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ANNI ‘60: FREE & ROCK, JAZZ IN LIBERTA’

2° Triennio seconda parte (1957–1970)

1) “Epistrophy” (Thelonious Monk. Kenny Clarke)


Thelonious Monk Quartet, novembre 1957
John Coltrane (sax tenore), Thelonious Monk (pianoforte), Ahmed Abdul Malik
(contrabbasso), Shadow Wilson (batteria)

L’incontro fra il sax tenore di John Coltrane ed il pianoforte di Thelonious Monk è uno dei
più significativi in assoluto in tutto il jazz degli anni ’50. Dopo che le storiche registrazioni al
Five Spot dell’aprile 1957 – di qualità acustica però piuttosto scadente – sembravano aver
detto tutto sulla loro collaborazione, sono state trovate, soltanto qualche anno fa, negli
archivi della Carnegie Hall, delle altre registrazioni “live”, questa volta di migliore qualità
tecnica, effettuate soltanto qualche mese dopo nel grande e prestigioso auditorium
newyorkese, fra l’altro con un pianoforte migliore. Il quartetto è quasi lo stesso: accanto a
Trane ed a Monk c’è ancora Shadow Wilson alla batteria, ma al contrabbasso Ahmed
Abdul Malik prende il posto di Wilbur Ware. La pur breve militanza di Coltrane nei gruppi di
Monk è fondamentale per la sua definitiva maturazione artistica: suonare accanto a
“Sphere”, sorta di guru per tutti i jazzisti della sua generazione, anche se solo per qualche
mese, pare aver contato per lui quasi quanto la molto più lunga esperienza nel quintetto di
Miles Davis (di cui in quel periodo, fra l’altro, faceva ancora parte), ma sembra in grado
soprattutto di dargli la spinta necessaria per poter emergere, di lì a poco, come uno dei
grandi maestri, non solo del sassofono, ma dell’intera storia del jazz. Dopo l’esperienza
con Monk diventa quasi necessario per Coltrane iniziare a pensare da protagonista, fino a
diventare a sua volta leader di proprie formazioni. Anche questo album, come quello di
qualche mese precedente, é un imperdibile capolavoro. Riguardo il brano scelto, ci preme
ricordare che Epistrophy è uno dei primi temi composti da Thelonious già prima
dell’esplosione del be–bop, nel 1941, nel periodo del Minton’s e per questo insieme al
batterista Kenny Clarke. In quegli anni pre–boppistici, quando ancora non si parlava molto
di lui, compose anche il più famoso ‘Round About Midnight, nel 1944 insieme a Cootie
Williams, e, nello stesso anno, sia 52nd Street Theme (da lui battezzata per la prima volta
Nameless) che Well, You Needn’t.

2) “Wednesday Night Prayer Meeting” (Charles Mingus)


Charles Mingus Band, febbraio 1959
Jimmy Knepper, Willie Dennis (trombone); John Handy, Jackie McLean (sax alto); Booker
Ervin (sax tenore); Pepper Adams (sax baritone), Horace Parlan (pianoforte), Charles
Mingus (contrabbasso), Dannie Richmond (batteria)

Non solo grande contrabbassista, ma anche eccellente compositore e leader carismatico,


un vero e proprio innovatore, capace di influenzare la nascita del free–jazz – di cui da
molti viene considerato un anticipatore – Charles Mingus (1922–1979) rilegge in questo
brano, con grande foga e spiccata personalità, la tradizione della musica religiosa nero-
americana, incrociandola con le forme del blues profano. Wednesday Night Prayer
Meeting, che si snoda su un tempo di 6/4, è infatti un gospel che ha le sembianze di un
rhythm ’n blues; viene quasi urlato e sembra sempre sul punto di esplodere in
un’improvvisazione “cacofonica”, ma quando serve viene subito ripreso in mano dal
leader, abile come pochi altri musicisti nel gestire i cambi di tempo, sia quando questo
raddoppia che quando improvvisamente rallenta. Il brano è tratto dallo storico album
«Blues & Roots», uno dei suoi più importanti, e vede all’opera un nutrito ensemble – i
gruppi numerosi erano i più amati da Mingus – forte di ben sei strumenti a fiato: Jimmy
Knepper e Willie Dennis suonano i tromboni, Booker Ervin il sax tenore, Pepper Adams il
baritono, mentre John Handy e Jackie Mclean il sax contralto. La sezione ritmica è invece
completata da Horace Parlan, pianoforte, e Dannie Richmond, che sarebbe stoto il suo
inseparabile batterista per circa vent’anni, sino al suo ritiro dalle scene, avvenuto per una
terribile malattia, il morbo di Lou Gehrig. In questa rappresentazione musicale vociante,
quasi teatrale, il “gruppo si fa vociante congregazione, a cui risponde il celebrante, il
sassofono di Booker Ervin, chiamato subito ad accendere la fiamma del rituale ed elevato
a predicatore nella seconda parte del brano… A parte quattro battute d’introduzione,
Mingus non si esibisce in assoli, ma anche il suo accompagnamento offre qualcosa di
nuovo, propulsivo, ricco di figure inattese: il suo strumento sta definitivamente
emancipandosi dal ruolo di basso continuo…” (da «Improvviso singolare (un secolo di
jazz)», di Claudio Sessa, Il Saggiatore 2015). Un album analogo, che volge il suo sguardo
in modo ancor più completo ed approfondito alla musica religiosa neroamericana, è «Oh
Yeah», registrato due anni dopo con un organico meno numeroso, un sestetto con tre fiati.

3) “Blue in Green” (Miles Davis, Bill Evans)


Miles Davis Quintet, marzo 1959
Miles Davis (tromba), John Coltrane (sax tenore), Bill Evans (pianoforte), Paul Chambers
(contrabbasso), Jimmy Cobb (batteria)

Termina con questa storica incisione del marzo 1959 la parabola creativa del quintetto di
Davis con John Coltrane, che era iniziata nel 1955. Nell’ultimo biennio il gruppo si era già
trasformato, prima con l’innesto del giovane Julian “Cannonball” Adderley al sax alto, la cui
sonorità bluesy ben si amalgama con quella sempre più spirituale ed astratta del tenore di
Coltrane. Il contrabbasso continua a rimanere saldamente nelle mani del fedele e
collaudato Paul Chambers, mentre dalla primavera del 1958 Jimmy Cobb era subentrato a
Philly Joe Jones alla batteria, ed il giovane pianista bianco Bill Evans a Red Garland. Ma
Bill Evans, fra i più influenti ed importanti collaboratori di Davis, sarebbe purtroppo stato a
sua volta quasi subito sostituito dal più canonico Wynton Kelly, non per volontà del
trombettista ma per una precisa scelta del pianista, molto più interessato in quel periodo a
concentrarsi sulla sua musica e sulla possibilità di diventare lui stesso leader di proprie
formazioni. Per questa storica seduta di registrazione Davis decide però di richiamare
Evans, che aveva lasciato il gruppo a fine 1958 (in un brano al piano però siede Kelly) ma
che accetta l’invito, conferendo così un sapore ancora più intimo e riflessivo alla delicata
ballad, che contribuisce a costruire. Anche se fissato solo in poche registrazioni, l’incontro
con Evans risulterà decisivo per il successivo corso della musica davisiana. Il disco in
questione – considerato fa i capolavori assoluti della storia del jazz – é «Kind of blue», e
comprende, fra gli altri, brani ancor più popolari come All Blues e So What. Soprattutto con
questi due temi, semplici quanto suggestivi, Davis getta le basi del jazz modale, stile che
sarà poi sviluppato magistralmente dal quartetto di Coltrane. Blue in Green venne
attribuita all’inizio al solo trombettista, ma in seguito alla sua firma verrà aggiunta anche
quella di Evans, che come abbiamo sopra ricordato ha avuto un ruolo fondamentale nel
costruire il “climax” della registrazione. La struttura della ballad è semplice, con
andamento circolare, e conferisce ampia libertà improvvisativa a tutti i solisti coinvolti:
Davis, che qui dimostra l’eccellenza ormai raggiunta nell’uso della sordina harmon,
Coltrane e lo stesso Evans naturalmente. Nel brano (l’unico del disco) non è presente
invece il sax alto di Cannonball Adderley. Il passaggio ad una maggiore libertà nel corso
dei successivi anni ’60 sembra anche per Davis ormai inevitabile. È davvero splendido,
quanto quelli di Davis ed Evans, l’assolo di John Coltrane,

4) “My Foolish Heart” (Victor Young, Ned Washington)


Bill Evans Trio, giugno 1961
Bill Evans (pianoforte), Scott LaFaro (contrabbasso), Paul Motian (batteria)

Come dimostra Blue in Green, Bill Evans è stato uno degli artefici della svolta modale di
Miles Davis fra il 1958 e 1959. Ma il giovane pianista bianco scalpitava, e non resistette
più di qualche mese nel gruppo del celeberrimo trombettista di colore. Alla ricerca di una
propria strada personale, Evans trova molto più congeniale alla sua dimensione
espressiva la formula del trio con contrabbasso e batteria, formula che come pochi altri ha
saputo rivoluzionare. Dopo aver inciso con Sam Jones e Philly Joe Jones, sembra
finalmente trovare alla fine del 1959 il suo trio ideale con il contrabbassista Scott LaFaro
ed il pianista Paul Motian, con cui peraltro aveva già suonato due anni prima. Questo
gruppo, attivo fino alla tragica morte del contrabbassista, avvenuta per un incidente
stradale il 7 luglio 1961, soltanto due settimane dopo queste storiche incisioni, rimarrà un
punto di riferimento per tutti gli appassionati e soprattutto a chi ama il trio con pianoforte
sino ai giorni nostri, rappresentando un mirabile esempio di “interplay” e di creatività. Il trio
“piano–basso–batteria” metteva con Evans per la prima volta tutti e tre i suoi componenti
sullo stesso piano, e ciò soprattutto grazie, oltre che all’apertura ed alla lungimiranza del
suo straordinario pianista–leader, alla superiore classe musicale di Scott LaFaro, geniale
sia come accompagnatore che come solista, uno dei pochi veri innovatori del suo
strumento, ancor oggi capace di far scuola, ed al drumming creativo e raffinatissimo di
Paul Motian. Sia il contrabbassista, che aveva suonato anche con Ornette Coleman, sia il
batterista, che sarebbe diventato a sua volta leader autorevole e personale, erano non
solo eccellenti strumentisti, ma musicisti completi. È davvero splendida l’esecuzione
offerta dal trio di questa celebre ballad di Young e Washington, uno degli standard più
amati da Bill Evans. Il brano proviene da una serie di registrazioni raccolte nell’arco di più
set tenuti nella stessa giornata (25 giugno) dal trio al Village Vanguard, celebre club
newyorkese. Sono state raccolte e pubblicate per la prima volta dall’etichetta Riverside in
due album (Lp a 33 giri) considerati pietre miliari del jazz moderno, intitolati «Waltz for
Debby» (da cui è tratto questo brano) e «Sunday at the Village Vanguard». Il trio rimarrà in
tutto il prosieguo della carriera di Evans la sua formazione preferita, e non ci sarà da allora
nel jazz alcun trio pianoforte–contrabbasso–batteria (da quelli di Chick Corea a quelli di
Keith Jarrett e Brad Mehldau) che non terrà presente la fondamentale lezione impartita dal
trio Evans–LaFaro–Motian.

5) “Giant Steps” (John Coltrane)


John Coltrane Quartet, maggio 1959
John Coltrane (sax tenore), Tommy Flanagan (pianoforte), Paul Chambers (contrabbasso),
Art Taylor (batteria)

È un titolo enigmatico e importante: i “passi da gigante” sono infatti sia le difficoltà che
deve affrontare il solista in questo difficile brano, sia quelli compiuti da John Coltrane fra il
1958 e il 1959. L’ultimo anno in particolare vede sia la sua definitiva uscita dal gruppo di
Davis sia la sua consacrazione come leader originale ed autorevole, grazie anche ad un
buon contratto discografico strappato all’etichetta Atlantic, dopo molte incisioni effettuate
per la Prestige. Coltrane, classe 1926, corona e conclude così il suo periodo formativo,
caratterizzato dai celebri “sheets of sound” (cortine di suono, frutto di vorticosi fraseggi,
compiuti con grandissima disinvoltura su uno strumento poco agile come il sax tenore).
L’espressione venne coniata dal critico americano Ira Gitler, e rende bene l’idea dello stile
di Trane in quegli anni, forte com’era di un fraseggio denso di scale in rapidissima
successione: centinaia di note, dai registri più bassi a quelli più alti. La linea ritmica supera
di solito quella dei sedicesimi e si compone per lo più di strutture irregolari come quintine e
settimine. Sembrano quasi non riuscire a seguirlo, in quel torrenziale vortice di note, i suoi
pur bravi compagni di viaggio, che in qualche momento appaiono in visibile difficoltà. Ma
secondo quanto scritto dal critico Luca Cerchiari ciò non rappresenta l’unica verità. La
struttura dell’assolo di Tommy Flanagan sembra sia stata decisa dal pianista insieme al
leader, il quale non voleva che il brano diventasse soltanto un suo lungo monologo; gli
serviva avere quindi un salutare “contraddittorio”, e proprio l’assolo del pianoforte sembra
preparare al meglio il ritorno del suo sassofono, che risulterà così avere ancora maggiore
impatto espressivo. Il giro armonico di Giant Steps, passa velocemente e continuamente
fra tre tonalità a distanza di terza maggiore, come in una sorta di triangolo equilatero (MIb,
SI, SOL; sia in un senso che in quello contrario). Il brano nasce da una ricerca ed allo
stesso tempo la conclude. La sua serie di accordi crea una sequenza armonica che può
ripetersi all’infinito. Coltrane, che sembra qui avere in mento qualcosa di molto diverso dal
concetto tradizionale di jazz, snocciola frasi impeccabili a velocità supersonica, quasi
senza soluzione di continuità. Dopo Giant Steps la fase degli studi armonici viene
superata dal sassofonista, che sembra sempre eternamente insoddisfatto. Come già
ricordato in precedenza, sembrano conquistarlo sempre e molto di più le idee modali
messe a punto dal suo ex–leader, Miles Davis, insieme a Bill Evans.

06) “Lonely Woman” (Ornette Coleman)


Ornette Coleman Quartet, maggio 1959
Don Cherry (pocket–trumpet), Ornette Coleman (sax alto), Charlie Haden (contrabbasso),
Billy Higgins (batteria)

Con il quartetto senza pianoforte di Ornette Coleman (1930–2015) nasce ufficialmente, nel
1959, il free–jazz, anche se il disco del sassofonista texano, classe 1930, che porta
questo titolo («Free Jazz», Atlantic), verrà inciso più tardi, nel dicembre del 1960. Lo
storico quartetto di Coleman, uno dei più importanti di tutta la storia del jazz, è completato
da Don Cherry (tromba, anzi pocket–trumpet) – che diventerà molto presto a sua volta un
leader autorevole ed originale – Charlie Haden (contrabbasso) e Billy Higgins (batteria).
Questo brano in particolare, una struggente ballad, vero e proprio capolavoro del jazz
moderno, è tratto dall’album «The Shape of Jazz to Come» (Atlantic), il terzo di Coleman
come leader, ma il primo pubblicato per l’etichetta Atlantic. I due precedenti lavori erano
usciti per la Contemporary, già etichetta di riferimento per il West Coast bianco. L’album
del debutto, «Something Else!», del 1958, era stato registrato in quintetto con il pianista
Walter Norris, ma sin dal disco successivo, «Tomorrow Is the Question!», Ornette decide
di eliminare definitivamente il piano, per rendere ancor più libera e fluida la sua musica.
Fondamentale è soprattutto il cambio della coppia ritmica, ora maggiormente in sintonia
con la visione musicale colemaniana: Billy Higgins prende il posto di Shelly Manne, mentre
al contrabbasso viene ingaggiato il giovane Charlie Haden, che sostituisce quindi Percy
Heath, membro del Modern Jazz Quartet. Proprio Heath è stato, insieme a John Lewis,
uno dei più autorevoli mentori della nuova musica colemaniana. Lewis ha invitato nel 1958
Coleman alla sua scuola di Lenox, e sarà grazie al suo appoggio che il quartetto di
Ornette riuscirà a strappare un buon contratto con l’Atlantic. Non sembra esagerato
affermare che le profetiche visioni dell’altosassofonista – poi anche violinista e trombettista
– di Fort Worth, Texas, hanno profondamente cambiato il corso del jazz negli anni a
venire. Secondo il critico Arrigo Polillo infine Lonely Woman, con la sua dolente
drammaticità ed il profondo senso di solitudine, è una delle ballad più intense e riuscite di
tutto il jazz moderno. Quasi tutti i primi brani di Coleman, influenzato sia da Charlie Parker
che dal blues, si caratterizzano per una pronunciata cantabilità, spesso associata a
nervosi fraseggi di derivazione boppistica e ad un’attenzione strutturale ispirata senza
dubbio alla forma canzone. Ma il sassofonista sembra indifferente ad ogni esigenza di
simmetria, è per lui essenziale invece la coerenza melodica di ciò che compone.

7) “Ramblin’” (Ornette Coleman)


Ornette Coleman Quartet, ottobre 1959
Don Cherry (pocket–trumpet), Ornette Coleman (sax alto), Charlie Haden (contrabbasso),
Billy Higgins (batteria)

Coleman, cresciuto in una famiglia proletaria e fondamentalmente autodidatta, aveva


scoperto il be–bop mentre in età giovanile suona rhythm & blues in varie formazioni
girando gli stati del sud, da New Orleans alla California, dove si stabilisce e conosce nel
1951 Don Cherry. Anche Ramblin’ è un brano tipicamente colemaniano, più vivace
ritmicamente ma dal tempo quasi sospeso, forse più legato ad un clima boppistico,
completamente diverso da una ballad come Lonely Woman. Registrata soltanto qualche
mese dopo, la composizione di Coleman è inserita in un altro storico album del periodo, il
quarto del sassofonista texano ed il secondo per l’etichetta Atlantic, «Change of the
Century» – anche questo titolo è decisamente avveniristico e profetico, come un po’ tutti i
suoi dischi del periodo – che presenta l’identico quartetto di «The Shape of Jazz to
Come». Va precisato che negli stessi anni Ornette alternava a questo quartetto, un altro
che lo vedeva sempre affiancato a Cherry, ma che prevedeva l’utilizzo di una diversa
coppia ritmica, altrettanto importante com’è quella formata dal contrabbassista Scott
LaFaro e dal batterista Ed Blackwell. È da ascoltare con attenzione soprattutto il mirabile
dialogo fra il sax contralto del leader e la tromba (anzi la pocket–trumpet) del più giovane
ma già interessantissimo ed originale Don Cherry, così come il gioco ritmico della
splendida coppia formata da Charlie Haden e Billy Higgins, che tiene il tempo sospeso,
sembrando quasi in ritardo, ma creando invece una straordinaria tensione emotiva. Fra
questo disco ed il celeberrimo e già citato «Free Jazz», registrato con un doppio quartetto,
c’è in mezzo un altro album significativo, «This is Our Music», che vede l’ingresso del
batterista Ed Blackwell al posto di Higgins. L’anno successivo toccherà a Scott LaFaro
sostituire al contrabbasso Charlie Haden. In Coleman è altresì avvertibile il primato della
melodia sull’armonia; è però un’idea di melodia – quella elaborata dai principali esponenti
del free–jazz – che la emancipa da qualsiasi tipo di stereotipo, al contrario di quanto era
successo nel be–bop con la prevalenza dell’armonia e del ritmo nella struttura portante di
un brano. In tutta l’opera di Coleman ciò che maggiormente risalta, alla fine, è il prevalere
del libero canto su qualunque altro elemento. Può far sorridere l’idea di un primato della
melodia in una musica che pubblico e parte della critica considerano a lungo inascoltabile:
ma naturalmente la sua “melodia” è ben diversa dalla più orecchiabile canzone popolare.

8) “Cindy’s Main Mood” (Cecil Taylor, Buell Neidlinger)


Cecil Taylor Trio, gennaio 1961
Cecil Taylor (pianoforte), Buell Neidlinger (contrabbasso), Billy Higgins (batteria)

Il pianista Cecil Taylor, classe 1929, forse il più radicale e coerente fra i maestri del “free
jazz”, è anche quello che ha raccolto meno successo di pubblico. La piena adesione
all’atonalità ed una non comune libertà ritmica fanno di lui, ancor oggi, un improvvisatore
imprevedibile e tumultuoso, non facile da affrontare anche per molti appassionati. La sua
musica è caratterizzata da un approccio estremamente energico, fisico, che produce
complessi suoni improvvisati, con uso frequente di “cluster” e di intricati poliritmi. La sua
tecnica pianistica è straordinaria ed é incredibile come, pur creando delle strutture
informali, Taylor resti sempre molto legato al blues, che traspare in tutta la sua musica.
Figlio di una famiglia della buona borghesia nera di Boston, il pianista frequenta il locale
Conservatorio e studia a fondo la tradizione accademica. Il suo stile crea all’inizio molta
perplessità fra gli addetti ai lavori, ma le sue qualità strumentali non sono mai state messe
in discussione. Il suo primo album da leader risale al 1956, ma quello che rivela tutta la
forza dirompente del suo pianismo è forse «Looking Ahead!», del 1958. Va anche
ricordato che il pianista partecipò nell’ottobre del 1958 ad un album di John Coltrane inciso
per Prestige, «Coltrane Time». Questo brano è tratto da una serie di registrazioni
newyorkesi del 1961, pubblicate sul disco «New York City R & B», appartenente al
catalogo Candid, una delle prime etichette indipendenti di jazz, fondata da Charles Mingus
e Max Roach. In soltanto due brani la formazione è un classico trio jazz, completato in
questo caso da Billy Higgins, batterista capace di adattarsi alle più diverse situazioni
musicali, e dal contrabbassista Buell Neidlinger, che come Mingus suonava anche il
violoncello. Negli altri brani invece la formazione si allarga sino a diventare ottetto: al trio
ritmico si aggiungono infatti i sassofoni di Archie Shepp, Charles Davis e Steve Lacy, il
trombone di Roswell Rudd e la tromba di Don Cherry. Gli assoli di Taylor non sembrano
seguire forme definitive, basati come sono piuttosto su suggestioni narrative. C’è un chiaro
disegno dinamico nella sua musica, che parte dall’ambito espressivo dei momenti tematici
più quieti per crescere fino ad una frenetica danza delle dita, anche se lo sviluppo non è
sempre lineare, ed i suoi assoli sono spesso ricchi di episodi fra loro molto diversi. L’uso di
tutte le possibilità ritmiche ed armoniche offerte dal pianoforte è in lui unico e peculiare,
facendo di Cecil Taylor un pianista difficilmente inseribile in una delle numerose scuole
stilistiche post–boppistiche.

9) “There’ll Never Be Another Like You” (Harry Warren, Mack Gordon)


Sonny Rollins Quartet, febbraio 1963
Don Cherry (cornetta), Sonny Rollins (sax tenore), Henry Grimes (contrabbasso), Billy
Higgins (batteria)

Dopo che le improvvise e traumatiche ascese nel mondo del jazz di John Coltrane e
Ornette Coleman – di quest’ultimo era coetaneo, ma era molto più noto da almeno un
decennio – Sonny Rollins – che con il suo carismatico sax tenore aveva di fatto dominato
la scena jazzistica di gran parte degli anni ’50 – si sente un poco messo da parte ed entra
in profonda in crisi. Decide di ricominciare a studiare a fondo l’armonia e l’improvvisazione
e, dopo tre anni di silenzio discografico, torna a far parlare di sé nel 1962, con idee nuove
ma soprattutto in uno splendido stato di forma. Ricomincia quindi ad incidere altri album
capolavoro, dopo i numerosi che ci aveva regalato nella seconda metà degli anni ’50, fra
cui «The Bridge» e «What’s New», entrambi con il chitarrista Jim Hall, ma inizia allo stesso
tempo una nuova collaborazione, breve ma intensa e proficua, con l’ex–colemaniano Don
Cherry, con cui registra molto materiale soprattutto nel corso del 1963, per gran parte dal
vivo. Questo celeberrimo standard di Warren e Gordon proviene invece da una delle
poche registrazioni effettuate in studio (l’album a 33 giri, «3 in Jazz», pubblicato da Rca,
dava spazio, oltre al gruppo di Rollins, anche a quelli di Clark Terry e Gary Burton; ma poi,
con l’avvento del Cd, queste importanti tracce sono state aggiunte ad altre ed inserite in
un disco tutto suo dal titolo di «Our Man in Jazz») e viene letteralmente reinventato dal
“saxophone colossus”, che sembra qui superarsi per fantasia melodica e forza espressiva.
Il sassofonista newyorkese, classe 1930, stava seguendo da qualche anno con attenzione
la New Thing – nome con cui viene talvolta identificato il movimento del free–jazz nella
prima metà degli anni ’60 – e questo quartetto d’impronta colemaniana, senza strumento
armonico, ne è la dimostrazione più evidente. Oltre a Don Cherry, qui non alla pocket
trumpet né alla tromba, ma alla cornetta, affiancano Rollins il contrabbassista Henry
Grimes (1935–2020), fra i più gettonati in quegli anni, che poi sarebbe misteriosamente
uscito di scena nel 1969 – un oblio misterioso il suo – per venire quindi riscoperto in
California nel 2002, ed il batterista Billy Higgins, anche lui componente, come Cherry, dello
storico quartetto di Ornette Coleman attivo fra il 1959 ed i 1961. n sintesi, dal 1955 al
1965, la produzione discografica di Rollins è non solo florida, ma produce quasi sempre
risultati altissimi, creando opere di sorprendente varietà stilistica. Per questo motivo risulta
riduttivo contenere la sua figura all’interno dei troppo rigidi parametri dell’hard–bop.

10) “Meditations on Integration” (Charles Mingus)


Charles Mingus Sextet, marzo 1964
Johnny Coles (tromba), Eric Dolphy (sax alto, clarinetto basso, flauto), Clifford Jordan (sax
tenore), Jaki Byard (pianoforte), Charles Mingus (contrabbasso), Dannie Richmond
(batteria)

L’apice di una carriera che già negli anni ’50 aveva regalato al jazz molti capolavori, viene
forse raggiunto da Charles Mingus nel 1964, quando forma uno straordinario gruppo con
Eric Dolphy, sax alto flauto e clarinetto basso, Johnny Coles, tromba, Clifford Jordan, sax
tenore, Jaki Byard, pianoforte, Dannie Richmond, batteria. Emozionante é soprattutto la
composizione appositamente scritta per il tour europeo di aprile, una sorta di suite, piena
di significati sin dal titolo, Meditations on Integration. Quei concerti europei (documentati
da uno storico album triplo, diventato doppio con l’avvento del Cd, «The Great Concert of
Charles Mingus») vedono però la partecipazione di Johnny Coles solo fino al 17 aprile (è
infatti presente in un solo brano del disco prima menzionato), a causa di un suo ricovero
urgente per un’emorragia. Il tour europeo era stato però anticipato da alcune esibizioni
americane, che sono servite per mettere a punto il nuovo gruppo ed il repertorio, anche
questo in gran parte nuovo. Uno di questi concerti, la cui registrazione è stata scoperta di
recente, si è tenuto in un’università di Ithaca, New York. Questa è quindi l’unica versione
registrata di Meditations on Integration che vede all’opera il sestetto al completo. La
celebre suite, oltre ad avere un grande valore musicale, ha una valenza sociale e politica
altrettanto importanti. È infatti una composizione che Mingus ha voluto dedicare alle
vicende del popolo africano, deportato forzosamente nelle Americhe dai colonizzatori
europei. Gli ex–schiavi, nemmeno quando diventano cittadini americani a tutti gli effetti
riescono a trovare pace e giustizia. È l’ennesima accusa, feroce ed accorata, che il
vulcanico contrabbassista, un meticcio con padre mulatto e madre per metà cinese e metà
pellerossa, rivolge al razzismo ancora esistente negli Stati Uniti in quei tumultuosi anni.
Non va però dimenticata, dopo una straordinaria carriera che nel 1973 sembra volgere
verso un inesorabile declino, l’inaspettata rinascita del 1974, alla testa di un quintetto che
licenzierà ancora qualche disco importante. Al suo fianco c’erano allora i giovani Jack
Walrath, tromba, George Adams, sax tenore, Don Pullen pianoforte, mentre alla batteria
sedeva sempre il fedele ed insostituibile Dannie Richmond. Di questo periodo, che
precede il ritiro del 1977 e la scomparsa, avvenuta quando non aveva ancora compiuto 57
anni, vanno ricordati almeno due splendidi dischi, «Changes One» e «Changes Two».

11) “Something Sweet, Something Tender” (Eric Dolphy)


Eric Dolphy Quintet, febbraio 1964
Freddie Hubbard (tromba), Eric Dophy (clarinetto basso), Bobby Hutcherson (vibrafono),
Richard Davis (contrabbasso), Tony Williams (batteria)

Scomparso prematuramente, il plurisassofonista Eric Dolphy è stato per un quinquennio


una delle figure carismatiche del nuovo jazz, virtuoso del sax alto, del clarinetto basso e
del flauto. Questo suo brano é tratto dallo storico album Blue Note «Out to Lunch», l’ultimo
da lui inciso come leader ed uscito purtroppo postumo, dopo la sua morte prematura.
Dolphy, classe 1928, aveva suonato con Charles Mingus e John Coltrane, ed in questo
disco, vero e proprio capolavoro, è alla testa di una sorta di All Stars del jazz degli anni
‘60, comprendente alcuni dei migliori giovani musicisti del momento, ovvero Freddie
Hubbard alla tromba, Bobby Hutcherson al vibrafono, Richard Davis al contrabbasso e
Tony Williams alla batteria, astro nascente dello strumento, non ancora entrato a far parte
del quintetto di Miles Davis. Questo disco rappresenta l’ultima registrazione ufficiale in
studio di Dolphy, ed ha il carattere di una vera e propria suite, pur essendo costituito da
brani apparentemente diversi ed in cui suona tutti i suoi tre strumenti. In «Out to Lunch»
viene riaffermato il ruolo strategico per lui del clarone (o clarinetto basso). I primi due temi
del disco sono infatti eseguiti dal leader con questo strumento, pur essendo lui un
eccellente altosassofonista ed un pregevolissimo flautista (nello stesso album c’è un brano
in cui suona il flauto dedicato a Severino Gazzelloni). In Something Sweet, Something
Tender, che è la seconda traccia del disco, Dolphy imbraccia quindi il clarinetto basso,
strumento fino ad allora poco utilizzato nel jazz, ma che troverà dopo di lui una normale
collocazione (d’altro canto aveva mosso i suoi primi passi proprio come clarinettista),
contando oggi un gran numero di eccellenti specialisti, anche in Italia. Con il gruppo di
Mingus il multistrumentista terrà la sua ultima tournée europea: siamo nell’aprile 1964, e
proprio in quel mese viene registrata in Europa la celebre Meditations on Integration e la
tristemente profetica So Long Eric. Quando i musicisti della band, dopo il tour, rientrano
negli Stati Uniti, Eric Dolphy non è con loro; aveva infatti deciso di fermarsi per qualche
tempo in Europa, dove avrebbe collaborato con alcuni dei migliori giovani esponenti del
free–jazz, fra cui gli olandesi Misha Mengelberg e Han Bennink. Ma il 28 giugno viene
colpito da un attacco di iperglicemia diabetica a Berlino, cade subito in coma e, portato il
giorno dopo in ospedale, muore fra l’incredulità generale, forse perché il fatto di essere di
colore non gli ha consentito di godere delle cure migliori e più meticolose.

12) “Acknowledgement” (John Coltrane)


John Coltrane Quartet, dicembre 1964
John Coltrane (sax tenore), McCoy Tyner (pianoforte), Jimmy Garrison (contrabbasso),
Elvin Jones (batteria)

Tratto da uno dei suoi dischi più celebri, «A Love Supreme» (Impulse), il brano è una sorta
di preghiera, il primo dei quattro movimenti della suite che occupa l’intero album. John
Coltrane guida lo storico quartetto che aveva costituito nel 1960, completato da McCoy
Tyner, pianoforte, Jimmy Garrison, contrabbasso, Elvin Jones, batteria. Il gruppo segna
una svolta nel percorso artistico di Trane, che prende coscienza del significato da dare alla
propria musica ed inizia una personale ricerca andando alle radici del jazz. John Coltrane,
dopo aver conosciuto il successo nel quintetto di Miles Davis, aspira all'universalità della
musica perché ognuno possa comprendere il suo messaggio. Da questo momento cessa
di essere soltanto un formidabile solista e diventa un importante innovatore, non solo del
jazz, ma di tutta la musica del secolo scorso. Studia la musica modale suonata in Africa,
India, Spagna e Cina. «A Love Supreme» rappresenta forse l’apice di questa ricerca.
Esempio mirabile di musica spirituale e meditativa, Acknowledgement è allo stesso tempo
una ballad dallo struggente lirismo, fra le migliori da lui mai scritte. Il quartetto, che con
questo disco sublima una sorta di “classicità”, aveva raggiunto a cavallo fra il 1964 ed il
1965 un affiatamento superlativo, confermandosi come uno dei più importanti gruppi di
tutta la storia del jazz. Ma qualcosa comincia presto a cambiare, poiché Trane rimane
colpito sia dagli sviluppi della musica di Albert Ayler che dalla prematura scomparsa
dell’amico Eric Dolphy. Prosegue quindi la sua ricerca di nuovi orizzonti verso un jazz
ancora più libero, ricerca che viene finalmente celebrata con «Ascension», grandioso
affresco collettivo del giugno 1965, di cui sono protagonisti ben undici musicisti. Alla fine
dell’anno Coltrane aggiunge quindi definitivamente al gruppo il sax tenore di un suo
giovane epigono, Pharoah Sanders, e nel 1966 sostituisce due pilastri del quartetto come
Elvin Jones e McCoy Tyner con, rispettivamente, il batterista Rashied Alì e la nuova
moglie, Alice McLeod, pianista, e che diventa quindi Alice Coltrane. Da un lato è un
cambiamento ineludibile, dall’altro una separazione per tutti dolorosa. Ma la parabola
artistica di John Coltrane è stata purtroppo davvero breve, venendo interrotta da una
morte inaspettata quanto prematura nel luglio del 1967, per un tumore al fegato. Soltanto
dopo la sua scomparsa il mondo del jazz realizza di aver perso con lui uno dei suoi
maestri più amati ed influenti, anche negli anni seguenti.

13) “Love Cry” (Albert Ayler)


Albert Ayler Quartet, agosto 1967
Donald Ayler (tromba), Albert Ayler (sax tenore), Alan Silva (contrabbasso), Milford Graves
(batteria)

Per qualcuno musicista un po’ naif, per qualche altro uno degli indiscussi maestri del jazz
moderno, il tenorsassofonista Albert Ayler, classe 1936, ha rappresentato una voce
davvero diversa nel panorama del free–jazz degli anni ’60. Il suono un po’ sporco,
l’accentuata vena lirica, le lunghe improvvisazioni sopra un tessuto ritmico–armonico
semplice ma anche molto libero, fanno il suo jazz diverso da quello di tutti gli altri uomini
del “free”, con l’unica eccezione forse rappresentata da Don Cherry. Nel 1963 Ayler
colpisce il mondo del jazz – che non lo conosceva ancora – suonando una musica molto
libera in trio con Gary Peacock, contrabbasso, e Sunny Murray, batteria. In quell’anno
viene incisa la celebre Ghosts, e nel 1964 ai tre jazzisti si aggiungerà il trombettista Don
Cherry. È però possibile comunque rintracciare nella musica di Albert Ayler e compagni
delle precise fondamenta che poggiano ancora sul jazz tradizionale, sui suoi trascorsi
nella banda dell’esercito ed anche sulle sue prime esperienze giovanili con gruppi di
rhythm & blues. Dopo la lunga e radicale avventura “free”, proprio l’album «Love Cry», da
cui è tratto il brano che gli dà il titolo, segnerà nel 1967 un’ulteriore svolta nel suo percorso
artistico, e negli ultimi due anni di vita il tenorsassofonista ritorna ad incidere una musica
molto più semplice e cantabile, che in taluni episodi sembra quasi commerciale, cui
vengono spesso aggiunti testi utopici in stile hippy, scritti e declamarti dalla sua fidanzata
Mary Maria Parks, sempre presente nelle ultime sue incisioni. Dall’omonimo album
Impulse è tratto questo brano, che ha una melodia ipnotica e fortemente suggestiva, in cui
Ayler (che sarebbe scomparso in circostanze misteriose il 25 novembre 1970) suona in
quartetto affiancato dal fratello Donald Ayler, tromba, Alan Silva, contrabbasso, e Milford
Graves, batteria. In verità Ayler non ha mai tralasciato un certo gusto lirico, anche se
spesso amava distorcere la melodia. Spesso nei suoi concerti seguiva i suoi brani uno
dopo l’altro, senza soluzione di continuità, in un flusso sonoro teso a cancellare ogni
distinzione fra tema ed improvvisazione. Il tenorsassofonista di Cleveland non ha ancora
ottenuto, nemmeno in questo millennio, un riconoscimento critico indiscusso, come
Coltrane e Coleman. Le sue invenzioni, pur influenzando molti maestri successivi,
rimangono altamente controverse, forse perché inserite dal loro autore in un sistema
musicale che nel suo insieme suona profondamente “primitivo”.

14) “It’s About the Time / In a Silent Way” (Miles Davis/Joe Zawinul)
Miles Davis Band, febbraio 1969
Miles Davis (tromba), Wayne Shorter (sax soprano), John McLaughlin (chitarra elettrica),
Joe Zawinul (organo), Herbie Hancock e Chick Corea (piano elettrico), Dave Holland
(contrabbasso), Tony Williams (batteria)

In «Miles in the Sky» e «Filles de Kilimanjaro», ultimi album dello storico quintetto
davisiano degli anni ’60 (completato da Herbie Hancock, Wayne Shorter, Ron Carter e
Tony Williams), ma che sono anche quelli della transizione verso il jazz–rock, vengono
introdotti per la prima volta la chitarra, il piano (Fender Rhodes) ed il basso elettrici. Nel
febbraio dell’anno successivo Miles riunisce in studio un gruppo completamente diverso
ed ancora più numeroso. Williams gli aveva presentato il giovane chitarrista inglese John
McLaughlin, che giusto un mese prima aveva finito di registrare In Gran Bretagna con
John Surman il suo album del debutto «Extrapolation», e che sarebbe sbarcato negli Stati
Uniti per suonare con il gruppo Lifetime, guidato dal batterista di Davis. Williams porta
McLaughlin a casa di Davis la sera prima dell'inizio della registrazione di «In a Silent
Way». Davis non aveva mai sentito nominare prima il chitarrista inglese, ma ne rimane a
tal punto impressionato da chiedergli di presentarsi in studio il giorno seguente.
McLaughlin si presenta così a questa storica seduta di registrazione con una splendida
Gibson Hummingbird, chitarra acustica amplificata con un pick–up, forse mai utilizzata
prima nel jazz, ed invece molto diffusa fra gli interpreti del folk–rock, soprattutto
californiano. I tastieristi diventano addirittura tre, con l’aggiunta a Hancock e Corea del
viennese Joe Zawinul, da qualche anno migrato a New York e pianista del gruppo dei
fratelli Adderley (Nat e Cannonball), per cui aveva scritto dei buoni successi dal sapore
soul, come Mercy, Mercy, Mercy (1966), che Davis ingaggia all’ultimo momento e di cui
comprende subito la sapienza compositiva, invitandolo a portare con sé della musica
originale. Zawinul regala a quella serie di registrazioni la splendida In a Silent Way, scelta
anche come titolo per un album leggendario, che avrebbe sancito in modo definitivo la
svolta elettrica del trombettista di Alton. Qui Miles Davis e Teo Macero, il suo produttore,
utilizzano al massimo le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, ed in particolare la
tecnica della post–produzione. Il gruppo registra liberamente molto materiale, che viene
quindi accuratamente selezionato e montato a posteriori in studio. Spesso il risultato finale
non è minimamente immaginabile dai musicisti che hanno partecipato alla seduta. Con un
montaggio che unisce tre episodi musicali differenti, nasce questo lungo brano, che

occupa l’intera facciata del vecchio Lp. Un’ultima considerazione va fatta sulla scelta dei
musicisti, otto in tutto (fra l’altro è straordinario pensare che Miles per produrre un simile
capolavoro abbia utilizzato dei musicisti conosciuti soltanto due o tre giorni prima, anche
se già ascoltati dal vivo). Potrebbe sembrare una scelta soltanto estetica, legata
all’ottenimento di certe sonorità (e certamente l’uso contemporaneo di tre tastiere
elettriche qualcosa in tal senso sta a significare), ma ci sembra opportuno precisare che
otto non sono solo i musicisti coinvolti, ma anche le tracce separate utilizzabili in quel
periodo per sfruttare al massimo le sempre più sofisticate tecniche di registrazione (era
freschissimo il passaggio nei più evoluti studi di registrazione dalle quattro alle otto tracce).
Musicalmente «In a Silent Way» è giocato, sotto il profilo scalare, sul modo misolidio, ma
la costruzione dei modi lascia anche un’apertura al dorico, svelando il sempre sotteso
carattere blues delle scelte improvvisative della tromba di Miles Davis.

15) “Miles Runs the Voodoo Down” (Miles Davis)


Miles Davis Band, agosto 1969
Miles Davis (tromba), Wayne Shorter (sax soprano), Bennie Maupin (clarinetto basso), Joe
Zawinul e Chick Corea (piano elettrico), John McLaughlin (chitarra elettrica), Dave Holland
e Harvey Brooks (basso), Don Alias e Jack DeJohnette (batteria), Jumma Santos (congas)

È un anno davvero magico il 1969 per Davis, visto che a pochi mesi da «In a Silent Way»
il Nostro registra un altro capolavoro, «Bitches Brew», un album doppio. Va ricordato che
nello stesso mese, solo qualche giorno prima, si era chiusa la leggendaria tre giorni di
Woodstock, che ha avuto fra i suoi eroi Jimi Hendrix, chitarrista ammirato da Miles. Non è
forse un caso che nel titolo di questo brano compaia la parola “voodoo”, visto che uno dei
brani più celebri di Hendrix era proprio Voodoo Child, registrato l’anno prima in studio
d’incisione, ma eseguita anche dal vivo a Woodstock. Anche se la musica di «Bitches
Brew» non è affatto rock, fatto salvo qualche passaggio solistico della chitarra di
McLaughlin (che passa dalla Gibson acustica ma amplificata di «In a Silent Way» ad una
ben più aggressiva Fender Mustang, proprio per cercare di proporre un suono che fosse il
più possibile hendrixiano), l’album – grazie anche ad una magnifica copertina, capolavoro
di arte grafica applicata alla musica – vende in pochi mesi moltissime copie, alla stregua
dei più celebri dischi pop del momento. Miles entra così finalmente in contatto con il
grande pubblico giovanile, e cambia radicalmente il proprio look, uniformandolo, senza

perdere per questo il suo stile, alla moda del momento. È stata decisiva in questo senso
anche l’influenza esercitata dalla sua compagna (poi moglie, ma il matrimonio durò
pochissimo) Betty Maubry (diventata poi Betty Davis), una buona cantante rhythm ‘n’ blues
amica sia di Hendrix che del gruppo Sly & The Family Stone, anche questo molto amato
da Davis. Su «Bitches Brew» sono stati scritti fiumi di inchiostro, specie dopo che la
Columbia ha pubblicato, nel 1998, i nastri completi di quelle memorabili sedute di
registrazione. Il gruppo risulta ancor più ampio di quello del disco precedente. Miles vi
aggiunge un fiato, Bennie Maupin, al clarinetto basso (che lo suona qui fra l’altro per la
prima volta, essendo un altosassofonista) – il cui timbro scuro e legnoso ben si amalgama
con il sax soprano di Shorter – un secondo bassista elettrico, un secondo batterista ed un
percussionista. Una delle perle di questa prolifica session è senza dubbio il suggestivo
blues di Miles Runs the Voodoo Down, giocato sull’equilibrio timbrico fra i vari membri del
gruppo, che nel suo carattere sospeso preannuncia lo stile dei Weather Report, che
Zawinul e Shorter, conclusa l’esperienza davisiana, di lì a poco avrebbero fondato.
Potendosi considerare anche questo brano, costruito sulla chiave di basso (Fa),
un’astrazione dello schema del blues, risulta possibile paragonarlo a It’s About the Time di
«In a Silent Way», anche se qui il materiale di base utilizzato sembra ancor più essenziale.
Ora bastano una tonalità, un semplice riff di basso ed una pulsazione ritmica lenta,
ossessiva, perché Davis ed il suo gruppo inventino una musica irresistibile, come poche
altre coinvolgente. Il battere lento ed uniforme di basso e batteria viene riempito
egregiamente dalle congas, ed il sinistro rimuginare del clarinetto basso si dispiega
raggiungendo il massimo effetto, senza che venga meno, con una resa oltremodo
suggestiva, quel clima di invocazione, di ritualità e di possessione, che sembra pervadere
tutto il disco, considerato non solo uno dei capolavori di Miles Davis, ma di tutto il jazz
moderno

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