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Immigrazione: problema o risorsa?


Come gestire un fenomeno complesso
L’immigrazione è un fenomeno enorme e complesso, capace di cambiare il volto di una società. Se in meglio o in
peggio, sta a noi deciderlo.

Il “fenomeno” immigrazione, infatti, presenta notevoli implicazioni economiche, sociali, culturali, di ordine pubblico.
Presenta sia problemi sia benefici, che non sono un dato fisso e inevitabile, ma il risultato della nostra capacità di
gestirlo. Ogni discussione su questo tema, però, non può essere una fredda comparazione di costi e benefici.
Non bisogna mai dimenticare che il “fenomeno” immigrazione è fatto dagli... immigrati: uomini in carne ed
ossa, con le loro storie, le loro speranze, le loro paure e debolezze, i loro diritti (e i loro doveri), la loro creatività,
la voglia di rendersi utili (o di approfittare delle situazioni), i loro vincoli familiari. La dimensione dell’immigrato-
uomo spesso è trascurata anche da coloro che vedono nell’immigrazione solo una risorsa, e che si vorrebbero
porre come paladini degli immigrati. Ma vedremo che proprio la dimensione di umanità può essere calpestata
e offesa, se l’immigrazione è incoraggiata senza nessuna gestione o controllo.

1. Problemi e benefici connessi all’immigrazione.

Esistono numerosi problemi che possono derivare da un’immigrazione eccessiva e non regolamentata, e che
possono recar danno alla società, ma anche ferire la dignità stessa degli immigrati (come degli Italiani più deboli):

1. cattive condizioni di vita degli immigrati, sia dal punto di vista del lavoro (bassi salari, sicurezza e diritti precari)
sia da quello dell'alloggio (alti prezzi di acquisto e affitto, condizioni malsane e sovraffollamento);
2. peggioramento delle condizioni di lavoro e di alloggio degli Italiani delle fasce più deboli, che entrano in
competizione con gli immigrati;
3. scadimento di un sistema di protezione sociale gravato da troppo assistiti, con conseguenze negative per gli
Italiani che non hanno la possibilità di pagarsi tutele privatistiche;
4. delinquenza degli immigrati senza lavoro. Una condizione di cui questi immigrati possono essere parzialmente
anche vittime, perché arrivano con speranze non realizzabili. E vittime, ovviamente, sono i cittadini locali,
soprattutto quelli dei quartieri dove si concentrano gli insediamenti di immigrati;
5. sfruttamento degli immigrati da parte della criminalità organizzata che gestisce i flussi migratori. Si va
dall’impoverimento di immigrati che al loro Paese avevano una condizione di vita dignitosa, sono stati spinti a
vendere tutto per pagare il viaggio, e non vedono realizzabili aspettative che spesso erano state enfatizzate da
chi li ha incoraggiati a partire. Sino ad arrivare allo schiavismo e alla tratta delle giovani donne, indotte a partire
con la promessa di lavoro e poi costrette alla prostituzione;
6. impoverimento dei Paesi di provenienza, privati delle risorse umane più intraprendenti e più pronte al sacrificio
(l'ambasciatore rumeno Razvan Rusu ha denunciato che in Romania inizia ad esserci una forte carenza di
manodopera: almeno 27mila lavoratori);
7. violenza sui soggetti deboli nelle comunità-ghetto di immigrati;
8. conflitti sociali ed economici, soprattutto tra le classi deboli italiane e immigrate (“guerra tra poveri”);
9. conflitti politici e culturali per l’esistenza di differenze inconciliabili su principî di convivenza e diritti
fondamentali: idea della laicità dello Stato, diritti delle donne e dei minori, diversa sensibilità sull’esigenza di
isolare violenza e terrorismo, ecc.

Si badi bene: quelli che abbiamo passato in rassegna sono i problemi derivanti da un’immigrazione eccessiva e
non regolamentata. Molti di questi problemi possono essere evitati se ci si sforza di gestire il fenomeno.

Inoltre, non bisogna dimenticare i nostri doveri di solidarietà, né i benefici e le risorse che pure vengono
dall’immigrazione:

1. manodopera per numerosi settori in cui c’è carenza;

2. contributo di creatività e sviluppo economico anche in altri settori, perché l’economia cresce anche
trasformandosi, innervata da nuove idee;

3. apporto positivo alla stabilità sociale derivante dallo spirito di laboriosità e di sacrificio tipico degli emigranti;

4. arricchimento culturale. Il rischio che l’incontro di culture diverse diventi scontro non deve far dimenticare
l’opportunità che sia incontro fecondo.
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2. I criterî fondamentali per “gestire” l’immigrazione.

Come dosare problemi e risorse? In che cosa consiste la “gestione”, la “regolamentazione” del fenomeno
migratorio?

I criterî fondamentali sono a nostro avviso due:

2.1. Programmazione dei flussi.

L’immigrazione non è un “diritto” in sé. Ricordiamo che ad ogni diritto corrisponde un dovere, e che
l’adempimento di questo dovere dev’essere possibile. (Ad esempio, possiamo dire che un figlio ha diritto alla
migliore istruzione possibile; non che possa pretendere - da genitori che non ne hanno la possibilità – la
frequenza di master all’estero). Ciò nondimeno, esiste un dovere morale, di solidarietà umana, ad aiutare ed
accogliere le persone in condizione di bisogno. Questo dovere deve essere esercitato, appunto, nei limiti in cui
sia realisticamente possibile, nei limiti in cui l’accoglienza offerta sia dignitosa (non si può dire: “vieni e
arrangiati”), nei limiti in cui consenta il rispetto del bene comune della società ospitante.

Possiamo e dobbiamo, dunque, accogliere gli immigrati – e le loro famiglie - ai quali siamo in grado di offrire un
lavoro. Programmando il numero di coloro che possiamo accogliere, e assicurando il rispetto di questa
programmazione (se necessario, con respingimenti alle frontiere e rimpatrî obbligati).

Inoltre, possiamo accogliere gli immigrati che abbiano effettivamente il desiderio di contribuire al bene comune
della società che li ospita. Per chi delinque, non si può considerare un dovere di solidarietà garantire l’ “ospitalità”
nelle nostre prigioni...

2.2. Integrazione degli immigrati.

Gli immigrati - a parte quelli temporanei (stagionali, per motivi di studio) - sono in larga parte persone che entrano
in nuovo Paese per costruirsi una nuova vita, stabilirvisi a lungo, in molti casi per sempre. Ebbene, è necessario
che questo inserimento avvenga senza conflitti con la società che li ospita, costruendo una graduale reciprocità di
diritti e doveri.

Un immigrato, dunque, deve rispettare innanzi tutto le leggi del Paese che lo ospita. Non possono esserci zone
franche, quartieri di immigrati, dove queste leggi (con particolare riguardo ai diritti fondamentali delle persone:
diritti delle donne, dei bambini) non sono rispettate.
Rispettando tali leggi, l’immigrato potrà esigere il rispetto dei diritti umani e di libertà (personale, di inviolabilità del
domicilio, di espressione, di religione, di tutela giudiziaria, di istruzione per i minori) che la Costituzione riconosce
a chiunque soggiorni nel nostro territorio; nonché il rispetto dei diritti connessi alla propria prestazione lavorativa e
dei diritti di prestazione economica connessi alle tasse versate.

A questo primo livello di integrazione – la capacità di rispettare regole comuni – ne dovrà seguire uno ulteriore: la
cittadinanza. Si tratta dello status cui sono connessi i diritti civili e politici, cioè i diritti che la Costituzione riserva
ai cives, ai cittadini: la pienezza del diritto a circolare e soggiornare in ogni parte del territorio e del diritto di
associazione; la possibilità di ottenere politiche di sostegno sociale allargate; la possibilità di determinare (con il
voto) gli indirizzi e le regole della comunità.

La necessità di graduare il godimento di tali diritti – e di pretendere il rispetto di corrispettivi doveri – deriva dal
fatto che una comunità non si regge solo sulle leggi economiche, su logiche di scambio. Una comunità ha regole
di convivenza sociale che sono l’espressione di valori comuni. Una comunità ha bisogno di legami di
solidarietà che non possono essere imposti, ma si attivano se c’è reciproco riconoscimento tra i membri
della comunità stessa.
Non si è più immigrati, ma cittadini a pieno titolo, dunque, dopo aver appreso la lingua di un Paese, dopo avervi
vissuto un numero di anni sufficiente a comprenderne la mentalità e la cultura, e a condizione di condividere i
valori fondamentali espressi dalla Carta costituzionale di quel Paese. Dopo che si è raggiunto, insomma, un pieno
livello di integrazione. Convinzione che sembra maturare nella sinistra italiana (vedi le posizioni di Barbara
Pollastrini).

I criterî che abbiamo delineato per la gestione dell’immigrazione potrebbero sembrare troppo rigidi o apodittici.
Per approfondirli meglio, e comprenderne l’importanza, possiamo esaminare i luoghi comuni, i pregiudizî, le
esigenze economiche, le ideologie politiche che animano il dibattito sulla materia, soprattutto da parte di coloro
che – da fronti opposti - sono contrarî ad una gestione del fenomeno: o perché pensano che l’immigrazione
debba essere assolutamente libera; o perché pensano che vada semplicemente impedita.
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3. Quelli che dicono “l’immigrazione è una risorsa”.

Ma chi sono coloro che incoraggiano un’immigrazione intensa, con maglie larghe (o addirittura senza controlli)?
Quali argomenti propongono?

3.1. La domanda di manodopera delle imprese.

Tra i fautori di un’immigrazione intensa ci sono molti imprenditori, che richiedono manodopera per i lavori
“che gli Italiani non vogliono più fare”. Ma è davvero così?

Ci sono, effettivamente, alcuni lavori che negli ultimi anni, con la diffusione del benessere, gli Italiani amano
sempre meno. Si tratta soprattutto delle attività considerate più “umili”, che richiedono grande fatica, che
comportano rischi: badanti, operai non specializzati, braccianti agricoli.
La realtà non è però così semplice. Non è che in Italia si studi più che in passato: la percentuale di laureati è
stabile, nonostante il percorso di studi sia spesso più facile e siano state create numerose opportunità di
formazione specialistica “breve”. Molti Italiani cercano lavoro senza avere grande professionalità. Davvero sono
tutti presuntuosi e sfaticati, davvero pretendono tutti un lavoro “dietro la scrivania”?
O non sarà che, spesso, certi lavori gli Italiani non li vogliono fare perché quei lavori sono mal pagati,
perché non si è tutelati dai rischi mediante adeguate misure di sicurezza?

“Ma il costo della manodopera non può salire troppo, altrimenti le imprese non sono più competitive”. Anche qui,
c’è parecchia ipocrisia.
Quanto incide la manodopera nel manifatturiero, uno dei settori più proiettati all’esportazione (e quindi con
l’esigenza della competitività)? Il 20-30% del prezzo finale. Il resto è ripartito tra profitti, ricerca, costi per
macchinari e processi di trasformazione, costi energetici, pubblicità e – soprattutto – costi di distribuzione
(trasporti e margini di guadagno di grossisti e rivenditori finali). Nell’agricoltura il prezzo al dettaglio spesso supera
di dieci volte quello alla produzione!
La competitività non la possiamo costruire limando i salari (che, in ogni caso, resterebbero superiori a quelli
dei Paesi meno sviluppati) o risparmiando sulla sicurezza. La competitività la dobbiamo costruire sull’innovazione,
la qualità, la riduzione della pressione fiscale, il supporto di strutture e amministrazioni efficienti. Tant’è che
abbiamo salari tra i più bassi (anche per colpa della tassazione) dei Paesi OCSE, eppure non siamo altrettanto
competitivi!

Lavori sottopagati e insicuri: è una situazione che ferisce la dignità degli immigrati e danneggia una parte
di cittadini italiani, quelli delle fasce sociali più deboli, che sarebbero disposti a lavorare a condizioni migliori.

Peraltro, i lavori sottopagati rallentano l'innovazione, perché i bassi salarî rendono conveniente mantenere in
vita anche lavori destinati a scomparire.

Aggiungiamo un’altra osservazione: gli immigrati non vengono a svolgere solo i lavori più umili, ma anche –
col passare del tempo – lavori qualificati. Lavori appetiti, naturalmente, da un numero ancora maggiore di
Italiani: operai non solo generici, ma specializzati; artigiani; commercianti; tassisti (magari alle dipendenze di
società e cooperative); ecc. Prossimamente: ingegneri, matematici, chimici. Il che è giusto e inevitabile: non si
può immaginare che l’immigrato sia confinato in una condizione di serie B.
Ma il problema è: c’è bisogno di questa manodopera? In che quantità? O si vuole creare una competizione che
abbassi oltremisura il potere contrattuale dei lavoratori? Si vuole creare quello che Marx definiva “esercito
industriale di riserva”? Certo, Marx sbagliava a considerare una condizione necessaria del capitalismo quella che
era una condizione occasionale del mercato del lavoro (eccesso di offerta), di cui magari poteva approfittare la
miopia di qualche capitalista senza scrupoli. L’economia di mercato, invece, è aiutata da salari alti, che creano
domanda di consumo e stimolano l’economia. Però non dobbiamo fingere di non vedere che la miopia di qualche
capitalista-imprenditore può ripresentarsi...
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3.2. L'illusione di usare gli immigrati per pagare le pensioni.

Le riforme pensionistiche sin qui approvate non sono sufficienti a sanare lo squilibrio dei conti pensionistici,
dovuto al fatto che le pensioni sin qui erogate sono molto più elevate dei contributi versati da quei lavoratori. Il
"trucco" di pagare le pensioni con i contributi dei lavoratori ancora in attività non funziona più, a causa del calo
demografico. I giovani che già sono entrati nel sistema a “capitalizzazione” dovranno versare ancora a lungo, oltre
ai contributi per la propria pensione, i soldi per pagare le pensioni già erogate, ed anche per sostenere i servizi
sociali (assistenza, sanità) necessarî ad una popolazione sempre più anziana.
E' illusorio pensare che il problema si possa risolvere favorendo l'immigrazione, per pagare le pensioni con i
contributi dei lavoratori immigrati.
Innanzitutto, molti immigrati lavorano in nero, e quelli in regola esercitano attività scarsamente remunerative,
versando di conseguenza contributi esigui; si porrà anzi il problema del loro trattamento pensionistico.
Quand’anche si arrivasse ad una generazione di giovani lavoratori immigrati che abbia acquisito un importante
peso politico e sociale, non è da trascurare il fatto che essi, probabilmente, si lamenteranno di essere “sfruttati” se
si chiederà loro di “mantenere” gli italiani anziani.
La gravità del fenomeno può essere attenuata solo, in prospettiva, da una veloce ripresa demografica.

3.3. Gli immigrati strumentalizzati dalla sinistra estrema.

Marx era convinto che il capitalismo si reggesse solo sullo sfruttamento, per cui il suo collasso doveva essere
inevitabile. La storia lo ha smentito.
Eppure non manca qualche comunista nostalgico che resta abbagliato da queste idee. Qualcuno convinto che
“bisogna far esplodere le contraddizioni interne del capitalismo”, attirando masse di immigrati in numero
tale che non possano essere assorbiti senza aspri conflitti sociali, e che si arrivi ad una “crisi di sistema”.
Insomma: se il capitalismo non cade da solo... diamogli una mano!

Inoltre, questi nuovi immigrati in condizioni di disagio dovrebbero divenire un bacino elettorale per partiti che
conoscono un inesorabile declino storico.

Qualcuno potrà essere abbagliato dalle argomentazioni ‘ufficiali’ di comunisti, “antagonisti”, “no global”: si parla di
sviluppo globale, società più giusta, multiculturalità, ecc. Ma il loro vero pensiero può essere compreso se si
seguono con attenzione le loro analisi e i loro comportamenti.

In questa sede possiamo ribadire solo, in estrema sintesi, che lo sfruttamento – interno e internazionale - è un
abuso che può esistere ed esiste, ma non è la condizione stessa dell’economia di mercato. Lo sviluppo delle
economie libere ha portato alla crescita e alla diffusione del benessere; il sottosviluppo che permane in alcuni
Paesi poveri, causa dei fenomeni migratori, non dipende dalla ricchezza dei Paesi ricchi, come abbiamo spiegato
meglio nella recensione del libro Poveri, perché?
In aggiunta, vogliamo solo sottolineare il cinismo – tipico di quanti sono accecati da un’ideologia – che non
guarda agli immigrati come persone, ma come “masse di manovra rivoluzionaria”; un cinismo che non si fa
scrupolo di soffiare sul fuoco dello scontro tra le fasce sociali più deboli.

3.4. I sensi di colpa degli idealisti utopici.

Esistono alcuni convinti davvero che sia possibile accogliere tutti condividendo il nostro benessere. E che da
questo incontro verranno spontaneamente progresso, crescita culturale, pace, ecc. A questa convinzione si
aggiunge un certo senso di colpa – derivante anche dai luoghi comuni ereditati dal comunismo -, secondo cui i
Paesi ricchi avrebbero la responsabilità della povertà nel mondo.

Ebbene, la speranza e la voglia di migliorare le cose sono una virtù. L’utopia e la mancanza di senso della realtà
sono, invece, pericolosissime.
Accogliere milioni – miliardi? – di persone, in maniera rapida e incontrollata, non significa condividere la
nostra ricchezza, ma la loro povertà.
Strapparle alle loro terre, alle loro culture, significa far loro violenza, non essere solidali. Significa
compromettere le possibilità di sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo, privati delle risorse umane più
qualificate e volenterose.

Se davvero vogliamo esercitare la solidarietà, dobbiamo investire – molto di più di quanto fatto sinora – in
interventi efficaci per lo sviluppo dei Paesi poveri.
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3.5. I “multiculturalisti”.

Esiste non solo la necessità di regolare il numero degli immigrati, ma anche quella di creare le premesse per la
loro integrazione.
Nel nostro articolo Dialogo e convivenza tra culture cerchiamo di definire i contorni di un’integrazione possibile,
evidenziando che il "multiculturalismo", inteso come separatismo escludente, come idea che possano convivere
culture non dialoganti, esprime un’illusione. Un’illusione che danneggia gli stessi immigrati.

3.6. I consumatori di sesso a pagamento.

Esiste una domanda interna di donne sempre nuove, sempre più giovani (poco più che bambine), disposte a
concedere ogni tipo di prestazione sessuale a basso prezzo. Da qui il mercato internazionale della prostituzione,
spesso nelle forme dello schiavismo. La domanda di prostitute immigrate non è esplicita: non si sentono voci che
la esprimono apertamente. Eppure questa domanda, sotterranea, è molto forte e diffusa, anche a livelli “alti”:
non si sentono le voci che chiedano misure forti per combatterla...La politica deplora, ma non agisce.

3.7. I moralisti: “discutere l’immigrazione alimenta il razzismo”.

I moralisti sono coloro che amano salire su un pulpito e dare bacchettate, piuttosto che analizzare una
questione. Se poi si sposano con gli apostoli del “politicamente corretto”, che hanno già in tasca la lista delle
idee ammesse nel dibattito pubblico, e di quelle respinte perché “intolleranti”, allora il cocktail è micidiale...

Se c’è il rischio razzista che tutti gli stranieri, o tutti gli appartenenti a diverse etnie, vengano considerati
pericolosi, questo rischio non lo si elimina imponendo la finzione che siano tutti angelici e migliori degli altri, in una
sorta di “razzismo” rovesciato.
Se c’è il rischio di trascurare l’importanza del lavoro degli immigrati onesti, non bisogna rinunciare ad affrontare i
problemi sociali ed economici che l’immigrazione comporta.
Se razzismo significa generalizzare, il suo contrario è distinguere, analizzare un fenomeno, porsi domande,
cercare risposte.

Ancora una volta: l’immigrato onesto è danneggiato quando non si affrontano i problemi, oppure quando
viene confuso con il criminale immigrato (e ci sono...).
Questa confusione viene incoraggiata anche quando ci si limita ai proclami contro la criminalità, o si finge di
prendere provvedimenti che poi non vengono assunti: atteggiamenti tipici dei moralisti, che ai fatti preferiscono
le parole.

3.8. I fatalisti: “l’immigrazione non si può fermare”.

Non parlano apertamente di immigrazione come risorsa, ma alla fine la incoraggiano ugualmente, quanti
sostengono che si tratta di un “fenomeno epocale e inarrestabile”, che “è inutile alzare barriere”, che “l’Occidente
non può rinchiudersi in una fortezza”, che “l’emigrazione è un fenomeno esistito in ogni epoca”, ecc. Frasi
suggestive, che però non dicono granché. Esprimono una resa, scrollano le spalle di fronte ai drammi umani
che i fenomeni migratori incontrollati portano con sé.

Il problema non è di fermare la storia o bloccare i fenomeni migratori. Il problema è di trovare il modo di
gestirli: nessun Paese ha mai accettato un’immigrazione indiscriminata. Gli Stati Uniti d’America sono un
Paese sorto proprio con le immigrazioni; qualcuno ricorda Ellis Island, l’isolotto alla foce del fiume Hudson dove
gli immigrati venivano visitati, controllati, “filtrati” anche in base al rispetto delle quote stabilite?

Le modalità con le quali devono essere programmati i flussi (numero massimo per anno, per tipologia
professionale, per Paese di provenienza) possono essere diverse. L’importante è che questa programmazione sia
applicata rigorosamente, respingendo alle frontiere o riaccompagnando al Paese di provenienza chi non ha titolo
e possibilità di essere accolto.
Ciò significa insensibilità verso i disperati? No, perché i flussi migratori non sono quasi mai alimentati
spontaneamente da disperati, ma incanalati dalla criminalità organizzata. Si viene in Italia con ogni mezzo, perché
si sa di non essere respinti. Ed anche quelli che partono con intenzioni poco oneste, scelgono il Paese
considerato più “indulgente”. Quando invece si sa che l’immigrazione clandestina non offre prospettive, si
scelgono altre vie.

La superficialità delle argomentazioni che fanno appello all’inevitabilità del fenomeno migratorio, del resto, deriva
dal fatto che si tratta della via di fuga di chi resta a corto di argomenti nel magnificare le virtù di un’immigrazione
senza controlli.
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4. Quelli che dicono “l’immigrazione è un problema”.

Sino ad oggi hanno prevalso le tesi di quanti sono favorevoli a flussi immigratori consistenti, o comunque non
ritengono di dover gestire il fenomeno. Ed abbiamo quindi accennato ai problemi che questa mancata gestione
può comportare, e che stanno cominciando ad esplodere.

Ma è altrettanto parziale e fuorviante la visione di chi considera l’immigrazione solo un problema, una visione che
sembra iniziare a farsi largo.

4.1. Gli stranieri tolgono lavoro agli Italiani?

Questa risposta può avere una risposta affermativa nei termini in cui ne abbiamo parlato all’inizio, cioè in caso di
immigrazione incontrollata.

Ma la preoccupazione per il lavoro degli Italiani non può tradursi nella pretesa di una chiusura assoluta delle
frontiere. L’esigenza di nuova manodopera, in quantità consistenti, non può essere ignorata.

Aggiungiamo che non serve solo “manodopera”, ma anche lavoro qualificato: nuove idee, nuovi cervelli,
nuovi entusiasmi fanno crescere un Paese.

Anche una certa dose di concorrenza può stimolare gli Italiani a non sedersi sugli allori del “posto sicuro”, e a
curare dunque la propria formazione e la propria crescita professionale. L’importante è che si tratti di una
concorrenza di proporzioni complessivamente assorbibili dal mercato del lavoro.

4.2. Gli stranieri prosciugano le risorse di protezione sociale.

L’assistenza sociale agli stranieri che lavorano e pagano le tasse, e ai loro congiunti, non può essere negata. Non
dimentichiamo che molti pensionati italiani vedono pagata la loro pensione con i contributi versati da lavoratori
stranieri.

Altra cosa è consentire ricongiungimenti familiari estesi (genitori, fratelli, parenti), e garantire prestazioni
assistenziali ad una categoria di beneficiari indefinita. Poiché le risorse per l’assistenza non sono infinite, ciò crea
ovviamente inefficienze, ritardi, ingiustizie. Peraltro, questo tipo di assistenza “interna” costa molto di più di quella
che sarebbe possibile offrire nel Paese di provenienza.

4.3. Quelli che dicono: “L’Italia agli Italiani”.

Se riteniamo che Italiani siano i cittadini che si riconoscono in un patrimonio di cultura e di valori condivisi,
bisogna ricordare che questa categoria deve essere “aperta”: possono esserci nuovi Italiani, che – accettando
l’integrazione - accolgono la cultura che li ospita e la arricchiscono col loro apporto. Come è già successo
nei secoli precedenti.

Se invece qualcuno vuole cristallizzare la cultura italiana, vuole stabilire un anno zero in cui “Italiani” sono solo i
figli dei cittadini attuali, bisogna ricordare che una civiltà muore non solo quando viene spazzata via, ma anche
quando diventa sterile.
Senza contare le venature xenofobe o razziste di una difesa “etnica” dell’italianità.
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4.4. Gli xenofobi.

I termini razzista e “xenofobo” (“colui che ha paura dello straniero”) sono spesso utilizzati con troppa disinvoltura
dai militanti del moralismo antirazzista; sono marchi con cui mettere a tacere chi la pensa diversamente. Dare a
qualcuno dello “xenofobo”, poi, sottintende malignamente che quel qualcuno non esprime un’idea (da criticare)
ma manifesta i sintomi di una malattia, una “fobìa” (da curare).

Ciò detto, il razzismo e la xenofobia esistono. Non sono “malattie” individuali, ma “mali” culturali che
possono emergere in particolari contesti storici e sociali.

Il razzismo, inteso come idea che esista una “inferiorità” genetica di altre “razze” o gruppi etnici, forse, ha una
diffusione molto contenuta. Ma è talmente odioso – per quanto stupido – che richiede sempre la massima
vigilanza.

La xenofobia, intesa come diffidenza verso lo “straniero” (identificato da lingua, cultura, religione, ecc.), e più in
generale il “diverso”, ha invece più facilità ad attecchire.
Ebbene, per fare un esempio, è lecito esprimere l’opinione – non la certezza - che, in generale, molti francesi
siano un po’ spocchiosi, fissati con la grandeur. Ma non si può sostenere che tutti i Francesi abbiano questa
connotazione (così come non tutti gli Italiani sono cantanti o furbi o mafiosi). E, soprattutto, non si possono
attuare comportamenti discriminatori rispetto alla singola persona (che magari è un francese simpaticissimo e
umilissimo) sulla base di una considerazione generale.
Oppure: possiamo rilevare che alcune correnti della religione islamica esprimono intolleranza, o non pongono
paletti chiari rispetto all’integralismo islamista, anche violento. Possiamo pretendere che nelle moschee si
rispettino le leggi, e quindi non si propagandi l’odio o non si faccia il reclutamento di kamikaze. Ma non possiamo
attribuire queste tentazioni a tutte le correnti islamiche, o anche solo a tutti gli adepti delle correnti più a rischio. E,
soprattutto, non possiamo conculcare la libertà religiosa dei singoli musulmani.

La generalizzazione esprime una semplificazione forse comprensibile, ma inaccettabile se incide sui diritti e la
dignità delle singole persone.
La paura del diverso può soddisfare il meccanismo psicologico della ricerca del “capro espiatorio”,
particolarmente forte nelle situazioni di crisi sociale; ma non può mai rappresentare la soluzione di un problema.

Pensare che lo straniero in sé sia la causa dei mali di un Paese è un’idea astratta e irreale, oltre che inumana.

I fatti dicono che esistono tanti stranieri onesti, laboriosi, e disposti a integrarsi.

I fatti dicono che di questi stranieri abbiamo bisogno. Dal punto di vista della forza lavoro, ma anche dei capitali,
degli apporti culturali.

E non solo. Viene denunciata giustamente l’alta incidenza della delinquenza di origine straniera, figlia della
disperazione. Ma se guardiamo la natura della delinquenza di origine italiana, figlia di un benessere “sazio e
disperato”; se guardiamo l’apatia che si diffonde nelle nostre città; allora viene da pensare che abbiamo bisogno
anche della ricchezza umana degli immigrati…

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