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Le implicazioni dell’eterologa e dell’utero in affitto sui figli e

sulla società: parlano gli specialisti


Pubblicato 16 marzo 2017 | Da Lorenza Perfori

La fecondazione eterologa e la maternità surrogata hanno sui figli implicazioni bio-psico-sociali gravi e
conseguenti ripercussioni sull’intera società. Riportiamo in proposito le valutazioni di sei specialisti della
salute psichica e di due esperti di bioetica.

Dott. Keith Ablow (psichiatra): “Migliaia di bambini nati da


donazione anonima di sperma e ovuli svilupperanno ansia o
depressione, perché il primo capitolo della loro vita è una
manipolazione”

Keith Russell Ablow è uno psichiatra statunitense, specializzato in


psichiatria dell’adolescenza e dell’età adulta, ed è membro del Medical A-Team della rete televisiva Fox
News. In un articolo del 7 aprile 2014 così si è espresso sulle implicazioni che la fecondazione eterologa ha
sui figli:
“Dopo aver apparentemente dato troppa importanza a tutti, adesso la nostra società permette a decine di
migliaia di uomini e donne di creare dei bambini che non conosceranno uno o talvolta entrambi i loro genitori
biologici, perché gli Stati permettono queste donazioni anonime. Dissento. Credo che sia moralmente
sbagliato mettere in atto un’architettura sociale in cui milioni di bambini non conosceranno i loro genitori
biologici. La donazione anonima di sperma e ovuli implica che la connessione biologica tra genitori e figli sia
del tutto priva di valore. Tra l’altro, niente di tutto questo ha a che fare con l’adozione”.

Infatti, in questo caso, molti figli adottati “hanno la possibilità di rintracciare i loro genitori successivamente. E
anche se ciò non fosse possibile, la loro adozione all’interno di una famiglia amorevole (si spera)
rappresentava una soluzione ai problemi nei primi anni della loro vita che dovevano essere risolti”. Al
contrario, “la donazione anonima di gameti non risolve alcun problema al bambino. È un vantaggio per gli
adulti che stanno incontrando problemi di fertilità e che preferiscono disfarsi della vera storia del loro
bambino così da sottrarre quel bambino al suo vero padre o madre biologica”.

“Data la mia ventennale esperienza come psichiatra, posso scommettere qualsiasi cosa sul fatto che
migliaia di bambini nati in questo modo sviluppino in maniera significativa ansia o depressione, o entrambe,
perché il primo capitolo della storia della loro vita è una manipolazione… Si tratta di un affronto ai diritti
umani di questi bambini, ed è un affronto alla dimensione inerente alla paternità e maternità (la dimensione
biologica – che non ha a che fare solo con la sterilità, ma anche con la spiritualità)”[1].

Dott. Osvaldo Rinaldi (psichiatra): l’eterologa crea nei figli “crepe


esistenziali sulle quali è difficile costruire la propria esistenza,
falde che renderanno instabili le fondamenta di quella vita, ferite
aperte che sanguineranno per tutta l’esistenza”

Il dott. Osvaldo Rinaldi, medico specialista in


psichiatria, prova a “delineare un ritratto esistenziale del donatore di gameti” descrivendolo come “una
persona che non vuole formarsi una famiglia”, che “preferisce relazioni precarie e rifiuta di prendersi la
responsabilità di educare e crescere i figli”. In questo modo egli ha un comportamento “esattamente opposto
a quello dei genitori adottivi, che pur non avendo dato la vita biologica, si assumono la responsabilità della
crescita umana e spirituale dei loro figli”.

Quindi Rinaldi sfata il carattere altruistico che solitamente viene assegnato al gesto di offrire sperma e ovuli
a beneficio delle persone sterili, mettendo in risalto la “voragine esistenziale” e “l’abbandono” che in realtà
discendono da tale donazione, ravvisando in essa “una sconfitta per l’intera società”. “Il donatore di gameti –
scrive Rinaldi – compie il gesto di offrire il principio della vita, perché lo ritiene un atto di generosità verso
una coppia sterile. In realtà stiamo parlando di un gesto esteriore, il quale denota una voragine esistenziale,
che inevitabilmente sarà trasmessa non solo alla coppia richiedente, ma anche verso il nascituro. Il
donatore, compiendo il gesto di offrire i suoi gameti, estirpa la radicalità della verità sulla vita umana, che
richiede non solo di dare la disponibilità per la nascita ad una nuova esistenza, ma soprattutto di
accompagnarla nelle sue fasi di maturazione e di sviluppo. Il gesto compiuto dal donatore dei gameti è un
dare la vita e nello stesso tempo abbandonarla. La sua incompletezza temporale e gestuale è il suo più
grande limite. La segretezza del donatore, che da molti è considerata il raggiungimento di un diritto, in realtà
è una sconfitta per l’intera società”.

Poi Rinaldi passa a considerare le implicazioni a carico dei figli, spiegando che “la fecondazione eterologa
porta alla nascita di un bambino, che ha il diritto di conoscere la verità su coloro che hanno preso parte alla
sua nascita”, un bambino che “una volta cresciuto, si vedrà privato del diritto di conoscere i donatori dei
gameti che gli hanno permesso l’origine della sua vita”. Questo figlio che “non avrà la possibilità di
conoscere i donatori dei gameti – continua il dottore -, avrà nel suo cuore tante domande che freneranno il
suo entusiasmo per la vita: perché ha compiuto quel gesto? Perché non ha voluto lui o lei essere mio padre
o mia madre? perché si è disinteressato totalmente della mia vita?”.

“Queste domande, quando non trovano una adeguata risposta – spiega Rinaldi -, lasciano delle crepe
esistenziali sulle quali è difficile costruire la propria esistenza. Queste domande del cuore sono delle falde
che renderanno instabili le fondamenta di quella vita. Questi interrogativi saranno ferite aperte che
sanguineranno per tutta l’esistenza. Anche se nascoste interiormente, saranno visibili esteriormente,
adombrate da un velo di tristezza”.

Considerati tutti questi fattori, quindi, Rinaldi chiede: “Qual è il senso di dover compiere il gesto di donare i
propri gameti?”. E conclude osservando che “prima di compiere questo gesto i donatori dovrebbero
considerare tutti gli effetti di abbandono, dolore e disorientamento che tale atto produce in se stessi, nella
coppia richiedente e soprattutto nel futuro nascituro”[2].

Dott.ssa Anne Schaub (psicoterapeuta): “La Gpa provoca al


bambino conseguenze bio-psico-sociali nefaste per tutta la vita,
che potrebbero avere un impatto anche nelle generazioni
successive e nella società in generale”
Anne Schaub è una psicoterapeuta, specializzata nell’analisi e
nel trattamento delle memorie prenatali e psico-genealogiche, dei traumi alla nascita e della prima infanzia.
Nell’aprile 2015 è uscita sul quotidiano belga La Libre Belgique una sua riflessione sui danni da separazione
per il bambino nato da utero in affitto.

Schaub scrive:

“Il dibattito sulla maternità surrogata (GPA) deve tornare a concentrarsi sul primo interessato: il bambino.
Separarlo da colei che l’ha portato in grembo nove mesi e alla quale si è attaccato è una frattura traumatica
dalle conseguenze bio-psico-sociali nefaste, per tutta la vita… I dibattiti pubblici sulla pratica della GPA
lasciano il più delle volte passare sotto silenzio l’esistenza del legame fondamentale che si stringe fra il
bambino, la madre biologica e il padre biologico fin dal concepimento e lungo i nove mesi della gestazione.
Ora, questo periodo è cruciale per la fondazione relazionale e la futura costruzione psichica e cognitiva del
bambino, e per tutta la vita. L’esistenza del bambino quale ‘essere relazionale’ inizia dal concepimento!”.

“Le neuroscienze  – prosegue la dottoressa –  c’insegnano che l’amigdala, una piccola ghiandola a forma di
mandorla situata nel cervello ‘affettivo’ costituisce una sorta di ‘mappa della memoria emozionale’ che
registra gli impatti e gli ambienti affettivi sperimentati durante la gravidanza, e parimenti nelle circostanze
perinatali. ‘L’amigdala non dimentica!’ (Dr Guenguen)”.

Detto questo, Schaub spiega che “nella GPA, la cellula famigliare si trova ‘disarticolata’ alla base della
propria fondazione”, in essa infatti “osserviamo una serie di fratture dell’unità relazionale bio-psico-sociale
uscita dalla relazione carnale feconda:

 quando si tratta di donatori esterni, l’apporto di materiale genetico estraneo, esso stesso carico di
storia;
 embrioni ‘fabbricati’ in provetta;
 la perdita e/o surgelamento dei ‘fratelli e sorelle’ del futuro bambino;
 la gravidanza nel grembo di una donna estranea al bambino;
 la separazione/abbandono deliberata del bambino dalla madre naturale per trasferirlo ai genitori
elettivi”.
Ebbene – osserva Schaub – “tutte queste fratture rendono inevitabilmente fragile il bambino nella
costruzione della propria identità”.

Nell’affittare il proprio utero – continua la dottoressa – la “donna può decidere di non attaccarsi al bambino
che porta in sé per qualcun altro”, al contrario “un embrione, un feto, un bambino non hanno questa facoltà:
per lui, il processo di attaccamento che inizia fin dalla gravidanza è un processo biopsichico naturale che ha
l’obiettivo di cercare prossimità, protezione e sicurezza presso l’adulto che lo ‘porta’”. “Da quel momento –
spiega Schaub -, separare il bambino da colei che l’ha portato in grembo nove mesi e alla quale si è
attaccato è per il bambino una rottura traumatica. Ugualmente, le condizioni ‘frammentarie’ nelle quali è
concepito lasciano una traccia indelebile e rilevante nello psichismo e nella storia psicosociale del bambino.
Gli viene quindi inflitto un danno esistenziale da separazione. Senza parlare della privazione essenziale
della madre o del padre nel caso di una coppia di uomini o di donne”.

Poi, la psicoterapeuta parla delle sofferenze infantili da separazione riscontrate nel corso della sua
esperienza professionale: “Ho potuto costatare che dietro a tutte le separazioni, vissute soggettivamente in
utero a partire da circostanze che fanno pensare al bambino di non essere il benvenuto (conflitti di coppia,
lutti, mamma ansiosa dopo un aborto spontaneo che evita di attaccarsi al bambino nel timore di perderlo,
stress di ogni genere o solitudine della madre che porta il bambino senza il sostegno del padre, ecc.), si
pone come tela di fondo l’angoscia più arcaica inerente la nostra umanità: l’angoscia di abbandono. Il
bambino piccolo vive un’angoscia d’abbandono maggiore quando ha l’impressione soggettiva di perdere la
madre o quando la perde realmente (oggettivamente)”.

Dal momento che – evidenzia Schaub -, “l’apparato psichico e intellettivo del bambino non è ancora dotato
di ciò che in psicologia chiamiamo ‘permanenza del sé e dell’oggetto, l’allontanamento della madre naturale
dalla quale si è lasciato impregnare per nove mesi, crea nel neonato uno stress simile a un’angoscia di
morte. Il neonato non ha infatti ancora la maturità cognitiva sufficiente per spiegare in modo cosciente e
razionale una situazione di allontanamento della ‘madre’ che conosce da tanti mesi. In altre parole: ‘Mamma
è me e io è mamma. Se non vedo più, non odo più, non sento più mamma vicino a me, perdo il senso della
mia esistenza, vado in disperazione e rischio di morire!’”.

Quindi, per riepilogare, “la GPA investe in pieno la realtà del nascente legame reciproco ‘madre-bambino’,
‘bambino-famiglia’, provocando ai figli “conseguenze bio-psico-sociali nefaste per tutta la vita”. E non solo,
“l’impatto di tali condizioni di concepimento potrebbe toccare le generazioni successive e la società in
generale”.

Schaub si avvia al termine della sua analisi dicendo di volersi fare “portavoce di quei bambini che non hanno
alcuna voce per gridare questo grave pregiudizio inflitto in modo deliberato all’origine della loro vita”, e
ribadendo che se si distoglie “lo sguardo dall’interesse dei bambini”, come avviene con la GPA, “a favore
dell’interesse e del desiderio degli adulti, scivoliamo verso una società che si rende complice di fantasie
umane che daranno vita in modo programmato a disturbi e patologie del legame, generatori di violenze
psico-sociali”.

Per tutti questi motivi, conclude la dottoressa, la GPA dovrebbe essere vietata per legge: “In nome del
principio di precauzione, dobbiamo mettere un freno allo sviluppo delle tecnologie che incoraggiano la GPA
e vietarla per via giuridica. Si tratta di difendere gli elementi più vulnerabili della società! E chi è più
vulnerabile dell’embrione, consegnato dalla natura al buon senso degli adulti? Questi più piccoli sono i nostri
adulti di domani, chissà, i nostri futuri dirigenti! Chi sarà trattato con rispetto, intelligenza e sensibilità ha forti
speranze di poter trattare gli altri e il proprio ambiente con lo stesso cuore, con la stessa arte della
conoscenza umana e del mondo”[3].

Dott. Luciano Casolari (psicoanalista): “L’utero in affitto è


un’attività ad altissimo rischio per l’insorgenza di gravi patologie
psichiatriche sia per la madre surrogata che per il bambino”

Luciano Casolari è medico chirurgo, specialista in psichiatria, ha


lavorato come dirigente psichiatra nel SSN, ha svolto insegnamenti in psicosomatica presso la scuola di
specializzazione in psichiatria e attualmente insegna psicoterapia in varie scuole di specializzazione.

Sulle colonne de Il Fatto Quotidiano, Casolari ha parlato dei traumi derivanti dall’utero in affitto, osservando
che “in base alle attuali conoscenze in campo psicoanalitico e psichiatrico”, la maternità surrogata è
“un’attività ad altissimo rischio per l’insorgenza di gravi patologie psichiatriche sia per la madre surrogata
che per il bambino”.

Le conseguenze psichiche a carico della donna che affitta il proprio utero, spiega lo psicoanalista,
rappresentano “un problema che viene spesso misconosciuto, con una punta di razzismo verso i poveri e gli
emarginati”. “Forse perché si fa pagare per questa pratica” la “vita psichica” della madre surrogata “sembra
ininfluente”, invece “anche per lei il rischio collegato alla cessione del bambino è molto elevato per gravi
patologie psichiatriche soprattutto di natura depressiva e per il suicidio. Fantasmi ancestrali, che certi miti
greci mostrano in tutta la loro forza, si agitano dentro questa povera madre che ha voluto o dovuto cedere
ad altri il figlio”.

Per quanto riguarda i problemi a carico dei figli, Casolari spiega che “è chiaro che nessuno ha intervistato un
bambino di pochi giorni che ha perso la madre biologica chiedendogli se si senta traumatizzato”, tuttavia
“emerge con costanza nella letteratura psicoanalitica, M. Klein, H. Kohut. D. Winnicott per citare gli autori più
conosciuti e autorevoli, suffragata da deduzioni sui comportamenti dei lattanti (infant observation) e sui loro
vissuti da adulti, la consapevolezza di un rilevante trauma infantile nel caso di separazione dalla madre
biologica”. Infatti, “il dialogo sensoriale ed emotivo fra madre e feto inizia e si struttura durante la gravidanza
per cui quel bambino è figlio di quella madre indipendentemente dalla genetica”. A questo proposito risultano
significative le ultime conoscenze nell’ambito dell’epigenetica, secondo le quali “l’espressività genetica viene
influenzata e modulata dall’ambiente e quindi certamente anche dalla fase di gestazione uterina”.

“Esperimenti su animali – spiega Casolari – mostrano che le madri e i cuccioli si riconoscono


immediatamente dall’odore, dai suoni emessi e presumibilmente da elementi che ancora non conosciamo
appieno”, pertanto “cambiare la figura di riferimento non è irrilevante, ma estremamente pericoloso”.

Per questi motivi, conclude Casolari: “Il bimbo allevato da coppie, sia omo che etero, che lo hanno
desiderato ma anche ‘comperato’ avrà problemi psicologici da affrontare nel momento in cui verrà a sapere
che i genitori, che ora ama, sono gli aguzzini, anche se a volte non del tutto consapevoli, della madre.
Queste difficoltà emotive legale al vissuto abbandonico, pur rilevanti, si determinano in momenti in cui lo
sviluppo emotivo e cognitivo si è già strutturato e quindi sono di gran lunga meno gravi rispetto al traumatico
e mortifero distacco precoce dalla madre”[4].

Dott. Claudio Risè (psicoterapeuta): con l’eterologa “i corpi e gli


affetti diventano invisibili, il silenzio assoluto, la vita in formazione
è separata dal vivente, e quindi la sofferenza successiva sarà molto
più forte”

Lo psicoterapeuta Claudio Risè analizza le implicazioni


dell’eterologa sui figli concepiti con lo sperma di donatore anonimo.

Il padre – spiega Risè -, è “la prima figura che ci garantisce un’appartenenza. Il padre è figura dell’origine, e
per questo deve avere un nome e un volto. Se noi non sappiamo quale è la nostra origine è molto difficile
che riusciamo a individuare un destino. Possiamo sapere dove andiamo quando sappiamo da dove
veniamo: la conoscenza delle origini è necessaria agli uomini”.
Nell’ambito della fecondazione eterologa con sperma donato, la figura del padre rimane ignota. In questo
caso, continua Risè “il padre sconosciuto è un fantasma attorno a cui si animano le insicurezze e i rancori
familiari all’interno della coppia, e dei figli. È una mina vagante”. Infatti, “un conto è quando il padre assente
è il risultato di una vicenda esistenziale, e un bambino abbandonato ha modo di ricostruire il suo passato
nella rassicurazione affettiva fornita dalla famiglia adottiva”. Qui “siamo sempre nella vita, nei corpi, negli
affetti, e tutto questo può essere elaborato psicologicamente”. Un conto è invece la vita “messa in provetta”
dove “i corpi e gli affetti diventano invisibili, il silenzio assoluto, la vita in formazione è separata dal vivente, e
quindi la sofferenza successiva sarà molto più forte”.

Come si vede, il caso del padre-donatore ignoto e ben diverso dal “padre adottivo, che raccoglie tutti gli
aspetti simbolici della paternità. Il bambino sa che aveva un padre naturale, ma le radici affettive sulle quali
crescere sono quelle che gli vengono presentate da chi lo ha accolto, con un gesto di amore e di ospitalità, e
non per soddisfare un proprio bisogno”.

Al danno delle origini provocato dal donatore sconosciuto – continua Risè – bisogna aggiungere un’ulteriore
aggravante: il fatto che nella “fecondazione eterologa non è nemmeno detto che il padre sia concretamente
presente una volta nato il bambino. Infatti in molti Paesi in cui questa pratica è permessa si prescinde del
tutto dalla presenza di un padre, e la procreazione artificiale è aperta alle madri singles, o lesbiche…
Esistono siti internet come www.mannotincluded.com, cioè ‘uomo non-compreso’, che alle clienti
consentono di scegliere le caratteristiche somatiche del donatore anonimo: gruppo etnico, altezza, colore
degli occhi. Una possibilità che corrisponde pienamente all’ideologia del ‘father disposable’, diffusasi in
questi anni: il padre ‘usa e getta’, che serve e poi si butta via”. In tutti questi casi il padre non c’è e non ci
sarà mai, né prima né dopo.

Ma non è ancora tutto, perché i disagi dell’eterologa sui figli si ripercuotono anche sull’intera società, con
“costi umani inequivocabili” e conseguenti “costi economici”. Osserva lo psicoterapeuta che “Paesi come gli
Stati Uniti hanno ormai un’esperienza assai più lunga della nostra di come funziona questo trittico aborto-
divorzio-procreazione artificiale” che ha prodotto “una grande quantità di malessere affettivo e psichico, e
quindi anche di costi economici rilevanti per la collettività”. “I costi umani delle politiche di questi trent’anni
negli Usa sono inequivocabili – rende noto Risè -. Secondo i dati dell’ultimo censimento americano l’85% dei
giovani in carcere è cresciuto senza un padre, come il 70% dei ragazzi devianti e il 63% dei giovani suicidi. Il
90% degli homeless, le persone senza fissa dimora, è pure cresciuta in famiglie senza un padre. Così,
secondo il ministero della Giustizia americano, il 72% degli omicidi e il 60% degli stupratori viene da case in
cui era assente il padre. I ragazzi senza padre esprimono comportamenti violenti a scuola in misura 11 volte
maggiore rispetto ai coetanei. E il 69% dei bambini abusati sessualmente proviene da case in cui il padre,
ancora una volta, manca. Dati che non vanno letti rigidamente, in base ad un’inesistente legge di causa-
effetto, ma come prova di un altissimo fattore di rischio”[5].
Già negli anni Ottanta, lo psicologo Leonardo D’Ancona aveva parlato in una relazione scientifica di questo
disagio, scrivendo che il segreto sul concepimento finisce solitamente per trapelare, producendo nel
bambino “tardivamente, in fase adolescenziale, tratti psicopatologici, con difficoltà di identificazione,
incapacità di adeguati rapporti inter-soggettivi, che possono articolarsi con il già provato circuito familiare
dando luogo a quadri irreversibili di disagio collettivo”[6].
 

Prof.ssa Eugenia Scabini (psicologa): il “vuoto d’origine” è una


“ferita al cuore dell’identità del soggetto umano in crescita che è in
grave difficoltà a rispondere alla domanda ‘chi sono io?’ se non
può rispondere alla domanda ‘da dove vengo?’”

Eugenia Scabini è presidente del Comitato Scientifico del Centro di


Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia e professore di Psicologia dei legami familiari. A febbraio 2016 ha
scritto, per l’associazione Medicina & Persona, un editoriale sul “dramma del vuoto d’origine o dalla parte del
padre o dalla parte della madre” che affligge i figli nati da fecondazione eterologa e/o maternità surrogata,
concentrandosi in particolare sui figli di “coppie omogeneri”.

Scrive la professoressa che oggi “soprattutto per quanto riguarda l’apporto della psicoanalisi si fa avanti
prepotente la tendenza a liquidare frettolosamente le vicissitudini identitarie legate alla costellazione edipica
che per decenni sono state portate a supporto dell’importanza, per lo sviluppo del bambino, di potersi
identificare col padre e con la madre. Così essere genitori ha poco a che fare con essere dei generanti (né
tanto meno viene posto il tema della genealogia familiare del genitore)”. Secondo questa visione “ciò che
legittima l’essere genitori e che consente ai bambini di crescere bene” è il mero “possesso di competenze e
la capacità di fornire cure adeguate”.

Peccato però che ciò sia confutato – spiega Scabini – da “una immane mole di evidenze a proposito di
bambini adottati, accolti in famiglie e oggetto di cure affettuose e competenti, che malgrado ciò riportano, e
spesso con tormento, itinerari di vita dominati dalla domanda sulla loro origine. E si noti che, in questo caso,
i genitori hanno il ‘vantaggio’ di non aver deliberatamente scelto questa condizione per i figli e quindi di non
doverne direttamente risponderne”.

E non bastano di certo il politically correct o lo svelamento ai figli della verità sulle loro origini per risolvere il
loro vuoto d’origine: “Non si dica che tale dramma può essere aggirato semplicemente facendo leva sulla
trasparenza dell’informazione perché il figlio, in quei casi, non accede al padre ma ad un donatore di seme o
peggio non incontra una madre ma una donna che ha venduto il suo corpo… e il genitore sarebbe quello
che l’ha comprato. E non servono certo gli abbellimenti semantici che trasformano l’utero in affitto in
gestazione di sostegno o addirittura in gestazione per altri, a rispondere alla domanda di senso dei figli”.
La questione fondamentale, quindi – conclude Scabini -, “non è documentare la presenza di una buona
qualità di relazione tra genitori e figli”. Qui “non si tratta tanto di dimostrare che essi ricevono buone e
competenti cure e, dalla risposta positiva a questo quesito, legittimare questa modalità di generare”. No,
niente di tutto questo. L’interrogativo a cui rispondere è: “Come e a quale prezzo può strutturarsi e
svilupparsi un’identità con un vuoto di senso relativamente alla propria origine? Il tema dell’origine e il suo
cruciale interrogativo rimane infatti come ferita al cuore dell’identità del soggetto umano in crescita che è in
grave difficoltà a rispondere alla domanda ‘chi sono io?’ se non può rispondere alla domanda ‘da dove
vengo?’”[7].

La sofferenza patita a causa del “vuoto d’origine” e quanto sia fondamentale per la salute psico-fisica dei figli
dare una risposta a quel vuoto, è ben conosciuta dai membri del Comitato Nazionale per il Diritto alle Origini
Biologicheche in Italia si batte affinché sia riconosciuto a livello legislativo il diritto dei figli adottati a
conoscere le proprie origini. Il Comitato – si legge nel loro sito – “nasce dalla grande voglia di conoscere chi
siamo, da dove veniamo, qual è la nostra storia e, fondamentale, a quali malattie potremmo andare incontro,
geneticamente parlando”.

Il Comitato riconosce che presto i diritti reclamati dalle persone adottate potranno riguardare anche chi è
nato con la fecondazione eterologa o, peggio, con la pratica dell’utero in affitto. “Noi che conosciamo la
sofferenza che deriva dall’ignorare l’identità della nostra mamma biologica o del nostro papà – spiega Anna
Arecchia, presidente del Comitato – riteniamo giusto porre una questione per troppo tempo passata sotto
silenzio. Siamo fermamente contrari a tutte le pratiche che non permettono di far conoscere al nascituro le
proprie origini”[8].

Prof.ssa Claudia Navarini (bioeticista): “Il figlio senza un ‘passato’


abbisogna di molto aiuto e attenzione, in quanto sviluppa più
facilmente sensi di insicurezza e di sfiducia in se stesso”

La dottoressa Claudia Navarini, insegnante di bioetica all’Università


Europea di Roma, osserva che la fecondazione eterologa “non è a servizio della vita di colui che dovrebbe
essere chiamato all’esistenza”, ma “a servizio del desiderio degli adulti, un desiderio che pur di essere
soddisfatto non esita a ferire il bambino e a privarlo della conoscenza di una parte delle sue origini (M.L. Di
Pietro – E. Sgreccia, ‘Procreazione assistita e fecondazione artificiale tra scienza, bioetica e diritto’, La
Scuola, Brescia 1999, p. 167)”.

Infatti, in caso di anonimato del donatore “il bambino sarà condannato ad ignorare per sempre la persona
che possiede la metà del suo patrimonio genetico, e di cui porterà con sé per tutta la vita (e in parte
tramanderà alla sua prole) i geni, e con essi l’aspetto, forse il temperamento e il ritmo di sviluppo psico-
fisico, così come una parte importante della sua storia sanitaria”.

“Vari studi che riguardano le adozioni – prosegue Navarini -, mostrano che il figlio senza un ‘passato’
abbisogna di molto aiuto e attenzione, in quanto sviluppa più facilmente sensi di insicurezza e di sfiducia in
se stesso (Brodzinsky, D.M., Smith, D.W., & Brodzinsky, A.B., Children’s adjustment to adoption:
Development and clinical issue, Sage Publication, Thousand Oaks 1998)”.

Anzi, a tale proposito – aggiunge la docente -: “Pare siano addirittura più colpiti i figli abbandonati dei figli
orfani, in quanto questi ultimi possono compiere un cammino di elaborazione del lutto, in cui nonostante i
genitori non ci siano, a volte fin dalla nascita, permane vivo nella memoria propria o altrui il loro ricordo, che
può restituire senso alla loro mancanza”. Al contrario, “il figlio abbandonato sa che da qualche parte colui e/o
colei che lo hanno generato vivono indipendentemente da lui, esistono forse nell’indifferenza al suo destino,
e forse con altri figli e figlie che gli somigliano”. Si generano “pensieri contrastanti di appartenenza e non
appartenenza che esercitano un influsso soprattutto nella delicata fase adolescenziale, in cui nascono le
domande su se stessi, in cui si cerca la propria identità e si inizia a progettare il proprio futuro”[9].

Prof.ssa Maria Luisa Di Pietro (bioeticista): “‘I figli sono di chi li


cresce’ sembra la solita valutazione miope di un mondo di adulti
oramai onfalo-centrico, ovvero capace di guardare solo al proprio
bisogno”

La dott.ssa Maria Luisa Di Pietro, professore associato di Bioetica


presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, analizza le implicazioni dell’eterologa sui figli
evidenziandone le ricadute sia a livello genetico/medico che dell’identità personale.

Per quanto riguarda le implicazioni di genetica medica, la professoressa Di Pietro osserva che già nel 1995,
sulla prestigiosa rivista Nature Genetics, Collins scriveva che “si può dedurre che praticamente ogni malattia
(escluse forse quelle traumatiche) hanno una base genetica e la definizione di queste influenze genetiche
costituisce una priorità nella pratica medica”. Ebbene, continua Di Pietro, da allora sono passati “ventidue
anni e i progressi nell’ambito della conoscenza genetica sono stati innumerevoli. Grazie ai test genetici, ad
esempio, si può: chiarire la diagnosi di una malattia già in atto; diagnosticare una malattia quando non si è
ancora manifestata; prevedere l’aumento del rischio di sviluppare o di resistere ad una malattia; individuare i
portatori sani di malattie ereditarie; sviluppare farmaci ‘personalizzati’ per il profilo genetico del singolo
paziente. Solo in pochissimi casi è possibile intervenire correggendo i cromosomi o i geni malati, mentre in
altri casi è possibile fare prevenzione modificando stili di vita, o sottoponendosi a controlli ripetuti per
individuare la patologia nel suo sorgere”.

Dal punto di vista medico, quindi, la conoscenza delle proprie radici genetiche può essere di vitale
importanza e può fare la differenza in termini di qualità e aspettativa di vita. Pensiamo, per fare un esempio,
alla possibilità a fini preventivi di un “ripetuto controllo mammografico e/o ecografico nella donna con
mutazione BRCA1 e BRCA2, che aumenta notevolmente il rischio di cancro della mammella e/o dell’ovaio”.

Ma, dal punto di vista medico, c’è dell’altro perché “la conoscenza genetica non riguarda solo la singola
persona, ma anche tutta la sua famiglia”. Infatti – spiega Di Pietro: “Il patrimonio genetico di ciascuno di noi
porta in sé il contributo dei due genitori, che a loro volta lo hanno ereditato dai loro genitori, che a loro volta
lo hanno ereditato dai loro genitori, etc. È proprio per questo che si chiama ‘patrimonio’!”. “I termini ‘genitori’,
‘generazione’, ‘genetica’– prosegue la dottoressa -, hanno in comune la parte iniziale, proprio per indicare il
legame inscritto nei ‘geni’. Ed ancora, parte di questo patrimonio genetico sarà presente nei figli, nelle
sorelle, nei fratelli, nei cugini, nei nipoti. Una sorta di ‘rete genetica’, che si dirama nel tempo e nello spazio,
creando connessioni talmente forti da essere necessario conoscerle in alcune circostanze cliniche”.

Ebbene, anche questa “rete genetica”, che nell’eterologa viene recisa, ha implicazioni a livello sanitario. Non
a caso, infatti – spiega la bioeticista – “quando il paziente va dal medico, questi chiede di solito: ‘Quali
malattie sono presenti nella tua famiglia?’. Non è un modo di prendere tempo, ma di inquadrare meglio i
sintomi denunciati dal paziente, facendo riferimento anche al contesto familiare”. O, per fare un altro
esempio, “davanti ad una malattia rara, viene spesso eseguito lo studio genetico sulla famiglia al fine di
uscire dall’inquietante buio della difficoltà diagnostica e della mancanza di conoscenza della sua evoluzione”.

Per quanto riguarda le conseguenze sullo sviluppo dell’identità personale – prosegue Di Pietro –, basta
guardare allo “smarrimento di chi scopre di essere stato adottato e va alla ricerca spasmodica dei genitori
biologici”, per capire “quanto sia importante sapere chi sono il proprio padre e la propria madre genetici”. Per
quanto Tribunali e cultura dominante si diano da fare per cambiare l’antropologia umana, non potranno mai
cancellare “le domande dell’essere umano” che “sono e saranno sempre le stesse: chi sono io? Chi sono i
miei genitori? Dove è iniziata la mia storia?”. “E questa domanda – scrive Di Pietro – sarà ancora più carica
di ansia nel momento in cui ciò che è stato spezzato non è solo il legame genetico, ma anche il legame
gestazionale con la donna che lo ha portato in grembo per nove lunghi mesi. Un legame spezzato, una
catena in cui mancano anelli; un vestito a brandelli, in cui si mettono toppe fino al punto di perdere di vista la
‘trama’ iniziale. E, soprattutto, un albero senza radici: e – come un albero senza radici non cresce – l’essere
umano senza la sua storia non potrà proiettarsi verso il cielo, verso il suo futuro, se non con grande
difficoltà”.
E allora, il leitmotiv “I figli sono di chi li cresce” che si sente insistentemente ripetere da chi mette al primo
posto l’inesistente diritto al figlio e all’ultimo i diritti di quello stesso figlio, sia che si tratti di una coppia
eterosessuale, che di una gay, che di singoli, ebbene, questo leitmotiv – osserva la dottoressa – “sembra la
solita valutazione miope di un mondo di adulti oramai onfalo-centrico, ovvero capace di guardare solo al
proprio bisogno. Ribaltiamo la domanda: se il figlio chiede di chi sono figlio, cosa si pensa di rispondere? Di
chi ti ha cresciuto? Anche se nessuno gli ha raccontato nulla, un figlio che si trova davanti ‘due padri’, non si
porrà – secondo voi – la domanda chi è mia madre? O un figlio che si troverà davanti ‘due madri’, non si
porrà la domanda chi è mio padre?”.

Quindi, domanda in conclusione la bioeticista: “Fino a che punto è lecito arrecare danno ad un essere
umano per soddisfare il desiderio di un altro o di altri essere umani? Fino a che punto si possono distruggere
– in nome di un costrutto socio-culturale – legami forti e atavici come quelli genetici? Fino a che punto
possiamo accettare la schizofrenia di una società che da una parte plaude alle scoperte della genetica e ne
sostiene la ricerca, ma dall’altra minimizza l’importanza della genetica nei familiari?”[10].

In conclusione, come si può constatare, le analisi di questi specialisti della salute psichica ed esperti di
bioetica confermano in pieno quanto descritto nelle loro testimonianze personali dai figli nati con la
fecondazione eterologa e l’utero in affitto, di cui abbiamo parlato qui:

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