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Mecenatismo in Europa

Mi son chiesto, per me a giusta ragione, perché riporto in un panorama di notizie, fatti, storie
ed avvenimenti quanto di unico e di eccezionale è accaduto dal Trecento in poi in Italia ed in
Europa nel campo dell’arte del cambio, dei mercanti-banchieri e del mecenatismo in generale,
al tempo dell’Umanesimo fino al glorioso e irripetibile Rinascimento che non poteva essere se
non italiano. La risposta che ha arrovellato il mio spirito, e più ancora il cervello, era il fatto
che nel corso del mio rituale e solitario andare per le vie di un’Europa, in via di rinascita
materiale e di vigile riscossa negli spiriti, in speculare opposizione e confronto con le bestiali
carneficine perpetrate nel corso dell’assurda Seconda guerra mondiale distruttrice e fratricida,
ho sempre ritenuto che il ricordo come memoria e la tangibilità del bello nelle opere d’arte,
nel pensiero e nella scrittura, andavano perfettamente d’accordo, esaltandone le azioni, con
l’ingegno, la bravura, l’invenzione e la generosità dei mercanti-mecenati. Di fatto,
arricchirono paesi e contrade europei e ne facilitarono gli scambi in una visuale illuminata e
moderna, le cui opere artistiche e i loro simulacri restano tutt’oggi a testimonianza della
grandezza dell’azione progettuale non solo dei protagonisti, artisti e mercanti, bensì di tutto
un mondo, incentrato in costumi di vita nuovi e di civiltà differenti, donati ed acquisiti,
complice l’azione rigeneratrice dei mercanti-mecenati e del ruolo, d’indiscussa novità e
praticità, dell’arte del cambio. Panorama ideale di una rinnovata Weltanschauung che, nelle
differenti visioni del mondo, mi riportavano ad assaporare e a godere i frutti del bello, del
trascendente e della conoscenza discendenti da tre alte dimensioni: quella dell’arte, quella
dello spirito e quella della filosofia.

L’arte del cambio, nata per le elementari esigenze del commercio della valuta, divenne attività
propriamente bancaria quando si trattò di conquistare determinati mercati; essa adempì
direttamente e in proprio a tutti i compiti di protezione e di espansione commerciale oggi
assunti dagli Stati.

Se lo splendore delle lettere e delle belle arti nella Firenze del tredicesimo e quattordicesimo
secolo (dopo La Commedia, Dante muore profugo e tale fatto segna la fine della grande lirica
del Duecento: sorge Petrarca e poi Boccaccio che, rinnovando la prosa, danno inizio alla
gloria del ciclo umanistico. In tal modo vivono e s’innalzano sia la pittura che la scultura,
mentre l’architettura s’innova nelle arti figurative) ha posto in secondo piano ogni altra
attività, i cambiatori fiorentini, e i Peruzzi fra questi, trasformarono nello stesso periodo la
bottega del cambio in vera e propria banca, la cui perfezione nelle sue grandi linee non è stata
ancora superata.

Per essere ammessi all’arte del cambio, bisognava passare e superare un esame. Il candidato
promosso poteva soltanto allora “tener bottega e tavola”, cioè stabilirsi sia fuori della sua
bottega che dentro di essa, seduto dietro una tavola coperta d’un tappeto verde sulla quale
posava una borsa contenente la moneta necessaria e un registro. Era chiamato “Compagno
della Tavola” o “Cambista”. Egli aveva degli agenti di cambio fuori della Corporazione, ma
costoro non avevano il diritto di mettere un tappeto sulla loro tavola e non erano visti di buon
occhio.

Quasi tutti i grandi banchieri fiorentini furono prima mercanti e poi praticarono l’arte del
cambio, pur continuando a dirigere il loro commercio. Nello stesso tempo prendevano parte
attiva negli affari politici.
Per comprendere l’importanza delle tre più importanti compagnie di Firenze, ricordiamo che
le nozze di Eleonora, figlia di Carlo I d’Anjou, con Federico d’Aragona, erano state
sovvenzionate dai Bardi. Mezzo secolo più tardi, al matrimonio di Giovanna, ereditiera
presunta della Corona, con Andrea d’Ungheria, i delegati ufficiali di Firenze furono i tre capi
delle compagnie più potenti: Gnozzo dei Bardi, Simone Peruzzi, Donato Acciaioli. Nel 1313
gli ambasciatori incaricati di offrire al Re Roberto d’Anjou la sovranità di Firenze furono
ancora Jacopo dei Bardi e Donato Acciaioli. Nel 1325 la medesima offerta fu fatta al duca di
Calabria da Donato Acciaioli, Donato Peruzzi e Filippo Bartoli.

Il commercio internazionale fu uno degli aspetti più mirabolanti dello sviluppo economico dei
secoli XI-XIII, che trova la sua struttura organizzativa principalmente in una unità detta
compagnia (essa poggiava sulla famiglia, un nucleo sociale straordinariamente compatto che
al suo interno non ammetteva individualismi o deviazioni di sorta) la quale ebbe caratteri
giuridicamente economici simili a una società a responsabilità solidale e illimitata verso i
terzi. Ciascuno rispondeva per tutti e tutti per ognuno.

Appunto il secolo XIII, che aveva visto la fioritura delle Compagnie e la diffusione nelle città
marinare dell’istituto della “Commenda” (a Venezia chiamato “Colleganza”, in quanto mal si
adattava ai grossi rischi per mare la responsabilità solidale e illimitate delle Compagnie) era
stato il secolo che aveva conosciuto l’ascesa e il predomino sociale del grande mercante.

Il Ferrara asserisce che il più antico Banco pubblico d’Italia sia stato istituito al principio del
secolo XIV a Palermo, sotto il nome di “Tavola”, invece Mac Lead e altri assicurano che il
più antico Banco è nato a Barcellona nel 1401.

La necessità di creare banche pubbliche nasce dal fatto che, fallite le banche private per
l’ingordigia dei banchieri, i quali, spinti dall’avidità di guadagno, si arrischiavano in imprese
commerciali azzardare, lo Stato non è più un’industria, in quanto non cerca il guadagno.

Al “Banco di Rialto”, istituto con le leggi del 1581 e del 1587, si aggiunse nel 1619 un altro
banco pubblico detto il “Banco Giro”, che durò fino alla caduta della “Veneta Repubblica” e i
creditori del Banco furono pagati dal governo napoleonico con cartelle del “Monte Veneto”.
Notizie scarse su detto Banco si apprendono da Giovanni Cavalà Pasini La scuola in pratica
del Banco di Giro nella Serenissima Repubblica di Venezia 1791. Un altro “Banco del Giro”
fu istituito a Vienna nel 1703, da un italiano di nome Norbis.

Il medioevo tanto fecondo in istituti sociali creò, tra tutte le sue opere, la più originale delle
istituzioni: la “Compagnia o Casa di San Giorgio”. Trattasi di una associazione di creditori
dello Stato, che amministra le rendite della Repubblica, acquista colonie e possedimenti, arma
navi, mantiene eserciti, fa guerre, paci, alleanze e, infine fa da cassiere ai cittadini, oltre che
da banca di deposito.

Le società di prestatori di somme alla Repubblica, a partire dal 1148, furono riunite in società,
alle quali furono assegnate i proventi di alcune gabelle che dovevano servire per il pagamento
degli interessi e per l’ammortamento del debito un certo numero di anni. Le istituzioni
finanziare così nate si chiamavano “compere” o “scritte”; ogni cento lire formavano un
“luogo” o “azione”; un certo numero di “luoghi” (che corrispondevano circa alle attuali
“cartelle di rendita”), appartenenti alla stessa persona, formavano una “colonia”; i redditi
erano chiamati “proventi”.
Il sistema dei prestiti genovesi è uguale a quello adoperato fino al 1150 a Venezia e si
avvicina di molto a quello in uso presso Firenze e Siena. A Venezia e a Firenze, invece di
“compere” le associazioni di prestatori si chiamarono “monti di imprestiti” e le azioni o
obbligazioni di quei “monti” si dissero “luoghi” come a Genova.

Poiché il gran numero di compere produceva intralci nella gestione finanziaria della
Repubblica genovese, l’amministratore comunale nel 1250 riunì tutte le compere allora
esistenti in una sola, chiamata “compera del capitolo”. Ma presto si istituirono altre compere,
a seguito di prestiti ricevuti dal comune per sostentamento di guerre lunghe e dispendiose,
creando nuova confusione, per cui si dovette fare ciò che si era fatto nel 1250 per
l’unificazione del debito pubblico genovese e originando le “Compere di San Giorgio”. Il
decreto di costituzione è del 23-4-1407. L’istituzione era composta da otto libri o “cartulari”,
che avevano il nome degli otto quartieri della città; in essi venivano riportati i nomi dei
“luogatari” che abitavano nel quartiere. In seguito, ai primi otto si aggiunse un altro, indicato
con le lettere O.M. (officium Misericordiae), nel quale erano registrati i “luoghi “appartenenti
all’Officio della Misericordia.

“San Giorgio” non durò a lungo come potenza coloniale perché, ricevuti i possedimenti che
stavano per essere perduti, per conservarli era necessaria una forza più forte e più potente di
quelle della Repubblica di Genova e di “San Giorgio”. Cominciò il tramonto, con i continui
attacchi dei Turchi, mentre ardono le insurrezioni in Corsica, che indebolisce prima e
esaurisce poi i tesori di “San Giorgio”. Cosicché gli amministratori ritennero saggia cosa
restituire alla Repubblica quelli, tra i possedimenti ricevuti, ancora nelle sue mani.

Quanto fin ora detto riguarda “San Giorgio” come associazione di creditori dello Stato e come
potenza coloniale; ora vedremo, per larghi tratti, l’attività propria bancaria, come si rivela dal
titolo “Banca di San Giorgio”. Sin dal 1408, infatti, viene ricordata una concessione da parte
del Comune di Genova all’ufficio di “San Giorgio” di tenere un “banco del tappeto”.

Con l’arrivo a Genova della rivoluzione francese, “San Giorgio” perdette il suo carattere di
banca e infine, nel 1816, i debiti e i crediti della gloriosa “Banca di San Giorgio” furono
liquidati e i “luoghi” di quest’ultima furono convertiti in cartelle del debito pubblico sardo.

Già nel trecento una vera banca fu la “Campagnia Donato e Parazone” che, costituita nel
giugno 1373, si avvalse di Paranzone di Lando Grasso e di Donato del Maestro Piero;
quest’ultimo, benché morto prematuramente, fu il principale, se non l’unico, artefice
dell’attività bancaria di detta compagnia.

La maggior parte delle operazioni di banca svolte dalla “Compagnia Donato e Paranzone”,
tolte poche eccezioni, rientra nel complesso di un sistema a cui oggi si dà il nome di “conto
corrente di corrispondenza”.

Numerose furono le compagnie (mercanti-banchieri) che furono fondate a Pisa, ma che


operarono anche altrove. Tra le tante, citiamo quella dei “Borromei da San Miniato”
(Lodovico, Francesco e Piero), che nacque intorno al 1390 e trasferitasi in Firenze,
nell’agosto del 1415, assume la ragione sociale seguente: “Lodovico e Piero Borromei e
compagni, tavolieri in Mercato Nuovo”. Azienda che, sotto diverse denominazioni sociali e
operante in diverse città (Genova, Venezia e soprattutto a Milano, città nella quale sono
ritenuti potenti), ha avuto un giro di operazioni di sviluppo eccezionale, raggiungendo tutti i
grandi mercati e soprattutto le più forti piazze bancarie e finanziarie, nelle quali era
saldamente introdotta. I Borromei sono nati come aziende mercantili a Pisa, ma si sono
affermati come banchieri a Firenze, hanno continuato a Genova, a Venezia, ma soprattutto in
Lombardia, a Milano in particolar modo. Ciò non di meno, i Borromei conserveranno le
inconfondibili impronte toscane.

Altra compagnia di mercanti-banchieri sono i dell’Agnello (Colo, Pietro e Matteo) che


certamente furono in affari prima del 1364, cioè prima che un loro esponente, Giovanni,
salisse al Dogato.

Scarse notizie si hanno di un’altra grande casata pisana: i Gambacorti (Francesco, Giuliano,
Piero e Giovanni), i quali operarono come mercanti-banchieri, sempre nel XIV secolo. Così
pure dicasi degli Agliata (Jacopo, Colo, Betto) e dei loro discendenti (Piero, Francesco e
Gherardo, figlio di Colo), anche se si è quasi certi che una parte di detta famiglia si trasferì in
Sicilia e si hanno, poi, notizie di sei “banchieri in Palermo”, nel periodo 1435-1522,
trasformati nel nome in Aglata, e di altri ancora. Anche gli Aiutamicristo (Federico, Giovanni
e Lapo a Pisa) Jacopo di Bernardo a Pavia passano a Napoli (Pietro) e poi in Sicilia
(Guglielmo).

Anche i Del Voglia sono numerosi e operano nella stessa epoca con la Sicilia, la Sardegna e la
Corsica e, naturalmente, una loro compagnia si trasferisce in Laguna ove, tra il gennaio del
1402 e l’agosto del 1403 “Giovanni Del Voglia e Gaspare da Lavaiano e compagni di Pisa
che dimorano a Venezia”, svolgono una intensa attività di mercanti-banchieri.

Oltre alla famiglia Sancasciano, con attività industriale-mercantile e, poi, bancaria (Giorgio e
“i fratelli”, dei quali non si conoscono i nomi), rileviamo i molti “Buonconti” e taluni di essi,
per quanto riguarda l’attività bancaria, operarono sotto la scritta sociale “Francesco e Andrea
Buonconti e compagni, banchieri in Pisa” tra il 1399 e il 1402. Essi figurano anche tra i
banchieri in Sicilia (di cui ci parlano gli studiosi) e tra questi Francesco detto “siciliano”.

Inoltre sono da ricordare i Ciampolini (Lorenzo e il figlio Giovanni) mercanti-banchieri;


Lorenzo ha un’azienda individuale nel 1370 e, successivamente, con Bartolomeo delle Brache
fonda una Compagnia. Nel 1398, con Giovanni delle Brache, si ha menzione di un’altra
“Compagnia” e sotto il nome di “Bindo delle Brache e Giovanni Ciampolini” figura una
società che opera in Genova e in rapporti con Venezia e con i fondaci Catalani dei Datini di
Prato.

Simili alle aziende dei Ciampolini, sembra che siano state quelle dei Grassolini (Tomeo) e del
figlio Giovanni, ricordato nel libro di Matteo del Mosca nel 1358.

Anche i Gherardo furono attivissimi a Pisa dal 1383, nonché i Maggiolini (Piero, lanaiuolo,
banchiere e mercante e i figli di costui Giovanni e Francesco, nonché Gino e il fratello
Lamberto, Benedetto e Simone Francesco). Si hanno anche notizie delle Compagnie
Sancasciano, Lorenzo di Jacopo Rosselmini, talvolta associato con Nieri di Nino di Butaro.
Con Bartolomeo Gatanelli inizia la serie dei mercanti-banchieri che sembrano maggiormente
attratti dalla Banca; se ne hanno notizie dal 1370 al 1390. Tra i banchieri pisani, Giovanni
Assopardi è quello che maggiormente si affermò all’estero, operando specialmente da
Barcellona con tutto l’Occidente. Divenne tesoriere del re di Aragona, tanto che quando
rientrava in patria disimpegnava la funzione di Console dei Catalani.
Le banche che operarono in Pisa nell’ultima parte del duecento, e specialmente all’inizio del
secolo successivo, sono rami delle succursali delle grandi case di mercanti-banchieri fiorentini
che dominano nella zona, (i Peruzzi, i Bardi, i dagli Alberti, i dagli Acciaioli, i dagli Scali).
Fino a tutto il primo terzo del secolo XIV fanno parte del periodo d’oro della banca fiorentina,
che non conosce rivali con le sue compagnie costituite da banca-mercatura. Poi, nel
‘quattrocento, comincerà l’altro periodo, segnato da sistemi di aziende che fanno capo ai
Medici.

Le prime banche di Venezia furono banche private perché, generalmente, erano di proprietà di
patrizi veneziani, soprattutto perché a Venezia non dominava il pregiudizio che il commercio
fosse un mestiere vile. Di queste banche, che vennero chiamate “campsores” (ufficio del
cambio delle monete), si ha però memoria fin dal principio del 1200.

Nel XIV secolo, appunto perché i pagamenti non si facevano più mediante trasferimento di
denaro, bensì con mandati di pagamento (iscrizione della partita a chi pagava e a chi
riceveva), i banchieri furono chiamati “banchieri a scripta”. Fino al 1270 l’industria bancaria
fu libera, in quanto è di quell’anno la prima legge veneziana sulle banche (imposizione ai
banchieri di consegnare ai Consoli dei mercanti una cauzione). Seguirono poi leggi più
restrittive: nel 1374 si proibì ai banchieri ogni commercio di ferro, rame, stagno, argento e
zafferano, ritenendoli come commerci pericolosi; nel 1403 si comincia con lo stabilire che i
banchieri non possano negoziare, né per terra né per mare, per una somma superiore a una
volta e mezzo l’ammontare complessivo dei loro prestiti fatti al governo (si costringeva, così,
i banchieri a far prestiti del loro denaro al governo della Repubblica), fin che si giunse al
1524, con l’istituzione dell’ufficio di tre “provveditori sopra i banchi”, con l’incarico di
sorvegliare i banchi, al quale seguì nel 1526 la norma di eleggere tanti nobili quanti erano i
banchi per sorvegliare che le leggi non fossero violate. A seguito di tali leggi assurde, furono
approvati pochissimi banchieri: il 15-7-1534 Silvano Capello e il 21 dicembre dello stesso
anno Antonio Priuli.

Venezia così venne ad avere, con grande danno alla popolazione, due soli banchieri, mentre
solo qualche anno prima ne aveva forse più di cinquanta.

Finché vissero le banche private di Venezia, la città fu prospera perché esse facilitarono
l’accumulazione del risparmio, rinvigorirono il commercio veneziano impiegando grandi
capitali, facilitarono soprattutto le operazioni commerciali con l’introduzione del cosiddetto
“banco-giro” (per il quale i pagamenti si facevano senza trasferimento di denaro) che avevano
autorità di atto pubblico ed erano, perciò, inoppugnabili.

Il XIII secolo rappresenta in particolare per l’Italia un momento essenziale nella storia
economica e politica dell’Occidente. Fatti importanti e nuovi accaddero tra il 1250 e il 1280
tali da costituire le premesse delle future attività degli uomini d’affari italiani per un nuovo
periodo di storia: mercanti-banchieri nel Medioevo.

Dopo il ritorno di S. Luigi, nel 1254, dalla Terra Santa e il suo nuovo tentativo nel 1270 (che
la sua morte interruppe a Tunisi), nessun principe cristiano organizzerà più spedizioni tali da
determinare, con la sola loro forza, il ristabilimento della dominazione cristiana e latina nei
Luoghi Santi, in Siria e in Palestina. Papa Gregorio X, malgrado avesse consacrato la propria
energia a tale scopo, non vi riuscì e il suo pontificato (1272-1276) è l’ultimo in cui tutta
l’attività di un Papa ha come scopo primordiale la Crociata sulla terra ferma asiatica. E così
finisce il periodo vero e proprio delle Crociate.
Privi di soccorsi dall’Occidente, i latini d’Oriente abbandonarono ciò che restava dei loro
domìni che avevano edificato nel corso degli anni precedenti. L’impero latino d’Oriente nel
1261, con la presa di Costantinopoli da parte di Michele VIII Paleologo, sarà l’ultimo
baluardo tenuto dai Latini sul continente asiatico; S. Giovanni d’Acri cade nel 1291. Un
secolo e mezzo di rapporti costanti e intensi con gli uomini d’affari mussulmani e bizantini
avevano sviluppato una corrente di scambi tra l’Oriente e l’Occidente e mostrato agli uni e
agli altri l’importanza di tali scambi. Le repubbliche marinare concludono trattati con i
principi mussulmani e non esitano a inviare loro carichi di materiale da guerra. Al contrario,
nello stesso periodo in cui cessano le Crociate, gli Italiani si preoccupano di procurarsi
direttamente i prodotti dell’Asia Centrale e dell’Estremo Oriente (che chiamano
genericamente “le Indie”) senza passare per l’intermediazione dei mussulmani del Medio
Oriente. Anche a ovest comincia l’espansione dei mercanti italiani verso Cadice e Siviglia e,
superato lo stretto di Gibilterra, vanno in Africa e non ritornano mai più. Altri vanno verso le
coste del nord, sfidando le tempeste dell’Oceano Atlantico; alcuni genovesi spingendosi fino
all’Islanda e Groenlandia, segnano nuove rotte marittime e itinerari terrestri per un traffico
commerciale sempre più robusto ed efficace tra l’Italia e i paesi rivieraschi del Mar del Nord.
Dalla metà del XIII secolo sono gli uomini d’affari italiani e i commercianti genovesi, senesi,
lucchesi, fiorentini, milanesi e soprattutto piacentini che controllano tutto il traffico, mentre
commercianti veneziani e ancora genovesi installano ricche colonie sulle rive del Mar Nero e
visitano i mercanti dell’Asia Centrale.

Nasce anche la rivalità tra le città con forte vocazione commerciale e attività parallele; quindi
è la lotta. Genova soppianta Pisa definitivamente con la disfatta della sua flotta a La Meloria
nel 1284. Firenze atterra Siena, la cui economia era riposta tutta sulla banca. Il fallimento
della più potente compagnia bancaria del XIII secolo “La Grande Tavola dei Bonsignori”
segna la fine definitiva di Siena nel 1298 e in seguito di Piacenza e di Amalfi.

All’alba del XIV secolo la carta economica dell’Italia è più chiara con la crescita poderosa di
quattro città giganti che hanno fatto il vuoto attorno a esse; due porti: Venezia sull’Adriatico,
Genova sul Tirreno; due città: Milano nella pianura Padana e Firenze nell’Italia centrale. Città
che battono monete d’oro e di esse due solamente resisteranno: il fiorino e il ducato. In questo
mondo commerciale in costante dilatazione, gli uomini d’affari genovesi conservano gli stessi
caratteri dominanti del periodo precedente quando si imposero agli altri nell’attività
commerciale con l’Oriente, mentre l’attività finanziaria diviene secondaria perché appunto si
appoggia su quella commerciale. Nel Trecento nasce a Firenze il capitalismo industriale e le
grandi compagnie bancarie (nel Duecento sia a Firenze che a Siena le compagnie erano o
mercantili o bancarie), cioè la corporazione dei banchieri, veri professionisti del credito,
s’insediano nell’arte di Calimala (corporazione dei mercatores, frequentatori delle Fiere di
Champagne erano grossisti che accaparrano lana e piazzano panni) e nell’arte della Lana
(corporazione dei Lanaiuoli, che sovrintende alla fabbricazione dei panni).

Il patrimonio familiare dei più grandi uomini d’affari del tempo, dei Bardi, dei Peruzzi, degli
Acciaiuoli, che era capitale proprio (capitale sociale della compagnia, intesa come società in
nome collettivo in quanto formata di soggetti in parte occulti, depositanti accomandanti, e in
parte appariscenti, compagni-accomandatari), diventa poca cosa di fronte ai depositi degli
amici (il popolo grasso) e ai depositi del pubblico (il popolo magro).

A Venezia si manifesta nello stesso periodo una straordinaria espansione del commercio e
Marco Polo ne è il primo noto esponente. Ma la maggior parte delle famiglie veneziane
avevano dei familiari nelle grandi piazze commerciali d’Oriente, di Costantinopoli, di
Alessandria e praticavano il commercio anche a mezzo di “colleganze” e gli affari
prosperavano. Venezia, per le proprie necessità finanziarie ha creato le prime vere banche: i
banchi di cambio di Rialto, che istituirono il regolamento tra clienti a mezzo di uno strumento
detto giro, “Banchi di scritta” che tengono i conti dei loro clienti a mezzo di una moneta
fittizia e fissa, la moneta di banca. Sempre a Firenze, tra il tredicesimo e il quattordicesimo
secolo, si manifesta la ricchezza degli uomini d’affari.

La vittoria di Carlo d’Anjou, che ottenne il 28-6-1263 dal Papa Clemente IV l’investitura del
Regno di Sicilia, ha creato un gruppo di uomini fiorentini (anche grazie all’appoggio ricevuto
da altri di Siena) che costituiscono una potenza economica internazionale. Questi uomini,
raggruppati in società in nome collettivo, che si chiamarono compagnie, esercitarono ogni
sorta di attività, che procurò loro utili considerevoli. Citeremo le principali: Compagnia di
Dardano degli Acciaiuoli e compagni, i Frescobaldi, i Bardi, i discendenti di Caroccio degli
Alberti, i Peruzzi, i Bonaccorsi, gli Alberti nuovi, i Soderini. Questi uomini d’affari si
facevano costruire grandi dimore, talune erano veri sontuosi palazzi che ammobiliavano
riccamente e presso i quali taluni principi soggiornavano durante il loro passaggio da Firenze:
è il caso di Roberto d’Anjou presso i Peruzzi. Costoro fondavano monasteri, cappelle e
innalzavano monumenti funebri per assicurare loro e alle loro famiglie una vita eterna in
dimore divine. Per tale motivo incaricavano artisti di nome e di reputazione del loro tempo.
Risulta che i Bardi e i Peruzzi per decorare le loro cappelle in Santa Croce ingaggiarono
Giotto. Nicola Acciaiuoli invece incarica Orcagna per fare scolpire la tomba di famiglia nella
Cappella della Certosa d’Ema da lui fondata. Con tali opere essi, mercanti e uomini d’affari,
tendevano a divenire anche “mecenati”. Ma le compagnie del XIII e XIV secolo non avevano
una liquidità sufficiente per fare fronte alle correnti richieste di rimborso avanzate dai
depositanti í cui fondi rappresentavano la principale parte dei capitali che essi maneggiavano.
E poiché i depositi erano fatti “a vista” la corsa era inevitabile. La grandezza di tali
Compagnie, fondate sul credito, aveva le sue basi nella fiducia e il mantenimento di questa
fiducia, per l’ineluttabile fatale gioco del politico e dell’economico, sia sul piano politico che
sul piano mondiale, diveniva un mestiere di autentico equilibrio. Presto o tardi tutti crollarono
perché le grandi compagnie fiorentine del XIII e XIV secolo erano, come si dissero, dei
colossi dai piedi d’argilla. Non dimentichiamo che le grandi Compagnie facevano cospicui
prestiti ai Papi, ai principi, alle città, agli ordini religiosi e anche ai singoli cittadini, sia laici
sia religiosi. I Frescobaldi dal 1280 al 1310 prestarono più di 122.000 lire sterline ai Re
d’Inghilterra Edoardo I ed Edoardo II. Anche i Re di Sicilia avevano debiti cospicui presso i
Bardi e i Peruzzi. Ai tempi del pontificato di Giovanni XXII le medesime compagnie
reclamarono con insistenza all’Ospedale San Giovanni di Gerusalemme crediti per 133.000
fiorini da parte dei Bardi e per 191.000 da parte dei Peruzzi. Gli Alberti antichi prestarono a
Gregorío XI più di 40.000 fiorini in soli quattro anni, cioè dal 1372 al 1376. Le condizioni del
prestito variavano a seconda dei richiedenti. Per esempio i Re d’Inghilterra non
corrispondevano interessi sul prestito, ma in cambio le compagnie erano esentate dalle
imposte sui beni radicati nel regno e dai diritti di dogana sulle lane che venivano esportate.
Anche se detti vantaggi non si possono quantificare, comunque essi rappresentavano la
remunerazione del capitale prestato. Così i Re di Sicilia concedevano alcune franchigie
d’esportazione per i cereali, che altrimenti avrebbero normalmente pagato un diritto di
dogana, oppure accordavano il gettito di un particolare reddito. Talvolta impegnarono perfino
i gioielli della corona. Per comprendere la cospicuità di taluni prestiti, riportati nel tempo,
basta riferirli ai seguenti esempi. Nel 1344 Azzone da Correggio vendette Parma a Obizio
d’Este per 70.000 fiorini, Clemente VI comprò nel 1349 tutta Montpellier per 120.000 scudi,
cioè 133.000 fiorini. Quindi non v’è esagerazione nell’affermazione del Villani (che assieme
ai Portinari, esiliati, risiedevano alcuni periodi nelle Fiandre e altri periodi in Inghilterra) che i
1.365.000 fiorini che il Re d’Inghilterra doveva ai Bardi e ai Peruzzi “valevano un regno”!

Anche il pegno sulla rendita e sui gettiti d’imposte erano fonte di rimborso di questi banchieri
per i prestiti fatti ai principi e a città che a tale scopo li nominarono loro agenti finanziari. I
Francesi percepirono per Filippo il Bello tutta una serie di rendite, mentre gli Scali, nel 1322,
incassarono per conto di Filippo il Lungo 7.000 lire tornesi, 24.000 lire relative a diritto e
redditi vari. L’esempio più imponente è rimasto quello dei Frescobaldi, ai quali Edoardo I ed
Edoardo II concedono, via via, la casa delle miniere d’argento del Devon, l’incasso dei
contadi di Poonthien e di Montreuil, i redditi relativi al regno d’Irlanda, quelli del ducato del
Gujenne, lo sfruttamento del servizio del “Exchange” (che assicurava lo scambio e la battitura
delle monete nel regno), nonché la carica di Connestabile di Bordeaux (attribuita al direttore
della compagnia, Amerigo Frescobaldi). Ma la concorrenza specie da parte di due avversari,
gli Spini e i Cerchi, era forte e rispecchiava la lotta di due gruppi che si combattevano nella
Firenze del 1300 per questioni politiche: i Bianchi e i Neri. La disfatta e l’esilio dei primi
travolsero le compagnie ove queste famiglie erano rappresentate, prima tra le altre quella dei
Portinari (la famiglia di Beatrice) i cui membri in gran parte trovarono rifugio a Bruges. Ma
anche i Neri crollarono: i Mozzi fallirono nel 1301-1302; i Franzesi nel 1307; i Pulci e i
Rimbertini nel 1309; i Frescobaldi, che tennero nelle loro mani il monopolio dei redditi dei Re
d’Inghilterra, fallirono nel 1312 e nel 1326 vediamo morire la più antica e la più potente
compagnia fiorentina, quella degli Scali, che costituì per l’economia di quella città un vero
disastro.

Questa data segna una svolta nell’economia fiorentina, perché le compagnie giovani, quelle
dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaiuoli, invece di farsi concorrenza tra di loro, sposano l’idea
della solidarietà e tale alleanza in sostanza rispecchia lo spirito della nuova generazione. Le
antiche compagnie del XIII secolo, che erano tra di loro in aperta concorrenza, erano sparite
ed essendo ora Firenze soltanto guelfa erano sparite anche le lotte che la dilaniavano.

Ma anche queste ultime compagnie, malgrado le alleanze e la solidarietà, non


sopravviveranno a lungo per diversi motivi; Firenze era stanca sia per le lotte interne sia per la
guerra franco-inglese, che era costato il commercio nel Nord Europa, e attraversava nel 1341,
nel momento della difficile guerra contro Pisa per il possesso di Lucca, una grande crisi
economica e finanziaria. Le compagnie non riuscirono a frenare le grandi corse dei capitalisti
del Regno di Sicilia nella richiesta dei loro cospicui depositi. Fallirono prima le compagnie
meno potenti: nel 1342 i dell’Antella, i Cocchi, i Perondoli, i Bonaccorsi, i Corsini, i Da
Uzzano, e i Castellani; mentre le tre grandi compagnie, “le colonne del Cristianesimo”, non
sopravviveranno a lungo; i Peruzzi e gli Acciaiuoli fallirono nel 1343, mentre i Bardi, che
erano i più potenti, resistettero tre anni ancora, ma nel 1346 dovettero anch’essi depositare i
loro libri.

Negli anni che seguirono Firenze conobbe il caos negli affari. Soltanto nel 1360, quindici anni
dopo il crac delle più importanti compagnie, si fecero avanti gli Strozzi, i Medici, i Guardi, i
Soderini, i Ricci nonché una compagnia costituita da un ramo della famiglia Alberti, gli
Alberti antichi, che ottenne l’esclusiva della clientela del papato.

Anche queste giovani compagnie esercitarono scrupolosamente la concorrenza sul piano


economico e le famiglie che le costituirono furono tenaci rivali in politica; gli Alberti antichi
schiacciarono i Guardi i quali furono costretti a fallire nel 1370-1371.
Saranno decisamente degli uomini d’affari del XV secolo che, più dei loro predecessori,
mostreranno di possedere un eclettismo luminoso, si adorneranno di mecenatismo e
frequentando i Paesi Bassi prenderanno il gusto delle opere a olio dei grandi maestri
fiamminghi e delle opere d’arte in genere, apprezzando così gli affreschi dei loro stessi
compatrioti. Erano tempi eccezionali e ricchi di proposte.

Angelo Tani per adornare la cappella della sua famiglia, commissionò a Hans Memling un
Ultimo Giudizio, andato poi in fondo al Mare Baltico a causa di un attacco alla galera che
trasportava il quadro a Firenze da parte di un corsaro di Danzica. Tommaso Portinari, suo
successore, quale responsabile della filiale dei Medici a Bruges, ordinò a Hugo Van der Goes
per la chiesa di Sant’Egidio, annessa all’ospedale fondato da Folco Portinari, l’Adorazione
dei Pastori (ora esposta agli Uffizi), quadro nel quale lui stesso è rappresentato assieme alla
moglie e ai figli.

Non manca neppure la vanità personale di tali uomini d’affari, i quali non trascurano in
qualche modo di farsi raffigurare anche nelle composizioni religiose. Si disse, ma non sembra
probabile, che Giotto nel rappresentare personaggi sia nella storia di S. Francesco sia in quella
di S. Giovanni Battista, per le decorazioni delle rispettive loro cappelle in S. Croce, si sia
ispirato ai membri delle famiglie dei Bardi e dei Peruzzi. Così i ritratti di alcuni Peruzzi
sembrano quelli dei medaglioni che separano le grandi scene. I Re Magi dell’Adorazione di
Botticelli hanno i tratti dei Medici, così come membri del seguito del Magnifico Lorenzo e lui
stesso figurano negli affreschi di Domenico del Ghirlandaio nella Cappella Sassetti in Santa
Trinità, e la famiglia Tornabuoni negli affreschi del medesimo Ghirlandaio in Santa Maria
Novella.

Tali uomini affermarono il loro carattere individualista, espressero il loro desiderio


d’ostentazione, la loro esaltazione mondana, facendo dipingere i loro ritratti su quadri e
scolpire i loro busti. Donatello aveva modellato in terra cotta l’indimenticabile busto di
Cosimo de’ Medici; il lucchese Giovanni Arnolfini posò con la propria giovane moglie per il
capolavoro di Jan Van Eyck; Tommaso Portinari fece eseguire almeno due volte il proprio
ritratto a Memling; Francesco Sassetti, non soddisfatto della rappresentazione di se stesso
negli affreschi della sua cappella a Santa Trinità, ordinò un suo busto a un allievo di Antonio
Rossellino. Costoro, come i loro predecessori, furono interessati alla politica in quanto
ognuno di loro cercava di portare acqua al proprio mulino. I Medici riuscirono a stabilire in
Firenze una specie di Signoria ufficiosa, mentre i loro concorrenti in affari si industriarono a
divenire avversari politici. La crisi del 1465 abbatte gli Stozzi (alcuni di essi erano al bando
sin dal 1434); nel 1466 crollò il cospiratore di Pietro de’ Medici, Luca Pitti; infine nel 1478,
con la drammatica congiura dei Pazzi, crollarono le compagnie di quest’ultimi e con loro le
altre. In mezzo a tutti questi avvenimenti politici e altri ancora, Lorenzo il Magnifico dovette
sostenere la lotta contro il Papa e il Re di Sicilia consumando in essa tutte le sue sostanze e i
suoi crediti. A seguito della cacciata di Pietro de’ Medici e dei suoi fratelli da Firenze da parte
di Carlo VIII il 9 novembre 1494 la Compagnia de’ Medici crollò disastrosamente.

In fondo le compagnie del Quattrocento hanno avuto, malgrado il perfezionamento tecnico e


strutturale, lo stesso triste destino di quelle del Trecento.

A Venezia gli uomini d’affari erano divisi in due ben distinte categorie: i commercianti e i
banchieri. I primi, più numerosi, sono delle associazioni familiari, chiamate fraternite. La più
importante è stata quella creata da Francesco Balbi e dai suoi fratelli; quella dei fratelli
Vendramin, (quando uno di loro, Andrea era doge); i fratelli Soranzo sono specializzati
nell’importazione del cotone. Un uomo d’affari sui generis era, invece, Andrea Barbarigo, che
cominciò la sua carriera nel 1418 con la modesta somma di 200 ducati. Nel 1431 ha un
capitale di 1.600 ducati e alla sua morte nel 1449 lascierà una fortuna di 15.000 ducati.

I banchieri, invece, sono coloro che tengono i “banchi di scrittura” installati sulla piazza di
Rialto ed esercitano veramente la Banca.

A Genova, l’individualismo fondiario caratterizzò sin dall’origine gli uomini d’affari, ciò
anche perché gli abitanti di Genova mancano del senso collettivo che ha fatto e mantenuto la
grandezza di Venezia. Essi, non disponibili a investire nelle proprie città, prestano i quattrini a
sovrani o a collettività straniere.

Nel 1407 una vasta organizzazione, che raggruppava le “maones” (associazioni di creditori
dello stato) la “Cassa di San Giorgio”, finisce per rappresentare tutti i creditori dello Stato.
Quando la Repubblica aveva bisogno di denaro, essa si rivolgeva ai suoi antichi creditori e
quindi alla “Cassa” così che questa, per fronteggiare i relativi servizi finanziari, costituì nel
1407 il “Banco di San Giorgio”, consentendo alla Repubblica di continuare a tirare avanti in
virtù dei prestiti che esso le accorda. Considerato poi che lo Stato, secondo le abitudini
adottate al tempo delle prime maones, non volendo badare direttamente al servizio degli
interessi ai creditori e alle operazioni connesse al rimborso dei debiti, incarica gli stessi
creditori di provvedervi. In tal modo lo Stato abbandona alla “Cassa di San Giorgio”
l’amministrazione delle numerose colonie e la “ferme” delle imposte indirette, perché con il
loro gettito possa indennizzare i propri membri creditori.

In effetti, la Repubblica di Genova, bisognevole di mezzi finanziari urgenti, chiese aiuto al


Banco di San Giorgio e, non potendo dare alcuna contropartita adeguata, cedette addirittura la
Colonia di Giaffa, e altre colonie minori nel Mar Nero nonché la Corsica. Nacque così un
periodo della storia genovese molto singolare, in cui la città fu sede contemporaneamente di
due poteri diversi: quello della Repubblica e quello del Banco di San Giorgio, il quale dovette
difenderla dagli attacchi degli Aragonesi. Verso la metà del XIV secolo, gli amministratori del
Banco, constatato che lo stesso aveva esaurito ogni riserva monetaria sia per gli sforzi militari
per il mantenimento dell’ordine e dell’amministrazione della giustizia nelle colonie, sia per le
ingenti spese alle quali andava incontro nella vana difesa dei possedimenti coloniali, a suo
tempo ricevuti da Genova, le quali erano di gran lunga superiori alle entrate che ne ricavava,
detti responsabili del banco decisero di restituire al governo della Repubblica i possedimenti a
suo tempo ricevuti senza pretendere nulla. Perdute le colonie per propria volontà, nel 1584, il
Banco riprese a svolgere nei riguardi dei privati quell’attività di deposito e giro che aveva
iniziato nel 1407 e sospesa nel 1444. Divenne così nello stesso tempo istituto di credito, banco
di deposito, gestore delle entrate pubbliche. Ne consegue che questo organismo, sul quale
incombono compiti di Stato, sia controllato da uomini d’affari i quali, assieme allo Stato, di
fatto diressero la Cassa con un indirizzo prevalentemente privato. Tale sovrapposizione da
parte dei singoli cittadini sullo Stato creò uno Stato dentro lo Stato a favore degli uomini
d’affari, i quali svolsero effettivamente un ruolo preponderante data l’assenza del senso della
collettività pur necessario in un tale organismo assai importante. Lo sfruttamento da parte dei
concessionari impoverì la terra e così, una dopo l’altra, le colonie dello Stato vennero perdute
senza che esso, nonostante fosse molto interessato, intervenisse in tempo debito per
raddrizzare una situazione compromessa.

Se da una parte le maones prima e la Cassa dopo, pur rendendo in qualche modo un servizio
allo Stato, non soltanto trassero direttamente e indirettamente grossi benefici dalla gestione
(sia come procuratori nominati dallo Stato, sia come rappresentanti di creditori)
s’impegnarono di sviluppare una maggiore padronanza e raffinatezza in materia finanziaria e
nell’arte della contabilità e della tenuta dei libri, ponendosi entrambe nella condizione di
essere ancora sicuri concorrenti sul mercato estero con i banchieri di Firenze.

Finanzieri o commercianti, gli uomini d’affari genovesi, a causa delle stesse vicissitudini della
loro città continuarono a diffondersi nel mondo occidentale; in Inghilterra, sotto i regno di
Edoardo IV, la loro attività nelle isole britanniche segnò l’apogeo. Nel 1471 si incontrarono i
rappresentanti di tutte le grandi e più importanti famiglie di commercianti di Genova; Bracci e
Giacomo di Marini, Edoardo e Angelo Cattaneo, Benedetto e Antonio Spinelli, Raffaello
Lamellini, Lodovico Grimaldi, Galeazzo de ’Nigri, Galeazzo Centurione. Gli stessi nomi
hanno rappresentanti a Bruges, ad Anversa, mentre in Francia la maggior parte dei
rappresentanti appartengono alla famiglia Doria, cacciata da Genova fin dal 1461, quando ci
fu la sommossa della città contro Carlo VII, al quale i Doria avevano facilitato la permanenza
e sovranità sulla città.

Luigi Doria scelse nel 1462 per sua patria Marsiglia e, con l’appoggio e la protezione di Re
Renè (di cui era consigliere e ciambellano), organizzò una rete importante nel commercio, nel
cambio e nella banca, aiutato da almeno 18 genovesi (di cui sei Doria, due Grimaldi, uno
Spinola e uno Uso di Mare).

A Siviglia si costituì una colonia assai importante e i nomi che si fanno sono: Imperiali,
Cattaneo, Grimaldi, Adorno, Doria, Centurione e di lì le galere andavano e venivano a Bruges
e a Southampton e, forse, da quei porti verso altre destinazioni. E si trapiantarono anche a
Lisbona dove in quel secolo si vivono lo spirito e i fermenti per le scoperte e per le
esplorazioni di un mondo sconosciuto sia per il gusto di conoscere, sia per appoggiare il
Cristianesimo minacciato dall’Islam.

Altri si recarono a Madera, nelle Azzorre, dove Salvago, Doria, Centurione, Spinola,
Lomellini, crearono piantagioni di canna da zucchero. Alcuni di essi non si limitarono alle
sole spezie e cercarono l’oro che, ancora meglio, a giusto titolo ritennero la base per una reale
fortuna. Non a caso, è stato detto, che Cristoforo Colombo giunto da Genova, dove era nato
nel 1451, dopo essere stato in Oriente al servizio sia degli Spinola sia dei Negro, per mettersi
nel 1476 al servizio dei Centurione a Lisbona e dopo aver stabilito relazioni (anche a seguito
del suo matrimonio con la figlia di Perestrello) con l’ambiente dei navigatori portoghesi,
coltivò l’idea di raggiungere terre transatlantiche allo scopo anche di procurarsi metalli
preziosi e in special modo l’oro: “L’oro, di cui egli stesso ha lasciato scritto è eccellente;
dell’oro si fa un tesoro; il suo possessore fa tutto ciò ch’egli vuole in questo mondo e gli
consente anche di liberare le anime del purgatorio”. Con la gloriosa e audace avventura nel
1492 che ne seguì, si chiude un’era e Cristoforo Colombo rappresenta l’ultimo uomo d’affari
italiano del Medio Evo.

Tra gli italiani che hanno illustrato la propria Patria in un campo, forse meno divulgato,
ancorché conosciuto dagli specialisti, come l’arte della Banca, la scelta è caduta sui Peruzzi in
quanto, tra le tante famiglie di mercanti del loro tempo (XIII e XIV secolo) essi assumono un
ruolo di precursori nell’organizzazione internazionale della Banca. I Peruzzi, con le loro
sedici succursali internazionali, non solo hanno aiutato Papi (Bonifacio VIII, Clemente V,
Giovanni XXII) e Re (Edoardo I, Edoardo II, Edoardo III d’Inghilterra, Filippo IV di Francia,
Carlo II e Roberto di Napoli) nelle necessità finanziarie delle loro imprese sia religiose sia
civili, ma seppero, con i cospicui prestiti fatti, legare la politica di potenti sovrani agli
interessi della repubblica fiorentina.

A quel tempo, il governo di Firenze era nelle mani dei Guelfi e le Arti (le sette maggiori nel
1266 e quelle minori nel 1282) ebbero riconoscimento giuridico. Tra quelle che, giustamente,
avevano un maggior peso nell’economia fiorentina, quattro costituirono, in effetti, l’ossatura
dello Stato: l’Arte della Lana (per insegna un montone bianco in campo vermiglio), dei
Mercanti o Calimala (un’aquila d’oro in campo vermiglio), dei Setaiuoli e Merciai (una porta
rossa in campo bianco), dei Cambiatori (campo vermiglio disseminato di fiorini d’oro). E,
appunto, se con la coniazione del fiorino d’oro da parte dei mercanti si afferma la fortuna di
Firenze, fu l’arte del cambio a diffondere tale moneta nel mondo.

In tale Arte, tra i tanti che vi operarono, emersero, per intraprendenza e fortuna, solamente i
Peruzzi, i Bardi, gli Scali e gli Acciaiuoli, i quali, sia per l’importanza degli affari, sia per
ripartirne il rischio, non poche trattative portarono a termine in cooperazione tra di loro.

Per ragioni di spazio, la trattazione non sarà ampia, ma sufficiente a dare un’idea di cosa
rappresentassero i Peruzzi nella Firenze Medievale, nella quale primeggiarono in ogni campo
e in particolare nell’arte del Calimala. Della loro Compagnia ci hanno lasciato una copiosa
documentazione. Sembra che le origini di questa famiglia, che dovrà divenire potente nel
Quattrocento, abbia origine nel 1150 con Ubaldino, figlio di Peruzzo, della Porta della Pera o
Peruzza e nel 1203 si ricorda un Guido Peruzzi presumibile appartenente all’Arte della Lana;
segue Filippo d’Amideo Peruzzi. Nel 1303, a detta di Giovanni Villani, che fece parte della
Compagnia dei Peruzzi; entrambi appaiono come banchieri del Re di Francia.

Nei libri della Compagnia, secondo l’uso del tempo, una prima parte è riservata alla ...
preghiera: Al nome del nostro Signore Gesù Cristo e della benedetta Madre Madonna Santa
Maria, e di tutta la corte divina che mi conceda grazie a me ... e a che dica e mi dica di fare
in questo secolo quello che sia in suo onore ed in sua riverenzia, sicché appresso di me,
possano essere pacifici nel suo santo regno, ed in questo secolo mi dia grazia di potere e di
fare al suo onore, quello che noi possiamo in avere e in persone e in onore, Dio il faccia,
Amen.

Segue poi quella propriamente contabile: Questo libro si è di me nel quale intendo scrivere
quello che avrò a fare con … ecco’ compagni miei e co’ compagni che son con loro, ed altri
miei fatti, siccome si trova scritto per innanzi e per partite e come scrissi per … (segue la
data).

La formula usata per indicare i compagni e i loro compagni non deve meravigliare, perché
della Compagnia, oltre alle numerose persone dipendenti (salariati), facevano parte altre
famiglie, anch’esse numerose, le quali apportavano opere o capitali.

Nel 1288 apparve nelle fiere di Champagna l’Universitas mercatorum italicorum nundinas
Compagnie in regno Francie frequentantium, frequentata dai mercanti italiani.

I singoli soci e i fattori della compagnia dei Bardi pensavano a propiziarsi il perdono divino,
sottraendo ai loro eredi una certa somma per le elemosine ai poveri, così la compagnia come
ente, e quella dei Peruzzi e degli Alberti del Giudice, quasi a invocare il favore celeste sulle
loro imprese, disponevano a ogni costituzione di società “un tanto” per i poveri. Nei libri
superstiti della compagnia dei Bardi, non è rimasto alcun contratto sociale, ma tuttavia questi
libri offrono un materiale interessantissimo. Nei due “libri segreti”, nei quali a ciascun socio
sono intestate alcune pagine dove sono registrate tutte le partite che lo riguardano (depositi,
ritiri, interessi, utili) si trovano .alcune. carte che si. aprono con: l’intitolazione Avemo dato a
Dio, Dovemo dare a Dio, in cui si tiene nota delle somme destinate a beneficenza. Colpisce il
fatto che questo conto “per Dio” era tenuto esattamente come tutti gli altri conti dei soci. Vi si
parla della parte di “messer Domineddio”, come altrove si parla della parte di “messer
Jacopo Nestagio” e si accenna pure che questa “parte” era registrata, al pari di quella dei
compagni, “nel libro della ragione”, contenente la menzione del capitale sociale, del
“saldamento” o bilancio degli utili, e se la compagnia non avesse avuto un utile, ma una
perdita, questa si faceva gravare anche sul conto “per Dio”; il quale in tale occasione era “de’
dare” e non già “de’ avere”. Così v’era il “Conto di Messer Domineddio” rivendicato dai
capitani di Orsanmichele…: “A chi li capitani della compagnia d’Orto Samichele
asengniamo il sopradetto podere dì 26 Aprile ‘347 per lo pregio scritto di sopra, in parte
della rata loro si come pare a una ragione scritta, -dovemo dare per Dio- a libro nero de’
Sindachi nel nove carte. Fiorini 40 d’oro…”. Ancora: “qui appresso scriveremo possessioni
asengniate a la compagnia d’Orto Samichele -per li denari de’ poveri-, che si deono dare per
Dio…”.

Anche la compagnia dei Peruzzi devolve somme per la beneficenza: “Giotto de’ Peruzzi e
compagni di nostra Compagnia per ragione della limosina che facciamo ci deono dare dì 8
gennaio milletrecentotrentacinque fior…; levammo ove doveano dare a libro rosso decimo
nel 41; i detti denari avemo dati per Dio per limosina a religiosi, e religiose, e poveri, e
spedali, e a’ compagnia per le pasque da dare per Dio” ecc…

Altrettanto diffuso era, per sentimento di bene e di religiosità e per un senso di abile
opportunismo, il bisogno di giustificare il guadagno e di farsi perdonare in certo modo la
ricchezza col devolvere, più palesemente che fosse possibile, una parte della ricchezza stessa
a opere di carità o comunque onorevoli.

La più bella prova della larga misura con la quale si misuravano i denari a fini religiosi fu la
fioritura di templi che costituì tanta parte del patrimonio artistico di ogni Paese. Altre
testimonianze sono offerte dalla pratica costante di lasciti a monasteri o a poveri come li
notiamo per intere pagine nei vecchi testamenti, perfino in quelli dei più impertinenti usurai
nonché dalle stesse disposizioni statutarie di tutti i paesi: che facevano obbligo del versamento
del “denaro di Dio” (denier de Dieu, Gottespfenning) prima della conclusione del contratto.

Il primo capo della Compagnia dei Peruzzi si fa risalire ad Arnaldo d’Amideo Peruzzi (che
morì nel 1292), che, ricordato come uomo devoto, appartenne a”l’Arte della Lana e dei
Mercanti”, legò cento fiorini d’oro per l’ampliamento della Chiesa di S. Cecilia, patrona,
appunto, dell'arte della Lana. Gli successero nella ben avviata arte i cinque figli: Pacino,
Giotto, Tommaso, Arnoldo e Donato.

Pacino, il maggiore dei figli, tenne la direzione della Compagnia fino al 1299. Aveva preso
parte attiva già col padre alla politica della città e, poi, ricoprì la carica di Priore nel 1288 e
nel 1294, Console dell’Arte di Calimala nel 1293, dell’Arte del Cambio nel 1295 e, infine,
Gonfaloniere di Giustizia nel 1297. A Papa Bonifazio VIII inviò cospicui aiuti per la
sottomissione dei ribelli romani.

Successero, a Capo della Compagnia, Tommaso (fratello di Pacino) che nel 1311 fu nominato
“ufficiale della moneta”; poi seguì l’altro fratello Giotto, che fu Priore otto volte dal 1293 al
1338 e che ricoprì altre importanti cariche: il Consolato di Calimala e il consolato della Zecca.
Il fasto del suo palazzo lo rese degno di ospitare nel 1310 Roberto Re di Napoli, protettore dei
Guelfi. Riuscì anche a ricomporre le lunghe e sanguinose rivalità esistenti tra il suo Casato e
quello degli Adonari, concedendo la propria figlia Filippa in sposa a Carlo di Guerra degli
Adinari. Le nozze furono una delle tante occasioni per ostentare la potenza dei Peruzzi; alla
figlia dette in dote la somma di duemila fiorini d’oro, somma enorme e inconsueta per quei
tempi.

Gli ultimi due Capi della Compagnia furono i figli di Tommaso d’Arnoldo: Bonifazio,
succeduto a Giotto nel 1336, uomo d’arme e commissario di parte guelfa e Pacino II,
rappresentante della compagnia a Bruges.

Quest’ultimo non ebbe il tempo per manifestarsi uomo di affari, dato che, a seguito del
decreto di Edoardo III d’Inghilterra (6 marzo 1339) col quale si sospendevano i rimborsi dei
prestiti contratti dalla Corona coi Peruzzi, con i Bardi e altri banchieri fiorentini, egli giunse a
Firenze, richiamato dalla morte del fratello, praticamente soltanto per provvedere alla
liquidazione della Compagnia, che avvenne nel 1343. Eppure Pacino II è ricordato nel campo
letterario, se è vero che, come dicono i commentatori del Boccaccio, egli è citato nel
Decamerone col nome di Dioneo.

Firenze, pur avendo una sua marina per provvedere ai suoi commerci, non avendo neppure
interessi da difendere o potenze da minacciare, si avvalse liberamente di quelle delle grandi
repubbliche, specie nel commercio verso Levante. Il collegamento tra i più importanti centri
di affari e Firenze era mantenuto attraverso una fitta rete di procuratori, continuamente in
viaggio tra un punto e l’altro del mondo allora conosciuto: infatti, nei registri della
Compagnia Peruzzi, vengono annotati, tra il 1335 ed il 1338, emolumenti a ben
centotrentaquattro fattori (di essi dodici appartengono alla stessa famiglia Peruzzi). I Peruzzi
se nell’attività bancaria sono orientati prevalentemente verso l’Europa, per la loro attività
commerciale preferiscono Rodi, che è il centro propulsore dell’area di commercio verso
Oriente.

Da Enrico II dei Lusitani (che aveva avuto i Peruzzi come banchieri) ebbero enormi benefici
per le merci che entravano e che uscivano da Cipro e Famagosta.

Nel 1305 Napoli divenne la maggiore tra le succursali dei Peruzzi, i quali fornirono al re
Carlo II il denaro di cui abbisognava. A Barletta, scalo attivissimo e tappa obbligata delle navi
che andavano verso Levante, la compagnia aveva ottenuto diverse franchigie da Roberto
d’Angiò, re di Napoli.

Altre sedi importanti furono quelle di Parigi (i Peruzzi nel 1303 erano banchieri del Re di
Francia), di Bruges i cui rapporti commerciali nelle Fiandre erano ancora più intensi, in
quanto queste costituivano il più grande mercato d’Europa; di Londra, che restava il maggiore
centro d’affari per l’acquisto di prodotti grezzi e delle lane.

I mercanti ostentavano nelle spese e nei vestiti, per voler apparire; sfarzose dimore
racchiudevano enormi e mai visti tesori. Nel corso di pochi decenni, si compiva il ciclo di
questo fortunato e irripetibile periodo col miracolo di Firenze nei suoi capolavori e nelle sue
chiese e palazzi.
Fautori e finanziatori i mercanti banchieri sorsero S. Maria del Fiore e Santa Croce, S. Marco
e S. Maria Novella, Orsanmichele e il Palazzo della Signoria, il Campanile di Giotto e veniva
rivestito di marmo il bel S. Giovanni.

Con la ricchezza accumulata grazie a costoro l’economia fiorentina si trasformò, passando


dalla sobrietà all’opulenza. In poco tempo vennero creati quei tesori d’arte e le altre opere di
inestimabile valore artistico che tutt’oggi ammiriamo nel loro superbo splendore.

Anche se saranno decisamente gli uomini d’affari del XV secolo che, più dei loro
predecessori, mostreranno di possedere un ecletticismo luminoso e si adorneranno di
mecenatismo, ciò non di meno la loro vanità personale li indurrà a farsi in qualche modo
raffigurare anche nelle composizioni religiose. Sembra (ma non si sa sino a che punto) che
Giotto, nel rappresentare i personaggi sia nella storia di S. Francesco che di quella di S.
Giovanni Battista, si sia ispirato ai membri della famiglia dei Bardi e dei Peruzzi per le
decorazioni delle rispettive cappelle in Santa Croce. Così ancora, i ritratti di alcuni Peruzzi
sembrano quelli dei medaglioni che separano le grandi scene.

L’Arte del Cambio, nata per le elementari esigenze del commercio della valuta, assunse
attività propriamente bancaria quando si trattò di conquistare determinati mercati e adempì
direttamente e in proprio a tutti i compiti di protezione e di espansione commerciale oggi
assunti dagli Stati.

Se le lettere e le belle arti s’imposero nella Firenze del tredicesimo e quattordicesimo secolo
(dopo “La Commedia” Dante muore profugo; a tale data si suole indicare la fine della grande
lirica del Duecento. Sorse Petrarca e, poi, Boccaccio che, rinnovando la prosa, segnò l’inizio
del glorioso ciclo umanistico); dopo assursero al più alto livello sia la pittura che la scultura,
mentre l’architettura si rinnova nelle arti figurative, relegando in secondo piano ogni altra
attività. I cambiatori fiorentini e i Peruzzi fra questi, trasformarono nello stesso periodo la
“bottega del cambio” in vera e propria “banca” la cui perfezione, nelle sue grandi linee, non è
stata ancora superata.

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