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Il libro

M adeline Whittier è allergica al mondo. Soffre


infatti di una patologia tanto rara quanto nota,
che non le permette di entrare in contatto con
il mondo esterno. Per questo non esce di casa, non l’ha
mai fatto in diciassette anni. M ai un respiro d’aria
fresca, né un raggio di sole caldo sul viso. Le uniche
persone che può frequentare sono sua madre e la sua
infermiera, Carla.
Finché, un giorno, un camion di una ditta di traslochi
si ferma nella sua via.
M adeline è alla finestra quando vede... lui. Il nuovo
vicino. Alto, magro e vestito di nero dalla testa ai piedi:
maglietta nera, jeans neri, scarpe da ginnastica nere e un
berretto nero di maglia che gli nasconde completamente i
capelli. Il suo nome è Olly.
I loro sguardi si incrociano per un secondo. E anche
se nella vita è impossibile prevedere sempre tutto, in
quel secondo M adeline prevede che si innamorerà di lui.
Anzi, ne è sicura. Come è quasi sicura che sarà un
disastro. Perché, per la prima volta, quello che ha non le
basta più. E per vivere anche solo un giorno perfetto è
pronta a rischiare tutto. Tutto.

Bestseller n°1 del New York Times, e tuttora ai vertici


delle classifiche negli Stati Uniti a oltre un anno di
distanza dall’uscita, lo struggente e romantico romanzo
d’esordio di Nicola Yoon è in corso di pubblicazione in
38 Paesi, e presto arriverà nelle sale cinematografiche
l’omonimo film.

Noi siamo tutto è una storia dolce e commovente, un


libro destinato a diventare un cult.
L’autrice

è cresciuta in Giamaica e a Brooklyn.


N ICO L A Y O O N
Vive a Los Angeles, in California, con il marito e la figlia,
dei quali è follemente innamorata. Noi siamo tutto,
bestseller n°1 del New York Times, è il suo primo
romanzo.
www.nicolayoon.com
Instagram: @Nicolayoon
Tumblr: @nicolayoon
Twitter: @NicolaYoon
Nicola Yoon

NOI SIAMO TUTTO


Traduzione di Federica e Stefania M erani
A mio marito David Yoon, che mi ha svelato il mio cuore.
E alla mia intelligente e splendida figlia Penny, che l’ha
reso più grande.
LA STANZA BIANCA

HO letto molti più libri di voi. Per quanti possiate averne


letti, io ne ho letti di più. Credetemi. Ne ho avuto tutto il
tempo.
Nella mia stanza bianca, addossati alle mie pareti
bianche, sulle mie mensole di un bianco lucente, i dorsi
dei libri sono l’unica nota di colore. Sono volumi nuovi di
zecca con la copertina rigida, niente edizioni economiche
di seconda mano e piene di germi, per me. Mi arrivano
da fuori, decontaminati e incellofanati ermeticamente. Mi
piacerebbe proprio vederlo, il macchinario che compie
quest’operazione. Immagino che ciascun libro viaggi su
un nastro trasportatore bianco verso stazioni bianche e
rettangolari, dove bianchi bracci meccanici lo
spolverano, lo strigliano, lo cospargono di spray
antisettico o lo sterilizzano finché non risulta
sufficientemente pulito per arrivare a me. Quando mi
recapitano un nuovo libro, il mio primo compito è
rimuovere l’involucro, un procedimento che comporta
l’uso delle forbici e la rottura di più unghie. Dopodiché
scrivo il mio nome sulla seconda di copertina.

PROPRIET À DI: Made line W hit t ie r

Non so perché lo faccio. Qui non c’è nessuno tranne


mia madre, che non legge mai, e la mia infermiera, Carla,
che non ha tempo di leggere perché trascorre tutta la
giornata a guardarmi respirare. Raramente ricevo visite,
perciò non ho nessuno a cui prestare i libri. Nessuno a
cui ricordare che il libro dimenticato su uno scaffale di
casa sua appartiene a me.

RICOMPENSA IN CA SO DI RIT ROV A MENT O


(barrare t ut t e le case lle di int e re sse ):

Questa è la fase che richiede più tempo e che varia da


libro a libro. A volte le ricompense in palio sono
fantasiose:

Un picnic insieme a me (Madeline) tra i pollini di un


campo di papaveri, gigli e tageti a perdita d’occhio,
sotto un terso cielo estivo.
Un tè insieme a me (Madeline) in un faro nel bel
mezzo dell’oceano Atlantico nel bel mezzo di un
uragano.
Un’ora di snorkeling con maschera e boccaglio
insieme a me (Madeline) nelle acque dell’isola di
Molokini per avvistare il pesce simbolo dello Stato
delle Hawaii: l’Humuhumunukunukuapua’a.

Altre volte sono un po’ meno fantasiose:


Una visita insieme a me (Madeline) a una libreria
dell’usato.
Una passeggiata fuori insieme a me (Madeline), fino
in fondo all’isolato e ritorno.
Una breve conversazione con me (Madeline) su un
argomento a piacere, sul mio divano bianco nella
mia camera bianca.

Altre volte c’è un’unica ricompensa:


Me (Madeline).
SCID-UAZIONE CRITICA

LA mia patologia è tanto rara quanto famosa. Si tratta


della SCID, la sindrome da immunodeficienza combinata
grave, ma è conosciuta anche come «sindrome del
bambino nella bolla».
In poche parole, sono allergica al mondo. Qualunque
cosa può innescare l’acuirsi della malattia, che siano le
sostanze chimiche presenti nel detergente usato per
pulire il tavolo che ho appena toccato, il profumo di
qualcuno, le spezie esotiche nella pietanza che ho appena
mangiato. Possono entrare in gioco uno, tutti o nessuno
di questi fattori, oppure qualcosa di completamente
diverso. Nessuno conosce le cause scatenanti, ma tutti
conoscono le conseguenze. A detta di mia madre,
quand’ero molto piccola sono quasi morta, per cui la mia
è una situazione davvero critica. Non esco mai di casa,
non l’ho mai fatto in diciassette anni.
REGISTRO GIORNALIERO DELLO
STATO DI SALUTE
NUMERO DI RESPIRI PER MINUTO

TEMPERATURA DELLA STANZA


Gradi °C
STATO DEL FILTRO DELL’ARIA
E SPREMI UN DESIDERIO

«SERATA film, Pictionary d’onore o Club del libro?» mi


chiede la mamma mentre gonfia il manicotto per
misurarmi la pressione. Di tutte le nostre attività del
dopocena, però, non mi propone la sua preferita:
Scarabeo. Alzo lo sguardo e mi accorgo che sta già
ridendo con gli occhi.
«Scarabeo», rispondo.
A questo punto smette di pompare aria. Di solito è
Carla, la mia infermiera a tempo pieno, a misurarmi la
pressione e a compilare il registro giornaliero del mio
stato di salute, ma oggi la mamma le ha concesso una
giornata di libertà. È il mio compleanno, e io e la mamma
lo trascorriamo sempre insieme, noi due sole.
La osservo mentre indossa lo stetoscopio per
auscultare il mio battito cardiaco. Il suo sorriso svanisce,
sostituito da un’espressione più seria, da dottore. I suoi
pazienti la vedono quasi sempre così: leggermente
distaccata, professionale e molto attenta. Chissà se la
cosa li rincuora.
D’istinto le schiocco un bacetto sulla fronte per
ricordarle che sono solo io, la sua paziente preferita, sua
figlia.
Lei sorride e mi accarezza una guancia.
Nell’eventualità di nascere con una malattia che richiede
assistenza medica continua, avere la propria mamma
come dottore è una gran fortuna, parola mia.
Dopo qualche istante, mi rivolge la sua migliore
espressione in stile: sono-il-medico-e-sono-spiacente-di-
avere-brutte-notizie-da-darle. «Oggi è il tuo giorno
speciale. Che ne dici di scegliere un gioco che ti dia
qualche chance di vincere? Pictionary d’onore?»
Giocare in due al classico Pictionary è un po’ difficile,
perciò ci siamo inventate il Pictionary d’onore. Un
giocatore disegna qualcosa e l’altro, pena l’onore, è
tenuto a fare del proprio meglio per indovinare. Se ci
riesce, il punteggio viene assegnato all’avversario.
La fulmino con un’occhiata. «Giochiamo a Scarabeo,
e questa volta vinco io», ribadisco convinta, anche se
non ho un briciolo di speranza. In tutte le partite giocate
negli anni, non l’ho mai battuta. Nell’ultima ci sono
andata vicina, ma poi lei mi ha stracciato sul finale,
componendo la parola JEANS con delle lettere che
triplicavano il punteggio.
«D’accordo», scuote la testa fingendosi impietosita,
«come vuoi tu.» Dopodiché chiude gli occhi ancora
sorridenti per ascoltare i rumori dello stetoscopio.

Trascorriamo il resto della mattinata a preparare la mia


tradizionale torta di compleanno: pan di Spagna alla
vaniglia con glassa alla vaniglia. Dopo averla lasciata
raffreddare, ci spalmo sopra uno strato incredibilmente
sottile di glassa, appena sufficiente a ricoprirla. Quando
si tratta di dolci, sia io sia la mamma siamo tipe da
impasti, non da copertura. Come decorazione, sempre
con la glassa disegno sulla superficie diciotto margherite
con capolino e petali bianchi, e di lato realizzo un
drappeggio dello stesso colore.
«Perfetta», esclama la mamma spuntando da dietro
mentre termino l’opera. «Come te.»
Mi giro a guardarla: sfoggia un sorriso smagliante e
gonfio d’orgoglio, ma gli occhi sono lucidi di pianto.
«Come sei melodrammatica», commento, e le spruzzo
un ricciolo di glassa sul naso, con il solo risultato di farla
ridere e piangere ancora di più. Di solito non è così
emotiva, davvero, ma c’è qualcosa nel mio compleanno
che la rende sempre incline tanto alle lacrime quanto alle
risate. E se lei è tutta lacrime e risate, be’, lo sono
anch’io.
«Lo so», ammette alzando impotente le mani, «sono
patetica da fare schifo.» Mi stringe in un abbraccio
fortissimo, e la glassa mi finisce tra i capelli.
Di tutto l’anno, il giorno del mio compleanno è quello
in cui siamo entrambe più consapevoli della mia malattia.
Per via del fatto che prendiamo veramente coscienza del
tempo che passa. Un altro anno in cui sono stata malata,
senza nessuna speranza di una cura all’orizzonte. Un
altro anno in cui non ho vissuto le normali esperienze di
un’adolescente: la patente, il primo bacio, il ballo della
scuola, la prima delusione d’amore, il primo incidente di
poco conto. Un altro anno in cui mia madre non ha fatto
che lavorare e accudirmi. In qualsiasi altro giorno è facile
– o perlomeno più facile – non pensare a tutte le cose
che mi sto perdendo.
Quest’anno è un po’ più difficile del precedente.
Forse perché ne compio diciotto e, in teoria, sono
un’adulta. Dovrei andarmene di casa, partire per
l’università. Mia madre dovrebbe temere la cosiddetta
«sindrome del nido vuoto». E invece, a causa della mia
malattia, non andrò proprio da nessuna parte.

La sera, dopo cena, ricevo in dono dalla mamma un


bellissimo set di matite acquerellabili che volevo da mesi.
Ci spostiamo in salotto e ci sediamo a gambe incrociate
davanti al tavolino da caffè. Anche questo fa parte del
rituale di ogni compleanno: la mamma accende un’unica
candelina al centro della torta, io chiudo gli occhi ed
esprimo un desiderio, dopodiché soffio e la spengo.
«Che desiderio hai espresso?» mi domanda non
appena riapro gli occhi.
C’è una sola cosa che potrei realmente desiderare: una
cura magica che mi permetta di scorrazzare libera fuori
casa come un animale selvatico, ma non esprimo mai un
desiderio del genere, perché è impossibile. Sarebbe come
desiderare che sirene, draghi e unicorni esistessero
davvero. Così esprimo desideri che abbiano più
probabilità di realizzarsi. E meno di rattristarci entrambe.
«La pace nel mondo», dichiaro.

Dopo tre fette di torta, ci mettiamo a giocare a


Scarabeo. E io non solo non vinco, ma non ci arrivo
nemmeno vicina.
La mamma usa tutte e sette le tessere e compone la
parola CALESSE unendola alle lettere A, P e O.
«Cioè?» le domando.
«Apocalesse», risponde lei, con gli occhi
sbrilluccicanti.
«No, mamma. Non mi freghi. Questa non te la passo
proprio.»
«Oh, sì», si limita a replicare.
«Mamma, ci vuole una I al posto della penultima E.
Non mi freghi.»
«Apocalesse», ripete lei con fare teatrale, gesticolando
sul tabellone. «Funziona perfettamente.»
Contrariata, scuoto la testa.
«AP OCALESSE », insiste ancora scandendo le lettere.
«Oddio, sei davvero incorreggibile», le dico alzando le
mani al cielo in segno di resa. «Okay, okay, te la
concedo.»
«Sììì», esclama lei agitando il pugno in aria e ridendo
mentre annota il suo nuovo punteggio, ormai
insormontabile. «Tu non l’hai mai capito, questo gioco»,
mi spiega. «È tutta questione di persuasione.»
Mi taglio un’altra fetta di torta. «Qui non hai persuaso
proprio nessuno», protesto io. «Hai barato, ecco cosa.»
«Fa lo stesso», mi dice, ed entrambe scoppiamo a
ridere.
«Domani potrai rifarti con Pictionary d’onore»,
propone.
Dopo la mia disfatta, ci mettiamo sul divano a
guardare il nostro film preferito, Frankenstein Junior, un
altro dei rituali. Io le poggio la testa in grembo e lei mi
accarezza i capelli, e insieme ridiamo alle solite battute
che ci fanno ridere da anni nello stesso identico modo.
Tutto sommato, trascorrere così il proprio diciottesimo
compleanno non è affatto male.
TALE E QUALE

IL mattino dopo, sto leggendo sul mio divano bianco


quando vedo arrivare Carla.
«Feliz cumpleaños», cinguetta.
«Gracias», rispondo io, abbassando il libro.
«Com’è andata ieri?» domanda, e poi comincia a tirar
fuori l’occorrente dalla borsa medica.
«Ci siamo divertite.»
«Torta alla vaniglia con glassa alla vaniglia?»
«Certo che sì.»
«Frankenstein Junior?»
«Anche.»
«E hai perso al solito gioco?»
«Quanto siamo prevedibili, eh?»
«Oh, non far caso a quello che dico», replica lei
ridendo. «Sono soltanto invidiosa delle carinerie fra te e
tua madre.» Afferra il registro del mio stato di salute, dà
un’occhiata alle misurazioni effettuate ieri dalla mamma e
aggiunge un nuovo foglio al portablocco. «In questi
giorni a Rosa non posso chiedere nemmeno che ore
sono.»
Rosa è la figlia diciassettenne di Carla. A detta della
madre, erano molto unite prima che gli ormoni e i ragazzi
prendessero il sopravvento, cosa che nel caso mio e della
mamma non riesco neanche a immaginare.
Carla si siede accanto a me sul divano e io stendo il
braccio per infilarlo nel misuratore di pressione. Le cade
lo sguardo sul mio libro.
«Di nuovo Fiori per Algernon?» mi domanda. «Ma
non è quello che ti fa sempre piangere?»
«Un giorno non mi farà più questo effetto», rispondo.
«E voglio essere sicura di leggerlo proprio quando
succederà.»
Carla alza gli occhi al cielo e mi prende la mano.
È una risposta un po’ bislacca, è vero, ma può darsi
che un fondo di verità ci sia.
Forse spero ancora che un giorno, chissà quando, le
cose cambieranno.
LA VITA È BREVE™
RECENSIONI (CON SP OILER) DI MADELINE

FIORI PER ALGERNON DI DANIEL KEYES


Allarme spoiler: Algernon è un topo. Il topo muore.
INVASIONE ALIENA, PARTE SECONDA

SONO arrivata al punto in cui Charlie si rende conto che


il destino del topo potrebbe essere anche il suo, quando
sento un gran fracasso arrivare da fuori. Subito penso
allo spazio e immagino un’astronave madre sospesa nel
cielo sopra di noi.
La casa trema e i miei libri vibrano sulle mensole. Al
frastuono si unisce un costante bip-bip e capisco di che
si tratta. Un camion. Che si sarà semplicemente perso,
mi dico, per evitarmi la delusione. Avrà semplicemente
svoltato nella strada sbagliata mentre era diretto altrove.
Ma poi il motore si spegne. Le portiere si aprono e si
chiudono. Passa un istante, poi un altro, e infine una
melodiosa voce femminile esclama: «Un benvenuto a tutti
noi nella nostra nuova casa!»
Carla mi fissa per qualche secondo. So a che cosa sta
pensando.
Ci risiamo.
IL DIARIO DI MADELINE
IL COMITATO DI BENVENUTO

«CARLA , non succederà come l’ultima volta», la


rassicuro. Non ho più otto anni.
«Voglio che tu mi prometta…» esordisce lei, ma io
sono già alla finestra e scosto le tende.
Non sono preparata allo sfolgorante sole californiano.
Non sono preparata a trovarmelo davanti, alto, cocente e
bianco contro il bianco slavato del cielo. Resto accecata,
ma poi il velo bianco che mi offusca la vista comincia a
dissiparsi e tutto è circondato da un alone di luce.
Vedo il camion e la sagoma di una donna di una certa
età che caracolla da una parte all’altra: la madre. Vedo un
uomo di una certa età sul retro del camion: il padre. E
una ragazza forse un po’ più giovane di me: la figlia.
Alla fine vedo lui. È alto, magro e completamente
vestito di nero: maglietta nera, jeans neri, scarpe da
ginnastica nere e un berretto nero di maglia che gli
nasconde la capigliatura. Ha la pelle chiara, ravvivata da
una lieve abbronzatura color miele, e il viso duro e
spigoloso. Salta giù dal retro del camion, dov’era seduto,
e attraversa il vialetto come se volasse, come se su di lui
la gravità avesse un altro effetto. Si ferma, inclina la testa
da un lato e osserva la sua nuova casa quasi fosse un
rompicapo.
Dopo qualche istante inizia a saltellare sulle punte per
poi partire a tutta velocità e, letteralmente correndo,
scalare la facciata di un paio di metri. Si aggrappa al
davanzale di una finestra, si dondola per alcuni secondi e
infine lascia la presa, atterrando accovacciato.
«Niente male, Olly», commenta la madre.
«Non ti avevo detto di piantarla, con quei numeri?»
bofonchia il padre.
Ma lui li ignora entrambi e resta accovacciato.
Premo il palmo aperto contro il vetro. Ho il fiato
corto, come se a fare quell’assurda acrobazia fossi stata
io. Osservo prima lui, poi la facciata della casa, il
davanzale e di nuovo lui, che nel frattempo si è rialzato e
mi sta fissando. I nostri sguardi s’incrociano e io mi
chiedo che cosa veda nella mia finestra: una ragazza
stramba vestita di bianco con gli occhioni sbarrati. Mi
sorride e il suo viso non è più né duro né arcigno. Cerco
di sorridergli anch’io, però sono talmente confusa che
finisco per aggrottare la fronte.
IL MIO PALLONCINO BIANCO

LA notte sogno che la casa respira insieme a me. Espiro


e le pareti si restringono come un palloncino bucato, che
sgonfiandosi mi schiaccia. Inspiro e le pareti si
espandono. Ancora un ultimo respiro e finalmente,
finalmente la mia vita esploderà.
VIGILANZA DI QUARTIERE

ORARI DELLA MADRE

6.35 Esce sul portico con qualcosa di caldo da bere in


– una tazza fumante. Caffè?
6.36 Contempla il terreno vuoto di fronte a sé mentre
– sorseggia la sua bevanda. Tè?
7.00
Rientra in casa.

7.15 Riappare sul portico. Saluta il marito con un bacio.
– Lo guarda andarsene in macchina.
9.30 Si dedica al giardino. Cerca, trova ed elimina
– mozziconi di sigaretta.
13.00
Si allontana in macchina. Commissioni?

Supplica Kara e Olly di cominciare a sbrigare le
17.00
faccende domestiche «prima che torni vostro

padre».

ORARI DI KARA (LA SORELLA)


10.00 Esce zompando, con indosso stivali neri e
– accappatoio marrone sfilacciato.
10.01 Controlla i messaggi sul cellulare. Ne riceve
– tantissimi.
10.06 Fuma tre sigarette nel giardino che divide le nostre
– case.
10.20 Scava una buca con la punta dello stivale e
– seppellisce i resti delle sigarette.
10.25-17.00 – Spedisce messaggi o parla al telefono.
17.25
Faccende domestiche.

ORARI DEL PADRE

7.15
Va al lavoro.

18.00
Torna dal lavoro.

18.20
Si siede sul portico con bicchiere n. 1 in mano.

18.30
Rientra in casa per la cena.

19.00
Ricompare sul portico con bicchiere n. 2 in mano.

19.25
Bicchiere n. 3.

19.45 Comincia a sbraitare contro tutti.

22.35
Smette di sbraitare contro tutti.

ORARI DI OLLY

Imprevedibili.
VEDO, VEDO…

IN famiglia lo chiamano Olly. Be’, a chiamarlo così sono


la mamma e la sorella. Il padre lo chiama Oliver. La
persona che osservo più di tutti è proprio lui. La sua
camera è al primo piano, quasi dirimpetto alla mia, e ha
praticamente sempre le tapparelle alzate.
Certe mattine resta a letto fino a mezzogiorno. Altre
invece sparisce prima che io inizi la mia sorveglianza. La
maggior parte delle volte però si sveglia alle 9, esce dalla
finestra e si arrampica sul tetto stile Spiderman,
aggrappandosi al rivestimento esterno della casa. Ci
rimane all’incirca un’ora, per poi rientrare in camera
dondolandosi sul cornicione e infilando nella finestra
prima le gambe e poi il resto del corpo. Malgrado tutti i
miei sforzi, non sono riuscita a vedere che cosa fa
quando è là sopra.
Nella sua stanza non ci sono altro che un letto e un
comò. Vicino alla porta sono impilati alcuni scatoloni,
ancora intatti dopo il trasloco. Le pareti sono spoglie, c’è
solo il poster di un film intitolato Jump London. Ho
cercato informazioni e ho scoperto che è un
documentario sul parkour, una specie di ginnastica di
strada, il che spiega come sia capace di fare tutti quei
numeri pazzeschi. Più lo osservo, più cose voglio sapere
di lui.
«MENTEUSE»

MI sono appena seduta a tavola. La mamma mi poggia


un tovagliolo di stoffa sulle gambe e poi versa l’acqua nel
mio bicchiere e in quello di Carla. A casa mia, la cena del
venerdì sera è un momento speciale. Carla si trattiene
addirittura oltre l’orario di lavoro per mangiare con noi
invece che con la sua famiglia.
Alle cene del venerdì è tutto francese. I tovaglioli
sono di stoffa bianca, con dei gigli ricamati lungo i bordi.
Le posate finemente intarsiate sono di antiquariato
francese. Abbiamo persino saliera e pepiera d’argento, a
forma di Tour Eiffel in miniatura. Ovviamente dobbiamo
stare attente al menu per via delle mie allergie, ma la
mamma prepara sempre la sua versione del cassoulet,
uno stufato francese a base di pollo, salsicce, anatra e
fagioli bianchi. Era il piatto preferito di mio padre, prima
che morisse. La variante che mi cucina la mamma ha
come unico ingrediente i fagioli bianchi cotti nel brodo di
pollo.
«Madeline», esordisce la mamma. «Il professor
Waterman mi ha detto che sei indietro con il compito di
architettura. Va tutto bene, bambina mia?»
La sua domanda mi coglie di sorpresa. So di essere in
ritardo ma, dato che è la prima volta che mi succede,
non sospettavo che mi tenesse d’occhio.
«È troppo difficile?» insiste, servendomi impensierita
il cassoulet. «Vuoi che ti trovi un nuovo insegnante?»
«Oui, non et non», dico io per rispondere a ciascuna
delle sue domande. «È tutto a posto. Glielo consegno
domani, te lo prometto. Ho solo perso la cognizione del
tempo.»
La mamma annuisce e comincia a tagliarmi e
imburrarmi qualche fetta di croccante pane francese. So
che vuole chiedermi qualcos’altro, e so anche cosa, ma
ha paura della mia risposta.
«È per via dei nuovi vicini?»
Carla mi lancia un’occhiataccia. Alla mamma non ho
mai mentito. Non ne ho mai avuto motivo e non credo
nemmeno di sapere come si fa. Ma stasera qualcosa mi
dice che dovrei.
«Sto solo leggendo troppo. Sai com’è quando mi
capita un buon libro fra le mani.» Mi sforzo di usare un
tono più rassicurante possibile. Non voglio che si
preoccupi, le procuro già abbastanza pensieri.
Come si dice «bugiarda» in francese?
«Non hai fame?» mi chiede la mamma dopo qualche
minuto, appoggiandomi il dorso della mano sulla fronte.
«La febbre non ce l’hai», dichiara.
Sono sul punto di tranquillizzarla quando suonano alla
porta. Capita talmente di rado che non so proprio cosa
pensare.
Suonano di nuovo.
La mamma fa per alzarsi.
Carla la precede.
Alla terza scampanellata, sorrido senza motivo.
«Vuole che vada io, signora?» le domanda.
La mamma rifiuta con un gesto della mano e si rivolge
a me: «Tu resta qui».
Carla mi si piazza dietro, premendomi leggermente le
mani sulla spalla. So bene che dovrei restare dove sono.
È quello che si aspettano da me. E ovviamente me lo
aspetto anch’io. Ma oggi, non so perché, non ci riesco.
Devo sapere chi è, fosse anche uno scocciatore.
Carla mi afferra il braccio. «Tua madre ha detto di
restare qui.»
«Ma perché? Si fa troppi problemi. E poi non
permetterebbe a nessuno di oltrepassare la zona di
decontaminazione.»
Carla allenta la presa e io mi fiondo in corridoio con
lei alle calcagna.
La zona di decontaminazione è una stanzetta sigillata
tutt’intorno all’ingresso, provvista di una chiusura
ermetica per evitare che potenziali fattori di rischio
raggiungano il cuore della casa quando la porta è aperta.
Accosto l’orecchio alla parete. In un primo momento
non sento niente per via del rumore dei filtri dell’aria, ma
poi distinguo dei suoni.
«Mia mamma vi manda un ciambellone.» È una voce
profonda, vellutata e anche parecchio ironica. Il mio
cervello rimugina sulla parola ciambellone, cercando di
visualizzare l’aspetto del dolce in questione prima di
rendermi conto che a presentarsi alla nostra porta è lui.
Olly.

«Il problema dei ciambelloni di mia mamma è che non


sono un granché. Anzi, sono disgustosi. Praticamente
immangiabili, pressoché indistruttibili. Che rimanga fra
noi.»
Ed ecco un’altra voce. Di ragazza. Sua sorella? «Ogni
volta che ci trasferiamo ce ne fa portare uno ai vicini.»
«Ah. Bene. Una sorpresa, eh? Che gentile.
Ringraziatela tanto da parte mia, mi raccomando.»
Non c’è alcuna possibilità che il ciambellone abbia
superato i dovuti controlli, e sento che la mamma sta
cercando di trovare le parole adatte per rispedirlo al
mittente senza dover dire la verità su di me.
«Mi dispiace, ma non posso accettarlo.»
Segue un attimo di sbigottimento.
«Quindi vuole che ce lo riprendiamo?» domanda
esterrefatto Olly.
«Be’, ma è maleducazione», protesta Kara. È
arrabbiata e anche rassegnata, come se si fosse aspettata
una qualche delusione.
«Mi dispiace tanto», ripete la mamma. «È una
faccenda complicata. E io sono davvero dispiaciuta,
perché voi e vostra madre avete avuto un pensiero
squisito. Ringraziatela da parte mia, vi prego.»
«Sua figlia è in casa?» domanda Olly a voce alta
prima che lei possa chiudere la porta. «Speravamo che ci
facesse fare un giro nei dintorni.»
Il mio cuore accelera e pulsa contro la cassa toracica.
Ha appena chiesto di me? Nessun estraneo è mai passato
a trovarmi, prima d’ora. A eccezione della mamma, di
Carla e dei miei insegnanti, il mondo sa a malapena della
mia esistenza. Be’, online esisto, certo. Ho degli amici
virtuali e recensisco i libri che leggo su Tumblr, ma è ben
diverso dall’essere una persona reale, che può ricevere la
visita di strani ragazzi venuti a offrirci un ciambellone.
«Mi spiace tanto, ma non può. Benvenuti nel quartiere
e grazie ancora.»
La porta di casa si chiude e io indietreggio in attesa
che la mamma rientri. Deve restare nella zona di
decontaminazione per dare il tempo ai filtri di purificare
l’aria proveniente dall’esterno. Dopo un minuto, eccola
di ritorno. All’inizio non si accorge della mia presenza. È
in piedi, immobile, gli occhi chiusi e la testa leggermente
reclinata.
«Mi dispiace», dichiara senza alzare lo sguardo.
«Sto bene, mamma. Non preoccuparti.»
Per la millesima volta mi rendo conto di quanto la mia
malattia la limiti. Quello in cui vivo è l’unico mondo che
io abbia mai conosciuto, mentre prima di me lei aveva
mio fratello e mio padre. Viaggiava e giocava a calcio.
Conduceva un’esistenza normale, che non prevedeva di
dover trascorrere quattordici ore al giorno reclusa in una
bolla in compagnia della figlia adolescente.
La abbraccio e mi lascio abbracciare a mia volta
ancora per qualche istante. Lo spiacevole episodio di
stasera sta facendo molto più male a lei che a me.
«Mi farò perdonare», mi promette.
«Non hai niente da farti perdonare.»
«Ti voglio bene, cucciola.»
Tornate in salotto, finiamo di cenare alla svelta e in un
silenzio quasi totale. Carla se ne va e la mamma mi
chiede se voglio batterla a Pictionary d’onore, ma io mi
riservo la vittoria per un altro giorno. Stasera non sono in
vena.
Così salgo in camera, immaginando che sapore possa
avere un ciambellone.
«PIÈCE DE RÉJECTION»

ARRIVATA in camera, mi precipito alla finestra. Il padre è


tornato dal lavoro, però c’è qualcosa che non va perché
è arrabbiato e la sua rabbia aumenta ogni secondo di più.
Strappa il ciambellone dalle mani di Kara e lo scaglia con
forza contro Olly, ma lui è troppo veloce, troppo agile:
schiva il tiro e il dolce finisce per terra.
Sorprendentemente il ciambellone resta intatto, mentre
il vassoio si frantuma sul vialetto. Il padre s’imbestialisce
ancora di più.
«Pulisci. Pulisci subito», intima al figlio ed entra in
casa sbattendo la porta, con la moglie al seguito. Kara
scuote la testa e dice al fratello qualcosa che gli fa
incurvare le spalle. Per qualche istante lui resta lì, in
piedi, a fissare il ciambellone. Dopodiché scompare
dentro casa, per poi riapparire con in mano scopa e
paletta. Per raccogliere il vassoio rotto si prende tutto il
tempo, molto più del necessario.
Quando ha finito, si arrampica sul tetto portando con
sé il dolce e dovrò attendere un’altra ora prima di vederlo
rientrare in camera.
Io sono nascosta nel mio solito angolino dietro la
tenda. Tutt’a un tratto, decido di uscire allo scoperto,
così accendo le luci e torno alla finestra, senza nemmeno
fare il solito bel respiro. Tanto non servirebbe. Quando
scosto le tende, lui è già alla finestra. Mi fissa. Non
sorride. Non saluta con la mano. Anzi, abbassa la
tapparella.
SOPRAVVIVENZA

«PER quanto ancora girerai con quell’aria da cane


bastonato?» mi domanda Carla. «È tutta la settimana che
sei così.»
«Non ho l’aria da cane bastonato», replico io, anche
se un po’ è vero. Essere stata respinta da Olly mi ha fatto
tornare bambina. Mi ha ricordato perché a un certo
punto ho smesso di nutrire interesse per il mondo.
Però è difficile sforzarmi di riprendere il tran-tran
quotidiano, quando dall’esterno mi giunge ogni rumore
possibile. Mi accorgo di cose che prima notavo a
malapena. Sento il vento che sferza gli alberi. Sento il
chiacchiericcio mattutino degli uccelli. Vedo i rettangoli
di luce che filtrano dalle tapparelle e si spostano da una
parte all’altra della stanza con il trascorrere della
giornata, tanto che osservandone la posizione si può
capire che ora è. Per quanto cerchi di tenere fuori il
mondo, quello sembra voler entrare a tutti i costi.
«Sono giorni che leggi sempre le stesse cinque pagine
di quel libro», continua Carla, accennando con la testa
alla mia copia de Il Signore delle Mosche.
«Be’, è un libro orribile.»
«Credevo fosse un classico.»
«È comunque orribile. I ragazzini sono quasi tutti dei
mostri e non parlano che di andare a caccia e uccidere
maiali. Non ho mai avuto così tanta voglia di pancetta in
vita mia.»
Carla si lascia sfuggire una mezza risata. Poi si siede
sul divano con me e piazza le mie gambe sulle sue. «Su,
dimmi tutto.»
Io poso il libro e chiudo gli occhi. «Vorrei solo che se
ne andassero», le confesso. «Prima era più facile.»
«Che cosa?»
«Non lo so. Essere quello che sono. Essere malata.»
Carla mi afferra una gamba. «Adesso apri bene le
orecchie. Tu sei la persona più forte e coraggiosa che io
conosca. E non provare a contraddirmi.»
«Carla, non c’è bisogno che tu…»
«Zitta e ascolta. È da un po’ che ci penso. Mi sono
accorta di quanto ti pesi questa nuova situazione, ma
sono sicura che te la caverai.»
«Io non ne sono tanto convinta.»
«Tranquilla. Il mio parere basta per tutte e due. Sono
quindici anni che trascorriamo le giornate insieme in
questa casa, perciò so quello che dico. Quando ho
iniziato a prendermi cura di te, ho pensato che presto
saresti caduta in depressione. E c’è stato un momento,
quella famosa estate, in cui ci sei andata vicina, ma alla
fine non è successo. Ogni giorno ti alzi e impari qualcosa
di nuovo. Ogni giorno trovi qualcosa che ti rende felice.
E ogni singolo giorno mi regali un sorriso. Ti preoccupi
più di tua madre che di te stessa.»
Credo di non averle mai sentito dire così tante cose
tutte insieme.
«La mia Rosa», riprende, ma poi si blocca, appoggia
la schiena al divano e chiude gli occhi in preda a
un’emozione che non riesco a cogliere. «La mia Rosa
avrebbe qualcosina da imparare da te. Le do tutto quello
che posso e lei è convinta di non avere niente.»
Sorrido. Carla si lamenta di sua figlia, ma secondo me
è lei che la vizia a dismisura.
Riapre gli occhi e qualunque turbamento la affliggesse
è ormai svanito. «Ecco, vedi, di nuovo quel sorriso.» Mi
dà un colpetto sulla gamba. «La vita è dura, tesoro. Ma
tutti trovano il modo di andare avanti.»
LA VITA È BREVE T M
RECENSIONI (CON SP OILER) DI MADELINE

IL SIGNORE DELLE MOSCHE DI WILLIAM


GOLDING
Allarme spoiler: I ragazzi sono dei selvaggi.
PRIMO CONTATTO

PASSANO due giorni e metto da parte l’aria da cane


bastonato. Adesso che ignorare i vicini mi riesce meglio,
da fuori sento provenire un tintinnio. Sono seduta sul
divano, ancora impantanata ne Il Signore delle Mosche,
anche se grazie al cielo l’ho quasi finito. Ralph è sulla
spiaggia in attesa di una morte violenta. Sono così
ansiosa di arrivare alla conclusione per poter leggere
qualcosa di diverso, qualcosa di più allegro, che ignoro il
rumore. Qualche attimo dopo avverto un altro tintinnio,
questa volta più forte. Poso il libro, tendo l’orecchio e in
rapida successione mi arrivano il terzo, il quarto e il
quinto tintinnio. C’è qualcosa che batte contro il vetro.
Grandine? Prima di riuscire a raccapezzarmi balzo in
piedi e scosto le tende.
La finestra di Olly è spalancata, le tapparelle sono
alzate e le luci della stanza spente. L’indistruttibile
ciambellone è poggiato sul davanzale e sfoggia un paio di
occhi finti che guardano dritti verso di me. Lo vedo
tremare e poi sporgersi in avanti, come per valutare la
distanza che lo separa dal suolo. Poi si ritrae e trema di
nuovo. Cerco di individuare Olly nella penombra della
sua camera, quando la ciambella si lancia giù e precipita
nel vuoto.
Mi si mozza il respiro. Possibile che il dolce si sia
appena suicidato? Allungo il collo per capire che fine ha
fatto, ma fuori è troppo buio.
Proprio allora un fascio di luce lo illumina. Incredibile,
il ciambellone è ancora intatto. Ma di che cosa è fatto?
Forse è un bene che non ci siamo azzardate a mangiarlo.
La luce si spegne e io sollevo lo sguardo appena in
tempo per scorgere un guanto nero – la mano di Olly – e
una torcia scomparire oltre la finestra. Resto immobile
per qualche minuto e osservo, in attesa che lui
ricompaia, ma niente da fare.
SECONDA SERA

ST O per infilarmi nel letto quando i tintinnii ricominciano.


Ho deciso di ignorare quel ragazzo e lo faccio.
Qualunque cosa voglia, io non posso. Quindi è meglio
non saperlo.
Ecco perché non vado alla finestra né quella sera né la
sera successiva.
QUARTA SERA

NON lo sopporto più. Sbircio da uno spiraglio della


tenda.
Il ciambellone è di nuovo sul davanzale, mezzo
bendato e incerottato. Di Olly nessuna traccia.
QUINTA SERA

IL ciambellone è su un tavolo vicino alla finestra.


Accanto ci sono un bicchiere da cocktail pieno di un
liquido verde, un pacchetto di sigarette e un flacone di
pillole con l’etichetta raffigurante un teschio con le ossa
incrociate. Che sia un altro tentativo di suicidio?
Di Olly ancora nessuna traccia.
SESTA SERA

IL ciambellone è adagiato su un lenzuolo bianco. Una


bottiglia di plastica rovesciata contenente dell’acqua
penzola sopra il dolce, attaccata a una specie di
appendiabiti. Dalla bottiglia pende una cordicella che
somiglia al tubicino di una flebo. Compare Olly con
indosso camice bianco e stetoscopio. Osserva
pensieroso il ciambellone e cerca di auscultarne il battito.
Mi viene da ridere, ma mi trattengo. Olly alza lo sguardo
e scuote la testa con aria grave. Chiudo le tende
soffocando un sorriso e me ne vado.
SETTIMA SERA

HO detto a me stessa che non mi affaccerò e invece,


appena sento il primo tintinnio, mi fiondo alla finestra.
Olly indossa un accappatoio nero e ha un’enorme croce
d’argento al collo. Sta impartendo l’estrema unzione al
ciambellone.
A questo punto non mi trattengo più e rido, rido, rido.
Lui alza gli occhi e fa altrettanto. Poi tira fuori un
pennarello nero dalla tasca e scrive sul vetro:
PRIMO CONTATTO, PARTE SECONDA

Da: Madeline F. Whittier


A: utentegenerico033@gmail.com
Oggetto: Ciao
Inviata il: 4 giugno, ore 20.03

Ciao. Presumo che dovremmo cominciare dalle presentazioni.


Mi chiamo Madeline Whittier, si capisce anche dal mio indirizzo
email. E tu come ti chiami?
Madeline Whittier
P.S. Non hai niente di cui scusarti.
P.P.S. Di che cosa è fatto quel ciambellone?

Da: utentegenerico033
A: Madeline F. Whittier <madeline.whittier@gmail.com>
Oggetto: RE: Ciao
Inviata il: 4 giugno, ore 20.07

se non hai ancora scoperto come mi chiamo sei una pessima


spia madeline whittier. la scorsa settimana io e mia sorella
abbiamo cercato di incontrarti, ma tua madre non ne ha voluto
sapere. di che cosa è fatto il ciambellone non ne ho proprio
idea. sassi?

Da: Madeline F. Whittier


A: utentegenerico033@gmail.com
Oggetto: RE: RE: Ciao
Inviata il: 4 giugno, ore 20.11

Ciao,
Ricetta del ciambellone

3 tazze di miscela cementizia 00


1 tazza e ¼ di segatura fine
1 tazza di ghiaino (di diametro vario, per un risultato migliore)
½ cucchiaino di sale
1 tazza di colla vinilica
1 panetto di burro non salato
3 cucchiaini di acquaragia
4 uova grandi (a temperatura ambiente)
PREPARAZIONE

Preriscaldare il forno a 180 °C.


Ungere uno stampo da ciambellone

Per l’impasto:

1. In una ciotola di media grandezza, unire miscela


cementizia, sale e ghiaino.
2. In una ciotola grande sbattere burro, colla v inilica,
acquaragia e uov a. Non lav orare troppo l’impasto.
3. A ggiungere poco alla v olta gli ingredienti secchi
continuando a mescolare.
4. Versare a cucchiaiate il composto nello stampo.
5. Cuocere in forno finché lo stuzzicadenti inserito nel
dolce non ne v orrà più sapere di uscire. Far
raffreddare nello stampo su una griglia.

Per la glassa:

1. Sbattere insieme segatura e acqua quanto basta per


ottenere una glassa non troppo densa.
2. A dagiare griglia e dolce su un pezzo di carta da forno
(per facilitare le operazioni di pulizia).
3. Versare a filo la glassa sul ciambellone e lasciarla
solidificare prima di serv ire.

(Numero di porzioni: 0)
Madeline Whittier
P.S. Non sono una spia!
PRIMO CONTATTO, PARTE TERZA

Mercoledì, ore 20.15

Olly: stavo per rispondere alla tua email, ma poi ho


visto che eri online. la tua ricetta mi ha fatto
sbellicare dalle risate. si è mai vista in tutta la
storia dello spionaggio una spia che abbia
ammesso di esserlo? direi di no. mi chiamo Olly e
sono lieto di conoscerti.
Olly: la f sta per?
Madeline: Furukawa. Mia mamma è una
nippoamericana di terza generazione. Quindi io
sono mezza giapponese.
Olly: e l’altra mezza?
Madeline: Afroamericana.
Olly: ce l’hai un soprannome madeline furukawa
whittier o devo chiamarti madeline furukawa
whittier?
Madeline: Mi chiamano tutti Madeline. Qualche
volta la mia mamma mi chiama tesoro o cucciola.
Valgono, come soprannomi?
Olly: no certo che no. nessuno ti chiama emme o
maddy o mad o maddy-mad-mad-mad? allora
scelgo io.
Olly: diventeremo amici.

Giovedì, ore 20.19

Madeline: Visto che saremo amici, ho un po’ di


domande da farti: Da dove venite? Perché non
ti togli mai il berretto? La tua testa ha per caso
una forma strana? Perché ti vesti sempre e solo
di nero? E, a proposito: te l’hanno detto che i
vestiti li fanno anche di altri colori? Se ti occorre
posso darti qualche dritta. Che cosa fai sul
tetto? Che tatuaggio hai sul braccio destro?
Olly: e io ho un po’ di risposte da darti: veniamo da
un sacco di posti, ma soprattutto dalla east
coast. prima che ci trasferissimo qui mi sono
rapato a zero (grave errore). sì. il nero mi dà
un’aria terribilmente sexy. sì. non mi occorre,
grazie. niente. un codice a barre
Madeline: Cos’hai contro le maiuscole e l’uso
corretto della punteggiatura?
Olly: e chi dice che ce l’ho con loro
Madeline: Devo andare. Scusami!

Venerdì, ore 20.34

Olly: allora che punizione ti sei beccata?


Madeline: Non sono in punizione. Cosa te lo fa
pensare?
Olly: be’ ieri sera qualcosa ti ha fatto disconnettere
alla velocità della luce. scommetto che è stata
tua madre. fidati sono un esperto di punizioni. e
poi non esci mai di casa. da quando siamo arrivati
non ti ho mai visto fuori
Madeline: Mi dispiace. Non so che dirti. Non sono
in punizione, ma non posso uscire.
Olly: come sei misteriosa. sei un fantasma? è quello
che ho pensato il giorno in cui ci siamo trasferiti
e ti ho visto alla finestra. e con la fortuna che mi
ritrovo la ragazza carina della porta accanto non
è nemmeno viva e vegeta
Madeline: Prima ero una spia e ora sono un
fantasma!
Olly: non sei un fantasma? allora una principessa
delle fiabe. cenerentola? se esci di casa ti
trasformi in una zucca?
Olly: oppure raperonzolo? hai i capelli abbastanza
lunghi. se li sciogli mi ci arrampico e vengo a
salvarti
Madeline: Ho sempre pensato che fosse scomodo
e anche doloroso, non ti pare?
Olly: sì. quindi non sei cenerentola e non sei
neanche raperonzolo. allora biancaneve. la
matrigna cattiva ti ha fatto un incantesimo per
cui non puoi uscire di casa e il mondo non saprà
mai quanto sei bella
Madeline: In realtà la storia non è così. Lo sapevi
che nella versione originale non c’era una
matrigna, ma una madre cattiva? L’avresti mai
detto? E non c’erano nemmeno i nani.
Interessante, no?
Olly: decisamente no
Madeline: Non sono una principessa.
Madeline: E non ho bisogno di essere salvata.
Olly: fa niente. tanto io non sono un principe
Madeline: Davvero mi trovi carina?
Olly: per essere una spia-fantasma-principessa delle
fiabe? decisamente sì

Sabato, ore 20.01

Olly: com’è che non ti connetti mai prima delle 8 di


sera?
Madeline: Fino a quell’ora di solito non sono sola.
Olly: c’è qualcuno che sta tutto il giorno con te?
Madeline: Possiamo evitare di parlarne, per
favore?
Olly: stranissima, molto stranissima madeline
whittier

Domenica, ore 20.22

Olly: facciamo un gioco. le prime cinque cose


preferite che ti vengono in mente. libro parola
colore vizio persona
Olly: dai dai. più veloce donna. non pensare digita
e basta
Madeline: Sta’ un po’ zitto. Il Piccolo Principe.
Stravedere. Acquamarina. Non ho vizi. La mia
mamma.
Olly: qualche vizio ce l’hanno tutti
Madeline: Non io. Perché? Tu quanti ne hai?
Olly: abbastanza da sapere qual è il mio preferito
Madeline: Okay, tocca a te.
Olly: stessa lista?
Madeline: Sì.
Olly: il signore delle mosche, macabro, nero,
rubare argenteria, mia sorella
Madeline: Oh. Il Signore delle Mosche? Credo che
non potremo più essere amici. Quel libro è
mostruoso.
Olly: che ha di tanto mostruoso?
Madeline: Tutto!
Olly: non ti piace semplicemente perché è vero
Madeline: Vero cosa? Che lasciati a noi stessi ci
ammazzeremmo a vicenda?
Olly: sì
Madeline: Ne sei così convinto?
Olly: sì
Madeline: Be’, io no. Decisamente no.
Madeline: Rubi sul serio l’argenteria?
Olly: dovresti vedere la mia collezione di cucchiai

Lunedì, ore 20.07

Olly: che cosa hai combinato per meritarti una


simile punizione?
Madeline: Non sono in punizione e non mi va di
parlarne.
Olly: c’entra qualche ragazzo?
Olly: sei rimasta incinta? il ragazzo ce l’hai?
Madeline: Oddio, ma tu sei pazzo! Non sono
incinta e non ho il ragazzo! Per chi mi hai preso?
Olly: per una ragazza misteriosa
Madeline: Hai passato tutto il giorno a sospettare
che fossi incinta?
Madeline: È così?
Olly: diciamo che l’idea mi ha attraversato la mente
una magari due o anche quindici volte
Madeline: Da non crederci.
Olly: non vuoi sapere se io ce l’ho la ragazza?
Madeline: No.

Martedì, ore 20.18

Madeline: Ciao.
Olly: ciao
Madeline: Non ero sicura di trovarti online stasera.
Stai bene?
Olly: sì
Madeline: Che cosa è successo? Perché era così
arrab​b iato?
Olly: non so di che cosa stai parlando
Madeline: Di tuo padre, Olly. Perché era così
infuriato?
Olly: tu hai i tuoi segreti. io i miei
Madeline: Okay.
Olly: okay

Mercoledì, ore 3.31


Olly: non riuscivi a dormire?
Madeline: No.
Olly: neanch’io. le prime cinque cose preferite film
cibo parte del corpo materia
Madeline: In realtà sono quattro. E poi è troppo
tardi per giocare. Non sono in grado di pensare.
Olly: sto aspettando
Madeline: Orgoglio e pregiudizio – la versione della
BBC –, pane tostato, mani, architettura.
Olly: cavolo. esisterà una ragazza su questo
pianeta che non sia innamorata del signor darcy
Madeline: Sono tutte innamorate del signor
Darcy?
Olly: vuoi scherzare? persino mia sorella è cotta di
lui e lei non prova niente per nessuno.
Madeline: Dovrà pur provare dei sentimenti per
qualcuno. Di sicuro a te vuole bene.
Olly: che cos’ha di tanto speciale questo darcy?
Madeline: È una domanda del tutto priva di senso.
Olly: è uno snob
Madeline: Ma poi smette di esserlo e alla fine si
accorge che il carattere conta più della classe
sociale! È un uomo disposto a imparare le lezioni
della vita! E poi è un vero schianto e in più è
nobile, tenebroso, profondo e poetico. Che è
uno schianto l’ho detto? E poi è follemente
innamorato di Elizabeth.
Olly: eh, però
Madeline: Già.
Olly: tocca a me?
Madeline: Prego.
Olly: Godzilla, pane tostato, occhi, matematica. un
momento, per parte del corpo preferita si
intende di se stessi o di qualcun altro?
Madeline: E che ne so! La lista l’hai fatta tu.
Olly: ah già. d’accordo, vada per gli occhi
Madeline: I tuoi di che colore sono?
Olly: azzurri
Madeline: Sii più preciso, grazie.
Olly: cavolo. voi ragazze. blu oceano
Madeline: Atlantico o Pacifico?
Olly: atlantico. e i tuoi?
Madeline: Color cioccolato.
Olly: più precisa grazie
Madeline: Color cioccolato fondente al 75 per
cento.
Olly: eh-eh. non male
Madeline: Siamo ancora a quattro, però. Ci vuole
un’altra cosa.
Olly: a te la scelta
Madeline: Forma poetica.
Olly: presumendo che io ne abbia una preferita
Madeline: Non sei mica un bifolco.
Olly: limerick
Madeline: Sei un bifolco. Farò finta che tu non
l’abbia detto.
Olly: cosa c’è che non va in un bel limerick?
Madeline: «Bel limerick» è una contraddizione in
termini.
Olly: e la tua preferita qual è?
Madeline: L’haiku.
Olly: gli haiku fanno schifo. non sono altro che
limerick meno divertenti
Madeline: Sei appena stato declassato da bifolco a
blasfemo.
Olly: messaggio ricevuto
Madeline: Okay. Meglio che vada a dormire.
Olly: okay anch’io

Giovedì, ore 20.00

Madeline: Non l’avrei mai detto che la tua materia


preferita fosse matematica.
Olly: e perché?
Madeline: Non lo so. Ti arrampichi sugli edifici e
salti sui davanzali. La maggior parte delle persone
è dotata o fisicamente o intellettualmente, mai
le due cose insieme.
Olly: è un modo carino per dirmi che secondo te
sono scemo?
Madeline: No! Voglio dire che… Non lo so cosa
voglio dire.
Olly: vuoi dire che sono troppo sexy per essere
bravo in matematica. be’, okay. me lo dicono in
tante
Madeline: …
Olly: è solo questione di esercizio come per ogni
altra cosa. devi sapere che due scuole superiori
fa facevo le gare di matematica. Hai una
domanda di probabilità e statistica? sono il tuo
uomo
Madeline: No!
Olly: sì!
Madeline: Davvero sexy.
Olly: ti sento poco sincera
Madeline: No!
Olly: sì!
Madeline: :) Allora farai le gare di matematica
anche alla San Fernando Valley High School?
Olly: mi sa proprio di no
Olly: mio padre mi ha costretto a smettere. voleva
che facessi qualcosa di più macho tipo il football
Madeline: Giochi a football?
Olly: no. mi ha fatto smettere le gare di
matematica, ma non è riuscito a convincere
l’allenatore a inserirmi nella squadra a metà
stagione. alla fine ha lasciato perdere
Madeline: E se ci riprovasse adesso?
Olly: adesso gli è un po’ più difficile costringermi a
fare quello che vuole, rispetto a due anni fa
Olly: sono più stronzo. e anche più grosso
Madeline: Non sembri uno stronzo.
Olly: non mi conosci ancora così bene

Venerdì, ore 3.03

Madeline: Sei di nuovo sveglio.


Olly: già
Madeline: So che non ti va di parlarne.
Olly: però
Madeline: Ho visto quello che è successo oggi.
Tua mamma sta bene?
Olly: sì sta bene. non è la prima volta. e non sarà
l’ultima
Madeline: Oh, Olly.
Olly: poche scene per favore
Olly: raccontami qualcosa, una cosa qualunque.
che mi faccia ridere
Madeline: Okay. Perché il ragazzo ci rimane di
stucco quando si vede spuntare il sedano dalle
orecchie?
Olly: perché?
Madeline: Perché ci aveva piantato il granturco!
Madeline: Ehi, c’è nessuno?
Olly: oh cavolo. non è una gran barzelletta
Madeline: Però ti ha fatto ridere.
Olly: già è vero
Olly: grazie
Madeline: Non c’è di che.

Sabato, ore 20.01

Olly: a quanto pare non riuscirò a incontrarti finché


non inizia la scuola
Madeline: Io non vado a scuola.
Olly: vuoi dire che non frequenti la SFV High? e
allora dove vai?
Madeline: Voglio dire che non frequento un
normale istituto, ma una scuola online.
Olly: perché?
Madeline: Non posso proprio dirtelo.
Olly: e dai. a questo punto ti devi sbottonare un
po’
Madeline: Voglio la tua amicizia. Non voglio farti
pena.
Olly: tu spara. Resteremo amici comunque
Madeline: Sono malata.
Olly: malata quanto?
Madeline: Tanto. Malata tipo che non posso uscire
di casa.
Olly: cavolo
Olly: stai morendo?
Madeline: Non in questo preciso istante, no.
Olly: a breve?
Madeline: Se uscissi, sì.
Olly: okay.
Olly: siamo ancora amici. non mi fai pena
Madeline: Grazie.
Olly: e con la scuola come fai?
Madeline: Seguo tutte le lezioni da casa via
Skype. Mi assegnano compiti, verifiche e
votazioni. C’è un sacco di gente che lo fa.
Olly: però. fico
Olly: ci hai mai fatto caso che molti dei finalisti alla
gara nazionale di spelling studiano a casa?
Madeline: No, non l’avevo mai notato.
Olly: ormai va di moda
Olly: mi piacerebbe incontrarti di persona
Madeline: Anche a me.
Madeline: Okay, adesso devo andare.
Olly: allora vai
Olly: sei sempre lì?
Madeline: Sì.
Olly: vieni alla finestra
Madeline: Ora? Ma sono in camicia da notte!
Olly: mettiti la vestaglia. e vieni alla finestra così ti
posso vedere
Madeline: Okay, arrivo. Buonanotte, Olly.
Olly: buonanotte maddy
IL GELATO DEGLI ASTRONAUTI

«ARRIVA il professor Waterman», mi annuncia Carla


dalla porta mentre sto finalmente dando gli ultimi ritocchi
al mio plastico per il corso di architettura. Per riuscire a
finirlo ho dovuto tagliar corto con Olly per due sere di
seguito. Non voglio che la mamma si preoccupi ancora.
Il compito assegnatomi dal professor Waterman
consisteva nel progettare un complesso di negozi e
ristoranti nel mio stile preferito. E io ho scelto l’Art déco,
perché gli edifici di quel genere sembrano alzarsi in volo,
anche se in realtà sono ben piantati per terra.
Il fulcro della mia creazione è un’area relax all’aperto,
con un prato punteggiato da enormi sedie dalla forma
bizzarra, decorate con un motivo a zigzag dai colori
vivaci. Ho già «piantato» delle palmette finte e ora sto
piazzando strategicamente qua e là degli omini di plastica
che trasportano sacchettini di plastica, così da conferire
«forza vitale» al progetto, come direbbe il professor
Waterman.
In due anni di corso l’ho incontrato di persona solo
un paio di volte, perché normalmente tutte le lezioni,
comprese quelle di architettura, si svolgono via Skype.
Ma la mamma ha voluto fare un’eccezione. Secondo me
è ancora dispiaciuta per la visita di Kara e Olly, un paio di
settimane fa. Io le ho detto che non aveva motivo di
sentirsi in colpa, ma non è servito. Quando qualcuno mi
viene a trovare è un vero e proprio affare di Stato,
perché deve acconsentire alla verifica dei propri
precedenti clinici e a uno scrupoloso controllo medico,
nonché a un processo di decontaminazione, che è un po’
come farsi investire da un getto d’aria compressa per
un’oretta buona. Venire a trovarmi è proprio una
seccatura.
Il professor Waterman entra trafelato in camera,
pimpante ma irrequieto, come Babbo Natale il giorno
della Vigilia, appena prima di partire per il viaggio
dell’anno. Il processo di decontaminazione l’ha
infreddolito, perciò si frega le mani e ci soffia sopra per
scaldarle.
«Madeline», esordisce contento battendo i palmi l’uno
contro l’altro. È il mio insegnante preferito, perché non
mi tratta mai con commiserazione e ama l’architettura
quanto la amo io. Se da grande dovessi fare qualcosa,
sceglierei di diventare architetto.
«Salve, professor Waterman.» Sorrido impacciata,
non sapendo bene come comportarmi con chi non è
Carla o la mamma.
«Dunque, vediamo un po’», esordisce lui, con gli
occhi grigi che sbrilluccicano.
Posiziono gli ultimi due minuscoli clienti accanto a un
negozio di giocattoli e mi faccio da parte.
Il professor Waterman comincia a girare intorno al
plastico, un po’ sorridendo e un po’ aggrottando la
fronte, e facendo strani versi dall’inizio alla fine.
«Be’, mia cara, hai superato te stessa. È un gran bel
lavoro!» esclama drizzando la schiena. Sta per darmi una
pacca sulla spalla, ma poi si trattiene. Non gli è permesso
toccarmi. Così scuote leggermente la testa e si china di
nuovo per osservare meglio il plastico.
«Già, già, proprio un gran bel lavoro. Ci sono solo un
paio di cosette da discutere. Ma prima, dimmi un po’,
dov’è nascosto il nostro astronauta?»
Quando realizzo un nuovo progetto, modello sempre
un astronauta di creta e lo nascondo nel plastico. Ogni
astronauta è diverso dai precedenti. Questa volta è in
tenuta spaziale completa, con tanto di casco a chiusura
ermetica e grosso serbatoio d’ossigeno, ed è seduto al
bancone di un diner davanti a un’enorme quantità di
cibo. Ho riprodotto in miniatura coppe di banana split,
pile di pancake ai mirtilli, uova strapazzate, pane tostato
con burro e marmellata, pancetta, milk shake (alla
fragola, al cioccolato e alla vaniglia), cheeseburger e
patatine fritte. Mi sarebbe piaciuto farle a ricciolo, ma
non avendone avuto il tempo, mi sono dovuta
accontentare di quelle normali.
«Eccolo lì!» esclama il professor Waterman. Poi fa di
nuovo qualche strano verso e si gira a guardarmi. I suoi
occhietti allegri sono un po’ meno allegri del solito. «È
una meraviglia, mia cara. Ma come farà a mangiare tutte
quelle leccornie con il casco in testa?»

Guardo un’altra volta il mio astronauta. Non mi era


neanche passato per la testa che gli venisse voglia di
mangiare.
TUTTO È UN RISCHIO

CARLA mi sorride come se sapesse qualcosa che io non


so. Lo fa da stamattina, ogni volta che mi crede distratta.
E poi continua a cantare Take a Chance on Me degli
ABBA, il suo gruppo musicale preferito in assoluto. È
stonata da far paura. Dovrò chiedere a Olly che
probabilità ci sono che non azzecchi nemmeno una nota.
Non dovrebbe imbroccarne almeno una, anche solo per
puro caso?
Sono le 12.30 e ho mezz’ora per mangiare prima della
lezione di storia online. Non ho fame, però. Ormai non
sento quasi più il bisogno di mangiare. A quanto pare un
organismo può nutrirsi unicamente di chiacchiere
virtuali.
Carla è soprappensiero, così apro la mia casella di
posta di Gmail. Da ieri sera ho già ricevuto tredici
messaggi da Olly. Me li ha mandati tutti intorno alle 3 di
notte, e naturalmente ha omesso l’oggetto. Ridacchio e
scuoto la testa.
Vorrei leggerli, muoio dalla voglia di farlo, ma con
Carla in camera devo stare attenta. Le lancio un’occhiata
e la becco a fissare le mie sopracciglia alzate. Che sappia
qualcosa?
«Cosa c’è di tanto interessante su quel portatile?» mi
domanda. Oddio. Certo che sa.
Accosto ancora di più la sedia alla scrivania e piazzo il
panino sul computer.
«Niente», rispondo addentando il sandwich. È
martedì, il giorno del tacchino.
«Altro che niente. Su quello schermo c’è qualcosa
che ti fa ridere.» Mi si avvicina con un sorriso che va da
un orecchio all’altro. Gli occhi marroni le si increspano
agli angoli.
«È un video sui gatti», replico con la bocca piena di
tacchino. Ops, scelta infelice. Carla va matta per i video
sui gatti. È convinta che sia l’unica cosa per cui valga la
pena navigare su Internet, infatti mi si piazza dietro e
allunga le mani per toccare il computer. Io lascio cadere
il panino e mi stringo il portatile al petto. Come bugiarda
non valgo granché, così le dico la prima cosa che mi
viene in mente. «Non ti conviene guardarlo, Carla. È
brutto, il gatto muore.»
Ci fissiamo per qualche istante, sbalordite e senza
parole. Io sono sbalordita perché sono un’idiota e non mi
capacito di aver detto una simile fesseria e Carla è
altrettanto sbalordita perché sono un’idiota e non si
capacita che io abbia detto una simile fesseria. Le cade
letteralmente la mascella, come nei fumetti, e i suoi
occhioni rotondi si fanno ancora più grandi e rotondi.
Dopodiché si china in avanti, si dà una pacca sul
ginocchio e scoppia a ridere come non l’ho mai sentita
fare in vita mia. Chi è che ride schiaffeggiandosi il
ginocchio?
«Vuoi dirmi che non hai trovato scusa migliore di
quella di un gatto morto?» E riattacca a ridere.
«Allora lo sai.»
«Be’, anche se non l’avessi saputo, adesso l’avrei
capito di sicuro.» E giù altre risate e altra pacca sul
ginocchio. «Oh, ti saresti dovuta vedere!»
«Non è poi così divertente», brontolo, seccata per
essermi fatta scoprire.
«Dimentichi che a casa ne ho un’altra come te.
Quando Rosa ne combina una delle sue, io me ne
accorgo sempre. E poi tu, signorina so-tutto-io, non
riesci proprio a fare le cose di nascosto. Ti vedo che
controlli l’email e guardi dalla finestra sperando che lui ci
sia…»
Rimetto il computer sulla scrivania. «Allora non sei
arrabbiata con me?» le chiedo sollevata.
Lei mi porge il panino. «Dipende. Perché non me l’hai
detto?»
«Non volevo che ti preoccupassi all’idea che sarei
stata di nuovo triste.»
«Devo preoccuparmi?» ribatte lei dopo avermi
scrutato a lungo.
«No.»
«Allora non mi preoccuperò», mi rassicura,
scostandomi i capelli dalle spalle. «E adesso mangia.»
QUINDICI MINUTI DOPO

«MAGARI potrebbe venire a trovarmi?»


La mia domanda mi sorprende, ma a Carla non fa né
caldo né freddo. Non smette nemmeno di spazzar via
dalla libreria il velo di polvere inesistente.
«Voi adolescenti siete tutti uguali. Vi si dà un dito e vi
prendete tutto il braccio.»
«È un no?» le chiedo.
Mi guarda e ride.
DUE ORE DOPO

CI riprovo. «Sarebbe questione di mezz’ora. Lo


potremmo decontaminare come il professor Waterman e
poi…»
«Ti ha dato di volta il cervello?»
ALTRI DIECI MINUTI DOPO

«UN quarto d’ora?»


«No.»
ANCORA PIÙ TARDI

«T I prego, Carla…»
Lei taglia corto. «E io che credevo fossi tranquilla.»
«Infatti. Sono tranquilla. Voglio solo incontrarlo…»
«Non possiamo sempre ottenere ciò che
desideriamo», ribatte lei con voce piatta, dalla quale
intuisco che si tratta della classica frase che usa con la
figlia. Mi accorgo anche che si è pentita di averlo detto
proprio a me, ma nonostante questo non apre più bocca.

A fine giornata, è sulla porta della mia camera sul


punto di uscire quando tutt’a un tratto si ferma. «Lo sai
che non mi piace dirti di no. Sei una brava ragazza.»
Vedo aprirsi uno spiraglio e parto in quarta. «Una volta
decontaminato, si siederebbe dalla parte opposta della
stanza, lontano, lontanissimo da me e solo per quindici
minuti. Trenta al massimo.»
Carla scuote la testa, ma con poca convinzione. «È
troppo rischioso. E tua madre non acconsentirebbe mai.»
«Ma noi non glielo diremo», replico io d’istinto.
Mi lancia un’occhiata severa e amareggiata. «Per voi
ragazze è davvero così facile mentire alle vostre
mamme?»
A QUELLI CHE ASPETTANO

CARLA non tira più fuori l’argomento fino a due giorni


più tardi, poco dopo pranzo.
«Allora, ascoltami bene. Vietato toccarsi. Tu te ne stai
dalla tua parte e lui dalla sua. Ho fatto lo stesso
discorsetto pure a lui.»
Anche se sento le parole che mi sta dicendo, non ne
comprendo il significato.
«Che cosa vuoi dire? Vuoi dire che è qui? È già qui?»
«Tu stai dalla tua parte e lui dalla sua. Vietato toccarsi.
Ci siamo capite?»
No, ma annuisco lo stesso.
«Ti sta aspettando in veranda.»
«Decontaminato?»
Dalla faccia sembra voler dire: ma per chi mi hai
preso?
Mi alzo, mi siedo, mi rialzo.
«Oh, gesummio. Vai a darti una sistemata, svelta. Vi
concedo venti minuti al massimo.»
Il mio stomaco non si limita alle capriole, ma fa i salti
mortali da un’altezza vertiginosa e senza rete. «Com’è
che hai cambiato idea?»
Lei mi si avvicina, mi afferra il mento e mi guarda
negli occhi così a lungo da mettermi a disagio. Mi
accorgo che sta passando al vaglio tutto quello che
vorrebbe dirmi.
Alla fine se ne esce con un’unica frase: «Qualcosa di
speciale te lo meriti».
Ecco come fa Rosa a ottenere tutto ciò che desidera:
le basta chiederlo a quella cuore tenero di sua madre.

Vado allo specchio per «darmi una sistemata». Ho


quasi dimenticato che aspetto ho, visto che non
trascorro molto tempo a specchiarmi. Che bisogno c’è di
farlo, quando non hai contatti con nessuno? Mi piace
pensare di essere un mix equilibrato di mia madre e mio
padre. La calda tonalità della mia pelle scura è il risultato
della combinazione fra la carnagione leggermente
olivastra di lei e il bruno più carico di lui. I miei capelli
sono vaporosi, lunghi e ondulati, non ricci come quelli di
mio padre, ma nemmeno lisci come quelli di mia madre.
Persino gli occhi sono un miscuglio perfetto: né asiatici
né africani, ma una via di mezzo.
Distolgo lo sguardo e poi getto di nuovo un’occhiata
allo specchio, per cogliermi alla sprovvista e ottenere
un’immagine più fedele di me stessa, cercando di vedere
ciò che vedrà Olly. Provo a ridere e poi sorrido, prima
scoprendo i denti e poi no. Mi esercito persino a mettere
su il broncio, anche se spero che non avrò motivo di
farlo.
Carla osserva le mie pagliacciate, divertita e perplessa
allo stesso tempo. «Quasi mi ricordo di quando avevo la
tua età», mi dice.
Invece di girarmi, rispondo al suo riflesso nello
specchio. «Ne sei proprio convinta? Non credi più che
sia troppo rischioso?»
«Vuoi farmi cambiare idea?» ribatte, per poi
avvicinarsi e poggiarmi una mano sulla spalla. «Tutto è
un rischio. Si rischia anche a non far niente. La decisione
spetta a te.»
Esamino la mia stanza bianca con il mio divano
bianco, mensole e pareti bianche, tutto innocuo, familiare
e sempre identico a se stesso.
Poi penso a Olly, infreddolito dalla decontaminazione e
in attesa di incontrarmi.
È l’esatto contrario di tutto il resto. Non è innocuo.
Non è familiare. Ed è in continuo movimento.
È il rischio più grande che io abbia mai corso.
FUTURO ANTERIORE

Da: Madeline F. Whittier


A: utentegenerico033@gmail.com
Oggetto: Futuro anteriore
Inviata il: 10 luglio, ore 12.30

Quando leggerai quest’email ci saremo già incontrati.


E sarà stato perfetto.
OLLY

LA veranda è la mia stanza preferita. È quasi tutta di


vetro: tetto di vetro e vetrate da terra fino al soffitto che
si affacciano sul prato dietro casa, perfettamente curato.
Somiglia al set di un film ambientato in una foresta
pluviale, piena com’è di finte piante tropicali, realistiche e
dall’aspetto rigoglioso. Un tripudio di palme da cocco,
banani carichi di frutti finti e fiori di ibisco altrettanto
finti. C’è persino un ruscelletto gorgogliante che la
attraversa, ma non ci sono pesci, non veri almeno. Gli
arredi sono in vimini, bianchi e vecchiotti, come se
fossero sciupati dal sole. E, dato che l’idea è quella di
ricreare un giardino tropicale, la mamma tiene acceso un
ventilatore che diffonde una brezza un po’ troppo calda.
Di solito è una stanza che adoro perché posso
immaginare di veder scomparire i vetri e di trovarmi
finalmente fuori. Ma ci sono giorni in cui mi sento come
un pesce in un acquario.
Al mio arrivo, Olly è già riuscito a scalare metà delle
rocce della parete di fondo, mani e piedi incastrati nelle
fessure tra le pietre. Quando entro, ha tra le dita
un’enorme foglia di banano.
«Non è un albero vero», mi dice.
«Non è un albero vero», dico io nello stesso
momento.
Olly lascia andare il ramo ma resta attaccato alla
parete. Per lui arrampicarsi è come per noi camminare.
«Hai intenzione di rimanere lassù?» gli domando,
perché non so che altro dire.
«Ci sto pensando, Maddy. La tua infermiera mi ha
raccomandato di starti il più lontano possibile, e non mi
pare il tipo di signora che accetta di essere mandata a
quel paese.»
«Puoi scendere», lo tranquillizzo. «Carla non è poi
così tremenda come sembra.»
«Okay.» Scivola senza alcuno sforzo fino a terra,
infila le mani in tasca, incrocia i piedi all’altezza delle
caviglie e appoggia la schiena contro la parete. Credo di
non averlo mai visto così immobile, forse sta cercando
di non spaventarmi.
«Ti converrà entrare» mi dice, al che mi accorgo che
sono ancora sulla soglia, con la mano sulla maniglia.
Chiudo la porta senza levargli gli occhi di dosso. Anche
lui segue i miei movimenti con lo sguardo.
Con tutti i messaggi che ci siamo scambiati finora ero
convinta di conoscerlo, ma adesso che me lo trovo
davanti mi fa tutto un altro effetto. È più alto di quanto
credessi e molto più muscoloso, ma non grosso. Le
braccia sono magre e scolpite e i bicipiti riempiono tutta
la manica della maglietta nera. Ha la pelle abbronzata, di
un color bruno dorato. Calda al tatto, probabilmente.
«Sei diverso da come mi aspettavo», confesso senza
pensarci.
Lui mi fa un gran sorriso, e sotto l’occhio destro gli
compare una fossetta.
«Lo so. Più sexy, no? Tranquilla, puoi anche
dirmelo.»
Comincio a sghignazzare. «Ma come fai a portarti
dietro un ego così ingombrante?»
«Sono i muscoli», controbatte, gonfiando i bicipiti e
alzando comicamente un unico sopracciglio.
Un po’ del mio nervosismo svanisce, ma ritorna non
appena lui, senza aprir bocca, mi osserva ridere per
qualche secondo di troppo.
«Hai i capelli lunghissimi», commenta. «E non mi
avevi detto delle lentiggini.»
«Perché, avrei dovuto?»
«Potrebbero anche mandare tutto all’aria.» Sorride e
la fossetta ricompare. Carino.
Mi avvicino al divano e mi siedo. «Sono la piaga della
mia esistenza», replico, riferendomi alle lentiggini. Una
cosa ridicola da dire perché, in realtà, la piaga della mia
esistenza è la malattia che mi costringe in casa. Ce ne
rendiamo conto entrambi nello stesso momento e
scoppiamo a ridere di nuovo.
«Sei buffa», mi dice quando ci calmiamo.
Io sorrido. Non ho mai pensato di essere buffa, ma
sono contenta che lui mi veda così.
Segue qualche istante d’imbarazzo in cui non
sappiamo più che cosa dire. Se ci stessimo scrivendo al
computer, il silenzio sarebbe molto meno opprimente e
potremmo attribuirlo a una serie di distrazioni. Mentre
ora, nella vita reale, è come se avessimo tutti e due sopra
la testa la classica nuvoletta bianca dei fumetti. Nella mia
qualcosa c’è scritto, ma non posso certo confessargli
quanto sono belli i suoi occhi. Aveva proprio ragione:
sono blu oceano Atlantico. Ed è strano perché
ovviamente lo sapevo già, il colore. Ma la differenza fra
sapere e vedere con i propri occhi è la stessa che c’è fra
sognare di volare e volare per davvero.

«Che stanza assurda!» commenta dopo un po’ Olly


guardandosi intorno.
«Già. L’ha voluta così la mamma, per darmi
l’impressione di essere fuori.»
«E funziona?»
«Quasi sempre. Ho una fervida immaginazione.»
«Sei proprio uscita da una fiaba. La principessa
Madeline e il castello di vetro.» Ammutolisce di nuovo,
come se si stesse sforzando di raccogliere le idee.
«Chiedi pure, se vuoi», lo tranquillizzo.
Al polso ha un bracciale di gomma nero e, prima di
proseguire, lo tende un paio di volte con le dita. «Da
quant’è che sei malata?»
«Da tutta la vita.»
«E cosa succederebbe se uscissi?»
«Mi esploderebbe la testa. Oppure i polmoni. O il
cuore.»
«Come fai a scherzare?…»
«Come faccio a non scherzare? E poi, cerco di non
desiderare le cose che non posso avere», rispondo con
un’alzata di spalle.
«Sembri un maestro Zen. Dovresti tenere un corso.»
«Imparare richiede molto tempo», replico sorridente.
Olly si accovaccia e poi si siede, schiena alla parete,
avambracci sulle ginocchia. Anche se è fermo, è
evidente che ha voglia di muoversi.
Quel ragazzo è energia cinetica allo stato puro.
«In quale posto ti piacerebbe andare più di tutti?» mi
domanda.
«A parte lo spazio?»
«Sì, Maddy, a parte lo spazio.» Adoro il modo in cui
pronuncia il nome Maddy, come se mi chiamasse così da
sempre.
«Sulla spiaggia. Sulla riva dell’oceano.»
«Vuoi che te lo descriva?»
Annuisco con più convinzione di quanto avessi
previsto e sento il cuore accelerare, come se stessi
facendo qualcosa di proibito.
«Ho visto delle foto e dei video, ma che effetto fa
trovarsi realmente nell’acqua? È come fare il bagno in
una vasca gigantesca?»
«Diciamo di sì», risponde lentamente, riflettendoci.
«Anzi, no, ritiro quello che ho detto. Fare il bagno nella
vasca è rilassante.
Nell’oceano invece te la fai sotto. È bagnato, freddo,
salato e letale.»
Non era certo ciò che mi aspettavo. «Odi l’oceano?»
Sorride. «No, non lo odio. Lo rispetto.»
Punta un dito verso l’alto e prosegue, accalorato:
«Rispetto. È la massima espressione di Madre Natura:
maestoso, bellissimo, distaccato, micidiale. Pensaci un
po’: tutta quell’acqua e potresti comunque morire di sete.
E l’unica funzione delle onde è quella di risucchiarti i
piedi per farti annegare più in fretta. L’oceano ti inghiotte
e poi ti sputa fuori senza essersi nemmeno accorto della
tua presenza».
«Oddio, ti terrorizza proprio!»
«Per non parlare degli squali bianchi, dei coccodrilli
marini, dell’aguglia indonesiana o…»
«Okay, okay», lo interrompo, ridendo e alzando le
mani in segno di resa.
«Non sto scherzando», continua lui fingendosi serio,
«l’oceano ti uccide.» Mi strizza l’occhio. «A quanto pare
Madre Natura è uno schifo di mamma.»
Sono troppo impegnata a ridere per rispondergli.
«Allora, che altro vuoi sapere?»
«Dopo quello che mi hai appena detto? Niente!»
«Su, forza. Sono un pozzo di scienza.»
«Okay, fammi uno dei tuoi numeri pazzeschi.»
In un batter d’occhio è già in piedi e osserva la stanza
con occhio critico. «Qui non c’è abbastanza spazio.
Usciamo…» e si blocca di colpo. «Oh, merda, scusami,
Maddy.»
«Smettila», lo rimprovero scattando dal divano con la
mano sollevata. «Non compatirmi.» So di essere stata
brusca, ma è una cosa troppo importante. Non
sopporterei di essere commiserata da lui.
Olly tira con le dita il suo bracciale di gomma,
annuisce e lo lascia andare. «Posso fare la verticale su un
braccio solo.»
Si allontana dalla parete e si protende in avanti fino a
ritrovarsi a testa in giù, con un movimento così agile e
aggraziato che per un attimo sono rosa dall’invidia. Che
effetto farà fidarsi ciecamente del proprio corpo e delle
sue reazioni?
«Incredibile», sussurro.
«Non siamo mica in chiesa», risponde lui con voce
strozzata.
«Non so perché, ma mi viene naturale parlare piano.»
Olly non dice altro. Chiude gli occhi, solleva con
lentezza la mano sinistra dal pavimento e tende il braccio
di lato, verso l’esterno, restando quasi del tutto
immobile.
Il suo respiro leggermente ansante e il sommesso
gorgoglio dell’acqua sono gli unici rumori che si sentono
nella stanza. La maglietta gli scivola giù scoprendo i
muscoli contratti dell’addome e l’abbronzatura calda e
dorata della pelle. Distolgo lo sguardo.
«Okay, può bastare», gli dico.
In un batter d’occhio si rimette in piedi.
«Che altro sai fare?»
Si frega le mani e sfodera un gran sorriso. Dopo aver
fatto una capriola all’indietro, si siede di nuovo contro la
parete e chiude gli occhi.
«Allora, perché lo spazio come prima meta?» mi
domanda.
Alzo le spalle. «Mi piacerebbe vedere il mondo,
credo.»
«Una maniera un po’ insolita di vederlo, però», replica
lui sorridente.
Annuisco e chiudo anch’io gli occhi. «Ti senti mai
come…» comincio a dire, ma poi la porta si apre e Carla
entra di gran carriera per far sloggiare Olly.
«Non vi siete toccati, vero?» domanda, i pugni sui
fianchi.
Olly e io apriamo gli occhi e ci guardiamo. Tutt’a un
tratto sono fin troppo cosciente del suo corpo e del mio.
«Nemmeno sfiorati», conferma lui senza smettere di
fissarmi. Qualcosa nel suo tono di voce mi fa arrossire
come un peperone, e il calore si irradia lentamente su
tutto il viso e il petto.
L’autocombustione è un fenomeno reale.
Ne sono sicura.

DIAGNOS I

RHOPALOCERITE IS TERICA ADDOMINALE (RIA)


La condizione di avere una o più farfalle monarca insediate nello
stomaco.

CHI È AFFETTO DA RIA?


La malattia colpisce almeno un’adolescente americana ogni 30
secondi.

S INTOMI

Nausea
Tachicardia
Difficoltà di concentrazione
Stomaco che fa le capriole
Sensazione di stordimento

CAUS E
La RIA è in genere scatenata dal contatto con l’oggetto dei
propri desideri. I sintomi si manifestano non solo durante, ma
anche prima e dopo il contatto. Nei casi più gravi, il solo
evocare l’oggetto dei desideri può scatenare la sintomatologia
tipica. Associata all’incapacità di smettere di pensare al
suddetto oggetto, la malattia [continua a leggere]
PROSPETTIVE

IL mattino dopo, prima che arrivi Carla, trascorro tredici


minuti esatti a letto, convinta di sentirmi male, e lei
impiega sei minuti esatti per convincermi del contrario.
Mi misura temperatura, pressione e battito cardiaco, per
poi dichiarare che sono semplicemente malata d’amore.
«Sono i classici sintomi», dichiara.
«Ma io non sono innamorata. Non posso esserlo.»
«E perché no?»
«Che senso avrebbe?» protesto stizzita e alzo le mani.
«Io innamorata sarei come un critico gastronomico
senza le papille gustative. O come un pittore daltonico. O
come…»
«Una che nuota da sola senza il costume addosso.»
Non posso fare a meno di ridere. «Già. Non avrebbe
senso.»
«Un senso ce l’avrebbe, invece», replica lei con lo
sguardo serio. «Il fatto che tu non possa vivere tutte le
esperienze non significa che non debba viverne neanche
una. E poi, gli amori impossibili fanno parte della vita.»
«Non sono innamorata», le ripeto.
«Se è per questo non stai nemmeno male», ribatte lei.
«Quindi non c’è proprio niente di cui preoccuparsi.»

Per il resto della mattinata sono troppo distratta per


leggere o fare i compiti. Anche se Carla mi ha assicurato
che non sto male, mi ritrovo a prestare un’attenzione
eccessiva al mio corpo e alle sensazioni che mi
trasmette. Mi formicolano le dita? È una cosa che mi
capita molto spesso? Perché ho l’impressione di avere il
fiatone? Quanti salti mortali può fare lo stomaco prima di
annodarsi irreparabilmente? Chiedo a Carla di
ricontrollare i miei parametri vitali, e i risultati sono tutti
nella norma.
Il pomeriggio finisco per ammettere che forse Carla ci
ha azzeccato. La mia non sarà proprio una cotta bell’e
buona, ma una cottarella sì. E piuttosto grave, anche.
Vago senza meta per casa e vedo Olly dappertutto. Lo
vedo in cucina, che prepara montagne di pane tostato per
cena. Lo vedo in salotto, che condivide con me la
sofferta lettura di Orgoglio e pregiudizio. Lo vedo in
camera, vestito di nero da capo a piedi e addormentato
sul mio divano bianco.
E non vedo solo Olly, ma continuo anche a
immaginare il mio corpo che fluttua sopra la Terra. Dai
confini dello spazio abbraccio con lo sguardo il mondo
intero e i miei occhi non sono costretti a fermarsi davanti
a un muro o a una porta. Vedo l’inizio e la fine del tempo.
Dal mio punto d’osservazione vedo l’infinito.
Per la prima volta dopo tanto, quello che ho non mi
basta più.
IL PAESE DELLE MERAVIGLIE

È IL desiderio a riportarmi bruscamente a terra.


Il desiderio mi terrorizza. È come un’erbaccia che si
diffonde lentamente, tanto che nemmeno te ne accorgi, e
in men che non si dica corrode ogni tua superficie e ti
oscura le finestre.
Spedisco a Olly un’unica email. Questo fine settimana
ho un sacco da fare, gli dico. Devo riuscire a dormire un
po’, aggiungo. Ho bisogno di concentrazione, concludo.
Spengo il computer, lo stacco dalla presa e lo seppellisco
sotto una pila di libri. Carla mi guarda alzando un
sopracciglio a mo’ di domanda e io la guardo abbassando
due sopracciglia a mo’ di non risposta.
Trascorro quasi tutto il sabato fra i tormenti del
calcolo infinitesimale. La matematica è la materia che
meno mi piace e in cui sono meno brava. Può darsi che
fra le due cose ci sia un nesso. La sera mi metto a
rileggere la versione commentata e illustrata di Alice nel
Paese delle Meraviglie. A malapena mi accorgo di Carla
che, a fine giornata, prepara le sue cose per andare a
casa.
«Avete litigato?» mi chiede, accennando con il capo al
mio portatile.
Io nego scuotendo la testa, ma non dico nemmeno
una parola.

Arriva domenica e la smania di controllare l’email non


mi dà pace. Immagino la cartella della posta in arrivo
straripante di messaggi senza oggetto da parte di Olly. Mi
starà proponendo di nuovo il gioco delle prime cinque
cose preferite? Cercherà un po’ di compagnia, un porto
sicuro in cui trovare riparo dalla sua famiglia?
La sera, prima di andarsene, Carla mi dice: «È tutto
okay». Quando mi schiocca un bacio sulla fronte, ritorno
di colpo bambina.
Mi siedo sul mio divano bianco in compagnia di Alice.
Carla ha ragione, ovviamente. È vero che è tutto okay,
eppure anch’io, proprio come Alice, sto tentando di non
perdermi. Continuo a pensare all’estate in cui ho
compiuto otto anni. Quando me ne stavo con la fronte
schiacciata contro il vetro della finestra, facendomi
soltanto del male con i miei vani desideri. All’inizio mi
accontentavo di guardare dalla finestra. Ma poi ho
cominciato ad aver voglia di uscire. E di giocare con i
bambini del vicinato, con tutti i bambini del mondo. Di
essere normale per un pomeriggio soltanto, e poi per un
giorno, e poi per il resto della vita.
E allora. Non controllo le email. Di una cosa sono
certa: i desideri generano solo altri desideri. Non c’è fine
al desiderio.
LA VITA È BREVE T M
RECENSIONI (CON SP OILER) DI MADELINE

ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE DI LEWIS


CARROLL
Allarme spoiler: Guardatevi dalla Regina di Cuori o
perderete la testa.
CIÒ CHE NON UCCIDE FORTIFICA

NON ho ricevuto nessuna email di Olly. Nemmeno una.


Ho guardato persino nella posta indesiderata. La cosa
non dovrebbe turbarmi e infatti non mi turba. Non più di
tanto, insomma. Per fugare ogni dubbio, ricontrollo tre
volte nel giro di un paio di secondi. Magari la sua email è
nascosta da qualche parte, in coda a un’altra.
Carla entra in camera proprio mentre sto per
ricaricare la posta in arrivo.
«Non l’avrei mai detto che saresti riuscita a
disseppellire quel coso», esordisce.
«Buongiorno anche a te», replico, scrutando
attentamente lo schermo.
Lei sorride e comincia il suo rito quotidiano: tirare
fuori l’occorrente dalla borsa medica. Perché la porti via
con sé tutte le sere è un mistero.
«Com’è che sei così imbronciata? Un altro video di
un gatto morto?» Mi rivolge un ampio sorriso a denti
scoperti, che fa molto «gatto del Cheshire». Da un
momento all’altro il suo corpo svanirà lasciandosi dietro
solo una fluttuante testa che ride.
«Olly non mi ha mandato neanche un’email.»
Esterrefatta è la parola giusta per descrivere la sua
espressione.
«In tutto il fine settimana», aggiungo, tanto per
chiarire.
«Capisco», commenta lei, mettendosi lo stetoscopio
nelle orecchie e ficcandomi il termometro in bocca.
«Ma tu gli hai scritto?»
«Scì», bofonchio scansando il termometro con la
lingua.
«Non parlare, fai soltanto di sì con la testa.»
Annuisco.
Carla alza gli occhi al cielo e aspettiamo tutte e due il
bip.
«Trentasette e sei», dichiaro restituendole il
termometro. «In poche parole, gli ho detto di non
scrivermi. Sono ridicola?»
Carla mi fa girare dall’altra parte per auscultarmi i
polmoni, ma non risponde.
«Quanto ridicola?» la incalzo. «In una scala da uno a
dieci, dove uno sta per totalmente assennata e giudiziosa
e dieci sta per scriteriata e matta da legare.»
«Intorno all’otto», ribatte senza esitazione.
Mi sarei aspettata un dodici, perciò otto mi sembra già
una vittoria. Glielo dico e lei si fa una risata.
«Quindi gli hai chiesto di non scriverti e lui non l’ha
fatto, mi pare di capire.»
«Be’, non gli ho scritto esplicitamente non cercarmi a
caratteri cubitali o roba del genere. Gli ho solo detto che
avevo da fare.» Ho il sospetto che mi prenderà in giro, e
invece non lo fa.
«Perché non gli hai scritto tu, allora?»
«Per quello di cui abbiamo parlato. Quel ragazzo mi
piace, Carla. Tanto. Troppo.»
Sul suo viso compare un’espressione interrogativa,
come a dire: e allora? «Vuoi davvero perdere l’unico
amico che tu abbia mai avuto per un lieve mal d’amore?»
Ho letto molti, moltissimi libri che raccontano di pene
d’amore. Ma nessuno le ha mai descritte come «lievi».
In genere sono strazianti e distruttive. Lievi proprio no.
Carla appoggia la schiena al divano. «Tu ancora non
lo sai, ma ti passerà. Sei solo in balìa della novità e degli
ormoni.»
Forse ha ragione. E io vorrei con tutto il cuore che
fosse così, almeno potrei ricominciare a parlare con Olly.
Si sporge in avanti e mi fa l’occhiolino. «Certo però
che è carino.»
«Carino forte, eh?» ridacchio io.
«Pensavo non li facessero più, quelli come lui, tesoro
mio!»
Scoppio a ridere e immagino una fabbrica con tanti
piccoli Olly che escono da una catena di montaggio. Poi
come farebbero a tenerli fermi per impacchettarli e
spedirli?
«Su, forza!» mi incoraggia Carla, dandomi una pacca
sul ginocchio. «Ne hai già abbastanza, di cose da temere.
L’amore non ti ucciderà.»
NO SÌ FORSE

Lunedì, ore 20.09

Madeline: Ciao.
Olly: ciao
Madeline: Come stai? Com’è andato il week end?
Olly: bene. tutto a posto
Olly: e a te?
Madeline: Bene, ma ho av uto parecchio da fare. L’ho
trascorso quasi tutto a fare gli esercizi di calcolo
infinitesimale.
Olly: ahh, il calcolo infinitesimale. la matematica del
cambiamento
Madeline: Wow. A llora non scherzav i quando hai detto che ti
piace la matematica?
Olly: no
Madeline: Scusami per l’email.
Olly: a quale parte ti riferisci?
Madeline: A tutta. Ce l’hai con me? No, sì, forse?
Olly: no sì forse
Madeline: L’idea era che non usassi tutte e tre le risposte.
Olly: perché me l’hai mandata?
Madeline: Ho av uto paura.
Olly: di cosa?
Madeline: Di te.
Madeline: Neanche tu mi hai scritto, però.
Olly: sei tu che non v olev i
Madeline: …
Olly: i tre puntini significano che non dici niente per
l’imbarazzo o che stai pensando?
Madeline: Entrambe le cose.
Madeline: Perché ti piace così tanto la matematica?
Olly: e a te perché piacciono così tanto i libri?
Madeline: Non è la stessa cosa!
Olly: perché?
Madeline: In un libro ci puoi trov are il senso della v ita.
Olly: la v ita ha un senso?
Madeline: Non stai dicendo sul serio.
Olly: perché no
Olly: e quale sarebbe, il libro dov e si trov a il senso della v ita?
Madeline: Ok ay, magari non sarà in un singolo libro, ma se
leggi abbastanza alla fine lo trov erai.
Olly: è questo il tuo piano?
Madeline: Be’, il tempo non mi manca.
Madeline: …
Olly: pensi?
Madeline: Sì. Ho trov ato una soluzione al nostro problema.
Olly: sono tutt’orecchi
Madeline: Decidiamo di essere solo amici, ok ay ?
Olly: ok ay
Olly: ma tu smettila di guardarmi i muscoli
Madeline: A mici, Olly !
Olly: e gli occhi
Madeline: E tu smettila con la storia delle mie lentiggini.
Madeline: E dei miei capelli.
Olly: e delle tue labbra
Madeline: E della tua fossetta.
Olly: ti piace la mia fossetta?
Madeline: A mici!
Olly: ok ay
IL TEMPO

CARLA ci fa aspettare una settimana prima di lasciarci


incontrare di nuovo. Vuole essere sicura al cento per
cento che stare nella stessa stanza con Olly non abbia
innescato qualche reazione nel mio organismo.
Nonostante concordi con lei sul fatto che non dobbiamo
correre rischi, la settimana sembra interminabile. Sono
quasi convinta che il tempo scorra più lento, non solo
metaforicamente, ma nel vero senso della parola, anche
se una notizia del genere susciterebbe grande scalpore.
SPECCHIO, SPECCHIO

T RASCORSA un’epoca, finalmente la settimana si


conclude. Sono euforica e mi sforzo di mascherarlo, ma
è un’impresa più complessa di quanto si possa
immaginare. Quando ci si impone di non sorridere, lo si
fa ancora di più.
Carla assiste all’ardua scelta dei vestiti, una cosa a cui
non ho mai dato troppo peso. Anzi, non gliene ho mai
dato per niente. Nel mio guardaroba ci sono solo
magliette bianche e jeans, questi ultimi disposti per
modello: dritti, skinny, svasati, larghi, stile «boyfriend»
(che nome ridicolo!). Le scarpe – tutte Keds e tutte
bianche – sono ammonticchiate nell’angolo in fondo. In
casa giro quasi sempre scalza, e ora non sono sicura di
riuscire a trovarne un paio che mi stia. Rovistando nel
mucchio pesco una scarpa sinistra e una destra dello
stesso numero. Mi entrano, ma per un pelo. Mi piazzo
davanti allo specchio: è la maglietta che dovrebbe essere
abbinata alle scarpe, oppure la borsa? È il bianco il colore
che si sposa meglio con la mia carnagione ambrata? Mi
annoto mentalmente di fare un po’ di acquisti, più tardi.
Comprerò una maglietta di ciascun colore finché non
individuerò quello che mi dona di più.
Per la quinta volta chiedo a Carla se la mamma è già
uscita.
«Sai com’è fatta tua madre», mi risponde. «È mai
arrivata in ritardo un solo giorno in vita sua?»
Mia madre crede nella puntualità allo stesso modo in
cui il resto delle persone crede in Dio. Il tempo è
prezioso, dice, ed è maleducato sprecare quello degli
altri. Devo spaccare il minuto anche alle nostre cene del
venerdì.
Mi guardo allo specchio e senza alcun motivo
sostituisco la maglietta bianca con lo scollo a V con
un’altra dello stesso colore, ma con un ampio scollo
tondo. O forse un motivo ce l’ho. Almeno ho qualcosa
da fare mentre aspetto Olly.
Penso di nuovo a quanto vorrei confidarmi con la
mamma. Vorrei domandarle perché mi manca il fiato
quando penso a lui. Condividere con lei questa mia
euforia. Raccontarle tutte le cose buffe che lui mi dice.
Confessarle che, per quanto mi impegni, non riesco
proprio a togliermelo dalla testa. E chiederle se lei
all’inizio provava le stesse cose per papà.
Cerco di tranquillizzarmi. In fondo, dopo il nostro
ultimo incontro non sono stata male, e poi lui le regole le
conosce: vietato toccarsi, decontaminazione completa,
appuntamento annullato nel caso sospetti di covare
qualche malanno.
Cerco di convincermi che mentire alla mamma non mi
procurerà alcun danno. Che starò bene. Che l’amicizia
non è nociva. E che Carla ha ragione: l’amore non mi
ucciderà.
PREVISIONI

QUANDO entro in veranda, Olly è di nuovo sulla parete,


ma questa volta è salito fino in cima.
«I tuoi polpastrelli non si stancano mai?» gli
domando.
«Li sottopongo a un intenso programma di
allenamento», risponde lui sfoderando un sorriso. Il mio
stomaco fa una piccola capriola, una cosa a cui mi dovrò
proprio abituare perché, a quanto pare, è un effetto
collaterale dei nostri incontri.
Ieri ho fatto i compiti in questa stanza e so bene che
da allora non è cambiata di una virgola, eppure ho la
sensazione che oggi abbia qualcosa di diverso.
La presenza di Olly la rende molto più viva e non mi
stupirei se in questo preciso istante tutte le piante e gli
alberi finti si animassero.
Mi avvicino al divano e mi raggomitolo nell’angolo, il
più lontano possibile da Olly che, sceso dalle rocce, si
siede per terra e appoggia la schiena al muro.
Io mi accovaccio, sistemo il mio cespuglio di capelli e
avvolgo le braccia intorno alla vita. Com’è che, quando
sono nella stessa stanza con lui, divento così cosciente
del mio corpo e di tutte le sue parti, persino della pelle?
«Oggi hai le scarpe», commenta. È decisamente un
osservatore, il tipo di ragazzo che si accorgerebbe subito
di un quadro spostato o di un vaso nuovo.
Mi guardo i piedi. «Ho nove paia di scarpe identiche a
queste.»
«E ti lamenti del mio, di guardaroba?»
«Ti vesti tutto di nero! Hai un aspetto sepolcrale.»
«Mi ci vuole il dizionario per parlare con te.»
«Di o relativo a un sepolcro.»
«Non me ne faccio granché della tua definizione.»
«In pratica sei l’angelo della morte.»
Sorride. «Mi ha tradito la falce, vero? Eppure credevo
di averla nascosta così bene!»
Poi cambia posizione sdraiandosi sulla schiena, le
ginocchia piegate e le mani intrecciate dietro la testa.
Anch’io mi sposto senza motivo, portando le gambe
al petto e cingendole con le braccia. Tra i nostri corpi è
in corso una conversazione separata e indipendente da
noi. È questa la differenza fra l’amicizia e qualcos’altro?
Questa «consapevolezza» che ho di lui?
I filtri dell’aria si azionano, producendo un fruscio
che si sovrappone al rumore del ventilatore.
«Come funziona?» mi domanda, gli occhi che
perlustrano il soffitto.
«È un sistema di ultima generazione. Le finestre sono
sigillate ermeticamente, quindi l’aria entra solo attraverso
i filtri sul tetto, che trattengono qualsiasi particella più
grande di 0,3 micron. Inoltre, l’aria che circola
all’interno della casa viene completamente rinnovata ogni
quattro ore.»
«Wow.» Si volta a osservarmi e mi accorgo che sta
cercando di accettare la gravità della mia malattia.
Così distolgo lo sguardo. «L’impianto è stato pagato
con i soldi dell’accordo», continuo, e prima di dargli il
tempo di chiedermi spiegazioni, aggiungo: «Il camionista
che ha ucciso mio padre e mio fratello si era
addormentato al volante. Aveva fatto tre turni
consecutivi. Alla fine sono giunti a un accordo con mia
madre.»
Olly alza di nuovo gli occhi al soffitto. «Mi dispiace.»
«È curioso, perché non me li ricordo per niente.»
Cerco di ignorare i sentimenti che riemergono quando
penso a loro. La tristezza, che in realtà non è tristezza
vera e propria, e poi il senso di colpa. «Fa uno strano
effetto sentire la mancanza di qualcosa che non hai mai
avuto, o che comunque non ti ricordi di aver avuto.»
«Non c’è nulla di così strano», replica lui.
Smettiamo di parlare e Olly chiude gli occhi.
«Ti chiedi mai come sarebbe la tua vita se potessi
cambiare una cosa sola?» mi domanda.
Di solito no, ma sto cominciando a farlo. E se non
fossi malata? Se mio padre e mio fratello non fossero
morti? È proprio perché non ho mai pensato alle cose
impossibili che sono riuscita a diventare quasi Zen.
«Siamo tutti convinti di essere speciali», prosegue.
«Speciali come i fiocchi di neve, no? Tutti unici e
complicati. L’animo umano è insondabile, e via
discorrendo?»
Annuisco lentamente: so di essere d’accordo con
quello che sta dicen​do, ma so anche che non sarò
d’accordo con quello che sta per dire, qualunque cosa
sia.
«Secondo me sono tutte sciocchezze. Non siamo
fiocchi di neve. Siamo solo il prodotto di una serie di
fattori.»
Smetto di annuire. «Come una formula matematica?»
«Esatto», risponde. Poi si appoggia sui gomiti e mi
guarda. «E ritengo che ci siano un paio di fattori più
decisivi degli altri. Scopri quali sono e hai capito tutto di
una certa persona. Puoi prevedere tutte le sue mosse.»
«Davvero? Allora vediamo se sai che cosa sto per
dire.»
Mi fa l’occhiolino. «Mi credi un bruto, un blasfemo,
un…»
«Uno squinternato», lo anticipo. «Non penserai sul
serio che siamo tutti quanti delle equazioni
matematiche?»
«Chissà.» E si sdraia di nuovo.
«Ma come si fa a sapere qual è il fattore da
modificare?» gli chiedo.
Lui emette un sospiro lungo e sofferto. «Già, è
proprio questo il problema. Anche se riuscissimo a
individuare il fattore da modificare, quanto lo dovremmo
cambiare? E se il nostro intervento non fosse abbastanza
preciso? Non solo non potremmo prevedere il nuovo
risultato, ma potremmo persino peggiorare la situazione.»
Si drizza a sedere. «Pensa un po’, invece: cambiando i
fattori giusti riusciremmo a sistemare le cose prima che
vadano a rotoli.»
Nell’ultima parte della frase, pronunciata a bassa
voce, avverto la frustrazione di chi cerca da tempo di
risolvere lo stesso irrisolvibile problema. Incrocio il suo
sguardo e colgo un certo imbarazzo, come se mi avesse
rivelato più di quanto volesse.
Si sdraia a terra e si copre gli occhi con
l’avambraccio. «Il problema è la teoria del caos. Nella
formula compaiono troppi fattori, e anche quelli di poco
conto sono in realtà più importanti di quanto si creda. E
non si riesce mai a calcolarli con abbastanza precisione.
Ma… se ci riuscissimo… potremmo scrivere una
formula capace di prevedere il clima, il futuro e le
persone.»
«Però secondo la teoria del caos questo non è
possibile, no?»
«Già.»
«E c’era bisogno di un intero ramo della matematica
per capire che le persone sono imprevedibili?»
«Tu l’avevi già capito, vero?»
«Dai libri, Olly! L’ho imparato dai libri.»
Alle mie parole scoppia a ridere, si gira su un fianco e
ricomincia. La sua risata è contagiosa e così anch’io mi
ritrovo a ridere, e tutto il mio corpo reagisce all’unisono
con lui. Cerco la fossetta, che a questo punto non
dovrebbe più interessarmi, e invece vorrei infilargli un
dito proprio lì, in quella bellissima fossetta, per fare in
modo che continui a sorridere per sempre.
Forse non siamo in grado di prevedere tutto, però
alcune cose sì.
Per esempio che mi innamorerò di Olly, e di questo
sono sicura.
Come sono quasi sicura che sarà un disastro.
IL DIZIONARIO DI MADELINE

ossessione <os•ses•sió•ne> s.f. 1. Interesse morboso (e


del tutto giustificabile) per qualcosa (o qualcuno) di
morbosamente interessante. [2015, Whittier]
SEGRETI

COMINCIO a sentire gli effetti dei continui messaggi che


io e Olly ci scambiamo. Mi addormento durante non una,
ma due serate film con la mamma, al che lei inizia a
sospettare che ci sia qualcosa che non va, che il mio
sistema immunitario sia in qualche modo compromesso.
Io le dico che la questione è molto più semplice: sto
dormendo troppo poco. Anche se capisco bene il motivo
per cui, data la nostra situazione, il suo cervello di
medico ipotizzi immediatamente lo scenario peggiore. La
mamma mi dice una cosa che so già, che la mancanza di
sonno non giova a una persona nelle mie condizioni. Le
prometto che migliorerò, e quella sera io e Olly ci
scriviamo fino alle 2 di notte invece che alle 3, come al
solito.
Mi fa uno strano effetto non parlare con mia madre di
qualcosa, o meglio di qualcuno, che sta diventando così
importante per me. Io e la mamma ci stiamo
allontanando, ma non perché trascorriamo meno tempo
insieme. E nemmeno perché Olly sta prendendo il suo
posto. Ci stiamo allontanando perché, per la prima volta
in vita mia, ho un segreto da custodire.
GRAZIE PER L’ACQUISTO
NUMEROLOGIA NUMERO DI:

NUMERO DI:

minuti intercorsi fra l’arrivo a casa del padre di Olly e il


momento in cui ha cominciato a urlare:
8

lamentele sul solito roast beef del cavolo, troppo asciutto


come sempre:
4

volte in cui la mamma di Olly si è scusata:


6

volte in cui il padre di Olly ha dato della «balorda del


cavolo» a Kara per essersi messa lo smalto nero sulle
unghie:
2
minuti occorsi alla madre di Olly per togliere lo smalto a
Kara:
3

volte in cui il padre di Olly ha ripetuto di sapere che


qualcuno si era scolato il suo cavolo di whisky:
5

di essere quello con più cervello di tutti, lì dentro:


2
di tenere tutti bene a mente che è lui a portare a casa i
soldi:
2

spiritosaggini che mi servono per riuscire a tirare su di


morale Olly almeno un po’ quando mi scrive alle 3 del
mattino:
5

volte in cui scrive «lasciamo perdere» mentre chattiamo:


7

ore in cui sono riuscita a dormire ieri notte:


0

sigarette seppellite da Kara in giardino stamattina:


4
lividi visibili sulla madre di Olly:
0

lividi invisibili:
Incerto

ore che mancano al mio prossimo incontro con Olly:


0,5
OLLY DICE

IL giorno dopo, quando ci incontriamo di nuovo, Olly


non è attaccato alla parete ma in piedi, in quella che
credo sia la sua posizione di riposo: piccoli saltelli sulle
punte con le mani infilate in tasca.
«Ciao», lo saluto dalla porta aspettando che il mio
stomaco concluda la sua scatenata danza alla vista di
Olly.
«Ehi, ciao.» Ha la voce bassa e leggermente rauca di
chi è in debito di sonno.
«Grazie per le chiacchiere di stanotte», mi dice,
seguendomi con gli occhi fino al divano.
«Figurati», rispondo io con la voce altrettanto bassa e
rauca. Oggi è più pallido del solito e un po’ ingobbito,
eppure non smette un attimo di muoversi.
«Qualche volta vorrei semplicemente sparire e non
vederli mai più», confessa pieno di vergogna.
Cerco qualcosa da dirgli, non una cosa qualunque,
però, la cosa più adatta a consolarlo, a fargli dimenticare
la sua famiglia per qualche istante, ma ho il vuoto in
testa. Ecco perché le persone si toccano. Non sempre le
parole bastano.
Incrocio il suo sguardo e, visto che non posso
abbracciarlo, mi cingo la vita con le braccia e stringo
forte.
Lui mi esplora il viso con gli occhi, come se tentasse
di ricordare qualcosa. «Perché mi sembra di conoscerti
da sempre?» domanda.
Non ne ho idea, ma è la stessa sensazione che ho io.
Si blocca: ha preso la decisione di cui aveva bisogno.
Olly dice il tuo mondo può cambiare in un attimo.
Dice nessuno è innocente, tranne forse te, Madeline
Whittier.
Dice che suo padre non è stato sempre così.
LA TEORIA DEL CAOS

OLLY ha dieci anni ed è seduto a fare colazione con il


padre nel loro vecchio attico a New York.
Siamo sotto Natale e può darsi che fuori stia
nevicando o che abbia smesso da poco. Trattandosi di un
ricordo, i dettagli non sono molto nitidi.
Il padre ha appena preparato la cioccolata calda. È un
esperto in materia e si vanta di riuscire a farla da zero,
sciogliendo tavolette di cioccolato fondente e utilizzando
latte intero «con il cento per cento di materia grassa».
Prende la tazza preferita di Olly, ci versa uno strato di
cioccolato fuso e ci aggiunge due decilitri circa di latte
caldo, portato quasi a bollore sul fornello, mai nel
microonde. Olly mescola latte e cioccolato mentre il
padre estrae dal frigo la panna appena montata e
leggermente dolce, quel genere di dolce di cui non se ne
ha mai abbastanza. Il padre ne preleva una cucchiaiata o
forse due.
Olly solleva la tazza, soffia sulla panna montata, che si
sta già sciogliendo e scivola sulla superficie come un
iceberg in miniatura. Poi osserva il padre da dietro la
tazza per sondarne lo stato d’animo.
Nell’ultimo periodo i malumori abbondano e sono
peggiori del solito.
«Newton si sbagliava», sentenzia il padre. «L’universo
non è deterministico.»
Olly comincia a scalciare nel vuoto. Gli piace che il
padre gli parli così, «faccia a faccia», trattandolo da
adulto, anche se non sempre capisce quello che gli sta
dicendo. Da quando è stato sospeso dal lavoro, queste
conversazioni tra loro sono diventate più frequenti.
«Che cosa significa?» gli domanda.
Il padre aspetta sempre che sia lui a chiedere, prima di
dargli spiegazioni.
«Significa che una cosa non porta necessariamente a
un’altra», risponde bevendo un sorso di cioccolata.
Stranamente, lui non ci soffia mai sopra, la trangugia
bollente. «Significa che, per quanto cavolo ti sforzi di
fare le cose per bene, la tua vita può comunque andare a
farsi friggere.»
Olly trattiene in bocca il suo sorso di cioccolata calda
e si mette a fissare la tazza.
Qualche settimana prima, la madre gli aveva
comunicato che il padre sarebbe rimasto a casa per un
po’, finché al lavoro le cose non si fossero sistemate.
Non aveva specificato qual era il problema, però lui
aveva sentito per caso parole come «frode» e «indagini».
Che cosa volessero dire non lo sapeva, ma in compenso
gli sembrava che il padre volesse un po’ meno bene a lui,
alla sorella e alla mamma. E più lui dimostrava di amarli
di meno, più loro cercavano di farsi voler bene.
Squilla il telefono e il padre si affretta prontamente a
rispondere.
Olly inghiotte il suo sorso di cioccolata e resta in
ascolto.
All’inizio il padre parla con la sua voce da lavoro,
arrabbiata e rilassata insieme. Alla fine, però, la rabbia
prevale. «Mi stai licenziando? Mi avevi detto che quelle
teste di cazzo mi stavano scagionando.»
Anche Olly sente montare la rabbia per conto del
padre, così posa la tazza e scende dallo sgabello.
Il padre cammina avanti e indietro, con la faccia
infuriata.
«Non me ne frega niente di quei soldi del cavolo. Non
farlo, Phil. Se mi licenzi tutti penseranno che…» Si
blocca, allontana la cornetta dall’orecchio e non parla per
un bel po’.
Anche Olly si blocca, sperando che qualsiasi cosa Phil
stia per dire sistemi tutto.
«Cristo. Non potete. Così nessuno vorrà più avere a
che fare con me.»
Olly vorrebbe andare dal padre e dirgli che si
aggiusterà tutto, ma non ci riesce. È troppo spaventato.
Così sgattaiola fuori dalla stanza portandosi via la
cioccolata.

La prima volta in cui il padre di Olly si ubriaca di


pomeriggio, tanto da diventare violento, urlare come un
forsennato e l’indomani non ricordare più niente, risale
solo a qualche mese dopo.
Era rimasto a casa tutto il giorno, a imprecare contro
le notizie finanziarie alla tv.
Uno dei conduttori aveva citato la sua vecchia società
e lui aveva dato in escandescenze. Si era versato un
bicchierone di whisky e ci aveva aggiunto della vodka e
del gin. Poi aveva mescolato il tutto con un cucchiaio
lungo fino a ottenere un intruglio che aveva perso il
colore ambrato del whisky ed era divenuto trasparente
come l’acqua.
Mentre osservava il colore svanire nel bicchiere, Olly
aveva ripensato al giorno in cui il padre era stato
licenziato, quando per la paura non aveva trovato il
coraggio di consolarlo.
Se l’avesse fatto, le cose sarebbero potute andare
diversamente? Eh?
Aveva ripensato a quando il padre gli aveva detto che
una cosa non porta necessariamente a un’altra.
A quando lui, seduto in cucina, aveva mischiato il latte
con il cioccolato. E a come il cioccolato era diventato
bianco, e il latte era diventato marrone, e a come qualche
volta, per quanto uno lo desideri, quel che è fatto non si
può più disfare.
LE DUE MADDY

«T UA madre vuole sapere se ho notato qualcosa di


diverso in te, ultimamente.» È la voce di Carla, dall’altra
parte del salotto.
Sto guardando il primo Mission: Impossible, con Tom
Cruise nel ruolo della superspia Ethan Hunt, che conduce
una doppia vita, talvolta anche tripla o quadrupla. Il film
è quasi alla fine e Ethan è sul punto di smascherarsi –
letteralmente! – per catturare i cattivi.
Carla ripete la frase, questa volta a voce più alta.
«E tu che hai notato?» le domando e metto il film in
pausa proprio nel momento in cui Ethan si toglie quella
maschera incredibilmente realistica per svelare la sua
vera faccia. Inclino la testa da un lato per vedere il tutto
da una prospettiva migliore.
Carla mi strappa di mano il telecomando lanciandolo
in fondo al divano.
«Ma che c’è che non va?» le chiedo, sentendomi in
colpa per averla ignorata.
«Tu. E quel ragazzo.»
«Cioè?»
Carla sospira e si siede. «Sapevo che sarebbe stato un
errore farvi incontrare.»
Ora sono tutt’orecchi. «Che cosa ti ha detto la
mamma?»
«Hai annullato una delle vostre serate film?»
Non avrei dovuto farlo, lo sapevo. Ci è rimasta così
male, era così amareggiata. Ma non volevo aspettare le 9
per chattare con Olly. Quando parlo con lui non riesco a
smettere. Sono un fiume di parole. Con tutto quello che
ho da raccontargli, non esaurirò mai gli argomenti.
«E poi dice che sei sempre distratta. E che hai
ordinato un sacco di vestiti. E di scarpe. E che ti ha
quasi battuto a un gioco dove di solito vinci tu.»
Oh.
«Credi che sospetti?»
«È l’unica cosa che ti preoccupa? Ascolta bene le mie
parole: a tua madre manchi. Senza di te si sente sola.
Avresti dovuto vedere la sua faccia mentre si sfogava.»
«È solo che…»
«No», mi interrompe alzando una mano. «Non puoi
più vedere quel ragazzo.» Poi raccoglie il telecomando
gettato lontano e lo tiene stretto, evitando di incrociare il
mio sguardo.
Il panico mi fa battere il cuore all’impazzata. «Carla, ti
prego. Non portarmi via Olly.»
«Non è tuo!»
«Lo so…»
«No che non lo sai. Non è di tua proprietà. Adesso
magari avrà anche del tempo da dedicarti, ma presto
tornerà a scuola, incontrerà una ragazza e diventerà il suo
Olly. Hai capito?»
So che sta solo cercando di proteggermi, come io
tentavo di proteggermi appena qualche settimana fa, ma
le sue parole mi svelano che il cuore che ho nel petto è
un muscolo come tutti gli altri. E può far male.
«Ho capito», mormoro.
«Stai un po’ con tua madre. I ragazzi vanno e
vengono, ma una madre è per sempre.»
Sono convinta che abbia detto le stesse identiche frasi
anche alla sua Rosa.
«D’accordo.»
Mi porge il telecomando e tutte e due fissiamo lo
schermo immobile. Poi si alza puntellandosi sulle
ginocchia con entrambe le mani.
«Dicevi sul serio?» le domando quando ha già
attraversato metà del salotto.
«A proposito di cosa?»
«Hai detto che l’amore non mi avrebbe ucciso.»
«Sì, ma potrebbe uccidere tua madre.» Abbozza un
sorrisetto.
Io resto con il fiato sospeso, in attesa.
«Okay, va bene. Puoi vederlo ancora, però devi darti
una regolata. Ci siamo intese?»
Annuisco convinta e spengo la televisione. Ethan Hunt
scompare nel nulla.

Mi rifugio in veranda, lontano da Carla. Non che sia


proprio arrabbiata con lei, ma non posso nemmeno dire
di non esserlo. Tutti i dubbi sul fatto di mantenere con
mia madre il segreto su Olly sono svaniti. Non posso
credere che, per aver annullato un appuntamento con lei,
io abbia rischiato di non vederlo più. Prima mi
preoccupava il fatto di avere dei segreti, mentre ora di
non poterne avere più neanche uno. So che la mamma
non è arrabbiata perché ho comprato dei vestiti nuovi,
ma perché non ho chiesto il suo parere e ho scelto dei
colori che non si aspettava. È arrabbiata per questo
cambiamento, di cui non si è accorta con tempismo. Un
po’ ce l’ho con lei e un po’ la capisco. Ha da sempre
un’infinità di cose da tenere sotto controllo per
preservare la mia incolumità dentro la bolla.
E comunque ci ha visto giusto. Ultimamente in sua
compagnia sono distratta, la mia testa si sintonizza
sempre su Radio Olly. Lo so che ha ragione, eppure ce
l’ho con lei. Diventare adulti non significa anche
prendere un po’ le distanze? Non mi è concesso
nemmeno questo briciolo di normalità?
Eppure mi sento in colpa lo stesso. La mamma ha
dedicato la sua vita a me. Che diritto ho io di buttare
tutto all’aria ai primi segnali d’amore?
Alla fine Carla mi scova. Sono le 4 del pomeriggio, e a
quest’ora è previsto un controllo.
«Esiste la possibilità che da un giorno all’altro uno si
ritrovi schizofrenico?» le domando.
«Perché? Sta capitando a te?»
«Forse.»
«E ora sto parlando con la Maddy buona o con quella
cattiva?»
«Non si sa.»
«Sii buona con tua madre. Sei tutto ciò che ha»,
conclude accarezzandomi la mano.
FREEDOM CARD
A TESTA IN GIÙ

QUANDO sono nervose, le persone normali passeggiano


avanti e indietro. Olly, invece, misura la stanza a grandi
falcate.
«Olly! È soltanto una verticale. Contro una parete.
Non mi succederà niente.» Mi ci è voluta un’ora per
convincerlo a mostrarmi come si fa.
«Non hai abbastanza forza nei polsi e nella parte
superiore del corpo», brontola.
«Questo me l’hai già detto. E io invece ti ripeto che
sono forte», ribatto flettendo un bicipite. «Da sdraiata
riesco a sollevare una quantità di libri pari al mio peso.»
Lui fa una risatina e grazie al cielo smette di andare su
e giù. Con le dita tende il suo bracciale di gomma,
mentre con gli occhi mi squadra da capo a piedi,
giudicando con sguardo critico la mia mancanza di
tempra fisica.
Io alzo gli occhi al soffitto con fare più teatrale
possibile.
Finalmente cede ed emette un sospiro altrettanto
teatrale. «E va bene. Posizione di squat», mi dice
mostrandomela.
«Guarda che so cos’è…»
«Concentrati.»
Obbedisco.
Dalla parte opposta della stanza, Olly controlla il mio
assetto e mi istruisce su come migliorarlo – mani a trenta
centimetri di distanza tra loro, braccia dritte con i gomiti
premuti contro le ginocchia, dita bene aperte – finché
non è perfetto.
«E ora, sposta il peso in avanti finché la punta dei
piedi non si stacca da terra.»
Ma io sposto troppo il peso e cado atterrando di
schiena.
«Ops», fa lui, poi serra le labbra per non ridere, ma la
fossetta rivelatrice lo tradisce.
Ritorno in posizione.
«Sposta di più il peso e inclinati di meno»,
raccomanda.
«Ero convinta di averlo spostato.»
«Non abbastanza. Okay, dai. Guardami.» Si accuccia.
«Mani a trenta centimetri di distanza, gomiti contro le
ginocchia, dita bene aperte. Poi, piano piano sposti il
peso in avanti, sulle spalle, sollevi i piedi da terra,
dopodiché ti spingi verso l’alto.» Sale in verticale, con la
grazia naturale di sempre. Rimango ancora una volta
colpita dalla serenità che emana quando è in movimento.
È come se stesse meditando. Il corpo è la sua fuga dal
mondo, mentre nel mio io mi sento in trappola.
«Vuoi rivederla?» mi domanda, rimettendosi agilmente
in piedi.
«No.» Smaniosa di riuscirci anch’io, mi spingo in
avanti spostando il peso sulle spalle come mi ha detto,
ma non succede niente. Per quasi un’ora. La metà
inferiore del mio corpo resta saldamente ancorata al
suolo, mentre le braccia mi bruciano per lo sforzo.
Faccio una serie di capriole non intenzionali, e l’unico
risultato che ottengo è di non strillare più mentre rotolo a
terra.
«Time out?» mi chiede cercando di non sorridere.
Io grugnisco, abbasso la testa e mi do un’altra spinta
in avanti, ma finisco di nuovo a gambe all’aria. Lui
scoppia a ridere.
Resto sdraiata sul pavimento, senza fiato, e mi ritrovo
a ridere anch’io. Dopo un paio di secondi, però, mi
rimetto in posizione di squat.
Olly scuote la testa. «E chi immaginava che fossi così
testarda?»
Non io. Non lo immaginavo proprio, di essere così
testarda.
«Okay, proviamo in un altro modo. Chiudi gli occhi»,
mi propone.
Io li chiudo.
«Bene. Ora fai finta di essere nello spazio.»
A occhi chiusi avverto di più la sua presenza, come se
fosse accanto a me invece che dall’altra parte della
stanza. La sua voce mi scorre lungo il collo, mi sussurra
nell’orecchio. «Le vedi le stelle? E quel campo di
asteroidi? E quel satellite che viaggia solitario? Non c’è
gravità. E tu sei senza peso. Con il tuo corpo puoi fare
tutto ciò che vuoi. Devi solo pensarlo.»
Mi protendo leggermente in avanti e di punto in
bianco mi ritrovo a testa in giù. In un primo momento
non sono convinta di esserci riuscita. Apro e chiudo gli
occhi più volte, ma il mondo resta capovolto. Il sangue
mi affluisce alla testa dandomi una sensazione di
pesantezza e stordimento insieme. La gravità m’incurva
la bocca in un sorriso e mi spalanca gli occhi. Il mio
corpo mi è meravigliosamente estraneo. Le braccia
cominciano a tremarmi, quindi mi do una spinta in
direzione contraria e mi accovaccio a terra.
«Grandiosa», si complimenta Olly battendo le mani.
«Hai persino tenuto la posizione per qualche secondo.
Tra poco non ti servirà nemmeno più la parete.»
«E se tra poco fosse adesso?» replico io, con la voglia
di farlo ancora, di vedere il mondo come lo vede lui.
Olly ha un attimo di esitazione, sta per protestare, ma
poi i nostri sguardi s’incontrano. Annuisce e si accuccia
per osservarmi.
Mi metto in posizione e mi spingo verso l’alto, ma
perdo quasi subito l’equilibrio e comincio a cadere
all’indietro. Al che, tutt’a un tratto, me lo ritrovo
accanto, le mani che mi cingono le caviglie nude,
sorreggendomi saldamente. Ogni singolo nervo del mio
corpo si sposta nel punto di contatto con le sue mani. Il
suo tocco mi vivifica la pelle, ogni cellula si accende di
sensazioni. Mi sento come se nessuno mi avesse mai
sfiorato in vita mia.
«Giù», gli dico, e lui mi abbassa delicatamente le
gambe fino a riportarle a terra. Aspetto che ritorni nel
suo cantuccio, ma non lo fa. Così mi alzo senza darmi il
tempo di riflettere e mi giro verso di lui. Siamo
vicinissimi. Se volessi, potrei allungare una mano e
toccarlo. Muovo gli occhi lentamente fino a incontrare i
suoi.
«Tutto okay?» mi domanda.
Vorrei dirgli di sì, e invece scuoto la testa. Farei
meglio ad allontanarmi. E anche lui. Dovrebbe tornare
nella sua parte di mondo, invece resta immobile e gli
leggo negli occhi che non ha intenzione di farlo. Il cuore
mi batte così forte che di sicuro lo sente anche lui.
«Maddy?» Il mio nome è una domanda e il mio
sguardo si sposta sulle sue labbra.
Olly allunga il braccio destro e mi afferra l’indice
sinistro. La sua mano è ruvida, callosa e piacevolmente
calda. Mi sfrega il pollice sulla nocca e poi mi cinge il
dito con il palmo.
Abbasso la testa e mi fisso la mano.
Gli amici si possono toccare, no?
Sfilo l’indice per intrecciare tutte le dita alle sue finché
non ci ritroviamo palmo contro palmo.
Alzo lo sguardo e osservo il mio riflesso nelle sue
iridi. «Che cosa vedi?» gli domando.
«Be’, prima di tutto le famose lentiggini.»
«Sei proprio ossessionato!»
«Un po’. Sembra che qualcuno ti abbia spruzzato del
cioccolato sul naso e sulle guance.» Il suo sguardo si
sposta sulle mie labbra e poi di nuovo sugli occhi. «Hai le
labbra rosa, e quando le mordicchi diventano ancora più
rosa. Ogni volta che ti faccio venire il nervoso ci affondi
i denti. Dovresti darti una calmata.
Smettere di farti venire il nervoso, intendo, non di
mordicchiarti.
Quello è adorabile.»
Dovrei dire qualcosa, troncare il discorso, ma non
riesco a parlare.
«Non ho mai visto nessuno con i capelli così lunghi,
vaporosi e ricci come i tuoi. Assomigliano a una nuvola.»
«Se le nuvole fossero marroni», gli rispondo,
ritrovando finalmente la parola e cercando di spezzare
l’incantesimo.
«Sì, nuvole marroni e ricciolute. E i tuoi occhi, poi.
Giurerei che cambiano colore. Qualche volta sono quasi
neri. Altre sono castani. Sto tentando di individuare una
correlazione fra il loro colore e il tuo umore, ma non ci
sono ancora riuscito. Ti terrò aggiornata.»
«Correlazione e causalità non sono la stessa cosa»,
commento io, giusto per dire qualcosa.
Lui fa un gran sorriso e mi stringe forte la mano. «E
tu che cosa vedi?»
Vorrei rispondere, ma mi accorgo di non esserne in
grado. Allora scuoto la testa e abbasso di nuovo lo
sguardo sulle nostre mani.
Restiamo così, scivolando avanti e indietro fra la
certezza e l’incertezza, finché non sentiamo arrivare
Carla e siamo costretti a separarci.
Sono compiuta. Sono incompiuta.
PELLE

UNA volta ho letto che, in media, la maggior parte delle


cellule del nostro corpo si rinnova ogni sette anni. E il
fatto ancora più strabiliante è che gli strati più superficiali
della pelle si rinnovano ogni due settimane. Se tutte le
nostre cellule facessero altrettanto, saremmo immortali.
Ma alcune di esse, come quelle cerebrali, non si
rinnovano. Invecchiano e fanno invecchiare anche noi.
Fra due settimane la mia pelle non serberà più alcun
ricordo della mano di Olly sulla mia, ma il mio cervello
sì. Possiamo avere l’immortalità o la memoria tattile. Una
cosa esclude l’altra.
AMICIZIA

Più tardi, ore 20.16

Olly: ti sei connessa presto


Madeline: Ho detto alla mamma che avevo un
sacco di compiti.
Olly: tutto bene?
Madeline: Mi stai chiedendo se mi sento male?
Olly: sì
Madeline: Per ora sto bene.
Olly: sei preoccupata?
Madeline: No. È tutto a posto.
Madeline: Sono sicura che è tutto a posto.
Olly: sei preoccupata
Madeline: Un po’.
Olly: non avrei dovuto. scusami
Madeline: Non scusarti, ti prego. Io non sono
pentita. Non tornerei mai indietro.
Olly: però
Olly: sei sicura di star bene?
Madeline: Sono come nuova.
Olly: e solo perché ci siamo tenuti per mano.
pensa un po’ se ci baciassimo
Madeline: …
Madeline: Gli amici non si baciano, Olly.
Olly: a quelli più intimi è concesso
RICERCHE

VENT IQUAT T RO ore dopo, non faccio altro che pensare


ai baci. Ogni volta che chiudo gli occhi mi compaiono
davanti le parole «pensa un po’ se ci baciassimo», e a un
certo punto mi rendo conto che non so proprio niente
sull’argomento. Ho letto un po’ di cose, è vero. E nei
film ho visto abbastanza sbaciucchiamenti da farmene
un’idea. Ma non mi sono mai immaginata nei panni della
baciata né tantomeno della baciatrice.

Carla mi dice che forse può andar bene se io e Olly ci


rivediamo oggi, ma decido di aspettare un altro paio di
giorni. Lei non sa niente della storia della caviglia, delle
mani intrecciate, del fatto che i nostri respiri si sono
quasi mescolati. Dovrei dirglielo, e invece me ne sto
zitta. Ho paura che decida di troncare i nostri incontri.
Un’altra bugia da aggiungere alla mia lista in continuo
aggiornamento. Ormai Olly è l’unica persona della mia
vita a cui non ho mentito.
A quarantotto ore dal contatto mi sento ancora bene.
Quando Carla è distratta, sbircio il registro del mio stato
di salute. Pressione sanguigna, pulsazioni e temperatura
sembrano tutte nella norma. Non s’intravede alcun
precoce segnale d’allarme.
Perdo un po’ il controllo del mio corpo quando
immagino di baciare Olly, ma sono convinta che sia solo
l’effetto del mal d’amore.
VITA E MORTE

OLLY non è sulla parete. E non si è nemmeno seduto in


fondo al divano. Ci si è piazzato proprio al centro, i
gomiti sulle ginocchia, le dita che giocano a tira e molla
con il bracciale di gomma.
Indugio sulla porta. Lui non schioda gli occhi dalla
mia faccia. Avvertirà come me il desiderio irrefrenabile di
occupare lo stesso spazio, di respirare la stessa aria?
Resto sulla soglia, incerta sul da farsi. Potrei mettermi
al suo solito posto, vicino alla parete. Oppure rimanere
dove sono, qui sulla soglia. O anche dirgli che non
dovremmo scherzare con il fuoco, ma non ci riesco. E,
soprattutto, non voglio.
«Mi sa che l’arancione è il tuo colore», dice
finalmente.
Indosso una delle mie magliette nuove: ha lo scollo a
V, è aderente e d’ora in poi sarà anche il mio capo
d’abbigliamento preferito. Potrei comprarne altre dieci
uguali identiche a questa.
«Grazie», gli rispondo premendomi una mano sulla
pancia. Le farfalle sono tornate e svolazzano irrequiete.
«Dici che mi devo spostare?» chiede e tende il
bracciale di gomma fra pollice e indice.
«Non lo so.»
Annuisce e fa per alzarsi.
«No, aspetta», lo fermo e, posandomi anche l’altra
mano sulla pancia, vado verso il divano. Mi siedo a una
trentina di centimetri da lui.
Olly molla di colpo il bracciale, che gli batte sul polso,
e rilascia dalle spalle una tensione di cui fino a ora non mi
ero accorta.
Seduta al suo fianco, stringo le gambe l’una contro
l’altra e incurvo le spalle cercando di occupare meno
spazio possibile, come se in questo modo riuscissi ad
annullare la nostra vicinanza.
Lui solleva un braccio dal ginocchio e lo muove nella
mia direzione.
La mia titubanza scompare. Le nostre dita si
intrecciano come se ci fossimo tenuti per mano così
tutta la vita. E, non so come, la distanza che c’era fra noi
si azzera.
Chi si è spostato, lui o io?
Ormai siamo vicinissimi: le cosce che si sfiorano, gli
avambracci caldi accostati, la mia spalla che spinge
contro il suo braccio. Olly sfrega il pollice contro il mio,
tracciando un percorso dalla nocca al polso. La mia
pelle, in ogni sua cellula, si accende. Le persone normali,
non malate, possono fare questa cosa in qualunque
momento? E come sopravvivono a una sensazione del
genere? Come si trattengono dal toccarsi tutto il tempo?
Mi sento tirare leggermente la mano. È una richiesta,
lo so. Lascio vagare lo sguardo dal miracolo delle nostre
mani al miracolo del suo viso, dei suoi occhi, delle sue
labbra che si avvicinano alle mie.
Chi si è spostato, io o lui?
Avverto il suo respiro caldo e poi le sue labbra che,
come ali di farfalla, sfiorano le mie. Gli occhi mi si
chiudono da soli. Le commedie romantiche su questo
hanno ragione: bisogna chiuderli, gli occhi. Ma poi lo
sento ritrarsi e mi ritrovo le labbra fredde. Sto sbagliando
qualcosa? I miei occhi si spalancano e sprofondano nel
blu sempre più intenso dei suoi. Lui mi bacia come se
avesse paura di continuare e anche di fermarsi. Così gli
afferro la maglietta e stringo forte.
Le farfalle sono impazzite.
Le nostre dita sono ancora intrecciate e le mie labbra
si schiudono. Sentiamo il sapore l’uno dell’altra. La sua
bocca sa di caramello salato e di sole. Sempre se il
caramello salato e il sole hanno davvero questo sapore.
Sa di qualcosa che non ho mai provato in vita mia, sa di
speranza e di possibilità e di futuro.
Questa volta sono io a ritrarmi per prima, ma solo
perché mi manca l’aria. Se potessi, lo bacerei ogni
secondo di ogni giorno per tutti i giorni a venire.
Olly appoggia la fronte alla mia e io sento il suo
respiro caldo sul naso e sulle guance. È leggermente
dolce. Quel genere di dolce di cui non si ha mai
abbastanza.
«È sempre così?» gli domando, senza fiato.
«No. Non è mai così», risponde. Dalla voce traspare
il suo stupore.
E in un attimo tutto cambia.
SINCERAMENTE

Più tardi, ore 20.03

Olly: niente serata film con tua madre?


Madeline: L’ho annullata. Carla si arrabbierà con
me.
Olly: perché?
Madeline: Le ho promesso che avrei trascorso più
tempo con la mamma.
Olly: ti sto incasinando la vita
Madeline: No, ti prego, non vederla così.
Olly: quello che abbiamo fatto oggi è da pazzi
Madeline: Lo so.
Olly: ma che ci è saltato in mente?
Madeline: Non lo so.
Olly: forse abbiamo bisogno di un time out?
Madeline: …
Olly: scusami. sto cercando di proteggerti
Madeline: E se io non avessi bisogno di
protezione?
Olly: che vuoi dire?
Madeline: Non lo so.
Olly: io ho bisogno che tu non corra rischi. non
voglio perderti
Madeline: Ma se mi hai a malapena trovata!
Madeline: Ti sei pentito?
Olly: di cosa? del bacio?
Olly: sinceramente?
Madeline: Ovvio.
Olly: no
Olly: e tu?
Madeline: No.
EFFE U O ERRE I

È P OSSIBILE che l’universo e il mio subconscio


cospirino contro di me. Io e la mamma stiamo giocando
a Scarabeo in salotto. Nella partita di stasera mi sono
capitate le tessere giuste per comporre le parole FUORI ,
LIBERT À e SECRET I , e con le ultime due ottengo persino
un bonus per aver usato tutte e sette le lettere. La
mamma osserva accigliata il tabellone e ho il sospetto
che voglia contestarmi l’ultima parola, ma invece non lo
fa. Conta i punti e, per la prima volta in assoluto, sto
effettivamente vincendo io. Con un vantaggio di sette
punti.
Abbasso lo sguardo e poi lo alzo di nuovo su di lei.
«Sei sicura di aver conteggiato bene?» le domando.
L’ultima cosa che voglio in questo momento è batterla.
Verifico il punteggio e scopro che ha ragione.
Mi sento i suoi occhi addosso, ma continuo a fissare
il segnapunti. È tutta la sera che mi osserva così, con
profonda attenzione, come se fossi un rompicapo da
decifrare. O magari sono io che sono paranoica. Magari
è il senso di colpa che provo per il fatto di essere così
egoista, di desiderare di stare con Olly anche in questo
momento. Ogni istante che trascorro con lui imparo
qualcosa di nuovo. Divento una persona nuova.
La mamma mi toglie di mano il segnapunti e mi
solleva il mento per costringermi a guardarla. «Che
succede, tesoro?»
Sto per dirle una bugia quando da fuori sentiamo uno
strillo. Poi un altro, seguito da urla indistinte e dal rumore
di una porta che sbatte. Ci voltiamo entrambe di scatto
verso la finestra. Io faccio per alzarmi, ma la mamma mi
preme una mano sulla spalla e scuote il capo. Resto
seduta, ma poi un altro grido – «Fermo!» – ci fa correre
tutte e due alla finestra.
Sul portico ci sono Olly, sua madre e suo padre, i
corpi a formare un triangolo di infelicità, paura e rabbia.
Olly è in assetto da combattimento, i pugni serrati, i piedi
ben piantati e distanti fra loro. Ha le vene gonfie e
pulsanti su viso e braccia, me ne accorgo persino da qui.
La madre fa per avvicinarsi, però lui le dice qualcosa che
la fa indietreggiare.
Olly e il padre si affrontano. Il padre ha un bicchiere
nella mano destra e, mentre lo alza e lo finisce a grandi
sorsi, non distoglie mai lo sguardo dal figlio. Porge il
bicchiere vuoto alla moglie e lei muove un passo per
andare a prenderlo, ma di nuovo il figlio le dice qualcosa
per fermarla. A questo punto il padre si volta a guardarla,
con il bicchiere ancora saldamente in mano. Per un
attimo mi convinco che non gli si avvicinerà, ma il suo
atto di sfida non dura e la vedo andare verso il marito.
Lui la afferra, tutto rabbia e minacce, però ecco che Olly
si mette in mezzo. Allontana il braccio del padre con una
manata e spinge la madre da un lato.
Ancora più furente, il padre balza in avanti per
colpirlo, però Olly lo scansa. Lui va a sbattere contro il
muro, ma non cade. Olly comincia a danzare leggero sui
piedi, scrollando le braccia e i polsi come un pugile che
si prepara all’incontro. Sta cercando di distogliere
l’attenzione dell’uomo dalla madre. E la cosa funziona: il
padre si scaglia contro il figlio per dargli un pugno. Olly
lo schiva, scattando prima a destra e poi a sinistra, e
scende i gradini del portico saltellando all’indietro proprio
mentre il padre sta per avventarsi di nuovo su di lui.
L’altro manca il colpo e, nella foga, ruzzola giù dalle
scale. Atterra di faccia sul vialetto di cemento, gambe e
braccia divaricate. Non si muove.
Olly ammutolisce, mentre la madre si porta entrambe
le mani alla bocca. La mamma mi avvolge il braccio
intorno alla spalla e io premo la fronte sul vetro e mi
aggrappo al davanzale. Tutti gli sguardi sono puntati sul
padre di Olly. Il tempo si dilata: ogni secondo che
quell’uomo trascorre immobile è per tutti un atroce
sollievo.
La madre è la prima a cedere. Scende le scale di
corsa, si accuccia accanto al marito e gli accarezza la
schiena. Olly le fa cenno di allontanarsi, ma lei lo ignora
e si avvicina ancora di più. In quell’istante l’uomo si gira
di scatto sulla schiena e le afferra il polso con le sue
mani grandi e spietate. Il volto trionfante, solleva il
braccio della moglie al cielo come se fosse un trofeo
appena conquistato. Dopodiché si rialza in piedi
strattonandola.
Olly si precipita di nuovo a dividerli, ma questa volta il
padre è pronto a reagire. Più svelto di quanto l’abbia mai
visto muoversi, lascia andare la moglie, prende il figlio
per il colletto e gli sferra un pugno nello stomaco.
La madre lancia un grido. E io faccio altrettanto. Ma
lui lo colpisce ancora.
Quello che succede dopo non lo vedo, perché mi
divincolo da mia madre e comincio a correre. Non
penso, vado e basta. Attraverso come un fulmine la
stanza e il corridoio. Passo la zona di decontaminazione e
in un attimo sono fuori di casa.
Non so dove sto andando, ma devo raggiungerlo.
Non so quello che faccio, ma devo proteggerlo.
Supero di corsa il prato fino al confine con la casa di
Olly. Il padre sta per colpirlo di nuovo quando gli grido:
«FERMO !»
Per un istante restano entrambi immobili e mi fissano
sbigottiti. Il padre comincia a sentire gli effetti della
sbronza, così risale le scale incespicando ed entra in casa
seguito dalla moglie.
Olly si piega in due reggendosi la pancia.
«Ti senti bene?» gli chiedo.
Mi guarda, mentre il suo viso passa da un’espressione
di dolore a una di sconcerto e paura.
«Vai via. Torna dentro», esclama.
La mamma mi afferra per un braccio e cerca di
tirarmi via, e io mi accorgo a malapena che è in preda a
una crisi isterica. È più forte di quanto credessi, però il
mio bisogno di aiutare Olly è ancora più forte di lei.
«Ti senti bene?» grido ancora, senza muovermi di un
millimetro.
Lui si raddrizza lentamente, con cautela, come se gli
facesse male qualcosa, ma dal suo viso non traspare
alcuna sofferenza.
«Mads, sto bene. Torna dentro. Ti prego.» Nello
spazio che ci separa incombe tutto il peso dei nostri
sentimenti reciproci.
«Sto bene, te lo giuro», mi ripete, e io mi lascio
portare via.

Io e la mamma siamo di nuovo nella zona di


decontaminazione quando comincio a rendermi conto di
ciò che ho fatto. Sono uscita davvero fuori? La mamma
mi stringe il braccio in una morsa e mi obbliga a
guardarla in faccia.
«Non capisco», esordisce, la voce acuta e confusa.
«Che ti è saltato in testa?»
«Sto bene», le dico, rispondendo alla domanda che
non mi ha fatto. «Sono uscita solo per un minuto. Anche
meno.»
Mi lascia il braccio e mi solleva il mento.
«Perché hai voluto rischiare la vita per un perfetto
sconosciuto?»
Non sono una bugiarda così incallita da riuscire a
nasconderle i miei sentimenti. Olly è la mia seconda pelle,
ormai.
Lei intuisce la verità. «Non è uno sconosciuto,
giusto?»
«Siamo solo amici. Chattiamo e ci scambiamo email»,
le rispondo, e poi mi fermo un istante. «Mi dispiace.
L’ho fatto senza pensarci. Volevo soltanto essere sicura
che stesse bene.»
Mi massaggio gli avambracci, con il cuore che batte
talmente all’impazzata da farmi male. Sopraffatta
dall’enormità delle mie azioni, inizio a tremare e a questa
reazione improvvisa la mamma abbandona
l’interrogatorio e veste i panni del dottore. «Hai toccato
niente?» mi domanda una volta, e poi ancora e ancora.
E io le rispondo di no una volta, e poi ancora e
ancora.

«Ho dovuto buttare i tuoi vestiti», mi comunica dopo


che, su sua insistenza, ho fatto la doccia. Mentre mi
parla, il suo sguardo è rivolto altrove. «E per i prossimi
giorni dovremo moltiplicare le attenzioni, per essere certe
che tu non…»
Si interrompe, incapace di pronunciare il resto della
frase.
«Sono stata fuori meno di un minuto», ripeto, a
beneficio di entrambe.
«A volte un minuto basta e avanza», replica lei, la
voce quasi del tutto assente.
«Mamma, mi dispiace…»
Ma lei alza una mano e scuote la testa. «Come hai
potuto?» mi chiede guardandomi finalmente negli occhi.
Non so bene se si riferisca al fatto che sono uscita
fuori o che le ho mentito. E comunque non saprei
rispondere a nessuna delle due domande.

Appena mi lascia sola, vado alla finestra sperando di


vedere Olly, ma lui non c’è. Dev’essere salito sul tetto,
così mi infilo sotto le coperte.
Sono stata davvero fuori? Che profumo aveva l’aria?
C’era vento? Ho addirittura toccato la terra con i piedi?
Mi sfioro la pelle delle braccia, del viso. È diversa? E io
lo sono?
Per tutta la vita ho sognato di trovarmi nel mondo
reale. E ora che è successo, non mi ricordo niente. Solo
l’immagine di Olly piegato in due dal dolore. Solo la sua
voce che mi diceva di tornare dentro.
LA TERZA MADDY

SONO sul punto di prendere sonno quando sento aprire la


porta. La mamma indugia qualche istante e io tengo gli
occhi chiusi fingendomi addormentata. Ma lei entra
comunque e si siede accanto a me sul letto.
Resta immobile a lungo, poi si sporge in avanti e so
per certo che sta per darmi un bacio sulla fronte come
faceva quand’ero piccola, ma io mi giro dall’altra parte,
fingendo ancora di dormire.
Non so perché lo faccio. Chi è questa nuova Maddy,
che non ha motivo di essere così crudele? La mamma si
alza e io aspetto di sentire la porta richiudersi prima di
aprire gli occhi.
Sul mio comodino c’è un bracciale nero di gomma.
La mamma sa tutto.
LA VITA È UN DONO

IL mattino dopo vengo svegliata da altre grida. In un


primo momento penso che provengano di nuovo dalla
casa di Olly, ma sono troppo vicine. È la mamma. Non le
ho mai sentito alzare la voce, prima d’ora.
«Come hai potuto farlo? Come hai potuto far entrare
un estraneo?»
Non riesco a cogliere la risposta di Carla, così apro
piano piano la porta ed esco in punta di piedi sul
pianerottolo. La vedo proprio in fondo alle scale. La
mamma è più minuta di lei, in tutti i sensi, ma da come
Carla si ritrae non si direbbe.
Non posso permettere che la responsabilità ricada su
di lei, così scendo di corsa le scale.
«È successo qualcosa? Sta male?» Carla mi afferra il
braccio, mi schiaffeggia leggermente il viso, mentre con
gli occhi mi esamina da capo a piedi cercando di cogliere
qualche segnale di allarme.
«È uscita di casa. A causa di quel ragazzo. E a causa
tua», esclama la mamma girandosi verso di me. «Questa
donna ha messo a repentaglio la tua vita e mi ha mentito
per settimane.»
Poi si volta di nuovo a guardare Carla. «Sei
licenziata.»
«No, ti prego, mamma. Non è stata colpa sua.»
Ma lei mi zittisce con un cenno della mano. «Non è
stata solo colpa sua, vorrai dire. Perché c’entri anche
tu.»
«Mi dispiace», ammetto, però le mie parole non
sortiscono alcun effetto.
«Anche a me. Carla, prendi le tue cose e vai.»
Ormai sono disperata. Non riesco a immaginare la mia
vita senza Carla.
«Ti prego, mamma, ti prego. Non succederà più.»
«Questo è poco ma sicuro», ribatte lei con la massima
convinzione.
Carla si avvia su per le scale senza dire una parola.
Io e la mamma trascorriamo la mezz’ora successiva a
guardarla radunare le proprie cose: i suoi occhiali da
lettura, le sue penne e le sue cartelle portablocco sono
sparsi un po’ in tutte le stanze.
Non mi prendo nemmeno la briga di asciugarmi le
lacrime, perché tanto continuano a scendere. La mamma
invece mantiene un contegno rigido, più di quanto l’abbia
mai vista fare in vita sua. Quando alla fine arriviamo alla
mia camera, regalo a Carla la mia copia di Fiori per
Algernon. Lei mi guarda e sorride.
«Ma se lo leggo non mi farà piangere?» domanda.
«È probabile.»
Si accosta il libro al petto e non smette un attimo di
fissarmi.
«Dovrai farti coraggio, Madeline.» A queste parole mi
getto fra le sue braccia, mentre lei lascia cadere libro e
borsa medica e mi stringe forte a sé.
«Mi dispiace tanto», le sussurro.
Mi abbraccia ancora più forte. «Non è colpa tua. La
vita è un dono. E tu non devi mai dimenticare di viverla»,
mi dice con trasporto.
«Adesso basta», scatta la mamma, in piedi sulla porta.
Ha esaurito la pazienza. «So che è un momento molto
triste per entrambe. Che ci crediate o no, lo è anche per
me. Ma è ora che tu te ne vada, Carla. Dai.»
Carla mi scioglie dal suo abbraccio. «Fatti coraggio. E
ricorda, la vita è un dono.» Solleva da terra la borsa.
Scendiamo le scale tutte e tre insieme. La mamma le
consegna l’ultimo assegno. E lei se ne va.
IL DIZIONARIO DI MADELINE

asintoto <a•sìn•to•to> s.m. 1. Desiderio che si avvicina


indefinitamente alla propria realizzazione senza mai
raggiungerla. [2015, Whittier]
IMMAGINE RIFLESSA

SCOST O le tende non appena rientro in camera. Olly è in


piedi davanti alla finestra, la fronte premuta contro il
pugno chiuso, il pugno schiacciato sul vetro. Da quant’è
che aspetta? Si accorge di me dopo un secondo, ma a
me basta per leggere in lui la paura. A quanto pare, la mia
funzione nella vita è quella di insinuare il terrore nei cuori
di coloro che mi amano.
Non che Olly mi ami, intendiamoci.
Il suo sguardo vaga sul mio corpo, sul mio viso. Con
le mani mima il gesto di battere sulla tastiera, ma io
faccio di no con la testa. Lui aggrotta la fronte, ripete il
gesto, ma io scuoto di nuovo il capo, al che scompare e
riappare con un pennarello.

Annuisco. E tu? Mimo con le labbra.

Rispondo di no con la testa.

Annuisco.
Annuisco di nuovo.

Mi stringo nelle spalle.

Con un unico cenno del capo, mimo perfetta salute,


angoscia esistenziale, rimpianto e un enorme senso di
perdita.
Ci guardiamo.
Scuoto ancora una volta la testa, come a dire: No,
non scusarti, non è colpa tua. Non sei tu. È questa vita.
CAMBIO DI PROGRAMMA
PIÙ DI QUESTO

SENZA dire una parola, la mamma si inginocchia a


raccogliere e impilare ordinatamente i disegni abbozzati
durante la partita di Pictionary d’onore che abbiamo
appena giocato. Di ciascuna conserva i disegni migliori
(per intendersi: o quelli veramente ben fatti o quelli
veramente orrendi). Ogni tanto sfogliamo con sguardo
nostalgico la nostra collezione, così come le altre
famiglie sfogliano i vecchi album di fotografie. Le sue
dita indugiano sul disegno particolarmente brutto di una
creatura con le corna, sospesa sopra un cerchio pieno di
buchi.
«Come hai fatto a indovinare ‘filastrocca’ a partire da
questo coso?» domanda mostrandomi il disegno. Si
sforza di ridacchiare per rompere il ghiaccio.
«Non lo so», le rispondo ridendo, con l’intento di
andarle incontro a metà strada. «Disegni malissimo.»
La creatura avrebbe dovuto essere una mucca e il
cerchio avrebbe dovuto rappresentare la luna. Quando ho
indovinato dovevo essere proprio in vena, vista l’oscenità
del suo disegno.
La mamma smette per un attimo di riunire i fogli e si
siede sui talloni. «Questa settimana sono stata proprio
bene con te», mi dice.
Io annuisco, ma non apro bocca e il suo sorriso
svanisce. Ora che non posso più vedere Olly né parlargli,
io e la mamma trascorriamo più tempo insieme. Ed è
l’unico aspetto positivo di tutto questo pasticcio.
Le afferro una mano e la stringo forte. «Anch’io.»
Lei torna a sorridere, di nuovo con meno convinzione.
«Ho assunto una delle infermiere.»
Annuisco di nuovo. Mi aveva proposto di condurre
personalmente i colloqui con le potenziali sostitute di
Carla, però io ho declinato l’offerta. Una persona vale
l’altra, perché nessuna sarà mai capace di prendere il
posto di Carla.
«Domani devo rientrare al lavoro.»
«Lo so.»
«Vorrei non essere costretta a lasciarti sola.»
«Me la caverò.»
La mamma raddrizza la pila di fogli, già perfettamente
ordinata. «Capisci perché devo agire così?» Oltre ad aver
licenziato Carla, mi ha anche revocato il permesso di
usare Internet e ha annullato la mia lezione di architettura
con il professor Waterman.
Per tutta la settimana non abbiamo quasi mai tirato
fuori il discorso. Delle mie bugie. Di Carla. Di Olly. La
mamma ha preso una settimana di ferie e si è occupata di
me in assenza di Carla, misurandomi i parametri vitali
ogni ora invece che ogni due e accasciandosi con un
sospiro di sollievo ogni volta che i risultati erano nella
norma.
Il quarto giorno mi ha detto che il pericolo era ormai
passato. Abbiamo avuto fortuna, ha aggiunto.
«A che cosa stai pensando?» domanda.
«Mi manca Carla.»
«Anche a me, ma sarei una pessima madre se l’avessi
fatta restare. Ha messo in pericolo la tua vita.»
«Era mia amica», replico io con un filo di voce.
Ed eccola, l’esplosione di rabbia che aspettavo da una
settimana.
«Non era soltanto tua amica. Era anche la tua
infermiera. Avrebbe dovuto badare alla tua incolumità,
non certo mettere a repentaglio la tua vita o farti
conoscere dei ragazzini che ti spezzeranno il cuore. Un
amico non dà mai false speranze.»
La sofferenza che provo mi si deve leggere in faccia,
perché di punto in bianco la mamma ammutolisce e si
strofina i palmi sulle cosce. «Oh, cucciola. Mi dispiace
tanto.»
Il mondo mi cade realmente addosso, e tutto in una
volta. Carla se n’è andata davvero. Domani, quando la
mamma tornerà al lavoro, lei non ci sarà, e al suo posto
arriverà un’altra persona. Carla non c’è più, e la colpa è
mia. E anche Olly non c’è più. Non avremo nemmeno la
possibilità di scambiarci il bacio numero due. Resto
senza fiato di fronte al dolore che il solo pensiero mi
provoca, di fronte alla fine di qualcosa che era a
malapena iniziato.
Sono certa che la mamma mi concederà di nuovo
l’uso di Internet e che io e Olly potremo riprendere a
scriverci, ma non ci basterà più. E se voglio essere del
tutto sincera con me stessa, devo ammettere che non ci
sarebbe bastato comunque.
Non c’è modo di esaurire il mio desiderio di stare con
lui.
La mamma si preme una mano sul petto: il dolore che
sentiamo è esattamente lo stesso.
«Raccontami di lui», mi dice.
È tanto di quel tempo che voglio parlarle di Olly e ora
non so bene da dove cominciare: il mio cuore trabocca di
lui. Così parto dall’inizio. Le racconto di quando l’ho
visto per la prima volta, di come si muove… leggero,
disinvolto e sicuro. Le parlo dei suoi occhi blu oceano e
delle dita callose. Le dico che è molto meno cinico di
quanto lui creda. E le racconto di suo padre che è
orrendo e dei suoi gusti discutibili in fatto di vestiario.
Le dico anche che mi trova spiritosa, intelligente e
bellissima esattamente in quest’ordine, e che l’ordine è
importante. Le svelo tutte le cose che avrei voluto dirle
da settimane. Lei ascolta, mi tiene la mano e piange con
me.
«Sembrerebbe un ragazzo fantastico. Ora capisco
perché hai quest’opinione di lui.»
«E lo è davvero.»
«Mi dispiace che tu sia malata.»
«Non è colpa tua.»
«Lo so, ma vorrei darti ben più di questo.»
«Posso ricominciare a usare Internet?» azzardo. Devo
pur provarci.
Ma lei scuote la testa. «Chiedimi qualcos’altro,
tesoro.»
«Ti prego, mamma.»
«È meglio così. Non voglio vederti con il cuore
spezzato.»
«L’amore non mi ucciderà», protesto, ripetendo a
pappagallo le parole di Carla.
«Non è vero», ribatte lei. «Chi ti ha detto una cosa del
genere?»
L’INFERMIERA PERFIDIA

LA mia nuova infermiera è una despota musona con la


laurea in infermieristica. Il suo nome è Janet Pritchert.
«Puoi chiamarmi infermiera Janet», mi dice. Ha una
vocetta stridula, così innaturale che somiglia a un
allarme.
Presentandosi, enfatizza la parola infermiera per farmi
capire che non potrò mai chiamarla soltanto Janet. E ha
una stretta di mano troppo forte, come se fosse più
abituata a stritolare che ad accudire.
Ma può anche darsi che io sia prevenuta nei suoi
confronti.
Quando la guardo, noto solo quanto è diversa da
Carla. Se Carla era robusta, lei è magrissima. Non colora
le frasi con una parolina in spagnolo ogni tanto. Anzi,
non ha il benché minimo accento. Rispetto a Carla, è
meno in tutto.
Poco dopo pranzo, proprio quando decido di
cambiare atteggiamento, trovo il primo dei suoi biglietti
attaccato al computer:
La mamma mi ha riattivato l’accesso a Internet, ma
solo durante l’orario scolastico. Dice che lo devo usare
soltanto per motivi di studio, però io sono convinta che
c’entri il fatto che Olly ha ricominciato la scuola e torna
a casa dopo le 3 del pomeriggio.
Controllo l’ora: sono le 14.30. Decido di non
cambiare atteggiamento. L’infermiera Janet avrebbe
potuto offrirmi almeno l’occasione di infrangerle, le
regole, prima di dare per scontato che non le avrei
rispettate.
Il giorno seguente, la situazione non migliora:
Nel corso della settimana successiva, perdo ogni
speranza di convincerla ad abbracciare la mia causa. La
sua missione è chiara: monitorare, contenere e
controllare.
Olly e io ci adattiamo a una nuova routine. Ci
scambiamo brevi messaggi convulsi durante il giorno tra
una mia lezione online e l’altra. Alle 3 del pomeriggio,
l’infermiera Perfidia spegne il router e le nostre
comunicazioni si interrompono. La sera, dopo che ho
cenato e ho trascorso un po’ di tempo con la mamma,
Olly e io ci guardiamo dalla finestra.
Supplico la mamma di essere meno categorica, ma lei
non sente ragioni. Dice che lo fa per proteggermi.
Il giorno dopo, l’infermiera Perfidia trova un altro
buon motivo per lasciarmi un biglietto:
Lo fisso, ricordandomi che Carla mi aveva detto la
stessa cosa mentre se ne andava. La vita è un dono. La
starò sprecando davvero?
VIGILANZA DI QUARTIERE NUMERO 2

ORARI DI OLLY

6.55 Compare alla finestra. Scrive sul


– vetro.
7.20
Aspetta che Kara finisca la sigaretta.

7.25
Va a scuola.

15.45
Ritorna a casa da scuola.

15.50 Compare alla finestra. Cancella e
– scrive sul vetro.
21.05
Compare alla finestra. Scrive qualche domanda.

22.00 Scrive
sul vetro.

ORARI DI MADDY
6.50
Aspetta di vedere comparire Olly alla finestra.

6.55
Fa i salti di gioia.

7.25
Si dispera.

8.00-15.00 – Ignora l’infermiera Perfidia. Segue le lezioni.
Fa i compiti. Legge. Controlla ossessivamente se ha
ricevuto messaggi. Legge un altro po’.
15.40
Aspetta di vedere arrivare l’auto di Olly.

15.45
Fa i salti di gioia.

16.00
Esegue altri compiti. Legge ancora.

18.00-21.00 – Cena/dopocena con la mamma.
21.01
Aspetta di vedere comparire Olly alla finestra.

21.05
Fa i salti di gioia. Mima le risposte alle sue domande.

22.01
Si dispera, a oltranza.

ISTRUZIONE SUPERIORE

DA quando Olly è tornato a scuola, le occasioni per


scambiarci messaggi sono ancora più limitate. Lui mi
scrive quando può, tra una lezione e l’altra, e qualche
volta persino durante. Nel corso della prima settimana,
ce la mette tutta per farmi sentire come se fossi lì con
lui. Mi manda fotografie del suo armadietto (numero 23),
dei suoi orari, della biblioteca e della bibliotecaria – che è
proprio come immaginavo fosse la bibliotecaria di un
liceo, cioè patita di libri e meravigliosa –, foto delle
dimostrazioni di matematica avanzata, dell’elenco dei libri
da leggere per il corso di Inglese avanzato, nonché dei
becher e delle piastre di Petri che usa durante le lezioni di
biologia e di chimica.
Io invece spendo l’intera settimana – e ho proprio
l’impressione di spenderla, come se non vedere Olly mi
costasse qualcosa – svolgendo tutte le mie normali
attività: leggere, imparare, non morire. Scrivo titoli
alternativi per i libri del suo elenco: Una storia tra due
baci, Il bacio oltre la siepe, Mentre baciavo e così via.
Io e l’infermiera Perfidia abbiamo instaurato
un’odiosa routine, per cui io faccio finta che lei non
esista e lei appiccica in giro biglietti sempre più fastidiosi
per informarmi che invece esiste eccome.
Il fatto è che non ho soltanto nostalgia di Olly. Sono
anche invidiosa della sua vita, del suo mondo che si
espande oltre la porta di casa.
Lui mi racconta che la scuola superiore non è il
paradiso, ma la cosa non mi convince. In quale altra
maniera si potrebbe definire un luogo che esiste al solo
scopo di istruirti? Un luogo pieno di amici, insegnanti,
biblioteche, circoli – di lettura, di matematica, di retorica
e di qualsiasi altro genere –, attività pomeridiane e
opportunità infinite?
Arrivati alla terza settimana, mantenere il nostro
rapporto in questa nuova forma diventa più difficile. Mi
manca il fatto di potergli parlare. A gesti non si può
comunicare più di tanto. Mi manca il fatto di essere nella
stessa stanza con lui, la sua presenza fisica. Il modo in
cui il mio corpo ha sempre avuto coscienza del suo. Mi
manca la possibilità di conoscerlo meglio. E di conoscere
la Maddy che sono in sua compagnia.
Le cose vanno avanti così finché, alla fine, accade
l’inevitabile. Sono davanti alla finestra quando lo vedo
arrivare in macchina. Aspetto che scenda dall’auto per
scambiarci il nostro solito saluto con la mano, però a
uscire per primo non è lui.
Dal sedile posteriore emerge una ragazza che non è
Kara.
Magari è una sua amica.
Ma poi Kara scende dall’auto sbattendo la portiera ed
entra in casa lasciando Olly da solo con la Ragazza
misteriosa. La Ragazza misteriosa scoppia a ridere per
qualcosa che le ha detto Olly. Poi si volta, gli piazza una
mano sulla spalla e gli sorride come ho sempre fatto io.
All’inizio sono scioccata, non riesco proprio a credere
ai miei occhi. Sta toccando il mio Olly? Mi si chiude lo
stomaco, come se una mano gigantesca mi avesse
afferrato per la vita e mi stesse stritolando. Ho la
sensazione di avere tutti gli organi fuori posto, sono a
disagio nella mia stessa pelle.
Lascio andare la tenda e mi allontano dalla finestra. Mi
sento una guardona.
Mi tornano in mente le parole della mamma. Non
voglio vederti con il cuore spezzato. Sapeva che cosa
sarebbe successo. Che ci sarebbe stata sempre un’altra.
Una ragazza che non è malata. Che può uscire di casa.
Con cui Olly può parlare. E che può toccare, baciare e
tutto il resto.
Combatto l’irrefrenabile impulso di tornare alla
finestra e di studiare la mia rivale. Ma come si può avere
una rivale se non si scende nemmeno in campo? E non
importa che aspetto abbia quella ragazza. Non importa se
ha le gambe lunghe o corte. Se ha la carnagione chiara o
scura, i capelli neri o castani o rossi o biondi. Non
importa se è carina oppure no.
Quello che importa è che sente il sole sulla pelle. Che
respira aria non filtrata. Che vive nello stesso mondo di
Olly, mentre io no. Io in quel mondo non ci vivrò mai.
Do un’altra sbirciata. La ragazza tiene ancora la mano
sulla spalla di Olly e continua a ridere. Lui guarda
impensierito la mia finestra, ma sono certa che non mi
vede. Mi saluta comunque, però io mi ritraggo fingendo,
a beneficio suo e mio, di non esserci.
ALOHA VUOL DIRE CIAO E ADDIO,
PARTE PRIMA

HO annullato un’altra delle nostre serate madre-figlia,


così la mamma si presenta in camera mia.
«Be’?» esordisce.
«Scusa se ho annullato la nostra serata. È solo che
non mi sento in formissima.»
Lei appoggia immediatamente il dorso della mano sulla
mia fronte.
«Psicologicamente, non fisicamente», le spiego. Non
riesco a togliermi dalla testa l’immagine della Ragazza
misteriosa che tocca il mio Olly.
La mamma annuisce, però non leva la mano finché
non è del tutto convinta che non ho la febbre.
«Be’?» la imbecco io. Voglio proprio essere lasciata in
pace.
«Sono stata anch’io una ragazzina. E figlia unica. Mi
sentivo molto sola. E ho vissuto l’adolescenza come una
fase davvero dolorosa.»
È venuta per questo? Perché pensa che mi senta sola?
Che abbia qualche strana angoscia adolescenziale?
«Non mi sento sola, mamma», sbotto. «Io sono sola.
C’è una bella differenza.»
Ci rimane di sasso, ma non batte in ritirata. Anzi,
lascia andare qualcosa che teneva in mano e mi
accarezza la guancia finché il mio sguardo non incontra il
suo.
«Lo so, cucciola.» E riporta le mani dietro la schiena.
«Magari non è il momento. Vuoi che me ne vada?»
La mamma è sempre così ragionevole e comprensiva
che è difficile arrabbiarsi con lei.
«No, non importa. Scusami. Resta pure», la
rassicuro, tirando su le gambe per farle posto. «Che cosa
nascondi?» le domando.
«Ti ho portato un regalo. Pensavo che ti avrebbe fatto
sentire meno sola, ma ora non ne sono più così
convinta.»
Mi porge una fotografia incorniciata. Quando la
guardo mi si stringe il cuore. È una vecchia fotografia di
noi quattro – io, la mamma, il papà e mio fratello – su
una spiaggia, in qualche località tropicale. Il sole è
tramontato alle nostre spalle, e chiunque abbia scattato
quella foto ha usato il flash, così abbiamo tutti quanti le
facce abbagliate, quasi fosforescenti, sullo sfondo scuro
del cielo.
Mio fratello è aggrappato con una mano a mio padre,
e nell’altra tiene ben saldo un coniglietto di peluche
marrone. È in tutto e per tutto una versione in miniatura
della mamma, con i suoi capelli neri e lisci e gli occhi
scuri, a eccezione della carnagione, che è la stessa di
papà. Mio padre indossa pantaloncini e maglietta
hawaiani. La sola parola che mi viene in mente per
descriverlo è bizzarro. Eppure è così bello. Con il braccio
cinge la spalla della mamma e sembra volerla tirare
ancora di più a sé. Ha gli occhi puntati verso l’obiettivo e
la faccia di uno che non può desiderare altro dalla vita.
La mamma indossa un vestito rosso a fiori e senza
spalline. I capelli umidi le incorniciano il viso. È senza
trucco e senza gioielli. Pare proprio provenire da un
universo parallelo rispetto alla mamma che è seduta
accanto a me in questo momento. Come se il suo posto
fosse più su quella spiaggia insieme a quelle persone che
non qui, bloccata in questa stanza con me. Nella foto mi
tiene fra le braccia, ed è l’unica di noi che non fissa
l’obiettivo. Ride e guarda me, che sfoggio il classico
sorriso sciocco e sdentato dei neonati.
In vita mia non avevo mai visto una foto di me stessa
fuori. E nemmeno sapevo che ce ne fossero.
«Dov’è stata scattata?» chiedo alla mamma.
«Alle Hawaii. Maui era il posto preferito di tuo padre.»
La sua voce è ormai ridotta a un sussurro. «Avevi
solo quattro mesi, prima che scoprissimo perché eri
sempre malata. Un mese prima dell’incidente.»
Mi stringo la fotografia al petto. Gli occhi della
mamma si riempiono di lacrime che non scendono.
«Ti voglio bene», mi dice. «Più di quanto credi.»
Ma io lo so, quanto bene mi vuole. Ho sempre
l’impressione che il suo cuore stia per uscirle dal petto
per proteggere il mio. Sento ancora le ninnenanne nella
sua voce. Le sue braccia che mi cullano finché non mi
addormento, i suoi baci sulle guance al mattino. Anch’io
le voglio un mondo di bene. Non riesco nemmeno a
immaginare il mondo al quale ha rinunciato per me.
Non so che cosa rispondere, così le dico che le voglio
bene anch’io. Non è abbastanza, ma dovrà accontentarsi.

Dopo che la mamma se n’è andata, mi metto in piedi


davanti allo specchio con la fotografia accanto al viso.
Sposto lo sguardo dalla me stessa della foto alla me
stessa dello specchio e viceversa.
Le fotografie sono un po’ come delle macchine del
tempo. La mia stanza svanisce e mi ritrovo su quella
spiaggia, circondata dall’amore, dall’aria salmastra, dal
calore del sole che si attenua e dalle ombre che si
allungano al tramonto.
Riempio i miei piccoli polmoni con quanta più aria
possibile e trattengo il respiro. Lo sto ancora trattenendo
da allora.
PIÙ TARDI, ORE 21.08

QUANDO vado alla finestra, Olly mi sta già aspettando.


Scrive sul vetro, a caratteri cubitali:

Io gli esprimo a gesti la mia totale e assoluta


mancanza di gelosia.
IVAN E LE NAVI

A VOLT E rileggo i miei libri preferiti al contrario,


cominciando dall’ultimo capitolo e tornando indietro fino
all’inizio. In questo modo, i personaggi passano dalla
speranza alla disperazione, dalla consapevolezza di sé
all’incertezza.
Nelle storie d’amore si parte con una coppia di amanti
e ci si ritrova con due perfetti sconosciuti. I romanzi di
formazione diventano storie di smarrimento. E i nostri
personaggi preferiti rinascono.
Se la mia vita fosse un romanzo e la si leggesse a
ritroso, non cambierebbe niente.
Oggi è uguale a ieri.
Domani sarà uguale a oggi.
Nel Libro di Maddy tutti i capitoli sono identici.
Fino a Olly.
Prima di lui la mia vita era un palindromo, sempre la
stessa in un verso come nell’altro, tipo «o tra poco
parto», oppure «Ivan e le navi».
Ma Olly è come una lettera estratta a caso, l’enorme
X che, gettata in mezzo a una parola o a una frase, ne
scombina la sequenza.
E così ora la mia vita non ha più senso. Vorrei quasi
non averlo mai conosciuto.
Come faccio adesso a tornare alla mia vecchia
esistenza, alla mia sfilza infinita di giorni
insopportabilmente uguali?
Come faccio a tornare a essere la Ragazza che legge?
Non che voglia rinnegare il mio amore per i libri.
Tutto quello che so del mondo l’ho imparato lì, ma una
descrizione di un albero non è un albero, e mille baci di
carta non eguaglieranno mai la sensazione delle labbra di
Olly sulle mie.
IL MURO DI VETRO

UNA settimana più tardi, mi sveglio di soprassalto e


scatto a sedere sul letto. Il sonno mi annebbia la mente,
ma il mio cuore è vigile e batte all’impazzata. Sa qualcosa
di cui la mia mente è ancora ignara.
Guardo l’orologio: sono le 3.01 di mattina. Le mie
tende sono chiuse, però dalla stanza di Olly vedo
provenire un bagliore. Mi trascino alla finestra e le
scosto. La casa dei vicini è illuminata a giorno. È accesa
persino la luce del portico. Il mio cuore accelera ancora
di più.
Oh, no. Stanno litigando di nuovo?
Sento sbattere una porta, un rumore sordo ma
inconfondibile. Tiro le tende con la mano e aspetto,
ansiosa che Olly compaia. L’attesa è breve, perché un
attimo dopo esce incespicando sul portico, come se
qualcuno l’avesse spinto.
Il desiderio irrefrenabile di raggiungerlo mi pervade
come l’ultima volta. Sento la necessità di andare da lui. Il
bisogno di andare da lui, di consolarlo, di proteggerlo.
Ritrova l’equilibrio, svelto come sempre, e si volta
fulmineo verso la porta con i pugni serrati. D’istinto mi
preparo anch’io a un’aggressione che non avviene. Olly
resta in assetto da combattimento, di fronte alla porta,
per un intero minuto. Non l’ho mai visto così immobile.
Passa un altro minuto e la madre lo raggiunge sul
portico. Tenta di toccargli il braccio, ma lui si ritrae e
non le rivolge nemmeno uno sguardo. Alla fine lei ci
rinuncia e, non appena se ne va, Olly rilascia tutta la
tensione. Si preme i palmi delle mani sugli occhi e le
spalle cominciano a tremargli. Poi alza lo sguardo verso
la mia finestra. Lo saluto con la mano, ma non risponde.
Mi rendo conto che non può vedermi perché le luci di
camera mia sono spente. Corro all’interruttore solo che,
quando ritorno alla finestra, lui non c’è più.
Schiaccio la fronte, i palmi, gli avambracci contro il
vetro.
Non ho mai desiderato così tanto strapparmi la pelle
di dosso.
IL MONDO NASCOSTO

QUALCHE volta il mondo ci si rivela. Sono sola in


veranda, all’imbrunire. Il sole del tardo pomeriggio
ritaglia un trapezio di luce nella vetrata. Alzo lo sguardo e
nel fascio luminescente sospeso nell’aria vedo fluttuare
particelle di polvere di un bianco cristallino.
Ci sono interi mondi della cui esistenza non siamo
neanche consapevoli.
UNA VITA A METÀ

ACCORGERSI di provare il desiderio di morire è strano.


Non è un’illuminazione, un’epifania improvvisa. È un
processo lento, come l’aria che esce al contrario da un
palloncino.
L’immagine di Olly che piange da solo sul portico non
vuole abbandonarmi.
Osservo attentamente le fotografie che mi ha mandato
da scuola e mi ricavo uno spazio in ognuna. Maddy in
biblioteca. Maddy in piedi accanto all’armadietto di Olly,
in attesa di andare a lezione. Maddy in tutte le situazioni
possibili.
Poi memorizzo ogni centimetro della mia foto di
famiglia, cercando di carpirne i segreti. Esamino con
stupore la Maddy non malata, la piccola Maddy, la vita
che si stende davanti a lei con una serie infinita di
opportunità.
Da quando Olly è entrato nella mia esistenza ci sono
due Maddy: quella che vive attraverso i libri e non vuole
morire, e quella che vive e sospetta che la morte non sia
un prezzo troppo alto da pagare pur di vivere. La prima
Maddy è stupita dalla direzione che hanno preso i suoi
pensieri. Ma la seconda Maddy, quella della fotografia
scattata alle Hawaii? È come una divinità, indifferente al
freddo, alla miseria, alla malattia, ai disastri naturali e a
quelli causati dall’uomo. E indifferente al cuore che si
spezza.
La seconda Maddy sa che questa sbiadita vita a metà
non è la vita vera.
ADDIO

Cara mamma,
la prima cosa è che ti voglio bene. Questo lo sai già, ma
potrebbe essere l’ultima occasione che ho per dirtelo.
Quindi. Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene.
Sei una persona intelligente, forte, gentile e altruista.
Non avrei potuto desiderare una madre migliore di te.
So che non capirai quello che sto per dirti. Non so
nemmeno se lo capisco io.
Se sono viva lo devo a te, mamma, e te ne sono tanto,
tanto grata. Se sono sopravvissuta così a lungo e se ho
avuto l’occasione di conoscere la mia piccola parte di
mondo, lo devo a te. Ma non mi basta. Non è colpa tua. È
questa vita impossibile.
Non lo faccio solo per via di Olly. O forse sì. Non lo so.
Non so come spiegartelo. Olly c’entra e non c’entra. È
come se non potessi più guardare il mondo con gli occhi di
prima. Ho scoperto questa nuova parte di me stessa
quando è arrivato lui, e la nuova parte di me non sa come
restarsene buona e tranquilla a osservare tutto da lontano.
Ti ricordi quando abbiamo letto insieme per la prima
volta Il Piccolo Principe? Ci sono rimasta così male che alla
fine morisse. Non capivo come potesse scegliere la morte
solo per ricongiungersi alla sua rosa.
Ma adesso credo di capirlo. Non stava scegliendo di
morire. La sua rosa era tutta la sua vita. Senza di lei, non si
sentiva realmente vivo.
Non lo so, mamma. Non so che cosa sto facendo, so
solo che devo farlo. Qualche volta vorrei tornare a essere
quella di prima, ignara di tutto. Ma non posso.
Mi dispiace. Perdonami. Ti voglio bene.
Maddy
I CINQUE SENSI

UDITO
La tastiera dell’allarme cerca di annunciare la mia fuga
emettendo un sonoro biiip ogni volta che premo un
numero. Posso solo sperare che la mamma non lo senta
perché non è un rumore che si aspetta e perché la sua
camera è troppo lontana dall’ingresso.
La porta si sblocca con un sospiro.
Sono fuori.
Il mondo è così silenzioso che ruggisce.

TATTO
La maniglia metallica della porta d’ingresso è fredda e
liscia, quasi scivolosa. È facile lasciarla andare, e lo
faccio.

VISTA
Sono le 4 del mattino ed è troppo buio per cogliere i
dettagli. I miei occhi distinguono soltanto i contorni delle
cose, sagome indistinte sullo sfondo del cielo notturno.
Albero grande, albero più piccolo, scalini, giardino,
vialetto lastricato che conduce a un cancello con una
staccionata su entrambi i lati. Cancello, cancello,
cancello.

OLFATTO
Sono nel giardino di Olly. L’aria è piena, satura di
profumi: fiori, terra, la mia paura crescente.
Immagazzino tutto nei polmoni. Poi lancio dei sassolini
contro la sua finestra, ansiosa di vederlo uscire.

GUSTO
Me lo ritrovo davanti, sbigottito. Non dico una parola,
ma premo le mie labbra contro le sue. All’inizio è rigido,
confuso e restio, ma poi cede. Tutt’a un tratto mi stringe
forte a sé. Con una mano mi accarezza i capelli e con
l’altra mi cinge la vita.
Il suo sapore è identico a come me lo ricordavo.
ALTRI MONDI

OLLY e io torniamo in noi.


O meglio, lui torna in sé, si ritrae e mi afferra le spalle
con entrambe le mani. «Che cosa fai qua fuori? Stai
bene? È successo qualcosa? Tua madre sta bene?»
Mi mostro spavalda. «Io sto bene. E anche lei. Sto
scappando.»
Il tenue bagliore che proviene dalla stanza di Olly è
sufficiente a illuminargli il viso, su cui leggo sorpresa e
spaesamento.
«Non capisco», mi dice.
Tiro un lungo sospiro, ma arrivata a metà mi blocco.
L’aria notturna è fredda, umida, pesante e
completamente diversa da qualsiasi aria abbia mai
respirato.
Tento di farla fuoriuscire, di espellerla dai polmoni. Mi
formicolano le labbra e avverto una sensazione di
stordimento. È soltanto paura oppure è qualcos’altro?
«Maddy, Maddy», mi sussurra all’orecchio. «Che
cosa hai fatto?»
Non riesco a rispondere. Ho la gola serrata, come se
avessi inghiottito un sasso.
«Cerca di non respirare», raccomanda, mentre mi
spinge verso casa.
Per un attimo o due mi lascio condurre, ma poi mi
fermo.
«Che c’è? Puoi camminare? O devo portarti in
braccio?»
Scuoto la testa e ritraggo la mano.
Inspiro una boccata di aria notturna. «Ti ho detto che
sto scappando.»
Lui emette un verso simile a un grugnito. «Ma che
stai dicendo? Non avrai mica istinti suicidi?»
«L’esatto opposto», replico io. «Mi aiuterai?»
«A far che?»
«Non ho la macchina. E non so guidare. Non so
niente del mondo.»
Lo sento fare un altro verso, a metà fra un grugnito e
una risata. Vorrei tanto vedere i suoi occhi nel buio.
Qualcosa sbatte. Una porta? Gli afferro la mano e lo
tiro verso di me. Insieme ci schiacciamo contro la parete
laterale della casa. «Che cosa è stato?»
«Cavolo. Una porta. Di casa mia.»
Mi schiaccio ancora di più contro la parete, cercando
di scomparire. Poi do una sbirciata al vialetto che unisce
le nostre case aspettandomi di veder comparire la
mamma. E invece non c’è.
Chiudo gli occhi. «Portami sul tetto.»
«Maddy…»
«Ti spiegherò tutto.»
L’intero mio piano dipende dalla sua disponibilità ad
aiutarmi. Ma in realtà non ho mai preso in considerazione
l’idea che potesse rifiutarsi di farlo.
Restiamo in silenzio il tempo di un respiro. Di due. Poi
di tre.
Olly mi afferra la mano e mi guida dalla parte opposta
della casa, nel punto più lontano dalla mia, dove troviamo
una lunga scala a pioli che conduce sul tetto.
«Soffri di vertigini?» mi chiede.
«Non lo so», rispondo, e comincio a salire.
Appena arriviamo sul tetto io mi accuccio, ma Olly
dice che non ce n’è bisogno.
«La gente non guarda quasi mai in alto», mi rassicura.
Al mio cuore serve qualche minuto per tornare a
battere normalmente.
Olly si accoccola su se stesso con la sua solita,
insolita grazia. E io sono felice di osservarlo.
«Ma insomma, che succede?» mi domanda dopo un
po’.
Mi guardo intorno. Avevo sempre desiderato sapere
che cosa ci facesse, qua sopra. Una parte del tetto è a
due spioventi, ma noi siamo seduti in un punto in cui è
piatto, più o meno in corrispondenza del retro della casa.
Nel buio, distinguo delle sagome: un tavolino di legno
con una tazza, una lampada e dei fogli accartocciati.
Forse viene quassù a scrivere, a comporre brutte poesie.
Limerick, magari.
«Funziona quella lampada?» gli chiedo.
La accende senza dire una parola, e la lampada
proietta intorno a noi un cerchio di luce diffusa. Ho quasi
paura di guardarlo negli occhi.
I fogli appallottolati sono incarti di un fast food. Non
scrive poesie in segreto, quindi. Accanto al tavolo ci
sono un telone cerato grigio e polveroso che copre
qualcosa, o forse più cose, e attrezzi vari sparpagliati alla
rinfusa: chiavi inglesi, tronchesini di diverse misure,
martelli e qualche altro strumento che non riconosco.
C’è persino una fiamma ossidrica.
Alla fine mi decido a guardarlo.
Ha i gomiti poggiati sulle ginocchia e sta
contemplando il cielo che lentamente si rischiara.
«Ma che cosa vieni a fare qua sopra?» gli domando.
«Quello che faccio qui non ha nessuna importanza,
adesso», mi risponde in tono duro e senza rivolgermi
nemmeno un’occhiata. Non c’è traccia del ragazzo che
mi ha baciato così appassionatamente qualche minuto fa.
La paura che prova per me ha scacciato tutto il resto.
Ci sono momenti in cui le ragioni del nostro agire
sono giuste e altri in cui sono sbagliate, e qualche volta è
impossibile cogliere la differenza.
«Ho delle pillole», gli dico.
Era già quasi immobile, ma le mie parole lo
paralizzano del tutto. «Quali pillole?»
«Sono sperimentali, non ancora approvate dal
ministero della Salute. Le ho ordinate online. Dal
Canada.» È una bugia facile, mi richiede poco sforzo.
«Online? E come sai che non sono pericolose?»
«Ho fatto un sacco di ricerche.»
«Okay, ma non puoi essere sicura che…»
«Non sono un’incosciente», ribatto sostenendo il suo
sguardo. Queste bugie servono a proteggerlo. E infatti lo
vedo già più sollevato, così lo incalzo: «Dovrebbero
darmi la possibilità di trascorrere qualche giorno fuori.
Non l’ho detto a mia madre perché lei non se la
sentirebbe di rischiare, ma io…»
«Il rischio c’è, infatti. Hai appena detto che non sono
state approvate…»
«Ma per qualche giorno non c’è pericolo», insisto, in
un tono che non lascia dubbi. Poi aspetto, sperando che
Olly la beva.
«Cavolo.» Si nasconde il viso fra le mani e resta così.
Quando alza di nuovo gli occhi, quello che mi sta
guardando è un Olly meno riluttante, addolcito persino
nella voce. «Avresti potuto dirmelo cinque minuti fa.»
Faccio del mio meglio per allentare la tensione. «Ma ci
stavamo baciando! E poi tu ti stavi arrabbiando con me.»
Parlare del bacio e mentirgli così sfacciatamente mi fa
arrossire. «Te l’avrei detto. E infatti te lo sto dicendo.
Anzi, te l’ho appena detto.»
Olly è troppo intelligente per cascarci, però vuole
crederci. Vuole crederci più di quanto voglia sapere la
verità. Il suo viso si apre in un sorriso cauto, ma così
bello che non riesco a distogliere lo sguardo. Per un
sorriso come questo sarei disposta a mentirgli ancora.
«Be’, che cosa c’è sotto quell’affare?» gli domando.
Lui mi porge un lembo dell’incerata e io la scosto.
All’inizio, quello che vedo mi lascia perplessa. È come
leggere una serie di parole apparentemente disposte a
caso prima che l’intera frase acquisti significato.
«È bellissimo», commento.
«È un planetario meccanico.»
«E così era questo che facevi quassù? Costruivi
universi?»
Lui alza le spalle.
Un alito di vento fa ruotare lentamente i pianeti.
Entrambi ne osserviamo il movimento senza parlare.
«Sei proprio sicura di quello che fai?» mi domanda, la
voce di nuovo incrinata dal dubbio.
«Aiutami, Olly, ti prego. Ti prego.» Punto un dito
verso il planetario. «Anch’io ho bisogno di scappare,
solo per un pochino.»
Annuisce. «Dove vuoi andare?»
ALOHA VUOL DIRE CIAO E ADDIO,
PARTE SECONDA
GIÀ FELICE

«MADS, sii seria. Non possiamo andare alle Hawaii.»


«Perché no? Ho preso i biglietti aerei. E ho anche
prenotato l’albergo.»
Siamo seduti nella macchina di Olly, nel vialetto di
casa. Lui infila la chiave nel cruscotto, ma non la gira.
«Stai scherzando?» mi domanda, scrutandomi con
attenzione per avere la prova che io stia davvero
scherzando. Quando capisce che faccio sul serio, inizia a
scuotere lentamente la testa. «Le Hawaii distano quasi
cinquemila chilometri.»
«Motivo per cui ci andiamo in aereo.»
Il mio tentativo di metterla sul ridere cade nel vuoto.
«Sei pazza? Quando hai organizzato la cosa? Come?
Perché?»
«Un’altra domanda e possiamo giocare alle prime
cinque cose preferite», replico io.
Lui si china in avanti e preme la fronte sul volante.
«Ieri sera, con una carta di credito, perché voglio
vedere il mondo.»
«Hai la carta di credito?»
«Me la sono procurata qualche settimana fa.
Frequentare una donna più anziana ha i suoi vantaggi.»
Olly scosta la fronte dal volante, ma continua a
guardare dritto davanti a sé senza rivolgermi nemmeno
un’occhiata. «E se ti succede qualcosa?»
«Non mi succederà niente.»
«E se invece ti succede?»
«Ho le pillole, Olly. Funzioneranno.»
Strizza gli occhi e appoggia la mano sulla chiave. «Lo
sai che qui nel Sud della California abbiamo un sacco di
mondo?»
«Ma nemmeno un humuhumunukunukuapua’a.»
La bocca gli si incurva in un mezzo sorriso, ma io
voglio che si apra in uno pieno.
Si volta a guardarmi. «Ma di che cavolo parli?»
«Dell’humuhumunukunukuapua’a.»
«E cosa sarebbe, quest’humu-blablabla?»
«Il pesce simbolo dello Stato delle Hawaii.»
Finalmente il sorriso gli si allarga. «Ma certo, è
ovvio.» Quando gira la chiave nel cruscotto, indugia con
lo sguardo sulla casa e il suo sorriso si affievolisce un
po’. «Quanto ci stiamo?»
«Due notti.»
«Okay.» Poi mi afferra la mano e mi schiocca un
bacio. «Andiamo a vedere questo pesce.»
L’umore di Olly migliora a mano a mano che ci
allontaniamo da casa. Questo viaggio rappresenta per lui
la scusa perfetta per sgravarsi, almeno per un po’, del
peso della sua famiglia. E poi un suo vecchio amico di
New York, Zach, vive proprio a Maui.
«Zach ti piacerà», mi assicura.
«Mi piacerà tutto», replico io.
Il nostro volo parte alle 7 del mattino, e nell’attesa
voglio fare una deviazione.
Stare seduta nella macchina di Olly è come trovarsi in
una bolla molto rumorosa e molto veloce. Lui non solo si
rifiuta di aprire i finestrini, ma preme persino un pulsante
sul cruscotto che impedisce la circolazione dell’aria.
Sentire lo stridio degli pneumatici sull’asfalto è come
avere qualcuno che mi sibila nelle orecchie – un fischio
basso e costante –, tanto che cerco di resistere
all’impulso di tapparmele.
A detta di Olly non stiamo correndo, ma io ho
l’impressione di sfrecciare come una saetta. Ho letto che
i passeggeri dei treni ad alta velocità affermano di avere
una visione sfocata del mondo esterno e anche se noi
viaggiamo molto più lentamente di quei treni, il paesaggio
scorre troppo veloce perché il mio sguardo riesca a
tenere il passo. Distinguo a malapena le sagome delle
case sulle colline brune, in lontananza. Cartelli con scritte
e simboli criptici vanno e vengono sopra la mia testa
prima che possa decifrarli. Adesivi attaccati ai paraurti e
targhe di automobili appaiono e scompaiono in un batter
d’occhio.
Nonostante il fenomeno fisico mi sia chiaro, non mi
capacito del fatto che il mio corpo si sposti benché io sia
seduta, ferma e immobile. Be’, non proprio immobile.
Ogni volta che Olly accelera mi ritrovo schiacciata
contro il sedile, mentre quando frena vengo catapultata in
avanti.
Ogni tanto rallentiamo abbastanza da riuscire a vedere
le persone nelle altre auto.
Sorpassiamo una donna che scuote la testa e batte le
mani contro il volante, e solo in un secondo momento mi
rendo conto che probabilmente si stava muovendo a
ritmo di musica. Due bambini sui sedili posteriori di
un’altra automobile mi fanno la linguaccia e ridono, ma
io non reagisco, perché non so bene che cosa preveda
l’etichetta in questi casi.
Rallentiamo fino a una velocità più umana, dopodiché
usciamo dall’autostrada.
«Dove siamo?» domando a Olly.
«A Koreatown.»
La testa mi ronza per lo sforzo di guardare
contemporaneamente dappertutto. Ci sono insegne e
tabelloni illuminati a giorno con scritte in coreano. E dato
che io il coreano non lo so leggere, mi sembrano tutti
opere d’arte piene di forme bellissime e misteriose, anche
se si tratterà solo di banalità del tipo ristorante o farmacia
o aperto 24 ore su 24.
È ancora presto, ma c’è già un sacco di gente che fa
un sacco di cose: cammina, parla, è seduta o in piedi da
qualche parte, corre, va in bicicletta. Quasi quasi non ci
credo che siano persone reali. Sono proprio come i
soggetti in miniatura che posiziono nei miei plastici, qui
per conferire a Koreatown la famosa forza vitale.
O forse sono io che in realtà non sono una persona
reale, che non sono realmente qui.
Continuiamo a viaggiare per qualche minuto, e alla
fine ci fermiamo vicino a un palazzo a due piani, con una
fontana nel cortile.
Olly si toglie la cintura ma non si schioda dal sedile.
«Non può succederti niente», dice.
Gli prendo la mano. «Grazie», è l’unica cosa che mi
viene in mente. Ma invece vorrei dirgli che è colpa sua,
se sono fuori. E che l’amore apre le porte del mondo.
Prima di incontrare Olly ero felice. Ma adesso sono
viva, e tra le due cose c’è una bella differenza.
INFETTA

AP P ENA mi vede, Carla lancia un grido e si nasconde il


viso fra le mani.
«Sei un fantasma?» domanda. Poi mi afferra per le
spalle, mi stringe forte al petto, mi dondola da una parte
all’altra e mi stringe di nuovo. Alla fine non ho più aria
nei polmoni.
«Ma che ci fai qui? Non puoi», dice, continuando ad
abbracciarmi.
«Anch’io sono contenta di vederti», replico con la
voce strozzata.
Carla si ritrae, scuote la testa come se fossi una
specie di miracolo e mi attira ancora a sé.
«Oh, bambina mia!» esclama. «Oh, quanto mi sei
mancata!»
«Anche tu mi sei mancata. Mi dispiace tanto per…»
«Smettila. Non hai niente da rimproverarti.»
«Ma è colpa mia se hai perso il lavoro.»
«Ne ho trovato un altro. E poi, sei tu che mi manchi.»
«E tu manchi a me.»
«Tua madre ha fatto quello che doveva.»
Non voglio pensare alla mamma, così mi guardo
intorno cercando Olly, che è in piedi a una certa distanza
da noi.
«Ti ricordi di Olly?» le domando.
«Come potrei dimenticare quella faccia? E quel
fisico», risponde, alzando la voce a sufficienza per farsi
sentire da lui. Dopodiché gli si avvicina baldanzosa e lo
abbraccia, non proprio con la stessa irruenza con cui ha
abbracciato me, ma quasi.
«Ti stai prendendo cura della nostra ragazza?» gli
chiede, dandogli un buffetto un po’ troppo caloroso sul
viso.
Olly si massaggia la guancia. «Faccio del mio meglio.
Non so se risulta anche a lei, ma Madeline ha la testa un
po’ dura.»
Carla guarda più volte sia lui sia me, avvertendo la
tensione che c’è fra di noi.
Siamo ancora fermi sulla porta.
«Venite dentro, su.»
«Non pensavamo di trovarti sveglia così presto», le
dico mentre entriamo in casa.
«Quando si invecchia, si smette di dormire. Te ne
accorgerai.»
Vorrei chiederle: Ma io diventerò mai vecchia? E
invece mi limito a domandarle: «Rosa c’è?»
«È di sopra, sta dormendo. La sveglio?»
«Non abbiamo tempo. Volevo solo vederti.»
Mi afferra il viso e mi osserva, questa volta con lo
sguardo da infermiera.
«Devo essermi persa un sacco di cose. Che ci fai qui?
Come ti senti?»
Olly si avvicina, in attesa della mia risposta, mentre io
mi stringo le braccia al corpo.
«Sto benissimo», dichiaro, fin troppo pimpante.
«Raccontale delle pillole», mi incalza lui.
«Quali pillole?» domanda Carla, lo sguardo fisso su di
me.
«Abbiamo trovato delle pillole. Sperimentali.»
«Tua madre non ti ha mai dato niente di sperimentale,
lo so per certo.»
«Me le sono procurate da sola. La mamma non lo
sa.»
Carla annuisce: era quello che sospettava. «E dove?»
Le dico la stessa cosa che ho detto a Olly, ma lei non
mi crede. Nemmeno per un attimo. Si tappa la bocca con
la mano e sgrana gli occhi.
La fisso supplicandola in silenzio. Ti prego, Carla.
Cerca di capire, ti prego. Non smascherarmi, te ne prego.
Sei stata tu a dirmi che la vita è un dono.
Lei abbassa la testa e si disegna piccoli cerchi con la
mano in un punto poco sopra il petto.
«Avrete fame. Vi preparo un po’ di colazione.»
Prima di scomparire in cucina ci guida verso un
divano super​imbottito di un giallo sgargiante.
«Me la immaginavo proprio così, la sua casa», dico a
Olly appena rimaniamo soli. Non voglio che cominci a
farmi domande sulle famose pillole.
Restiamo in piedi e io mi allontano da lui di qualche
passo. Le pareti sono dipinte con colori primari e quasi
tutte le superfici sono coperte da soprammobili e
fotografie.
«A quanto pare, Carla è d’accordo con la storia delle
pillole», commenta alla fine Olly. Poi mi si avvicina, ma
io mi irrigidisco: ho paura che toccandomi riesca a
sentire le bugie sulla mia pelle.
Vago per il salotto, osservando le fotografie di
generazioni di donne che somigliano tutte a Carla.
Appesa sopra un divanetto ce n’è una che la ritrae con in
braccio Rosa neonata. Qualcosa nella foto mi ricorda la
mamma. È il modo in cui Carla guarda la figlia: non solo
con amore, ma anche con una certa ferocia, come se
fosse pronta a tutto pur di proteggerla. Non riuscirò mai
a ripagare mia madre di tutto quello che ha fatto per me.

Per colazione Carla ci prepara le chilaquiles: tortillas


di mais con salsa, formaggio e crema mexicana, una
specie di panna acida. Hanno un sapore nuovo e
delizioso, ma ne assaggio soltanto un boccone. Sono
troppo agitata per mangiare.
«Allora, Carla. Dal tuo punto di vista professionale,
credi davvero che queste pillole stiano funzionando?» le
domanda Olly, la voce traboccante di ottimismo.
«Forse», risponde lei, scuotendo però la testa. «Ma
non voglio darvi false speranze.»
«Di’ pure ciò che pensi», la incalzo. Vorrei tanto
chiederle perché non mi sono ancora sentita male, ma
non posso, intrappolata come sono nelle mie bugie.
«È possibile che questi medicinali stiano ritardando la
comparsa della malattia. Oppure che, pillole o no, tu non
sia ancora entrata in contatto con uno dei fattori
scatenanti.»
«O magari funzionano sul serio», interviene Olly.
Ormai nutre molto più di una semplice speranza: per
come la vede lui, queste pillole sono un vero miracolo.
Carla allunga un braccio e accarezza la mano di Olly.
«Sei un bravo ragazzo», gli dice.
Dopodiché, evitando il mio sguardo, prende i nostri
piatti e va in cucina.
Io la seguo, a passi lenti per la vergogna. «Grazie.»
Si asciuga le mani con uno strofinaccio. «Ti capisco.
Capisco perché sei uscita.»
«Potrei anche morire, Carla.»
Lei bagna un panno da cucina e comincia a strofinare
il bancone in un punto già pulitissimo. «Ho lasciato il
Messico nel cuore della notte, senza portarmi dietro
niente. Non credevo che sarei sopravvissuta. In tanti non
ce la fanno, ma io sono partita lo stesso. Ho abbandonato
mio padre, mia madre, mia sorella e mio fratello.»
Risciacqua il panno e continua a strofinare. «Loro hanno
cercato di fermarmi. Dicevano che non valeva la pena
rischiare la vita, ma io ho risposto che la vita era la mia e
stava a me decidere per cosa valesse la pena metterla a
rischio. Ho detto che sarei andata comunque, o verso la
morte o verso un futuro migliore.» Sciacqua ancora il
panno e lo strizza energicamente. «Ti dirò una cosa:
quella notte, quando me ne sono andata di casa, mi sono
sentita più libera che mai. Persino adesso, in tutto il
tempo che ho passato qui, non ho mai provato un simile
senso di libertà.»
«E non hai rimpianti?»
«Certo che ne ho. Durante quel viaggio mi sono
successe un sacco di brutte cose. E quando mia madre e
mio padre sono morti, non sono potuta andare ai loro
funerali. Mia figlia non sa niente del posto da cui
proviene», mi racconta sospirando. «Ma se uno non ha
rimpianti, significa che non sta vivendo.»
E io che cosa rimpiangerò? Una serie di visioni mi
attraversa la mente: la mamma da sola nella mia stanza
bianca, che si chiede dove siano finite tutte le persone
che abbia mai amato. La mamma da sola in un prato
verde, che contempla la mia tomba, quella di mio padre e
quella di mio fratello. La mamma che muore da sola in
quella casa.
Carla mi tocca il braccio e io scaccio brutalmente
tutte quelle immagini dalla testa. Non riesco a
sopportarle. Se continuo a pensarci, non vivrò più.
«Non è detto che debba sentirmi male», sussurro.
«Questo è vero», replica lei, e la speranza si diffonde
dentro di me come un virus.
CI SENTIAMO PRESTO
DOMANDE FREQUENTI DI UN
PASSEGGERO AL PRIMO VOLO

D: Qual è il modo migliore per alleviare il mal


d’orecchie causato dalle variazioni di pressione
all’interno dell’aereo?
R: Masticare chewing gum. Ma anche baciarsi.

D: Qual è il posto migliore: finestrino, centrale o


corridoio?
R: Finestrino, senza ombra di dubbio. Da diecimila
metri d’altezza il mondo è un vero spettacolo.
Attenzione, però: se siete seduti vicino al
finestrino, il vostro compagno di viaggio
potrebbe ritrovarsi accanto qualche rompiscatole
particolarmente logorroico. Baciare (il proprio
compagno, non il rompiscatole) risulta efficace
anche in situazioni del genere.

D: In un’ora, quante volte viene rinnovata l’aria


all’interno dell’aereo?
R: Venti.

D: Quante persone può coprire confortevolmente


una coperta fornita in dotazione ai passeggeri?
R: Due. Per ottenere la massima copertura,
assicurarsi di alzare il bracciolo fra i due sedili e di
accoccolarsi il più vicino possibile l’uno all’altra.

D: Com’è potuto accadere che gli umani abbiano


inventato qualcosa di così incredibile come
l’aeroplano e qualcosa di tanto terribile come la
bomba atomica?
R: Gli esseri umani sono misteriosi e paradossali.

D: Incontrerò qualche turbolenza?


R: Sì. Un po’ di turbolenza è inevitabile nella vita di
chiunque.
IL NASTRO TRASPORTATORE

«HO deciso che i nastri trasportatori per il ritiro dei


bagagli sono la metafora perfetta della vita», dichiara
Olly, seduto sul bordo di uno fermo.
Non abbiamo imbarcato nessuna valigia, né io né lui.
Io mi sono portata dietro solo uno zainetto con
l’essenziale: spazzolino da denti, biancheria intima pulita,
la guida Lonely Earth dell’isola di Maui e Il Piccolo
Principe. Non potevo lasciarlo a casa: voglio leggerlo
un’altra volta per capire il nuovo significato che ha
assunto.
«E quando l’hai deciso?» gli domando.
«In questo momento.» È in vena di formulare qualche
teoria strampalata, sta solo aspettando che io gli chieda di
farlo.
«Vuoi pensarci un altro po’, prima di deliziarmi?» lo
provoco.
Lui scuote la testa e salta giù dal nastro atterrandomi
proprio davanti. «Preferirei cominciare a deliziarti ora,
grazie.»
Con gesti magnanimi lo invito a proseguire.
«Veniamo al mondo. Ci ritroviamo sbattuti su questo
folle aggeggio chiamato vita, che gira e gira.»
«Nella tua teoria le persone sono i bagagli?»
«Sì.»
«Vai avanti.»
«A volte capita di cadere prematuramente. Altre volte,
di essere così martoriati dagli altri bagagli che ci cadono
in testa da non riuscire più a funzionare a dovere. In altri
casi ancora ci si perde, oppure si viene dimenticati e si
continua a girare in tondo per sempre.»
«E quelli che vengono ritirati, invece?»
«Finiscono in qualche armadio, a condurre esistenze
che non hanno niente di straordinario.»
Apro e chiudo la bocca più volte, non sapendo da che
parte cominciare.
Olly scambia il mio silenzio per assenso. «Vedi? È un
ragionamento perfetto», dichiara con gli occhi sorridenti.
«Davvero perfetto», ripeto io, riferendomi a lui e non
al suo ragionamento. Poi intreccio le mie dita alle sue e
mi guardo intorno. «Te lo ricordavi così?» Olly è già
stato qui una volta, quando aveva dieci anni, in vacanza
con la famiglia.
«In realtà non mi ricordo granché. Tranne che mio
padre ha detto che non sarebbe morto nessuno se
avessimo speso un po’ di soldi per farci una prima idea
del posto.»
Il terminal brulica di persone venute ad accogliere i
turisti: donne hawaiane che indossano lunghi abiti a fiori
hanno in mano cartelli di benvenuto e ghirlande di
orchidee viola e bianche appese al braccio. Nell’aria non
si sente il profumo dell’oceano, ma un vago odore
industriale di carburante per aerei e detersivo. Potrei
anche finire per apprezzarlo, però, perché mi
ricorderebbe che sto viaggiando. Il rumore che ci
circonda aumenta e diminuisce di continuo, punteggiato
qua e là da cori di aloha cantati sia da chi è qui per
salutare i turisti sia dalle famiglie in attesa. Come prima
idea del posto, non è male. Mi chiedo come abbia fatto il
padre di Olly a vivere tutta la sua vita nel mondo senza
trovarvi niente di prezioso.
«In questa teoria dei bagagli, tua madre è una delle
valigie martoriate?»
Olly annuisce.
«E tua sorella? È una di quelle che si perdono e che
continuano a girare in tondo per sempre?»
Annuisce di nuovo.
«E tu?»
«Come mia sorella.»
«E tuo padre?»
«Lui è il nastro trasportatore.»
Scuoto la testa. «No», protesto afferrandogli la mano,
«non può prendersi tutto lui, Olly.»
L’ho messo in imbarazzo. Si libera dalla mia stretta, si
allontana di qualche passo e osserva il terminal.
«A te, cara mia, serve proprio una ghirlanda.» Con un
cenno del capo indica una tizia che non ha ancora
trovato la sua comitiva di turisti.
«No che non mi serve», ribatto io.
«Oh, invece sì», insiste. «Aspetta qui.» Si avvicina
alla donna. All’inizio lei gli risponde di no con la testa, ma
Olly non si dà per vinto, come al solito. Dopo qualche
secondo ho gli sguardi di entrambi puntati addosso.
Saluto con la mano la donna per dimostrarle che sono
gentile e simpatica, il genere di persona a cui regaleresti
volentieri una ghirlanda floreale.
Alla fine lei cede e Olly ritorna trionfante. Faccio per
prendere la ghirlanda, ma lui me la mette sulla testa.
«Devi sapere che, in passato, le ghirlande di fiori
venivano donate solo alle persone di sangue reale», gli
spiego, citando la mia guida turistica. Olly mi raccoglie i
capelli con le mani e mi accarezza la nuca prima di
lasciarmi ricadere la ghirlanda sulle spalle.
«E chi non lo sa, principessa?»
Faccio scorrere la ghirlanda tra le dita, con la
sensazione che mi abbia trasmesso un po’ della sua
bellezza.
«Mahalo nui loa», dico a Olly. «Significa: Tante
grazie.»
«Hai letto quella guida parola per parola, non è vero?»
Annuisco. «Se avessi una valigia, la amerei alla follia.
Prima di partire la avvolgerei nella pellicola trasparente.
Ci attaccherei gli adesivi di tutti i posti che ho visitato. E
al momento di ritirare i bagagli dal nastro, la afferrerei
con entrambe le mani e sarei felicissima, perché a quel
punto le mie avventure potrebbero davvero cominciare.»
Olly mi guarda, un non credente di fronte a, non dico
una prova, ma almeno alla possibilità dell’esistenza di
Dio. Mi stringe fra le braccia e ci ritroviamo avvinghiati,
il suo viso affondato tra i miei capelli e il mio schiacciato
contro il suo petto. Tra i nostri due corpi non passa
nemmeno la luce del giorno.
«Non morire», mi supplica.
«Non morirò.»
IL DIZIONARIO DI MADELINE

promessa <pro•més•sa> s.f. 1. La bugia che intendiamo


mantenere. [2015, Whittier]
QUI, ORA

SECONDO la mia guida, Maui ha la forma di una testa. Il


nostro viaggio in taxi ci porterà attraverso il collo, sulla
mascella, sul mento, sulla bocca, sul naso e da lì fino alla
fronte ampia. Ho prenotato un albergo a Ka’anapali che,
geograficamente parlando, si trova sul cranio, appena
sopra all’attaccatura dei capelli.
Svoltiamo e all’improvviso eccolo lì, l’oceano, che
corre alla nostra sinistra lungo la strada, a non più di
dieci metri di distanza da noi.
La sua vastità mi lascia di stucco. Va oltre i confini del
mondo.
«Non posso credere di essermi persa tutto questo»,
ammetto. «Mi sono persa il mondo intero.»
Olly scuote la testa. «Una cosa alla volta, Maddy.
Siamo qui, ora.»
Il mio sguardo incontra l’oceano dei suoi occhi e io
annego, circondata ovunque dall’acqua. C’è così tanto
da vedere che è difficile scegliere dove concentrare
l’attenzione. Il mondo è troppo grande e io non ho
abbastanza tempo per visitarlo.
Olly mi legge di nuovo nel pensiero. «Vuoi fermarti?»
«Sì, ti prego.»
Domanda al tassista se possiamo accostare e lui
risponde che non ci sono problemi. Conosce un bel
posticino nei paraggi, un parco con area picnic.
Scendo dall’auto ancor prima che il motore sia
spento. Per raggiungere l’acqua bisogna solo percorrere
una breve discesa e attraversare la spiaggia.
Olly mi segue a una certa distanza.
L’oceano.
È più blu, più grande e più turbolento di quanto
immaginassi. Il vento mi scompiglia i capelli, mi graffia
la pelle con la sabbia e il sale, mi penetra nel naso.
Aspetto di aver oltrepassato la duna prima di togliermi le
scarpe. Poi mi arrotolo i jeans più in alto possibile. La
sabbia è rovente, asciutta e cedevole. Mi scende a
cascata sui piedi e mi scivola fra le dita.
Quando mi avvicino all’acqua, la consistenza è
diversa: adesso mi si appiccica ai piedi e li riveste come
una seconda pelle. Sul bagnasciuga cambia ancora e
diventa velluto liquido. I miei piedi lasciano l’impronta
dove è più soffice.
Finalmente li immergo nell’acqua che avanza, poi
entro fino alle caviglie e poi fino ai polpacci. Mi fermo
solo quando mi arriva alle ginocchia, inzuppandomi i
jeans.
«Stai attenta», mi grida Olly da qualche punto alle mie
spalle.
In questo contesto non capisco bene il senso delle sue
parole. Devo stare attenta perché potrei annegare? O
perché potrei sentirmi male? O forse perché, una volta
che divento parte del mondo, il mondo diventa parte di
me?
Già, perché ormai è innegabile: sono nel mondo.
E il mondo è dentro di me.
IL DIZIONARIO DI MADELINE

oceano <o•cè•a•no> s.m. 1. Quella sconfinata parte di noi


stessi che non abbiamo mai saputo, ma che abbiamo
sempre sospettato, di avere. [2015, Whittier]
RICOMPENSA IN CASO DI
RITROVAMENTO

IL nostro albergo è proprio sulla spiaggia, e dal piccolo


patio all’aperto possiamo vedere l’oceano e sentirne
l’odore. Veniamo accolti con i soliti aloha e con altre
ghirlande floreali. Olly mi cede la sua, così ora ne ho tre
appese al collo, una sopra l’altra. Un fattorino con la
camicia hawaiana bianca e gialla si offre di andare a
prendere il nostro bagaglio inesistente. Olly borbotta
qualcosa sul fatto che le nostre valigie arriveranno più
tardi e insieme dribbliamo il fattorino prima che possa
farci altre domande.
Guido Olly verso la portineria e gli do i fogli della
prenotazione.
«Benvenuti a Maui, signori Whittier», ci saluta la
receptionist. Olly non la contraddice, limitandosi a
stringermi ancora di più a sé e a schioccarmi un sonoro
bacio sulle labbra.
«Tante mahalo», le dice, rivolgendole un sorriso
smagliante.
«Sarete nostri ospiti per… due notti.»
Olly mi guarda per avere conferma e io annuisco.
Dopo aver digitato qualcosa al computer, la donna ci
comunica che, anche se è ancora presto, la nostra
camera è già pronta. Ci porge una chiave e una piantina
dell’hotel e ci informa che la colazione continentale a
buffet è offerta dall’albergo.
«Felice luna di miele!» esclama ammiccando e
invitandoci a raggiungere la nostra camera.

***

La stanza è piccola, piccolissima, con arredi simili a


quelli del patio, mobili in teak e grandi fotografie di fiori
tropicali dai colori vivaci. Il balcone – che qui chiamano
lanai – si affaccia su un giardinetto e su un parcheggio.
Dal centro della stanza, compio un giro di 360 gradi
su me stessa e vedo quelle che sono considerate le
dotazioni essenziali di ogni alloggio temporaneo: il
televisore, un frigobar, un guardaroba enorme, un
tavolino e una sedia. Poi compio un altro giro di 360
gradi, cercando di capire che cosa manca.
«Olly, dove sono i letti? Dove dormiamo?»
Lui resta un attimo interdetto, finché non scorge
qualcosa.
«Ah, ti riferisci a questo?» Si avvicina a quello che
credevo fosse un enorme guardaroba, afferra le due
maniglie vicino al bordo superiore e le tira, facendo
comparire un letto. «Voilà», mi dice. «Il classico
esempio della moderna efficienza salvaspazio. Il massimo
dello stile e del comfort, della comodità e della praticità.
Ecco a voi il letto di Murphy.»
«Chi è Murphy?» gli domando, ancora sorpresa di
avergli visto estrarre un letto dalla parete.
«L’inventore di questo letto», risponde lui facendomi
l’occhiolino.
La stanza sembra ancora più piccola con il letto
aperto. Ci ritroviamo entrambi a fissarlo più a lungo di
quanto sia strettamente necessario. Poi Olly si volta
verso di me. Non ha ancora cominciato a parlare, ma io
sono già arrossita.
«Ce n’è solo uno, di letto», commenta. Il tono della
sua voce è neutro, però gli occhi esprimono tutt’altro e
mi fanno arrossire di più.
«Già», diciamo all’unisono e scoppiamo in una risata
goffa e imbarazzata, per poi ridere di noi stessi per il
fatto che siamo così goffi e imbarazzati.
«Dov’è la guida di Maui?» mi domanda, smettendo
finalmente di fissarmi e guardandosi intorno con finto
interesse. Prende il mio zaino e ci fruga dentro, ma
invece della guida estrae Il Piccolo Principe.
«Vedo che hai portato l’essenziale», ironizza,
sventolando il libro in aria. Dopodiché sale sul letto e
comincia a saltellarci sopra, proprio nel mezzo. Le molle
di Murphy protestano chiassosamente. «Non è il tuo
libro preferito in assoluto?» Se lo rigira fra le mani.
«L’abbiamo letto il secondo anno. E mi sa proprio che
non l’ho capito.»
«Dovresti riprovarci. Ogni volta che lo si rilegge,
assume un nuovo significato.»
Abbassa lo sguardo su di me. «E tu quante volte
l’hai…»
«Un po’.»
«Più o meno di venti?»
«Okay, più di un po’.»
Ride e apre la seconda di copertina. «Proprietà di:
Madeline Whittier.» Poi legge l’avvertenza sul
frontespizio: «Ricompensa in caso di ritrovamento. Una
visita insieme a me (Madeline) a una libreria dell’usato.
Un’ora di snorkeling con maschera e boccaglio insieme a
me (Madeline) nelle acque dell’isola di Molokini per
avvistare il pesce simbolo dello Stato delle Hawaii».
Smette di leggere ad alta voce e prosegue a mente.
«Quando l’hai scritto?» mi domanda.
Faccio per salire sul letto, ma mi blocco, perché la
stanza comincia a ondeggiare leggermente. Ci riprovo, e
un secondo capogiro mi fa perdere di nuovo l’equilibrio.
Mi volto dall’altra parte e mi siedo, di spalle a Olly.
Avverto una fitta così dolorosa al cuore che mi toglie il
fiato.
Lui mi si avvicina all’istante. «Mad, che succede?
Cosa c’è che non va?»
Oh, no. Non ancora. Non sono ancora pronta. «Mi
sento frastornata», gli spiego. «E lo stomaco…»
«Dobbiamo andare all’ospedale?»
Il mio stomaco risponde con un gorgoglio lungo e
rumoroso.
«Mi sa che ho…» azzardo guardandolo in faccia.
«Fame», diciamo nello stesso momento.
Fame.
Ecco che cos’ho. Non mi sento male. Ho soltanto
fame.
«Sto morendo di fame», ammetto. Nelle ultime
ventiquattro ore ho mangiato un solo boccone di
chilaquiles e qualche spicchio di mela dell’infermiera
Perfidia.
Olly scoppia a ridere crollando all’indietro sul letto.
«Ero così preoccupato che qualcosa nell’aria stesse per
ucciderti!» E si preme i palmi sugli occhi. «Mentre, a
quanto pare, morirai di fame.»
In effetti non ho mai avuto così tanta fame in vita
mia. Ho quasi sempre assunto i miei tre pasti e le mie due
merende ogni giorno all’ora stabilita. Carla credeva molto
nell’importanza del cibo. «Pancia vuota, testa vuota»,
diceva.
Mi sdraio anch’io e rido insieme a Olly.
Avverto un’altra fitta al cuore, ma la ignoro.
I RICORDI DELLE COSE PRESENTI

DOP O che abbiamo mangiato un boccone mi sento già


molto meglio. Dobbiamo comprare l’occorrente per il
mare, e secondo Olly anche dei souvenir, così ci
fermiamo in un negozio con l’incoraggiante insegna:
MAUI SOUVENIR SHOP & BAZAR. Credo di non aver mai
visto così tanta roba: di fronte all’enorme quantità di
oggetti in vendita mi sento sopraffare. Pile e pile di
magliette e di cappelli con le scritte MAUI o ALOHA ,
oppure con qualche variante dell’una o dell’altra.
Appendiabiti stracolmi di vestiti a fiori di quasi tutti i
colori. Espositori su espositori pieni di cianfrusaglie:
portachiavi, bicchierini da liquore, calamite. C’è persino
un intero espositore di portachiavi a forma di tavola da
surf, tutti con un nome di persona scritto sopra e
disposti in ordine alfabetico. Cerco i nostri nomi: Oliver e
Madeline, oppure Olly e Maddy, ma non li trovo.
Olly mi raggiunge da dietro e mi cinge la vita con un
braccio. Sono di fronte a una parete tappezzata di
calendari con le foto di surfisti a petto nudo. Non sono
niente male.
«Sono geloso», mi sussurra all’orecchio. Io rido e gli
accarezzo l’avambraccio.
«E faresti bene», dico mentre stacco un calendario dal
muro.
«Non vorrai mica…»
«Per Carla», mi giustifico.
«Certo, come no.»
«E tu che cosa hai preso?» gli chiedo, reclinando la
testa all’indietro sul suo petto.
«Una collana di conchiglie per mia madre. E un
posacenere a forma di ananas per Kara.»
«Ma perché la gente compra tutta questa roba?»
Olly mi stringe un po’ più forte a sé. «Non è un gran
mistero: è un modo per ricordarci di ricordare.»
Mi giro fra le sue braccia, pensando a quanto poco ci
è voluto perché questo cantuccio diventasse il luogo che
preferisco al mondo. Familiare, sconosciuto, confortante
ed eccitante al tempo stesso.
«A Carla comprerò questo», dichiaro brandendo il
calendario. «E le noci di Macadamia ricoperte di
cioccolato. Per me invece voglio uno di quei vestiti.»
«E per tua madre?»
Che genere di ricordo si può comprare per una madre
che ti ha amato per tutta la tua vita, che ha rinunciato al
mondo per te? E che potresti anche non rivedere mai
più? Trovare qualcosa di adatto è un’impresa davvero
impossibile.
Ripenso alla vecchia fotografia che mi ha mostrato, di
noi quattro alle Hawaii. Non serbo alcun ricordo di quel
momento, di essere stata su quella spiaggia con lei, mio
padre e mio fratello. Ma la mamma se ne ricorda, così
come conserva il ricordo di me e di una vita che io non
ho mai vissuto.
Mi allontano da Olly e gironzolo per il negozio. A
diciott’anni, gli altri ragazzi si sono già separati dai
genitori. Vanno via di casa, hanno una loro vita, si
costruiscono i loro ricordi. Io invece no. Io e la mamma
abbiamo condiviso lo stesso spazio chiuso e respirato la
stessa aria filtrata per così tanto tempo che mi sembra
strano essere qui senza di lei e costruirmi dei ricordi da
cui è esclusa.
Che cosa farà se non tornerò a casa? Si aggrapperà ai
ricordi che ha di me? Continuerà a ritirarli fuori,
osservandoli minuziosamente e rivivendoli all’infinito?
Voglio che abbia qualcosa di questo tempo, del mio
tempo senza di lei. Qualcosa che le consenta di
ricordarmi. Così trovo un espositore di cartoline rétro e
le scrivo la pura verità.
IL COSTUME DA BAGNO

PRIMA di comprare il costume da bagno, forse avrei


dovuto provarlo. Non che non mi stia, anzi. Mi sta
perfettamente, ma è anche parecchio attillato. Davvero
dovrei presentarmi in pubblico con una cosetta così
striminzita?
Sono in bagno e continuo a spostare lo sguardo dal
mio corpo a quello nello specchio. Ho comprato un
costume intero, di un rosa acceso e con le spalline sottili.
Il rosa è così sgargiante che mi tinge persino le guance,
tanto da farmi sembrare una ragazzina dal viso colorito
che vive perennemente al mare.
A causa dell’umidità, i capelli sono più vaporosi del
solito; perciò, nel tentativo di domarli, li raccolgo e mi
faccio una lunga treccia. Poi mi guardo di nuovo allo
specchio. L’unico modo per rendere meno appariscente
il costume è coprirlo con tanti vestiti, possibilmente tutti
quelli che ho. Mi osservo per l’ennesima volta da capo a
piedi: con quest’affare addosso, non si può certo negare
che io abbia due gambe e un seno. A quanto pare ho
tutto al posto giusto e nelle giuste proporzioni. Mi volto
leggermente per assicurarmi di avere il fondoschiena
coperto, e lo è, anche se a malapena. Se fossi una
ragazza normale, che cosa vedrei nello specchio? Mi
troverei troppo grassa o troppo magra? Sarei
insoddisfatta dei miei fianchi, della vita, del viso? Avrei
problemi ad accettarmi? Per come stanno le cose,
l’unico problema che ho è che scambierei volentieri
questo corpo con uno che funzionasse come si deve.
Olly bussa alla porta. «Che stai facendo, snorkeling in
bagno?»
Alla fine sono costretta a uscire, ma ho i nervi a fior
di pelle. Anche Olly penserà che ho tutto quanto al posto
giusto?
«Pescavo in acque profonde, ecco cosa facevo»,
rispondo con la voce leggermente tremante.
«Fantastico. Allora avremo sushi per…»
Apro la porta di scatto, come se dovessi togliermi un
cerotto.
Olly ammutolisce. Il suo sguardo scende lentamente
dal mio viso fino alla punta dei piedi, per poi risalire
ancora più lentamente.
«Ti sei messa il costume», commenta, fissando il mio
tratto di pelle fra il collo e il petto.
«Già.» Lo guardo negli occhi e quello che vedo mi fa
sentire come se non avessi niente addosso. Il cuore
comincia a battermi sempre più forte, così inspiro ed
espiro a fondo per cercare di farlo rallentare, ma la cosa
non funziona.
Olly mi accarezza le braccia e nello stesso tempo mi
tira piano a sé. Quando ci ritroviamo abbastanza vicini,
mi sfiora la fronte con la sua. Ha gli occhi blu come le
fiamme.
Ha l’aspetto di un uomo che sta morendo di fame,
come se potesse divorarmi in un solo boccone.
«Quel costume…» esordisce.
«È piccolo», concludo io.
GUIDA AI PESCI DELLA BARRIERA
CORALLINA HAWAIANA
IL SALTO

OLLY rimane di stucco quando mi vede entrare spedita


nell’acqua. Dice che sono come una bambina che si
lancia a capofitto nelle cose, senza saperne abbastanza
per avere paura. E io, come una bambina, gli faccio la
linguaccia e avanzo sempre di più nell’oceano, con tanto
di giubbotto di salvataggio e tutto il resto.
Siamo a Black Rock, un posto chiamato così per via
della scogliera di rocce laviche che scendono fino alla
spiaggia e svettano altissime in cielo. Sono disposte a
mezzaluna e riparano dalle onde, formando una barriera
corallina perfetta per fare snorkeling con maschera e
boccaglio. La guida con cui abbiamo parlato al punto
informazioni Fun in the Sun ci ha detto che è una
spiaggia molto frequentata anche dai tuffatori.
L’acqua è fredda, salata e deliziosa, e può anche darsi
che nella mia vita precedente io sia stata una sirena.
Un’astronauta sirena architetto. Le pinne e il giubbotto di
salvataggio mi fanno galleggiare sulla superficie e mi
basta qualche minuto per abituarmi a respirare con il
boccaglio. Ascoltare il rumore amplificato del mio
respiro mi trasmette un senso di pace, ma anche una
strana euforia. Ogni respiro mi dà la conferma che non
sono semplicemente viva: sto vivendo, finalmente.
Appena entrati in acqua, ci si avvicina un
humuhumunukunukuapua’a. A dire il vero ne
incontriamo un sacco, ce ne sono davvero tantissimi: da
ciò capisco perché sono il pesce simbolo delle Hawaii.
La maggior parte dei pesci si concentra intorno alla
barriera corallina. Non ho mai visto colori tanto intensi:
non semplici blu, gialli e rossi, ma i blu più scuri, i gialli
più sgargianti e i rossi più vividi che si possano
immaginare. Lontano dalla barriera, i raggi del sole
formano colonne di luce rettangolari nell’acqua. Banchi
di pesci argentati sfrecciano dentro e fuori, come spinti
da un’unica mente.
Olly e io nuotiamo mano nella mano, sempre più
distanti dalla riva, e vediamo dei trigoni che fluttuano
nell’acqua simili a enormi uccelli dal ventre bianco. Poi
incontriamo due gigantesche tartarughe marine che
sembrano volare. Razionalmente so che non ci faranno
del male, ma sono così grandi, e ovviamente così a loro
agio in questo mondo acquatico – al quale io non
appartengo – che smetto di muovermi per non attirarne
l’attenzione.
Potrei restare nell’acqua tutto il giorno, ma alla fine
Olly mi trascina a riva. Non vuole che il sole ci scotti, o
piuttosto mi scotti.
Tornati sulla spiaggia, ci asciughiamo sotto le fronde
di un albero. Quando è convinto che io sia distratta, mi
punta lo sguardo addosso, ma in realtà siamo una società
di mutua ammirazione: anch’io me lo mangio
segretamente con gli occhi.
Indossa soltanto il costume, perciò riesco finalmente
a vedergli i muscoli asciutti e lisci di spalle, ventre e
torace. Vorrei tanto memorizzare il suo paesaggio
corporeo con le mani. Tremo e mi avvolgo nel telo da
spiaggia, ma Olly scambia i miei brividi per qualcos’altro
e mi si avvicina per poggiarmi il suo asciugamano sulle
spalle. La sua pelle odora di oceano e di qualcosa di
indefinibile, che fa di lui ciò che è. Resto scioccata di
fronte al mio desiderio di toccargli il petto con la lingua,
di assaporare il sole e il salmastro sul suo corpo.
Distolgo a fatica gli occhi dal torace di Olly e lo guardo
in faccia. Lui abbassa la testa e mi avvolge
nell’asciugamano fino a coprirmi ogni centimetro di
pelle, dopodiché si allontana. Ho la sensazione che si stia
trattenendo.
E non voglio che lo faccia, di questo sono sicura.
***

Sta osservando la scogliera, da cui le persone – quasi


tutti ragazzini – si tuffano nell’oceano. «Vuoi saltare da
una roccia altissima?» mi domanda, con gli occhi che
brillano.
«Non so nuotare», gli ricordo.
«Finire sott’acqua non ha mai fatto male a nessuno»,
mi dice lo stesso ragazzo che una volta mi aveva
avvisato che il mare è spietato e inesorabile.
Mi afferra la mano e insieme corriamo verso la
scogliera. Da vicino le rocce sembrano spugne nere e
dure e sotto i piedi sono acuminate, tanto che a ogni
passo ci metto un po’ a individuare il punto giusto su cui
far presa, ma alla fine arriviamo in cima.
Olly è così ansioso di tuffarsi che non si ferma
nemmeno ad ammirare il panorama.
«Insieme?» mi domanda, abbassando lo sguardo
verso lo scintillio dell’acqua.
«La prossima volta», gli dico.
Lui annuisce. «Vado prima io, allora. Vedrò di non
farti annegare.» Dopodiché si tuffa verso l’alto e in
avanti, e fa una capriola completa prima di sprofondare
in acqua, dritto come un fuso. Qualche secondo dopo,
riappare in superficie e mi saluta con la mano. Anch’io lo
saluto con un cenno e poi chiudo gli occhi per fare il
punto della situazione, perché saltare da una scogliera mi
sembra un momento cruciale che richiede un po’ di
concentrazione. Stranamente, però, mi accorgo che in
realtà non voglio pensare troppo. Voglio saltare e basta,
proprio come Olly. Cerco il suo viso nell’acqua e lo
trovo lì ad aspettarmi. Considerato quello che potrebbe
riservarmi il futuro, tuffarmi da questa scogliera non è
poi così spaventoso.
GUIDA AI TUFFI DALLE SCOGLIERE
ZACH

RIENT RAT I in albergo, Olly chiama il suo amico Zach


dal telefono della camera, e mezz’ora dopo lui si presenta
alla nostra porta.
Ha la pelle color terra d’ombra scura, grossi
dreadlocks e un sorriso fin troppo grande per il suo viso.
Appena ci vede si mette a suonare una chitarra
immaginaria e a cantare una canzone che non conosco,
al che Olly sfodera un sorriso che va da un orecchio
all’altro. Mentre «suona», Zach scuote la testa come un
matto e i capelli si muovono al ritmo della sua «musica».
«Zach!» esclama Olly, e lo stringe in un abbraccio. I
due amici si danno delle pacche vigorose sulla schiena.
«Ora mi chiamo Zacharia.»
«E da quando?» domanda Olly.
«Da quando ho deciso di diventare un dio del rock. Il
mio nome è Zacharia, che fa rima con…»
«Messia», intervengo io, cogliendo la sua battuta.
«Esatto! La tua ragazza è più sveglia di te.»
Arrossisco e guardo Olly, che è diventato rosso
quanto me.
«Be’, era proprio buona», commenta Zach, ridendo e
strimpellando le corde della sua chitarra invisibile. La sua
risata mi ricorda quella di Carla: spontanea, un po’ troppo
chiassosa e piena di buonumore. In questo momento mi
manca disperatamente.
Olly si gira verso di me. «Maddy, ti presento Zach.»
«Zacharia.»
«Eh no, amico, non ci penso proprio a chiamarti così.
Zach, lei è Maddy.»
Zach mi prende la mano e la sfiora con un bacio. «È
fantastico conoscerti, Maddy. Olly mi ha parlato tanto di
te, ma non pensavo che esistessi veramente.»
«Tranquillo», replico, esaminandomi la mano nel
punto in cui Zach l’ha baciata. «Certi giorni non esisto,
infatti.»
Lui scoppia di nuovo in una risata fragorosa e io mi
ritrovo a ridere con lui.
«Stupendo», ci interrompe Olly. «Ma ora diamoci un
taglio. C’è un loco moco che aspetta solo Maddy.»

Un loco moco è una montagna di riso con sopra un


hamburger ricoperto di salsa e sormontato da due uova
fritte. L’ora di pranzo è passata, ma Zach ci ha portato in
un ristorante che serve piatti tradizionali. Ci sediamo a un
tavolo fuori, con l’oceano a poche decine di metri da noi.
«È il ristorante migliore dell’isola», ci informa. «Tutta
la gente del posto viene a mangiare qui.»
«L’hai già detto ai tuoi genitori?» gli domanda Olly tra
un boccone e l’altro.
«Che voglio fare la rockstar o che sono gay?»
«Entrambe le cose.»
«No.»
«Quando ti sarai tolto il dente, ti sentirai meglio.»
«Ne sono convinto», replica Zach, «ma il grado di
difficoltà è un tantino elevato.» Poi si rivolge a me: «I
miei genitori credono solo in tre cose: la famiglia,
l’istruzione e il duro lavoro. Per ‘famiglia’ intendo un
uomo, una donna, due bambini e un cane. Per
‘istruzione’, un corso di laurea quadriennale, mentre per
‘duro lavoro’, niente che abbia a che fare con l’arte. O le
speranze. O i sogni da rockstar».
Si gira di nuovo verso Olly e i suoi occhi marroni
sono più seri di prima. «Come faccio a dire ai miei che il
loro primogenito vuole essere l’equivalente
afroamericano di Freddie Mercury?»
«Qualche sospetto ce l’avranno», commento io.
«Almeno sulle tue aspirazioni da rockstar. Hai quattro
diverse sfumature di rosso nei capelli.»
«Sono convinti che sia solo una fase.»
«Magari potresti scriverci sopra una canzone.»
Scoppia in un’altra risata. «Mi piaci», dice.
«Anche tu mi piaci», replico io. «Potresti intitolarla:
Questa mela è caduta molto, molto, molto lontano
dall’albero.»
«Non sono nemmeno sicuro di essere una mela»,
ribatte lui ridendo.
«Certo che siete proprio buffi, voi due», interviene
Olly quasi sorridendo, ma evidentemente pensieroso.
«Amico, prestami il tuo telefono», dice a Zach.
Zach glielo passa e lui inizia immediatamente a
premere i tasti.
«E tu che combini? Tuo padre è sempre un
bastardo?»
«Credevi che le cose sarebbero cambiate?» risponde
Olly senza levare gli occhi dal telefono.
«No, in effetti no», ammette l’amico. Quanto sa della
famiglia di Olly? Suo padre è ben peggio di un semplice
bastardo.
«E tu, Madeline? Che problema hanno i tuoi?»
«Siamo solo io e mia madre.»
«Be’, allora il problema deve avercelo lei.»
La mamma, la mamma. Non ho quasi mai pensato a
lei. Sarà ridotta uno straccio dalla preoccupazione.
«Be’, secondo me ce l’abbiamo tutti qualche
problema, non credi? Ma mia madre è in gamba, è forte
e mette sempre me prima di tutto il resto.»
Devo averli lasciati di stucco, perché ammutoliscono
entrambi.
Olly alza gli occhi dal telefono. «Devi dirle che stai
bene, Mad.» Poi mi porge il telefono e si alza per andare
in bagno.

Da: Madeline F. Whittier


A: utentegenerico033@gmail.com
Oggetto: (nessuno)

Hai mia figlia? Sta bene?

Da: Madeline F. Whittier


A: utentegenerico033@gmail.com
Oggetto: (nessuno)

Lo so che è con te. Non capisci quant’è malata.


Riportala a casa.

Da: Madeline F. Whittier


A: utentegenerico033@gmail.com
Oggetto: (nessuno)

Dimmi dove siete, ti prego. Le sue condizioni


potrebbero precipitare da un momento all’altro.

Da: Madeline F. Whittier


A: utentegenerico033@gmail.com
Oggetto: (nessuno)

So dove siete e prendo il prossimo volo. Arriverò


domattina, prestissimo. Bada alla sua incolumità, ti
prego.

Smetto di leggere, mi stringo il telefono al petto e


chiudo gli occhi, in preda contemporaneamente al senso
di colpa, al panico e al risentimento. Sentirla così
preoccupata e angosciata mi fa desiderare di correre da
lei e assicurarle che sto bene. Quella parte di me
vorrebbe lasciare che badasse alla mia incolumità.
Ma un’altra parte di me, quella più nuova, non è
pronta a rinunciare al mondo che sto iniziando a
conoscere. Ce l’ho con lei perché è entrata nella mia
casella di posta elettronica. E per il fatto che adesso io e
Olly avremo ancora meno tempo di quanto avevo
previsto.
Devo essere rimasta un po’ troppo a occhi chiusi,
perché alla fine Zach mi chiede se sto bene.
Li riapro e bevo un sorso di succo d’ananas,
annuendo con la cannuccia in bocca.
«No, sul serio. Ti senti bene? Olly mi ha
raccontato…»
«Che sono malata.»
«Già.»
«Sto bene», rispondo, consapevole che non lo dico
tanto per dire. Mi sento proprio bene. Anzi, più che bene.
Abbasso di nuovo lo sguardo sul telefono. Devo
scriverle qualcosa.

Da: utentegenerico033@gmail.com
A: Madeline F. Whittier
Oggetto: (nessuno)

Stai tranquilla, mamma, ti prego. E, per favore, non


venire. Sono davvero in gran forma, e poi la vita è la
mia. Ti voglio bene. A presto.

Premo invio e restituisco il telefono a Zach, che se lo


infila in tasca e si mette a fissarmi.
«Quindi è vero che hai comprato delle pillole su
Internet?» mi domanda.
Sono ancora così scossa dall’email della mamma, e
così preoc​c upata del fatto che io e Olly non avremo
abbastanza tempo per noi, che non sono preparata a
sentire la mia bugia uscire dalla bocca di Zach. Quindi
faccio esattamente quello che non si deve fare quando
sia sta mentendo a qualcuno: evito il suo sguardo, anzi
scalpito e arrossisco.
Apro la bocca per dargli una spiegazione, ma non mi
esce niente.
Quando alla fine lo guardo negli occhi, lui ha già
intuito la verità.
«Hai intenzione di dirglielo?» gli domando.
«No. Racconto balle su me stesso da così tanto
tempo che so cosa si prova.»
Mi sento travolgere da un’ondata di sollievo.
«Grazie», gli dico.
Lui si limita ad annuire.
«Che cosa succederebbe se raccontassi la verità ai
tuoi genitori?»
La sua risposta è immediata: «Cercherebbero di farmi
scegliere. E io non sceglierei loro. In questo modo,
invece, siamo tutti contenti».
Appoggia la schiena alla sedia e finge di strimpellare.
«Chiedo umilmente scusa ai Rolling Stones, ma il mio
primo album si intitolerà Between Rock and Roll and a
Hard Place. Che te ne pare?»
Rido. «È orribile.»
Zach ritorna serio. «Può anche darsi che diventare
adulti significhi deludere le persone a cui si vuole bene.»
La sua non è una domanda, e comunque io non ho
una risposta.
Mi volto verso Olly, che sta tornando verso di noi.
«Tutto okay?» chiede prima di baciarmi sulla fronte,
sul naso e infine sulle labbra.
Decido di non informarlo dell’arrivo imminente della
mamma. Sfrutteremo al massimo il tempo che ci è
concesso.
«Non mi sono mai sentita meglio in vita mia», gli
dico. Grata di non dovergli mentire almeno su questo.
IL LETTO DI MURPHY

QUANDO rientriamo in albergo è ormai tardo pomeriggio.


Olly accende tutte le luci e il ventilatore a soffitto,
dopodiché si tuffa sul letto con una capriola.
Si sdraia prima su un fianco e poi sull’altro. «Questo
lato è mio», annuncia, riferendosi alla parte del letto più
vicina alla porta. «Io dormo a sinistra», mi informa.
«Così adesso lo sai. Per ogni futura evenienza.» Si mette
a sedere e preme i palmi sul materasso. «Ricordi quando
ti ho detto che i letti di Murphy sono il massimo del
comfort? Be’, ritiro tutto.»
«Sei nervoso?» gli chiedo a bruciapelo.
«No», mi risponde fin troppo svelto. Scende dal letto
e si accomoda sul pavimento.
Io mi siedo dalla mia parte con le gambe penzoloni e
provo a molleggiare, con il risultato di far cigolare il
materasso.
«Perché stai a sinistra anche se dormi da solo?» gli
domando mentre mi sdraio. Ha ragione. È scomodo da
impazzire.
«In previsione, credo», azzarda lui.
«Di cosa?»
Non mi risponde, così mi sporgo dal letto per
guardarlo. È sdraiato per terra di schiena, con un braccio
sugli occhi.
«Di avere compagnia», spiega.
Ritraggo la testa, arrossendo. «Sei un romanticone
senza speranza», commento.
«Già. Proprio così.»
Restiamo in silenzio. Il ventilatore sopra di noi gira
lentamente, diffondendo un gradevole flusso di aria
tiepida all’interno della stanza. Attraverso la porta sento il
trillo degli ascensori e il mormorio sommesso delle
persone di passaggio.
Qualche giorno fa, un’unica giornata fuori mi
sembrava già abbastanza ma, ora che l’ho trascorsa, ne
voglio altre. Arrivata a questo punto, credo che non mi
basterebbe nemmeno stare fuori per sempre.
«Sì», ammette Olly dopo un po’. «Sono nervoso.»
«Perché?»
Inspira dell’aria che non gli sento esalare. «Non ho
mai provato per nessun’altra quello che provo per te»,
confessa, e non sommessamente, ma a voce alta e tutto
d’un fiato, come se quelle parole fossero state pronte a
uscirgli di bocca da un sacco di tempo.
Mi puntello sui gomiti, poi mi sdraio e mi siedo di
nuovo. Stiamo parlando d’amore?
«Neanch’io mi sono mai sentita così», sussurro.
«Per te è diverso», replica lui avvilito.
«Perché? In che senso?»
«Tu stai vivendo tutto per la prima volta, Maddy, ma
io no.»
Non capisco. Il fatto che per me sia la prima volta
non rende la cosa meno reale, giusto? Persino l’universo
ha avuto un inizio.
Olly tace. Più ripenso a quello che mi ha appena detto,
più ci rimango male, però poi mi accorgo che non sta
cercando di ignorare né di sminuire i miei sentimenti. È
soltanto spaventato. E se avessi scelto lui per forza di
cose, visto che non avevo altre possibilità?
Lo sento fare un respiro profondo. «Razionalmente so
di essermi già innamorato in passato, eppure è come se
non fosse mai successo. Essere innamorato di te è
meglio della prima volta. È come se fosse allo stesso
tempo la prima, l’ultima e l’unica volta.»
«Olly», gli dico, «conosco il mio cuore, credimi. È
una delle poche cose non del tutto nuove per me.»
Risale sul letto e scosta un braccio dal corpo, così mi
rannicchio accanto a lui e infilo la testa nel cantuccio
fatto apposta per me, fra collo e spalla.
«Ti amo, Maddy.»
«Ti amo, Olly. Ti ho amato ancor prima di
conoscerti.»
Ci appisoliamo raggomitolati l’uno all’altra, senza dire
una parola, lasciando che sia il mondo a fare un po’ di
rumore per noi, perché a questo punto tutte le altre
parole non hanno più importanza.
TUTTE LE PAROLE

MI sveglio lentamente, languidamente, finché non mi


rendo conto di cosa abbiamo fatto. Guardo l’orologio:
abbiamo dormito per più di un’ora. Ormai ci resta poco
tempo, e una parte l’abbiamo trascorsa dormendo.
Guardo di nuovo l’orologio. Dieci minuti per farci una
doccia e altri dieci per trovare sulla spiaggia il punto
perfetto dal quale contemplare la fine del nostro primo e
ultimo giorno insieme.
Scuoto Olly per svegliarlo e mi affretto a vestirmi.
Una volta in bagno, mi infilo il mio vestito taglia unica
giustificata dalla gonna scampanata e dal corpetto
elasticizzato a coste, che si allarga per adattarsi a quasi
tutte le corporature. Rinuncio a legarmi i capelli e li lascio
ricadere sciolti, ricci e vaporosi sulle spalle e lungo la
schiena. Allo specchio la mia pelle appare luminosa, di
una calda tonalità bruna, e gli occhi mi sbrilluccicano.
Sono il ritratto della salute.
Olly è sul lanai, seduto sulla ringhiera. Sembra in
posizione precaria, anche se si regge con entrambe le
mani. Mi tranquillizzo ricordando a me stessa che ha un
controllo perfetto del suo corpo.
Quando mi vede sfodera un sorriso, anzi, più di un
semplice sorriso. È un’altra volta Olly e non-Olly, gli
occhi penetranti che seguono ogni mio passo, e io
prendo coscienza di ogni mio singolo nervo teso. Come
riesce a farmi quest’effetto con una sola occhiata? Ho
anch’io lo stesso effetto su di lui? Mi fermo davanti alla
vetrata scorrevole e lo osservo. Indossa una maglietta
nera attillata, pantaloncini neri e sandali dello stesso
colore: l’angelo della morte in vacanza.
«Vieni qui», dice e io mi accoccolo fra le sue gambe.
Lui si immobilizza e serra la presa sulla ringhiera. Respiro
il suo profumo fresco e alzo lo sguardo. Gli occhi di Olly
sono un lago d’estate, azzurro e cristallino, di cui non
vedo il fondo.
Gli sfioro le labbra con le mie. Lui emette un gemito,
salta giù dalla ringhiera e mi spinge indietro, contro un
tavolo. Io schiudo la bocca.
Ci baciamo finché rimango senza fiato, finché il mio
respiro si fonde con il suo. Le mie mani gli accarezzano
le spalle, la nuca, i capelli. Non sanno dove fermarsi.
Sono elettrizzata. Voglio tutto, e tutto in una volta. Lui si
stacca e ci ritroviamo in piedi con i respiri ansanti, la
fronte e il naso che si toccano, le sue mani che mi
stringono troppo forte i fianchi e le mie aperte sul suo
petto.
«Maddy.» I suoi occhi sono una domanda e la mia
risposta è sì. Lo è stata fin dall’inizio.
«E il tramonto?» mi chiede.
Scuoto la testa. «Ci sarà anche domani.»
La sua espressione sollevata mi strappa un sorriso. Mi
guida dentro la stanza, finché non mi ritrovo le gambe
premute contro il letto.
Mi siedo, ma mi rialzo subito. È stato più facile saltare
dalla Black Rock che fare una cosa come questa.
«Maddy, non siamo obbligati.»
«No, io voglio, invece. Lo voglio con tutta me
stessa.»
Olly annuisce e strizza gli occhi, ricordandosi di
qualcosa. «Devo andare a comprare…»
Scuoto la testa. «Ne ho io.»
«Di che?» mi domanda confuso.
«Di profilattici, Olly. Li ho comprati io.»
«Li hai comprati tu.»
«Sì», ammetto, avvampando dalla testa ai piedi.
«Quando?»
«Al negozio di souvenir. Quattordici e novantanove.
In quel posto si trova di tutto.»
Mi guarda come se fossi un piccolo miracolo, ma poi
il suo sorriso si trasforma in qualcosa di più e mi ritrovo
distesa sulla schiena, con la sua mano che mi tira il
vestito.
«Questo via, via», dice concitato.
A fatica, mi metto in ginocchio e mi sfilo il vestito
dalla testa, tremando nell’aria tiepida della stanza.
«Hai le lentiggini anche qui», osserva mentre fa
scivolare una mano sul seno.
Abbasso lo sguardo a mo’ di conferma e scoppiamo a
ridere entrambi.
Poi mi poggia la mano sul ventre nudo. «Sei tutto
quello che si può desiderare dalla vita.»
«Oh, anche tu», farfuglio. Tutte le parole che avevo in
testa sono state rimpiazzate da un unico nome: Olly.
Quando anche lui si toglie la maglietta, i miei istinti
prendono il sopravvento sulla razionalità. Percorro con la
punta delle dita i muscoli lisci e compatti del torace,
affondando negli avvallamenti tra l’uno e l’altro. Le mie
labbra seguono lo stesso percorso, assaggiando e
accarezzando. Olly si sdraia e resta immobile lasciando
che io esplori il suo corpo, che tracci un sentiero di baci
giù fino ai piedi e ritorno. La voglia di morderlo è
irresistibile, e infatti non resisto. Il mio morso lo fa
impazzire e ora è lui a prendere il comando. Il mio corpo
brucia dove non mi tocca e brucia dove mi tocca.
Siamo avvinghiati l’uno all’altra: un intreccio di
labbra, braccia, gambe e corpi. Olly si solleva sopra di
me e restiamo senza parole, per poi fonderci in un unico
corpo che si muove silenziosamente.
Ormai sono tutt’uno con lui e ho scoperto i segreti
dell’universo.
IL DIZIONARIO DI MADELINE

infinito <in•fi•nì•to> agg. 1. La condizione di non sapere


dove finisce un corpo e inizia l’altro: La nostra gioia è
infinita. [2015, Whittier]
IL MONDO OSSERVABILE

SECONDO la teoria del Big Bang, l’universo ha avuto


inizio in un singolo momento: un cataclisma cosmico che
ha dato vita ai buchi neri, alle nane brune, alla materia e
alla materia oscura, all’energia e all’energia oscura. Ha
dato vita alle galassie, alle stelle, alle lune, ai soli, ai
pianeti e agli oceani. È un concetto difficile da afferrare,
l’idea che ci sia stato un tempo prima di noi. Un tempo
prima del tempo.
In principio non c’era niente. E poi c’è stato tutto.
IL MOMENTO PRESENTE

OLLY sorride. Non la smette più. Mi sorride in ogni


modo possibile e io non posso fare a meno di baciare le
sue labbra sorridenti. Un bacio ne porta con sé altri dieci,
finché i nostri sbaciucchiamenti non sono interrotti dal
gorgoglio del suo stomaco.
Mi ritraggo. «Ci converrà mangiare qualcosa»,
propongo.
«A parte te?» Mi bacia il labbro inferiore e lo
mordicchia con delicatezza. «Sei deliziosa, ma non
commestibile.»
Mi metto a sedere sul letto, coprendomi con il
lenzuolo. Nonostante la nostra intimità, non me la sento
molto di ritrovarmi di nuovo nuda. A differenza di me,
Olly non prova il benché minimo imbarazzo. Scende dal
letto e cammina per la stanza completamente nudo.
Appoggio la schiena alla testiera e lo osservo mentre si
muove, tutto grazia e luce. In questo momento, non è
più il cupo angelo della morte.
Tutto è allo stesso tempo diverso e uguale. Io sono
ancora Maddy. E Olly è ancora Olly. Ma entrambi siamo
anche qualcosa in più. Lo conosco in un modo nuovo.
Come lui conosce me.

Il ristorante si trova proprio sulla spiaggia e il nostro


tavolo è di fronte all’oceano. È tardi – le 9 di sera –,
quindi non riusciamo a vedere l’azzurro dell’acqua, ma
solo le creste bianche e spumose delle onde che si
frangono sulla sabbia. Ne sentiamo il rumore appena
sotto la musica e il chiacchiericcio dei commensali.
«Secondo te ce l’hanno l’humuhumu nel
menumenu?» scherza Olly. Ironizza sul fatto di voler
mangiare tutti i pesci che abbiamo visto durante lo
snorkeling.
«Ho il sospetto che non lo servano, il pesce di Stato»,
dichiaro.
Siamo entrambi affamatissimi per via di tutte le attività
della giornata, perciò ordiniamo poke (tonno marinato in
salsa di soia), tortini di granchio, gamberi al cocco,
ravioli di aragosta e maialino Kalua. Per tutta la cena non
smettiamo mai di toccarci. Ci tocchiamo fra un boccone
e l’altro e fra un sorso di succo d’ananas e l’altro. Olly
mi tocca il collo, la guancia, le labbra. Io le dita, gli
avambracci, il petto. Ora che ci siamo toccati così
intimamente, non riusciamo più a fermarci.
Spostiamo le sedie per stare più vicini. Lui tiene la mia
mano in grembo, oppure io tengo la sua sul mio. Ci
guardiamo e ridiamo senza motivo. O meglio, non senza
motivo, ma perché il mondo ci appare straordinario. Il
fatto che ci siamo incontrati, che ci siamo innamorati,
che siamo riusciti a stare insieme va oltre ciò che
avevamo creduto possibile.
Olly ordina un’altra porzione di ravioli di aragosta per
entrambi. «Mi fai venire una gran fame», mormora con
voce suadente, ammiccando con le sopracciglia. Poi mi
tocca la guancia e io arrossisco. Questa volta mangiamo
più lentamente. È il nostro ultimo piatto. Forse, se
restassimo seduti qui, negando il trascorrere del tempo,
questa giornata troppo perfetta potrebbe anche non finire
mai.
Mentre ce ne andiamo, la cameriera ci invita a
ritornare e Olly le promette che lo faremo.
Usciamo dal ristorante e ci incamminiamo verso la
spiaggia immersa nell’oscurità. Sopra di noi, le nuvole
hanno nascosto la luna. Ci togliamo i sandali,
passeggiamo sulla riva e affondiamo i piedi nella sabbia
fresca. Di notte le onde si frangono con più potenza e
frastuono che di giorno. Più ci allontaniamo, meno
persone vediamo, finché non abbiamo l’impressione di
esserci lasciati la civiltà alle spalle. Olly mi guida verso la
sabbia asciutta e troviamo un posto dove sederci.
Mi prende la mano e ne bacia il palmo. «Mio padre si
è scusato con noi, dopo che l’ha picchiata la prima
volta», mi confessa, snocciolando la frase tutta d’un
fiato. Ci metto un po’ a capire di che cosa sta parlando.
«Piangeva persino.»
La notte è così scura che non riesco a vederlo,
intuisco solo che sta scuotendo la testa.
«Ci hanno fatti sedere insieme e mio padre ci ha detto
che gli dispiaceva. E che non sarebbe mai più successo.
Ricordo che Kara era così arrabbiata che non lo
guardava nemmeno in faccia. Lei sapeva che era un
bugiardo, invece io gli ho creduto. Come mia madre. Ci
ha chiesto di non pensarci più. ‘Vostro padre ha passato
un brutto periodo’, ci ha detto. E poi ha aggiunto che lo
perdonava e che dovevamo farlo anche noi.»
Olly mi lascia la mano. «Dopo quella volta, per un
anno non l’ha più picchiata. Beveva come una spugna.
Le gridava addosso. Gridava contro tutti noi. Ma per
parecchio tempo non l’ha più picchiata.»
Trattengo il fiato per un istante, prima di fargli la
domanda che ho in mente da un sacco di tempo: «Perché
sta ancora con lui?»
Olly sbuffa e la sua voce si indurisce. «Non pensare
che non gliel’abbia chiesto.» Si sdraia sulla sabbia e
intreccia le mani dietro la testa. «Se la picchiasse più
spesso, credo che si convincerebbe. Se fosse un tantino
più bastardo, magari potremmo finalmente andarcene. E
invece si pente sempre, e lei ci casca ogni volta.»
Gli metto una mano sulla pancia, ho bisogno di un
contatto. Credo che ne abbia bisogno anche lui, e invece
si drizza a sedere, porta le ginocchia al petto e ci
appoggia sopra i gomiti. Il suo corpo diventa una gabbia
in cui io non posso entrare.
«E quando glielo chiedi, lei che cosa ti risponde?»
«Niente. Non vuole più parlarne. Ma prima diceva che
avremmo capito il giorno in cui saremmo cresciuti e
avremmo avuto le nostre relazioni.»
Il tono rabbioso della sua voce mi sorprende. Non
avevo idea che fosse arrabbiato con sua madre. Con suo
padre sì, ma con lei no.
Sbuffa di nuovo. «Sostiene che l’amore fa impazzire
le persone.»
«E tu le credi?»
«Sì. No. Forse.»
«Non devi usare tutte e tre le risposte», gli dico.
Lui sorride nel buio. «Sì, le credo.»
«Perché?»
«Perché sono venuto fino alle Hawaii con te. Per me
non è facile lasciarle da sole con lui.»
Soffoco sul nascere il senso di colpa.
«E tu ci credi?» mi domanda.
«Sì. Al cento per cento.»
«Perché?»
«Perché sono venuta fino alle Hawaii con te», gli
dico, ripetendo le sue parole. «Se non fosse stato per te,
non me ne sarei mai andata.»
«Già», esclama distendendo le gambe e prendendomi
la mano. «E ora che facciamo?»
Non ho una risposta. L’unica cosa che so per certo è
che il fatto di essere qui con lui, di poterlo amare ed
essere ricambiata, è tutto.
«Dovresti andartene di casa», gli suggerisco. «Non è
un luogo sicuro per te.» Glielo dico perché apra gli
occhi: è prigioniero dello stesso ricordo – l’amore, i bei
tempi – del quale è prigioniera sua madre. Ma vivere di
ricordi non basta.
Gli appoggio la testa sulla spalla e insieme guardiamo
l’oceano quasi nero. Osserviamo il modo in cui l’acqua
si ritrae, si rivolta e percuote la sabbia, cercando di
cancellare la terra. Anche se non ci riesce, si ritrae
ancora e colpisce di nuovo la spiaggia, incessantemente,
come se non ci fosse un’ultima volta né una prossima, e
quello che conta fosse soltanto il momento presente.
SPIRALE
FINE

QUALCUNO mi ha infilato in un forno rovente e ha


chiuso lo sportello.
Qualcuno mi ha cosparso di cherosene e ha acceso
un fiammifero.
Mi sveglio lentamente, con il corpo che va a fuoco,
consumato dalle fiamme. Le lenzuola sono fredde e
umide. Sto annegando nel mio sudore.
Che cosa mi succede? Mi ci vuole un po’ prima di
rendermi conto che ci sono tante, tantissime cose che
non vanno.
Sto tremando. Anzi, di più. Sono scossa da brividi
incontrollabili e la testa mi fa un male cane. Mi sento
schiacciare il cervello in una morsa. Il dolore si irradia ed
esplode nei nervi dietro gli occhi.
Il mio corpo è un livido fresco. Mi fa male persino la
pelle.
All’inizio sono convinta che si tratti di un sogno, ma i
miei sogni non sono mai così lucidi. Tento di mettermi a
sedere, di coprirmi, però non ci riesco. Olly dorme
ancora ed è sdraiato sopra le coperte.
Riprovo a sedermi, ma il dolore mi penetra nelle ossa.
La morsa che mi stritola il cervello si stringe ancora di
più e un punteruolo da ghiaccio mi colpisce
indiscriminatamente la carne viva.
Cerco di gridare, solo che ho la voce rauca, come se
avessi urlato per giorni e giorni.
Sto male.
No, molto peggio. Sto morendo.
Oddio. Olly.
Gli si spezzerà il cuore.
Appena formulo il pensiero, Olly si sveglia. «Mad?»
chiama nel buio.
Quando accende la lampada sul comodino, mi sento
bruciare gli occhi. Li chiudo e tento di voltarmi dall’altra
parte. Non voglio che mi veda così, ma ormai è troppo
tardi. Passa dalla perplessità, alla consapevolezza,
all’incredulità. E infine al terrore.
«Mi dispiace», gli dico, o provo a dirgli, ma non
credo che le parole mi escano di bocca.
Lui mi tocca il viso, il collo, la fronte.
«Cavolo», continua a ripetere. «Oh, cavolo.»
Mi tira via la coperta e avverto un freddo
inimmaginabile.
«Cavolo, Maddy, sei rovente.»
«Freddo», gli dico in un sussurro, e il suo volto mi
appare ancora più terrorizzato.
Mi copre e mi culla la testa, mi bacia la fronte
bagnata, e poi le labbra.
«Va tutto bene», mi dice. «Andrà tutto bene, vedrai.»
Non va bene per niente, ma apprezzo il suo sforzo. Il
mio corpo pulsa di dolore e ho l’impressione che la gola
si stia gonfiando fino a strangolarmi. Non riesco a
introdurre abbastanza aria.
«Devo chiamare un’ambulanza», dice.
Giro la testa: quando si è spostato in quel punto della
stanza? Dove ci troviamo? È al telefono. Sta parlando
con qualcuno. Qualcuno male. Qualcuno sta male. Sta
morendo. Emergenza. Le pillole non funzionano.
Si riferisce a me. E piange.
Non piangere. Kara starà bene. E anche tua madre. E
anche tu.
Il letto sprofonda. Sono finita nelle sabbie mobili.
Qualcuno sta cercando di tirarmi fuori. Ha le mani
caldissime. Perché sono così calde?
Nell’altra mano tiene qualcosa che si illumina. È il suo
cellulare. Sta dicendo qualcosa, ma non distinguo le
parole. Qualcosa. Mamma. La tua mamma.
Sì. La mamma. Ho bisogno di lei. Sta già venendo
qui. Spero sia vicina.
Chiudo gli occhi e gli stringo le dita.
Non ho più tempo.
Il mio.
Cuore.
Si ferma.
E poi riparte.
DIMISSIONE, PARTE PRIMA
RESUSCITATA

NON ricordo granché, solo un confuso groviglio di


immagini. L’ambulanza. Una puntura nella gamba. Poi
una seconda. Iniezioni di adrenalina per far ripartire il
cuore. Sirene spiegate, prima lontane, poi fin troppo
vicine. I bagliori blu e bianchi di un televisore appeso in
alto in un angolo della stanza. Macchinari che vegliano su
di me tutto il giorno e tutta la notte emettendo costanti
segnali luminosi e acustici. Donne e uomini vestiti di
bianco. Stetoscopi, aghi e disinfettanti.
Poi l’odore del carburante dell’aereo, lo stesso odore
che mi ha accolto all’arrivo, le ghirlande di fiori e la
coperta ruvida avvolta a doppio giro intorno al corpo, e
perché dovrei preferire il posto vicino al finestrino se le
tendine sono abbassate?
Ricordo il viso di mia madre, e come le sue lacrime
avrebbero potuto formare un mare.
Ricordo gli occhi azzurri di Olly, divenuti d’un tratto
neri. E io che chiudevo i miei di fronte a tutto il
dispiacere, il sollievo e l’amore che avevo visto nel suo
sguardo.
Sto tornando a casa. Resterò in quella trappola per
sempre.
Sono viva e vorrei non esserlo.
NUOVO RICOVERO

LA mamma ha trasformato la mia camera in un reparto


ospedaliero. Ho la schiena sorretta dai guanciali e una
flebo attaccata al braccio. Sono circondata da apparecchi
di monitoraggio e non mangio altro che gelatina.
Ogni volta che mi sveglio, me la ritrovo accanto, che
mi tocca la fronte e mi parla. Cerco di concentrarmi, di
capire quello che mi dice, ma la sua voce non mi arriva.
Poi mi risveglio qualche tempo dopo (ore? giorni?) e
la vedo in piedi sopra di me, che osserva preoccupata il
suo portablocco. Chiudo gli occhi e procedo a una
ricognizione del mio corpo. Nessun dolore, o meglio,
nessun dolore troppo forte. Controllo la testa, la gola, le
gambe: è tutto a posto. Riapro gli occhi e mi accorgo
che la mamma sta per sedarmi di nuovo.
«No!» esclamo, drizzandomi a sedere troppo in fretta.
Subito, ho un senso di vertigine e di nausea. Vorrei dirle
che sto bene, ma dalla bocca non mi esce alcun suono.
Mi schiarisco la voce e ci riprovo. «Non farmi più
dormire, ti prego.» Se devo continuare a vivere, ho
bisogno almeno di rimanere sveglia.
«Sto bene?» le domando.
«Sì. Stai bene. Starai bene», risponde lei, con la voce
che le trema fino a spezzarsi.
Mi sollevo e la osservo. Ha il viso pallido, la pelle
tirata e quasi traslucida. Una vena bluastra e dall’aspetto
dolorante le scende dall’attaccatura dei capelli fino alla
palpebra. Gliene vedo altre, appena sotto la pelle degli
avambracci e dei polsi. E nei suoi occhi avverto lo
sguardo terrorizzato e incredulo di chi ha assistito a
qualcosa di terribile e si aspetta altri orrori.
«Come hai potuto fare a te stessa una cosa del
genere? Hai rischiato di morire», sussurra, e mi si
avvicina stringendo al petto il portablocco. «E come hai
potuto farla a me? Dopo tutto quanto?»
Vorrei dirle qualcosa, così apro la bocca, ma non mi
esce alcun suono.
Il mio senso di colpa è un oceano in cui annegare.

Dopo che la mamma se n’è andata, rimango a letto.


Non mi alzo per sgranchirmi le gambe e distolgo lo
sguardo dalla finestra. Di che cosa mi pento? Prima di
tutto di essere uscita di casa. Di aver visto il mondo e di
essermene innamorata. Di essermi innamorata di Olly.
Come faccio a vivere il resto della mia vita in questa
bolla, ora che sono consapevole di ciò che mi perdo?
Chiudo gli occhi e cerco di dormire, ma l’immagine
del viso della mamma, tutto l’amore disperato che aveva
negli occhi, non mi abbandona. Stabilisco che l’amore è
una cosa terribile, proprio terribile. Amare qualcuno con
la stessa intensità con cui mia madre ama me deve essere
come avere il cuore a nudo, senza pelle, senza ossa,
senza niente di niente che lo protegga.
L’amore è una cosa terribile, e perderlo è ancora
peggio.
L’amore è una cosa terribile, e io non voglio averci
niente a che fare.
DIMISSIONE, PARTE SECONDA

Mercoledì, ore 18.56

Olly: cav olo, ma dov ’eri?


Olly: stai bene?
Madeline: Sì.
Olly: tua madre cosa dice?
Olly: guarirai?
Madeline: Sto bene, Olly.
Olly: ho cercato di v enire a trov arti, ma tua madre non ha
v oluto
Madeline: Mi sta proteggendo.
Olly: lo so
Madeline: Grazie per av ermi salv ato la v ita.
Madeline: Mi dispiace per quello che ti ho fatto passare.
Olly: non dev i ringraziarmi
Madeline: Grazie lo stesso.
Olly: sicura di star bene?
Madeline: Non chiedermelo più, ti prego.
Olly: scusami
Madeline: Non scusarti.

Più tardi, ore 21.33

Olly: è bello poter chattare di nuov o con te


Olly: come mimo eri una frana
Olly: dimmi qualcosa
Olly: so che ci stai male Mad ma almeno sei v iv a
Olly: quando starai di nuov o meglio parleremo con tua
madre. magari potrò v enire a trov arti
Olly: lo so che non è tutto Mad ma è sempre meglio di niente

Più tardi, ore 00.05

Madeline: Non è meglio di niente. È decisamente peggio di


niente
Olly: come?
Madeline: Credi dav v ero di poter ricominciare come prima?
Madeline: Vorresti tornare alla decontaminazione, alle v isite a
tempo senza alcuna possibilità di toccarci, di baciarci, di
av ere un futuro?
Madeline: Mi stai dicendo che ti accontenteresti?
Olly: è meglio di niente
Madeline: No che non lo è. Smettila di ripeterlo.
Più tardi, ore 2.33

Olly: e le pillole?
Madeline: Le pillole cosa?
Olly: per un paio di giorni hanno funzionato. può anche darsi
che riescano a metterle a punto, alla fine
Olly: maddy ?
Madeline: Niente pillole
Olly: cioè?
Madeline: Quelle pillole non sono mai esistite. Mi sono
inv entata tutto per conv incerti a v enire con me.
Olly: mi hai mentito?
Olly: ma potev i morire e la colpa sarebbe stata mia
Madeline: Non sono sotto la tua responsabilità.

Più tardi, ore 3.42

Madeline: Volev o tutto, Olly. Volev o te e il mondo intero.


Volev o tutto quanto.
Madeline: Non posso più andare av anti così.
Olly: in che senso?
Madeline: Basta messaggi. Basta email. Non ce la faccio. Non
posso tornare indietro. La mamma av ev a ragione. Era
meglio la v ita di prima.
Olly: meglio per chi?
Olly: non farlo Maddy
Olly: la mia v ita è migliore se ci sei anche tu
Madeline: ma la mia no
<Madeline si è disconnessa>
LA VITA È BREVE T M
RECENSIONI (CON SP OILER) DI MADELINE

UOMO INVISIBILE DI RALPH ELLISON


Allarme spoiler: Se nessuno può vederti, non esisti.
GEOGRAFIA

SONO in un campo sconfinato pieno di papaveri rossi


che mi arrivano alla vita, ciascuno sul proprio stelo
verde. Sono così rossi che sembrano stillare colore. In
lontananza vedo un Olly, poi due e infine tanti Olly in
marcia verso di me. Indossano la maschera antigas,
stringono in mano delle manette e, mentre procedono
silenziosi e decisi verso di me, calpestano i papaveri con i
loro stivali neri.
Questo sogno mi perseguita. Durante il giorno mi
trascino stancamente: sono sveglia, ma in realtà sto
sognando e mi sforzo di non pensare a Olly.
Cerco di non pensare a quando l’ho visto per la prima
volta. A come ho avuto l’impressione che provenisse da
un altro pianeta. Cerco di non pensare ai ciambelloni, alle
verticali, ai baci e alla sabbia di velluto. A come il
secondo, il terzo e il quarto bacio sono incredibili
esattamente quanto il primo. Cerco di non pensare a lui
che si muove dentro di me, e a noi due che ci muoviamo
insieme. Mi sforzo di non pensare a lui perché, se lo
faccio, sono costretta a pensare a quanto, solo qualche
giorno fa, fossi un tutt’uno con lui e con il mondo.
A quante speranze avessi. A quanto mi sia illusa di
essere un miracolo. A quanto quel mondo a cui tanto
desideravo appartenere, non mi abbia più voluta.
Devo lasciare andare Olly per la sua strada. Ho
imparato la lezione. L’amore può uccidere, eccome se
può, e io preferisco essere viva che là fuori a vivere.
Una volta gli ho detto che conoscevo il mio cuore
meglio di qualunque altra cosa, ed è ancora vero.
Conosco i luoghi del mio cuore, ma hanno tutti cambiato
nome.
LA MAPPA DELLA DISPERAZIONE
LA VITA È BREVE T M
RECENSIONI (CON SP OILER) DI MADELINE

LO STRANIERO DI ALBERT CAMUS


ASPETTANDO GODOT DI SAMUEL BECKETT
LA NAUSEA DI JEAN-PAUL SARTRE
Allarme spoiler: Tutto è niente.
SELEZIONA TUTTO, CANCELLA
FINGERE

OGNI giorno che passa mi sento più forte. Non mi fa


male niente, eccetto il cuore, ma cerco di non usarlo.
Tengo le tapparelle abbassate. Leggo i miei romanzi.
Esistenziali o nichilisti. Mi spazientiscono i libri che
fingono che la vita abbia un senso. E mi spazientisce il
lieto fine.
Non penso a Olly, e quando ricevo le sue email le
cestino senza nemmeno leggerle.
Dopo due settimane, ho ritrovato abbastanza energie
da ricominciare alcuni dei miei corsi. Altre due settimane
e posso ricominciarli tutti.
Non penso a Olly e continuo a cancellare le sue email.
La mamma sta ancora tentando di guarirmi. Mi ronza
sempre intorno. Si preoccupa, si affanna e somministra.
Ora che ho recuperato le forze, mi convince a riprendere
le nostre serate madre-figlia. Come Olly, anche lei vuole
che le nostre vite tornino a essere com’erano prima. Le
serate insieme non mi esaltano – a dire il vero non mi
esalta niente –, ma lo faccio per lei. È sempre più magra.
Vederla così mi angoscia e non so come guarirla, quindi
gioco a Scarabeo, a Pictionary d’onore, guardo i film
con lei e fingo.
Olly smette di scrivermi.

***

«Ho chiesto a Carla di tornare», mi annuncia una sera


la mamma, dopo cena.
«Ero convinta che non ti fidassi più di lei.»
«Ma mi fido di te. Hai imparato la lezione a tue spese.
Certe cose si devono vivere in prima persona.»
IL RICONGIUNGIMENTO

IL giorno successivo, arriva Carla tutta in fermento.


Ancora più in fermento del solito anzi, e fingendo che
dall’ultima volta il tempo si sia fermato.
Appena mi vede, mi stringe a sé. «Mi dispiace», si
scusa. «È colpa mia.»
Resto sulle mie per non crollare. Se scoppiassi a
piangere, tutto diventerebbe reale. Sarei davvero
costretta a vivere questa vita. E non rivedrei mai più Olly.
Cerco di resistere, ma non ci riesco. Carla è il cuscino
morbido fatto apposta per piangere. Una volta aperti i
rubinetti, vado avanti per un’ora. Alla fine lei è bagnata
fradicia e io ho esaurito le lacrime. Chissà se a un certo
punto finiscono davvero.
Mi rispondo da sola frignando un altro po’.
«Come sta la mamma?» mi domanda lei quando
finalmente smetto.
«Non mi odia.»
«Le mamme non sanno odiare i propri figli. Li amano
troppo.»
«E invece ne avrebbe tutto il diritto. Sono una figlia
terribile. E ho fatto una cosa terribile.»
Le lacrime riprendono a scorrere, ma Carla le asciuga
con la mano.
«E il tuo Olly?»
Scuoto la testa. Potrei parlarle di qualsiasi altra cosa,
ma non di lui. Ho il cuore troppo martoriato e voglio
tenermi il dolore come monito. Non voglio che ci batta
sopra il sole. Non voglio che il mio cuore guarisca.
Perché, se lo facesse, potrei anche essere tentata di
usarlo di nuovo.

Ritorniamo alla nostra routine di sempre. Ogni giorno


è uguale al precedente e non molto diverso dal
successivo. Ivan e le navi. Sto lavorando al plastico di
una biblioteca, il cui interno è pieno di scale in stile
Escher che a un certo punto si interrompono senza
portare da nessuna parte. Fuori sento un gran baccano e
un susseguirsi di bip, e questa volta capisco subito di
che si tratta.
All’inizio non vado alla finestra. Ci pensa Carla ad
affacciarsi e a raccontarmi quello che succede. È il
furgone della ditta Two Brothers Moving. I due
proprietari scendono dal camioncino e scaricano carrelli,
scatoloni vuoti e nastro da pacchi. Parlano con la madre
di Olly. Ci sono anche lui e Kara, ma del padre nessuna
traccia.
La mia curiosità prende il sopravvento e mi ritrovo
alla finestra, a sbirciare oltre la tenda. Carla ha ragione. Il
padre di Olly non c’è. Olly, Kara e la madre entrano ed
escono freneticamente di casa, depositando sul portico
scatoloni pronti o sacchi neri stracolmi di roba perché i
tizi del trasloco li carichino sul camion. Nessuno dice
una parola. I nervi a fior di pelle della madre di Olly si
avvertono persino da questa distanza. Ogni due o tre
minuti Olly si ferma e la abbraccia: lei lo stringe forte e
lui le accarezza la schiena. Kara invece resta in disparte.
Ormai non fuma più di nascosto e lascia cadere la cenere
direttamente a terra.
Cerco di non concentrarmi su Olly, ma è impossibile.
Al mio cuore non importa un fico secco di quello che
pensa il cervello. Individuo il momento esatto in cui lui si
accorge di avere i miei occhi addosso: in quel preciso
istante si ferma e si gira verso di me. I nostri sguardi si
incrociano, ma rispetto alla prima volta è diverso. La
prima volta avevo di fronte una serie di possibilità. Anche
se, già allora, una parte di me sapeva che l’avrei amato.
Questa volta, invece, ho soltanto certezze. So di
amarlo e so che non smetterò mai.
Lui mi fa un cenno di saluto con la mano e io lascio
andare la tenda, volto le spalle alla finestra e premo la
schiena contro la parete, ansimando.
Quanto vorrei poter cancellare gli ultimi mesi della mia
vita, da quando l’ho conosciuto. Se potessi tornare
indietro, resterei in camera mia. Sentirei il camion fare
bip dalla casa accanto e continuerei a starmene seduta
sul mio divano bianco, nella mia stanza bianca, a leggere
i miei libri nuovi di zecca. Ripenserei al passato e
rammenterei a me stessa che non deve più ripetersi.
VIGILANZA DI QUARTIERE NUMERO 3

ORARI DEL PADRE

9.00
Esce di casa per andare al lavoro.

20.30 Sale malfermo i gradini del portico ed entra in casa
– barcollando. È già ubriaco?
21.00
Ritorna sul portico con un bicchiere in mano.

22.15
Stramazza sulla poltrona azzurra.

Qualche tempo dopo – Rientra in casa incespicando.

ORARI DELLA MADRE


Sconosciuti.

ORARI DI KARA
Sconosciuti.
ORARI DI OLLY
Sconosciuti.
CINQUE SILLABE

UN mese più tardi, appena dopo Natale, anche il padre se


ne va. Dalla finestra lo vedo trasportare qualche
scatolone verso un furgone preso a noleggio, niente di
più. Continuo a sperare che non raggiungerà moglie e
figli.
Dopo la sua partenza resto a guardare la casa di Olly
per giorni, chiedendomi come faccia a sembrarmi
sempre uguale, così solida e così «casa», anche ora che
lui e la sua famiglia non ci abitano più.
Aspetto un altro paio di giorni prima di decidermi a
leggere le email che Olly mi ha mandato. Sono ancora nel
cestino, come mi aspettavo.

Da: utentegenerico033
A: Madeline F. Whittier
<madeline.whittier@gmail.com>
Oggetto: limerick n. 1
Inviata il: 16 ottobre, ore 6.14

c’era una volta una certa madelina


che mi trafisse il cuore a mo’ di spadaccina
e io chiesi morente
(anche se non c’entrava niente)
conosci altre parole che rimano con madelina?

Da: utentegenerico033
A: Madeline F. Whittier
<madeline.whittier@gmail.com>
Oggetto: limerick n. 2
Inviata il: 17 ottobre, ore 20.03

in una bolla viveva una ragazza


e io ho pensato questa qui m’ammazza
però comunque le ho donato il cuore
ma lei lo ha dilaniato con ardore
e a me cos’è rimasto? una stra-mazza

Rido fino alle lacrime. Doveva essere proprio


arrabbiato con me per spedirmi dei limerick invece che
degli haiku.
Le altre email sono meno poetiche. Mi racconta che
sta tentando di convincere la madre a farsi aiutare e di
salvare Kara da se stessa. Non mi sa dire esattamente
quando la madre si sia lasciata convincere: forse quando
le ha detto che, se lei avesse continuato a vivere così, lui
avrebbe abbandonato la famiglia. Qualche volta siamo
costretti ad allontanarci dalle persone che ci amano più di
chiunque altro al mondo, ha detto. Oppure quando alla
fine le ha raccontato di me e di quanto sono malata, dice,
e di come fossi disposta a fare qualunque cosa pur di
vivere. Dice anche che sua madre mi reputa molto
coraggiosa.
LA SUA ULTIMA LETTERA È UN
HAIKU

Da: utentegenerico033
A: Madeline F. Whittier
<madeline.whittier@gmail.com>
Oggetto: haiku n. 1
Inviata il: 31 ottobre, ore 21.07

cinque sillabe
ed eccone altre sette
oh maddy ti amo
QUI E ORA

SECONDO la logica di Olly, non possiamo prevedere il


futuro. E a quanto pare neanche il passato. Il tempo si
muove in entrambe le direzioni – avanti e indietro – e ciò
che accade qui e ora modifica sia il futuro sia il passato.
STRETTAMENTE CONFIDENZIALE

Da: Dott.ssa Melissa Francis


A : madeline.whittier@gmail.com
Oggetto: Risultati analisi – STRETTA MENTE CONFIDENZIA LE
Inviata il: 29 dicembre, ore 8.03

Signorina Whittier,

forse non si ricorderà di me. Sono la dottoressa Melissa


Francis. Due mesi fa mi sono occupata di lei per qualche ora al
Maui Memorial delle isole Hawaii.
Ho ritenuto importante contattarla direttamente. Dopo un
esame accurato del suo caso la informo che non credo lei
abbia, né abbia mai av uto, la SCID.
So che per lei dev e essere uno choc. Ho allegato alla presente
alcuni risultati degli esami effettuati e le consiglio v iv amente di
sottoporsi a un secondo (e a un terzo) consulto.
Sono conv inta che debba affidarsi a un altro medico, oltre a
sua madre, per v erificare la v eridicità della mia scoperta. I
medici non dov rebbero mai av ere in cura i propri famigliari.
Secondo il mio parere professionale, due mesi fa alle Hawaii lei
ha av uto un episodio di miocardite scatenato da un’infezione
v irale. Ritengo che il suo sistema immunitario sia
particolarmente fragile per v ia di ciò che ho potuto ipotizzare
sulle condizioni in cui è cresciuta.
La prego di non esitare a contattarmi nel caso v olesse
riv olgermi altre domande. Buona fortuna.

Cordiali saluti,
dott.ssa Melissa Francis
PROTEZIONE

LEGGO l’email sei volte prima che le lettere formino delle


parole e le parole formino delle frasi di senso compiuto,
eppure il significato di tutte quelle parole messe insieme
mi sfugge ancora. Apro l’allegato contenente i risultati
degli esami di laboratorio: tutti i valori sono perfettamente
nella norma, né troppo alti né troppo bassi.
Di sicuro c’è un errore. Di sicuro la dottoressa
Francis si sbaglia. Avrà confuso la mia cartella con quella
di un’altra persona. Ci sarà un’altra Madeline Whittier. La
dottoressa sarà alle prime armi. La crudeltà del mondo
colpisce in maniera del tutto casuale.
Di sicuro è così, eppure… Stampo l’email e anche i
risultati degli esami. Non mi muovo al rallentatore. Il
tempo non accelera né rallenta.
Le parole sul foglio stampato non sono diverse da
quelle sullo schermo, ma sembrano più corpose, più
pregnanti. Però non possono essere vere. Non c’è alcuna
possibilità che lo siano.
Trascorro un’ora a cercare su Internet ogni singolo
esame tentando di capire che cosa significa. Certo,
Internet non può dirmi se i risultati sono corretti, né se io
sono una ragazza perfettamente nella norma con una
salute perfettamente nella norma.
E poi lo so. Lo so che c’è un errore. Ciononostante, i
miei piedi mi fanno scendere le scale, attraversare il
salotto e raggiungere l’ufficio che la mamma ha ricavato
in una stanza della casa. Ma lei non è né lì né nello
studio. Vado verso la sua camera e busso con
discrezione, le mani che mi tremano. Non risponde.
Sento scorrere l’acqua. Probabilmente è in bagno e si sta
preparando per andare a letto. Busso di nuovo, più
energicamente.
«Mamma», chiamo girando la maniglia.
Proprio mentre sto entrando, lei spegne la luce ed
esce dal bagno.
Quando mi vede, il suo volto scavato si apre in un
ampio sorriso. Su quel viso ancora più smunto del solito,
gli zigomi appaiono affilati e più prominenti, e le occhiaie
che le ho causato sembrano ormai aver trovato un posto
fisso. È struccata e i capelli le ricadono sciolti sulle
spalle. Indossa un pigiama nero di seta, troppo
abbondante per quel suo corpicino esile.
«Ciao, tesoro mio», mi dice. «Sei venuta per un
pigiama party?» Ha un’espressione così piena di
speranza che sono tentata di dirle di sì.
Faccio qualche altro passo verso di lei, sventolando i
fogli. «Mi ha scritto un medico di Maui», annuncio
cercando il nome, anche se me lo ricordo benissimo. «La
dottoressa Melissa Francis. L’hai conosciuta?»
Se non la stessi già osservando attentamente, forse
non me ne accorgerei, ma la vedo raggelarsi. «A Maui ho
incontrato un sacco di dottori, Madeline», risponde con
la voce tesa.
«Mamma, scusami…»
Mi interrompe con la mano alzata. «Che c’è,
Madeline?»
Faccio un altro passo avanti. «Mi ha scritto una
lettera. Questa dottoressa Francis è convinta che io non
sia malata.»
Mi fissa come se non avessi nemmeno parlato. Resta
in silenzio tanto di quel tempo che comincio a sospettare
di non averle detto niente.
«Spiegati meglio.»
«Dice che non crede che io abbia la SCID. Secondo
lei non l’ho mai avuta.»
«Oh, no. È per questo che sei venuta da me?» mi
domanda, sedendosi sul bordo del letto.
La sua voce è dolce, compassionevole. «Ti ha illusa,
vero?»
Mi fa cenno di sedermi accanto a lei, poi prende la
lettera e mi cinge in un abbraccio. «Mi dispiace, però
non c’è nulla di vero», dichiara.
Io mi lascio abbracciare, affranta. La mamma ha
ragione. Quella lettera mi aveva illusa. Il suo abbraccio è
così confortante. Mi sento calda, protetta e al sicuro.
Mi accarezza i capelli. «Mi dispiace che tu abbia
ricevuto una lettera del genere. È stato un gesto da
incosciente.»
«Non importa», dico con la testa affondata nella sua
spalla. «Sapevo che si erano sbagliati. Non mi sono
illusa.»
Lei si ritrae per guardarmi negli occhi. «È ovvio che
si sono sbagliati.»
Mi stringe di nuovo a sé con gli occhi gonfi di pianto.
«La SCID è talmente rara e complicata, tesoro. È
difficile riconoscerla. Si presenta in moltissimi modi e
ogni persona reagisce in maniera leggermente diversa
dall’altra.»
La mamma si ritrae un’altra volta e mi guarda per
assicurarsi che la ascolti e comprenda ciò che mi sta
dicendo. Poi comincia a parlare più lentamente e la sua
voce assume un tono comprensivo, da medico. «L’hai
capito da sola, vero? Per un po’ di tempo sei stata bene,
ma alla fine ti sei ritrovata al pronto soccorso, quasi
morta. Il sistema immunitario è molto complesso.»
Osserva impensierita i fogli. «E questa dottoressa
Francis non conosce tutta la tua storia clinica. Ne ha
visto solo una piccolissima parte. Non ti è stata accanto
per tutto il tempo.» Si incupisce ancora di più. Su di lei
quest’errore pesa più di quanto abbia pesato su di me.
«Mamma, stai tranquilla», le dico. «In realtà
neanch’io ci ho mai creduto.»
Ho l’impressione che non mi stia ascoltando.
«Dovevo proteggerti», dichiara.
«Lo so, mamma.» Vorrei chiudere l’argomento, così
mi accoccolo di nuovo fra le sue braccia.
«Dovevo proteggerti», ripete, il viso nascosto fra i
miei capelli.
L’ultimo «dovevo proteggerti» mi fa ammutolire.
Nella sua voce c’è una titubanza che non riesco a
spiegarmi.
Cerco di allontanarmi, di guardarla in faccia, ma lei mi
tiene stretta.
«Mamma», le dico divincolandomi.
Lei mi lascia andare e mi accarezza il viso con la
mano libera.
Io la fisso corrucciata. «Posso riaverli?» le domando,
riferendomi ai miei documenti.
La mamma abbassa lo sguardo e sembra chiedersi
come quei fogli le siano capitati in mano. «Non te ne fai
niente», risponde, eppure me li restituisce lo stesso.
«Vuoi fare un pigiama party?» chiede di nuovo,
tamburellando le dita sul letto. «Mi sentirò meglio se resti
con me.»
Ma io non sono convinta che la cosa valga anche per
me.
IL DIZIONARIO DI MADELINE

sospetto <so•spèt•to> s.m. 1. La verità a cui non si crede,


non si può credere e non si crederà mai: I suoi sospetti
sulla madre la tengono sveglia tutta la notte. | Nutriva il
crescente sospetto che il mondo stesse ridendo di lei.
[2015, Whittier]
IDENTITÀ

CARLA è ancora sulla soglia quando piombo su di lei per


mostrarle la lettera. Comincia a leggerla, e a ogni frase
sgrana sempre più gli occhi.
Mi afferra l’avambraccio. «Dove l’hai presa?»
«Continua a leggere», le dico. Per lei i grafici e i valori
avranno più senso che per me.
La guardo in faccia e cerco di capire che cosa sta
succedendo nel mio mondo. Mi aspettavo che liquidasse
l’email su due piedi, come ha fatto la mamma, e invece la
sua reazione è… diversa.
«L’hai fatta vedere a tua madre?»
Annuisco.
«E lei che ha detto?»
«Che la dottoressa si è sbagliata», rispondo in un
soffio, ritraen​domi dal suono della mia stessa voce.
Carla mi scruta a lungo. «Dobbiamo scoprirlo.»
«Che cosa?»
«Se è vero oppure no.»
«Ma come è possibile che sia vero? Se così fosse…»
«Sss, sss. Ancora non sappiamo niente.»
Non sappiamo niente? Eccome se sappiamo, invece.
Sappiamo che sono malata. Che non mi è consentito
uscire di casa, pena la morte. E questo lo so da sempre.
È tutto ciò che sono.
«Che sta succedendo?» chiedo. «Che cosa mi
nascondi?»
«No, no. Non ti nascondo niente.»
«Che cosa significa?»
Carla sospira, un sospiro lungo, profondo e spossato.
«Giuro che non so niente. Ma qualche volta ho dei
sospetti.»
«Del tipo?»
«A volte ho l’impressione che tua madre non sia del
tutto a posto. Può darsi che non si sia mai ripresa da
quello che è accaduto a tuo padre e a tuo fratello.»
L’ossigeno presente nella stanza è sostituito da
qualcos’altro, qualcosa di impalpabile e irrespirabile. Il
tempo rallenta e io comincio a vedere le cose come
attraverso un tunnel. Le pareti sono troppo vicine e Carla
sempre più lontana, una minuscola figura alla fine di un
corridoio interminabile. Ho le vertigini, non riesco a stare
in piedi e ho la nausea.
Corro in bagno e mi chino sul lavandino in preda ai
conati di vomito. Carla entra nel momento in cui mi sto
sciacquando il viso. Mi appoggia una mano sulla schiena
e io mi accascio sotto il suo peso. Sono inconsistente.
Sono di nuovo la ragazza fantasma di Olly. Schiaccio le
mani sulla porcellana del lavandino. Non posso alzare gli
occhi allo specchio perché, se lo facessi, non
riconoscerei la persona che ho di fronte.
«Devo saperlo con certezza», grugnisco con una
voce che appartiene a qualcun altro.
«Dammi un giorno», mi dice Carla cercando di
abbracciarmi, ma io non glielo permetto.
Non voglio essere consolata né protetta.
Voglio soltanto la verità.
PROVA DI ESISTENZA IN VITA

NON devo far altro che addormentarmi: placare la mente,


rilassare il corpo e addormentarmi. Ma per quanto ci
provi, il sonno non arriva. Il mio cervello è una stanza
sconosciuta e disseminata di trabocchetti. La voce di
Carla continua a ronzarmi in testa. Può darsi che non si
sia mai ripresa da quello che è accaduto. Che cosa
intendeva dire? Guardo l’orologio: è l’una di notte.
Mancano sette ore al ritorno di Carla. Faremo delle
analisi del sangue e le consegneremo a uno specialista di
SCID che ho scovato io. Sette ore. Chiudo gli occhi. Poi
li riapro. È l’una e un minuto.
Ho bisogno di risposte. Devo vederci chiaro.
Ce la metto tutta per raggiungere l’ufficio della
mamma a passo normale, invece che di corsa. Sono
sicura che stia dormendo, ma non posso rischiare di
svegliarla. Afferro la maniglia e, per un atroce istante,
penso che troverò la porta chiusa a chiave e che sarò
costretta a rimandare, però io non posso proprio
rimandare. Invece la maniglia ruota e la stanza mi
accoglie come se mi stesse aspettando, come se fosse
rimasta finora in attesa.
L’ufficio della mamma è perfettamente normale, né
troppo ordinato né troppo caotico. Non noto alcun
segnale di una mente disturbata. Le pareti non sono
tappezzate da cima a fondo di scritte assurde,
sconclusionate e confuse.
Mi avvicino alla grande scrivania con schedario
incorporato posta al centro della stanza e comincio da
qui. Mi tremano le mani, percorse da scosse violente,
come quelle di un terremoto che avverto solo io.
La mamma archivia tutto in maniera ossessiva.
Conserva ogni cosa, così impiego più di un’ora per
sfogliare appena una manciata di documenti. Ci sono
ricevute di piccoli e grandi acquisti, contratti di leasing,
documenti fiscali, garanzie e manuali d’istruzioni. Ha
conservato persino i biglietti strappati del cinema.
Finalmente, quasi in fondo allo schedario, individuo
quello che cerco: una grossa cartella rossa con il mio
nome sopra. La tiro fuori con circospezione e mi faccio
un po’ di spazio sul pavimento.
Le notizie sulla mia vita cominciano dalla gravidanza.
Ci sono raccomandazioni per l’assunzione di vitamine
prenatali, ecografie e fotocopie di ciascuna visita medica.
C’è anche un cartoncino scritto a mano con due caselle
da barrare, una per maschio e l’altra per femmina, dove
qualcuno ha barrato la seconda. Il mio certificato di
nascita.
Proseguendo nelle ricerche, non impiego molto a
rendermi conto di essere stata una neonata cagionevole.
Trovo resoconti pediatrici di sfoghi cutanei, reazioni
allergiche, eczemi, raffreddori, febbri e due otiti, il tutto
solo nei miei primi quattro mesi di vita. Trovo ricevute di
visite specialistiche sull’allattamento e il sonno infantile.
Intorno ai sei mesi, poco dopo la morte di mio padre e
di mio fratello, vengo ricoverata in ospedale per un virus
respiratorio sinciziale (VRS). Non so che cosa sia e
prendo mentalmente nota di cercarlo su Google.
Comunque è stato abbastanza grave da costringermi tre
giorni in ospedale.
Da quel momento, però, la mamma ha cominciato a
registrare i miei dati con meno meticolosità. Trovo delle
notizie sul VRS stampate da Internet, con una sezione
cerchiata a mano in cui si dice che il virus colpisce più
gravemente gli individui con un sistema immunitario
compromesso. Trovo anche la fotocopia della prima
pagina di un articolo sulla SCID comparso su una rivista
medica. Gli appunti della mamma a bordo pagina sono
illeggibili. Dopodiché trovo il responso di un’unica visita
allergologica e di tre visite effettuate da altrettanti
immunologi, ciascuno dei quali conclude dicendo di non
aver riscontrato alcuna malattia.
Tutto qui.
Frugo di nuovo nell’archivio sperando che spunti
qualcos’altro. Dove sono i risultati degli esami? Mi avrà
pur visitato un quarto immunologo, no? Dov’è la
diagnosi? Dove sono i consulti e i secondi pareri?
Dovrebbe esserci un’altra grossa cartella rossa.
Scartabello i documenti una terza volta. E poi una quarta.
Svuoto altri raccoglitori sul pavimento e rovisto tra i
fogli. Spulcio tutti i documenti sulla scrivania. Sfoglio le
pagine delle riviste mediche cercando gli eventuali
passaggi sottolineati.
Corro verso gli scaffali con il respiro ansante. Tiro giù
i libri, li scrollo afferrandoli per il dorso nella speranza
che cada qualcosa – risultati di esami dimenticati, una
diagnosi ufficiale – e invece non trovo niente.
Ma niente non è una prova.
Magari la prova è da qualche altra parte. Azzecco la
password del computer al primo colpo: Madeline. Passo
due ore a esaminare tutti i documenti. Scorro la
cronologia dei siti Internet. Controllo anche i file
cestinati.
Niente.
Niente di niente.
Dov’è la prova dell’esistenza che ho vissuto finora?
Compio una lenta giravolta al centro della stanza. Non
riesco a credere ai miei occhi. Non credo a ciò che non
vedo. Com’è possibile che non ci sia nulla? È come se la
mia malattia fosse un’invenzione scaturita dall’aria fin
troppo impalpabile che respiro.
Non è vero. Non può esserlo.
Non sono malata? Inorridisco al solo pensiero.
Magari la mamma conserva altri documenti in camera
sua. Perché non mi è venuto in mente prima? Sono le
5.23 di mattina. Ce la faccio ad aspettare finché non si
sveglia? No.
La porta si apre proprio mentre mi avvicino.
«Ah, eccoti», mi dice, palesemente sollevata. «Mi
sono preoccupata. In camera tua non c’eri.» Avanza di
qualche passo e resta sbigottita nel vedere tutto il caos
che ci circonda. «C’è stato un terremoto?» domanda.
Alla fine si rende conto che quella confusione è opera di
qualcuno. Si volta a guardarmi, sconcertata. «Tesoro
mio, che succede?»
«Sono malata?» le domando. Sento il sangue
martellarmi nelle orecchie.
«Che cosa hai detto?»
«Sono malata?» ripeto a voce più alta.
La rabbia che le stava montando si placa, sostituita
dall’apprensione. «Stai male?»
Allunga una mano per toccarmi, ma io la spingo via.
La sua espressione ferita mi fa star male quasi per
davvero, eppure continuo a incalzarla. «No, non era
questo che intendevo. Ho la SCID?»
L’apprensione si tramuta in esasperazione mista a un
lieve compatimento. «Ancora con quella email?»
«Sì», ammetto. «E ho parlato anche con Carla.
Secondo lei, forse non stai bene.»
«In che senso?»
Di che cosa la sto accusando, esattamente? «Dove
sono i documenti?» la interrogo.
Fa un respiro profondo per mantenere la calma.
«Madeline Whittier, parla chiaro.»
«Hai conservato di tutto, ma sulla SCID non c’è
niente. Perché non riesco a trovare niente?» Raccolgo da
terra la cartella rossa e gliela sbatto in mano.
«Ma che stai dicendo?» chiede. «È tutto qui dentro.»
Non so bene cosa mi aspettavo dicesse, ma di sicuro
non questo. È davvero convinta che sia tutto dentro il
fascicolo?
Si stringe la cartella al petto come se cercasse
letteralmente di inglobarla. «Hai guardato bene? Io
conservo tutto.»
Si avvicina alla scrivania e fa un po’ di spazio. La
guardo esaminare i documenti, riordinarli, lisciare con la
mano pagine che non hanno alcun bisogno di essere
lisciate.
Dopo un po’ alza lo sguardo su di me. «Li hai presi
tu? So per certo che erano qui.» Ha la voce impastata di
perplessità e paura.
Finalmente ne ho la certezza.
Non sono malata e non lo sono mai stata.
FUORI

ESCO di corsa dall’ufficio.


Il corridoio si apre di fronte a me e non ha fine.
Sono nella zona di decontaminazione e l’aria non si
muove.
Sono fuori e il mio respiro non fa rumore.
Il mio cuore non batte.
Vomito tutto il niente che ho nello stomaco. La bile mi
brucia la gola.
Sto piangendo e l’aria fresca del mattino mi gela le
lacrime sul viso.
Sto ridendo e il freddo mi pervade i polmoni.
Non sono malata. Non lo sono mai stata.
Vengo travolta da tutte le emozioni che ho tenuto a
bada nelle ultime ventiquattro ore. Speranza e
disperazione, attesa e rimpianto, gioia e rabbia.
Com’è possibile provare nello stesso momento
un’emozione e il suo esatto contrario? Sto lottando in un
oceano nero, con un giubbotto di salvataggio sul petto e
un’ancora attaccata alla gamba.
La mamma mi raggiunge, il viso devastato dal terrore.
«Che stai facendo? Che stai facendo? Devi venire
dentro.»
Vedo di nuovo come attraverso un tunnel e punto lo
sguardo su di lei. «Perché, mamma? Perché dovrei
tornare dentro?»
«Perché sei malata. Qua fuori possono capitarti delle
brutte cose.»
Cerca di attirarmi a sé, ma io mi scanso.
«No, non ci penso proprio a rientrare.»
«Ti prego», mi supplica. «Non posso perdere anche
te. Non dopo tutto quanto.»
Mi sta fissando, ma sono sicura che in realtà non mi
vede affatto.
«Ho perso già loro. Ho perso tuo padre e tuo fratello.
Non potevo perdere anche te. Non potevo proprio.»
Il suo viso si sgretola, va letteralmente in pezzi.
Qualunque fosse l’impalcatura che lo sorreggeva, si
dissolve in un crollo improvviso e catastrofico.
È una donna distrutta.
Da tanto, tantissimo tempo.
Carla aveva ragione. Non si è mai ripresa da
quell’evento.
Le dico qualcosa. Non so cosa, so solo che lei
continua a parlare.
«Poco dopo che sono morti sei stata male, malissimo.
Respiravi a fatica, così ti ho portata al pronto soccorso e
siamo dovute restare tre giorni in ospedale. Non
sapevano che cosa avessi. Hanno pensato che si trattasse
di un’allergia. Mi hanno dato una lista di cose da evitare,
ma io ero sicura che ci fosse dell’altro.» Fa cenno di sì
con la testa. «Ne ero sicura. E dovevo proteggerti. Qua
fuori può capitarti di tutto.» Si guarda intorno. «Può
capitarti di tutto, qua fuori. Nel mondo.»
Dovrei provare pietà per lei, invece sento montare la
rabbia, e non rimane posto per nient’altro.
«Non sono malata», grido. «Non lo sono mai stata. La
malata sei tu.» Pugnalo l’aria davanti al suo viso e guardo
mia madre rimpicciolirsi e scomparire.
«Vieni dentro», sussurra. «Ti proteggerò io. Stai con
me. Sei tutto quello che ho.»
Il suo dolore è infinito.
Va oltre i confini del mondo.
Il suo dolore è un mare morto.
Il suo dolore è per me, ma io non posso più farmene
carico.
FAVOLE

C’ERA una volta una ragazza la cui vita era tutta una
menzogna.
IL VUOTO

UN universo che può originarsi in un batter di ciglia, allo


stesso modo può cessare di esistere.
INIZI E CONCLUSIONI

PASSANO quattro giorni, durante i quali mangio, faccio i


compiti e non leggo. La mamma si aggira per casa in
stato confusionale. Non credo si renda conto di quel che
è successo. Sembra aver capito di dover espiare
qualcosa, però non sa bene cosa. A volte cerca di
rivolgermi la parola, ma io la ignoro. La guardo a
malapena in faccia.
La mattina dopo che ho scoperto la verità, Carla ha
portato dei campioni di sangue al medico specialista in
SCID, il dottor Chase. Ora ci troviamo nel suo
ambulatorio, in attesa che ci chiami. E anche se so che
cosa ci dirà, avere una conferma medica mi spaventa lo
stesso.
Che ne sarà di me, se non sono malata?
Appena l’infermiera pronuncia il mio nome, chiedo a
Carla di aspettare in sala d’attesa. Non so perché, ma
voglio essere sola quando riceverò la notizia.
Entro nello studio e il dottor Chase si alza in piedi. È
proprio come nelle foto su Internet: un signore bianco e
anzianotto, con i capelli brizzolati e due vividi occhi neri.
Mi guarda con un misto di compassione e curiosità,
poi mi fa cenno di accomodarmi e aspetta che mi sieda
per fare altrettanto.
«Il suo caso», comincia, ma si interrompe subito.
È nervoso.
«Stia tranquillo», gli dico. «Lo so già.»
Apre un faldone sulla scrivania e scuote la testa come
se fosse ancora sconcertato dai risultati. «Ho analizzato
questi valori più e più volte. E li ho fatti esaminare anche
dai miei colleghi, per fugare ogni dubbio. Lei non è
malata, signorina Whittier.»
Si interrompe e attende una mia reazione.
Io scuoto la testa. «Lo so già», ripeto.
«Carla – l’infermiera Flores – mi ha messo al corrente
della sua situazione», riprende, sfogliando con attenzione
qualche altra pagina, come se volesse evitare di dirmi
quello che mi dice un attimo dopo. «Come medico, sua
madre avrebbe dovuto saperlo. È vero che la SCID è una
malattia molto rara e che si manifesta in svariate forme,
però lei non presenta nessuno, assolutamente nessuno
dei segni rivelatori della malattia. Se sua madre avesse
fatto delle ricerche, o anche solo qualche analisi,
l’avrebbe capito.»
La stanza si dissolve e io mi ritrovo in un paesaggio
bianco e piatto, disseminato di porte aperte che non
conducono da nessuna parte.
Il medico mi osserva finché non torno in me. «Mi
scusi, ha detto qualcosa?» gli chiedo.
«Sì. Avrà certamente delle domande da rivolgermi.»
«Perché mi sono ammalata alle Hawaii?»
«Sono cose che capitano, Madeline. Anche le persone
sane e normali si ammalano di continuo.»
«Ma il mio cuore si è fermato.»
«Sì. Ho idea che si sia trattato di miocardite. Ho
parlato con la dottoressa che l’ha avuta in cura al Maui
Memorial, e anche lei ha avuto lo stesso sospetto. In
poche parole, in passato deve aver contratto un’infezione
virale che le ha indebolito il cuore. Mentre si trovava alle
Hawaii, ha per caso avvertito dolori al petto o
affaticamento respiratorio?»
«Sì», rispondo, ripensando alle fitte al cuore che
avevo ostinatamente ignorato.
«Ebbene, la miocardite sembra un’ipotesi plausibile.»
Non ho altre domande, non per lui almeno, così mi
alzo. «Be’, la ringrazio molto, dottor Chase.»
Si alza anche lui, agitato e ancora più nervoso. «Prima
che se ne vada, devo dirle un’altra cosa.»
Ci risiediamo.
«A causa delle circostanze in cui è cresciuta, non
sappiamo se il suo sistema immunitario funziona
correttamente.»
«Che intende?»
«Riteniamo possibile che sia sottosviluppato, come
quello di un neonato.»
«Di un neonato?»
«Il suo sistema immunitario non è stato mai esposto
alle infezioni batteriche e ai virus più comuni. Non ha
avuto il tempo di combatterle, queste infezioni. Di
rafforzarsi.»
«Quindi sono ancora malata?»
Il medico appoggia la schiena alla poltrona. «Non ho
buone notizie da darle. Siamo in un territorio inesplorato:
personalmente non ho mai sentito di un caso come il
suo. Potrebbe capitarle di ammalarsi più spesso di chi ha
un sistema immunitario normale. O di contrarre le
malattie in forma molto grave.»
«Come faccio a saperlo?»
«Non credo ci sia modo di saperlo, perciò le consiglio
di essere prudente.»
Ci accordiamo per delle visite di controllo settimanali.
Il dottor Chase mi raccomanda di andarci piano,
all’inizio, con l’idea di vedere il mondo: niente bagni di
folla, niente cibi nuovi, niente attività fisica estenuante.
«Tanto il mondo non scappa», mi dice mentre esco
dallo studio.
DOPO LA MORTE DI

T RASCORRO i giorni successivi a cercare altre


informazioni, una qualsiasi spiegazione di ciò che è
successo a me e a mia madre. Vorrei avere un diario con
i suoi pensieri nero su bianco. Una descrizione chiara e
dettagliata della sua pazzia che mi permetta di seguirne
l’evoluzione e quindi di ricostruire il mio passato. Ho
bisogno di sapere perché, perché e ancora perché. Devo
sapere che cosa è accaduto, ma lei non è in grado di
dirmelo. La sua salute mentale è troppo compromessa. E
anche se potesse raccontarmelo? Che differenza
farebbe? Riuscirei a capire? A giustificare un dolore e
una paura talmente profondi da indurla a privarmi della
vita intera?
Il dottor Chase sostiene che la mamma dovrebbe
parlare con uno psicoterapeuta. A detta sua, potrebbe
volerci parecchio tempo prima che riesca a rivelarmi
esattamente come sono andate le cose, se mai sarà in
grado di farlo. Secondo lui, ha avuto una sorta di forte
esaurimento nervoso dopo la morte di mio padre e di mio
fratello.
Carla fa appello a tutte le proprie doti persuasive per
tentare di convincermi a non andarmene di casa. Non
solo per il bene della mamma, ma anche per il mio. La
mia salute è ancora un punto interrogativo.
Sto valutando l’ipotesi di scrivere a Olly, però è
passato tanto di quel tempo. E poi gli ho mentito. Avrà
voltato pagina, ormai. Avrà trovato una ragazza. Non
sono sicura di poter sopportare un’altra delusione
d’amore. E poi cosa potrei dirgli? Che sono quasi non
malata?
Alla fine Carla mi convince a restare con la mamma.
Dice che non sono quel genere di figlia, che sono
migliore. Ma io non ne sono poi tanto sicura. Chiunque
fossi prima di scoprire la verità, quella persona è morta.
PRIMA SETTIMANA, ANNO ZERO

MI sottopongo alla prima visita settimanale con il dottor


Chase, il quale mi esorta alla prudenza.
Installo una serratura alla porta della mia stanza.
SECONDA SETTIMANA, ANNO ZERO
TERZA SETTIMANA, ANNO ZERO

LA mamma cerca di entrare in camera mia, ma la porta è


chiusa a chiave con me dentro.
Se ne va.
Scrivo altre email a Olly, ma non le spedisco.
Il dottor Chase continua a esortarmi alla prudenza.
QUARTA SETTIMANA, ANNO ZERO

PIT T URO ogni parete della stanza di un colore diverso. Il


muro intorno alla finestra è di un giallo burro chiaro
chiaro. Le mensole sono arancio tramonto su fondo blu
pavone. La parete dietro il letto è color lavanda e l’ultima
è nera, dipinta a effetto lavagna.
La mamma bussa alla porta, ma io faccio finta di
niente.
Se ne va.
QUINTA SETTIMANA, ANNO ZERO

ORDINO delle piante vere per la veranda. Disattivo i filtri


dell’aria e apro le finestre. Compro cinque pesci rossi, li
chiamo tutti Olly e li libero nel ruscelletto.
SESTA SETTIMANA, ANNO ZERO

IL dottor Chase continua a dire che è presto per


iscrivermi a scuola. Troppi ragazzi con troppe malattie.
Carla e io insistiamo perché alcuni dei miei insegnanti
vengano a farmi visita, purché siano in perfetta salute.
Lui è restio, ma alla fine acconsente.
LA MAMMA DI MADELINE
«FIORI PER ALGERNON»

UNA settimana dopo, io e Carla guardiamo il professor


Waterman attraversare il prato e raggiungere la sua
automobile. Prima che se ne andasse, l’ho abbracciato.
C’è rimasto di stucco, ma non si è opposto, ha
semplicemente ricambiato il mio abbraccio come se
fosse una cosa del tutto naturale.
Dopo averlo visto partire, resto qualche minuto fuori
e Carla aspetta con me. Sta cercando un modo gentile
per spezzare il mio cuore già infranto.
«Be’…» esordisce.
So bene che cosa ha intenzione di dirmi. Si è
preparata per tutta la giornata. «Non lasciarmi, Carla, ti
prego. Ho ancora bisogno di te.»
Mi sta fissando, ma io non sono proprio in grado di
sostenere il suo sguardo.
Non contesta quello che ho appena detto, mi afferra
soltanto la mano.
«Se hai davvero così tanto bisogno che io resti,
resterò.» Mi stringe le dita. «Ma sai bene anche tu che
non hai più bisogno di me.»
«Avrò sempre bisogno di te.» Non provo nemmeno a
trattenere le lacrime.
«Ma non come prima», aggiunge lei con garbo.
Ovviamente ha ragione. Non ho bisogno della sua
presenza otto ore al giorno. E nemmeno di assistenza
continua. Ma che cosa farò senza di lei?
Le lacrime si trasformano in un pianto convulso, e
Carla mi tiene fra le braccia lasciandomi sfogare finché
non le esaurisco tutte.
«Cosa farai?»
Mi asciuga il viso con la mano. «Magari ricomincerò
a lavorare in ospedale.»
«L’hai già detto alla mamma?»
«Stamattina.»
«E lei come ha reagito?»
«Mi ha ringraziata per essermi presa cura di te.»
Sono ancora arrabbiata e non tento di nasconderlo.
Carla mi afferra il mento. «Quando troverai nel tuo
cuore il modo di perdonarla?»
«Quello che ha fatto è imperdonabile.»
«Era malata, tesoro. Lo è tuttora.»
Scuoto la testa. «Mi ha privato della vita intera.»
Anche adesso, se penso agli anni che ho perso, mi
sento sull’orlo di un enorme baratro, come se da un
momento all’altro potessi cadere e non risalire mai più.
Carla mi riporta al presente con una leggera gomitata.
«Non della vita intera», puntualizza. «Ne hai ancora
molta davanti.»
Torniamo dentro e io la seguo per tutta la casa,
osservandola mentre raduna le sue cose per l’ultima
volta.
«Alla fine l’hai letto Fiori per Algernon?» le domando.
«Sì.»
«E ti è piaciuto?»
«No. Non è il mio genere. Troppo poca speranza.»
«Ti ha fatto piangere, vero?»
Carla fa cenno di no con la testa, ma poi confessa:
«Okay, sì, come una fontana».
Scoppiamo a ridere tutte e due.
IL DONO

UNA settimana più tardi, la mamma bussa alla porta della


mia stanza, ma io non mi muovo dal divano. Quando la
sento bussare di nuovo e con maggiore insistenza, il mio
risentimento aumenta. Non sono convinta che il nostro
rapporto potrà mai ricucirsi. È difficile per me
perdonarla, quando non comprende nemmeno
pienamente la gravità della sua colpa.
Apro la porta di scatto proprio mentre sta per bussare
un’altra volta.
«Non è davvero il momento», le dico.
Lei trasalisce, ma io non mi scompongo. Voglio ferirla
ancora e ancora e poi ancora. La mia rabbia non si è mai
dissipata del tutto. Mi aspettavo che con il passare del
tempo sarebbe diminuita, e invece è ancora lì, latente.
La mamma sospira. «Ti ho portato una cosa», mi
annuncia con una vocetta esile e confusa.
Io alzo gli occhi al cielo. «Credi che i regali possano
servire a qualcosa?»
So di averla ferita di nuovo. Vedo il pacchetto tremare
fra le sue mani e lo afferro solo perché voglio troncare la
conversazione. Voglio chiudermi a chiave, lontano da lei,
e non voglio dover provare pietà né empatia né
compassione né altri sentimenti del genere.
La mamma si volta per andarsene, ma poi si ferma.
«Ti voglio ancora bene, Madeline. E tu ne vuoi a me. Hai
tutta la vita davanti. Non sprecarla. Perdonami.»
LA FINE È L’INIZIO È LA FINE

SCART O il regalo della mamma: un telefono. Sullo


schermo compare un’applicazione che mostra le
previsioni del tempo per tutta la settimana: sereno e
soleggiato, ogni giorno.
Devo uscire di casa. Lo faccio, senza sapere dove sto
andando finché non ci arrivo. Per fortuna la scala è nel
punto esatto in cui Olly l’ha lasciata. Salgo fino al tetto.
Il planetario meccanico è ancora al suo posto, e
ancora bellissimo. I soli, le lune e le stelle d’alluminio
penzolano, si girano e riflettono i raggi del sole nella
vastità dell’universo. Do un leggero colpetto a uno dei
pianeti e l’intero sistema ruota lentamente. Capisco
perché Olly abbia voluto realizzarlo. È rassicurante
abbracciare con un solo sguardo un intero mondo,
vederne i vari pezzi e sapere che ciascuno trova la giusta
collocazione in mezzo agli altri.
Davvero sono trascorsi soltanto cinque mesi
dall’ultima volta in cui sono salita quassù? Sembra una
vita fa, anzi parecchie. E la ragazza che è stata qui? Ero
io? Ho qualcosa in comune con la Maddy di un tempo, a
parte la somiglianza e lo stesso nome?
Quand’ero più piccola, una delle mie attività preferite
era immaginare delle versioni di me stessa provenienti da
qualche universo parallelo. Certe volte ero una ragazzina
dai pomelli rossi che viveva all’aperto, mangiava fiori e
camminava da sola, in salita, per chilometri. Altre ero un
concentrato di adrenalina, una scavezzacollo che faceva
acrobazie aeree in caduta libera e gare automobilistiche di
accelerazione. Altre ancora, un’ammazzadraghi che
indossava una cotta in maglia di ferro e roteava la spada.
Immaginare quelle cose era divertente perché in realtà
sapevo già chi ero. Adesso non so più niente. Non so chi
dovrei essere nel mio nuovo mondo.
Mi sforzo di ricordare il momento esatto in cui tutto è
cambiato. L’istante che ha impresso questo corso alla
mia vita. È stato quando mio padre e mio fratello sono
morti o prima? È stato quando sono saliti in macchina il
giorno in cui il camion li ha uccisi? Quando è nato mio
fratello? O quando i miei genitori si sono conosciuti?
Oppure quando è nata mia madre? Può anche darsi che
non sia stato nessuno di questi attimi. Magari è stato
quando il camionista ha deciso che non era stanco per
guidare o quando, ancora prima, ha deciso di fare il
camionista. O addirittura quando è nato.
Oppure uno degli infiniti istanti che mi hanno
condotto fino al momento presente.
E allora, se potessi cambiarne uno, quale sceglierei? E
otterrei il risultato sperato? Sarei ancora Maddy? Avrei
vissuto comunque in questa casa? Un ragazzo di nome
Olly si sarebbe trasferito in quella accanto? Ci saremmo
innamorati?
Secondo la teoria del caos, un minimo cambiamento
nelle condizioni iniziali può condurre a dei risultati
estremamente imprevedibili. Una farfalla che sbatte le ali
in questo momento può scatenare un uragano nel futuro.
Eppure…
Penso comunque che, se riuscissi a individuare quel
momento, potrei smontarlo pezzo per pezzo, molecola
per molecola fino al livello atomico, fino a svelarne il
nucleo inviolato ed essenziale. Se potessi scomporlo e
comprenderlo, forse riuscirei a modificarlo nel modo più
giusto.
Potrei guarire mia madre e fare sì che non fosse così
provata dalla vita.
Potrei capire come sono finita a sedermi su questo
tetto all’inizio e alla fine di tutto.
FUTURO ANTERIORE NUMERO 2

Da: madeline.whittier@gmail.com

A: utentegenerico033@gmail.com

Oggetto: Futuro anteriore numero 2

Inviata il: 10 marzo, ore 19.33

Quando leggerai questa email, mi avrai già


perdonato.
PARTENZA
PERDONO

GUARDO fuori dal finestrino dell’aereo e vedo chilometri


e chilometri di terra verdeggiante divisa in riquadri
perfetti, fra i quali si aprono decine di misteriosi specchi
d’acqua verde-azzurra, con le rive lucenti. Da
quest’altezza il mondo appare ordinato, frutto di un
disegno preciso.
Ma io so bene che in esso c’è molto di più. E anche di
meno. Il mondo è strutturato e caotico. Bellissimo e
strano.

Il dottor Chase non ha approvato la mia decisione di


viaggiare in aereo così presto. Ma è anche vero che può
capitare qualunque cosa in qualsiasi momento. La
sicurezza non è tutto. E vivere non significa limitarsi a
essere in vita.
La mamma – questo devo riconoscerglielo – non ha
cercato di fermarmi quando gliel’ho detto, ieri sera. Ha
ingoiato tutta la paura e lo sgomento, anche se non è
ancora convinta che io non sia malata. Il suo cervello da
medico fatica a conciliare quello che per tanto tempo ha
ritenuto vero con le prove fornite da tutti gli altri dottori e
da tutti gli esami. E io cerco di mettermi nei suoi panni,
di ragionare non in termini di causa-effetto, ma in termini
di effetto-causa. Procedo a ritroso, ancora e ancora, e
mi ritrovo ogni volta allo stesso punto.
L’amore.
L’amore fa impazzire le persone.
E perdere l’amore fa altrettanto.
Mia madre amava mio padre. Lui era l’amore della sua
vita. E amava mio fratello. Anche lui era l’amore della
sua vita. E ama me. Io sono l’amore della sua vita.
L’universo si è portato via mio padre e mio fratello.
Per lei è stato un Big Bang al contrario: tutto è diventato
niente.
La capisco.
O quasi.
Ci sto provando.
«Quando tornerai a casa?» mi ha domandato.
Le ho detto la verità. «Non sono più così convinta
che questa sia casa mia.»
Lei si è messa a piangere, eppure mi ha lasciato
andare lo stesso, e questo deve pur contare qualcosa.

Alla fine la coltre di nubi si addensa a tal punto da non


farmi vedere più niente, così mi rilasso nella mia poltrona
e rileggo Il Piccolo Principe. Ancora una volta, la storia
assume un nuovo significato.
LA VITA È BREVE TM

RECENSIONI (CON SP OILER) DI MADELINE

IL PICCOLO PRINCIPE DI ANTOINE DE SAINT-


EXUPÉRY

Allarme spoiler: Per amore vale la pena rischiare tutto.


Tutto.
QUESTA VITA

ANCHE alle 9 di sabato mattina, New York è chiassosa e


intasata di traffico come vuole la sua fama. Le strade
sono piene di macchine che strombazzano e avanzano a
passo d’uomo. I marciapiedi brulicano di persone che si
mancano sempre per un pelo, come se i loro movimenti
fossero coreografati. Seduta sul sedile posteriore del taxi,
mi lascio pervadere dal rumore della città e spalanco gli
occhi per accogliere tutto il mondo che vedo.
Non ho svelato a Olly le mie intenzioni, gli ho scritto
soltanto che c’era un regalo per lui in una libreria
dell’usato vicino a casa sua. Ho immaginato il nostro
incontro per quasi tutto il volo: ogni scenario prevedeva
che ci baciassimo entro i primi trenta secondi.
Il tassista mi lascia di fronte alla libreria Ye Olde Book
Shoppe e, non appena spingo la porta per entrare, so già
che finirò per trascorrere un sacco di tempo in questo
posto.
Il negozio è composto da un’unica stanza, piccola e
tappezzata da cima a fondo di scaffali, ciascuno dei quali
stracolmo di libri. L’illuminazione è scarsa e proviene da
minuscole torce attaccate alle mensole, perciò oltre ai
libri non si vede granché. L’aria ha un odore a me
totalmente sconosciuto. Sa di vecchio. Come se fosse
rimasta chiusa qui dentro per tantissimo tempo.
Mancano quindici minuti all’arrivo di Olly, così
gironzolo fra i corridoi con lo sguardo inebetito: vorrei
toccare contemporanea​mente tutti i libri e aggiungere il
mio nome a quello di tutte le persone che li hanno letti
prima di me. Accarezzo con le dita il dorso dei volumi.
Alcuni sono così sciupati, così logori che riesco a
malapena a leggere i titoli.
Controllo l’ora sul telefono: ci siamo quasi. Percorro
tutto il corridoio O-Q e mi nascondo. Le farfalle sono
tornate.
Un minuto dopo, ecco che si avvicina lentamente,
concentrato sugli scaffali.
Ha i capelli più lunghi, con riccioli morbidi che gli
addolciscono il viso spigoloso. E poi non è vestito di
nero da capo a piedi. Be’, jeans e scarpe da ginnastica
sono neri, ma la maglietta è grigia. Mi sembra persino un
po’ più alto.
Vederlo così diverso mi provoca uno sgomento molto
più forte di quello che ho provato dopo le esperienze
delle ultime settimane: dire addio a Carla, andarmene di
casa contro il parere del dottor Chase, lasciare la mamma
nel suo dolore.
Non so perché mi aspettavo di trovarlo identico a
prima. Io non lo sono.
Tira fuori il telefono per rileggere le mie istruzioni.
Infila il telefono in tasca e ricomincia a guardare gli
scaffali. Ho piazzato il libro davanti a tutti gli altri, con la
copertina in bella vista, così non potrà non notarlo. E
infatti lo vede, ma invece di afferrarlo resta immobile,
con gli occhi fissi davanti a sé.
Qualche giorno fa, quando mi sono sentita in intima
comunione con il planetario meccanico, mi sono sforzata
di individuare il momento cruciale in cui la mia vita ha
preso il suo corso. L’attimo che risponderebbe alla
domanda: che cosa mi ha portato fin qui?Di momenti
cruciali, però, non ce n’è mai uno solo, ma una serie, e
la nostra vita può ramificarsi in mille modi diversi
partendo da ciascuno di essi. Magari esiste una versione
differente della nostra vita per ognuna delle scelte che
facciamo e per tutte quelle che non facciamo.
Magari c’è una versione della mia vita in cui mi
ritrovo comunque malata.
Una versione in cui muoio alle Hawaii.
E un’altra in cui mio padre e mio fratello sono ancora
vivi e mia madre non è una donna distrutta dal dolore.
C’è persino una versione della mia vita senza Olly.
Ma non è questa.
Olly prende il libro dallo scaffale e comincia a leggere.
Poi sorride e saltella leggermente sulle punte.
Esco dal mio nascondiglio e percorro il corridoio nella
sua direzione.
Per un sorriso come quello che mi rivolge, vale
davvero la pena vivere.
«Ho trovato il tuo libro», mi dice.

FINE
RINGRAZIAMENTI

SE siete arrivati con me fino a qui, siete dei lettori


davvero tenaci. E, in quanto lettori davvero tenaci di libri
(e dei relativi ringraziamenti), saprete che i libri non
escono bell’e pronti dalle menti confuse dei loro autori.
Il primo ringraziamento va a mia madre, che ha
sempre sognato abbastanza in grande per entrambe. No,
mamma, Oprah Winfrey non mi ha ancora selezionato
per il suo club del libro. Ma potrebbe farlo!
Quando ero piccola e vivevamo in Giamaica, mio
padre scriveva recensioni cinematografiche per un
giornale locale, e io ho sempre pensato che sia l’uno
(mio padre) sia l’altra (la scrittura) fossero davvero il
massimo. Già. Perciò ringrazio mio padre per avermi
mostrato che tutti noi possiamo mettere nero su bianco
ciò che abbiamo in testa, e che quello che scriviamo può
avere effetto sulle persone.
Voglio ringraziare la banda del giovedì sera
dell’Emerson College, amante della scrittura e del buon
bere. Sapete il fatto vostro, ragazzi. Siete stati la mia
prima comunità di scrittori, una combriccola davvero
talentuosa, folle, capace di sostegno e per lo più sobria.
Sono particolarmente grata a Wendy Wunder. Sei una
donna generosa, un vero spasso e una delle migliori
scrittrici che conosca.
Un grazie a Joelle Hobeika, Sara Shandler, Natalie
Sousa e Josh Bank della Alloy. Avete reso questo libro
migliore in tutti i modi possibili. Voglio ringraziare in
particolar modo Sara per la sua folle genialità e Joelle
(altrettanto geniale) per essere stata fonte di risate e di
buonumore anche quando mi ha consegnato dodici fogli
fronte-retro di commenti e correzioni con interlinea
singola.
E poi c’è Wendy Loggia. Averti come editor è stato
come vincere alla lotteria, dico sul serio. Grazie per la tua
lungimiranza, la tua passione e la tua gentilezza. Hai
creduto nel mio libro fin dalle prime parole e questo è
stato di estrema importanza per me. Ringrazio quindi te e
tutta la squadra della Delacorte per aver trasformato in
realtà il mio sogno più grande, più vecchio e più folle.
Un pensiero finale a mio marito, David Yoon. Grazie
per aver fatto dei disegni bellissimi alle 4 del mattino, fra
baci e sorsi di caffè. Ti sono riconoscente per tutto,
tutto. Per l’amore. L’avventura. La famiglia. Per questa
vita. Ti amo.
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Questa è un’ opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e
avvenimenti sono frutto dell’ immaginazione dell’ autrice, o
usati in chiave fittizia. Qualsiasi rassomiglianza con persone
realmente esistenti o esistite, o con fatti e località reali, è
puramente casuale.
Le illustrazioni all’ interno del libro sono di David Yoon.
L’ editore ringrazia Alloy Entertainment.

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Noi siamo tutto


di Nicola Yoon
Titolo originale Everything, Everything
Copyright © 2015 by Alloy Entertainment and Nicola Yoon
P ublished by arrangement with Rights P eople, London
© 2017 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Realizzazione editoriale a cura di studio pym.
Ebook ISBN 9788820096564
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