questo punto possiamo osservare che quattro fattori
principali entrano in gioco quando ci si occupa del rischio di credito.
Questi sono4:
default probability: esprime la probabilità che un debitore non
riesca a rimborsare regolarmente le proprie obbligazioni;
loss given default: misura la perdita subita dal creditore per
effetto del fallimento dell’impresa finanziata; non è determinabile
con precisione ma può essere stimata in modo ragionevolmente
accurato se si conosce dettagliatamente la struttura del contratto
in essere;
migration risk: rappresenta il “rischio di migrazione” tra classi
di rating distinte a cui il debitore è soggetto anno dopo anno; in
altri termini si tratta della probabilità che una società ha di
Rischi.
3 Prima cioè che si verifichi il fallimento.
4 Crosbie (1997).
3
rimanere nella stessa classe di rating in cui si trova oppure di
passare ad una diversa categoria (migliore o peggiore). Tali
probabilità vengono normalmente stimate attraverso la cosiddetta
matrice di transizione5;
exposure: indica l’ammontare prestato, dunque esposto al
rischio di fallimento del debitore.
Tra questi elementi il più importante ma, al tempo stesso,
anche il più difficile da determinare, è sicuramente la default
probability. A tal proposito si può notare come, contestualmente
all’affermazione del concetto di insolvenza finanziaria, si siano
sviluppati e diffusi svariati modelli accomunati dall’obiettivo di
determinare la probabilità di fallimento associata a ciascuna società
presa in esame. Tra essi, particolarmente significativi sono quegli
approcci che, sfruttando le informazioni implicite nei prezzi di azioni
e di obbligazioni emesse dalle imprese nel mercato dei capitali,
mirano ad ottenere informazioni sul tasso di insolvenza delle imprese
medesime.
4
Tre sono le principali tipologie che rientrano nell’ambito dei
modelli per il calcolo dei tassi d’insolvenza basati sui dati disponibili
nel mercato dei capitali.
La prima comprende tutti gli studi7 che, partendo dalla
struttura a termine degli spread di rendimento tra titoli
obbligazionari rischiosi e titoli risk-free, ricavano le aspettative di
mercato relative al tasso di perdita connesso all’investimento in titoli
rischiosi o, in alternativa, ricavano la default probability
dell’emittente. L’idea di base è estremamente semplice e intuitiva: il
maggior rendimento che il mercato richiede ai titoli obbligazionari
rischiosi, rispetto al rendimento dei titoli risk-free con scadenza
equivalente, riflette in modo adeguato le aspettative che gli operatori
hanno circa la probabilità di insolvenza dell’impresa emittente8.
La seconda tipologia comprende tutti gli approcci9 che, a partire
dai dati relativi ai tassi di insolvenza storicamente registrati dagli
emittenti dei titoli obbligazionari, ottengono informazioni circa la
default probability per società appartenenti alle diverse classi di
rating. In altre parole questi approcci determinano il tasso di
insolvenza di un’impresa sulla base di due informazioni e cioè la
classe di rating in cui si colloca l’impresa considerata e la probabilità
di fallimento storicamente registrata per le società della medesima
categoria di rating.
Vi è infine un terzo tipo di studi nel quale si fanno rientrare
tutti quei modelli che, partendo dalle informazioni relative al prezzo
ed alla volatilità dei titoli azionari e applicando la teoria del valore
delle opzioni, ricavano la probabilità di insolvenza dell’impresa
emittente. Cerchiamo ora di esaminare in modo più approfondito
proprio quest’ultima tipologia di studi.
5
1.3: l’approccio fondato sulla teoria del valore delle opzioni
10 {( ) }
Ovvero VT = V T = V0 exp µ − σ 2 / 2 t + σ t Z t .
11 Si vedano a riguardo Sironi, Marsella (1999) e Duffie (1996).
6
prevedibile in relazione all’orizzonte temporale prescelto, in quanto è
prevedibile la distribuzione futura dei possibili valori delle attività
societarie.
Proprio l’esistenza di detti limiti costituisce la ragione
fondamentale che ha portato alle successive generalizzazioni del
modello di Merton. Tra queste si deve innanzitutto ricordare lo studio
effettuato da Black e Cox (1976) la cui importanza è principalmente
legata al fatto che esso ammette che l’insolvenza si possa verificare
anche prima della scadenza del titolo obbligazionario. Ciò è possibile
in due modi: considerando passività con cedole al posto degli zero
coupon bond oppure fissando arbitrariamente una soglia del valore
dell’attivo al di sotto della quale, indipendentemente dai flussi di
cassa dovuti dall’emittente, quest’ultimo fallisce. Analogamente a
quanto avveniva con Merton anche in questa prima generalizzazione
si ipotizza però che il valore dell’attivo segua un processo diffusivo
geometrico Browniano.
Il superamento di questo secondo assunto è stato possibile
solamente grazie ad ulteriori affinamenti della teoria di Merton tra i
quali è opportuno ricordare quelli sviluppati da Madan e Unal (1994)
e da Duffie e Singleton (1994)12. L’elemento innovativo che accomuna
questi modelli consiste nell’ipotizzare che il valore delle attività della
società emittente segua un processo evolutivo “a salti13” anziché un
processo diffusivo Browniano. In questo modo si raggiunge
l’importante risultato che l’insolvenza si possa manifestare come
evento realmente inatteso dal momento che la stessa default
probability varia stocasticamente nel corso del tempo.
12 Importanti sono stati anche i contributi forniti da Duffie, Huang (1994), Jarrow et
al. (1994), Lando (1994) e Jarrow, Turnbull (1994).
13 Si tratta del cosiddetto jump process.
7
1.4: il calcolo della default probability secondo la Contingent
Claim Analysis
8
Figura 1 - La distribuzione del valore di mercato dell'attivo e la probabilità d'insolvenza
9
payoff dell’azionista di una società a quello ottenibile da parte
dell’acquirente di un’opzione call di tipo europeo sul valore dell’attivo
della società stessa, con scadenza e prezzo di esercizio
rispettivamente pari alla scadenza ed al valore del debito dell’impresa.
In questo modo se l’attivo a scadenza è uguale o inferiore al debito
esistente, il payoff dell’azionista risulta essere nullo (analogamente a
quello del detentore di un’opzione) e la società di conseguenza viene
lasciata nelle mani dei suoi creditori. Nel caso invece in cui il valore
dell’attivo a scadenza sia superiore a quello del debito, il payoff degli
azionisti è positivo e più precisamente è pari alla differenza tra A e D
(così come il payoff di un’opzione risulta positivo e uguale alla
differenza tra il prezzo di mercato dell’attività sottostante e il prezzo di
esercizio dell’opzione stessa). In questo caso la società non viene più
lasciata nelle mani dei suoi creditori ma continua a rimanere di
proprietà degli azionisti.
Quanto ora detto può essere ancor più chiaramente compreso
facendo riferimento alla seguente rappresentazione grafica (Figura 2)
in cui la variabile E indica l’entità del capitale azionario della società
emittente mentre A e D conservano il medesimo significato visto in
precedenza.
Figura 2 - Valore dell'attivo e valore del capitale azionario [Fonte: Sironi, Marsella (1999)]
10
La retta inclinata a quarantacinque gradi esprime il valore del
capitale azionario alla data di scadenza del debito contratto dalla
società mentre l’altra linea indica il medesimo valore ma ad una data
antecedente.
Il fatto che in corrispondenza di identici livelli dell’attivo (A)
esista una differenza negativa tra il valore del capitale azionario alla
scadenza ed il valore ad un’epoca anteriore può essere facilmente
giustificata tenendo presente che, prima che le obbligazioni societarie
giungano al termine della propria vita economica, vi è ancora una
qualche possibilità che grazie ad appropriate decisioni strategiche
l’attivo possa essere soggetto a incrementi. Si comprende in questo
modo come mai, per valori delle attivo inferiori al debito esistente (D),
la misura del capitale azionario risulta essere positiva anziché nulla
(come accade quando si fa riferimento, invece, al momento della
scadenza delle obbligazioni). Tale incremento di valore del capitale
azionario deriva concretamente dal passaggio di una quota di
ricchezza dai debitori agli azionisti. Infatti, una società che cerchi di
incrementare il proprio attivo è portata ad adottare strategie
tendenzialmente più rischiose e questo determina inevitabilmente un
incremento della probabilità di insolvenza e conseguentemente una
riduzione del prezzo di mercato dei debiti della società a danno dei
creditori. Si può inoltre facilmente intuire come la differenza tra le
due misure del capitale azionario sia tanto maggiore quanto maggiore
è la volatilità del rendimento dell’attivo (σA).
Abbiamo quindi visto che il valore del capitale azionario può
essere paragonato a quello di un opzione call con le caratteristiche in
precedenza specificate. Ora, tenendo presente che il prezzo di
un’opzione è una funzione di cinque variabili (prezzo di esercizio,
valore di mercato dell’attività sottostante, tempo restante alla
scadenza, tasso d’interesse, volatilità dell’attività sottostante), si può
11
impostare la seguente relazione14:
E = f(D, A, σA, T, i)
σE = g(D, A, σA, T, i)
14 Come riportato nella formula (9) di pagina 164 di Sironi, Marsella (1999).
15 Come riportato nella formula (10) di pagina 164 di Sironi, Marsella (1999).
16 Per una derivazione analitica di quanto detto si veda l’Appendice
12
disposizione tutti gli elementi necessari per il calcolo della default
probability. Infatti D è dato fin dall’inizio mentre A e σA sono stati
ottenuti attraverso la risoluzione del sistema appena visto. Ecco
quindi che abbiamo dimostrato come nei modelli fondati sulla
contingent claim analysis sia possibile pervenire alla determinazione
della probabilità di insolvenza di una società partendo da alcuni dati
che possono essere facilmente reperiti sul mercato dei capitali.
L’eleganza formale e la convenienza di aver identificato fattori di
natura quantitativa rilevanti nella determinazione del tasso di
insolvenza di un’impresa non hanno comunque permesso a questo
tipo di approccio di trovare una grande applicazione pratica17. La
mancanza di lavori empirici è riconducibile principalmente a due
motivazioni. La prima è data dalle difficoltà che si incontrano
nell’individuazione della soglia oltre la quale una diminuzione del
valore di mercato delle attività implica inevitabilmente l’insolvenza. La
seconda ragione consiste invece nel fatto che la struttura finanziaria
di un’impresa non è semplicemente suddivisibile in capitale di rischio
e capitale di debito come è stato fatto nei modelli presi in
considerazione fino ad ora ma solitamente è articolata in maniera più
complessa18.
In ogni caso, un’interessante applicazione fondata sulla
contingent claim analysis che cerca di superare i limiti ora descritti è
quella adottata dalla KMV Corporation, una società statunitense
specializzata nel fornire stime relative alla probabilità di insolvenza di
società quotate e, più di recente, di società non quotate. Come
vedremo nel paragrafo successivo, l’obiettivo che questa società si è
prefissata rimane sempre lo stesso, e cioè la determinazione della
13
default probability di un’impresa; ciò che cambia è il tipo di
procedimento adottato per conseguire tale risultato.
19 A tal proposito possiamo notare che, nel determinare i prezzi di mercato sia delle
azioni che dei debiti, gli investitori utilizzano le stime personali sulle prospettive e
sui rischi dell’impresa nonché i dati finanziari e gli altri prezzi di mercato
disponibili. L’unione tra queste informazioni e la propria capacità di analisi e sintesi
si traduce nella propensione ad acquistare oppure vendere le azioni e i debiti della
società. La formazione dei prezzi di mercato deriva, come a questo punto si può
facilmente capire, dalla combinazione delle volontà di acquisto e di vendita di
numerosi investitori.
20 Backward looking.
21 Forward looking.
22 Ricordiamo che per mercati efficienti si intendono quei mercati nei quali i prezzi
14
alternativi. Per questa ragione è opportuno che i prezzi, ogniqualvolta
siano disponibili, vengano impiegati nella determinazione del rischio
di fallimento di un’impresa.
In perfetta coerenza con quanto è stato sin qui detto, il modello
Credit Monitor determina il tasso di insolvenza (EDF)di una società
quotata su un mercato regolamentato facendo riferimento sia ai dati
di carattere finanziario sia ai prezzi delle azioni.
Più precisamente, possiamo osservare che il procedimento che
porta all’expected default frequency di un’impresa si articola nelle
seguenti tre fasi23:
I. stima dell’asset value (A) e della asset volatility (σA);
II. calcolo della distance to default (DD);
III. determinazione della default probabilty (EDF).
Cerchiamo a questo punto di esaminare ciascuna di esse in modo più
approfondito.
attività.
15
dell’attivo e della sua volatilità. Analogamente è possibile definire
anche il legame esistente tra la volatilità delle azioni (σE) e la volatilità
del rendimento delle attività. Quanto detto si traduce nel seguente
sistema di due equazioni in due incognite che abbiamo già avuto
occasione di introdurre in precedenza:
E = f(A,D,σA,T,i)
σE = g(A,D,σA,T,i)
26 Accade cioè che la relazione esistente tra la volatilità dell’attivo e la volatilità delle
azioni, ovvero l’equazione (2) dell’Appendice, valga solamente all’istante.
27 Di tale processo non viene però fornita alcune documentazione specifica.
28 Per un approfondimento circa tale processo iterativo si vedano Crosbie (1997) e
16
variabili utili alla determinazione della probabilità di insolvenza di
una società (EDF), per un dato orizzonte temporale (H), sono29:
1. il valore corrente delle attività;
2. la distribuzione del valore delle attività in un momento
futuro corrispondente all’intervallo di tempo preso in
considerazione (H);
3. la volatilità futura dell’attivo sull’orizzonte temporale H;
4. il livello del default point e, quindi, il valore delle passività
iscritte a bilancio;
5. il tasso atteso di crescita delle attività sull’orizzonte H;
6. la distanza dell’orizzonte H.
Figura 3 - Le variabili rilevanti all'interno del Credit Monitor [Fonte: Crosbie (1997)]
17
Tra le variabili sopra elencate si instaura una relazione di
causa-effetto30 estremamente utile dal momento che consente agli
analisti che si servono del modello di avere a propria disposizione uno
strumento efficace per valutare quale potrebbe essere l’impatto
provocato sulla società da eventi particolari quali le operazioni di
fusione, quelle di acquisizione, improvvisi e forti ribassi nel prezzo di
mercato delle azioni…
Tenendo presente che l’orizzonte temporale (H) viene fissato
dagli analisti e che il tasso atteso di crescita dell’attivo per il
medesimo orizzonte esercita sulla default probability un’influenza di
fatto trascurabile, si può concludere che le variabili realmente
critiche nella determinazione del tasso di insolvenza di una data
impresa sono le rimanenti quattro. A tal proposito è immediato
verificare che maggiore è il valore delle attività rispetto all’importo dei
debiti in essere, minore è la probabilità di fallimento a cui la società è
esposta31. Analogamente, minore è la volatilità dell’attivo nel corso del
periodo di tempo preso in considerazione, minore è il tasso di default
associato all’impresa.
A questo punto possiamo osservare che, se la distribuzione
futura del valore delle attività fosse nota, allora l’expected default
frequency dell’impresa sarebbe semplicemente uguale alla probabilità
che l’importo finale dell’attivo sia inferiore al default point (sarebbe
cioè uguale all’area ombreggiata di Figura 3). In realtà la
distribuzione all’istante H non è di semplice individuazione né
sembra appropriato il ricorso all’assunzione di normalità o log-
normalità, come invece avveniva con Merton. Queste difficoltà hanno
allora indotto la KMV a privilegiare una distribuzione di tipo empirico.
rispetto al valore di mercato delle proprie azioni, allora i debiti contratti sono
fondamentalmente “sicuri”. Nel caso, invece, in cui la società si gravi
considerevolmente in termini di valore di mercato, allora la probabilità di insolvenza
cresce in maniera sensibile.
18
Più precisamente la società statunitense, prima del calcolo del tasso
di insolvenza, ha introdotto nel proprio modello una fase intermedia
nella quale viene determinata la cosiddetta distance to default (DD).
Questa rappresenta un indicatore del rischio di credito che si basa
sulla distanza, espressa in numero di deviazioni standard, del valore
di mercato delle attività dal default point.
Ad esempio, un valore di DD pari a 4 indica che la distanza dal
punto di insolvenza è uguale a quattro volte la deviazione standard
dell’attivo. Occorre quindi che il valore di mercato delle attività si
riduca di almeno quattro volte la propria volatilità affinché si verifichi
il fallimento dell’impresa in esame.
In termini analitici la distance to default viene pertanto
calcolata come segue:
A − Dp
DD =
A ⋅ σA
A – Dp = MNW
MNW
DD =
A ⋅ σA
10 − 4
DD = =4
10 ⋅ 15%
19
È opportuno ora effettuare alcune importanti osservazioni
riguardo a questa nuova grandezza.
In primo luogo, sulla base della formula appena presentata, è
immediato concludere che la distance to default di una società è
tanto maggiore quanto minore è la volatilità del rendimento delle
attività e quanto maggiore è la differenza tra asset value e default
point.
In secondo luogo è necessario sottolineare l’importanza di aver
diviso il market net worth (MNW) per la volatilità (delle variazioni)
dell’attivo (σAA). Il valore netto di mercato, da solo, non costituisce
infatti un valido indicatore del rischio di insolvenza in quanto non
tiene conto degli effetti (in termini di rischiosità) legati ad elementi
quali la dimensione, il settore di appartenenza e la localizzazione
geografica dell’impresa, che invece bene si riflettono nella volatilità
delle attività32. In particolare, grazie a quest’ultima, siamo nelle
condizioni di porre sullo stesso piano le società rischiose e quelle
stabili33. Si può cioè avere una situazione in cui un’impresa, pur
essendo caratterizzata da un market net worth inferiore a quello di
un’altra impresa34, presenti comunque, rispetto a quest’ultima, una
probabilità di insolvenza uguale o addirittura più bassa e questo a
causa della sua maggior dimensione oppure della maggior solidità
del settore economico o del territorio a cui appartiene cioè, in una
parola sola, a causa della sua stabilità superiore.
La distanza dall’insolvenza si configura pertanto come una
volatilità dell’attivo. Più precisamente si può notare che le società stabili presentano
una volatilità bassa mentre le società rischiose, al contrario, sono caratterizzate da
una volatilità elevata.
34 Il che ci indurrebbe a credere che la sua probabilità di fallimento sia maggiore
20
misura universale del rischio di default in grado di rendere omogenee,
e quindi confrontabili tra loro, società con caratteristiche anche molto
differenti (che possono appartenere a paesi diversi) senza che ciò crei
il benché minimo problema.
La distance to default costituisce l’input indispensabile per la
terza ed ultima fase del modello Credit Monitor: il calcolo della
probabilità di fallimento (EDF), cui è dedicato il paragrafo seguente.
DD = 1 DD = 2 DD = 3
DD = 4 DD = 5 DD = 6
21
di distance to default e che è stata ottenuta attraverso un’indagine di
tipo empirico. Più precisamente la KMV, sulla base della storia
relativa ad un ampio campione di imprese35 comprensivo di numerosi
casi di fallimento, è stata in grado di determinare, in corrispondenza
di ciascun orizzonte temporale, la proporzione di società insolventi
per ogni livello di DD.
A questo punto si può facilmente comprendere che per
determinare la probabilità di fallimento relativa ad una data società
(di cui si conosce la distance to default) non si dovrà far altro che
individuare nella tabella di frequenza il valore dell’expected default
frequency associato alle imprese aventi, per lo stesso orizzonte
temporale, la medesima distanza dall’insolvenza della società presa in
considerazione.
Se, ad esempio, riprendiamo il caso numerico visto al paragrafo
precedente ed ipotizziamo che, su 5.000 imprese aventi tutte la
stessa distance to default (cioè DD = 4), si sia registrato il fallimento
entro l’anno solamente di 20 di esse, allora si può concludere che il
tasso di insolvenza ricercato sarà pari a:
22
Punti 180
Base
160
140
120
100
80
60
40
20
0
0 1 2 3 4 5 6 7 8
DD
Figura 5 - Rappresentazione grafica della tabella di frequenza con riferimento ad uno specifico
esempio numerico
23
impiegata (al limite con alcuni correttivi) anche all’interno di stati
diversi dagli USA a cui, come sappiamo, si riferisce il campione di
società sulla quale la KMV ha basato il proprio studio. Una diretta
conferma di quanto appena detto ci viene fornita dai successi
conseguiti dal Credit Monitor in Europa (specialmente in Inghilterra)
ma soprattutto ci viene data dall’esperienza maturata in Asia.
Facciamo riferimento in particolar modo alla crisi che colpì diversi
paesi asiatici39 alla fine degli anni novanta e che la KMV, grazie al
proprio prodotto, era stata in grado di prevedere con largo anticipo
sugli altri istituti specializzati nella stima dei tassi di insolvenza.
Emblematico è stato, in proposito, il caso della Corea del Sud40 nei
confronti della quale il deterioramento della qualità creditizia venne
registrato dalla KMV già a partire dal 1994, mentre si dovettero
attendere ancora tre anni perché vi fossero analoghe rilevazioni da
parte delle agenzie di rating41. Altrettanto significativo è stato poi il
caso della Thailandia dove l’EDF mediana, relativa ai principali
istituti finanziari e stimata attraverso il Credit Monitor, passò dallo
0.35% nel gennaio del 1996 al 13,11% nello stesso mese del 1998,
costituendo un evidente segnale della crisi che stava per
sopraggiungere42.
La validità del legame esistente tra expected default frequency e
distance to default, anche in paesi diversi dagli Stati Uniti, è una
conseguenza del fatto che la probabilità di fallimento a cui la KMV
giunge costituisce un indicatore esclusivamente economico del
rischio di default. Vengono cioè trascurati aspetti quali la tutela
garantita all’attività produttiva oppure gli aiuti statali, considerando i
quali la tabella di frequenza costruita negli USA, e quindi il database
39 Tra cui ricordiamo Indonesia, Corea del Sud, Thailandia, Singapore e Hong Kong.
40 Per un approfondimento si veda Smith (1999).
41 Più precisamente, la prima segnalazione in tal senso da parte delle agenzie di
rating fu quella fornita da Standard & Poor’s nel novembre del 1997, dopo che la
Corea del Sud si era rivolta al Fondo Monetario Internazionale per chiederne
l’intervento.
42 Cfr. Weiinberg (1998) ed Euromoney Magazine (1998).
24
sottostante, non potrebbero essere impiegati in nessun altro luogo.
Ad esempio è possibile che, come è stato fatto notare da Crosbie43,
mentre in Europa o in Asia una data società sia salvata
dall’insolvenza grazie ad un intervento del governo, negli Stati Uniti la
stessa sia invece lasciata fallire. Tuttavia è necessario tenere presente
che tali interventi non sono esenti da costi, che gravano o sul
contribuente oppure su altri soggetti44. Quanto detto porta a
concludere che la soluzione ottimale consista nell’elaborare un
modello per il rischio di default in cui vengano prese in
considerazione solo ed esclusivamente le variabili di carattere
economico, lasciando poi agli analisti il compito di procedere
all’integrazione di tutti quei fattori, estranei alla sfera economica, che
risultino rilevanti nella realtà dei singoli paesi in cui il modello stesso
viene applicato.
Qualora si volesse effettuare un confronto tra i risultati del
Credit Monitor e quelli delle principali agenzie di rating, è bene
ricordare che, tra l’expected default frequency e le tradizionali classi
di rating, esiste la seguente corrispondenza45 (Tabella 1):
Tabella 1 - Corrispondenza tra Expected Default Frequency e classi di rating [Fonte: Bellucci et
al. (1997)]
25
Dalla probabilità di default, ricavata attraverso l’approccio della
KMV, è poi immediato passare al calcolo della perdita attesa sofferta
dal creditore (l’expected loss). Quest’ultima è, infatti, ottenibile
semplicemente come differenza tra due termini. Il primo è dato dal
prodotto tra il tasso di insolvenza della società (cioè l’EDF) ed il valore
nominale del debito46 da essa contratto. Il secondo termine è invece
rappresentato dalla quota47 del capitale prestato che il creditore si
aspetta comunque di recuperare in caso di fallimento dell’impresa
destinataria del finanziamento.
Alla luce di quanto abbiamo detto nei paragrafi precedenti,
possiamo concludere che il processo per la determinazione della
default probability, basato sul Credit Monitor, può essere
schematizzato nel modo seguente (Figura 6).
Default Point DD
Asset volatility
EDF
Relazione
DD/EDF
Estrella (2000).
26
americana Chrysler Motors nei confronti della quale l’applicazione del
modello49 della KMV ha portato ai risultati sintetizzati nella tabella
qui di seguito riportata (Tabella 2).
Tabella 2 - Applicazione del CM alla società Chrysler Motors [Fonte: Crosbie (1997)]
27
Pt = Pr[A t ≤ Dp t A 0 = A ] = Pr[ln A t ≤ ln Dp t A 0 = A ] (1)
dA = µAdt + σ A Adz
σ2
ln A t = ln A + µ − A t + σ A tε (2)
2
σ 2A
Pt = Pr ln A + µ − t + σ A t ε ≤ ln Dp t (3)
2
50 Cfr. Appendice.
28
A σ 2A
ln
+ µ − t
Dp t 2
Pt = Pr − ≤ ε (4)
σA t
A σ 2A
ln + µ − t
Dp t 2
Pt = N − (5)
σA t
A σ 2A
ln
+ µ− t
Dp t 2
DD = (6)
σA t
29
EDF = N(-DD) (7)
A σ 2A
ln +
r − t
Dp 2
Pt = N − t
(8)
σA t
53Ipotesi che si rivela di grande interesse poiché è da questa che si partirà quando,
nel capitolo successivo, si tratterà di applicare concretamente ad una società il
modello Credit Monitor.
30
Normale54.
Risulta, infine, ulteriormente limitativo ricorrere alla formula
europea, vale a dire assumere che il fallimento dell’impresa si possa
verificare solamente alla scadenza dell’orizzonte temporale preso in
considerazione e non anche ad un istante precedente.
31
Appendice
dA = µAdt + σAAdz
32
d’interesse privo di rischio mentre:
A σ2
ln + r + A T
D 2
d1 = e
σA T
A σ2
ln + r − A T
D 2
d2 = d1 - σ A T =
σA T
A
σE = N(d1)σ A (2)
E
3 = AN(d1) − e − rT ⋅ 10 ⋅ N(d2)
A
0.4 = N(d1)σ A
3
33