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STORIA DELLA FILOSOFIA MODERNA

SO FIA V ANNI RO VIGHI

STORIA DELLA
FILOSOFIA
MODERNA
DALLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
A HEGEL

Con la collaborazione di
Adriano Bausola, Marco Paolinelli,
Angelo Pupi, Mario Sina, Leona rdo V erga

EDITRICE LA SCUOLA
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0FPICINE GllAFICHP. « LA ScuoLA ,,. • BllESCIA
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PREMESSA

Dopo molti anni di insegnamento di storia della filosofia mi son de­


cisa a raccoglierne e riassumerne le linee fondamentali in un manuale
destinato principalmente a studenti universitari, valendomi della col­
laborazione di colleghi più giovani per le parti da loro approfondite me­
glio di quanto non avessi potuto fare io. E poiché alcune parti sulla filo­
sofia moderna circolavano già in forma di «appunti», mi son decisa a
rielaborarle e a far precedere questa nella pubblicazione.
Non parlerò dei criteri di questo lavoro, o piuttosto dirò che l'uni­
co criterio che ho avuto è quello di esporre il pensiero dei filosofi in
modo da suscitare nel lettore il desiderio di attingere alle fonti, ai testi;
se ci sia riuscita potranno giudicare solo i lettori. Ai miei collaboratori
non ho imposto nessuno schema: l'amicizia e le affinità di pensiero che
ci uniscono da anni bastavano a dare una certa unità al lavoro senza
mortificare le peculiarità di ciascuno.
Uno fra i tanti difetti che saranno rimproverati a questo lavoro è la
brevità delle indicazioni bibliografiche. Confesserò che è voluta (infatti
è maggiore nei capitoli redatti da me che in quelli redatti dai miei col­
laboratori), poiché mi sembra che per i principianti, ai quali è rivolto
questo libro, le lunghe bibliografie non siano molto utili. Quando in.fat­
ti a scuola indico anche solo tre o quattro libri su un argomento, mi sen­
to regolarmente chiedere: « Quale di questi dobbiamo leggere? » Figu­
rarsi cosa succede quando se ne enumerano molti. Ho però cercato di
indicare le fondamentali bibliografie, quando ci sono, o le opere che già
contengono ampie bibliografie. A questo difetto, del resto, possono sup­
plire i tre volumi di Questioni di storiografia filosofica pubblicati dallo
stesso editore di questa Storia della filosofia.
Per questo primo volume debbo giustifica re la scelta dell'inizio.
8 FILOSOFIA MODERNA

Per solito la filosofia moderna si fa cominciare con l'Umanesimo e


il Rinascimento - col Quattrocento, insomma-: a buon diritto, certo,
un diritto che non contesto. Una eccellente illustrazione della novità,
della modernità dell'Umanesimo e del Rinascimento si può trovare ne­
gli studi di Eugenio Garin: L'umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1952,
Medioevo e Rinascimento, ibid., 1954, La cultura filosofica del Rina­
scimento italiano, Firenze, Sansoni, 1961, Storia della filosofia italian&,
Torino, Einaudi, 1966, L'età nuova, Napoli, Morano, 1969, dove
l'affermazione della novità del Rinascimento si accompagna ( cfr. spec.
L'età nuova) con la consapevolezza della continuità con certi aspetti
e certi atteggiamenti del medioevo (i primi saggi del volume L'età nuo­
va riguardano il medioevo).
Senonché c'è un'altra novità che mi sembra particolarmente sensi­
bile: quella della nuova scienza che si afferma fra il Cinquecento e il Sei­
cento. Non per nulla la Storia della filosofia moderna del Cassirer porta
come titolo originale: Il problema della conoscenza nella filosofia e nel­
la scienza dell'epoca moderna. Eppure, si dirà, la Storia della filosofia
moderna del Cassirer comincia con Niccolò Cusano, un pensatore del
Quattrocento. È vero, ma questo inizio è associato, nella visione che
il Cassirer ha della storia della filosofia, alla affermazione che nel Cusa­
no ha il primato il problema della conoscenza, affermazione sulla quale
si potrebbero elevare dei dubbi, con tutto il rispetto che merita un
grande studioso di filosofia come il Cassirer. Certo, l'opera fondamen­
tale del Cusano è il De docta ignorantia e un altro scritto importante è
il De coniecturis, ma non troverei certo nello Pseudo-Dionigi il pri­
mato del problema della conoscenza solo perché nel suo pensiero è fon­
damentale il concetto di teologia negativa.
Ma, data per scontata e generalmente ammessa l'importanza che la
rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII ha nel determinare la
svolta della filosofia moderna ( e non posso non ricordare i lavori di
Paolo Rossi, specialmente I filosofi e le macchine, Milano, Feltrinelli,
1962, II ed. 1971 e Aspetti della rivoluzione scientifica, Napoli, Mo­
rano, 19 71), resta il problema se la rivoluzione scientifica non sia pro­
prio in continuità con l'Umanesimo, anziché rappresentare un contrasto
col pensiero umanistico e rinascimentale e una ripresa dei temi che in­
teressano il tardo medioevo.
Gli storici della scienza, specialmente gli storici della scienza nel
medioevo, Duhem, Thorndike, Anneliese Maier, M. Clagett, hanno mes­
so in rilievo l'interesse scientifico degli scolastici, di certi scolastici del
secolo XIV: Duhem li ha visti addirittura come precursori di Galileo;
l'espressione « precursori di Galileo » è stata ripresa anche da Anneliese
Maier, che ha intitolato così uno dei suoi volumi, ma che ha sottolineato
più del Duhem la differenza fra quei precursori medievali e i fondatori
PREMESSA 9

della nuova scienza. All'interesse del secolo XIV per la filosofia della na­
tura e per la logica formale succede nel Quattrocento un prevalente in­
teresse che noi oggi chiameremmo umanistico, cioè letterario, filologico­
storico (il problema delle due culture non è forse solo di oggi!): sembra
che il Quattrocento e buona parte del Cinquecento rappresentino una
interruzione dell'interesse scientifico e che il Seicento riprenda le ricerche
interrotte del secolo XIV - interrotte dall'irruzione dell'Umanesimo.
Un paragrafo del libro molto noto e molto pregevole di A. C. CROMBIE,
Augustine to Galileo (II ed. 1959, trad. it., Milano, Feltrinelli 1970)
porta come titolo: « La continuità fra la scienza medievale e quella del
secolo XVII».
A questa visione storiografica si oppone E. Garin in vari suoi scritti,
ma specialmente nel saggio Gli umanisti e la scienza ripubblicato nel vo­
lume L'età nuova (pp. 451-475) e nel saggio Rinascimento e rivoluzione
scientifica nel volume Rinascimento e rivoluzioni, Bari, Laterza, 1975,
pp. 299-326. Secondo il Garin la rivoluzione scientifica, che ha un si­
gnificato filosofico, non sarebbe stata possibile senza il Rinascimento, di
cui prosegue gli ideali e gli intenti.
Comunque si risolva il problema della continuità o discontinuità
con l'Umanesimo, il costituirsi di un nuovo tipo di sapere sulla natura,
quel sapere che chiamiamo comunemente scienza, distinta dalla filoso­
fia, suscita una serie di problemi che caratterizzano la filosofia da Car­
tesio a Kant, e per questo ho ritenuto di cominciare questa storia della
filosofia moderna da Bacone e da Galileo, anziché dall'Umanesimo.
Mi propongo quindi di dedicare alla filosofia del Rinascimento un
volume a parte, dopo aver completato questa storia della filosofia mo­
derna con un secondo volume, che è P,ià in avanzata preparazione, sulla
filosofia dopo Hegel e fino ai nostri giorni. Seguirà, se Dio mi dà vita,
un volume sulla filosofia medievale 1•
SOFIA VANNI RovIGm

1
I nomi degli autori dei capitoli 5°, 15°, 16°, 18°, 21•, 23° sono indicati all'inizio
di ogni capitolo - oltre che nell'indice -; il resto è opera di chi scrive.
CAPITOLO PRIMO

FRANCESCO BACONE
(1561-1626)

Si parla molto di metodo all'inizio del secolo XVII: Cartesio


intitola Discorso sul metodo (1637) la sua introduzione ai tre sag­
gi scientifici: La Diottrica, Le Meteore, La Geometria, e già prima
aveva scritto le Regulae ad directionem ingenii; del 1620 è il No­
vum Organum di Bacone; nel Dialogo dei massimi sistemi ( 1632) Ga­
lileo parla di « nuovi precetti d'architettura» per costruire l'edificio
del sapere. E questi sono solo alcuni esempi maggiori. Ci si preoccupa
tanto di metodo perché si ha l'impressione che quello seguito fino
ad allora, il metodo delle « scuole », sia sbagliato. E si ha questa
impressione perché nelle ricerche particolari sui fenomeni naturali,
ricerche spesso suscitate da esigenze tecniche, si constata che le
conclusioni della fisica aristotelica sono contraddette dall'esperien­
za. La polemica contro l'aristotelismo, non solo di uno « scienzia­
to» come Galileo, ma anche di un « filosofo» come Cartesio, si
svolge sul terreno della filosofia della natura, della « fisica ». È si-

* L'edizione completa delle opere di Bacone è quella curata da R. L. Ellis, J.


Spedding D. D. Heath: The Works of Francis Bacon, London, Longmans, 1857-59,
7 voll.; Letters and Life, lbid. 1861-74, 7 voll. (ristampa fotostatica: Stuttgart, From­
mann, 1963).
Una larga scelta di opere è quella curata da E. De Mas: FRANCESCO BACONE, Opere
filosofiche, 2 voll., Bari, Laterza, 1965. Lo stesso De Mas ha curato l'edizione degli
Scritti politici, giuridici e storici di Bacone, 2 voll., Torino, UTET, 1971.
Su Bacone: B. FARRINGTON, Francesco Bacone, filosofo dell'età industriale, Torino,
Einaudi, 1952; P. Rossi, Francesco Bacone dalla magia alla scien1.11, Bari, Laterza,
1957; E. DE MAs, Francesco Bacone da Verulamio, la filosofia dell'uomo, Torino, Edi­
zioni di Filosofia, 1964.
12 FILOSOFIA MODERNA

gnificativa su questo punto la Lettera di Cartesio al traduttore dei


Principi di filosofia (Picot) nella quale, come esempi dei principi
erronei della filosofia di Aristotele, si portano soltanto questi: na­
tura della gravità, vuoto e atomi, caldo, freddo, secco e umido, sale,
zolfo e mercurio.
Per arrivare ad una scienza capace di dominare la natura biso­
gna dunque seguire procedimenti diversi da quelli teorizzati nel­
l'Organon (il complesso degli scritti di logica) di Aristotele. Bacone
scrive perciò un Novum Organum, ispirato all'ideale di un sapere
utile, di un sapere per potere. Dice infatti nel Novum Organum
(II, 4 ): Activum et contemplativum res eadem sunt, et quod in
operando utilissimum, id in scientia verissimum. Ora la scienza de­
gli antichi, puramente contemplativa, è sterile; è dunque necessaria
una nuova scienza, orientata alla tecnica.

1. Vita e opere

Questo ideale del sapere per potere si capisce meglio se si pensa


che Bacone fu un uomo politico. Figlio del Guardasigilli della re­
gina Elisabetta, compl gli studi giuridici a Cambridge, fu per due
anni a Parigi al seguito dell'ambasciatore di Inghilterra, poi tornò
in patria, dove esercitò prima l'avvocatura e dal 1595 si diede al­
l'attività politica, con l'appoggio del Conte di Essex, favorito della
regina. Ma la sua ascesa cominciò sotto il regno di Giacomo I
Stuart, con l'aiuto di Lord Buckingham, favorito del re, ed arrivò
al culmine quando, nel 1618, Bacone fu nominato Lord Cancel­
liere e Barone di Verulamio. Nel 1621 fu nominato anche Visconte
di St. Alban, ma nello stesso anno fu accusato dal Parlamento di
concussione e condannato alla prigione e ad una fortissima ammen­
da. Fu graziato dal re, ma dovette rinunziare alla vita politica e si
ritirò a Highgate, dove morl nel 1626.
Bacone si proponeva di ricostruire l'edificio del sapere nel­
l'Instauratio magna, opera rimasta frammentaria, che avrebbe do­
vuto abbracciare sei parti: 1) una specie di rivista dello stato at­
tuale delle scienze, una specie di enciclopedia, (Partitiones scien­
tiarum); 2) una dottrina del metodo della nuova scienza (Novum
Organum); 3) una raccolta di esperienze sulla natura (Historia na­
turalis); 4) una scelta di esempi sul come si possa risalire dall'espe-
BACONE 13

rienza ai princip1 della scienza della natura (Scala intellectus sive


Filum Labyrinthi); 5) una raccolta dei risultati a cui l'autore stesso
è giunto (Prodromi sive anticipationes philosophiae secundae); 6)
Philosophia secunda sive scientia activa.
La prima parte è svolta nell'opera giovanile ( 1605) The Pro­
ficience and advancement of Learning, poi rifusa nell'opera latina
del 1623 De dignitate et augmentis scientiarum; la seconda parte è
svolta nel Novum Organum, del 1620, rimasto però incompiuto;
delle altre ci restano solo scritti frammentari.
Bacone ammette che un solo studioso non potrebbe raccoglie­
re tutto il materiale di esperienze sul quale si deve fondare la nuo­
va scienza, ma il fatto stesso che egli avesse in programma di com­
piere un tale lavoro dimostra che la sua concezione della scienza
era ancora vicina a quella medievale: il progetto baconiano di In­
stauratio magna somiglia molto più a quello dello Scriptum prin­
cipale del suo omonimo medievale (Ruggero Bacone) che non alle
ricerche di un Galileo, sempre dirette ad un campo circoscritto, a
un determinato gruppo di fenomeni, non a tutti i fenomeni naturali
che sono inesauribili. Vedremo che nei Discorsi ... sopra due nuove
scienze Galileo svolge la teoria di due soli fenomeni: il moto dei
gravi e l'urto dei corpi, ma, studiando questi due soli fenomeni,
egli getta le basi di tutta la dinamica moderna, mentre Bacone non
ci ha dato una sola teoria scientifìca. Tuttavia non possiamo certo
ignorarlo, non solo per l'influsso che ha esercitato sul pensiero
moderno e per certe esigenze da lui fatte valere e seguite poi dalla
scienza posteriore, ma anche per quell'ideale di sapere che ha pro­
pugnato 1.

2. La divisione delle scienze

Cominciamo dal De dignitate et augmentis scientiarum che,


pur essendo del 1623, riprende i pensieri dell'opera in inglese del
1605. Bacone difende la scienza contro gli attacchi dei teologi, de�

1
Una rivalutazione di Bacone, condotta sempre co!l l'esame molto preciso di dot­
trine particolari e attraverso il confronto con autori contemporanei, è quella di P. Rossi
nel capitolo « Venti, maree, ipotesi astronomiche in Bacone e Galilei» del volume
Aspetti della rivoluzione scientifica, Napoli, Morano, 1971, pp. 153-222.
14 FILOSOFIA MODERNA

gli uomini politici, dei dispregiatori dei dotti. Secondo le obiezioni


dei teologi il sapere condurrebbe all'empietà, e Bacone risponde
con la frase famosa « certi assaggi superficiali nella :filosofia muo­
vono magari verso l'ateismo, ma una più profonda conoscenza di
essa mena sicuramente verso la religione » (Lib. I, trad. De Mas,
Il, p. 20).
La suddivisione del sapere è fatta secondo le facoltà dell'ani­
ma: memoria, fantasia, ragione. Scienza di memoria è la storia,
scienza di fantasia è la poesia, scienza di ragione è la :filosofia. Ba­
cone dà valore alla storia: vuole che siano promosse la storia della
letteratura e della :filosofia, che la storia politica sia storia parti­
colare e non universale. Egli stesso si proponeva di scrivere una
storia d'Inghilterra da Enrico VII a Giacomo I e ne lasciò fram­
menti. La poesia è secondo lui rappresentazione fantastica del mon­
do, mentre la scienza ne è una rappresentazione razionale ( conce­
zione che doveva piacere al Vico); di qui Bacone trae la conseguen­
za che la poesia sia una scienza embrionale, imperfetta; perciò egli
cerca nei miti dell'antichità classica le allegorie di verità scientifiche
o morali. A questa interpretazione delle favole antiche è dedicato
il De sapientia veterum.
Ma il tipo di sapere che più lo interessa è quello :filosofico. che
ha un triplice oggetto: la natura, Dio, l'uomo: « ... percutit autem
natura intellectum nostrum radio directo, Deus autem propter me­
dium inrequale radio refracto; homo autem sibi ipsi monstratus et
exhibitus radio reflexo » (De augmentis, lib. III, Works I, p. 540,
trad. De Mas, II, _p. 147). Per ciò che riguarda Dio, Bacone distin­
gue la teologia rivelata dalla teologia naturale, che è filosofia, ed è
molto preoccupato, come quasi tutti al suo tempo, di evitare ogni
discussione teologica.
A fondamento delle tre parti della :filosofia sopra nominate sta,
come la radice ai rami dell'albero del sapere, la « filosofia fonda­
mentale » o « :filosofia prima », che tratta degli aspetti comuni a
tutti gli oggetti del sapere, o « condizioni trascendenti », come sa­
rebbero unità e molteplicità, uguale e diverso, possibile e impos­
sibile.
La filosofia prima ha pure per oggetto gli assiomi comuni a tut­
te le scienze. Nel Novum Organum Bacone non parla più della :fi­
losofia prima, ma anche nell'opera giovanile, tradotta poi nel De
augmentis, non manifesta molta fiducia in tale scienza. « Io sono
BACONE 15

in dubbio se porre questa scienza fra i desiderata o no, perché la


trovo piena di dottrine tratte dalla teologia naturale, dalla logica,
da alcune parti della fisica» (De augm., De Mas, II, p. 148). Rim­
provera poi a coloro che professano la filosofia prima un « lin­
guaggio pomposo». Alle « condizioni trascendenti» rimprovera
di serrare poco il corpo della natura (Abecedarium naturae, trad.
De Mas, II, p. 599). Bisognerebbe trasformare questa scienza: per
esempio, trattando del poco e del molto bisognerebbe spiegare per­
ché certe sostanze sono così sovrabbondanti in natura e certe altre
così scarse; trattando del simile bisognerebbe spiegare perché il
ferro non attrae il ferro, malgrado il principio che il simile attrae
il simile. Si vede subito da queste osservazioni che la filosofia pri­
ma vagheggiata da Bacone diventerebbe una fisica (anche se molto
fantasiosa).
La filosofia della natura ha due scopi: la ricerca delle cause e
la produzione degli effetti: parte speculativa e parte operativa, la
prima in funzione della seconda. La prima si divide in « fisica» e
« metafisica», ma badiamo che la « metafisica» baconiana è ben
diversa dalla « filosofia prima». Dopo aver polemizzato con l'uso
consueto del termine metafisica Bacone conclude: « Insomma, sen­
za circonlocuzioni od oscurità, diremo che la fisica è la scienza della
causa efficiente e della materia; la metafisica la scienza della causa
formale e finale» (De augm., trad. De Mas, II, p. 161). Ma vedre­
mo che limita subito lo studio delle cause finali. Altro è, dice in
sostanza Bacone, ammettere che ci sia una finalità nella natura,
che il mondo sia retto da una Provvidenza, altro pretendere di cono­
scere quali sono i fini dei vari fatti naturali e gabellare queste
pretese :finalità in luogo di spiegazioni scientifiche - e qui Baco­
ne cita varie pseudo-spiegazioni di questo tipo date da Aristotele,
contro il quale polemizza. - Se io dico che le pelli degli animali
son0 state predisposte per garantirli dal freddo e dal caldo (ibid.,
p. 181) non ho spiegato affatto come sia costituita e come si formi
la pelle. Ora quando ho bisogno, poniamo, di curare la pelle di
un animale, oppure di servirmene per un certo scopo, debbo sa­
pere come è costituita la pelle, non per qual fine è stata data agli
animali.
Lasciata dunque da parte la considerazione delle cause finali,
resta alla « metafisica» quella delle cause formali, ossia delle es­
senze profonde dalle quali procedono i fenomeni naturali. Ora c'è
16 FILOSOFIA MODERNA

già intorno a Bacone qualcuno che dice che « le forme essenziali


della realtà, le vere differenze delle cose, non possono essere sco­
perte, per quanta diligenza si usi» (ibid., p. 177). Veramente lo
diceva tre secoli prima anche Tommaso d'Aquino: « in rebus enim
sensibilibus etiam differentire essentiales nobis ignotae sunt» an­
che se poi assumeva dalla scienza del suo tempo teorie non certo
giustificate sulle essenze delle cose; ma al tempo di Bacone quella
che era semplicemente una teoria gnoseologica, enunciata, ma non
applicata da S. Tommaso, si faceva sentire come una esigenza per
la costruzione di un autentico sapere sulla natura. Leggeremo fra
poco un famoso passo di Galileo: « Il tentar l'essenza l'ho per
impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle pros­
sime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti...». Ep­
pure Bacone rinnega questa esigenza: si dice che è impossibile co­
noscere le essenze perché si è pigri nella ricerca. L'ideale baconiano
è ancora quello medievale di una fisica che, dopo aver esplorato i
fenomeni naturali, riesca a scoprire l'essenza da cui derivano, da
quella li deduca, diventando così « metafisica ».

3. Il metodo. Pars destruens

Ma su quel primo passo, su quella che egli chiama « fisica» in


senso stretto, Bacone dice alcune cose che certo meritano di essere
meditate. E per queste ci rivolgeremo al Novum Organum.
La novità del metodo consiste, mi sembra, essenzialmente in
questi punti: 1) il momento fondamentale dell'acquisizione del
sapere è l'induzione, non la deduzione sillogistica; 2) nell'induzio­
ne non bisogna risalire subito dall'esperienza dei particolari agli
assiomi più universali, ma bisogna andare gradatamente dall'espe­
rienza dei particolari agli assiomi meno universali ( assiomi medi)
e di qui poi salire ai più universali; 3) per trovare gli assiomi me­
di non bisogna affidarsi al caso, ma bisogna seguire certe regole.
Ora vediamo di ritrovare queste affermazioni nell'opera baco­
mana.
Il Novum Organum è diviso in due libri: il primo critico, il
secondo costruttivo, rimasto però incompiuto. Nella parte critica si
possono distinguere osservazioni generali e osservazioni più speci­
fiche e caratteristiche della concezione baconiana. Alle prime ap-
BACONE 17

partiene ciò che Bacone dice sul nessun valore dell'autorità nella ri­
cerca del sapere, sulla necessità di seguire una via media tra scet­
ticismo e dogmatismo e anche molto di ciò che riguarda gli idola.
Idola sono le nostre immaginazioni, nei confronti delle idee di­
vine: le idee divine sono creatrici della realtà, che ne porta le
tracce nella sua struttura, e noi uomini possiamo raggiungere una
conoscenza vera solo se cerchiamo di seguire queste tracce, di ade­
guarci ad esse; se invece vogliamo anticipare con la nostra mente
quello che deve essere in realtà, se vogliamo proiettare le nostre
idee sulle cose, non raggiungiamo il sapere (N.O., I, 26), perché
le nostre idee non sono creatrici. Prima di aver descritto e inter­
pretato la natura possiamo avere solo immaginazioni, pre-concetti,
pre-giudizi. Idola chiama Bacone questi preconcetti e li raggruppa
sotto quattro tipi: idola tribus, idola specus, idola fori, idola
theatri.
I primi sono quelli che dipendono dalla natura umana, dalla
specie umana (tribù) e si potrebbero riassumere nella tendenza del­
l'uomo ad assumere ciò che appare come la realtà stessa delle cose.
Un primo grado, per dir cosl, di questa tendenza è quello di scam­
biare i dati sensibili con le proprietà dei corpi; ma su questo ar­
gomento, sul quale insisteranno tanto altri filosofi, Bacone non si
ferma molto. (N.O., I, 50). Insiste invece su ciò che appare all'in­
telletto, sulle proiezioni che l'intelletto umano compie sulle cose.
« L'intelletto umano è spinto dalla sua stessa struttura a suppor­
re nelle cose un ordine maggiore e un'eguaglianza superiore a
quella che effettivamente trova... Così è sorta l'idea che nei cieli
ogni movimento deve avvenire sempre secondo circoli perfetti...
Cosi è sorta l'idea dell'elemento del fuoco e della sfera, che fu
introdotta per completare la quaterna con gli altri tre elementi che
cadono sotto i sensi ... » (N.O., I, 45). È insomma la pretesa che
l'intelletto umano sia la misura delle cose, pretesa della quale
Bacone fa una specie di fenomenologia negli aforismi 46-48. L'in­
telletto umano subisce inoltre l'influsso della volontà e degli af­
fetti e tende ad affermare non ciò che è vero ma ciò che all'uomo
piace.
E qui passiamo al secondo gruppo di preconcetti: quelli ra­
dicati nel temperamento individuale (la spelonca). Nel descriver­
li Bacone mette sotto il fuoco della sua critica non solo Aristote-
18 FILOSOFIA MODERNA

le e gli alchimisti ma anche Gilbert, scopritore del magnetismo,


del quale Galileo parla invece con grande rispetto.
Gli idola fori sono i preconcetti che nascono dall'uso del lin­
guaggio: spesso si usano parole senza rendersi conto del loro si­
gnificato. Se volessimo adoperare una terminologia moderna do­
vremmo dire che, anche per Bacone, un compito preliminare della
filosofia è quello di domandarsi: « Che cosa vuoi dire precisa­
mente? ». Ma per Bacone questo è solo un compito preliminare,
mentre per neopositivisti e analisti esso esaurisce tutto il compito
della filosofia.
Gli idola theatri sono i preconcetti inculcati dalle scuole filo­
sofiche, e questi sono innumerevoli.
Per capire ora le critiche più determinate che Bacone rivolge
al sapere tradizionale teniamo presente il suo ideale pragmatisti­
co: « La scienza e la potenza umana coincidono, perché l'igno­
ranza della causa preclude l'effetto, e la natura si comanda (vin­
citur) solo ubbidendole; e ciò che nella teoria fa da causa, nel­
l'operazione fa da regola» (N.0., I, 3, trad. De Mas). Per la ri­
cerca di una tale scienza è inutile la logica tradizionale (N.O.,
I, 11). Dei filosofi greci si salvano solo i presocratici, perché stu­
diavano la natura; Platone, Aristotele, Zenone, Teofrasto sono
dei chiacchieroni, dei professori, dei sofisti. L'unica differenza
fra loro e i sofisti è che questi si facevano pagare e andavano in
giro per la Grecia, mentre quelli insegnavano gratis e stavano
fermi (N.O., I, 71), ma la sapienza o pseudo-sapienza, sia degli
uni come degli altri, non ha dato nessun frutto (N.O., I, 73). Nel
medioevo poi si è trascurato lo studio della natura perché si pen­
sava solo alla teologia (N.O., I, 79). Per elaborare una scienza
vera, bisogna avere un'idea esatta dello scopo del sapere; « Ora
l'unica meta vera e legittima di tutto il cammino delle scienze
è quella di dotare la vita umana di nuove scoperte e sostanze
(novis inventis et copiis)» (N.O., I, 81). E per arrivare a questo
scopo bisogna non aver troppa reverenza per gli antichi, perché
gli antichi sono bambini in confronto a noi: i veri antichi (cioè
quelli che hanno lunga esperienza) siamo noi (N.0., I, 84 ).
BACONE 19

4. Le due vie del sapere


« Ci sono e sono possibili due vie per la ricerca e la scoperta
della verità. L'una dal senso e dai particolari vola subito agli as­
siomi generalissimi, e giudica secondo questi principi, già fissati
nella loro immutabile verità, ricavandone gli assiomi medi; ed è
la via comunemente seguita. L'altra dal senso e dai particolari trae
(excitat) gli assiomi, salendo senza interruzione e per gradi, sl da
arrivare in ultimo agli assiomi generalissimi; questa è la vera via,
ma non è stata tentata» (N.O., I, 19. Ho modificato un poco la
traduzione del De Mas). Leggiamo ancora l'aforisma 22 che illu­
stra questo concetto. « L'una e l'altra via procedono dal senso e
dai particolari e terminano alle conoscenze più universali. Ma
differiscono enormemente, poiché l'una trascorre sull'esperienza
e sui particolari molto rapidamente (cum altera perstringat tantum
experientiam et particularia cursim ), l'altra vi si sofferma con or­
dine e criterio; l'una costituisce subito all'inizio concetti generali
tanto astratti quanto inutili, l'altra sale per gradi ai principi che
sono veramente più noti in sé (natur� notiora)».
Bacone dunque non rimprovera alla « via comunemente se­
guita », cioè alla fisica tradizionale, di non partire dall'esperien­
za: anche gli antichi, anche Aristotele partiva dall'esperienza, ma
avevano fretta di arrivare a principi universalissimi che spiegas­
sero tutti i fenomeni, e procedevano senza metodo.
La prima via descritta da Bacone risponde effettivamente a
certi procedimenti della « fisica» aristotelica. Nei primi capitoli
del De Ccelo, per esempio, che saranno oggetto anche della pole­
mica galileiana, dalla constatazione che i corpi celesti si muovo­
no di moto circolare e dall'affermazione che il moto circolare è
perfetto, perché perfetta (ossia compiuta) è la linea circolare -
mentre quella retta non ha principio né fine - si inferisce che i
corpi celesti sono perfetti, e quindi incorruttibili e specificamen­
te diversi dai corpi terrestri, che si muovono in su o in giù, ossia
in linea retta. Si crede di aver colto l'essenza dei corpi da una
loro qualità sensibile (il fuoco è caldo, l'aria è leggera) e di poter
dedurre da queste proprietà chi sa quali conseguenze. L'errore
degli antichi nello studio della natura è un certo ottimismo di
gioventù, come dice Bacone, per cui si crede con un colpo solo,
di poter scoprire la natura delle cose e di poter « volare» alle
20 FILOSOFIA MODERNA

verità fondamentali dalle quali dedurre tutte le altre. Non ci si è


resi conto che la sottigliezza, ossia la complessità della natura
supera grandemente la sottigliezza ( ossia l'acume) dei nostri sensi
e del nostro intelletto (subtilitas natur.:e subtilitatem sensus et in­
tellectus multis partibus superat - N.O., l, 10) e che perciò le
speculazioni e le dispute sulle pretese essenze colte al volo sono
vane (male sana).
Ora in nome di che cosa si può dire che la natura nella sua
complessità sfugge alle maglie del nostro intelletto? Lo si può
dire perché la fisica costruita sul presupposto che noi cogliamo
le essenze delle cose non approda a nulla, non ci fa scoprire nien­
te di nuovo, non ci fa prevedere nessun fenomeno naturale. In­
fatti, come osserva Bacone, tanto vale un sillogismo quanto val­
gono le sue premesse, e tanto valgono le sue premesse quanto
valgono le nozioni, i concetti coi quali sono formulate. Se le no­
zioni sono confuse, se non dicono niente di più di quello che at­
testa un dato sensibile, tutto il sillogismo sarà, sì, logicamente
corretto, ma approderà a risultati di nessun valore. E Bacone
conclude: « Perciò tutta la nostra speranza è l'induzione vera »
(N.O., I, 14).
Si osservi dunque che la critica non è rivolta al sillogismo
come procedimento logico, ma alle premesse di certi sillogismi e
al modo sbrigativo in cui si arriva a tali premesse. Ora siccome
il procedimento per arrivare alle premesse universali, agli assio­
mi, il procedimento col quale si sale dall'esperienza dei partico­
lari alle proposizioni universali è l'induzione, la speranza di otte­
nere premesse valide starà tutta nel far bene l'induzione: nell'in­
duzione vera come dice Bacone. Si tratta dunque di vedere che
cosa sia l'induzione vera, e questo sarà il compito della parte co­
struttiva, del secondo libro.

5. I caratteri del vero sapere

Prima però di spiegarlo, Bacone ribadisce quali sono i carat­


teri del vero sapere: « L'opera e il fine della potenza umana sta
nel generare e introdurre in un corpo dato una nuova natura o
più nature diverse » (N.O., II, 1 ). Bacone pensava ancora alle
speranze degli alchimisti, se non proprio di trasformare altri me-
BACONE 21

talli in oro, almeno di produrre l'argento mediante le fusioni del


piombo e mercurio, come osserva la nota del De Mas (I, 343);
ma l'idea di una tecnica trasformatrice dei corpi dati in natura
in altri più utili all'uomo è quella stessa che è stata perseguita dalla
tecnica moderna. Per trasformare i corpi bisogna conoscere la loro
natura o forma che è « fonte di emanazione » delle sue qualità.
Dobbiamo distinguere infatti secondo Bacone: 1) i corpi in­
dividui, concreti, che sono le sole cose esistenti (N.O., II, 2);
2) le nature semplici che caratterizzano i corpi, ossia le diverse
qualità dei corpi: p. es. il color giallo, il peso determinato, la
malleabilità che caratterizzano l'oro; 3) le forme, dalle quali de­
rivano le nature semplici, ossia le qualità profonde dalle quali
procedono le qualità sensibili. Perché l'oro è giallo, malleabi­
le, ecc.? Perché ha una determinata struttura, una determinata
qualità profonda. Bacone usa per indicare questa qualità profon­
da il termine aristotelico forma, ma si preoccupa di indicare quel­
la che egli ritiene sia la differenza fra il suo concetto di forma e
quello aristotelico: la forma baconiana è qualcosa di individuo e
di dinamico: scoprire la forma vuol dire scoprire la legge secon­
do la quale operano i corpi. Così sembra si possa interpretare il
testo non molto chiaro del Novum Organum, II, 2.
La filosofia della natura, come abbiamo visto, si divide in fisi­
ca e metafisica. La fisica risale dalle qualità sensibili al processo
nascosto (latens processus) che le genera (N.O., II, 5) e allo sche­
matismo nascosto (latens schematismus) (N.O., II, 7) cioè alla
struttura profonda dei corpi. Gli esempi che Bacone dà di latens
processus e di latens schematismus sono piuttosto sconcertanti:
non si vede come si sarebbe potuta costituire una scienza secon­
do i precetti estremamente vaghi di Bacone. « Il processo laten­
te ... è ben lontano dal poter essere facilmente concepito dalla men­
te umana, così piena di preconcetti com'è ora... Per esempio: in
ogni generazione e trasformazione dei corpi bisogna cercare che
cos'è che si perde e svanisce; che cosa permane e si aggiunge;
che cosa si dilata e si contrae; che cosa si unisce o si separa; che
cosa si continua o si divide; che cosa sospinge o trattiene; che
cosa domina o soggiace e molte altre cose » (N.O., II, 6). La ri­
cerca dello schematismo latente è paragonata all'anatomia: biso­
gna compiere anche per i corpi non viventi una ricerca, una spe­
cie di dissezione, analoga a quella che l'anatomia compie per co-
22 FILOSOFIA MODERNA

noscere le parti degli animali. Ma quando si vorrebbe sapere


come deve essere compiuta una tale dissezione ci sentiamo dire:
« Per esempio, sia da cercare che cosa appartenga in ogni corpo
allo spirito, che cosa all'essenza tangibile; e lo spirito stesso se è
abbondante o gonfio, oppure scarso e scarno; tenue o corpulen­
to; simile più all'aria o più al fuoco [ ... ] . E lo stesso per l'essen­
za tangibile, che non ha differenze minori dello spirito, e i suoi
villi e fibre e connessioni di ogni genere; e poi la collocazione del­
lo spirito nella sostanza corporea, e i pori, i condotti, le vene, le
cellule, e tutti i rudimenti o tentativi del corpo organico » (N.O.,
II, 7).
Tutto questo è ancora compito della « fisica », poiché il pro­
cesso e lo schematismo, anche se sono latenti, cioè nascosti, rispet­
to alle qualità sensibili, sono a loro volta espressioni di qualcosa
di ancora più radicale che è la forma, oggetto della « metafisica ».
Poiché la forma, come abbiamo visto, si identifica con la legge,
quando si scopre la forma si scopre anche la legge del comporta­
mento di un fenomeno, e la legge si esprime con un assioma, con
un principio fondamentale che regola tutti i processi di quella
data natura.
L'assioma si scopre con l'induzione vera. La quale deve par­
tire dalla osservazione dei fatti, da « una storia naturale e speri­
mentale che sia sufficiente ed esatta » e deve poi ordinare i fatti
cosi raccolti (N.O., II, 10).
Il primo passo è costituito dalla tabula praesentiae: « si deve
fare una citazione di fronte all'intelletto di tutte le istanze note
che s'accordano in una stessa natura, anche se si trovano in ma­
terie diversissime » (N.O., II, 11), cioè si devono enumerare tutti
i fatti nei quali si presenta un determinato fenomeno. L'esempio
di Bacone è il calore, e Bacone ci presenta ventisette « istanze
che convengono nella natura del caldo ». In queste troviamo enu­
merati: 1) i raggi del sole soprattutto d'estate e nel mezzogior­
no, 6) ogni fiamma, 13) tutto ciò che ha pelo folto, 18) calce
viva cosparsa di acqua, 20) gli animali, soprattutto e sempre nelle
interiora, 26) l'aceto forte applicato alle spellature, e, infine 27)
anche il freddo intenso che produce un senso di bruciore.
Il secondo passo è costituito dalla tabula absentiae: « si deve
fare una citazione, di fronte all'intelletto, di quelle istanze che
sono prive della natura data [ ... ] in quei soggetti che sono molto
BACONE 23

simili agli altri, nei quali è presente e compare la natura data»


(N.O., II, 12). Il che vuol dire: come nella tabula praesentiae si
devono enumerare casi diversi nei quali si presenta un medesimo
fenomeno (nell'esempio baconiano: il calore), nella tabula absen­
tiae si devono enumerare casi simili a quelli enumerati nella ta­
bula praesentiae, nei quali il fenomeno studiato (il calore) manca.
All'esempio 1) della tabula praesentiae Bacone fa corrispondere i
casi nei quali i raggi del Sole non riscaldano, e cioè « nella media
regione dell'aria»; all'esempio 6) fa corrispondere il fuoco fatuo
che ha poco calore « forse quanto lo spirito di vino che è legge­
ro e mite» e « quella fiamma che, secondo certe storie serie e si­
cure, si è mostrata attorno al capo e ai capelli dei fanciulli e delle
fanciulle, senza bruciare...» (N.O., II, 12). All'esempio 13) le
fibre del lino; al 18) la calce cosparsa di olio; agli esempi 20 e 26
non si contrappone nessuna istanza negativa.
Il terzo passo è la tabula graduum: bisogna enumerare i casi
nei quali la « natura » studiata è presente più o meno. Per es. i
corpi solidi non sono mai « caldi naturalmente » (N.O., II, 13, I).
« Secondo la tradizione astronomica alcune stelle sono più calde,
altre meno. Tra i pianeti, dopo il Sole, Marte è considerato come
il più caldo, ecc. » (ibid., XV). « Il Sole riscalda tanto più quan­
to più cade a perpendicolo ... » (ibid., XVI).
Dopo questi procedimenti si può arrivare ad una esclusione:
si può escludere, cioè, che la natura studiata sia incompatibile
con una delle istanze in cui essa è presente. Per esempio: « Per
i raggi del Sole, respingi la natura elementare». Cioè: siccome
il Sole non è uno dei quattro elementi, e il calore si trova nei
raggi del Sole, il calore non è un elemento. « Per l'acqua bollente
e l'aria ... respingi la luce e il lume » 2 (N.O., II, 18, I e V). Cioè:
siccome il calore si trova nell'acqua bollente e nell'aria, che non
sono luminosi, il calore non è luce.
Quindi si può fare una vindemiatio prima, ossia una prima
ipotesi, che dovrà poi essere verificata dall'esperienza, specialmen­
te con quegli esempi privilegiati (praerogativae instantiarum) dei
quali Bacone fa una lunga enumerazione, distinguendone vari tipi.

2
La distinzione fra lux e lumen è una distinzione medievale, che si trova in
Guglielmo Grossatesta, in S. Bonaventura e forse in altri: la luce è forma sostanziale,
il lumen è una forza attiva che emana dal corpo luminoso.
24 FILOSOFIA MODERNA

Non li citerò perché le considerazioni di Bacone sono analoghe a


quelle che egli fa sulla natura del calore, e queste sono già suffi­
cienti a mostrarci come il metodo suggerito da Bacone sia, almeno
nei suoi precetti specifici, vago, fantasioso e inattuabile o certo
inattuato dalla scienza moderna.
Anche il fatto che la vindemiatio prima sulla natura del calo­
re porti a dire che il calore è movimento non mi sembra signifi­
care gran che. Alcuni storici hanno dato molta importanza a que­
sta ipotesi baconiana, vi hanno visto una anticipazione della teo­
ria cinetica dei gas, ma non è il fatto di avere azzeccato una tesi
che sarà poi accettata da scienziati quello che importa: è il modo
in cui ci si arriva! Ora il modo, il metodo col quale Bacone arri­
va a quella conclusione è assai diverso da quello della scienza
moderna.
Ci sembra dunque che Bacone abbia un'idea ancora medieva­
le della filosofia della natura, e che la scienza da lui vagheggiata
sia qualcosa di molto diverso da quella che sarà la nuova scienza e
sia da ridimensionare l'idea di un Bacone creatore del metodo spe­
rimentale 3• Ma occorre mettere in rilievo anche quei punti che
abbiamo sottolineato all'inizio e che si potrebbero sintetizzare in
questo: non si arriva di colpo a conoscere la natura: subtilitas
naturae subtilitatem sensus et intellectus multis partibus superat...
La natura va presa d'assedio, per dir così. Galileo dirà: « Estrema
temerità mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la
capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la na­
tura ... ». Anche se Bacone non ci ha dato buoni precetti per la
strategia dell'assedio, ha sempre avuto il merito di sottolineare
che si tratta di un processo lungo e faticoso. Ad una interpreta­
zione semplicistica dell'intelligere come intus legere, quasi che
l'intelletto umano potesse intuire le essenze delle cose, Bacone
ha contrapposto l'interpretazione dell'intelligenza come di una fa­
ticosa conquista.

' Ma si veda ancora il saggio citato di P. Rossr, Venti, maree, ipotesi astronomiche
in Bacone e in Galilei, nel volume Aspetti della rivoluzione scientifica.
BACONE 25

6. Vetica

Abbiamo sottolineato la concezione pragmatica del sapere in


Bacone. Tale concezione corrisponde in certo modo all'etica di
Bacone, al suo ideale umano quale si trova esposto nel libro set­
timo del De dignitate et augmentis scientiarum. L'etica fa parte
della scienza dell'uomo e ne è una delle parti più interessanti,
molto più della logica che è « la meno attraente al gusto e al pa­
lato di molti ingegni, che non vi vedono altro che una serie di
lacci di difficoltà e di sottigliezze inutili» (De augm., V, 1, trad.
De Mas, voi. II, p. 241). Sarà un cibo celeste, ma viene a noia
come la manna agli Ebrei nel deserto, e come gli Ebrei desidera­
vano pentole piene di carne, cosl « le scienze che si gustano di più
sono quelle che hanno qualche cosa di più succulento e carnoso,
come la storia civile, la morale, la politica» (ibid., p. 241). Ve­
diamo dunque cosa ci fornisce Bacone di questo cibo succulento
che è l'etica.
Anche qui egli comincia con la critica dell'etica antica, che ci
ha dato bellissimi esempi di virtù, ma non ci ha detto come si ar­
rivi a praticarla. Forse ciò è avvenuto perché gli scrittori sdegna­
vano di occuparsi di cose comuni e plebee. « Certo, se gli uomi­
ni non avessero avuto a cuore di comporre opere oziose per let­
tori oziosi, ma di istruire davvero e rifornire la vita attiva, non
terrebbero questa georgica dell'animo umano 4 in un conto mino­
re di quelle eroiche descrizioni della virtù, del bene, della felici­
tà, delle quali si sono tanto laboriosamente occupati» (op. cit.,
trad. cit., pp. 374-75).
L'etica si divide in due parti: dottrina dell'ideale (de exem­
plari sive imagine boni) e dottrina della cultura dell'animo (in so­
stanza: delle virtù). Ma della prima, ossia del sommo bene, della
felicità, è inutile parlare, perché il Cristianesimo ci ha insegnato
che la felicità sarà nell'altra vita e quindi ci ha liberato dalla dot­
trina del sommo bene. Della virtù gli antichi avrebbero detto cose
più utili se, invece di dare subito regole, precetti, avessero cerca­
to le radici del bene e del male, che sono nella natura. Ora è in­
sita nella natura una tendenza a due specie di bene: al bene indi-

• Cioè quest'arte di coltivare le virtù nell'animo umano.


26 FILOSOFIA MODERNA

viduale e al bene comune (bonum communionis). Per esempio: il


ferro tende al magnete (che sarebbe il bene suo proprio, il bene
individuale), ma quando è più pesante tende ad unirsi agli altri
corpi, come un buon cittadino: tende cioè alla Terra. I corpi den­
si e pesanti tendono alla Terra, ma, pur di non lasciar posto al
vuoto (e quindi dividersi dagli altri corpi) vanno anche in alto.
Cosl l'uomo, se non è degenere, preferisce il bene comune al bene
proprio. E qui Bacone, che aveva tanto criticato gli antichi per i
loro esempi di virtù eccelse, cita invece proprio un esempio an­
tico, quello di Pompeo Magno che si imbarca col mare cattivo,
in cerca di viveri per sopperire alla carestia e, trattenuto dagli
amici risponde: necesse est ut eam, non ut vivam.
Posto questo, come principio inconcusso, si risolve anche il
problema del primato della vita attiva o contemplativa: contro
Aristotele si deve affermare il primato della vita attiva, perché la
vita contemplativa riguarda solo il bene privato, mentre la vita atti­
va giova alla società umana. « Verum homines nosse debent, in hoc
humanae vitae theatro, Deo et angelis solum convenire, ut spectato­
res sint » (ibid., p. 378). Dopo questa affermazione ci aspetteremmo
una dura condanna della vita monastica; invece (forse per ragioni
tattiche) Bacone sostiene che anche la vita monastica è attiva e met­
te nel conto delle attività anche lo studio e la preghiera.
La tesi della superiorità della vita attiva risolve anche la que­
stione su ciò in cui consiste la felicità: hanno torto sia gli Stoici
come gli Epicurei, perché sia il piacere come la virtù stoica sono
beni individuali. La virtù stoica mira alla tranquillità dell'animo,
a liberarci dai capricci della fortuna « come se non fosse cosa
molto più felice esser privi e mancare di successo nelle imprese
rette e generose rivolte al pubblico bene che riuscire sempre in
tutto ciò che si desidera per la propria privata fortuna » (ibid.,
p. 379; ho modificato la traduz.).
Il primato della vita attiva confuta anche il falso concetto di
una filosofia come una professione (genus vitae pro/essorium) o
un'arte. La filosofia non ha per scopo la salute e la tranquillità
dell'anima, ma il dar la forza di combattere le difficoltà che si tro­
vano nella vita sociale. « Per ciò il solo animo che deve essere
reputato veramente sano e vigoroso è quello che sa passare attra­
verso i turbamenti e le più grandi tentazioni » (ibid., p. 380).
E infìne il primato della vita attiva condanna quella delica-
BACONE 27

tezza (teneritudinem quandam et ineptitudinem ad morigerandum) 5


caratteristica di certi antichi filosofi, e spesso dei più venerati, che
li induceva a ritrarsi dalla vita politica proprio per timore di spor­
carsi le mani, come se la loro purezza fosse una tela sottile, che
può essere rotta facilmente, mentre deve essere una tela robusta
che resiste alla lotta.
Bacone cerca poi ( cap. 2) di giustificare questa affermazione
del primato della vita attiva anche per ciò che riguarda il bene
individuale, che distingue in attivo e passivo, e così spiega meglio
che cosa intenda con bene attivo. Fedele al principio che il fon­
damento del bene è nella natura, egli osserva che in tutte le cose
si può distinguere un duplice appetito, una duplice tendenza,
quella a conservarsi e difendersi e quella a moltiplicarsi e propa­
garsi. La prima dà luogo al bene passivo, la seconda al bene atti­
vo, e la seconda è superiore alla prima. Il perché di questa su­
periorità Bacone non ce lo dice: si limita a far degli esempi: i
corpi celesti, che sono i più perfetti, sono attivi; il piacere di
generare è più grande di quello di mangiare; la Scrittura dice:
« meglio dare che ricevere ». « Di più: anche nella vita ordina­
ria non c'è uomo di carattere tanto molle ed effeminato, che non
sia più contento di condurre a termine un'impresa che gli sta a
cuore, che di gustare qualche piacere sensuale» (op. cit., VII,
2, trad. De Mas, p. 382). E questo, anche perché il piacere pas­
sa rapidamente, mentre le opere rimangono 6•
Un carattere attestante la superiorità del bene attivo è che
esso può variare ed esser sempre nuovo, mentre il piacere è mo­
notono, tanto che Seneca diceva: vita sine proposito languida et
vaga est (Epist. 95, § 46).
Non crediamo però che il bene attivo individuale, solo per il
fatto che è un'attività che si espande fuori dell'individuo stesso,
si identifichi col bene comune. Talora essi coincidono, ma non
sempre. Talora chi fa, chi produce, fa cose che giovano agli altri,
ma talora gli uomini agiscono non per giovare agli altri, ma per

' De Mas traduce: « quella eccessiva suscettibilità, quella incapacità di adatta-


mento» {II, p . .381).
• Si noti quindi come Bacone non veda altra alternativa: o azione o piacere.
Azione, opere, per lui si identificano con quella che gli scolastici chiamano azione
transitiva, ossia fare. Sembra che i Dialoghi di Platone e l'Iliade non siano «opere».
28 FILOSOFIA MODERNA

volontà di potenza, come fanno « i grandi perturbatori del mon­


do», come fu per esempio Silla.
Il bene passivo si divide in bene della conservazione e del
perfezionamento. Il primo « non è che l'acquisizione e il godimen­
to delle cose conformi alla nostra natura» (ibid., p. 385) ed è
il livello più basso di bene. A questo basso livello appartiene
quella tranquillità dell'animo tanto esaltata dai fìlosofì, da Socra­
te per esempio, nel Gorgia di Platone. E qui è molto significativo
che Bacone preferisca la tesi di Callicle a quella di Socrate. Egli
presenta la tesi di Callicle così: la felicità « consiste nel molto de­
siderare e molto godere» (p. 386 ). Curioso. Prima il piacere sta­
va dalla parte del bene passivo, ora sta dalla parte del bene atti­
vo. Non solo: ma la tesi di Callicle è che giusto è ciò che piace al
più forte, e Bacone non sembra condividere questa tesi. Certo
l'affermazione del primato dell'azione, che sembra tanto evidente,
dà luogo a qualche aporia.
Ma seguiamo ancora Bacone nella sua polemica contro gli an­
tichi filosofi. che hanno affermato il primato della contemplazio­
ne: se già lo irrita Socrate perché afferma, secondo lui, che il bene
sta nella tranquillità dell'animo, figurarsi come lo scandalizza la
frase messa in bocca a Socrate da Platone nel Pedone che la filo­
sofia è preparazione alla morte (mortis quandam praeparationem
et disciplinam ), un imparare a morire. « In tutte le cose i filosofi.
si sono sforzati di rendere l'anima umana troppo uniforme e trop­
po armonica, senza abituarla agli impulsi contrastanti ed estremi »
(p. 387). Il motivo di questo errore sta nel fatto che essi si de­
dicarono a una vita più libera da impegni e doveri verso gli altri.
Gli uomini invece dovrebbero imitare, nella loro condotta, la pru­
denza dei tagliatori di pietre preziose, che lasciano una macchio­
lina nella gemma quando non potrebbero toglierla senza troppo
detrarre alla grandezza della pietra.
Dopo aver parlato del bene privato, Bacone passa al bene co­
mune, al bene della società, e afferma che solo in rapporto alla
società si può parlare di dovere ( officium), mentre la virtù riguar­
da « l'animo ben formato e disposto in se stesso» (parrebbe, dun­
que, che la virtù si riferisse al bene privato).
La dottrina del dovere non riguarda solo la scienza civile,
ma anche il dominio di sé, e si divide in due parti: i doveri del­
l'uomo in generale e i doveri specifici degli uomini delle diverse
BACONE 29

professioni. Solo dei primi hanno trattato gli antichi, mentre ha


una grande importanza la parte che riguarda i doveri specifici; e
qui Bacone, da buon cortigiano, si profonde in lodi per l'opera
di Giacomo I (Sul dovere di un re). Ora questa parte deve essere
fondata sull'esperienza: i trattati che non sono fondati sull'espe­
rienza « ma sono ricavati solo da conoscenze generali e scolasti­
che sono vani ed inutili» (p. 388). Spetta a questa etica specia­
le trattare anche dei vizi degli uomini, ed in questo è stato gran­
de Machiavelli: gli dobbiamo essere grati perché ci ha descritto
l'uomo come è, non come deve essere. Diremmo oggi che Bacone
sottolinea l'importanza della fenomenologia della vita morale per
la costruzione dell'etica. E anche più ne sottolinea l'importanza
nella seconda parte dell'etica (la prima era dedicata al bene): quel­
la dedicata alla cultura dell'animo.
Ora per sapere cosa possiamo fare di noi stessi, come ci dob­
biamo coltivare, dobbiamo sapere prima che cosa è in nostro po­
tere e che cosa no. Come l'agricoltore non può mutare la natura
del suolo o le stagioni, e il medico non può modificare la costitu­
zione del paziente, così l'educatore morale non può cambiare il
temperamento dell'educanda o di se stesso se vuol educare se stes­
so. Bisogna insomma, anche qui, come nella scienza della natura,
descrivere prima di prescrivere. E per istruirci sui diversi tempe­
ramenti e sulle diverse disposizioni umane (affetti, passioni) mol­
to giovano gli storici, non quando fanno il panegirico dei grandi
uomini, ma quando ce li descrivono come sono, e i poeti, abili a
dipingere le passioni umane (p. 401).
Possiamo dunque dire che Bacone mette in rilievo l'importan­
za dello studio dell'uomo, della psicologia, come base della mo­
rale. Solo dopo aver descritto l'uomo come è. potremo vedere che
cosa possiamo farne, ossia che cosa è in nostro potere. Qui Ba­
cone insiste sulla importanza delle abitudini e poi dà qualche con­
siglio di ascetica: per rafforzare le buone disposizioni dell'animo
giovano le ferme risoluzioni, i voti; per neutralizzare quelle cat­
tive la penitenza. Ma osserva poi: « Ma questa parte sembra ap­
partenere propriamente alla religione; e non c'è da meravigliarsi,
perché la filosofia morale vera e genuina è, come si è già detto,
ancella della teologia » ( p. 406 ).
CAPITOLO SECONDO

GALILEO
( 1564 - 1642)

Troveremo anche in Galileo il motivo che ci è parso pm va­


lido della metodologia di F. Bacone: cioè quello della complessi­
tà della natura, della necessità di prenderla quasi d'assedio per
approssimarsi ad essa; ma in Galileo troveremo anche la strate­
gia dell'assedio, e i « nuovi precetti d'architettura » che egli pro­
pone per la costruzione del sapere scientifico sono molto più pre­
cisi degli insegnamenti baconiani.

* GALILEO GALILEI, Opere, Edizione Nazionale, Firenze, Barbera, 1890-1909, 20


voll.; ristampata dal 1929 al 1934 e nel 1968. Una buona scelta di opere e lettere è
quella curata da F. BRUNETTI, in 2 voll. per la U.T.E.T., 1964 (voi. I: La bilancetta,
Trattato di fortificazione, Le Mecaniche, Le operazioni del compasso geometrico e mi­
litare, Sidereus Nuncius, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, Discorsa
intorno alle cose che stanno in su l'acqua, Il Saggiatore, una scelta di Lettere; voi. II:
Dialogo sui Massimi sistemi, Discorsi e dimostrazioni matematiche). Dei Discorsi e di­
mostrazioni matematiche c'è un'ottima edizione con note di A. CARUGO e L. GEYMONAT,
Torino, Boringhieri, 1958. Un'ampia scelta di Opere è pure quella curata da S. T1M­
PANARO per l'Editore Riz.zoli, Milano, 1936-38, in 2 Yoll. (contiene: Dialogo dei mas­
simi sistemi, Le Mecaniche, La Bilancetta, Sopra le scoperte de i dadi, Discorso im-,
torno alle cose che stanno in su l'acqua, Discorso delle comete, una scelta di Lettere,
Discorsi e dim. matematiche, Il Saggiatore). Su Galileo ricordo: Nel terw centenario
della morte di G. G., volume miscellaneo pubblicato dall'Università Cattolica del S.
Cuore, Milano, 1942; Nel quarto centenario della nascita di G. G., ibidem, 1966. A.
BANFI, Vita di G. G., 1• ed. 1930; 2• ed. Milano, Feltrinelli, 1962; A. KoYRÉ, Etudes
galiléennes, Paris, Hermann, 1939 (2• ed. 1966); G. de SANTILLANA, The Crime of
Galileo, Chi.cago, 1955 (trad. it. Processo a Galileo, Milano, Mondadori, 1960); L.
GEYMONAT, Galileo Galilei, Torino, Einaudi, 1957; F. SoccoRSI, Il processo di G., Ro­
ma, Civiltà Cattolica, 2" ed. 1963; A. BANFI, Galileo Galilei, Milano, Il Saggiatore,
1961; Galilée. Aspects de sa vie et de son oeuvre, Paris, P.U.F., 1968; M. CLAVELIN,
La philosophie naturelle de Galilée, Paris, A. Colin, 1968. Mi permetto di rimandare
anche alla mia Antologia galileiana, Brescia, La Scuola, 1974'.
32 FILOSOFIA MODERNA

VITA E OPERE

1. Il periodo pisano

Galileo aveva iniziato a Pisa, sua città natale, lo studio della


medicina nel 1581, ma il suo gusto per l'osservazione e per il
rigore del ragionamento non dové trovare soddisfazione in quel­
lo studio, La medicina non è neppure oggi una scienza rigorosa
- e lo era anche meno allora, - ma allora non era neppure una
scienza saldamente fondata sull'osservazione: molto vi si insegna­
va sull'autorità di testi divenuti classici, più che sull'osservazione
del corpo umano. Può darsi che l'episodio che Galileo fa raccon­
tare a Sagredo nel Dialogo dei Massimi Sistemi (giornata 2\ Ope­
re, VII, pp. 133 ss.) del « filosofo peripatetico» che, di fronte
ad una dissezione anatomica che mostra come i nervi derivino dal
cervello e non dal cuore, si rifiuta di accettare il dato evidentis­
simo di esperienza in nome dell'autorità di Aristotele, sia carica­
turale, come è qualche volta caricaturale il Simplicio del Dialogo,
ma indubbiamente quelle che avrebbero dovuto essere scienze fon­
date sull'osservazione e l'esperimento si insegnavano in gran parte
sui testi.
Si capisce quindi che il giovane Galileo si appassionasse alla ma­
tematica più che alla medicina. Cominciò a studiare matematica pri­
vatamente, sotto la guida di Ostilio Ricci, un discepolo del Tartaglia,
mentre era ancora iscritto alla Facoltà di medicina, e fece tali pro­
gressi che il padre, da principio ostile a che egli mutasse genere di
studi, gli permise di dedicarsi interamente o quasi alla matematica.
Ma dové studiare anche la filosofia della natura o physica.
Se guardiamo gli scritti raccolti nel primo volume delle Opere
sotto il titolo Juvenilia e che, secondo il Favara, sebbene autogra­
fi, forse non sono di Galileo (forse sono appunti presi da Galileo ai
corsi universitari), vediamo che hanno un carattere nettamente
scolastico-medievale: vi è una mescolanza di temi che noi oggi chia­
meremmo scientifici e temi filosofico-teologici: osservazioni sul mo­
to degli astri, sul numero dei cieli, e problemi sulla creazione e
l'eternità del mondo. All'Università di Pisa insegnava Francesco
Buonamici, autore di un De motu d.i cui A. Koyré ha dati ampi
estratti nelle sue Etudes Galiléennes. II trattato del Buonamici pas­
sa in rassegna le varie teorie sul moto, e dalla sua rassegna si vede
GALILEO 33

che già nel medioevo notevoli obiezioni erano mosse alla teoria ari­
stotelica del moto, specie per quello che riguarda il moto dei gravi
e dei proietti: per Aristotele il moto dei gravi è un moto « natu­
rale», la causa di esso è la tendenza insita nei corpi terrestri verso
il basso e la velocità di tale moto è proporzionale al peso. Ma il
moto dei proietti è un moto « violento», quindi deve essere deter­
minato da qualcosa di esterno che, per Aristotele, è l'aria circostan­
te. Contro tale teoria si afferma, fin dal secolo VI d.C., la teoria
dell'impetus, secondo la quale la causa del moto sarebbe, appunto,
una forza impressa nello stesso corpo in movimento.
Le teorie sul moto sono discusse dal Buonamici con argomenti
razionali più o meno probabili, nello stile delle quaestiones scola­
stiche. Forse allude a questo genere di dispute Galileo quando, nel
Saggiatore, dice di provar nausea quando sente certe dispute nelle
quali ingolfava mentre era ancora sotto il pedante (Opere, VI, p.
245). Ma fin dal giovanile De motu (1590) Galileo preferisce un
altro metodo: ut semper dicenda ex dictis pendeant: cioè che le
conclusioni dipendano dalle premesse e non si suppongano mai co­
me vere le cose ancora da dimostrare; metodo che mi insegnarono
i miei maestri matematici, e che è poco seguito dai filosofi (Opere,
I, p. 285). Quarant'anni dopo, in piena maturità, a Simplicio scan­
dalizzato perché Salviati ha rimproverato ad Aristotele un errore
di ragionamento, a quell'Aristotele che ha creato la logica, Salviati
risponde: « ... la logica, come benissimo sapete, è l'organo col quale
si filosofa; ma, sì come può essere che un artefice sia eccellente in
fabbricare organi, ma indotto nel sapergli sanare, cosl può esser un
gran logico, ma poco esperto nel sapersi servir della logica ... Il so­
nar l'organo non s'impara da quelli che sanno far organi, ma da
chi gli sa sonare; la poesia s'impara dalla continua lettura de' poe­
ti... il dimostrare, dalla lettura de i libri pieni di dimostrazioni che
sono i matematici soli e non i logici» 1•
Ma se la matematica offre il modello del ragionamento, del« di­
scorso» rigoroso, è l'esperienza che deve riempire il discorso. La
matematica non è l'oggetto finale dello studio di Galileo: è per lui
lo strumento indispensabile per conoscere la natura. Non si tratta
per lui di escogitare una teoria per « salvare i fenomeni», cioè una

1
Dialogo, giorn. 1" in Opere, VII, p. 59.
34 FILOSOFIA MODERNA

ipotesi che dica: le cose vanno come se questa teoria si realizzasse;


si tratta per lui di pensare le cose cosi come sono, come osserva il
Dubarle: penser ce qui se passe 1 bis. È quello che Galileo dice nella
pagina famosa del Saggiatore: « La :filosofia è scritta in questo gran•
dissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi
(io dico lo Universo), ma non si può intendere se prima non s'im­
para a intender la lingua e i caratteri ne' quali è scritto. Egli è scrit­
to in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre
figure geometriche... » (Opere, VI, p. 232).
La matematica è dunque per lui un alfabeto per leggere la na­
tura: oltre al discorso occorrono le sensate esperienze. Fin dal suo
periodo pisano, dove era stato nominato professore di matematica
già dal 1589, Galileo fa esperienze: ne abbiamo una prova ne La
bilancetta, del 1586, nella quale Galileo ricostruisce la bilancia
idrostatica di Archimede, dopo aver osservato che le rozze descri­
zioni che se ne davano usualmente non spiegavano il procedimento
che Archimede aveva usato per scoprire la presenza di argento nel­
la corona di Ierone. Galileo descrive esattamente come si deve co­
struire la bilancia per rendersi conto del modo « sottilissimo » ed
« esquisito » del procedimento archimedeo. Questo collaborare
di esperienza e « discorso », ossia ragionamento matematico, si ri­
trova pure ne Le Mecaniche (1593 e 1597), subito tradotte in
francese da Mersenne.
Ma sopra tutto a Padova, dove Galileo ha una piccola officina
e assume un meccanico per costruirgli strumenti, vediamo questo
associarsi di scienza e tecnica nell'opera di Galileo.

2. A Padova

A Padova Galileo si trasferi nel 1592. Non si trovava bene a


Pisa, in un ambiente tradizionale nelle idee e nei gusti: i versi
satirici Del portar la toga mettono in luce il contrasto fra la veste
solenne dei professori pisani e le loro piccole miserie economiche
e sociali.
A Padova si respirava più liberamente: l'Università aveva una

Ibis La méthode scientifique de Galilée nel vol. cit. Galilée. Aspects de sa vie et de
son oeuvre, p. 98.
GALILEO 35

fama europea - vi avevano studiato Nicolò Cusano e Coper­


nico - e stava molto a cuore alla Repubblica di Venezia, che la
difendeva come una sua gloria. I professori vi godevano la massima
Jibertà che fosse consentita dalle leggi e dai costumi dell'epoca.
Come professore di matematica doveva far lezioni anche di
astronomia, e le fece secondo il sistema tolemaico, ma sappiamo,
da lettere del 1597, che egli seguiva da molti anni la teoria coper­
nicana, e le scoperte astronomiche che egli fece nel 1610 gli con­
fermarono decisamente il valore di questa teoria « fisica », cioè
esprimente la realtà, esprimente ce qui se passe, per usare la frase
del Dubarle.
E qui occorre dire due parole del cannocchiale. Nel Sag­
giatore, al Sarsi che aveva chiamato il cannocchiale « allievo »
di Galileo, e non figlio, Galileo risponde con una certa irritazione.
« Qual parte io abbia nel ritrovamento di questo strumento... l'ho
gran tempo fa manifestato nel mio Avviso Sidereo 2, scrivendo come
in Vinezia, dove allora mi ritrovavo, giunsero nuove che al Sig.
Conte Maurizio 3 era stato presentato da un Olandese un occhiale
col quale le cose lontane si vedevano cosl perfettamente come se
fussero state molto vicine; né più fu aggiunto. Su questa relazione
io tornai a Padova, dove allora stanziavo, e mi posi a pensar sopra
tal problema, e la prima notte dopo il mio ritorno lo ritrovai,
ed il giorno seguente fabbricai lo strumento, e ne diedi conto a
Vinezia a i medesimi amici co' quali il giorno precedente ero stato
a ragionamento sopra questa materia. M'applicai poi subito a fab­
bricarne un altro più perfetto, il quale sei giorni dopo condussi a
Vinezia, dove con gran meraviglia fu veduto quasi da tutti i prin­
cipali gentiluomini di quella repubblica, ma con mia grandissima
fatica, per più d'un mese continuo [ ... ]
« Fu dunque tale il mio discorso. Questo artificio, o costa d'un

2
È il Sidereus Nuncius, opera pubblicata da Galileo nel 1610, nella quale annun­
ciava la scoperta dei satelliti di Giove, fatta appunto per mezzo del telescopio.
3
Maurizio d'Orange. « In verità il 25 febbraio del 1608 l'occhialaio Giovanni
Lippersey di Wesel aveva offerto a Maurizio d'Orange un cannocchiale e mentre prov­
vedeva a perfezionarlo per ottenere il privilegio, il 17 ottobre dell'anno stesso Jacopo
Adriaanzon di Akmaer annunciava agli Stati Generali la fabbricazione di un altro di
tali strumenti. Nel volger dell'anno l'invenzione era portata in Francia, cosl che nel­
l'aprile del 1609 se ne vendevano per Parigi alcuni esemplari. In Italia la notizia di tale
strumento, a detta del Sarpi, era giunta dal novembre 1608 al gennaio 1609, ma gli
esemplari avevano tardato a comparire». A. BANFI, Vita di Galileo Galilei, pag. 71.
36 FILOSOFIA MODERN

vetro solo, o di più d'uno. D'un solo non può essere, perché la sua
:figura o è convessa, cioè più grossa nel mezo che verso gli estremi,
o è concava, cioè più sottile nel mezo, o è compresa tra superficie
parallele: ma questa non altera punto gli oggetti visibili col cre­
scergli o diminuirgli; la concava gli diminuisce, e la convessa gli ac­
cresce bene, ma gli mostra assai indistinti ed abbagliati; adunque
un vetro solo non basta per produr l'effetto. Passando poi a due, e
sapendo che 'l vetro di superficie parallele non altera niente, come
si è detto, conclusi che l'effetto non poteva né anco seguir dall'ac­
coppiamento di questo con alcuno degli altri due. Onde mi ristrinsi
a volere esperimentare quello che facesse la composizione degli al­
tri due, cioè del convesso e del concavo, e vidi come questa mi dava
l'intento: e tale fu il progresso del mio ritrovamento, nel quale di
niuno aiuto mi fu la concepita opinione della verità della con­
clusione» (Opere, VI, pp. 257-59).
Sulla parte avuta da Galileo nella scoperta del cannocchiale o
telescopio e sul modo in cui vi pervenne si è molto discusso 4• Già
nel 1589 G. B. Della Porta aveva parlato di lenti capaci di ingran­
dire gli oggetti, ma, a detta di V. Ronchi, le sue teorie erano po­
co attendibili. Nel 1604 Keplero aveva esposto una teoria ottica
che offriva la base per la costruzione del telescopio, ma non l'aveva
applicata egli stesso. C'erano sl degli artigiani che fabbricavano
cannocchiali, come quello che probabilmente aveva visto Galileo,
ma estremamente imperfetti. Insomma c'erano scienziati - e di
grande valore, come Keplero - che però non fabbricavano cannoc­
chiali e artigiani che li fabbricavano, ma poiché non avevano no­
zioni scientifiche sufficienti, li fabbricavano male: Galileo fu il pri­
mo a fabbricarne uno e molto più perfetto di quelli che circolavano,
anche se attribui troppo a se stesso e riconobbe troppo poco il con­
tributo che altri poteva aver dato all'invenzione.
Altro problema: l'invenzione - o almeno il perfezionamento
- del cannocchiale è stato ottenuto da Galileo con un ragionamen­
to, come dice lui nel passo citato del Saggiatore, o attraverso espe­
rienze ripetute? Qui entra in giuoco l'interpretazione generale del
pensiero galileiano: chi sottolinea il platonismo di Galileo, come
il Koyré, vede una conferma della propria interpretazione nella rela-

• Si veda l'opera di V. RoNCHI, Galileo e il suo cannocchiale, 2• ed. Torino, Borin­


ghieri, 1964.
GALILEO 37

zione che Galileo fa della propria scoperta; chi sottolinea il carat­


tere sperimentale della ricerca galileiana, con il Geymonat e il
Carugo, presta poca fede alla relazione del Saggiatore. Osserverei
che, anche se Galileo è arrivato a fabbricare il telescopio per suc­
cessive prove, le prove (specie per un uomo come Galileo, che
non è un artigiano ignorante e geniale, ma un uomo con una for­
mazione matematica e scientifica) suppongono sempre una ipotesi,
e l'ipotesi va poi verificata. Nel Sidereus Nuncius, scritto poco
dopo, Galileo parla di rationes inquirendae e di media excogitan­
da: ragionamento scientifico e applicazione tecnica, senza esclu­
sione dell'uno o dell'altra.
Certo Galileo riusci a fare un telescopio molto più perfetto
di altri e lo adoperò ad esplorare il cielo.
Ciò che vide incredibili animi iucunditate, con gioia incredi­
bile, era tale da mettere in crisi la cosmologia tradizionale, e Ga­
lileo lo riferì nel Sidereus Nuncius del 1610. Ricordiamo che il
« sistema del mondo » che Galileo chiama, e anche noi chiamia­
mo, tolemaico era costituito, per dir così, di due componenti:
l'astronomia tolemaica e la cosmologfa aristotelica: la prima, di ca­
rattere matematico, era stata inserita nella seconda. Ora « la pri­
ma pietra, base e fondamento » della cosmologia aristotelica è la
distinzione specifica tra i corpi celesti e i corpi terrestri: i primi
perfettamente immutabili e incorruttibili, di materia diversa da
quella terrestre, i secondi generabili e corruttibili. Ma Galileo
scopre che sulla Luna ci sono monti e valli, come sulla Terra -
lo scopre assistendo, per dir cosi, ad un'alba sulla Luna, mirabil­
mente descritta nel Sidereus Nuncius: punti luminosi che via via
si allargano nella parte oscura (e sono le vette dei monti che si
illuminano mentre le valli sono ancora al buio), macchie oscure
nella parte illuminata (e sono le valli). La superficie lunare non è
dunque perfettamente liscia come una sfera di cristallo, ma è co­
me quella terrestre.
Anche nel Sole ci sono macchie che, guardate col telescopio,
non si possono spiegare come dovute alla presenza di corpi inter­
posti fra noi e il Sole, ma debbono essere spiegate come alterazio­
ni dello stesso corpo solare. Venere ha « fasi » come la Luna, il
che prova che compie un moto di rivoluzione intorno al Sole,
e non intorno alla Terra.
Infine: Giove ha quattro satelliti. Ora uno degli argomenti
38 FILOSOFIA MODERNA

contro la teoria copernicana era che la Terra deve star ferma e non
compiere un moto di rivoluzione intorno al Sole, poiché è il cen­
tro attorno a cui si muove la Luna. Ma la presenza non di uno
ma di quattro satelliti intorno a Giove provava che un corpo può
muoversi intorno ad un altro (questo altro era, per i tolemaici, la
Terra), eppure avere dei satelliti che gli si muovono intorno.
Non solo le osservazioni astronomiche, ma anche le ricerche
di Galileo sulla meccanica contribuivano a fornirgli argomenti in
favore del sistema copernicano. I sostenitori del sistema tolemaico
obiettavano infatti a Galileo che, se la Terra fosse dotata di un
moto di rotazione intorno al suo asse, un corpo che cade dalla ci­
ma di una torre non dovrebbe cadere ai piedi della torre stessa,
ma un po' più a oriente. A questa obiezione Galileo risponde con
la teoria della relatività del movimento (di quella che oggi si
chiama la relatività classica): si percepisce il moto quando si mette
a confronto un mobile con qualcosa che non partecipi al movimen­
to stesso del mobile; ma se si fa parte del sistema che è in movi­
mento, non si percepisce il moto. Ora poiché la torre e la pietra
che cade dalla torre partecipano (nell'ipotesi copernicana) entram­
be del moto della Terra, è impossibile accorgersi del moto che la
pietra ha compiuto insieme alla Terra. Certo, supponendo uno
spazio assoluto, si potrebbe vedere rispetto a questo la deviazione
dalla perpendicolare del moto della palla, ma non la si può vedere
rispetto alla torre. E Galileo fa questo esempio: quando una na­
ve è in movimento, colui che è nella nave non si accorge del mo­
to che le merci che sono sulla nave compiono insieme con la na­
ve, ma solo di quello relativo alla nave, se si spostano dalla loro
posizione. Per il medesimo motivo non ci accorgiamo del movi­
mento della pietra dovuto alla rotazione della Terra.
Un altro argomento è offerto a Galileo da una tesi fondamen­
tale della meccanica galileiana: quello che chiamiamo principio
di inerzia (vedremo più tardi come egli ci sia arrivato, anche se
non lo ha formulato esplicitamente). Poiché, secondo quel prin­
cipio, un corpo in moto rettilineo e uniforme persevera indefini­
tamente nel suo stato, se non interviene una forza a modificarlo,
la pietra che cade dalla cima di una torre o dalla cima dell'albero
di una nave, tende a perseverare nel moto che aveva quando era
in cima alla torre, moto che era lo stesso della torre, e quindi non
abbandona per dir così la torre e cade ai suoi piedi.
GALILEO 39

Ma torniamo alle scoperte fatte col telescopio. L'accoglienza


della gente di mondo, per dir cosi, dai re alle persone colte, fu
generalmente molto favorevole. Non così quella dei professori,
nella quale si possono rilevare diversi atteggiamenti che vanno dal­
la semplice cautela alla diffidenza, al disprezzo, all'odio. Con le
scoperte galileiane un sistema cosmologico crollava, e coloro che
seguivano la « fisica tradizionale» ne furono sconvolti, poiché
non è facile rinunciare ad una dottrina professata, sopra tutto da
parte di chi non ha ingegno sufficiente per pensare con la propria
testa. Le parole che Galileo mette in bocca a Simplicio nei Massi­
mi Sistemi sono significative: « Ma quando si lasci Aristotele, chi
ne ha da essere scorta nella :filosofia? nominate voi qualche auto­
re». E Galileo risponde: « Ci è bisogno di scorta ne i paesi in­
cogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente
hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa,
ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da
servire per iscorta» (Opere, VII, p. 138). Sennonché gli uomini
che hanno voglia di servirsi dei propri occhi sono sempre pochi.
Simplicio esprime un disorientamento, una paura, e la paura
rende aggressivi, e tali furono i Simplicii storici. L'edizione nazio­
nale delle Opere di Galileo riporta un certo numero di scritti di
questi signori: Francesco Sizi, Lodovico delle Colombe, Lodovico
Lagalla. Il primo, nella sua Dianoia astronomica, optica, physica
qua Syderei Nuncii rumor de quatuor planetis a Galileo conspectis
vanus redditur 5, dice tra l'altro: « Tota veterum astronomorum
et philosophorum schola hoc statutum et ratum omni aevo habuit
dogma et principium [ ... ] non plures aut pauciores septem nume­
ro planetas existere » (Opere, III, p. 212). Sentiamo un'eco di
questo modo di ragionare - o sragionare - nella prima giornata
dei Massimi Sistemi, quando Simplicio dice: « Questo modo di :fi­
losofare tende alla sovversione di tutta la :filosofia naturale, ed al
disordinare e mettere in conquasso il cielo e la Terra e tutto l'uni­
verso. Ma io credo che i fondamenti de i Peripatetici sien tali, che
non ci sia da temere che con la rovina loro si possano costruire
nuove scienze» (Opere, VII, p. 62). E Galileo-Salviati: « Non

' Opere, II, pp. 201-250.


40 FILOSOFIA MODERNA

vi pigliate già pensieri del cielo né della Terra, né terniate la loro


sovversione, come è ancora della filosefia ... ».
Lodovico delle Colombe se la prende con la matematica.
Gli astronomi, anche quelli che avversavano Galileo, furono
meno sciocchi nella polemica. Giovanni Antonio Magini, profes­
sore di matematica e di astronomia a Bologna, cercava abilmente
di screditare Galileo senza prendere pubblicamente posizione,
e mandava in avanscoperta il suo discepolo Martino Horky.
che scrisse un opuscolo pieno di accuse contro Galileo, do­
ve si dichiaravano inesistenti i quattro satelliti di Giove: la
loro apparenza sarebbe stata dovuta a un'illusione ottica. Horky
passò la misura a tal punto che fu non solo rimproverato da Ke­
plero, al quale si era rivolto, ma sconfessato dal suo stesso maestro.
L'atteggiamento dei professori gesuiti del Collegio Romano,
dove insegnava anche il celebre Clavius, fu prudente. Il P. Odo
van Maelcote, che recitò il Nuncius Sidereus Collegii Romani a
Roma, al Collegio Romano, alla presenza di Galileo, nel maggio
del 1611, confermò tutte le scoperte di Galileo, ma lasciò in so­
speso l'interpretazione dei fatti. Le macchie sulla Luna, la diver­
sa illuminazione di parti diverse della sua superficie provano ne­
cessariamente che la superficie lunare sia scabra? Il fatto che nella
parte oscura della Luna si osservino punti luminosi, e nella parte
illuminata si osservino zone oscure, prova necessariamente che
sulla Luna vi siano monti e valli? Il van Maelcote rispondeva:
forse la spiegazione di questi fatti potrebbe essere la diversa den­
sità della materia lunare nelle diverse parti della Luna: ego iudi­
cium meum non interpono 6• Analogo atteggiamento a proposito
delle fasi di Venere: le ha osservate, ma si rifiuta di dire se di­
pendano dal movimento circolare di Venere intorno al Sole o da
qualche altra causa.
Un'accoglienza favorevole alle scoperte di Galileo fece invece
Keplero prima nella Dissertatio cum Nuncio Sidereo del 1610 7,
e specialmente nella Narratio de quatuor Jovis satellitibus quando
ebbe un cannocchiale fabbricato da Galileo e poté verificarne le
osservazioni.

• Opere, III, p. 295.


7
Ne abbiamo una traduz. italiana di G. Tabarroni, Bologna, Tipografia Compo­
sitori, 1965.
GALILEO 41

Ma una grave minaccia veniva dai teologi. I « filosofi» aristo­


telici, come Francesco Sizi, per contraddire Galileo invocavano an­
che la Sacra Scrittura. È un modo di comportarsi che si ripete
spesso nella storia: quando si è a corto di argomenti si invoca
l'autorità e si fa credere che l'avversario rinneghi valori sacri. For­
se furono loro a sollecitare i teologi. Comunque la scintilla fu
data da una predica del P. Niccolò Lorini, domenicano, in S. Ma­
ria Novella, il 2 novembre del 1612, che dichiarava contraria alla
Scrittura la teoria copernicana.

3. I processi

Ricordiamo infatti che Galileo si era trasferito a Firenze fin


dal settembre 1610, ed era stato nominato « matematico e :filo­
sofo» del Granduca di Toscana, Cosimo II. Perché Galileo chie­
desse questa funzione è detto in una lettera del febbraio 1609.
Era stanco di far lezione e voleva dedicarsi al suo lavoro perso­
nale: «Havendo ormai travagliato 20 anni, et i migliori della mia
età, in dispensare, come si dice, a minuto, alle richieste di ogn'uno,
quel poco di talento che da Dio et da le mie fatiche mi è stato con­
ceduto nella mia professione; mio pensiero veramente sarebbe con­
seguire tanto di otio e di quiete che io potessi condurre a fine,
prima che la vita, 3 opere grandi che ho alle mani... » 8• Non pen­
sò allora che forse la Repubblica di Venezia avrebbe saputo di­
fenderlo meglio di fronte all'autorità ecclesiastica: « Dove potre­
ste trovare, meglio che a Venezia, la libertà e la padronanza di
Voi stesso» gli scriveva Gianfrancesco Sagredo? E Galileo do­
veva far presto l'esperienza della verità di queste parole. Mentre,
nel 1611, a Roma era accolto trionfalmente, i suoi nemici lavo­
ravano contro di lui. Ed egli ne offriva loro il destro con la sua
foga, la sua ironia pungente nelle discussioni. Anche nel 1616 di
nuovo a Roma, quando era in pericolo di esser condannato, di­
scuteva nelle case di personaggi illustri, davanti a quindici o venti
persone, e l'Ambasciatore di Toscana a Roma, Guicciardini, al
quale premevano più le buone relazioni fra il Granduca e la Curia
che la teoria copernicana, si lamentava dell'imprudenza di Galileo.

• Opere, X, p. 232.
42 FILOSOFIA MODERNA

Furono imprudenti anche le due lettere a Benedetto Castelli,


del 1613, e alla Granduchessa Madre, Cristina di Lorena, del
1615, sebbene le affermazioni che esse contengano siano consone
alla dottrina cristiana e rispondano ai criteri che S. Agostino ap­
plicava all'interpretazione della Scrittura.
Don Benedetto Castelli avea riferito a Galileo di una discus­
sione, di « ragionamenti » tenuti dopo un pranzo alla corte gran­
ducale di Pisa, durante i quali Cosimo Boscaglia, professore di
« filosofia » nell'Università, aveva sostenuto che la teoria coper­
nicana era contraria alla Scrittura, perché nel libro di Giosuè (IX,
12-15) si dice che egli fermò il Sole.
Opino che Benedetto Castelli non si fosse limitato a riferirgli
la conversazione, ma gli avesse fornito anche gli argomenti per
rispondere all'accusa e, sopra tutto, gli avesse fornito (o lui o un
altro degli amici teologi di Galileo) tutte le citazioni di S. Ago­
stino che si trovano nella lettera a Madama Cristina; Galileo in­
fatti non aveva una cultura teologica. Non direi, come dice An­
tonio Banfì nella Vita di Galileo Galilei (pp. 140 - 144), che il cri­
stianesimo di Galileo fosse puramente sociologico; lo studio di
P. G. Nonis, Galileo e la religione nel volume Nel quarto cente­
nario della nascita di G. Galilei pubblicato dall'Università Catto­
lica nel 1966, dimostra che la fede di Galileo era sincera, ma era
una fede vissuta, senza esigenze di approfondimenti teologici.
Vediamo comunque che cosa risponde Galileo. Prima di tutto
bisogna distinguere fra il testo sacro, che è sempre vero, e le in­
terpretazioni che ne sono state date. Se si dovesse sempre inter­
pretare letteralmente la Bibbia, si arriverebbe ad una concezione
antropomorfica di Dio, poiché sarebbe necessario attribuire a Dio
mani, piedi, occhi, passioni umane come l'ira ecc. Ora nessun Pa­
dre della Chiesa ha interpretato letteralmente queste frasi che ave­
vano solo lo scopo di adattare la verità alla « capacità di popoli
rozzi e indisciplinati ». Perciò, se la Scrittura si è adattata alla com­
prensione di gente ignorante nel manifestare « principalissimi
dogmi » come sono quelli riguardanti gli attributi di Dio, tanto
più lo avrà fatto per quel che riguarda i fenomeni naturali, che
per sé non riguardano le verità di fede. Ora, « procedendo di pari
dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura [ ... ] ; ed essendo,
di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento
GALILEO 43

dell'universale 9, dir molte cose diverse, in aspetto 10 e quanto al


significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essen­
do la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue
recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla
capacità degli uomini [ ... ] , pare che quello de gli effetti naturali
che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le neces­
sarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno es­
ser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle
parole diverso sembiante ... » (Opere, V. pp. 282 - 83). Nella let­
tera a Madama Cristina, molto più lunga, Galileo cerca inoltre di
suffragare questo criterio esegetico con molti passi di S. Agostino,
presi per lo più dal De Genesi ad litteram, e aggiunge questa os­
servazione: la Bibbia ci insegna le verità necessarie alla nostra sal­
vezza, e specialmente quelle inaccessibili alla nostra ragione, non
le verità scientifiche, « l'intenzione dello Spirito Santo essere d'in­
segnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo ». « Ma
che quell'istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'in­
telletto abbia voluto posponendo l'uso di questi, darci con altro
mezo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì ché [ ... ]
doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessa­
rio il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una mini­
ma particella se ne legge nella Scrittura; quale appunto è l'astro­
nomia ... ». E cita una frase dettagli dal Baronio (che però non
nomina).
Gli argomenti di Galileo sono impeccabili, anche dal punto di
vista dell'ortodossia, ma ho detto che quelle lettere, in quel mo­
mento, furono un'imprudenza, poiché un laico che dava lezioni di
esegesi biblica non poteva che allarmare i teologi sospettosi di
tutto quello che poteva odorare di libero esame, nel senso pro­
clamato dai riformatori protestanti. E infatti, dopo aver letto la
lettera di Galileo a Don Benedetto Castelli, il P. Lorini, in forma
confidenziale, il P. Caccini in forma ufficiale, fecero una denun­
cia al S. Uffizio. Anche il Card. Bellarmino, la massima autorità
teologica dell'epoca, fu messo in sospetto. E il 24 febbraio del
1616 la teoria copernicana fu condannata. La tesi che « il Sole è
centro del mondo e affatto immobile di moto locale » fu dichia-

' Cioè di tutti.


1
° Cioè apparentemente.
44 FILOSOFIA MODERNA

ratil « stolta e assurda in filosofia e formalmente eretica ». La tesi


che la Terra non è il centro del mondo e immobile ma si muove
secundum se totam etiam motu diurno fu dichiarata stolta e as­
surda in filosofia e ad minus in fide erronea. Due giorni dopo, per
ordine del Papa Paolo V, il Card. Bellarmino fece chiamare Ga­
lileo, gli notificò la condanna delle due tesi e lo avverti (monuit)
che doveva abbandonarle. Il 5 marzo la Congregazione dell' Indi­
ce condannò il De revolutionibus orbitum caelestium di Coperni­
co, ma solo donec expurgetur. Galileo personalmente non fu toc­
cato anzi, contro le malelingue, ottenne una dichiarazione in que­
sto senso del Card. Bellarmino.
Eppure, benché gli storici insistano spesso sul processo del
1633, per la sua « drammatica sequenza », è la condanna del 1616
quella che conta, come osserva giust�mente il Firpo 10 bis. Da questa
tutto il resto seguiva logicamente, e questa fu la gran prova di cecità
dei « qualificatori » del S. Uffizio, cecità che fa certo dispiacere ai
cattolici, ma che non li turba perché sanno che alla condanna non è
affatto attribuito dalla Chiesa il carattere di infallibilità.
Al processo del 1633 fu contestato a Galileo un documento,
che sarebbe stato da lui firmato il 26 febbraio del 1616, nel quale
era contenuto un ordine formale di abbandonare la teoria elio­
centrica e di non sostenerla in nessun modo ( quovis modo) cioè
neppure come questione discutibile. Si è molto discusso su que­
sto documento, si è affermato che è un falso 11• Ma la soluzione
pro o contro l'autenticità del praeceptum potrà farci valutare di­
versamente l'onestà dei giudici, ma non modifica il problema dot­
trinale e non serve neppure a spiegare la condotta successiva di
Galileo. Galileo era un ottimista: poteva pensare che, specie con
l'avvento del nuovo papa, Maffeo Barberini, le cose sarebbero
cambiate, che la condanna cadesse in desuetudine, che bastasse­
ro certe frasi della prefazione al Dialogo dei Massimi sistemi, la
conclusione e certe frasi disseminate qua e là a testimoniare l'ob­
bedienza al praeceptum del 1616.
Tuttavia negli anni seguenti la condanna del 1616, Galileo
non parlò più della teoria copernicana.

rnb;, Il processo di Galileo, nel vol. cit.: Nel quarto centenario della nascita
etc.
11 Cfr. G. de SANTILLANA, Processo a Galileo, trad. it., Milano, Mondadori, 1960.
GALILEO 45

Nel 1618 l'apparizione di tre comete fu occasione di dispute


sulla natura di questo genere di corpi. Il P. Orazio Grassi espose
al Collegio Romano una Disputatio de tribus cometis nella quale
riprendeva in fondo la teoria di Tycho Brahe sulle comete. Contro
Aristotele, secondo il quale le comete sono esalazioni che salgono
dalla Terra fino alla sfera del fuoco e là si infiammano e sono tra­
scinate dal cielo nel suo moto circolare, Tycho affermava in base
ad osservazioni astronomiche fatte nel 1577 in occasione della ap­
parizione di una cometa, che esse sono corpi celesti più lontani
della Luna e aventi un'orbita diversa. Galileo non partecipò su­
bito alla disputa, ma fece intervenire uno dei suoi discepoli, Ma­
rio Guiducci, il quale nel Discorso delle comete del 1619 critica­
va sia l'ipotesi aristotelica sia quella del Grassi e ne sosteneva una
terza, secondo la quale le comete non sarebbero corpi reali, ma
apparenze prodotte dalla riflessione della luce solare su concentra­
zioni atmosferiche. Il P. Grassi, sotto lo pseudonimo di Lotario
Sarsi, replicò con la Libra astronomica ac philosophica qua G. Ga­
lilaei opiniones de cometis a Mario Guiducio... expositae. .. exa­
minatur, e Galileo, chiamato in causa, rispose nel 1623 col Sag­
giatore. Il Grassi aveva adoperato il paragone della bilancia (libra)
per pesare le opinioni di Galileo, e questi, rimanendo nella simi­
litudine, dice di volere adoperare una bilancia da saggiatori, cioè
una bilancia più esatta.
La teoria di Galileo sulle comete si è dimostrata falsa, men­
tre quella del Grassi è più vicina a quella confermata dalla scien­
za posteriore, ma lo spirito del Saggiatore, il metodo che sugge­
riva nelle osservazioni che Galileo fa seguendo passo passo il di­
scorso dell'avversario, ne fanno un'opera notevole. Si è detto che
Il Saggiatore è il « discorso sul metodo » di Galileo, ma non bi­
sogna lasciarsi fuorviare dal paragone, perché non vi è nessuna so­
miglianza esteriore fra l'opera galileiana e il Discorso sul metodo
di Cartesio. Le regole del metodo non sono formulate astratta­
mente ed enumerate da Galileo, ma vengon fuori qua e là dalle
osservazioni e dalle obiezioni che fa al suo avversario, cosi come
la critica a un tipo di sapere fondato su quello che hanno detto
gli altri, gli antichi, piuttosto che sull'esperienza diretta. Ma di
questo metodo diremo qualcosa più avanti.
Nel 1623 Maffeo Barberini, un cardinale di larghe vedute che,
a quanto si diceva, aveva disapprovato la condanna del 1616, fu
46 FILOSOFIA MODERNA

eletto papa col nome di Urbano VIII e Galileo concepl grandi


speranze per la sua libertà di scrivere quello che pensava. Si
mise quindi a scrivere quello che sarà poi il Dialogo dei mas­
simi sistemi. Il lavoro fu però interrotto dal 1626 al 1629 e ri­
preso verso la fine del 1629. Nel 1630 era terminato e Gali­
leo si recò a Roma per parlare con Urbano VIII che si mostrò di­
sposto a permetterne la pubblicazione purché la teoria copernicana
vi fosse presentata solo come ipotesi matematica. Cosl concepita,
l'opera avrebbe detto solo che i fenomeni celesti, che Tolomeo
spiegava coi suoi eccentrici ed epicicli, potevano essere spiegati
anche con la teoria di Copernico; quale delle due teorie fosse la
vera spettava alla « filosofia » e alla Rivelazione (interpretata dal
decreto del 1616) dire. Per questo il Papa sconsigliò a Galileo il
titolo progettato Delle maree ( che a noi parrebbe tanto più in­
nocuo); le maree infatti sono un fenomeno fisico, non si posso­
no ridurre a un'apparenza come i moti celesti, e se si dice che le
maree si spiegano con la teoria copernicana, si dà a questa il ca­
rattere di teoria fisica o « filosofica » come allora si diceva, cioè
il carattere di teoria che intende pronunciarsi sulla realtà, su come
vanno le cose, non solo su quello che può essere. Il titolo fu dun­
que cambiato in quello di Dialogo sopra i due massimi sistemi
tolemaico e copernicano, ma il modo in cui Galileo li presenta­
va non lasciava dubbi: gli argomenti di Salviati in favore della
teoria copernicana la presentano come una spiegazione di feno­
meni reali e non come una ipotesi sul possibile; le osservazioni
di Sagredo la confermano, mentre gli sforzi di Simplicio per so­
stenere la teoria tolemaica e inquadrarla nella fisica aristotelica
risultano pietosi. La prefazione, poj, sembra una beffa. Si ca­
piscono quindi le esitazioni del P. Niccolò Riccardi, maestro del
S. Palazzo, al quale toccava dare l'imprimatur. Galileo era otti­
mista e ardeva d'impazienza di veder pubblicata l'opera che rias­
sumeva le ricerche della sua vita; faceva quindi fuoco e fiamme
per aver l'imprimatur; ma dové rinunciare a far pubblicare il
dialogo a Roma. Ebbe l'imprimatur a Firenze, nel settembre del
1630; ma ci voleva ancora il permesso da Roma e il P. Riccar­
di volle rivedere ancora il manoscritto. Le cose andarono per le
lunghe e l'opera usd finalmente nel febbraio 1632. Ma cinque
mesi dopo la pubblicazione del Dialogo, il P. Riccardi, per or­
dine del Papa ordinò all'Inquisitore di Firenze di ritirarne tutti
GALILEO 47

gli esemplari e il 1° di ottobre Galileo ebbe l'ordine di presen­


tarsi a Roma. Supplicò invano di esserne dispensato data la sua
età (aveva quasi settant'anni) e nel gennaio del 1633 partl per
Roma, dove arrivò il 13 febbraio.
Gli accusatori si appoggiavano sul famoso praeceptum del
1616, la cui autenticità è discussa, ma, come ho detto, questo
riguarda la legalità del processo; dal punto di vista dottrinale
il processo del 1633 non faceva che riprendere la condanna del
1616 e applicarla a Galileo. Il 22 giugno del 1633 Galileo do­
vette « abiurare, maledire e detestare » la teoria copernicana.
Il Dialogo fu proibito, Galileo condannato alla prigione a
vita e ad una penitenza, in verità lieve in confronto alle altre due
pene: la recita di sette Salmi penitenziali una volta la settimana.
Nessuno poteva dubitare che egli avesse contravvenuto al decre­
to del 1616 - con o senza il praeceptum -; quello che è de­
plorevole è che si sia perseguitato un uomo solo perché affer­
mava una certa dottrina, anziché discutere la dottrina stessa. E,
si badi, il fatto sarebbe ugualmente deplorevole anche se la teoria
di Galileo fosse stata sbagliata. Bisogna fare questa osservazione
perché tante volte si sentono condannare i giudici di Galileo per­
ché seguivano una dottrina superata e falsa; mentre Galileo apri­
va la strada ad una scienza molto più fondata. Ora il giudicare
così vorrebbe dire assumere il successo come criterio di morali­
tà. Certo i costumi del tempo possono scusare soggettivamente
i giudici ma non giustificano oggettivamente la loro condotta. Ci
si può domandare piuttosto se quei costumi fossero solo di quel
tempo o siano di tutti i tempi. Si celebrano oggi processi molto
simili a quello di Galileo. Questo non giustifica certo il processo
di Galileo, ma può stupire il fatto che chi si straccia giustamen­
te le vesti quando parla di Galileo, giustifichi processi molto si­
mili a quello.
D'altra parte non persuadono molto neppure certe difese dei
giudici che insistono sulla mitezza con la quale si procedette con­
tro Galileo - sempre in relazione ai costumi del tempo. - Cer­
to Galileo non fu torturato; la condanna alla prigione perpetua
fu subito commutata in quella di confino, prima nell'Ambascia­
ta di Toscana, poi a Siena presso l'arcivescovo Ascanio Piccolo­
mm1, amico di Galileo, infine nel villino stesso di Galileo ad Ar­
cetri, vicino a Firenze e vicino al convento dove erano monache
48 FILOSOFIA MODERNA

le sue due figlie: Livia (Suor Arcangela) e Virginia (Suor Maria


Celeste).
Qùest'ultima creatura, dolcissima e insieme di una eccezio­
nale forza d'animo, fu il sostegno morale del padre, che amava
moltissimo, sebbene Galileo non avesse certo fatto molto per me­
ritare questo affetto.
Suor Maria Celeste morì poco dopo la condanna di Galileo,
il 2 aprile del 1634, « lasciando me, scrive Galileo, in un'estre­
ma afflizione ». Ma Galileo riprese il lavoro, nonostante che nel
1638 fosse diventato cieco, e nel 1638 poté far pubblicare l'ope­
ra scientificamente più grande: i Discorsi e dimostrazioni mate­
matiche intorno a due nuove scienze. L'opera usd a Leida in
Olanda, paese protestante, apparentemente ad insaputa di Ga­
lileo.
Galileo morì 1'8 gennaio del 1642.

IL PENSIERO
4. Galileo filosofo

In una lettera famosa a Belisario Vinta, del 7 maggio 161O,


in cui tratta delle condizioni del suo trasferimento a Firenze, Ga­
lileo dice: « Finalmente, quanto al titolo et pretesto del mio ser­
vizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S. A. ci
aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di bavere studiato
più anni in filosofia che mesi in matematica pura... » ( Opere, X,
p. 353).
Cosa vuol dire « filosofo »? Se guardiamo i testi nei quali
Galileo adopera il termine filosofia, vediamo che lo assume sem­
pre nel significato di fisica o filosofia naturale, una delle tre parti
nelle quali Aristotele, nel libro VI della Metafisica, divideva il
sapere teoretico (la :filosofi.a teorica): fisica, matematica e « teo­
logia » o filosofi.a prima. La fisica studia gli enti in movimento,
ossia i corpi naturali, nei quali la forma non può essere separa­
ta dalla materia; la matematica studia realtà immutabili, ma che
non possono esistere per conto proprio; la filosofia prima o tea-
GALILEO 49

logia (quella che poi è stata chiamata metafisica) studia ciò che
è separato (dalla materia) e immutabile. Ora il termine philoso­
phia naturalis non è che la traduzione latina di �u01Jx�.
Per Galileo essere « filosofo » voleva dire studiare la natura,
i corpi e i loro fenomeni realmente esistenti, non limitarsi a for­
mulare ipotesi matematiche. Rifiutò il consiglio di Urbano VIII
e di Bellarmino che gli suggerivano di esporre la teoria coperni­
cana solo come ipotesi matematica perché era convinto che tale
teoria rispondesse ai reali moti degli astri, come era convinto che
la sua meccanica esprimesse le proprietà del moto reale dei corpi.
La « filosofia » di Galileo è la philosophia naturalis che fa parte
del titolo dell'opera di Newton che contiene i principi della mec­
canica moderna (Philosophiae naturalis principia mathematica).
Resta il problema se questo sia l'unico tipo di sapere valido, per
Galileo; ma, prima di affrontare questo problema, bisogna avere
ben chiaro che per Galileo essere « filosofo » vuol dire dedicarsi
alla scienza della natura, niente di più.
Non credo che gli si possa attribuire una filosofia distinta dalla
sua fisica, anche se la sua fisica ha avuto una grande importanza
nella storia della filosofia.
In cosa consisterebbe infatti la pretesa filosofia (non fisica) di
Galileo? Forse nell'affermare che l'uomo deve seguire la ragio­
ne e non l'autorità? Ma questo lo dicono tutti. La cosa più im­
portante è che egli non solo proclama questo precetto, ma lo met­
te in pratica, il che non costituisce una filosofia, ma è la caratte­
ristica di ogni uomo di genio. Quando Gc1lileo, spazientito dagli
appelli del Sarsi all'autorità e dal suo criterio di misurare il va­
lore di una teoria dal numero dei seguaci, dice nel Saggiatore:
« Sig. Sarsi, infinita è la turba degli sciocchi, cioè di quelli che
non sanno nulla; assai son quelli che sanno pochissimo di filo­
sofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; po­
chissimi quelli che ne sanno qualche particella; un solo Dio è
quello che la sa tutta » (Opere, VI, p. 2 3 7), ha coscienza di es­
sere fra i pochi e i pochissimi, quelli, come ha detto poco prima,
che « volano come l'aquile e non come gli storni ». Quando dice
questo, lotta contro la mediocrità e il conformismo della mag­
gioranza degli uomini, ma non proclama una nuova teoria filo­
sofica. D'altronde non è storicamente esatto che il culto dell'au­
torità sia un carattere della scolastic�. - parlo dell'autorità urna-
50 FILOSOFIA MODERNA

na, di quella dei dotti, degli antichi. - È certo un carattere della


scolastica contemporanea di Galileo, ma perché è fatta di medio­
cri. O, se si vuol chiamare « scolastica » ogni corrente nella qua­
le si ripetano solo certe dottrine con una fede cieca nella loro
verità, senza discuterle, bisogna ammettere che di « scolastiche»
ce ne sono tante nella storia della filosofia, che ogni corrente di
pensiero lascia dietro di sé una « scolastica »: c'è una « scola­
stica» hegeliana, positivista, marxista, per ricordare solo le più
recenti. Se poi si parla di autorità divina, di autorità riconosciu­
ta ad una rivelazione divina, bisogna ammettere che Galileo cre­
deva ad una tale autorità, che era un credente sincero, anche se
pensava, e giustamente, che la Rivelazione non ci istruisce sulle
verità riguardanti i fenomeni naturali.
Un'altra interpretazione di Galileo « filosofo» è quella data
da E. Cassirer in un saggio su Galileo 12• Galileo è filosofo, se­
condo il Cassirer, perché ha una nuova concezione della verità,
in antitesi con quella della scolastica medievale. « Galileo nega
radicalmente il principio fondamentale della teologia scolastica, il
principio del Verbo ispirato. La rivelazione attraverso l'opera di
Dio sostituisce la rivelazione attraverso la parola di Dio» (Op.
cit., p. 148). Ora abbiamo sentito Galileo dire nella letiera del
1613 a Don Benedetto Castelli: « ... procedendo di pari dal Verbo
divino la Scrittura Sacra e la natura ... »: quindi per Galileo la ri­
velazione attraverso l'opera di Dio non sostituisce affatto la rive­
lazione attraverso la Scrittura; in secondo luogo i medievali non
negavano affatto che la verità di Dio si manifesti attraverso la na­
tura. Basta pensare che la Scrittura stessa dice che Dio si manife.,
sta attraverso la natura: « Caeli enarrant gloriam Dei » comincia
il Salmo 18. E S. Paolo in una frase che ha ispirato tutti i discor­
si su Dio per tutto il Medioevo dice: « Invisibilia [Dei] a crea­
tura mundi per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur ». Certo,
è il modo di intelligere, di leggere la natura che cambia - e in
questo siamo d'accordo col Cassirer -, ma non il concetto di
verità.
Una interpretazione molto più sfumata del termine « filosofo »

12 Il concetto e il problema della verità in Galileo, in Dall'umanismo all'illu­


minismo, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 147-173.
GALILEO 51

che Galileo si attribuisce è quella del Garin 13• Garin sa benissimo


che « filosofo » in quel tempo vuol dire «fisico » e porta anzi
esempi molto chiari di questo significato, ma aggiunge che la teo­
ria copernicana cambia la stessa concezione dell'universo. «Anche
i problemi ultimi, dice il Garin, si ripropongono diversamente»
(Galileo «filosofo», vol. cit., p. 163) a tal punto che, si doman­
da, nell'altro saggio citato, se «quella veduta tutta terrestre del sa­
pere e dell'uomo lascia davvero un margine alla fede religiosa»
(Op. cit., p. 132).
Ora, poiché lo stesso Garin riconosce che Galileo personal­
mente era credente, il problema si porrebbe, diciamo, teoretica­
mente: se cioè l'universo copernicano - l'universo infinito, come
dice il Koyré - sia compatibile con la fede cristiana. E direi pro­
prio che si deve riconoscere che la nuova cosmologia non ha pro­
prio nulla a che fare coi dogmi del Cristianesimo e che, se per
«problemi ultimi » si intendono i problemi metafisici, la fisica
e - chiamiamola pure col termine dell'epoca - la «filosofia»
galileiana non ha nulla a che fare con questi problemi.
Penso che Galileo abbia posto problemi essenziali alla filo­
sofia non in quanto filosofo egli stesso, ma come creatore di quel
nuovo tipo di sapere che egli chiamava filosofia, ma che noi chia­
miamo scienza.
Dimostrare come ha fatto Galileo che quello che si chiama­
va allora globalmente filosofia non è l'unico tipo di sapere; dimo­
strare che occorrono nuovi «precetti di architettura » per risol­
vere problemi davanti ai quali la filosofia scolastica aveva fatto
fiasco, significa fare opera di grande significato filosofico, anche
se non si è « filosofi » nel senso che noi oggi diamo a queste
parole.

5. Un nuovo concetto di scienza

Per spiegare quello che ho enunciato vorrei ricordare che


cosa era la filosofia naturale - o fisica - ai tempi di Galileo,
che cosa era la fisica degli aristotelici.

13 Galileo e la cultura del suo tempo e Galileo « filosofo », l'uno e l'altro saggio
riprodotti nel volume Scienza e vita civile nel RJnascimento italiano, Bari, Laterza,
1965.
52 FILOSOFIA MODERNA

Ho detto che essa era concepita come parte di un unico ti­


po di sapere - il sapere teorico -: quella parte che ha per og­
getto il mondo mutevole, il mondo sensibile. Ora se ci doman­
diamo come intendesse Aristotele il sapere teorico, dobbiamo ri­
volgerci ai primi capitoli dei Secondi Analitici. L'idea del sapere
dimostrativo (ossia dell'autentico sapere, del sapere giustificato)
è modellata sulla geometria. A fondamento della dimostrazione
stanno proposizioni per sé evidenti, che sono gli assiomi, i quali
valgono per qualsiasi genere di realtà (per es. se si tolgono a cose
eguali quantità eguali, i resti sono eguali), e altre proposizioni
che si assumono come vere per il genere di cose che sono oggetto
di quella detenninata scienza. Aristotele chiama queste ultime
proposizioni ipotesi e postulati 14• Loro carattere comune è che
sono assunti come veri a base della dimostrazione. Altro carat­
tere comune ad assiomi, postulati e ipotesi è di essere proposizioni
necessarie e universali, poiché senza queste non si può dimostra­
re nulla. Oltre alle proposizioni fondamentali (assiomi, postulati,
ipotesi), la dimostrazione presuppone delle definizioni che espri­
mono che cosa è un oggetto, senza ancora affermarne nulla: « di­
re che cosa è l'unità non significa dire che l'unità sia » (Anal. Post.,
72a; 24).
La dimostrazione di cui parla Aristotele è la dimostrazione sil­
logistica, e il sillogismo consiste essenzialmente nello stabilire un
rapporto fra due nozioni in virtù di un tennine medio. Ossia il
sillogizzare consiste nel riconoscere in un caso particolare (o me­
no generale) un aspetto, un quid, di cui si conosceva già una certa
proprietà. Questo quid è il medio. Tutto l'apparato sillogistico
non serve altro che a suscitare questa scintilla. L'esempio di Ari­
stotele è questo. Se uno sa che in ogni triangolo la somma degli
angoli è uguale a due retti, egli potrà concludere che questa pro­
prietà appartiene alla figura inscritta in un semicerchio quando
avrà riconosciuto, èna:yoµEvoc; (ossia astraendo o inducendo), che
questa figura è un triangolo (Anal. Post., I, 1, 71a). Allora dirà:
il triangolo ha gli angoli interni etc.;

14 Nei cap. del 1° libro dei Secondi Analitici Aristotele dice: ipotesi è la proposi­
zione che, pur essendo dimostrabile, è assunta come vera, senza dimostrazione, da colui
che impara una scienza; il postulato è pure dimostrabile e assunto come vero senza dimo­
strazione, ma non subito riconosciuto come vero da chi apprende la scienza.
GALILEO 53

ora la figura inscritta in un semicerchio è un triangolo;


dunque la figura inscritta in un semicerchio ha gli angoli m­
terni etc.
Il termine medio è « triangolo», la dimostrazione si ha quando
si riconosce nel caso particolare« figura inscritta in un semicerchio »
il quid, l'aspetto « triangolo». Il momento fondamentale, quello
in cui scocca la scintilla è dunque il momento della minore.
Ora Galileo non ha mai fatto la minima obiezione al procedi­
mento sillogistico: al contrario afferma, come abbiamo sentito, che
solo i matematici lo sanno applicare. Ma il problema è quello di
stabilire come si scoprono i postulati e le definizioni che stanno a
fondamento della fisica.
Aristotele dice che le proposizioni universali sono conosciute
« per induzione» (òL'È1tocywyiic;) (Anal. Post., I, 18, 81b), cioè par­
tendo dall'esperienza dei casi particolari, ma non ha fatto una teoria
dell'induzione, mentre ha fatto una teoria del sillogismo, e l'esem­
pio che egli fa di induzione nei Primi Analitici (II, cap. 23, 68b)
non è molto felice. E si capisce che non abbia fatto una teoria del­
l'induzione: perché prima viene la scienza, poi la metodologia. La
teoria del sillogismo è la metodologia della geometria, e Aristotele
trovava davanti a sé una geometria; la teoria dell'induzione è la
metodologia delle scienze sperimentali, e al tempo di Aristotele
non si era ancora costituita una scienza sperimentale.
Abbiamo visto come anche Bacone sia impreciso, perché non
fa egli stesso una scienza sperimentale.
Comunque, Aristotele sembra convinto che non sia molto dif­
ficile arrivare agli assiomi e alle definizioni: si sa benissimo, per
esempio, che cosa sono il freddo e il caldo, il pesante e il leggero.
Abbiamo ricordato, e ci torneremo, il modo in cui Aristotele nel
De coelo stabilisce la differenza specifica fra i · corpi celesti e
i corpi terrestri: certo egli non ha provato a fare un sistema
di fisica deduttiva, ma si è limitato ad alcune parti, come il De
coelo, che è quello contro il quale si appunta la polemica galileiana,
ma alcuni aristotelici hanno tentato di assiomatizzare la fisica ari­
stotelica, per esempio Cesare Cremonini, collega di Galileo a Pado­
va. Nel Commento al proemio della Fisica di Aristotele egli dice che
il metodo compositivo (che è poi il metodo deduttivo) è migliore
del metodo risolutivo (induttivo) e non è dubbio che Aristotele ah•
bia scelto il metodo migliore, sicché voler ordinare le scienze, e
54 FILOSOFIA MODERNA

in particolare la fisica, diversamente da Aristotele aut nimis sapere


aut desipere est: è presunzione o follia. E si preoccupa di assioma­
tizzare la fisica di Aristotele, perché dice: « ego puto libros physi­
corum habere eam proportionem ad naturalem philosophiam quam
habet ad mathematicam universam liber elementorum Euclidis ...
ut scilicet velut Mathematica tota in illum librum resolvitur, ita ad
hos tota naturalis philosophia reducatur, omnisque illius cognitio­
nis huc revocetur...» 15• Si capisce che questo uomo non volesse
guardare nel telescopio: c'era tutto nella Fisica di Aristotele!
Ora Galileo stesso, ne Le Mecaniche (1593 ), esprime l'opinio­
ne che una scienza rigorosa (demostrativa) debba procedere come
la geometria: definizioni, assiomi, dai quali « come da fecondissimi
semi, pullulano e scaturiscono conseguentemente le cause e le vere
demonstrazioni...». E la prima definizione che egli dà è quelh della
gravità: « Adimandiamo adunque gravità quella propensione di
muoversi naturalmente al basso, la quale, nei corpi solidi, si ritro­
va cagionata dalla maggiore o minore copia di materia, dalla quale
vengono costituiti». Ma più tardi si accorse che da tale definizione
non veniva fuori nulla che ci istruisse sul moto dei gravi e nel Dia­
logo, a Simplicio che aveva detto: tutti sanno che cos'è la gravità,
Galileo risponde: « Voi errate, sig. Simplicio; voi dovevi dire che
ciaschedun sa ch'ella si chiama gravità. Ma io non vi domando del
nome, ma dell'essenza delle cose» (Opere, VII, p. 260). Si deve
dunque cominciare dalle definizioni e dagli assiomi per arrivare alla
dimostrazione dei teoremi, . come si vede nell'ultima e scientifica­
mente più perfetta opera di Galileo: i Discorsi e dimostrazioni
matematiche sopra due nuove scienze, ma bisogna prima assicurarsi
del valore delle definizioni, il che non è tanto facile quando si tratta
di fenomeni fisici. Le definizioni debbono infatti fondarsi sull'espe­
rienza: arrivarvi è qualcosa di più complesso di quel che credessero
gli antichi, e in particolare Aristotele.
Uno dei motivi per i quali l'esperienza non ha condotto gli an­
tichi a definizioni e ad assiomi fecondi è che certi fenomeni erano
loro sconosciuti per mancanza di strumenti: per esempio non ave­
vano il telescopio. Un altro motivo è che le loro esperienze erano
poco controllate; un terzo motivo è che essi ritenevano troppo fa­
cile arrivare da qualche qualità sensibile all'essenza delle cose.
15
Explanatio proemii librorum Aristotelis de physico auditu, Patavii, 1596, fol. 52 v.
GALILEO 55

Il primo motivo ci indica lo stretto rapporto fra scienza e


tecnica; sul secondo vogliamo fermarci un momento.
L'esperienza deve essere diretta e controllata: inutile addurre
testimonianze quando si possono sperimentare i fatti. « Io non
posso non ritornare a meravigliarmi, che pur il Sarsi voglia persi­
stere a provarmi per via di testimonii quello ch'io posso ad ogni
ora vedere per via di esperienze. S'essaminano i testimoni nelle co­
se dubbie, passate e non permanenti, e non in quelle che sono in
fatto; e così è necessario che il giudice cerchi per via di testimoni
sapere se è vero che ier notte Pietro ferisse Giovanni, e non se
Giovanni sia ferito, potendo vederlo tuttavia e fame il visu reperto
(Saggiatore; Opere, VI, p. 339).
Il Sarsi aveva affermato che l'attrito produce calore, nel che
mi sembra non avesse torto, ma per dimostrarlo adduce sempre
esperienze riferite da altri. Il colmo è quando il Sarsi ha l'inge­
nuità di addurre come esperienza un fatto riferito dalla Suda e
cioè che i Babilonesi cuocevano le uova facendole girare veloce­
mente con una fionda. Sarà vero, dice Galileo, ma per trovare
la causa di quel fatto « io discorrerò così: Se a noi non succede
un effetto che ad altri una volta è riuscito, è necessario che noi,
nel nostro operare, manchiamo di quello che fu causa della riu­
scita di esso effetto, e che non mancando a noi altro che una cosa
sola, questa sola cosa sia la vera causa: ora, a noi non mancano
uova né fionde, né uomini robusti che le girino, e pur non si cuo­
cono ... ; e perché non ci manca altro che l'esser di Babilonia, adun­
que l'esser Babiloni è causa dell'indurirsi l'uova, e non l'attrizio­
ne dell'aria ».
Ho riferito il passo per dare un'idea della mordente ironia
di Galileo, che certo non era fatta per procurargli amici.
L'esperienza deve essere diretta e controllata, abbiamo detto.
Deve essere altresì lunga, circostanziata. Il Sarsi aveva detto che
basta aver visto una volta la cometa per rendersi conto che essa
non può esser l'effetto della riflessione della luce solare, e Gali­
leo (che tuttavia sbaglia nella sua ipotesi) ribatte: « lo confesso
di non aver la facoltà distintiva tanto perfetta, ma d'esser come
quella scimia che crede fermamente veder nello specchio un'altra
bertuccia, né prima conosce il suo errore, che quattro o sei volte
non sia corsa dietro allo specchio per prenderla » (Il Saggiatore,
Opere, VI, p. 277).
56 FILOSOFIA MODERNA

Questa necessità che l'esperienza sia lunga, circostanziata è


espressa anche nella favola dell'uomo che si domanda che cosa
sia il suono e da che cosa sia prodotto (Il Saggiatore, Opere, VI,
pp. 279-81): prima pensa che sia prodotto dalla speciale strut­
tura dell'ugola degli uccelli, poi si accorge che può esser prodot­
to anche dallo zufolo di un pastore, quindi scopre che lo produ­
cono anche le corde di uno strumento ad archi; poi lo sfrega­
mento dei cardini di un portone, quindi in altri modi ancora
« onde si ridusse a tanta diffidenza del suo sapere, che, doman­
dato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di
sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere
cento altri incogniti ed inopinabili».
Ma, fin qui, abbiamo ritrovato in Ga1ileo esigenze baconia­
ne. Qualcosa di molto diverso dai discorsi di Bacone sentiamo
nella famosa pagina delle Macchie solari dove Galileo dice: « Il
tentar l'essenza l'ho per impresa non meno impossibile e per fa.
tica non men vana nelle sustanze elementari che nelle remotissi­
me e celesti: e a me pare essere ugualmente ignaro della sustan­
za della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle
macchie del Sole; né veggo che nell'intender queste sostanze vi­
cine aviamo altro vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti
egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con
pochissimo o niuno acquisto dall'uno all'altro ». Dunque: nien­
te « metafisica » nel senso baconiano, niente ricerca della « for­
ma » del caldo o del freddo, dell'umido e del secco. Per quanti
esempi (instantiae) io ammucchi, avrò sempre solo una maggior
copia di particolari, ma « tutti egualmente ignoti ». Perché igno­
ti? Galileo lo spiega con l'esempio che segue: « E se, doman­
dando io qual sia la sustanza delle nugole, mi sarà detto che �
un vapore umido, io di nuovo desidererò sapere che cosa sia il
vapore; mi sarà per avventura insegnato, esser acqua, per virtù
del caldo attenuata, ed in quello resoluta; ma io, egualmente dub­
bioso di ciò che sia l'acqua, ricercandolo, intenderò finalmente,
esser quel corpo fluido che scorre per i fiumi e che noi continua­
mente maneggiamo e trattiamo: ma tal notizia dell'acqua è so­
lamente più vicina e dependente da più sensi, ma non più intrin­
seca di quella che io avevo per avanti delle nugole » (Delle mac­
chie del Sole, Terza lettera; Opere, V, p. 187).
Perché dunque è impresa impossibile e fatica vana cercare l'es-
GALILEO 57

senza dei corpi e delle loro proprietà? Perché in realtà si defini­


sce quella pretesa essenza mediante una qualità sensibile (nell'esem­
pio citato: umido), che è soltanto un sentito 1 ma non una « noti­
zia intrinseca». Cioè: non sappiamo che cosa sia l'umido o l'ac­
qua, non la possiamo definire e quindi, nonostante tutte le sen­
sazioni ripetute (la « copia dei particolari») essa ci resta ignota.
E allora? Dobbiamo rinunciare ad una scienza della natura?
No, risponde, Galileo. Solo dobbiamo prendere un'altra strada.
« Ma se vorremo fermarci nell'apprensione di alcune affezioni,
non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi
lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi». Anzi in certi
aspetti i corpi celesti ci possono essere più noti di quelli terrestri.
Ma quali sono questi aspetti o « affezioni»? Sono « il luogo, il
moto, la figura, la grandezza, l'opacità, la mutabilità, la produzio­
ne ed il dissolvimento» (ibid., p. 188). Ossia sono gli aspetti mi­
surabili, traducibili in quantità. Ecco il colpo di genio di Galileo.
Tradurre la natura in un « vestito di idee», per usare la frase di
Husserl; ossia cogliere dei fenomeni naturali, nel caos di qualità
sensibili che, appunto, sentiamo, ma non riusciamo a definire, solo
quegli aspetti di cui possiamo avere « notizie intrinseche», come
sono i concetti matematici.
Così fece Galileo per determinare che cosa è la gravità. Dopo
aver constatato, con l'esperienza, che la teoria di Aristotele, se­
condo la quale la velocità dei corpi che cadono sarebbe proporzio­
nale al loro peso, era falsa, Galileo fa l'ipotesi che il moto dei
gravi sia un moto uniformemente accelerato, ossia un moto in cui
la velocità sia proporzionale al tempo: aumenti cioè di grandezz�
eguali per ogni unità di tempo; quindi stabilisce la formula mate­
matica di un tale moto e dimostra (nella 2 a giornata del Dialogo
e nella 3 a giornata dei Discorsi) che moto uniformemente accele­
rato è quello in cui lo spazio percorso è proporzionale al quadra­
to del tempo impiegato. Infine verifica l'ipotesi, cioè fa una espe­
rienza per vedere se il moto dei gravi segua questa formula, per­
ché « così si costuma e si conviene nelle scienze le quali alle con­
clusioni naturali applicano le dimostrazioni matematiche, come si
vede nei perspettivi 16, negli astronomi, ne i mecanici, ne i musi-

1
• La perspectiva è l'ottica geometrica.
58 FILOSOFIA MODERNA

ci ed altri, li quali con sensate esperienze confermano i principii


loro, che sono i fondamenti di tutta la seguente struttura ... »
(Discorsi, giornata 3"; Opere, VIII, p. 212). L'esperienza è quel­
la che anche Kant ricorda nella Prefazione alla 2a edizione della
Critica della ragion pura: Galileo fece roto1are « in un canalet­
to... dirittissimo ... ben pulito e liscio » al quale aveva dato una
certa inclinazione « una palla di bronzo durissimo ben rotondata
e pulita » e misurò con la massima precisione possibile i tempi di
caduta in proporzione alla lunghezza del regolo in cui era scavato
il canaletto, e constatò che, in esperienze « molte e molte volte
replicate », i risultati confermavano l'ipotesi. Galileo dice che
« sopra a questo primo e massimo fondamento », che è la legge
della caduta dei gravi, « s'appoggia l'immensa machina d'infìnite
conclusioni ». E infatti, per esempio, bastò a Newton fare dei
calcoli matematici sulle distanze e le velocità per stabilire che « la
forza, per effetto della quale la Luna è trattenuta nella propria.
orbita, sarà quella stessa che siamo soliti chiamare gravità » 17, sen­
za dover speculare su pretese qualità o essenze dei corpi celesti.
Bastava dunque, per riprendere la frase di Husserl, provare
alla natura un « vestito di idee » per riuscire a determinarne ca­
ratteri importantissimi. Anziché speculare su essenze che non co­
nosciamo, per dedurne teoremi che poi erano contraddetti dal­
l'esperienza, si definiva l'essenza di un fenomeno in base alla legge
del suo comportamento, legge espressa in termini matematici. Gra­
vità è ciò per cui i corpi si muovono di moto uniformemente ac­
celerato con una determinata accelerazione. Prima di saper que­
sto, come osserva Galileo nel passo del Dialogo citato prima, si co­
nosceva solo il nome della gravità; niente di più.
La fisica diventa una scienza rigorosa perché adopera solo no­
zioni matematiche, sulle quali si può costruire un autentico « di­
scorso », ossia un autentico ragionamento. Infatti la matematica
è una scienza limitata, ma perfetta nel suo genere, perché le su�
proposizioni sono assolutamente certe, tali che non possono essere
negate senza contraddizione, si che neppure Dio può conoscerle
meglio di noi. « Però, per meglio dichiararmi dico che quanto alla
verità di che ci danno cognizioni le dimostrazioni matematiche,

17 Philos. naturalis principia math., libro III, prop. IV, teorema IV, scolio. Trad.
Pala, Torino, U.T.E.T., 1965, p. 623.
GALILEO 59

ella è l'istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò


bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni,
delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente più ec­
cellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi
di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice in­
tuito » (Dialogo, giornata 1\ Opere, VII, p. 129). E Galileo spie­
ga il suo pensiero: non che Dio geometrizzi, perché le infinite ve­
rità geometriche « forse sono una sola nell'essenza loro e nella
mente divina », ma il loro valere anche per Dio significa che nep­
pure Dio potrebbe negarle o farle essere diversamente da quello
che sono. E se vogliamo rendere esplicito il presupposto implici­
to della tesi galileiana, dobbiamo dire: valgono assolutamente per­
ché sono tali che non possono essere negate senza contraddizione,
perché si fondano sul principio di non contraddizione (perché sono
tautologiche, direbbe un neopositivista) e il principio di non con­
traddizione vale per tutto l'essere, anche per Dio.
Col metodo che Galileo indica brevemente nel passo de Le
macchie solari e, sopra tutto, attua nella meccanica, veniva a co­
stituirsi un nuovo tipo di sapere, quello che noi oggi chiamiamo
scienza, come sapere distinto dalla filosofia. Per Aristotele e per
gli scolastici esisteva un unico tipo di sapere - sia pure suddivi­
so in tre gradi: fisica, matematica e metafisica -, un sapere in
cui per astrazione si colgono le essenze e i loro fondamentali
attributi; predicando delle essenze questi fondamentali attri­
buti si formulano gli assiomi o ipotesi o postulati, e, quando
si riconosce in un caso particolare una essenza, si dimostra dedut­
tivamente un teorema. Galileo svolge e dà esplicitamente il me­
todo di un nuovo tipo di sapere, in cui, limitandosi ad alcune
« affezioni » dei corpi - quelle misurabili - si cerca la legge
del loro comportamento, si fa un'ipotesi, e si formula tale ipote­
si in termini matematici. Poi viene, anche in questo tipo di sape­
re, il momento deduttivo che è il momento della previsione e della
verifica. Per verificare se l'ipotesi risponde alla realtà, se i gravi
cadono secondo la formula del moto uniformemente accelerato, bi­
sogna fare questo ragionamento: la velocità proporzionale ai qua­
drati dei tempi è caratteristica del moto uniformemente accelera­
to; ora l'esperienza ci dice che nel moto dei gravi la velocità è
proporzionale ai quadrati dei tempi, dunque i gravi cadono con
moto uniformemente accelerato. Ma il momento caratteristico di
60 FILOSOFIA MODERNA

questo tipo di sapere è quello in cui una proprietà, caratterizzan­


te una essenza, è definita in base ad una formula matematica.
E qui si presentano due problemi: uno è se questo nuovo sa­
pere sostituisca l'antico (se la scienza sostituisca la filosofia, se la
scienza sia l'unico tipo di sapere valido); l'altro è quello se la de­
finizione dei fenomeni naturali attraverso le leggi del loro com­
portamento formulate matematicamente esaurisca tutta la realtà di
tali fenomeni. O, in altre parole, se l'essenza dei corpi naturali
si riduca tutta a quegli aspetti che possiamo sottoporre a scienza.
Per ciò che riguarda il primo problema, possiamo dire che
Galileo non ha tentato di costruire sulla sua scienza una nuova
metafisica: glielo rimprovera Cartesio quando dice, in una lette­
ra a Mersenne dell'l 1 novembre 1638, che Galileo ha « cercato
solo le ragioni di alcuni effetti particolari » e gli rimprovera di
aver cosl costruito senza fondamento; di non aver considerato « le
prime cause della natura ».
Che la fisica galileiana non sostituisca la metafisica possiamo
vedere a proposito del principio di inerzia. Koyré ha dedicato a
« Galileo e il principio di inerzia » tutta la terza parte delle sue
Etudes Galiléennes: noi ci limiteremo a dire che Galileo, anche se
non lo ha formulato expressis verbis come Cartesio, ha, almeno in
certo senso, scoperto il principio di inerzia. Abbiamo detto che egli
si serve di questo principio per confutare una obiezione contro
l'ipotesi copernicana: quella della pietra che lasciata cadere dalla
torre, cade ai piedi della torre stessa. Galileo (Salviati) chiede a
Simplicio: se poneste una palla sferica su una superficie inclinata
e perfettamente liscia, « che credete voi che ella facesse? ». Sim­
plicio risponde: scenderebbe. E, sollecitato dalle domande di Sal­
viati continua: continuerebbe a scendere all'infinito, « se tanto du­
rasse la inclinazione del piano, e con movimento accelerato conti­
nuamente »; se, invece, sullo stesso piano fosse spinta all'in su
- e poi la spinta cessasse - il suo movimento andrebbe sempre
rallentandosi. E se il piano - chiede Salviati - non fosse inclina­
to né verso l'alto né verso il basso, e la palla vi arrivasse già in
movimento? Simplicio risponde: « Seguirebbe il muoversi verso
quella parte ». Salviati: « Ma di che sorte di movimento? di con­
tinuamente accelerato, come ne' piani declivi, o di successivamen­
te ritardato, come negli acclivi? ». Simplicio: « Io non ci so scor­
gere causa di accelerazione né di ritardamento... ». Salviati: « Sl.
GALILEO 61

Ma se non vi fosse causa di ritardamento, molto meno vi dovrebbe


esser di quiete ... ». La palla, dunque, se si potesse eliminare ogni
attrito (cioè ogni forza contraria) continuerebbe a muoversi all'in­
finito con moto uniforme, continuerebbe cioè a mantenere il suo
movimento (Dialogo, giornata 2a; Opere, VII, pp. 171-74). La
pietra, dunque, che cade dalla cima di una torre (o dall'albero di
una nave in movimento) continua a muoversi del moto che aveva
quando era in cima all'albero e quindi « non l'è per lasciare, anzi
è per seguire la nave, ed in ultimo per cadere nel medesimo luogo
dove cade quando la nave sta ferma » (ibid., p. 174).
Ma prescindiamo dalla risposta all'obiezione anti-copernicana
e vediamo che cosa implicasse il principio di inerzia. Implicava,
almeno in un certo senso, la negazione del principio aristotelico
omne quod movetur ab alio movetur perché la ipotetica palla avreb­
be continuato a muoversi all'infinito senza ricevere spinte ulterio­
ri, senza, almeno in un certo senso, esser mossa. Dico: in un cer­
to senso, perché non credo né che occorra discutere sul principio di
inerzia per salvare la metafisica, né che occorra dichiarare che il
principio di inerzia nega in toto l'omne quod movetur. Il principio
di inerzia dice infatti semplicemente che occorre una forza (un
movens) per determinare una accelerazione (una variazione di ve­
locità) e non per determinare movimento; la forza è causa di ac­
celerazione e non di movimento, e il moto rettilineo e uniforme
deve essere considerato uno stato e non un divenire, un passag­
gio. Il che vuol dire che non dovremo pensare a intelligenze mo­
trici per spiegarci il moto degli astri e che « l'amor che muove il
sole e le altre stelle » andrà inteso in un senso almeno in parte di­
verso da quello che gli dava Dante. Ma non vuol dire che là dove
constatiamo un divenire non possiamo applicare l'omne quod mo­
vetur ab alio movetur, inteso nel senso che tutto ciò che muta (o
diviene) non ha in sé la ragione del suo divenire. Si potrà discute­
re questa proposizione, ma la si dovrà discutere in sede metafisica
e non in base al principio di inerzia. E certo Galileo non ha mai
detto che il principio di inerzia avesse a che fare con la dottrina
del primo motore immobile.
E forse non ha neppur tentato di costruire una nuova filosofia
della natura, cioè una determinazione delle prime cause della na­
tura. Certo, di fronte a certe stolte applicazioni del concetto di
forma sostanziale, mutazione sostanziale, ha espresso il dubbio che
62 FILOSOFIA MODERNA

murazioni sostanziali e forme sostanziali non ci siano e che tutti i


mutamenti si risolvano in « trasposizioni di parti » (Dialogo, gior­
nata 1 a; Opere, VII, p. 65), ossia ha espresso una certa propen­
sione ad una concezione meccanicistica della natura, ma non ha
mai svolto una tale concezione, diversamente, anche qui, da
Cartesio.
Dobbiamo riconoscere del resto che lo scempio che dagli ari­
stotelici si faceva delle forme sostanziali era una forte tentazione
a cercare di spazzarne via il concetto stesso. A Galileo interessava­
no teorie che spiegassero il modo in cui si svolgono i fenomeni na­
turali: per esempio « qual sia il modo di operare della natura nel
generare in brevissimo tempo centomila moscioni da un poco di
fumo di mosto » (Dialogo, giorn. 1 a; Opere, VII, p. 64 ). Per Ga­
lileo se non si sa qual sia il modo in cui operano forme e qualità,
il concetto stesso di forma sostanziale non ha senso; d'altra parte i
suoi avversari credono che noi conosciamo le essenze delle cose e
possiamo spiegare i fenomeni naturali con pretesi concetti che era­
no in realtà puri nomi (e anche ridicoli). Ecco per esempio che
cosa scriveva Antonio Rocco nelle sue Esercitazioni filosofiche 18 in
polemica con Galileo: « Ed al proposito di moscioni, la materia
loro propinqua è il fumo del mosto, la quale ha però, nel suo modo,
forma ... informe e imperfetta di quella fumosità; questo fumo ha
del terreo sottile, ed il calore che trae di sua natura dal mosto è
anco umido grandemente, le quali disposizioni sono attissime alla
formazione di questi imperfetti animaletti: la terrestreità gli serve
per suissistenza stabile; l'umidità per impastargli, a punto come
l'acqua nella farina per fare il pane; il caldo per dargli principio
di vita e di operazione ». E seguita cosl per concludere: « Or il
fumo fatto denso, temperato, mobile, indifferente, non è più fumo,
ha perso la sua forma, ed in questa maniera del suo distrugger�i
si è generata la natura di moscioni ».
Per ciò che riguarda il secondo problema, Galileo ha certo ne­
gato l'esistenza « :fisica » delle qualità corporee in quel famoso
passo del Saggiatore: « ... io dico che ben sento tirarmi dalla ne­
cessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a
concepire ch'ella è terminata e :figurata di questa o di quella :figu­
ra, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch'ella è in que-
1• Si trovano nello stesso voi. VII dell'Edizione nazionale delle Opere di Galileo. Il
passo citato è a pag. 611.
GALILEO 63

sto o quel luogo, in questo o quel tempo, ch'ella si muove o sta


ferma, che ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una,
poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla da
queste condizioni »; e queste condizioni sono poi le stesse « afle­
zioPJ » di cui parlava ne Le macchie solari; « ma eh'ella debba es­
ser bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingra­
to odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprender�
da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi se i sensi
non ci fossero scorta, forse il discorso o l'immaginazione per se stes­
sa non v'arriverebbe già mai» (Opere, VI, pp. 347-348). È la
medesima considerazione che faceva ne Le macchie solari quando
diceva che dell'acqua abbiamo solo una « notizia più vicina e de­
pendente da più sensi », ma non « più intrinseca» della conoscen­
za delle nuvole. Infatti le qualità non si possono sottoporre a un
« discorso », ossia a un ragionamento rigoroso, perché non ne ab­
biamo veri e propri concetti, ma solo sensazioni. Ma nel Saggiato­
re Galileo va più avanti e continua: « Per lo che io vo pensando
che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel
quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma ten­
gano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sl che rimosso
l'animale, siano levate ed annichilate tutte queste qualità... » (Il
Saggiatore; Opere, VI, p. 348). E fa il paragone fra le qualità e
il solletico: come il solletico non è nella piuma che mi passa sott0
il naso, ma in me, cosl sono « nel corpo sensitivo » colori, suoni,
odori ecc. Cioè: dall'affermazione che le qualità sono soltanto sen­
tite, egli passa all'affermazione che sono sensazioni.
Ma cosa sono le sensazioni? Che cos'è il « corpo sensitivo»?
Che cos'è l'animale? È un corpo come tutti gli altri - anch'esso
privo di qualità - o ha qualcosa più degli altri corpi? E se ha
qualcosa più degli altri, questo più non rischia di somigliare a quel­
lo che Aristotele chiamava entelechia e gli scolastici forma so­
stanziale?
Galileo non si interessa di questi problemi: a lui basta che
non gli si adducano le forme sostanziali come spiegazione del modo
in cui si svolgono i fenomeni naturali; ma a Cartesio, che era filo­
sofo, non solo nel senso galileiano, ma anche nel senso che diamo
noi oggi a questo termine, e cioè intendeva costruire un sistema
che abbracciasse tutta la realtà, questi problemi si posero, ed egli
diede loro una soluzione.
CAPITOLO TERZO

R. CARTESIO
(1596 - 1650)

1. La vita

Di Cartesio si ricorda sopra tutto il cogito, ma occorre ricor­


dare anche che i primi studi intrapresi liberamente da Cartesio sono
studi scientifici, ricerche scientifiche, e che l'opera più famosa di

* Per tutte le notizie biografiche e bibliografiche si veda: E. GARIN, La vita e le opere


di Cartesio, Introduzione a CARTESIO, Opere, Bari, Laterza, 1967, 2 voll. Questa introdu­
zione è ricchissima e concentra nelle sue duecento pagine un lavoro mirabile. Ricordiamo
solo la completa (fino al 1963) Bibliographia cartesiana di G. SEBBA, L'Aia, M. Nijhoff,
1964. L'edizione completa delle Opere di Cartesio è quella a cura di Ch. Adam e P. Tan­
nery, Paris, Cerf, 1897-1913 della quale è in corso di stampa una « nouvelle présentation »
che conserva la paginazione della prima edizione. La indicherò con la sigla A.T. - Utile
l'ampia scelta di opere in DESCARTES, Oeuvres et lettres, Paris, Bibliothéque de la
Pléiade, 1963.
Le interpretazioni di Cartesio sono innumerevoli: il volume di F. OLGIATI, Car­
tesio, Milano, Vita e Pensiero, 1934, ne dà una rassegna. Nel volume del 1937, La
filosofia di Descartes (stesso editore) l'Olgiati dà la propria interpretazione. Altra
utile rassegna è quella di G. Roms - LEWIS, Cinquante ans d'études cartésiennes,
in « Revue Philosophique », 1951, pp. 249-67. Qui ci limiteremo a ricordare, per
i rapporti fra Cartesio e la scolastica, E. GILSON, La liberté chez Descartes et la
théologie, Paris, Alcan, 1913; ID., Index scolastico-cartésien, Paris, Alcan, 1913; ID.,
RENÉ DESCARTES, Discours de la méthode, Texte et commentaire, Paris, Vrin, 1925
(cito dalla ristampa del 1947); ID., Etudes sur le r6le de la pensée médiévale dans la
formation du système cartésien, Paris, Vrin, 1930; J. SIRVEN, Les années d'apprentissage
de Descartes, Paris, Vrin, 1930; H. GoUHIER, La pensée religieuse de Descartes,
Paris, Vrin, 1924; ID., Essais sur Descartes, Paris, Vrin, 1937; J. LAPORTE, Le ra­
tionalisme de Descartes, Paris, P.U.F. 1945 (2• ed. 1950); F. ALQUIÉ, La découverte
métaphysique de l'homme chez Descartes, Paris, P.U.F., 1950; M. GuÉROULT, De­
scartes selon l'ordre des raisons, Paris, Aubier, 1953, 2 voll.; A. DEL NocE, Riforma
cattolica e filosofia moderna, voi. I, Cartesio, Bologna, Il Mulino, 1965.
66 FILOSOFIA MODERNA

Cartesio, il Discorso sul metodo, è una introduzione a tre saggi


scientifici: la Diottrica, le Meteore, la Geometria.
Il Discorso sul metodo, nella prima parte, contiene una rapida
autobiografia di Cartesio. Si è discusso sulla veridicità di tali dati
autobiografici, ma in sostanza, come ritiene il Garin nella sua do­
cumentatissima Vita, essi sono attendibili. Nato nel 1596 a La
Haye, in Turenna, studiò otto o nove anni nel Collegio de La
Flèche, tenuto dai Gesuiti, probabilmente dal 1605 al 1613. Era
« una delle più celebri scuole d'Europa », come dice Cartesio stes­
so, ed egli vi studiò le lingue « necessarie per la comprensione dei
libri antichi », ossia latino e greco, le « favole », ossia la poesia, le
« storie ». La « filosofia » comprendeva anche l'insegnamento della
matematica e della fisica, il metodo di insegnamento era quello sco­
lastico: si seguiva il trattato dei Conimbricenses, cioè dei Gesuiti
dell' Università di Coimbra 1• Come osserva il Garin, Cartesio non
studiò mai la scolastica sui testi dei grandi autori, ma sempre sui
manuali e i commenti. Ma il Cursus Conimbricensis era « una
summa ampia e aggiornata, non solo della cultura scolastica, ma
anche delle discussioni dei secoli XV e XVI » (Garin, p. XVI). In
matematica si seguivano le opere di P. Clavio.
Le impressioni di Cartesio sono così riassunte nel Discorso:
« Non disistimavo tuttavia gli esercizi di cui ci si occupa nelle scuo­
le. Sapevo che le lingue, che vi si imparano, sono necessarie per
la comprensione dei libri antichi; che la grazia delle favole sveglia
lo spirito; che le azioni memorabili della storia lo elevano ... ; che
la lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con gli
uomini più rispettabili dei tempi passati...; che l'eloquenza ha un
vigore e una bellezza incomparabile; che la poesia ha una delica­
tezza e una dolcezza affascinante; che le matematiche hanno inven­
zioni sottilissime, e che possono servire molto, sia a soddisfare i
curiosi che a facilitare tutte le arti e a diminuire la fatica degli uo­
mini; che gli scritti morali contengono molti insegnamenti ed esor­
tazioni alla virtù, assai utili; che la teologia insegna a conquistare
il Paradiso; che la filosofia dà modo di parlare con verosimiglian­
za di ogni cosa e di farsi ammirare dai meno dotti; che la giuri-

1
In 5 volumi, composti dal 1592 al 1606. Ha forma di commento alle opere
aristoteliche. Manca la parte dedicata alla Metafisica. Ma il Fonseca, incaricato di diri­
gere il trattato, aveva già scritto una Metafisica in quattro tomi.
CARTESIO 67

sprudenza, la medicina e le altre scienze portano onori e ricchezze


a chi le coltiva; e, infine, che è bene averle esaminate tutte, anche
le più superstiziose e le più false, per riconoscere il loro giusto va­
lore e non lasciarsene ingannare» (A.T., VI, p. 5). E paragona la
conoscenza delle opere altrui al viaggiare in paesi stranieri: utile
per un certo periodo, ma non per tutta la vita.
Come si vede, la disciplina peggio trattata è la :filosofia. Il rim­
provero che Cartesio le muove, anche poco più avanti, è di fare
solo discorsi probabili, verosimili, non assolutamente certi. Cosl,
nel commento alla II delle Regulae ad directionem ingenii, parle­
rà del modo di filosofare degli scolastici come di una macchina da
guerra fatta di sillogismi probabili (... illam ... philosophandi ratio­
nem et scholasticorum, aptissima bellis, probabilium syllogismorum
tormenta) (A.T., X, p. 363 ).
Quello che più ci stupisce è il giudizio sulle matematiche: ser­
vono a soddisfare i curiosi e alla tecnica. Niente di più? Ma vedre­
mo la ragione di questo giudizio fra poco.
Lasciata La Flèche studiò diritto a Poitiers e vi si « licenziò »
nel 1616. Si arruolò nell'esercito di Maurizio di Nassau in Olan­
da e nel 1618, lasciato l'esercito, incontrò Isacco Beekman col
quale strinse amicizia e col quale discusse di problemi matemati­
ci e fisici. Può darsi, dice il Sirven (Les années d'apprentissage de
Descartes, p. 106 ), che Cartesio abbia letto in questo periodo le
opere di Apollonio, che completavano e generalizzavano i risulta­
ti ottenuti da Archimede sulle sezioni coniche.
Nel 1619 fece un viaggio in Danimarca e in Germania, poi
si arruolò nell'esercito del cattolico Duca di Baviera e, mentre
era nei quartieri d'inverno in un poele, ossia in una stanza riscal­
data, il 10 novembre 1619 scopri mirabilis scientiae fundamenta;
e ebbe anche un sogno, sul quale gli interpreti hanno molto di­
scusso. A questo triplice sogno Cartesio diede questo significato;
« 1. unità del complesso delle scienze; 2. riconciliazione e unità
fondamentale della filosofia e della saggezza; 3. senso di essere
investito da Dio di una missione: quella di costituire il corpus
delle scienze e di fondare la vera saggezza» 2• In sostanza: l'idea
che balza agli occhi di Cartesio è quella dell'unità del sapere, uni­
tà data dal metodo matematico.
2
E. GILSON, R. DESCARTES, Discours de la methode, Commentaire, p. 158.
68 FILOSOFIA MODERNA

Pieno di entusiasmo, Cartesio promise, in ringraziamento, di


fare un pellegrinaggio a Loreto.
Certo gli scritti di questi anni 1618 - 1621 (Parnassus e Olym­
pica, appunti pubblicati postumi) sono solo di carattere scientifico.
Dal 1620 al 1628 Cartesio dimorò quasi sempre in Francia,
spesso a Parigi, salvo il viaggio in Italia del 1623 - 24. In questi
anni conobbe il P. Marino Mersenne, che diventerà suo amico
fidatissimo e suo intermediario coi dotti francesi quando Cartesio
si sarà ritirato in Olanda. Cresceva la sua notorietà, dice il Garin,
ma aggiunge: « Comunque, e va sottolineato, è fama di scienzia­
to, e di inventore la sua » - non di :filosofo, aggiungo io.
Alla fine del 1627 avvenne un fatto importante per la voca­
zione di Cartesio: in una discussione con un certo Chandoux, alla
presenza del Card. de Bérulle, Cartesio suscitò in Bérulle una
tale ammirazione che questi lo esortò a elaborare una riforma della
filo&ofìa, presentandogli questa attività come un dovere religioso.
Nel 1628 Cartesio si stabilì in Olanda. Del 1627-28 sono
probabilmente le Regulae ad directionem ingenii. Fra il 1628 e
il 1637 Cartesio si occupò, oltre che di problemi fisici, anche di
problemi metafisici. Nelle lettere degli anni intorno al 1630 si
trova quella teoria delle verità necessarie che sta a fondamento
del suo concetto della libertà divina; in quegli anni abbozzò anche
l'esposizione della sua metafisica che prenderà poi forma definiti­
va nelle Meditazioni.
Il fenomeno dei parelii lo indusse a studiare i fenomeni cele­
sti. Fra il 1630 e il 1633 scrisse Il Mondo o Trattato della luce
e L'Uomo. La parte sull'uomo doveva entrare nel grande tratta­
to sul mondo: il che vuol dire che Cartesio si proponeva di scri­
vere un intero sistema del sapere 3• Nel Mondo Cartesio sostene­
va la teoria copernicana, ma la condanna di Galileo lo indusse a
non pubblicare il trattato (sia Le Monde che L' Homme uscirono
dopo la morte di Cartesio). Molto del materiale di quei trattati,
tuttavia, con in più altre dottrine scientifiche che Cartesio aveva
elaborato in quegli anni, fu pubblicato nei Saggi del 1637: La
Diottrica, Le Meteore e La Geometria, preceduti dal Discorso sul
metodo: Discours de la méthode pour bien conduire sa raison et

• Dico del sapere, perché questo sapere abbraccia quelle che noi oggi chiamiamo
scienza e filosofia, ma che allora si chiamavano tutte filosofia.
CARTESIO 69

chercher la vérité dans les sciences, plus La Dioptrique, Les Mé­


téores et La Géométrie, qui sont des essais de cette méthode.
Dopo la pubblicazione del Discorso, che già conteneva nella
quarta parte una breve esposizione della metafisica, Cartesio ne
scrisse una più ampia esposizione nelle Meditazioni. Ne fece leg­
gere il manoscritto a Caterus (Johan de Kater), teologo cattolico e
tomista, che glielo restituì con le sue Obiezioni (le prime) alle
quali Cartesio scrisse subito le sue risposte. Mersenne, intanto,
che aveva pure ricevuto il manoscritto delle Meditazioni, lo faceva
leggere ad altri, a Parigi, e ne raccolse le obiezioni. Le seconde
obiezioni sono dello stesso Mersenne, le terze di Hobbes, le quar­
te <li Arnauld, le quinte di Gassendi, le seste di vari teologi e filo­
sofi, raccolte da Mersenne. Con queste sei serie di obiezioni, e con
le risposte di Cartesio, le Meditationes de prima philosophia usci­
rono a Parigi nel 1641. Nell'edizione del 1642 furono aggiunte le
settime obiezioni, del gesuita Bourdin, con le risposte di Cartesio;
e nel 1647 fu pubblicata a Parigi la traduzione francese del Duca
di Luynes, riveduta da Cartesio stesso (la traduzione delle Obie­
zioni e risposte è del Clerselier).
Ma, mentre scriveva le Meditazioni e le risposte, Cartesio con­
tinuava ad occuparsi di questioni scientifiche, come attestano le
lettere, e nel 1644 pubblicò i Principi di filosofia che nella prima
parte trattano di filosofia, ma nelle altre tre parti contengono la sua
« fisica » e la sua biologia e fisiologia, ampliata poi nel Trattato del­
le Passioni, del 1649.
Nel 1649 la regina Cristina di Svezia lo invitò alla sua corte e
il clima della Svezia, specie per lui che doveva andare a corte alle
5 del mattino per dar lezioni alla regina, gli fu fatale: mori 1'11
febbraio del 1650.

IL METODO

2. L'evidenza

La scienza mirabile di cui Cartesio ritenne di avere scoperto le


fondamenta, nel 1619, è una mathesis universalis, una scienza uni­
taria svolta con metodo matematico. Vediamo dunque quali deb-
70 FILOSOFIA MODERNA

bano essere i caratteri di questa scienza leggendo le regole del me­


todo esposte nella seconda parte del Discorso e tenendo presenti le
Regulae ad directionem ingenii.
La prima delle Regulae dice che il fine degli studi deve essere
quello di orientare l'intelligenza a pronunciare giudizi solidi e veri.
Sembra una banalità, ma nel commento si vede che non si tratta di
una banalità, ma di un certo rovesciamento di posizioni: lo spirito
(la mens) deve rivolgersi in primo luogo verso se stesso: il metodo
è la prima condizione per conoscere la verità. I « veri e solidi giu­
dizi » si ottengono non rivolgendosi alle diverse cose conoscibili,
non scegliendo una scienza particolare, ma rafforzando lo strumen­
to per conoscere, il lume della ragione. La metodologia deve pre­
cedere la conoscenza dell'oggetto. Questa insistenza sulla necessità
di instaurare un nuovo metodo nasce, come abbiamo già visto in
Bacone e in Galileo, dalla constatazione della cattiva riuscita della :fi­
losofia. Non vi è nulla di cosl strano e inverosimile che non sia stato
detto da qualche filosofo, dice Cartesio nel Discorso (A.T.,VI,
p. 8 ), e nella Lettera al traduttore francese dei Principi di filosofia
ribadisce: la verità di una scienza dipende dal valore dei principi
sui quali essa si fonda; ora quelli che si chiamano filosofi si sono
sforzati di trovare i veri princip1, ma nessuno ci è riuscito. È vero
che Cartesio cita fra i :filosofi Platone e Aristotele, e dice che quelli
che son venuti dopo di loro non hanno fatto che ripetere ciò che
avevano detto quei due, e specialmente Aristotele, ma poi facendo
gli esempi afferma: « Per esempio, non ne conosco nessuno che
non abbia supposto la pesantezza nei corpi terrestri; ma... non per
questo conosciamo qual sia la natura di ciò che si chiama pesantez­
za... e dobbiamo impararlo altrove. Si può dire lo stesso del vuoto
e degli atomi, del caldo e del freddo, del secco e dell'umido, del
sale, dello zolfo e del mercurio, e di tutte le cose simili che alcuni
hanno supposto come princip1 » (sottolineature mie). Dunque è
questa la « filosofia » che ha fallito, ed ha fallito perché « tutte le
conclusioni che si deducono da un principio non evidente non pos­
sono essere evidenti, ancorché dedotte correttamente ». I problemi
sono i medesimi di quelli di Galileo, il rimprovero alla :fisica aristo­
telica è il medesimo: la deduzione può anche essere corretta: sono
le premesse (le « ipotesi », i « postulati » di cui parla Aristotele
nei Secondi Analitici) che sono false, o almeno oscure, non evidenti.
CARTESIO 71

Dunque il primo precetto 4 del metodo è di « ... non accettare


mai nessuna cosa per vera se non la conoscessi evidentemente come
tale... e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di ciò
che si presentasse così chiaramente e distintamente che non avessi
alcuna occasione di metterlo in dubbio». La II Regola dice lo
stesso: limitarsi a quegli oggetti di cui possiamo avere una cono­
scenza « certa e indubitata». Ora oggetti tali sono, nelle scienze
che già possediamo, solo quelli dell'aritmetica e della geometria
- dice Cartesio nel commento alla II Regola - perché solo que­
ste scienze hanno a che fare con un oggetto cosi « puro e semplice »
che non possono essere rese incerte dall'esperienza (A.T., X, p.
365). Il che non vuol dire che dobbiamo limitarci all'aritmetica
e alla geometria, ma che dobbiamo prenderle per modello in ogni
sapere.
La chiarezza e l'evidenza, dice la III Regola, si ha nelle propo­
sizioni che sono oggetto di intuizione o di deduzione (... quid clare
et evidenter possimus intueri, vel certum deducel'e quaerendum
est). Le attività che ci portano alla conoscenza sicura sono dunque
solo due: intuitus e deductio. « Intendo per intuitus non la fede
fluttuante dei sensi o il giudizio fallace di un'immaginazione che
unisce malamente [diversi aspetti]; ma il concetto di una mente
pura e attenta, concetto così facile e distinto, da non lasciar po­
sto ad alcun dubbio di ciò che intendiamo; ossia il concetto indu­
bitabile di una mente pura e attenta, concetto che nasce dalla luce
della sola ragione» (A.T., X, p. 368). E fa degli esempi: « ognuno
può intuire di esistere, di pensare; può intuire che il triangolo è
terminato solo da tre lati... e simili ».
Di intuizione si può parlare anche per le inferenze (discursus):
si tratta infatti di vedere il rapporto necessario fra proposizioni:
per esempio che 2 + 2 = 3 + 1.
Ci si potrebbe allora chiedere che differenza ci sia fra intuitus
e deductio, poiché anche la deductio, che è un discursus, consiste
nel vedere il nesso fra proposizioni. Cartesio risponde che, in fon­
do, la differenza è solo di grado: si tratta sempre di un vedere, ma,
quando i passaggi sono molti, non si riesce ad averli tutti presenti
( come quando una catena è lunga, sebbene ogni anello sia salda-•

• Chiamerò, per non dover sempre citare il titolo dell'opera, precetti quelli del
Discorso e regole quelle delle Regulae ad directionem ingenii.
72 FILOSOFIA MODERNA

mente legato al precedente, non si riesce a vederla tutta insieme),


e bisogna fidarsi della memoria. La deduzione dunque differisce
dall'intuizione, perché implica un passaggio (motus) e una succes­
sione, mentre nell'intuito l'oggetto è tutto presente (A.T., X, pp.
369-70).
J. Laporte ha detto5 molto giustamente che, per Cartesio, « sa­
voir se réduit à voir » • La cosa curiosa è che abbia visto in questa
tesi « l'originalità essenziale del cartesianesimo », ciò per cui esso
si oppone alla scolastica, « per tacere di quella scolastica moderna
che fiorisce tra i discepoli di Leibniz, di Kant, di Hegel, di Hus­
serl ». Ora nella scolastica medievale (p. es. in S. Tommaso, Sum­
ma theol., I, q. 79, art. 8) e in Husserl (dr. il « principio di tutti i
principi:» nel§ 24 delle Ideen I) la tesi si trova enunciata, e proprio
esplicitamente, in actu signato 6•
Ho ricordato solo alcuni punti positivi della III e IV Regola,
ma ci sono anche critiche alla scolastica, che ricordano Galileo: il
fastidio per le complicate regole della sillogistica, che serve solo
- aveva detto nel commento alla II Regola - a costruire macchine
da guerra di sillogismi probabili; l'osservazione che il consenso
di molti su una tesi non serve a provarne la verità, perché, nelle
questioni difficili, è più probabile che la verità sia stata conosciuta
da pochi che da molti 7•
Chiaro e distinto, evidente, è dunque solo l'oggetto del « puro \)
intelletto, ciò che l'esperienza sensibile non rende incerto, ciò
che non è oggetto di fede fluttuante dei sensi. Riecheggia anche

5 Le rationalisme de Descartes, p. 21 (cito dalla prima edizione).


' Credo poi che in tutte le filosofie si trovi accettata in actu exercito. Su cosa mai,
infatti, potrebbe fondarsi il sapere se non sull'evidenza, sul vedere? Il problema sarà
quello (mi sia permesso il bisticcio) di andare a vedere se uno vede quello che dice
cli vedere, poiché « non tutto quello che uno dice lo pensa anche », come osservava
Aristotele, ma la via per sapere non può essere che quella, e l'alternativa è solo fra
aprire gli occhi o tenerli chiusi. Uno potrebbe dire: li apro, ma non vedo nulla. In
questo caso o ha coscienza di non vedere - e allora vede qualcosa, perché vede di non
vedere - o non ha neppure questa coscienza e allora è « simile a un tronco », come
dice ancora Aristotele. Qualcosa cli analogo dice Cartesio quando afferma che non c'è
metodo per insegnare come si facciano l'intuizione e la deduzione perché si tratta di
azioni simplicissimae et primae, si che, se uno non le compie, non può neppure capir
nulla di metodo. Ora il metodo si può imparare, e i migliori ingegni l'hanno imparato,
sotto la sola guida della natura. « Lo spirito umano ha infatti in sé qualcosa di divino,
in cui sono gettati i primi semi dei pensieri utili, cosi che, per quanto siano trascurati
e soffocati da studi sbagliati, producono spontaneamente frutto» (A.T., X, p. 373).
7
Si veda sopra, p. 45, l'osservazione di Galileo: « Sig. Sarsi, infinita è la turba
degli sciocchi...».
CARTESIO 73

qui l'affermazione di Galileo a proposito delle qualità: « se i sen­


si non ci fossero scorta, forse l'intelletto e l'immaginazione non
v'arriverebbe già mai». E Galileo aggiungeva: « Per lo che io vo
pensando ... » che le qualità non esistano nei corpi esterni al sen­
ziente, ma siano nel senziente.
Che sulle qualità sentite non si formulino giudizi chiari e di­
stinti è provato, che le qualità sentite siano solo sensazioni è con­
getturato (« Per lo che io vo pensando... »). Ora con una conget­
tura di questo tipo comincia Le Monde di Cartesio: « Proponendo­
mi di trattare qui della luce, la prima cosa di cui voglio avvertirvi
è che può esservi differenza fra il sentimento che ne abbiamo, cioè
l'idea che se ne forma nella nostra immaginazione per mezzo degli
occhi, e ciò che è negli oggetti e produce in noi questo sentimento,
ossia ciò che vi è nella fiamma o nel sole» (A.T., X, p. 3 ). E an­
ch'egli paragona la luce e i colori al solletico e al dolore. Negli og­
getti c'è, o almeno potrebbe esservi, solo movimento di parti.

3. AJtalisi e sintesi

Veniamo ora al secondo e al terzo precetto del Discorso. « Il


secondo: dividere ogni difficoltà che io esaminassi in quante più
parti fosse possibile e fosse richiesto per meglio risolverla».
« Il terzo: condurre per ordine i miei pensieri, cominciando
dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per salire po­
co a poco, per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi; sup­
ponendo che vi sia un ordine anche fra quelli che non si prece­
dono naturalmente fra loro ».
Questi precetti non sono affatto chiari: la V Regola dice qual­
cosa di simile: prescrive ordine e disposizione nella ricerca e di­
ce che l'osserveremo « si propositiones involutas et obscuras ad
simpliciores gradatim reducamus, et deinde ex omnium simplicis­
simarum intuitu ad aliarum omnium cognitionem per eosdem gra­
dus ascendere tentemus ». Si tratta certo di una teoria della dimo­
strazione (mentre il primo precetto riguardava le verità immedia­
tamente evidenti), come è confermato nella VI Regola in cui si
parla di dedurre (deduximus), e la funzione della dimostrazione
è proprio quella di ridurre il non immediatamente evidente (le
difficoltà, di cui parla il secondo precetto, le proposizioni involute
74 FILOSOFIA MODERNA

e oscure di cui parla la V Regola) all'immediatamente evidente, al


maxime simplex, come dice la VI Regola - di ridurre il teorema
all'assioma -. Ma il vero metodo per Cartesio non è quello che
parte dall'assioma per arrivare al teorema, che parte dal più sem­
plice per arrivare al complesso, come negli Elementi di Euclide
o nel procedimento teorizzato da Aristotele nei Secondi analitici:
è quello che, nella ricerca della soluzione di un problema com­
plesso, scopre il principio più universale, la verità più semplice
che permette di risolvere il problema. È il metodo dell'analisi, che
Cartesio dice di aver trovato usato, nella matematica, in Pappo
e in Diofanto. Quando poi il principio maxime simplex è scoperto
mediante l'analisi, allora, come dice il terzo precetto del Discorso,
si può e si deve cercare quali ne siano tutte le possibili applica­
zioni.
Se confrontiamo il secondo e il terzo precetto del metodo con
quello che Cartesio dice nelle Risposte alle Seconde Obiezioni
mosse alle sue Meditazioni (A.T., VII, pp. 155 ss.) sull'analisi e la
sintesi, vediamo che Cartesio chiama sintesi il metodo dei « geo­
metri antichi », cioè quello che parte dal semplice (definizioni,
assiomi, postulati) per arrivare al complesso e analisi quello che
risale dal complesso al semplice. E osserva che la sintesi « dimo­
stra chiaramente le conclusioni » e « costringe all'assenso», ma
« non dà soddisfazione, perché non fa vedere in che modo la co­
sa (res) è stata scoperta» (A.T., VII, p. 156). - Ossia - viene
a dire Cartesio - noi non procediamo effettivamente cosl, nep­
pure in geometria: non partiamo da definizioni e da assiomi, ma
da problemi specifici: come si può misurare la superficie di una
data figura? e simili. La sintesi è l'ordine con cui ricostruiamo il
processo, dopo che abbiamo scoperto una verità, ma non è l'ordine
in cui si scopre effettivamente la verità. L'analisi invece è quella
che mostra la via per la quale la verità è stata effettivamente scoper­
ta, sl che il lettore non è solo « costretto all'assenso», ma capisce
la conclusione non meno bene di chi l'ha scoperta la prima volta.
L'analisi riflette dunque il momento inventivo, il momento in cui
si scopre il principio universale che sta a base della deduzione 8•

' Il testo latino dice: « Analysis veram viam ostendit per quam res methodice et
tanquam a priori inventa est... Synthesis e contra per viam oppositam et tanquam a
posteriori quaesitam (etsi saepe probatio sit in hac magis a priori quam in illa) ... de-
CARTESIO 75

Potremmo dire che l'analisi cartesiana corrisponde al momento del­


la scoperta del medio ( che sarà poi usato nel sillogismo), a quella
scoperta che il conoscente fa Èmxy6µe:voç come dice Aristotele 9

L'esempio di analisi che dà Cartesio nel commento alla Rego­


la VI è questo: se penso che 6 è il doppio di 3 e mi domando quale
sia il doppio di 6, ossia 12; di 12, ossia 24 ... e ne deduco, come è
facile, che 3: 6= 6: 12 = 12: 24; e perciò che i numeri 3, 6, 12, 24,
48... sono in proporzione continua, « riflettendo attentamente ca­
pisco (intelligo) in che modo ( qua ratione) siano impliciti uno nel­
l'altro (involvantur) tutti i problemi che si possono porre sulle pro­
porzioni o rapporti fra le cose, e in che ordine debbano essere in­
dagati - che è il nocciolo di tutta la matematica pura ( quod unum
totius scientiae purae Mathematicae summam complectitur) » (A.T.,
X, pp. 384-85). Cartesio illustra ancora il suo esempio, per far ve­
dere che il punto fondamentale del metodo sta nello scoprire qua
ratione siano connesse tante verità particolari, ossia quale proposi-

monstrat ». A.T., VII, pp. 155-56. Tradurrei: « L'analisi mostra la vera via per la
quale la cosa [la conclusione] fu scoperta metodicamente e come a priori [cioè comin­
ciando da ciò che è effettivamente conosciuto prima] ... La sintesi invece dimostra per
una via opposta e come cercata a posteriori [cioè in base a ciò che effettivamente è co­
nosciuto dopa], anche se spesso la dimostrazione sia più a priori in questa [nella sin­
tesi] che in quella [nell'analisi] ». Clerselier traduce: « L'analyse montre la vraie voie
par laquelle une chose a été méthodiquement inventée, et fait voir comment les effets
dépendent des causes... La synthése au contraire, par une voie tout autre, et comme
en examinant les causes par leur effets (bien que la preuve qu'elle contient soit sou­
vent aussi des effets par les causes) démontre la vérité etc.». Cartesio stesso ha rive­
duto la traduzione di Clerselier; Baillet, il primo biografo di Cartesio, dice che l'ha
corretta e migliorata rispetto al testo originale. Sarà, ma in questo caso dubito che la
traduzione francese faccia capir meglio il pensiero di Cartesio: a proposito della sin­
tesi, quello che è in parentesi contraddice addirittura ciò che viene prima. Opino che,
quando Cartesio dice che nell'analisi la conclusione è trovata tanquam a priori, non
prenda il termine a priori nel senso tradizionale che ha quando accompagna il termine
demonstratio o probatio - e vuol dire dimostrazione dalla causa all'effetto - ma nel
senso letterale: qualcosa che viene (nella conoscenza) prima. E prima, nella conoscenza
cosi come si svolge realmente, vengono gli effetti, non le cause. Analogamente si dica
per l'a posteriori della sintesi: la sintesi è quella che comincia da ciò che nella cono­
scenza vien dopo - cioè dalle cause -. E allora si capisce la parentesi: sebbene la
dimostrazione sintetica sia la classica i)rova o dimostrazione a priori - e cioè quella
che dal prius quoad se dimostra quello che è posterius quoad se, ma prius quoad nos.
E che Cartesio abbia di mira il quoad nos e non il quoad se mi par confermato da quel­
lo che dice nel commento alla Regola VII: dove si parla ancora del rapporto fra
semplice e il complesso si afferma: « Veniendum igitur ad res ipsas, quae tantum
spectandae sunt prout ab intellectu attinguntur» (A.T., X, p. 399).
• « Che nel triangolo gli angoli siano uguali a due retti [colui che cerca] sapeva
già; ma che questa figu ra inscritta in un semicerchio è un triangolo, lo sa ora &µ.oc
inducendo t1ta.y6µ.e:voc; (Anal. post., I, 1, 71a, 19-21). L. J. BECK, The Method of De­
scartes, Oxford, Clarendon Press, 19.52, p. 171, cita questa definizione di Geminus:
&.vaÀuatc; fo-nv &1to8e:l�e:(ùc; e:ilpe:at,.
76 FILOSOFIA MODERNA

zione più universale spieghi tutte quelle proposizioni earticolari.


Credo, seguendo il Laporte 10, che Cartesio, quando parlava Cli
andare dal complesso al semplice e dal semplice al complesso, pen­
sasse alla soluzione algebrica dei problemi: mettere il problema in
equazioni, per vedere quali sono le incognite, risolvere le equazioni
semplificando per gradi la difficoltà, e ricomporre poi le soluzioni
parziali trovate per arrivare alla soluzione del problema com­
plesso.

4. Mathesis universalis

Ma come è possibile applicare questo metodo alla conoscenza


di rutta la realtà? Come la mathesis può essere la chiave per risol­
vere tutti i problemi?
Bisognerà: 1) allargare il concetto di mathesis; 2) concepire
in un determinato modo la realtà.
Cominciamo dal primo punto, che ci farà capire il giudizio
un po' ambiguo dato sulla matematica nella prima parte del Di­
scorso.
Affinché la mathesis possa davvero diventare universale, biso­
gna concepirla come un metodo, non solo come un complesso di
soluzioni a problemi curiosi. « Non darei tanta importanza a que­
ste regole, dice Cartesio, se servissero solo a risolvere quei problemi
vani, coi quali i calcolatori (logistae) e i geometri sogliono diver­
tirsi nei loro ozii (otiosi tudere)» (Commento alla IV Regola, A.T.
X, p. 37 3). Infatti, continua Cartesio, leggevo nelle opere matema­
tiche affermazioni che, dopo aver fatto i calcoli, riscontravo vere, e
altrettanto mi capitava per certe proposizioni sulle figure geome­
triche, o verificabili intuitivamente o dimostrabili, ma non trovavo
detto per qual ragione (quare) le cose stessero cosl (A.T., X, p. 375).
La mathesis universalis - di cui la matematica tradizionale è solo
la veste (integumentum) - deve esprimere le leggi fondamentali
della ragione umana ed estendersi a tutte le verità dimostrabili
(Haec enim prima rationis humanae rudimenta continere, et ad ve­
ritates ex quovis subiecto eliciendas se extendere debet, ibid., p.
374).

,. Le rationalisme de Descartes, p. 4 ss.


CARTESIO 77

E allora, potremmo chiederci, questa mathesis universalis non


si identifica con la logica, con la logica formale?
Ma Cartesio, quando pensa alla logica formale pensa (e non
può fare altrimenti) alla sillogistica: non al sillogismo in generale,
ma a tutte le leggi particolari della sillogistica (i diciannove modi
validi del sillogismo ecc. ecc.): leggi, salvo maggiori raffinamenti,
sempre valide, ma che non servono per esprimere rapporti quan­
titativi: ora la mathesis universalis ha per oggetto le relazioni o la
misura (ordo vel mensura, A.T., X, p. 378; rapports ou propor­
tions, dice nel Discorso, A.T., VI, p. 20), quindi non si può gio­
vare delle regole della sillogistica 11•

5. Enumerazione completa

Il secondo punto (concepire in un determinato modo la realtà)


ci porterà ad esporre tutta la filosofia di Cartesio; ma prima vedia­
mo qualcosa del quarto precetto del metodo: « Fare dappertutto
enumerazioni cosl complete (entiers) e revisioni cosl generali da
esser sicuro di non omettere nulla » (A. T., VI, p. 19). Questo è il
più oscuro dei precetti cartesiani, e anche le Regulae ci illuminano
fino ad un certo punto. Di enumerazione parla la VII regola, ma,
invece di enumerazione completa, parla di enumerazione sufficiente,
che serve ad scientiae complementum, ossia, come si dice nel com­
mento, « alla conoscenza di quelle verità che non possono essere
immediatamente dedotte dai primi principi autoevidenti » (A.T.,
X, p. 387). Dove occorre una lunga catena di deduzioni, talora
non ricordiamo tutti i passaggi quando siamo arrivati alla fine;
ci vuole quindi un aiuto alla memoria. E qui P. Rossi 12 mostra
l'analogia di questo problema con quello della memoria artificiale,

11
Sul concetto cartesiano di mathesis universalis si veda P. Rossi, Clavis univer­
salis, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, pp. 153 ss. Nonostante i dotti e acuti rilievi di
P. Rossi, chi scrive persiste nell'« eccessivamente semplicistico tentativo di identificare
senz'altro la mathesis universalis cartesiana con una ... estensione del metodo matematico
a tutti i campi del sapere» (p. 159), anche se crede che tale estensione non fosse tanto
« pura e semplice». Altro è che Cartesio conoscesse, in parte direttamente in parte per
sentito dire, scritti e problemi di derivazione lulliana sull'arte, o la « chiave» o la sa­
pienza, « capace di garantire assoluta verità», cosa che i precisi raffronti di P. Rossi di­
mostrano chiaramente, altro che prendesse quest'arte nel medesimo significato.
u Clavis universalis, p. 173.
78 FILOSOFIA MODERNA

della mtmstratio ad memoriam, che ha una lunga storia e che è


stato molto discusso nel Rinascimento. Ma si tratta solo di aiutare
la memoria a tener presenti tutti gli anelli di una lunga dimostra­
zione deduttiva (cioè in ultima analisi riducibile ad un vedere, ad
un intuitus) o di qualcos'altro? Qui compare nelle Regulae il ter­
mine inductio, e si parla anche di « prestar fede » ad un proce­
dimento che non è totalmente riducibile ad un vedere. Non è
qui il caso di fare una analisi del commento alla regola VII, ma
si ha l'impressione che Cartesio, quando formulava e commenta­
va questa regola, avesse in mente un processo argomentativo di­
verso dalla deduzione e forse analogo all'induzione baconiana. Lo
aveva forse lasciato cadere nel Discorso quando non parla più di
induzione, e in luogo di enumerazione sufficiente, parla di enu­
merazione completa?

LA CONCEZIONE DELLA REALTA

6. Concezione meccamczsttca del mondo corporeo


e concezione spiritualistica dell'uomo

E ora veniamo al secondo problema. Come va concepita una


realtà che possa essere sottomessa ad una mathesis universalis?
Potremmo rispondere in due parole: va concepita come pura
estensione in movimento locale.
Galileo aveva detto ne Le macchie solari: non indaghiamo le
essenze e prescindiamo da tutto ciò che non può essere sottopo­
sto a misura; e, nel Saggiatore, aveva aggiunto: « io vo pensan­
do » che le proprietà che non si possono sottoporre a misura
siano solo nel soggetto senziente; ma non aveva mai teorizzato
fino in fondo questa congettura. Cartesio invece, persuaso che
« tutta la filosofia [ ossia tutto il sapere] sia come un albero, le
cui radici sono la metafisica, il tronco è la :fisica e i rami che
procedono dal tronco sono tutte le altre scienze ... » (Lettera-pre­
fazione al traduttore dei Principi di filosofia; A.T., IX, 2, p. 14 ),
teorizza a fondo questa concezione, ossia costruisce una metafisic'l
CARTESIO 79

che possa rispondere alle esigenze della sua fisica 13• Questo non
vuol dire che Cartesio non dia importanza alla metafisica: anzi ne
dà tanta che ritiene di non poter giustificare la sua fisica se non
fondandola metafisicamente, a differenza di Galileo, per il quale la
fisica si regge per proprio conto. E non vuol dire neppure che la
metafisica cartesiana sia cosa da trascurare; ma dobbiamo ricorda­
re: 1) che gli studi scientifici precedono in Cartesio l'elaborazio­
ne della sua metafisica (la filosofia scolastica, che egli ha studiato
a La Flèche, gli ha lasciato solo nausea); 2) che una cosmologia
meccanicistica (in cui tutto il mondo corporeo è ridotto a esten­
sione e movimento locale) è già non solo esposta ne Le Monde
scritto fra il 1630 e il 1633, ma contenuta nelle Regulae (1627-28),
già nelle quali il corpo è ridotto a estensione (A.T., X, p. 442) e
il mutamento a moto locale (A.T., X, p. 426).
Sicché quando Cartesio, in una lettera al P. Gibieuf del 1629,
accenna ad un « piccolo trattato » che ritiene di poter finire in due
o tre anni (A.T., I, p. 17) e che diventerà poi le Meditazioni, la sua
concezione cosmologica è già formata. Il « piccolo trattato » dové
poi esser lasciato in disparte per lasciar posto a quegli studi scientifici
i cui risultati furono esposti nei Saggi del 1637.
Il Discorso premesso a questi saggi contiene, nella quarta parte,
la metafisica di Cartesio, ma questa fu esposta più diffusamente nelle
Meditazioni. E qui occorre tener presenti due lettere a Mersenne,
una del 15 aprile 1630 e una del 28 gennaio 1641. In quella del
1630, a proposito di una questione di « teologia » che Mersenne
aveva posto a Cartesio (dopo molte questioni scientifiche), Cartesio
dice che, poiché non si tratta di ciò che, nella teologia, dipende dal­
la rivelazione, il problema è « piuttosto metafisico » e deve essere
esaminato dalla ragione umana.
Ora penso - continua Cartesio - che tutti coloro ai quali Dio
ha dato l'uso di questa ragione sono obbligati ad adoperarla in pri­
mo luogo per cercar di conoscerlo e di conoscere se stessi. Di qui

13
Debbo avvertire che questa è una interpretazione della filosofia cartesiana, fra
le tante che si sono date; debbo però aggiungere che la presento non per un ghiribizzo,
ma perché mi sembra quella suggerita dai testi. Lo stesso Gilson - che pure nelle
Etudes citate ritiene che la tesi della distinzione fra anima e corpo preceda in Cartesio
la critica delle forme sostanziali e condizioni questa critica - ammette che il ri­
chiamo (di L. Lévy-Bruhl) alla « parte capitale svolta dalla fisica nell'elaborazione del
sistema cartesiano » significa un vero e proprio « ritorno alla storia» ( etudes sur le role de
la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, p. 282).
80 FILOSOFIA MODERNA

ho cercato di cominciare i miei studi; e vi dirò che non avrei mai sa­
puto trovare i fondamenti della mia fisica se non li avessi cercati
per questa via» (A.T., I, p. 144). Vorrei osservare che il «di qui ho
cercato di cominciare i miei studi» non vuol dire: « ho cominciato
dalla metafisica», perché questo non è vero: i suoi studi - quelli
intrapresi autonomamente, non quelli fatti a La Flèche - sono co­
minciati dalla scienza. Ma vuol dire: quando mi sono messo a stu­
diare metafisica ho cominciato di qui, ossia dalla conoscenza di Dio
e di me stesso.
Ora la frase ha troppo sapore agostiniano (Deum et animam scire
cupio - Noverim me, noverim te) per non venire direttamente o in­
direttamente da S. Agostino. Direttamente direi di no, poiché quan­
do gli fu osservato che il cogito c'è già in S. Agostino, Cartesio ri­
spose: « sono andato a leggerlo [non precisa l'opera, ma si capisce
che è il De Trinitate] oggi nella biblioteca di questa città [Leida],
e ho trovato davvero che egli se ne serve per provare la certezza del
nostro essere, e poi per far vedere che vi è in noi una immagine
della Trinità... » (Lettera a ignoto del nov. 1640; A.T., III, p. 247).
Dunque è dovuto andare in biblioteca per vedere se in S. Agostino
c'è il cogito. E allora i casi sono due: o mente - e conosceva già
S. Agostino - o dice la verità, e allora vuol dire che gli echi agosti­
niani li ha sentiti intorno a sé. E li ha effettivamente sentiti intorno
a sé, poiché a quell'epoca c'è una forte reviviscenza agostiniana: in
particolare fra i Padri dell'Oratorio, fondato da quel Bérulle che
aveva esortato Cartesio a dedicarsi alla filosofia. Fra gli oratoriani
c'è anche il P. Gibieuf, corrispondente di Cartesio, del quale E. Gil­
son ha messo in rilievo l'influsso su Cartesio per quel che riguarda
la dottrina della libertà 14•
Cartesio dice di aver trovato nella metafisica i fondamenti della
sua fisica, e altrettanto ripete nella lettera del 28 gennaio 1641:
« ... vi dirò, tra noi, che queste sei Meditazioni contengono tutti i
fondamenti della mia fisica ». E aggiunge: « Ma non bisogna dirlo,
per favore; poiché coloro che sono favorevoli ad Aristotele fareb­
bero forse più difficoltà ad approvarle; e spero che coloro che le
leggeranno, si abitueranno insensibilmente ai mei principi e ne ri­
conosceranno la verità, prima di accorgersi che distruggono quelli di
Aristotele>> (A.T., III, p. 298).
1
• E. GILSON, La liberté chez Descartes et la théologie.
CARTESIO 81

Quali sono le dottrine delle Meditazioni che contengono i fon­


damenti della fisica cartesiana, cioè della fisica meccanicistica, in cui
tutto il mondo corporeo si risolve in estensione e moto locale?
La lettera del 15 aprile 1630 e un'altra di poco dopo (27 mag­
gio 1630) parla della concezione delle verità matematiche « che
Voi (cioè Mersenne) chiamate verità eterne» e afferma che tali verità
sono state stabilite liberamente da Dio. Dio « è autore dell'essenza
e dell'esistenza delle creature» ed « è libero di fare che non sia vero
che le linee tirate dal centro alla circonferenza sono uguali, come è
libero di non creare il mondo» (lettera del 27 maggio 1630 A.T., I,
p. 152), La lettera del 28 gennaio 1641 non parla più di questa teo­
ria - che compare solo nelle risposte alle quinte e alle seste obie­
zioni-. Secondo Gilson (La liberté chez Descartes et la théologie)
la teoria delle verità eterne avrebbe avuto un posto maggiore nelle
Meditazioni - e non sarebbe stata relegata solo nelle risposte alle
obiezioni - se Cartesio non fosse diventato sempre più cauto nel
trattare problemi teologici. La teoria - che Cartesio desume da
Gibieuf - aveva secondo Gilson la funzione di eliminare il finali­
smo dalla natura e aprire la via alla fisica meccanicistica.
Ma con una dottrina più fondamentale e centrale della metafisica
cartesiana si apriva la via alla fisica meccanicistica: con quella del­
l'assoluta separazione fra res cogitans e res extensa. Questa dottrina
è già vagamente presente nelle Regulae, là dove Cartesio parla delle
naturae simplices, cioè dei concetti fondamentali che stanno alla
base del nostro sapere, nel commento alla regola XII, e dove in­
siste sulla identità fra corpo (sostanza estesa) ed estensione: non
c'è nel corpo nulla più che estensione; non c'è nel moto niente più
di quello che vediamo e misuriamo in base alla variazione di distan­
za (ossia di spazio, di estensione). « Non sembra forse che pronun­
cino parole magiche, che abbiano una forza occulta e superiore alla
comprensione dell'intelligenza umana, coloro che dicono che il mo­
to, la cosa più nota del mondo, è l'atto di un ente in potenza in
quanto in potenza? Chi capisce queste parole? e chi ignora cosa sia
il moto? » (Regula XII; A.T., X, p. 426).
Abbiamo detto che ne Le Monde il mondo corporeo è supposto
privo di ogni qualità (e quindi privo di quelle determinazioni in­
trinseche di cui le qualità sono manifestazioni, ossia privo di forme
sostanziali). Cartesio presenta questa concezione come una pura
ipotesi; dice: supponiamo che Dio voglia fare il mondo solo con
82 FILOSOFIA MODERNA

una materia che non abbia forma né di terra, né di fuoco, né di aria,


né altre più specifiche, come legno, pietra, ecc., né qualità, come
caldo, freddo, colore o altro, ma solo l'estensione e la solidità, e
imprima a questa materia una certa quantità di movimento; vedre­
mo che con questo si può spiegare la formazione del mondo attuale
(A.T., XI, pp. 33 ss.). E forse un motivo per cui Cartesio abbraccia
cosi volentieri la tesi che le verità eterne dipendano dall'arbitrio
divino è anche questo: poiché le relazioni fra i corpi sono soltanto
l'espressione di ciò che Dio ha voluto liberamente, Dio potrebbe
aver voluto fare un mondo anche in modo tutto diverso, e cioè con
sola estensione e moto locale. Il potrebbe, l'ipotesi, è per Cartesio
la verità, ma la teoria delle verità eterne serviva benissimo a pre­
sentarla come un'ipotesi almeno possibile, senza urtare troppo gli
aristotelici.
Accanto alla teoria sulle verità eterne, che gli serve per pre­
sentare la sua filosofia della natura, Cartesio sente intorno a sé la
eco di una metafisica che salva tutte le verità filosofiche presupposte
alla fede - i praeambula fidei - senza dir nulla del mondo cor­
poreo 15• È la metafisica agostiniana, che parte dall'esistenza del sog­
getto pensante per ascendere a Dio, senza passare per il mondo
corporeo; che afferma l'incorporeità dell'anima, la sua distinzione
dal corpo, senza laboriose dimostrazioni. È quello che ci vuole per
sbarazzarsi della fisica aristotelica senza mettere in allarme i filo­
sofi scolastici e i teologi che hanno saldato con la scolastica la loro
teologia. Cartesio rinuncia a pubblicare Le Monde dopo la condan­
na di Galileo: tanto ha già pronta una metafisica che gli permetterà
non di sostenere questa o quella teoria anti-aristotelica, fondandola
sull'esperienza e il « discorso » matematico, ma di scalzare la « fi­
sica » aristotelica dalle radici. Le radici del sapere sono costituite
dalla metafisica, come dice il paragone cartesiano nella prefazione al­
la traduzione francese dei Principi di filosofia, e sulla metafisica
cartesiana non può crescere l'albero della « fisica » aristotelica. Si
capisce quindi il giudizio scarsamente positivo di Cartesio su Galileo,

,s Si veda ad es. questo passo di S. AGOSTINO, Contra Acad., III, XI, 26: « Quid­
quid enim contra sensus ab eis [Academicis] disputatur, non contra omnes philosophos
valer. Sunt enim qui ista omnia, quae corporis sensu accipit animus, opinionem posse
gignere confitentur, scientiam vero negant. Quam tamen volunt intelligentia contineri,
remotamque a sensibus in merte vivere. Et forte in eorum numero est sapiens ille
quem quaerimus ».
CARTESIO 83

anche prescindendo dal fatto che Cartesio giudica negativamente


tutti i suoi contemporanei: Galileo, dice Cartesio, « cerca le ragioni
di alcuni effetti particolari » e « non considera le prime cause della
natura» (Lettera a Mersenne dell'l 1 ottobre 1638, - A.T., II,
p. 380 - dopo che ha letto i Discorsi e dimostrazioni matematiche).
E, direi, sta qui un aspetto della superiorità e della modernità della
scienza di Galileo, il quale non si sognerebbe di dedurre le leggi
della meccanica dall'immutabilità divina, come fa Cartesio. Ma è
anche vero che Galileo non fa una filosofia, come invece l'ha fatta
Cartesio. E questa filosofia ha un suo valore - la si accetti o no
- anche indipendentemente dalla fisica che essa voleva fondare.

7. Il dubbio

Il riassunto (Synopsis) premesso da Cartesio stesso alle Medita­


zioni metafisiche 16 dice che nella prima Meditazione sono esposte
« le ragioni che abbiamo di dubitare generalmente di ogni cosa e
particolarmente delle cose materiali, almeno finché non avremo al­
tri fondamenti del sapere, diversi da quelli che abbiamo avuto fino­
ra ». E aggiunge che il dubbio è utile per allontanare o distaccare
lo spirito dai sensi (A.T., VII, p. 12). Si badi a quell'e particolar­
mente delle cose materiali e alla necessità del distacco dai sensi.
Sappiamo infatti che l'esperienza sensibile è apparsa a Cartesio -
fin dalle Regulae - la fonte più infida del sapere.
Il dubbio nasce dall'esperienza dell'errore: « È già da qualche
tempo che mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto
come vere una quantità di false opinioni ... ; ho pensato allora che
dovevo intraprendere seriamente una volta nella vita a disfarmi di
tutte le opinioni che avevo accettate fino ad allora 17 e cominciare
tutto di nuovo fin dai primi fondamenti, se volevo stabilire una buo­
na volta qualcosa di saldo e di stabile nel sapere ». Semel in vita: è

16 Meditationes de prima philosophia in qua Dei existentia et animae immortalitas


demonstratur (cosi nell'ed. parigina del 1641; nella seconda ediz. il titolo è modificato
cosi: in quibus Dei existentia et animae a corpore distinctio demonstratur.
17
Cosi secondo la traduzione francese riveduta da Cartesio; il latino è più breve,
più efficace e più radicale: « ac proinde funditus omnia semel in vita esse evertenda
= e che perciò dovevo abbattere una buona volta tutto l'edificio dalle fondamenta»
(A.T., IX, p. 17).
84 FILOSOFIA MODERNA

un'espressione che compare già almeno tre volte nella Regola VIII,
dove si tratta di « esaminare tutte le verità alle quali possa giungere
la conoscenza umana» (A.T., X, p. 396). C'è dunque un momento
nella vita di un uomo in cui egli si deve domandare: quali sono i
motivi per cui sono convinto di quello che accetto? Perché lo ri­
tengo vero 18 ?
Il dubbio consiste dunque in fondo nello spogliarsi dei pregiu­
dizi, come dice Cartesio nella Synopsis (A.T., VII, p. 12, riga 6)
e non esprime un atteggiamento dell'uomo Cartesio, ma del filosofo
in quanto tale. Cartesio non vuol dire che l'uomo filosofante debba
buttar via tutte le sue persuasioni, ma che non deve adoperare nell3:
costruzione del sapere ciò che non ha controllato (quindi non ha
passato al vaglio del dubbio). Si tratta dunque di una (provvisoria)
eliminazione dall'edificio del sapere, non dall'animo umano. Si dirà
forse che questa è una interpretazione del dubbio cartesiano alla
luce dell'epoché di Husserl. Può darsi. Ma a me sembra giustificata
dalla netta contrapposizione che, nella seconda e nella terza parte
del Discorso, Cartesio stabilisce tra l'atteggiamento teoretico e l'at­
teggiamento pratico: il dubbio sulle opinioni non controllate non
deve portare a nessuna azione pratica, dice Cartesio nella II parte
(A.T., VI, pp. 13-15), e nella III parte indica addirittura le massi­
me da seguire mentre si ricostruisce l'edificio del sapere.
Se il dubbio cartesiano non è un dubbio vissuto, ma un controllo
dei motivi che abbiamo per affermare quello che riteniamo vero, si
capisce che esso debba essere universale - cioè estendersi a tutte
le conoscenze - pur essendo metodico.
Non si può negare tuttavia che il dubbio abbia in Cartesio an-

18 È il momento in cui l'uomo si mette a filosofare, in cui assume un atteggiamento


filosofico. Lo scienziato, nella sua disciplina, suppone vero, invece, quello che gli è
stato insegnato, e cerca di aggiungere a quelle che gli sono tramandate, nuove verità.
Può accadere che nel proseguire si accorg.1 che quello che egli riteneva vero non è ta­
le, non è confermato dall'esperienza o da una nuova deduzione, e di qui potrà
nascere una rivoluzione scientifica; ma lo scienziato in quanto tale non parte nella ri­
cerca domandandosi se tutto quello che gli hanno insegnato sia vero. Si potrebbe os­
servare che proprio per questo la scienza avanza, progredisce, e la filosofia torna sem­
pre da capo e sembra non concludere mai. Certo, la scienza ha dei vantaggi sulla fi­
losofia, ma forse la filosofia ha la prerogativa di essere - almeno nella sua intenzione
fondamentale - interemente critica. E questo non è l'atteggiamento della filosofia
moderna piuttosto che della filosofia antica: è l'atteggiamento filosofico simpliciter, da
Socrate in qua. Ogni volta che un filosofo dice « è stato dimostrato che ... (i filosofi
dell'oramai, li chiamava B. Varisco) senza ridimostrarlo per proprio conto, non fa fi­
losofia; farà propaganda o qualcos'altro, ma non fa filosofia».
CARTESIO 85

che un punto di partenza psicologico: voglio dire che Cartesio abbia


effettivamente dubitato di - e poi negato - alcune proposizioni.
Il dubbio vissuto da Cartesio o, come si dice qualche volta, il dubbio
reale, riguarda le tesi della :fisica aristotelica. Ora tale :fisica si pre­
sentava come fondata sull'esperienza sensibile, l'esperienza dei cor­
pi cosi come sono dati ai sensi, con le loro qualità. Di qui il primo
oggetto di dubbio: i dati sensibili. Poiché mi sono accorto che talora
i sensi ingannano, dice Cartesio, e poiché è prudente non fidarsi di
chi ci ha ingannato una volta, scarterò tutto quello che è attestato dai
sensi (A.T., VII, p. 18). E all'obiezione che i sensi ingannano sulle
cose minute e lontane, ma non su certe cose vicine e facili, come,
per esempio, che io sono qui, vicino al fuoco, vestito da inverno,
tocco questa carta ecc. (A.T., VII, p. 18, righe 19 ss.), e che queste
cose le negano solo i pazzi, Cartesio risponde che anche i sani so­
gnano e che talora si può sognare di essere alzati, vicino al fuoco
ecc. e invece essere a letto.
E le immagini dei sogni dove le abbiamo attinte? Poniamo pu­
re che sia la nostra fantasia ad averle composte; ma gli elementi
componenti, come estensione, figura, grandezza, numero donde ven­
gono? Potremo dunque forse concludere che la fisica, l'astronomia,
la medicina « e tutte le scienze che dipendono dalla considerazione
delle cose composte [ ossia quelle in cui la composizione è data dal-
1'esperienza] sono dubbie, ma l'aritmetica, la geometria e le altre
scienze come queste, che trattano di cose semplicissime e universa­
lissime, e prescindono dalla loro esistenza reale, contengono qual­
cosa di certo e indubitato » (A.T., VII, righe 20-27). Sarà sempre
vero, infatti, che due più tre fa cinque e che il quadrato ha quattro
lati - esistano o non esistano cose da contare e superficie con quat­
tro lati.
Ma, contro l'evidenza delle verità matematiche si affaccia l'ipo­
tesi del Dio ingannatore: Verumtamen infixa quaedam est meae
menti vetus opinio... l'opinione che esista un Dio onnipotente ca­
pace di avermi creato in modo che io mi inganni anche quando di­
co che due più tre fa cinque. Opinio, persuasione sottoposta anch'es­
sa al dubbio metodico, ma che potrebbe tuttavia essere vera. E se
questa opinione fosse falsa, e a fondamento del mio essere stessero
solo il fato, il caso, forze irrazionali, insomma, potrebbe darsi che
io mi ingannassi anche sulle verità matematiche (A.T., VII, p. 21).
Cosi, con l'ipotesi di questo principio pervertitore della mia
86 FILOSOFIA MODERNA

mente, che poco più avanti (A.T., VII, p. 22 riga 24) sarà chiamato
genio maligno, il dubbio si estende a tutte le proposizioni, anche al­
le proposizioni matematiche.
Anche sull'ipotesi del genio maligno, come su ogni frase di Car­
tesio, si è molto discusso. È un'ipotesi giustificata da quella
teoria che abbiamo ricordata sulla libertà divina o è una pura fin­
zione per estendere il dubbio ad ogni proposizione? Per la prima
interpretazione sta H. Gouhier 19 - che distingue il concetto di un
Dio onnipotente e ingannatore da quello di genio maligno -,
per la seconda sta M. Guéroult �, e anche chi scrive.
E perché poi Cartesio vuole estendere il dubbio a tutte le pro­
posizioni?
Risponderei: perché vuole ricostruire dalle fondamenta l'edificio
del sapere, e quindi non vuole che restino ruderi, per dir cosl. An­
zi Cartesio consiglia di fingere che tutto ciò che abbiamo ammesso
prima di iniziare la riflessione :filosofica sia falso, per far da contrap­
peso alla forza della consuetudine che ci porterebbe ad ammetterlo
tutto per vero.

8. Il cogito. Cogito cartesiano e cogito agostiniano

Spazzato cosl il terreno da ogni residuo di sapere tradizionale,


Cartesio, nella II Meditazione, comincia a costruire il nuovo edifi­
cio del sapere. Anche nell'ipotesi che vi sia « non so quale inganna­
tore, sommamente potente e astuto», non posso dubitare della
mia esistenza. « Dunque esisto indubbiamente anch'io, se egli mi
inganna ... Sl che, pesate ben bene tutte le ragioni, bisogna infine sta­
bilire che questo enunciato, Io sono, io esisto, ogni volta che è pro­
ferito da me o pensato, è necessariamente vero» (A.T., VII, p. 25).
Nel Discorso, quarta parte, troviamo la formula più nota: ]e pense,
donc je suis.
Nelle quarte Obiezioni, Arnauld, mentre approva questo inizio
cartesiano del filosofare, osserva che così aveva fatto anche S. Ago-

•• Essais sur Descartes.


"' Descartes selon l'ordre des raisons, voi. I, pp. 42 ss. Ma ora uno studio di T. GRE­
GORY: Dio ingannatore e genio maligno. Nota in margine alle Meditationes di Descartes
(« Giornale critico della filosofia italiana», LIII (1974), 477-516) mi ha convinta che
l'ipotesi del Dio ingannatore e quella del genio maligno sono due ipotesi distinte, che
hanno dietro di sé due diverse dottrine scolastiche.
CARTESIO 87

stino. E Gilson 21 ricorda che, prima ancora della stampa delle Me­
ditazioni, gli amici ai quali Cartesio aveva fatto leggere il manoscrit­
to gli avevano fatto rilevare la somiglianza fra il suo cogito e quello
agostiniano. A questa osservazione Cartesio risponde, in una lette­
ra a Mersenne, che S. Agostino non si serve del cogito nel medesimo
modo in cui se ne serve lui: S. Agostino se ne serve per provare
la certezza della nostra esistenza e per indicare in noi una immagine
della Trinità; « io invece me ne servo, dice Cartesio, per far cono­
scere che quell'io che pensa è una sostanza immateriale e che non
ha nulla di corporeo. E son due cose molto diverse. Del resto è una
cosa cosl semplice e cosi naturale inferire che si esiste dal fatto che
si dubita, che sarebbe potuta cadere sotto la penna di chiunque; ma
sono ben contento di essermi incontrato con S. Agostino, non fos­
s'altro che per chiudere la bocca alle menti piccine che hanno cer­
cato di trovar da ridire su questo principio» (A.T., III, pp. 247-
48 ). Risposta analoga dà Cartesio ad Arnauld, nelle Risposte alle
quarte Obiezioni, anche se in modo tanto poco gentile quanto eva­
sivo, osserva Gilson (Etudes, p. 193).
Cosa dobbiamo pensare dei rapporti fra cogito cartesiano e
cogito agostiniano?
Innanzi tutto non credo sbagliato ( anche se è detto da lui in
modo presuntuoso) quello che osserva Cartesio: e cioè che la verità,
e specialmente la verità immediatamente evidente, è accessibile a
tutti. Poi, Cartesio, anche se non aveva letto S. Agostino, conosce­
va degli agostiniani e poteva benissimo aver sentito parlare da lo­
ro di questa verità che Agostino mette a fondamento della sua :filo­
sofia. Quanto alla differenza del contesto, della funzione che attribui­
scono al cogito S. Agostino e Cartesio, sarei d'accordo con Pascal
- il capostipite di tutti gli interpreti che sottolineano le differenze
fra cogito agostiniano e cogito cartesiano, come Arnauld è il capo­
stipite di tutti coloro che ne rilevano la somiglianza o l'identità -.
Pascal dice che il cogito cartesiano e la conseguente distinzione di
sostanza materiale e sostanza spirituale sono per Cartesio il princi­
pio di tutta la fisica e che, in questo, sono una novità rispetto a quello
di S. Agostino 22• Io non direi, come dice Pascal, che S. Agostino
21
Nel capitolo « Le cogito et la tradition augustinienne » delle J:.tudes sur le
r6le de la pensée médiévale dans la formation du systéme cartésien, pp. 191-201.
22 De l'esprit géométrique, in Pensées et Opuscules, ed. Brunschvicg minor, Paris,
Hachette, pp. 192-93.
88 FILOSOFIA MODERNA

ha buttato là il cogito per caso (à l'aventure) senza riflettervi sopra


lungamente e distesamente (se fosse cosl, il cogito non sarebbe stato
ripreso molte volte e in diverse opere da S. Agostino); ma direi che
in S. Agostino il cogito è a fondamento di una metafisica orientata
verso la teologia, mentre in Cartesio il cogito è alla base di una me­
tafisica che deve fondare una fisica. Tuttavia questa diversità di
contesto e di funzione non toglie l'identità di significato del cogito,
preso in se stesso, nei due pensatori.
Una obiezione al cogito cartesiano (Cartesio la cita in una let­
tera a Clerselier, che segue le risposte alle Quinte Obiezioni) è la
seguente: il cogito presuppone la proposizione generale: qui cogitat
est, quindi non è la prima verità. Cartesio risponde: non si comin­
cia dalle proposizioni universali « secondo l'ordine dei sillogismi e
della dialettica », ma si comincia dalle nozioni particolari.
Una obiezione simile è quest'altra: non si può dire « se penso,
esisto » senza conoscere la natura (quid sit) del pensiero e dell'esi­
stenza; ma come si può conoscere la natura del pensiero e dell'esi­
stenza quando si è dubitato di tutto? (A.T., VII, p. 413). Cartesio
risponde (A.T., VII, p. 422): so che cosa sia il pensiero proprio
mentre mi colgo pensante. Non passo da un sapere astratto e uni­
versale all'intuizione del concreto, ma viceversa.
Ancora (obiezione riferita da Clerselier): la prima verità, il
principio del sapere, non è il cogito, ma il principio di non-contrad­
dizione. Cartesio risponde: « Il termine principio può essere preso
in diversi significati; altro è cercare una nozione comune, che sia
cosl chiara e cosl generale da poter dimostrare l'esistenza di tutti gli
enti che si conosceranno poi, altro è cercare un ente la cui esistenza
ci sia più nota di quella di tutti gli altri... ». Come nozione comune
il principio di non contraddizione è il primo principio, ma il primo
ente conosciuto è la nostra anima. Anzi, il principio di non contrad­
dizione non serve a nulla, perché si limita a farci sapere che, se una
cosa è, non può non essere; ora quel che conta è sapere che cosa
esiste (A.T., IV, pp. 443-445, cit. da Gilson nel Commentaire al
Discorso, pp. 299-300).
In tutte queste risposte Cartesio dice in sostanza: l'affermazione
che io esisto non è la conclusione di un ragionamento, ma è una in­
tuizione. Nella coscienza di pensare è implicita la coscienza di es­
sere.
CARTESIO 89

9. Che cosa sono io

Ora si tratta di vedere che cosa sono: quisnam sim ego ille qui
necessario sum (A.T., VII, p. 25). Che cosa sono certo di essere?
Di che cosa, in me, non posso dubitare?
Posso dubitare di avere mani e braccia, posso dubitare di nu­
trirmi, di camminare; posso dubitare anche di sentire: « Anche il
sentire infatti non si compie senza un corpo e talora mi è parso,
nel sogno, di sentire tante cose che poi mi accorsi di non aver sen­
tito» (A.T., VII, p. 27). L'unica cosa che non posso dubitare di
essere è il pensiero: « questo solo non può essermi strappato» sen­
za che io cessi di esistere. Sono dunque una cosa pensante (ibid. ).
« E cosa vuol dire cosa pensante? Vuol dire una cosa che dubita,
intende, afferma, nega, vuole, non vuole, immagina anche, e sente»
(ibid .. p. 28). E qui Cartesio distingue quello che aveva messo in­
sieme nella frase citata sopra: distingue cioè il carattere dubbio del
sentito dall'evidenza dell'atto di sentire: anche se ciò che sento non
esiste, è pur vero che mi par di vedere, udire, sentir caldo. Ma in
questo senso il sentire si riduce al pensare: « nihil aliud est quam
cogitare » (p. 29).
Quello che so con certezza di me è dunque solo di essere una
cosa pensante; ma sono soltanto una cosa pensante?
Cartesio aveva detto poco prima: « Forse le cose che suppongo
non efistano, perché mi sono ignote [ossia: i corpi, la cui esistenza
non è evidente], in realtà si identificano con quell'io che conosco»
(A.T., VII, p. 27). Cioè: forse io so soltanto di essere pensiero,
ma il pensiero o la res cogitans è qualcosa di corporeo. Locke si
chiederà: come posso stabilire che la materia non può pensare?
Ma Cartesio risolve il problema nella sesta Meditazione, dove dice:
« Poiché le cose che concepisco chiaramente e distintamente pos­
sono essere create da Dio così come io le concepisco, basta che io
possa concepire chiaramente e distintamente una cosa senza l'altra
perché io sia certo che l'una è diversa dall'altra ... E perciò, per il
fatto stesso che so di esistere, e mi rendo conto che alla mia natura
o essenza non appartiene niente altro che l'esser pensante, retta­
mente concludo che la mia essenza consiste solo nell'essere una cosa
pensante» (A.T., VII, p. 78). Arnauld, nelle Quarte Obiezioni,
esprime questo ragionamento (o meglio la minore di questo ragio­
namento cartesiano) così: « Ora, poiché ho un'idea chiara e distinta
90 FILOSOFIA MODERNA

di me stesso come cosa soltanto pensante, non estesa, e d'altra par­


te ho un'idea distinta del corpo come cosa soltanto estesa, non pen­
sante, è certo che sono realmente distinto dal mio corpo » (A.T.,
VII, p. 199). E obietta: Affinché questo ragionamento valesse bi­
sognerebbe che l'idea che ho di me stesso come res cogitans fosse
una conoscenza non solo chiara e distinta, ma adeguata, tale da
esaurire il mio essere. Ora posso io dire di conoscermi perfetta­
mente, adeguatamente? E fa un esempio geometrico: potrei sapere
che un triangolo è rettangolo e non sapere ancora o dubitare che in
esso i! quadrato dell'ipotenusa sia equivalente alla somma dei qua­
drati dei cateti; sarei forse per questo autorizzato a concludere
che all'essenza del triangolo rettangolo non appartiene l'avere il
quadrato dell'ipotenusa equivalente alla somma del quadrato dei
cateti?
La risposta di Cartesio mi sembra aggrovigliatissima. Cartesio
distingue conoscenza adeguata da conoscenza di una cosa comple­
ta, e definisce cosi la cosa completa: « la sostanza dotata di quegli
attributi che bastano a farmela riconoscere come sostanza » (A.T.,
VII, p. 222). Ora, quando conosco una cosa come pensante, la co­
nosco nell'attributo che me la fa riconoscere come sostanza. Il che
equivale a dire: il pensiero esprime l'essenza della sostanza pen­
sante. Ossia: quando mi conosco come pensante, mi conosco in
ciò che costituisce la mia essenza - che era proprio quello che an­
dava dimostrato, ma che Cartesio afferma senza dimostrare.
Per dimostrare poi che ci è più nota la natura del pensiero che
quella dei corpi, Cartesio fa il famoso esempio della cera. Cosa c'è,
apparentemente, di più noto di un pezzo di cera? Eppure, a guar­
dar bene, io non so che cosa sia la cera se non la riduco a estensione
e movimento: e questo posso saperlo non coi sensi, ma sola mente
percipere. Viene in mente la pagina di Galileo nelle Macchie solari:
in luogo della cera, là si parla dell'acqua, ma il nucleo delle consi­
derazioni è lo stesso: le qualità sono solo sensibili, non ci dànno un
vero concetto delle cose.

1 O. Il criterio di verità
Nella terza Meditazione, prima di procedere ad indagare se esi­
stano altre realtà, oltre a me come soggetto pensante, Cartesio si
domanda perché è certo di essere una cosa pensante. E risponde:
CARTESIO 91

perché percepisco chiaramente e distintamente quello che affermo.


Dunque posso assumere come regola generale che tutto ciò che per­
cepisco chiaramente e distintamente è vero. E se esamino le affer­
mazioni che, prima di mettermi a filosofare, avevo accettate per ve­
vere e, filosofando, ho messo in dubbio, mi accorgo che, di quello
che in esse c'era di chiaro e distinto non posso dubitare neppure ora,
e che quello di cui ancora dubito non era chiaro e distinto. Dubito
che esjstano terra, cielo, astri e tutto ciò che mi è offerto dai sensi.
Ma che cosa, di tutto ciò, percepisco chiaramente e distintamente?
Solo che « le idee o i pensieri di queste cose si presentavano al mio
spirito. E di questo non dubito neppure ora» (A.T., VII, p. 35).
A Gassendi (quinte Obiezioni) che gli obietta: come si spiega
che gli uomini abbiano opinioni cosl diverse se c'è un criterio di ve­
rità? (A.T., VII, pp. 277-78), Cartesio risponde: finora non so
neppure se esistano o siano esistiti altri uomini con diverse opinioni.
Comunque, se hanno sbagliato si vede che non hanno affermato
quello che percepivano chiaramente e distintamente (A.T., VII,
p. 361 ). In fondo Cartesio viene a dire: l'uomo non è tutto ragio­
ne, o almeno non adopera sempre la sua ragione, anzi può ac­
cadere che la adoperi assai raramente, e quindi spesso sbagli.
Il rimedio non può essere che quello di andare a vedere come
stanno le cose. Se ci domandiamo infatti che cosa vuol dire
« chiaro e distinto » per Cartesio, troviamo questa risposta nei
Principi di filosofia I, 45: « Intendo per percezione chiara quella
che è presente e manifesta ad uno spirito attento... ; per distinta
quelb che... non contiene in sé nulla che non sia chiaro». Dunque
la chiarezza e la distinzione si riducono alla presenza. Savoir se
réduit à voir, come dice Laporte.
Ma anche le verità matematiche sono chiare e distinte, eppure
Cartesio le ha sottoposte al dubbio. Perché? Per quell'ipotesi del
Dio onnipotente e ingannatore. Se penso a questa ipotesi, dubito,
dice Cartesio, se penso alle cose che mi par (arbitrar) di vedere
chiaramente e distintamente dico (anzi: grido: erumpam in has
voces): mi inganni chi vuole, ma costui non può far sl che io non
sia mentre penso, che io non sia mai stato, se ora sono, che due
più tre non facciano cinque (A.T., VII, p. 36).
92 FILOSOFIA MODERNA

11. L'esistenza di Dio - Primo argomento

Non c'è dunque che una via per uscire da questo ondeggiamen­
to: esaminare se esiste Dio e se può essere ingannatore.
E qui si presenta l'obiezione di circolo vizioso (seconde Obb.;
A.T., VII, pp. 125-125); come si può esaminare se Dio esiste,
quando non si è ancora sicuri se ciò che è percepito chiaramente e
distintamente sia vero? Si suppone che ciò che è chiaro e distinto
sia vero per dimostrare l'esistenza di Dio, di quel Dio che deve
garantire che ciò che è chiaro e distinto è vero. Cartesio risponde
(A.T., VII, p. 140): Dio mi garantisce la verità delle conclusioni
quando non ho presenti (per difetto di memoria) tutti i passaggi
per arrivarvi, partendo dai principi immediatamente evidenti, ma
non c'è bisogno di invocare la garanzia divina quando si tratta di
verità immediatamente evidenti. Cosl dice anche nella Quinta Me­
ditazione. La risposta, tuttavia, sembra una scappatoia, perché nel­
la Terza Meditazione l'ondeggiamento fra l'ipotesi del Dio ingan­
natore e l'impossibilità di dubitare di ciò che è evidente si riferisce
anche alle verità immediatamente evidenti. In realtà, l'ipotesi del
genio maligno o del Dio ingannatore è una :finzione introdotta per
spazzare via i ruderi del sapere tradizionale, ma alla quale Cartesio
non ha mai dato credito.
Vediamo ora come Cartesio dimostri l'esistenza di Dio.
Il punto di partenza non potrà essere che l'io con le sue cogi­
tationes, poiché il resto non si sa ancora se esista. Ora c'è una pri­
ma distinzione da fare tra le cogitationes: alcune mi rappresentano
qualche cosa, sono come immagini di cose, e queste le chiamo
idee, altre sono di altro tipo, e sono i giudizi, i sentimenti, le vo­
lizioni (A.T., VII, p. 37) 23• Fra le idee alcune sono innate, come
le idee di cosa (res), di verità, di pensiero - nam ... haec non aliun­
de habere videor quam ab ipsamet mea natura (A.T., VII, p. 38);
altre sono avventizie e finora ho pensato che mi venissero da cose

21
Hobbes, autore delle Terze Obiezioni, obietta a questo punto (6" ob. di Hob­
bes): i soli modi cogitandi sono le immagini delle cose: noi non abbiamo coscienza se
non di cose, non del nostro volere, dei nostri sentimenti. Temere un leone vuol dire:
avere l'immagine di un leone e scappare (A.T., VII, p. 182). Cartesio risponde in
cinque righe: è evidente che (per se notum est) altro è vedere un leone, altro è te­
merlo... (ibid., p. 182). Per se notum est: qui si tratta secondo Cartesio di vedere o
non vedere. Dice bene il Garin: « Se il dialogo con Mersenne non fu facile, quello
con Hobbes risultò impossibile» (La vita e le opere di Cartesio, p. CXLVIII).
CARTESIO 93

fuori di me; altre sono fatte da me, foggiate da me, come l'idea
delle Sirene e degli Ippogrifi.
Tutte le idee, poi, possono esser considerate o in quanto so­
no « modi del pensiero » o in quanto mi rappresentano qualche
cosa. Cartesio, seguendo la terminologia scolastica, chiama realtà
formale quella delle idee come modi cogitandi e realtà oggettiva
quella delle idee in quanto rappresentano un oggetto 24• Ora, in
quanto modi cogitandi, le idee sono tutte della medesima stoffa,
per dir cosl: omnes a me eodem modo procedere videntur (A.T.,
VII, p. 40); nella loro realtà oggettiva, invece, sono molto diverse
fra loro: quelle che mi rappresentano sostanze hanno più « realtà
oggettiva » di quelle che mi rappresentano modificazioni; l'idea
di Dio ha più realtà oggettiva dell'idea di una sostanza finita. Ora
Cartesio applica alle idee un principio che ritiene evidente (lumine
naturali manifestum ), e cioè che la causa deve contenere in sé,
formaliter o eminenter, almeno tanta realtà quanta ne contiene l'ef­
fetto, e argomenta così: la causa di un'idea deve contenere in sé
(formaliter o eminenter) almeno tanta realtà formale quanta è la
realtà oggettiva dell'idea. Ora io, che sono una sostanza pensante,
contengo eminenter in me tanta realtà quanta è quella che può
esser contenuta in tutte le cose delle quali ho idee - all'infuori
di una: l'idea di Dio. - Potrei quindi essere io stesso la causa
delle idee dei corpi, degli altri uomini, degli angeli; ma non posso
essere io la causa dell'idea di Dio che è l'idea di una sostanza in­
finita, mentre io sono finito. Dunque deve esistere una sostanza
infinita sommamente intelligente e potente, come causa dell'idea
che ne ho (A.T., VII, pp. 40-45).

2
• Noi chiameremmo realtà ontologica quella che Cartesio chiama realtà formale e
aspetto intenzionale quella che Cartesio chiama realtà oggettiva. Si badi: realtà onto­
logica di un'idea è la realtà o l'essere che le compete in quanto idea, cioè la sua realtà
psichica: la realtà ontologica o psichica di un'idea è appunto quella di essere un modo
del pensiero. Se la « realtà formale» di un'idea è quella di essere un modus cogitandi,
la sua « realtà oggettiva» è quella di essere un cogitatum. In termini husserliani si di­
rebbe la « realtà formale» di un'idea è la noesi, la « realtà oggettiva ►► è il noema. Ma,
per evitare un fraintendimento, dobbiamo ricordare che nella terminologia scolastica
formaliter si contrappone non solo a obiective, ma anche a eminenter. O piuttosto; il
formaliter in senso ampio (in quanto contrapposto a obiective) si suddivide in forma­
/iter in senso stretto e eminenter. Forma/iter in senso stretto equivale a « in questa precisa
forma di realtà», eminenter equivale a « contenente in sé questa realtà, ma non sotto
questa precisa forma». Per fare un esempio grossolano si potrebbe dire che un'automobile
contiene eminenter la forza di un cavallo.
94 FILOSOFIA MODERNA

Qui il punto fondamentale è: ho davvero l'idea dell'infinito, o


la nozione di infinito è solo una nozione negativa? E Cartesio dice:
non potrei avere l'idea del finito, non potrei cogliermi imperfetto e
finito, se non avessi l'idea della perfezione e dell'infinito. Il che
non vuol dire che io comprenda l'infinito; anzi è impossibile che
io, che sono finito, comprenda l'infinito, ma « mi basta intendere
e giudicare che tutto ciò che concepisco chiaramente e che implica
una perfezione ... è in Dio, o formalmente o eminentemente, perché
l'idea che ho di lui sia la più vera di tutte e la più chiara e distinta»
(A.T., VII, p. 46).
A questa prova cartesiana dell'esistenza di Dio, prova che,
salvo meliori iudicio, sembra originale di Cartesio, muove obiezioni
il teologo olandese Johan de Kater (Caterus), l'autore delle Prime
obiezioni. Garin ne dice molto male: la cultura di Catero « è unila­
terale, dogmatica e terribilmente scolastica, di una modesta orto­
dossia tomistica» 25• Sarà perché anche chi scrive si muove nell'am­
bito di una modesta ortodossia tomistica, ma le obiezioni di Ca­
tero non mi sembrano né sciocche né ispirate ad atteggiamento
dogmatico. Catero domanda: che cos'è la realtà oggettiva di una
idea? cosa vuol dire essere oggettivamente nell'intelletto? « Una
volta mi insegnarono: è l'esser termine, a modo di oggetto, di un
atto di intellezione: ipsum actum intellectus per modum obiecti
terminare» (A.T., VII, p. 92) - noi diremmo: è la presenza in­
tenzionale, è l'esser pensato di una cosa. - Ora l'esser pensato
non aggiunge nulla alla cosa pensata, non è un ente reale, e quindi
non ha causa. Cartesio risponde: se si presuppone già l'esistenza
di cose distinte da me che le penso, si potrà dire che la loro pre­
senza al pensiero non aggiunge loro nulla, che è una denominatio
extrinseca alle cose stesse; ma se si parte dalle idee, si deve ammet­
tere che il loro « essere oggettivamente» è qualche cosa; è un
« modo di essere molto più imperfetto di quello per cui le cose esi­
stono fuori dell'intelletto, ma tuttavia non è un nulla» (A.T., VII,
p. 103).
Catero avrà il torto di partire dalle cose, supposte esistenti,
mentre Cartesio parte dal cogito coi suoi cogitata, con le sue idee;
ma Cartesio non spiega affatto che cosa sia l'essere oggettivo e si
limita a ripetere: è un « essere nell'intelletto nel modo in cui soglio-

" La vita e le opere di Cartesio, cit., p. CXLIII.


CARTESIO 95

no esservi gli oggetti ». E lo ripete tre volte in mezza pagina (p.


102, 102, 103 ). Ora ci si potrebbe chiedere: e qual è questo mo­
do di essere nell'intelletto? È lo stesso modo in cui sono nell'in­
telletto le sue determinazioni, le sue idee come modi cogitandi? No,
perché Cartesio ha distinto la realtà formale dell'idea (la sua realtà
come modus cogitandi) dalla sua realtà oggettiva. Ma poi ha con­
cepito questa « realtà oggettiva » come un ente reale, più imper­
fetto di quello che le cose hanno « fuori » 1 ma pur sempre reale,
pur sempre una coserella, un esserino 26• Catero, invece, anche se
non è felicissimo col battere sulla denominatio extrinseca che sup­
pone l'esistenza reale della cosa pensata, afferma che l'esse obiecti­
ve, l'essere pensato, è un ente ideale, è un puro nulla nell'ordine
ontol0gico n_ Ma, insiste Cartesio, se uno pensa questo piuttosto
che quest'altro, se uno pensa, ad es., una macchina molto inge­
gnosa, debbo ben chiedermi perché la pensa, e non sarei soddi­
sfatto se uno mi rispondesse: siccome l'esser pensato non è un
essere reale, non c'è una causa, un perché di esso. Dovrei invece
dare una di queste risposte: o perché ha visto la macchina reale,
o perché ne ha vista una simile, o perché l'ha inventata con le sue
conoscenze di meccanica (A.T., VII, p. 104 ); ossia perché l'ha
prodotta o è capace di produrla. Ora io pensante, imperfetto, non
posso produrre Dio u_

26 Per questo « dualismo gnoseologico» di Cartesio rimando a G. BoNTADINI, Stu­


di sulla filosofia dell'età cartesiana, Brescia, La Scuola, 1947 (ora ripreso in Studi di
,filosofia moderna, Brescia, La Scuola, 1967).
27
« La divergenza [fra Cartesio e la scolastica] si coglie già bene a proposito delle
idee, la cui funzione di intermediari riesce pressoché incomprensibile a Catero, per il
quale la conoscenza è conoscenza delle cose stesse» (GARIN, La vita e le opere di C.,
p. CXLII). Ma è proprio colpa di Catero se la funzione dell'idea come intermediario gli è
incomprensibile, o l'idea come intermediario è in sé incomprensibile, e Catero ha, fino
a un certo punto, il merito di rilevare questa incomprensibilità?
Aggiungerei: lo pseudo-concetto dell'idea-intermediario, dell'idea-cosa in me, di­
stinta dalla cosa in sé, era proprio originale di Cartesio o era di certe correnti della
scolastica?
28 Se volessimo, sospendendo un momento l'esposizione storica, fare una rifles­
sione critica, potremmo dire: io non produco Dio, produco soltanto l'idea di Dio, la
quale idea ha, secondo Cartesio, un modo di essere longe imperfectior del modo di es­
sere reale, di qualunque essere reale. Dunque io, per quanto limitato nell'essere reale,
ne possiedo sempre più di un qualche cosa che sarà in.finito, ma solo in quel modo
longe imperfectior. Questo potre=o dire seguendo la tesi cartesiana che l'esse obiective
sia, come dicevo, un esse diminutum, un esserino. Se proseguissimo invece nella stra­
da di Catero dovre=o dire: l'esse obiective non è un modo di essere più imperfetto
dell'essere reale, è un altro modo di essere: è un apparire, una presenza di qualche cosa.
Ma se un quid appare, si manifesta, quel quid ci deve essere realmente, non come
96 FILOSOFIA MODERNA

12. Esistenza di Dio. Secondo e terzo argomento

Ma vediamo se è proprio vero che io non posso produrre Dio


- cioè che io non ho in me tutta quella pedezione che è compre­
sa nell'idea di Dio -, Non potrei, infatti, progredire verso l'in­
finito, non potrei essere un infinito in divenire? (A.T., VII, pp.
46-47).
No, risponde Cartesio, perché l'idea di Dio non è l'idea di un
ente che progredisce infinitamente, ma l'idea di un ente attual­
mente infinito.
Anzi, debbo domandarmi - e qui Cartesio espone un secondo
argomento per dimostrare l'esistenza di Dio - se io stesso, che
ho l'idea di Dio, potrei esistere se Dio non esistesse. Da chi avrei
l'essere (a quo essem)? (A.T., VII, p. 48). Non da me stesso,
poiché se esistessi necessariamente, senza dipendere da altri, non
sarei manchevole, come invece sono; non avrei dubbi, desideri ecc.,
e mi sarei dato tutte le perfezioni delle quali ho un'idea. All'obie­
zione che potrei aver tanta forza da darmi l'essere, ma non quella
di darmi tutte le perfezioni, Cartesio risponde che è più difficile
darsi l'essere dal nulla che darsi delle pedezioni. Le pedezioni, in­
fatti, sono solo accidenti della sostanza, mentre il mio essere è l'es­
sere di una sostanza, di una sostanza pensante.
Un'altra obiezione è la seguente: mi penso causato perché pen­
so di aver avuto un inizio, e mi domando come sono passato dal
nulla all'essere, ma se io fossi sempre stato non ci sarebbe bisogno
di cercare una causa della mia esistenza. Ora non potrei supporre
di essere sempre stato?
La risposta a questa obiezione introduce un nuovo argomento
per dimostrare l'esistenza di Dio: non solo non potrei essere, ma
non potrei continuare ad essere se non fossi conservato nell'essere
ogni momento da una causa. È evidente infatti lumine naturali che

causa di un mio modo di essere, ma com� presente a me che conosco, come intenzio­
nalmente presente. Si potrebbe obiettare: e quando penso l'ippogrifo? - Non ci sarà
l'ippogrifo, ma ci sono cavalli e uccelli. Non ci sarà la macchina ingegnosa, di cui parla
Cartesio, ma ci saranno pezzi vari, strumenti più semplici, combinando i quali si può
produrla. - E Dio? Se davvero ne avessimo l'idea, ne sarebbe con ciò provata l'esi­
stenza. Ma abbiamo noi l'idea di Dio prima di averne di.mostrata l'esistenza partendo
da ciò di cui abbiamo esperienza? Qui sta il problema, come vedremo anche a propo­
sito della quinta Meditazione.
CARTESIO 97

la conservazione non clliierisce realmente dalla creazione (A.T.,


VII, p. 49).
A proposito della seconda prova cartesiana Caterus osserva che
questa è la seconda via di S. Tommaso. Cartesio è seccato dall'os­
servazione: è sempre seccato quando qualcuno gli fa rilevare che
anche altri hanno pensato quello che pensa lui, ma è seccato in
modo particolare quando qualcuno rileva un accordo fra il suo pen­
siero e quello degli scolastici, sicché risponde: « mi permetta di
non parlare degli altri e di render ragione solo di ciò che ho scrit­
to » (A.T., VII, p. 106 ). Però non tace su quelle che egli ritiene le
differenze fra il suo argomento e quello di S. Tommaso: prima di
tutto il punto di partenza dell'argomento cartesiano non è costi­
tuito dall'« ordine e successione delle cause efficienti nelle cose
sensibili» (A.T., VII, p. 106). E Cartesio dice di non aver assunto
questo come punto di partenza sia perché l'esistenza di Dio è
molto più evidente di quella delle cose sensibili, sia perché non è
detto che la successione delle cause non possa essere infinita 29•
In secondo luogo, aggiunge Cartesio, la mia prova non parte
dall'esistenza dell'io come costituito di spirito e di corpo, ma dal­
l'esistenza dell'io come pura res cogitans. « E questa è una cosa
importante, poiché così ho potuto liberarmi meglio dai pregiudizi,
tener presente il lume naturale, interrogare me stesso e affermare
che non vi può essere nulla in me di cui io non abbia in qualche
modo coscienza; e questa è una considerazione molto diversa da
quella che, dal fatto che sono stato generato da mio padre, e mio
padre da mio nonno, e dal non poter risalire all'infinito, per finire

29 Ora va notato che S. To=aso nella seconda via aveva parlato di ordine si,
ma non di successione di cause efficienti; e non aveva parlato di successione perché
secondo lui la ragione umana non può dimostrare che ci sia un inizio nella successione;
.la ragione umana può ammettere una successione infinita (la creazione ab aeterno). E,
certo, per S. To=aso Dio non è il primo di una serie di cause, ma è l'altro, l'incau­
sato. Garin dice: « Ma l'antitesi delle due posizioni [scolastica e cartesiana] si manifesta
in forma esplosiva a proposito della dimostrazione dell'esistenza di Dio, quando, di
fronte all'argomentazione aristotelico-tomistica dell'impossibilità del processo all'in­
finito, Cartesio risponde dichiarando che proprio questa è la condizione dell'intelligen­
za umana nel mondo: di muoversi in una successione indefinita senza raggiungere mai
la totalità. A Dio, all'Essere, si può giungere solo attraverso una sorta di salto qua­
litativo, al di là del piano fisico e matematico, dove, anzi, l'indefinito è l'esperienzà
costante dell'uomo» (Vita e opere di C., p. CXLII). Dio è infatti al di là del piano
fisico e matematico anche per S. To=aso; anzi, direi, ancor più per S. Tommaso che
per Cartesio, il quale fa dipendere le leggi del moto dall'immutabilità divina.
98 FILOSOFIA MODERNA

la ricerca, stabilisca che vi è una causa prima» (A.T., VII, p. 107) 30•
Altre osservazioni di Catero sarebbero interessanti, ma dobbia­
mo tralasciarle per brevità. Ricordiamo solo che, nelle· risposte,
Cartesio riprende il nocciolo della sua (seconda) prova così: « di
ogni cosa ci si può domandare perché esiste» (A.T., VII, p. 108);
ora ciò che ha una potenza infinita esiste per sé. « Ognuno può
chiedere a se stesso se è da sé; e quando non trova in sé nessun po­
tere di conservarsi nell'essere, neppure per un momento, ne con­
clude rettamente che dipende da un altro; e da un altro che sia
da sé (a sè)... » (A.T., VII, p. 111). Qui sembra ci sia una intuizione
della propria contingenza.
« Ora resta da vedere come ho ricevuto da Dio questa idea
(l'idea di Dio)» (A.T., VII, p. 51). E Cartesio risponde: l'idea di
Dio è innata come è innata l'idea che ho di me stesso. « E invero
non è strano che Dio creandomi, abbia messo in me quell'idea, per­
èhé fosse come il sigillo impresso dell'artefice nell'opera sua; né
si tratta di un sigillo diverso dall'opera stessa; ma, per il fatto stes­
so che Dio mi ha creato, è comprensibile che (valde credibile est)
mi abbia fatto in certo modo a sua immagine e somiglianza, e che
quella somiglianza, in cui è contenuta l'idea di Dio, sia percepita
da me con la stessa facoltà con la quale percepisco me stesso. Cioè:
mentre rivolgo l'attenzione a me stesso (dum in meipsum mentis
aciem converto), vedo (intelligo) non solo di essere una cosa in­
completa e dipendente da un altro, che tende indefinitamente a
qualcosa di più grande e di più perfetto; ma vedo insieme che la
realtà dalla quale dipendo ha in sé tutto ciò a cui tendo, e lo ha non
indefinitamente e in potenza soltanto, ma attualmente e infinita­
mente (reipsa infinite, en effet actuellement et infiniment), e quindi
è Dio» (A.T., VII, p. 51).
È un passo, questo, che piaceva molto a Gratry 31 e non pos­
siamo negare che abbia un certo pathos. Il che non induce neces­
sariamente a ritenere che il problema religioso sia il problema cen­
trale di Cartesio, ma fa pensare che, fra l'interpretazione della re­
ligione di Cartesio come religione puramente sociologica (alla qua-

30 Anche qui osserviamo che un tale ragionamento non ha nulla a che fare con
quello della seconda via.
31 De la connaissance de Dieu, (1853). Cito dall'll• ed. Paris, Téqui, 1922, tome
I, p. 287.
CARTESIO 99

le si è almeno tentati di aderire quando si legge la prima regola


della morale provvisoria nel Discorso del metodo e la frase che Car­
tesio avrebbe detta a un protestante che voleva convertirlo) 32 e
quella di Cartesio pensatore religioso, ci siano molte vie interme­
die. Una di queste potrebbe indurre a ritenere che una concezione
come quella agostiniana, che non faceva entrare nella filosofia
nessuna considerazione sul mondo corporeo, che gli permetteva di
costruire una fisica puramente meccanicistica, fatta di proposizioni
chiare e distinte, senza forme sostanziali, e di affidare le verità me­
tafisiche a un dialogo fra l'anima e Dio; una concezione, insomma,
che gli permetteva di sganciare totalmente la metafisica dalla fisi­
ca, desse anche respiro alla sua religione, gli desse un senso di libe­
razione nei suoi rapporti con Dio.

13. L'errore

Riflettendo sulla certezza della propria esistenza come res co­


gitans, Cartesio ha ricavato il criterio di verità ( chiarezza e distin­
zione); adoperando questo criterio ha formulato un principio {l'ef­
fetto non può contenere più realtà di quanta ne contenga la causa),
e, applicando tale principio all'idea che abbiamo dell'essere infi­
nito, ha dimostrato l'esistenza di un tale Essere, cioè di Dio. Ora
dall'esistenza di Dio cercherà di inferire altre verità.
Ma prima ancora di inferire altre verità indaga, nella quarta
Meditazione, sulla conoscenza della verità in generale e sul motivo
dell'errore.
Dio, infinitamente perfetto, non può infatti ingannarci; dun­
que •quando adoperiamo la facoltà di giudicare - che ci è data da
Dio come tutto il nostro essere - non possiamo ingannarci, se la
adoperiamo bene.
E allora come mai qualche volta sbagliamo?
Un primo tentativo di risposta è che noi siamo realtà finite, ed
essere finiti vuol dire essere, in certo modo, fra Dio e il nulla;
ora in quanto abbiamo l'essere, abbiamo solo qualità positive, ma
in quanto partecipiamo del nulla possiamo deficere, possiamo ca-

" Disse di voler mantenere la religione del suo re e della sua balia: ·
100 FILOSOFIA MODERNA

dere in errore. Ma questa risposta non soddisfa, perché l'errore non


è una semplice negazione, ma una privazione (Cartesio usa pro­
prio questi termini scolastici); ossia: il mio esser limitato può
spiegare la mia ignoranza, ma non spiega l'errore, che è l'assenso
dato a ciò che non è « chiaro » (non è dato, non è presente).
Allora, dice Cartesio, riflettendo meglio su me stesso (ad me
propius accedens) mi accorgo che l'errore dipende da due cause:
dalla facoltà di conoscere e dal libero arbitrio: dall'intelletto e dalla
volontà. L'intelletto presenta soltanto idee, quindi non può sba­
gliare. Che la realtà sia immensamente più ampia delle mie idee,
che io ne abbia quindi pochissime rispetto alla realtà, non è un er­
rore, ma solo un limite della mia conoscenza. La mia libertà, invece,
in certo senso, non ha limiti: la libertà non è maggiore in Dio che
in me. « Solo la volontà o libertà di arbitrio, di cui ho esperienza,
è cosi grande in me che non posso concepirne una maggiore; sl che
è questa per cui capisco di avere in me un'immagine e una similitu­
dine di Dio. Infatti, sebbene essa sia incomparabilmente più gran­
de in Dio per la conoscenza e la potenza che l'accompagnano ... e
perché si estende a più cose, tuttavia, considerata formalmente e
precisamente in sé, non è più grande in Dio che in me; poiché
consiste solo in questo: nel poter fare o non fare una cosa (cioè nel
poter affermare o negare, perseguire o fuggire un oggetto) ... sl da
non sentirci determinati da nessuna forza esterna » (A.T., VII,
p. 57) 33•
Quello che è essenziale alla libertà è il non esser determinati
da una forza esterna; una propensione che venga da me, dall'inter­
no, non toglie la libertà: anzi, una conoscenza evidente che mi
determini all'assenso o una grazia divina che mi disponga a volere
non tolgono la libertà, ma la rafforzano. Quanto più la volontà è
decisa, tanto più è libera; l'indifferenza è l'infimo grado di libertà.
Ora, proprio perché la volontà ha una sfera più ampia (latius
patet) dell'intelletto, essa può assentire anche a ciò che l'intellet­
to non vede: posso volere affermare più di quello che vedo (A.T.,
VII, p. 58). L'errore è dovuto, dunqL1e, da una trasgressione della
volontà: è un fatto ateoretico.
Fermiamoci un momento sul concetto cartesiano di libertà. Per

:u Si noti dunque che affermare o negare sono sempre, per Cartesio, atti di vo­
lontà, atti liberi.
CARTESIO 101

far vedere che la libertà non è indifferenza Cartesio dice: per esem­
pio, quando vidi che dal mio pensare seguiva evidentemente il mio
esistere, « non potei non giudicare [ non potei non vuol dire neces­
sariamente giudicai] che ciò che vedevo chiaramente era vero, e
ciò non perché vi fossi costretto da una forza esterna, ma perché
da una gran luce nell'intelletto segui una gran propensione nella
volontà, e perciò tanto più spontaneamente e liberamente diedi
l'assenso (credidi) quanto meno fui indifferente a darlo » (A.T.,
VII, pp. 58-59). Dove si vede che la libertà è per Cartesio solo as­
senza di coazione, non assenza di necessità. Si noti poi che per Car­
tesio indifferenza equivale ad esitazione 34•
Ma, comunque la concepisca, Cartesio è sicuro della libertà. A
Hobbes, infatti, che nella 12a obiezione gli rimprovera di non
aver dimostrato la libertà di arbitrio, ma di averla solo supposta,
Cartesio risponde: Non ho supposto nulla più di ciò che tutti spe­
rimentiamo in noi stessi e che è notissimo lumine naturali: la dif­
ficoltà (Hobbes aveva citato i calvinisti, che negano la libertà) sa­
rà quella di vedere come la libertà si concilii con la preordinazione
divina, ma non c'è nessuno che non abbia esperienza della libertà
(A.T., VII, p. 191).
La libertà di Dio è però molto diversa dalla nostra: la nostra
è in certo modo infinita, ma la libertà di Dio è assolutamente in­
finita, non è limitata neppure dal pur infinito ambito del pensiero
divino: « non si può fingere nessun bene, nessuna verità, nessun
dovere di fare o di credere la cui idea sia presente nell'intelletto
divino prima che la sua volontà lo abbia determinato ad essere ta­
le ... Per esempio, Dio non volle creare il mondo nel tempo perché
vide che era meglio cosi, che non se fosse creato ab aetemo; né vol­
le che i tre angoli del triangolo fossero uguali a due retti perché

" Invece quando la scolastica parla di indifferenza (liberum arbitrium indifferen­


tiae) intende l'indeterminazione da parte dell'oggetto, indeterminazione compensata, per
dir cosl, dall'autodeterminazione del soggetto che sceglie. L'autodeterminazione può es­
sere decisissima: decisissima anche nell'errore, decisissima nella volizione sia del bene
come del male. La decisione non viene infatti dall'oggetto, e, mentre una determinazione
all'assenso che venga dall'oggetto, dall'evidenza dell'oggetto, non impegna l'uomo,
una scelta in senso preciso, cioè una volizione in cui l'uomo determina se stesso, si
autodetermina, impegna sempre l'uomo. L'affermare che due più due fa quattro, o che
fa freddo, o che oggi nevica, è un semplice prendere atto di ciò che è, e non mi im­
pegna affatto; quando invece scelgo perché sono io a dar peso a ciò che scelgo, perché
l'oggetto non basterebbe a determinare la mia volontà se io non gli dessi peso, allora
mi impegno.
102 FILOSOFIA MODERNA

conobbe che non poteva essere altrimenti. Ma, al contrario, poiché


Dio volle creare il mondo nel tempo, per questo è meglio cosl; e
perché volle che i tre angoli del rettangolo fossero necessariamente
uguali a due retti, per questo è vero cosl e non può essere altri­
menti» (A.T., VII, p. 432) 35•

14. La prova a priori dell'esistenza di Dio

Dopo aver indicato la causa dell'errore, Cartesio si domanda


nella quinta Meditazione cosa possiamo sapere con certezza delle
cose materiali.
Chiara e distinta è l'idea dell'estensione, delle sue parti, figu­
re, posizioni; del moto locale, della durata. Su queste idee posso
formulare proposizioni evidenti, posso dedurre da queste altre pro­
posizioni particolari, in modo tale che, quando dimostro tali con­
clusioni, ho l'impressione non tanto di scoprire nuove verità quan­
to di ricordare, di riportare allo sguardo della coscienza ciò che
giaceva già nel profondo del mio spirito. E mi rendo conto che
posso conoscere moltissime verità che sono indipendenti dall' esi­
stenza di oggetti fuori di me: anche se, infatti, non esistesse nulla
fuori di me, sarebbe sempre vero che un triangolo ha gli angoli
interni uguali a due retti. Queste verità dipendono dalla natura
di certe idee, le quali non sono foggiate da me, ma hanno « vere ed
immutabili nature» (A.T., VII, p. 64). « Ora, se per il solo fatto
che io posso tirar fuori (depromere) dal mio pensiero l'idea di una
cosa, ne segue che tutto ciò che percepisco chiaramente e distinta­
mente appartenere a quella cosa le appartiene in realtà, potrò de­
sume!'e di qui un altro argomento per dimostrare l'esistenza di Dio.
Ho infatti l'idea di Dio, cioè dell'essere perfettissimo, non meno
di quanto abbia l'idea di una qualsiasi figura o numero, e vedo non
meno chiaramente e distintamente che alla sua natura compete
l'esistere sempre» (A.T., VII, p. 65), cosl come vedo chiaramente
e distintamente che alla natura del triangolo compete l'avere gli
angoli interni uguali a due retti; dunque l'esistenza di Dio è evi­
dente come sono evidenti le verità geometriche.
A prima vista questo argomento sembra un sofisma, dice Carte-

35 Cfr. su questo punto E. GILSON, La liberté chez Descartes et la théologie.


CARTESIO 103

sio, perché in tutte le altre cose l'essenza si distingue dalPesisterìza;


ma in Dio no; l'essenza di Dio implica l'esistenza come l'essenza
del triangolo implica l'avere gli angoli interni uguali a due retti.
Dunque è contraddittorio negare che Dio esista, come è contraddit­
torio negare che un triangolo abbia gli angoli interni uguali a due
retti. L'esistenza è una perfezione; ora Dio ha tutte le perfezioni,
dunque Dio esiste (A.T., VII, p. 67). E questa comprensione di
tutte le perfezioni nell'idea di Dio non è il frutto di una mia im­
maginazione, poiché l'idea di Dio non è un'idea foggiata da me,
come quella del leone alato, ma è un'idea innata, un'idea che pos­
so tirar fuori dalla profondità del mio spiritò, ex mentis meae
thesauro depromere (p. 67), è « l'immagine di una vera ed immu­
tabile natura » (p. 68 ).
Ma come so che l'idea di Dio non è un'idea fittizia, che riflette
una vera ed immutabile natura? Cartesio risponde: 1) perché è l'uni­
ca ad avere questo carattere; 2) perché non posso pensare Dio se non
come unico ed eterno (ed è sottinteso: se è eterno è da sé; nessuno
gli può aver dato l'essere, dunque l'essere è implicito nella sua es­
senza); 3) perché conosco molti altri attributi di Dio che non posso
togliere o mutare a mio arbitrio; dunque non ho foggiato io l'idea
di Dio.
Catero ricorda l'obiezione di S. Tommaso all'argomento del
Proslogion (A.T., VII, p. 99) e fa un esempio: posso pensare questa
idea complessa: leone esistente, e di tale idea l'esistenza fa parte, ma
è, appunto, una esistenza ideale, e non si può affermare che il leone
esiste prima di averne constatata, o dimostrata per altra via, l'esi­
stenza. Cartesio risponde (A.T., VII, p. 117) che l'idea di leone esi­
stente è composta da noi, come quelle di cavallo alato o di triangolo
inscritto in un quadrato, e quindi possiamo dividerla e pensare un
leone non esistente, un cavallo non alato, un triangolo non inscritto
in un quadrato. L'idea di Dio, invece, riflette una « vera ed immu­
tabile natura » come l'idea del triangolo, o l'idea del quadrato; e
come tutto ciò che è contenuto nell'idea del triangolo - per esem­
pio l'avere gli angoli interni uguali a due retti - si può in verità
affermare del triangolo, cosi tutto ciò che è contenuto nell'idea di
Dio si può in verità affermare di Dio.
Il punto fondamentale della discussione è sempre quello ( fin da
S. Anselmo e Gaunilone): l'idea di Dio riflette davvero una vera ed
immutabile natura? o, come dirà più tardi Leibniz (ma dice già Car-
104 FILOSOFIA MODERNA

tesio), riflette un ente possibile? Cartesio afferma la possibilità di


Dio, sia nella risposta a Catero sia nella risposta alle Seconde obie­
zioni (A.T., VII, p. 150), ma non la dimostra se non affermando di
nuovo: « non ho supposto nella natura di Dio se non ciò che per­
cepiamo chiaramente e distintamente appartenerle » (p. 150); « è
certo che la natura di Dio è possibile » (p. 152) 36•
Non solo l'esistenza di Dio risulta evidente dalla riflessione sul­
l'idea di Dio, ma dall'evidenza di questa verità (l'esistenza di Dio)
dipende l'evidenza di ogni altra verità. E qui viene il discorso sul
modo in cui Dio garantisce l'evidenza delle verità evidenti - quel
discorso al quale abbiamo già accennato a proposito dell'obiezione
di circolo vizioso -. Quando ho presente una verità evidente non
posso non dare l'assenso ed essere convinto che in realtà è così - di­
ce Cartesio -; ma poiché non posso aver sempre presenti tutte le
verità che ho conosciute con evidenza; siccome per la maggior parte

� Da notare che Mersenne (Seconde obb.) aveva già proposto la formulazione leibni­
ziana dell'argomento « se non è contraddittorio che Dio esista, Dio esiste; ma non è
contraddittorio che Dio esista», ergo (A.T., VII, p. 127) - presentandola anzi come
già corrente (alii bisce verbis afferunt) -, ma aggiunge: il difficile è provare la minore:
sed de minori laboratur.
Dieter HENRICH, Der ontologische Gottesbeweis, Tiibingen, J.C.B. Mohr, 1960 (2•
ed. 1967) fa una lunga e acuta analisi della prova cartesiana. La caratteristica di questa
prova, nei confronti di quella del Proslogzon di S. Anselmo, è quella di far leva sul
concetto di ente necessario, anziché di ente perfettissimo. � vero che Cartesio parte an­
che dal concetto di perfettissimo, ma quando deve difendere il suo argomento contro Ca­
tero osserva, dice Henrich, che l'idea di perfettissimo potrebbe anche essere una no­
stra finzione, potrebbe essere il frutto di « una combinazione e di una intensificazione
di perfezioni che in natura si trovano solo separate e in grado minore» (p. 14). Bisogna
dunque dimostrare che l'idea dell'ente perfettissimo è una « vera idea », chiara e di­
stinta. Per dimostrar questo Cartesio parte dall'idea di una sola perfezione, quella della
potenza infinita, e afferma che ad una immensa potestas deve almeno competere l'esi­
stenza possibile. « Deinde, quia cogitare non possumus eius existentiam esse possibilem,
quin simul etiam, ad immensam eius potentiam attendentes, agnoscamus illud propria
sua vi posse existere, hinc concludemus ipsum revera existere, atque ab aeterno extitisse»
(A.T., VII, p. 119).
Ora io mi chiedo se questa sia proprio una seconda prova rispetto a quella ansel­
miana, come dice Henrich. Il problema è: come posso affermare che enti summe po­
tenti, all'ente sommamente potente, compete almeno l'esistenza possibile; come si può
affermare che dell'ente sommamente potente abbiamo una idea distinta - cosi come
per Gaunilone il problema era: come posso dire di avere l'idea dell'ente di cui non si
può pensare il maggio1-e -. Il salto è dalla nozione di realtà finite, che possono sem­
pre avere sopra di sé qualcosa di più grande, all'infinito, al summe. Si può discutere
- e si discuterà sempre, credo - se noi abbiamo o non abbiamo l'idea dell'infinito
(lo si chiami summe potens o ens quo maius cogitari nequit); ma è questo il punto,
sia per S. Anselmo come per Cartesio. Non credo, quindi, come dice Henrich, che le
obiezioni che valgono contro la prova anselmiana non valgano contro quella car­
tesiana.
CARTESIO 105

di esse debbo affidarmi alla memoria, potrei esser fuorviato da obie­


zioni contro tali verità, quando non ho attualmente presente la ve­
rità conosciuta, se non sapessi che esiste Dio, dal quale dipende
ogni cosa e che egli non mi può ingannare, perché è infinitamente
perfetto.

15. L'esistenza dei corpi

« Resta da esaminare se le cose materiali esistano », cosi comin­


cia la Sesta Meditazione (A.T., VII, p. 71 ).
La dimostrazione cartesiana dell'esistenza dei corpi è assai la­
boriosa 37•
Le tappe di questa ricerca sono le seguenti:
1) Le cose materiali, nei limiti e sotto gli aspetti in cui sono og­
getto della matematica pura, sono possibili, perché le loro idee sono
chiare e distinte. Tali aspetti sono: numero, estensione, figura, moto
locale (tutto ciò che Cartesio ha ritenuto oggetto di autentico sapere
fin dalle Regulae ad directionem ingenii).
2) L'immaginazione dimostra che l'esistenza di cose materiali
è probabile. È probabile almeno l'esistenza di una cosa materiale:
il mio corpo. E questo a) perché la immaginazione è diversa dal pen­
siero, b) e perché le caratteristiche dell'immaginazione rimandano,
almeno con probabilità, all'esistenza, in me, di qualcosa che non so­
no io, ma che appartiene a me, cioè il mio corpo. Vediamo i due ul­
timi punti.
a) Altro è pensare, altro immaginare. Pensare un triangolo vuol
dire definirlo esattamente, immaginarlo vuol dire aver presente una
.figura che non è mai esattamente triangolare (perché i lati sono stri­
scette e non linee ecc. ecc.). La differenza fra pensare e immagina­
re si coglie bene a proposito di realtà che non riusciamo a immagi­
nare: p. es. il chiliogono, che pure posso definire esattamente e del
quale posso dimostrare tanti teoremi. A Gassendi, infatti, che gli

37 Mentre secondo S. Tommaso l'esistenza di corpi è evidente, e la dimostrazione


che esiste in noi un principio spirituale, capace di sussistere indipendenten:.-r.te dal
corpo, esige una diligens et subtilis inquisitio (Summa theol. I, q. 87, art. 1 ), secor..<:lo Ca. -
tesio, invece, che l'io sia una res cogitans, assolutamente incorporea e indipendente dai
corpo, è una verità immediatamente evidente, e la diligens et subtilis inquisitio OC·
eone per dimostrare che ci sono i corpi.
106 FILOSOFIA MODERNA

obiettava: quella che tu chiami immaginazione è conoscenza distin­


ta, mentre quello che tu chiami pensiero è solo immagine confusa
(A.T., VIII, p. 330 ss.), Cartesio risponde: il fatto che io possa di­
mostrare rigorosamente proprietà del chiliogono ed enunciare su di
esso dei teoremi - non meno che sul triangolo - prova che non
ho affatto una conoscenza confusa del chiliogono, e che per avere
una conoscenza distinta di un oggetto non è affatto necessario im­
maginarlo.
b) Ora si tratta di interpretare questa differenza fra immagina­
zione e pensiero. Io sono pensante, sono res cogitans, ma non sono
necessariamente dotato di immaginazione: potrei essere io anche se
non sapessi immaginare; dunque l'immaginazione non appartiene
alla mia essenza 38• Ora se l'immaginazione è in me, ma non appar­
tiene alla mia essenza, non è costitutiva della mia essenza, vuol dire
che è l'effetto in me di qualche cosa che è diverso da me. Ora può
darsi ( fieri potest) che questo qualche cosa sia il corpo. Posso dun­
que congetturare che esista il mio corpo: « probabiliter inde coniicio
corpus existere; sed probabiliter tantum» (A.T., p. 73).
3) Poiché siamo arrivati ad una conclusione soltanto probabile,
proviamo a rivolgerci altrove: alle qualità sensibili: colori, suoni,
sapori, odori e simili, che percepisco non così distintamente come
percepisco l'oggetto della matematica, ma li percepisco con quel
modus cogitandi che chiamo senso (A.T., VII, p. 74).
Prima di mettermi a filosofare ritenevo vero (ossia esistente in­
dipendentemente da me) quello che percepivo sensibilmente: rite­
nevo « vero» di avere una testa, mani, piedi ecc., di essere un cor­
po in mezzo ad altri corpi, che distinguevo mediante le diverse qua­
lità. E non a torto ritenevo di sentire cose diverse dal mio pensiero
quando apprendevo le idee di tali qualità, poiché quelle qualità
3'}

non dipendono dal mio arbitrio, come non a torto ritenevo che mi
appartenesse più di ogni altro quel corpo che chiamavo mio. Infatti
non posso separarmene (ossia: la sua immagine mi accompagna

311
Osservazione critica: che l'immaginazione sia diversa dal pensiero è un rilievo
fenomenologico; che essa non appartenga alla mia essenza non è un dato, ma è la con­
seguenza dell'aver ammesso che io sono soltanto una cosa pensante; è una conseguenza
della separazione radicale di mondo corporeo e mondo spirituale, di res extensa e res
cogitans. Il mondo corporeo - questa bella d'erbe famiglia e d'animali - è ridotto
a una macchina, - il mondo umano è... angelicato.
39
Si noti: le idee, che per Cartesio sono l'unico oggetto immediatamente per­
cepito.
CARTESIO 107

sempre), sento in esso gli appetiti e i sentimenti, constato una conco­


mitanza fra certi stati d'animo e certi stati del mio corpo. Vediamo
dunque, dopo che gli errori dei sensi mi hanno indotto a dubitare
di tante cose, che cosa resti indubitabile.
So di essere pensante - e poiché so che Dio può fare tutto ciò
che percepisco chiaramente e distintamente così come io lo perce­
pisco, ed io mi percepisco pensante senza percepire in me altri attri­
buti, concludo che la mia essenza consiste soltanto nell'essei-e
una cosa pensante. Anche se sono unito ad un corpo, questo corpo è
distinto da me, è qualcosa senza cui poss_o esistere, poiché l'idea del­
la sostanza corporea, che è pura estensione, è distinta dall'idea di so­
stanza pensante, che è puro pensiero 40•
Trovo in me le facoltà di immaginare e di sentire che implicano
il pensare, che sono un certo modo di aver coscienza. E poiché il mo­
do fondamentale di aver coscienza, quello che mi definisce, quello
che è il mio « attributo», è il pensare, dirò che immaginare e sen­
tire sono miei « modi», come la facoltà di mutar luogo, di assumere
figure diverse ecc., sono « modi » della sostanza estesa.
Ora questi « modi» dell'attributo pensiero, che sono l'imma­
ginare e il sentire, implicano una certa passività. Non sono io, dun­
que, ]a causa di ciò che è sentito. La causa deve essere distinta dall'io,
e non potrebbe contenere in sé in modo soltanto virtuale ( eminen­
ter) la realtà dei corpi (ossia non può essere Dio stesso, o uno spi­
rito creato) perché, se così fosse, Dio mi ingannerebbe. Non mi ha
dato infatti nessuna facoltà per conoscere che la causa delle mie idee
dei corpi sia una causa di natura spirituale; anzi mi ha dato una
grande inclinazione a credere che le idee delle cose corporee siano
prodotte in me da corpi realmente esistenti. « E perciò, le cose cor­
poree esistono» (A.T., VII, p. 80).
Ma non esistono così come le sentiamo, perché la percezione sen­
sibile è in molti casi oscura e confusa; esistono con quelle proprietà
che conosco chiaramente e distintamente, cioè con quelle che sono
oggetto della matematica. La percezione sensibile non ha, secondo
Cartesio, una funzione conoscitiva, ma una funzione pratica: quella
di dirigerci verso la conservazione e il benessere del nostro corpo:

"' Parlammo già di questo punto esponendo le cbiezioni di Arnauld alla seconda
Meditazione.
108 FILOSOFIA MODERNA

ci fa conoscere gli aspetti per cui i corpi ci possono essere utili o no­
civi. Le idee delle qualità sensibili non hanno dunque un corrispon­
dente nella realtà corporea, ma sono soltanto modi cogitandi.
Qui però si presenta un'obiezione. Se le percezioni sensibili han­
no una funzione pratica, come mai talora la assolvono cosl male?
Perché fanno sentir sete all'idropico, fanno sentir dolce il veleno,
fanno sentir male all'arto mutilato?
Nella risposta di Cartesio si vede chiaro il suo rifiuto di ogni
concezione unitaria e finalistica dell'organismo umano. La sua tesi
è invece che il corpo umano è una macchina: se c'è in esso qualcosa
di spostato, gli ingranaggi seguono le leggi della loro natura, come
succede in un orologio in cui ci sia una rotella fuori posto e che, in
conseguenza, segna le ore sbagliate. La risposta cartesiana, insomma,
è questa: i meccanismi che producono le sensazioni hanno un effetto
favorevole nella maggior parte dei casi, e cioè quando l'organismo
è integro; se un pezzo del corpo umano non funziona, gli altri seguo­
no le leggi della loro natura, e si capisce che il risultato non sia
uguale a quello che ha luogo nel corpo integro. Un corpo malato e un
corpo sano funzionano ugualmente bene, se si ha riguardo solo alle
leggi della loro natura; solo in rapporto all'uomo come composto
di spirito e di corpo, il corpo può esser detto malato, mal funzionan­
te perché, per esempio, come nel caso dell'idropico, dà all'anima il
segnale « sete » che induce la volontà dell'uomo a bere, mentre, in
quel caso, il segnale « sete » non dovrebbe esser ascoltato dalla vo­
lontà. Ma cosa vorreste, chiede Cartesio? Forse che ogni corpo, ol­
tre che seguire le leggi meccaniche, desse anche un segnale di « pe­
ricolo » per l'anima in casi eccezionali? Se così fosse, il corpo uma­
no non sarebbe più una macchina, come invece è, ma diventerebbe
esso stesso una res cogitans. Che dunque il corpo sia tale da fun­
zionare in modo favorevole all'uomo nella maggior parte dei casi è
la soluzione migliore: « nihil in hac re melius passe excogitari »
(A.T., VII, p. 87 ).
Nello spiegare in particolare come mai un mutilato senta dolore
nell'arto che gli manca, Cartesio accenna alla sua teoria sull'unione
fra l'anima e il corpo, ma di questa diremo qualcosa parlando del
Trattato delle passioni.
CARTESIO 109

16. La cosmologia. Concetti generali: sostanza, attributo, modo

La metafisica svolta da Cartesio nelle Meditazioni era stata già


esposta brevemente nella quarta parte del Discorso sul metodo e
sarà ripresa nella prima parte dei Principi di filosofia. Nella quinta
parte del Discorso Cartesio accenna alle dottrine cosmologiche e fi­
siologiche che aveva esposte nei trattati Du monde e De l'Homme
(postumi) e che esporrà più ampiamente nelle parti II, III e IV dei
Principi di filosofia. Indirizziamoci dunque a quest'opera e teniamo
presente che la « filosofia » ivi esposta non è solo la filosofia prima,
ossia Ja metafisica, ma l'insieme di tutto il sapere.
Della prima parte ricorderemo solo alcune precisazioni di con­
cetti. Al § 45 Cartesio definisce la perceptio clara come quella quae
menti attendenti praesens et aperta est, come per esempio diciamo
di vedere chiaramente le cose che, presenti allo sguardo, lo muovano
in modo abbastanza forte e « aperto » (aperto è tradotto cosi da
Petit: « ... et que nos yeux sont disposés à les regarder » sottinteso:
objets); distinta è quella che, cum clara sit, ab omnibus aliis ita
sejuncta est et praecisa, ut nihil plane aliud quam quod clarum est,
in se contineat. Una percezione può essere chiara e non distinta:
per esempio è chiara la percezione di un dolore, ma se io aggiungo
a questa chiara percezione il giudizio oscuro sulla natura del dolore
come qualcosa di esistente in una parte del corpo, allora la mia idea
del dolore non è distinta perché non tutti i suoi elementi sono chiari,
perché contiene del chiaro e dell'oscuro (§ 46). Ora, se ricordiamo
che chiaro vuol dire presente, manifesto, veduto (savoir se réduit à
voir), possiamo dire che l'idea confusa (non distinta) è quella che
contiene del veduto e del non veduto, ossia del veduto e del con­
getturato. lo congetturo, opino che quel dolore sia in una parte del
corpo, ma non ne ho l'evidenza immediata, come invece ho l'evi­
denza immediata di sentir dolore ( tant'è vero che, per sapere quale
parte del corpo sia quella che mi dà dolore, debbo spesso ricorrere
al medico, il quale può dirmi p. es.: che è il fegato e non l'appendice,
applicando tutta una serie di ricordi e di ragionamenti).
Altri concetti che sono precisati nella prima parte dei Principi
sono quelli di sostanza, attributo e modo (che avranno poi tanta im­
portanza in Spinoza). Al § 51 Cartesio definisce la sostanza così: res
quae ita existit, ut nulla alia re indigeat ad existendum. E aggiunge:
sostanza in senso rigoroso è solo Dio, ma ( § 5 2) la sostanza corpo-
110 FILOSOFIA MODERNA

rea e lo spirito (substantia cogitans creata) sono res quae solo Dei
concursu egent ad existendum. Fa poi una osservazione interessante:
« ma, per sapere se una sostanza esiste, non ci basta questo concetto,
perché il suo essere indipendente non lo possiamo intuire (quia hoc
solum per se nos non afficit - car celà seul ne nous découvre rien
qui excite quelque connaissance particulière en notre pensée); rico­
nosciamo invece facilmente una sostanza da un qualunque suo attri­
buto, in base al principio che il nulla non ha attributi ... » 41• Cartesio
ha detto che l'esistenza di una sostanza si inferisce da qualsiasi at­
tributo, ma aggiunge (§ 53) che vi _è una proprietà fondamentale
- alla quale egli riserva il nome di attributo - che costituisce la
natura e l'essenza di una sostanza, e questo è per i corpi l'estensione,
per le sostanze spirituali il pensiero. Avendo detto che l'attributo co­
stituisce l'essenza di una sostanza, egli lo ha già identificato con la so­
stanza stessa, ma ribadisce questa identificazione affermando che fra
sòstanza e attributo c'è solo una distinzione di ragione(§ 62) e che il
pensiero è la stessa sostanza pensante e l'estensione è la stessa so­
stanza estesa. Galileo aveva detto « Il tentar l'essenza l'ho per im­
presa... impossibile ... » e aveva affermato che ci si doveva limitare
a cogliere « alcune affezioni »; Cartesio invece afferma che una di
quelle che Galileo chiamava affezioni - l'estensione -·- costituisce
l'essenza dei corpi, e di qui tenta di dedurre tutte le loro proprietà.
Cartesio fa non solo una :fisica come scienza, ma una :filosofia della
natura, poiché si propone di stabilire qual è il costitutivo fonda­
mentale della corporeità, e, facendo questo, si oppone non solo a
determinate teorie della :fisica aristotelica(a quelle che noi oggi chia­
meremmo scientifiche) come la teoria sul moto dei gravi, dei proietti,
dei corpi celesti ecc., ma anche alla teoria-base, alla teoria (filosofi­
ca) che caratterizza la concezione aristotelica del mondo corporeo:
la teoria ilemor:fica (della materia e della forma). Secondo la teoria
della materia e della forma non c'è una eterogeneità radicale fra
mondo corporeo e mondo spirituale(e specialmente mondo umano),
poiché in ogni ente c'è un principio di unità, di determinazione, di

" Si vede dunque che per Cartesio pensare vuol dire intuire, non solo nel senso
ampio di aver presente (savoir se réduit à voir), ma anche nel senso di aver presente
un singolare; se infatti si concepisce la sostanza solo come ciò che è in sé, indipendente­
mente da altro, non se ne ha una vera e propria apprensione (hoc solum per se nos
non alficit) : bisogna coglierne un attributo che ci impressioni ( afficiat) per sapere che
una sostanza esiste.
CARTESIO lll

intelligibilità, che è la forma sostanziale. L'anima umana non è che


una forma sostanziale più perfetta delle altre. D'altra parte anche
l'uomo, come gli altri enti che fanno parte della natura corporea,
ha in sé un principio di indeterminatezza, di instabilità, di moltepli­
cità che è la materia. Per Cartesio invece il corpo è soltanto esten­
sione, ed ogni principio di determinazione, di unità, di attività è
spirituale e comincia solo là dove c'è spirito, dove c'è res cogitans.
Per Cartesio coloro ( e sono gli scolastici) che distinguono la sostanza
del corpo dalla sua quantità, dalla sua estensione, non fanno altro
che aggiungere falsamente l'idea confusa di sostanza incorporea a
quella di estensione (Princ. philos., II, 9) 42• La sostanza corporea
si esaurisce invece nell'estensione e la vera idea di sostanza corporea
è quella di estensione. Chi pensa il corpo, la sostanza corporea, co­
me qualcosa di più dell'estensione matematica, antropòmorfizza
· · la
sostanza corporea, secondo Cartesio.
Sembra dunque che tutto ciò che si può pensare oltre l'esten­
sione, come energia, atto di essere, siano proprii solo della sostanza
pensante. In questo senso sembra giustificata l'interpretazione di
F. Olgiati 43 che vede in Cartesio un « fenomenismo razionalistico».
Il mondo corporeo non è per Cartesio un complesso di sostanze, di
enti che hanno una loro energia; un loro atto di essère, ma è ridotto
a quel tanto che può essere oggetto di sapere matematico: è il « fe­
nomeno razionalisticamente inteso». Ma dicendo: i mondo corpo­
l

reo, ho anche segnati i limiti della mia adesione alla interpretazione


di F. Olgiati. Mi sembra che tale interpretazione valga solo per il
mondo corporeo che è, potremmo dire, ontologicarriente svuotato;
non vale per il mondo spirituale, per il mondo della res cogitans: ·
applicata anche a questo mondo essa è; a mio avviso, una interpreta­
zione forzata.


2
« ... cum (nonnulli) substantiam ab extensione... distinguunt, vel nihil per nornen
substantiae intelligunt, vel confusam tantum substantiae incorporeae ideam habent, quam
falso tribuunt corporae... » (Princ. II, 9).
43
La filosofia di Descartes.
112 FILOSOFIA MODERNA

17. L'estensione come essenza dei corpi

Ma vediamo un po' più distesamente la cosmologia cartesiana.


Poiché il mondo corporeo si riduce ad estensione, le qualità non
gli appartengono, e quindi non possono neppure appartenere al
« corpo sensitivo», come diceva Galileo, non possono neppure es­
sere realtà :fisiologiche: sono realtà psichiche, modi della res cogitans.
« Il dolore e il colore [ si noti la parificazione delle due qualità] e
altrettali qualità possono esser percepite chiaramente e distintamente
quando sono considerate soltanto come sentimenti 44 o pensieri. Ma
quando sono considerate come cose esistenti fuori della nostra men­
te, non si capisce affatto che cosa siano; e, quando uno dice di vedere
un colore in un corpo o di sentire un dolore in una parte del corpo,
è come se dicesse che vede qualcosa di cui ignora totalmente che co­
sa sia... » (Princ., I, 68). E sarebbe interessante leggere tutti i pa­
ragrafi 68, 69, 70. Ma il motivo per cui Cartesio nega realtà extra­
mentale alle qualità è sempre quello: non sappiamo quid sint. Non
ne abbiamo una « notizia intrinseca», diceva Galileo, quindi eli­
miniamole dalla fisica. Cartesio aggiunge: eliminiamole dal mondo
corporeo, e siccome colori, suoni ecc. ci sono tuttavia presenti e non
li possiamo eliminare del tutto, trasferiamoli al mondo dello spirito.
Dall'identificazione di sostanza corporea con estensione segue
nella cosmologia cartesiana l'identità fra corpo e spazio: lo spazio
non è altro che l'idea generica dell'estensione (Princ., II, 10) e il
luogo non è altro che lo spazio occupato dal corpo (ibid., II, 13 ).
Ora, se lo spazio è l'estensione e l'estensione è la sostanza corporea,
ne segue che non è possibile uno spazio vuoto (ibid., II, 16). Quindi
non c'è rarefazione e condensazione di materia (ibid., 19); non ci
sono corpuscoli indivisibili (atomi, nel senso etimologico), ma i
corpi sono infinitamente divisibili, come è infinitamente divisibile
l'estensione (ibid., II, 20). E il mondo corporeo è indefinitamente
esteso, perché non può essere limitato da uno spazio vuoto (ibid.,
Il, 21).
Altra conseguenza dell'identità di sostanza corporea ed esten­
sione è l'identità fra sostanza celeste e sostanza terrestre (ibid.,
II, 22) 45•

44 Sensus nel testo, sentiments nella traduzione di Picot.


45 Si noti la diversità del modo in cui Galileo e Cartesio arrivano a questa stessa
CARTESIO 113

18. Il moto

Esclusa dalla natura ogni determinazione qualitativa, si capisce


che l'unico tipo di mutamento sia il moto locale, e questo si riduce
ad una pura variazione di distanza, quindi a qualcosa di relativo. « Il
moto (e intendo il moto locale, poiché non posso concepirne altro né
credo se ne debba immaginare (fingendum) altro in natura) il moto,
dico, come si intende volgarmente, non è altro che l'azione per la
quale un corpo passa da un luogo all'altro... Ma se consideriamo co­
me debba essere concepito il moto, non secondo l'uso comune, ma
secondo verità... possiamo dire che è la traslazione di una parte di
materia, o di un corpo, dalla vicinanza di quelli che lo toccano im­
mediatamente, e sono considerati in quiete, alla vicinanza di altri»
(Princ., II, 24-25; sottolineature di C.). Cartesio spiega poi la defi­
nizione, e fa rilevare che ha parlato di traslazione, non di azione o di
forza, perché il moto è nel mosso, non nel movente. Forza, azione
possono essere solo in uno spirito, per Cartesio. Ha detto « sono
considerati in quiete», perché moto e quiete sono concetti relativi:
è lo stesso dire che A si muove verso B e dire che B si muove verso
A (Princ., II, 29).
La caus.a prima del moto è Dio, il quale ha dato inizialmente
alla materia una certa quantità di movimento che si mantiene sempre
uguale. E questo perché, siccome Dio è immutabile, ed opera in modo
sommamente costante e immutabile, è del tutto ragionevole (rationi
maxime consentaneum) che Dio conservi la materia cosi come l'ha
creata, con la stessa quantità di moto che le ha dato una volta per
tutte, creandola (Princ., II, 36). « E da questa immutabilità di Dio
si possono dedurre alcune leggi della natura» (Princ., II, 37) che
sono poi le leggi del movimento: tre generali e quattro speciali. Le
tre generali contengono il principio di inerzia (le due prime) e il
principio della conservazione della quantità di moto (mv) che diede
origine a molte discussioni fino a Kant, il quale gli dedicò il suo
primo scritto: Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive ( 1747).
Newton attribuiva la scoperta del principio di inerzia a Galileo -

conclusione: Galileo osservando col telescopio la scabrosità della superficie lunare, le


macchie solari, basando l'ipotesi del moto circolare della Terra su osservazioni astrono­
miche e leggi meccani.che; Cartesio deducendola dalla tesi filosofica dell'identità di cor­
po ed estensione.
114 FILOSOFIA MODERNA

anche se Galileo non lo ha formulato precisamente come Cartesio 46•


Ma quello che è caratteristico della « fisica » cartesiana è che queste
leggi siano dedotte dall'immutabilità divina.

19. La formazione del· cosmo

Nella terza parte dei Principi di filosofia (« Il mondo visibile »)


Cartesio si propone di spiegare « tutti i fenomeni della natura » in
base ai principi esposti nella seconda parte, e comincia dalla costru­
zione generale di tutto il mondo visibile (III, 1). In tale spiegazio­
ne bisogna seguire due criteri fondamentali: 1) pensare che la na­
tura è opera della infinita potenza di Dio, e quindi «· non aver paura
di immaginare cose troppo grandi, belle e perfette nella sua opera;
anzi guardarsi bene dal supporre limiti nella natura, a meno che
non ci siano noti con certezza » (Princ., III, 1 ); 2) non presumere
troppo di noi stessi e non credere che la nostra ragione possa « ultra
id quod a Deo revera factum est ferri » (Princ., III, 2) ossia, do­
vremmo tradurre, possa stabilire a priori come debba esser fatta la
natura. La preoccupazione di Cartesio quando enuncia questo pre­
cetto è quella di combattere la pretesa di conoscere quali fini Dio
si sia proposto nel creare il mondo, e la persuasione che tutto in
natura sia fatto per l'uomo. Egli osserva che, nello studio della mo­
rale, è « pio » affermare che Dio ha fatto ogni cosa per l'uomo,
perché l'uomo sia spinto a ringraziare Dio e ad amarlo; ed è, oltre che
« pio », anche « vero in un certo seriso », nel senso cioè che l'uomo
può adoperare ogni cosa a suo vantaggio, non fosse altro per cono­
scerla; ma in fisicà è « ridicolo e vano (ineptum) » applicare il prin­
cipio che le cose siano fatte per l'uomo, perché ci sono tante cose
che l'uomo non conosce né può adoperare (Princ., III, 3) �.
Enunciati questi principi metodici, Cartesio fa una sommaria
descrizione del « mondo visibile »: Terra, Sole, Luna ecc., non per
risalire dagli effetti alle cause - ché anzi « vogliamo dedurre le ra-

46 Si veda su questo argomento la terza parte delle Etudes galiléennes di A. KoYRÉ,


Paris, Hermann 1939 (2• ed. 1966).
"' Si noti che questa tesi cartesiana può essere benissimo condivisa da chi accetta
il principio generale omne agens agit propter finem, perché altro è affermare che c'è un
fine (un significato) dell'attività di ogni cosa, altro pretendere di conoscere quali sono
i fini delle varie cose e credere che il fine di ogni cosa sia l'uomo.
CARTESIO 115

gioni degli effetti dalle cause, e non viceversa» (Princ., III, 4)


(l'ideale cartesiano è dunque quello di una fisica deduttiva) - ma
per fissare l'attenzione su alcuni degli effetti da spiegare.
Cartesio trova nella cultura che lo circonda tre teorie astrono­
miche (ipotesi, le chiama): quella tolemaica, quella copernicana,
quella di Tycho Brahe. Scarta la prima, perché contrasta con molti
fenomeni (Princ., III, 16), la seconda perché è stata condannata dal­
la Chiesa, la terza perché è troppo complicata (Princ., III, 17), e
propone la sua, secondo la quale la Terra sta ferma rispetto alle par­
ti di materia che la circondano, ferma nel suo cielo, ma è trasportata
dal moto vorticoso del cielo, come un uomo che è fermo dentro un
barca trasportata dalla corrente dell'acqua (Princ., III, 26). Per pro­
porre questa ipotesi, Cartesio formula quella più generale dei vortici.
Egli aveva già detto, nel paragrafo 33 della II parte, che in uno
spazio pieno il moto locale è possibile solo come moto circolare,
« in modo che ogni corpo che entra in un luogo, spinga via da questo
un altro corpo», e cosl via. Ora (Princ., III, 24 ss.) fa l'ipotesi che
la materia del cielo si muova vorticosamente intorno al Sole, trasci­
nando con sé nel suo moto la Terra e gli altri pianeti (Princ., III,
31). Cartesio ritiene che le cose stiano effettivamente cosl, perché,
dice egli, i principi dai quali è partito sono evidentissimi e le conse­
guenze sono matematicamente evidenti (Princ., III, 43); tuttavia
presenta la sua teoria solo come un'ipotesi. Ma come si sono formati
il cielo e gli astri? Qui Cartesio raddoppia la cautela. Non è dubbio,
egli dice, che il mondo è stato creato cosi come è ora: con Sole, Ter­
ra, Luna, e, sulla Terra, le piante. Adamo ed Eva furono creati già
adulti: Hoc fides christiana nos docet, hocque etiam ratio naturalis
nos persuadet (Princ., III, 45). Ma, come si capisce meglio la na­
tura dell'uomo e degli altri viventi se se ne studia la genesi, così si
capisce meglio la natura del mondo corporeo se si fa un'ipotesi sul
modo in cui si sarebbe potuto formare da elementi semplici e facil­
mente intelligibili (Princ., III, 45). S11pponiamo dunque che la ma­
teria sia stata creata da Dio in parti approssimativamente uguali e di
media grandezza, dotate di moto vorticoso intorno a centri corri­
spondenti agli attuali astri. E, come nei vortici che si formano nei
fiumi le pagliuzze e le schegge ruotano anche intorno al proprio cen­
tro, così le parti originarie della materia, di forma non sferica, sa­
rebbero ruotate intorno al proprio centro e si sarebbero mosse vor­
ticosamente intorno a varii centri (Princ., III, 46). In questo moto
116 FIWSOFIA MODERNA

le parti originarie della materia si sarebbero arrotondate per attrito


e la loro limatura avrebbe riempito gl'interstizi fra le parti divenute
sferiche (Princ., III, 49). Alcune parti, però, non si sarebbero smus­
sate e arrotondate. Di qui la distinzione di tre elementi: la materia
dei cieli (le parti arrotondate), la materia sottile, di cui son fatti il
Sole e le Stelle fisse, le parti angolose, di cui son fatti la Terra e i
pianeti. Coi moti di questi tre elementi Cartesio spiega la forma­
zione di tutto l'universo. Nella quarta parte dei Principi egli spiega
la formazione della Terra e dei corpi che vi si trovano, e in.fine (dal
paragrafo 188 in avanti) dell'uomo.

20. L'uomo

Ma della concezione cartesiana dell'uomo ci parlano anche altri


scritti: la quinta parte del Discorso sul metodo, il trattato Dell'uo­
mo, Le passioni dell'anima 48•
Quando si tratta degli animali e del corpo umano, dice Cartesio
nella quinta parte del Discorso, dovetti abbandonare il procedimento
dalle cause agli effetti e rinunciare a descrivere la genesi del corpo
umano. Mi contentai di supporre che Dio avesse formato un corpo
umano del tutto simile ad uno dei nostri, con la medesima materia
dei corpi inanimati, senza metterci nessun'anima né razionale né ve­
getativa né sensitiva. Ammisi solo che nel cuore ci fosse « un fuoco
senza calore ». Cosi Cartesio spiega la circolazione del sangue da lui
già affermata nel trattato Del mondo. La scoperta della circolazione
del sangue è dovuta a William Harvey (1578-1657) che la espose
nel De motu cordis, del 1628, ma Cartesio la spiega in modo diverso,
puramente meccanico: per lui il cuore è una specie di motore a
scoppio in quella macchina più grande che è il corpo umano 49• E in­
fatti Froidmont rimproverò a Cartesio di sostituire una semplice
fermentazione all'anima vegetativa e sensitiva. Cartesio si difese di­
cendo che spiegava meccanicamente tutto, fuorché la coscienza:
questa esige un'anima spirituale, che è propria solo dell'uomo; gli
altri animali sono pure macchine.

41
La traduzione italiana di questi scritti si trova in RENÉ DESCARTES, Opere
scientifiche, a cura di Gianni Micheli, vol. I. La biologia, Torino, U.T .E.T., 1966.
49 Si veda lo studio del GILSON, Descartes, Harvey et la Scolastique nelle Etudes
sur le r�le de la pensée médiévale etc. citate, pp. 51-100.
CARTESIO 117

Ma come può l'anima dell'uomo,« che è solo sostanza pensante,


determinare gli spiriti corporei, in modo tale da compiere azioni vo­
lontarie » aveva chiesto la Principessa Elisabetta a Cartesio in una
lettera del 1643?
Per risponderle adeguatamente, Cartesio le dedicò il trattato
Les passions del'ame, scritto fra il 1645 e il 1646 e pubblicato nel
1649. Gli organi di trasmissione dei movimenti sono gli spiriti, i
quali sono le parti più sottili del sangue, fatti di particelle più pic­
cole è moventisi con estrema rapidità: sono essi che, riempiendo i
nervi (concepiti come sottilissimi tubi che vanno dal cervello alla
periferia del corpo) trasmettono gli impulsi al cervello; le reazioni
del cervello possono poi, anche senza nessuna attività dell'anima,
essere trasmesse agli spiriti che le portano ai muscoli e determinano
un movimento. Cosl si spiegano quelli che noi oggi chiamiamo ri­
flessi, i soli che Cartesio ammetta nelle bestie (Passions de l'ame,
art. 13). Nell'uomo invece, che ha un'anima, i movimenti che arri­
vano al cervello si trasformano in sensazioni. Come? Qui comincia
la difficoltà. Nella Diottrica infatti Cartesio dice che tali movimenti
« agendo immediatamente contro la nostra anima in quanto è unita
al corpo, sono istituiti dalla natura per farle avere tali sensazioni
(sentiments) » (A.T., VI, p. 130). Ora un moto locale che urta con­
tro un'anima spirituale è un po' difficile da capire. Anche nel trattato
delle Passioni Cartesio non ci dice molto di più: i movimenti tra­
smessi al cervello « rappresentano all'anima gli oggetti » (Les Pas­
sions de l'ame, art. 13) e « le fanno avere diverse sensazioni »
(ibid. ). L'anima infatti, pur essendo in tutto il corpo (Passions, art.
30) esercita più particolarmente le sue funzioni nel cervello e più
precisamente nella ghiandola pineale (art. 31). Le percezioni sono
l'effetto di un movimento dei nervi, movimento che può avere ori­
gine o dai corpi esterni o dal nostro corpo o dall'anima. Nel primo
caso « riferiamo la percezione a cose fuori di noi » (Passions, art.
23); nel secondo abbiamo sensazioni come fame, sete, dolore ecc.
(art. 24); nel terzo proviamo sentimenti come gioia, collera e altri
simili (art. 25). Cartesio rifiuta la dottrina scolastica che distingueva
le facoltà o « parti » sensitive dell'anima dalla facoltà intellettiva e
quindi distingueva le tendenze sensitive dalla volontà: l'anima è
solo res cogitans: « vi è in noi un'anima sola e questa anima non ha
in sé alcuna diversità di parti; l'anima sensitiva è la stessa anima ra­
zionale e tutti i suoi appetiti sono volizioni » (art. 47). Tutto ciò
118 FILOSOFIA MODERNA

che in noi è opposto alla ragione viene dal corpo; perciò quando
parliamo di lotta in noi fra un impulso sensitivo e la volontà razio­
nale si tratta solo di questo: « la piccola ghiandola che è in mezzo
al cervello può essere spinta (poussée) da una parte dall'anima e
dall'altra dagli spiriti animali, che non sono altro che corpi... e ac­
cade spesso che queste due spinte siano contrarie» (art. 47). Altro
durus sermo: l'anima, assolutamente incorporea, che spinge la
ghiandola pineale! Nella conoscenza dei corpi il moto degli spiriti
urta l'anima; nelle passioni l'anima spinge la ghiandola pineale:
azioni puramente meccaniche a un certo momento danno luogo alla
coscienza che, secondo Cartesio, è un fatto assolutamente incorporeo.

21. Le passioni

Ma il trattato delle Passioni non spiega solo i rapporti fra


anima e corpo, parla, appunto, delle passioni, ossia di quelle che
oggi chiameremmo emozioni, sentimenti, e può introdurci a dire
qualche cosa della morale di Cartesio.
Cartesio classifica le passioni fra le percezioni e le definisce co­
me percezioni che si riferiscono (se rapportent) all'anima stessa
(art. 25). Le passioni sono « percezioni, o sentimenti o emozioni
dell'anima che si riferiscono particolarmente all'anima stessa e che
sono causate, mantenute o rafforzate da qualche movimento degli
spiriti» (art. 27). Sono percezioni perché sono subite, a differenza
degli atti di volontà; ma non sono percezioni chiare e distinte;
sono sentimenti, perché sono « ricevute nell'anima nel medesimo
modo degli oggetti esterni»; sono emozioni perché muovono, os­
sia turbano l'anima (art. 28). A differenza delle idee, non rappresen­
tano oggetti esterni; a differenza di altri modi di sentire, come la
fame e la sete, non sono da noi riferite al corpo: ecco perché Cartesio
dice che « si riferiscono particolarmente all'anima» - ossia ne ab­
biamo coscienza come modi di essere dell'io -, e tuttavia non sono
causate dall'io, come gli atti di volontà, e perciò Cartesio dice che so­
no causate dagli « spiriti» ossia dal corpo.
Poiché l'origine delle passioni è nel corpo, l'anima non ne è pa­
drona; può tuttavia agire sulle passioni mediante la rappresentazione
delle cose che suscitano le passioni. Per esempio, il coraggio uno non
può darselo da sé (per usare la frase di Don Abbondio), ma, conside-
CARTESIO 119

rando « le ragioni, gli oggetti e gli esempi che persuadono che il peri­
colo non è grande; che vi è sempre più sicurezza a difendersi che a
fuggire; che avremo gloria e gioia dall'aver vinto», si può combattere
la paura e suscitare in sé un certo coraggio (art. 45). Le « armi del­
l'anima », o la forza d'animo, sono i « giudizi fermi e determinati»
su ciò che è bene e male, giudizi sui quali l'aninia può decidere di con­
durre le azioni (art. 48). Con questi si può reagire alla forza delle
passioni.
Alla teoria generale delle passioni segue una descrizione delle va­
rie passioni. Respinta la distinzione scolastica in concupiscibile e ira­
scibile - in nome della semplicità dell'anima - Cartesio distingue
sei passioni originarie, dalle quali dipendono le altre: ammirazione,
amore, odio, desiderio, gioia e tristezza (art. 69). Tutte le passioni
sono reazioni dell'anima a ciò che giova o nuoce (art. 52); ma, prima
ancora di queste reazioni, Cartesio mette l'ammirazione, suscitata da
ciò che è nuovo o inconsueto negli oggetti (art. 53). È una passione
che ha per oggetto la conoscenza, quindi i suoi moti restano nel cer­
vello (art. 71). L'ammirazione suscita il desiderio di conoscere, rin­
forza l'attenzione, è madre del sapere (art. 75), ma anch'essa va mo­
derata, perché potrebbe portarci a voler conoscere anche ciò che non
ne vale la pena (art. 76).
Non possiamo fermarci sulla fenomenologia delle altre passioni
fondamentali, delle quali Cartesio fa anche la fisiologia: cause ed ef­
fetti di esse nel corpo (artt. 96-136).
Le passioni sarebbero sufficienti a regolare la nostra vita se fos­
simo puri animali (ossia puri corpi, per Cartesio); ma in noi la parte
migliore è l'anima (art. 139): di qui la necessità di giudicare con la
ragione in base a un determinato concetto dell'uomo, il valore degli
oggetti ai quali ci porta la passione.

22. La morale provvisoria


E prima di aver elaborato :filosoficamente un concetto dell'uomo
come ci comporteremo? Mentre si dubita, mentre si cerca, bisogna
pur vivere; o, secondo il paragone cartesiano, mentre si demolisce
l'edificio del sapere tradizionale, si cercano materiali o architetti « o
ci si esercita personalmente all'architettura», bisogna pur avere un
tetto sotto cui ripararsi (anzi: una casa où l'on puisse étre logé com­
modément. Discorso, III parte; A.T., VI, p. 22). Per questo Carte-
120 FILOSOFIA MODERNA

sio nella terza parte del Discorso sul metodo enuncia le massime della
morale provvisoria.
« La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese
e di ritenere costantemente la religione nella quale Dio mi ha fatto
la grazia di essere istruito dalla mia infanzia, governandomi, in tutto
il resto secondo le opinioni più moderate... » (A.T., VI, pp. 22-23).
« La seconda era di essere il più possibile fermo e risoluto nelle mie
azioni, .. » (A.T., VI, p. 24). E qui viene il paragone dell'uomo che
si è perduto in un bosco e cerca di uscirne: quando prende una
direzione, deve andare avanti per quella e non andare a zig-zag; in­
fatti, anche se avesse preso una direzione che gli fa compiere un
cammino più lungo, farà sempre, andando dritto, una strada più
breve che non cambiando direzione ogni momento.« La terza massi­
ma era di cercar di vincere piuttosto me stesso che la fortuna e di
cambiare i miei desideri piuttosto che l'ordine del mondo » (A.T.,
VI, p. 25). I primi infatti (i desideri) sono in nostro potere, l'ordine
del mondo no. Fare, insomma, di necessità virtù (A.T., VI, p. 26 ).
Cartesio ammette che ci vuole un lungo esercizio e una ripetuta
meditazione per mettere in pratica questa terza massima « e credo
che in questo consistesse principalmente il segreto di quei filosofi
che riuscirono nei tempi antichi a sottrarsi al dominio della fortuna
e, nonostante i dolori e la povertà, potevano discutere sulla felicità
coi loro dèi » (A.T., VI, p. 26). Cartesio allude agli Stoici .il. Il pro­
posito personale di Cartesio « a conclusione di questa morale » è di
dedicare tutta la sua vita alla ricerca della verità.
Alla morale provvisoria sarebbe dovuta succedere una morale
scientifica, ma la trattazione scientifica della morale non venne mai,
anche se il trattato sulle Passioni ci offre molte riflessioni morali 51

50 Per le differenze fra l'etica cartesiana e l'etica stoica si veda il bel volume, pic­
colo di mole, ma prezioso di G. Roms LEWIS, La morale de Descartes, Paris, P.U.F.,
1957. Si veda anche il volume di L. VERGA, La morale di Cartesio, Milano, C.E.L.U.C.,
1973. C'era a quell'epoca una reviviscenza di stoicismo. Gilson, nel suo Commentaire al
Discorso, cita molti testi stoici antichi e la Manuductio ad stoicorum pbilosophiam di
Giusto LIPSIO (1547-1606). Ricordiamo anche G. Du VAIR, De la sainte pbilosopbie et
Pbilosopbie morale des sto'iques (ce n'è una edizione moderna presso Vrin, Parigi,
1946). A proposito della discussione con gli dei, Gilson (Commentaire, p. 252) cita
questa frase di Seneca: « Deus non vincit sapientem felicitate, etiamsi vincat aetate »
(Epist. 83). Cartesio cita molto spesso Seneca nelle lettere e lo conosceva direttamente.
51 Non direi però <t un très important morceau » della morale scientifica, come di­
ce P. MESNARD, Essai sur la morale de Descartes, Paris, Boivin, 1936, p. 30, perché le
riflessioni morali non ci si presentano fondate dalla metafisica cartesiana, ma piuttosto
da una fenomenologia della vita morale e da persuasioni morali dell'uomo Cartesio.
CARTESIO 121

e altre ce ne offrono le lettere 52• Forse Cartesio non ne ebbe tem­


po, forse ci sono anche altri motivi. P. Mesnard 53 cita una lettera
di Cartesio a Chanut, del 1646, nella quale dice che non vuol fastidi
mettendosi a trattare di morale: gliene ha già procurati abbastanza
la :fisica. Forse c'è un altro motivo più profondo, suggerito da una
lettera a Chanut del 20 nov. 164 7: « È vero che mi rifiuto di scri­
vere i miei pensieri sulla morale, e lo faccio per due motivi: uno, che
non vi è materia dalla quale i maligni possano più facilmente trovar
pretesti per calunniare; l'altro che credo appartenga solo ai sovrani
e a coloro che da questi sono autorizzati l'occuparsi di regolare i co­
stumi degli altri ». Ci sono forse per Cartesio solo leggi positive?
Non c'è qualcosa che sia in sé bene o male?
Ora, se pensiamo alla teoria cartesiana sulle verità necessarie
come prodotto di un libero decreto divino, possiamo capire che per
Cartesio tutte le leggi sono leggi positive: divine o umane. Delle
prime si occupano i teologi, delle seconde i sovrani per emanarle e i
giuristi per interpretarle. E questo potrebbe essere il motivo pro­
fondo per cui Cartesio non ha trattato scientificamente la morale.
È vero che la teoria delle verità eterne non ha impedito a Cartesio
di trattare scientificamente la geometria e la :fisica, ma ( e qui soc­
corre il primo dei motivi addotti da Cartesio) in geometria e in :fisica
non c'erano degli interpreti così autorizzati del volere divino come
erano invece i teologi per la morale.
Tuttavia Cartesio non si rifìuta di dare saggi consigli sulla con­
dotta, specie alla Principessa Elisabetta. Cartesio dice che l'anima
può essere contenta, nonostante le disgrazie esteriori, se domina
le passioni, e consiglia alla Principessa la lettura del De vita beata di
Seneca, ma fa poi le sue osservazioni. Dice bene Seneca che tutti
vogliono beate vivere, ma non sanno che cosa renda felice la vita;
bisogna però precisare, osserva Cartesio, che cosa voglia dire beate
vivere, e distingue heur, buona sorte, da béatitude. La buona sorte
dipende dalle cose esteriori, la beatitudine invece consiste « in una
perfetta contentezza di spirito e in una soddisfazione interiore » che
è propria dei saggi e non dei fortunati ( coloro che hanno avuto una
buona sorte). La beatitudine è dunque uno stato soggettivo: non è

52 Oltre che in A.T. e nella nuova edizione della Correspondance le lettere che ri­
guardano la morale sono raccolte in un volume a cura di J. Chevalier: DESCARTES,
Lettres sur la morale, Paris, Hatier - Boivin, 1935.
" Op. cit., p. 36.
122 FILOSOFIA MODERNA

il sommo bene, ma lo presuppone, perché è « la contentezza o la


soddisfazione di spirito che deriva dal possesso del sommo bene >>
(Lettres sur la morale, ed. Chevalier, p. 71). Ora quando si parla
di fine delle azioni umane si può intendere o il sommo bene o la bea­
titudine; sicché si possono conciliare, dice Cartesio, la dottrina epi­
curea, la quale dice che il sommo bene è il piacere, la dottrina
stoica, la quale dice che il sommo bene è la virtù, e quella aristote­
lica che pone il sommo bene nel complesso di tutte le perfezioni 54•
Dicevo prima che per stabilire una gerarchia dei valori bisogna
avere un determinato concetto dell'uomo; ora Cartesio non ha ela­
borato scientificamente un'etica, non ha dedotto dal suo concetto
dell'uomo una dottrina sui valori e sulle virtù; tuttavia dietro le
sue osservazioni, i suoi consigli, si delinea un certo ideale umano.
Potremmo dire che per Cartesio lo spirito (e l'essenza dell'uomo è
lo spirito, la res cogitans) è essenzialmente libertà. « Non trovo in
noi se non una cosa sola che possa darci un giusto motivo di sti­
marci: ed è l'uso del nostro libero arbitrio e il dominio che ab­
biamo delle nostre volizioni; poiché solo le azioni che dipendono
dal libero arbitrio sono quelle per le quali possiamo giustamente es­
sere lodati o biasimati. Il libero arbitrio ci rende in certo modo si­
mili a Dio facendoci padroni di noi stessi, purché non perdiamo per
viltà i diritti che egli ci ha dati» (Les passions de l'dme, art. 152).
Ora c'è una « passione» che consiste nel senso della propria di­
gnità di esseri liberi: ed è la generosità (articolo 153 ). La generosità
fa sì che noi stimiamo gli uomini non per gli onori o le ricchezze, ma
per questa loro dignità, che è chiamata anche buona volontà (art.
154); ci induce à non disprezzare nessuno (art. 154), a scusare gli
altri quando cadono in colpa ed a pensare che vi cadano per man­
canza di conoscenza piuttosto che per cattiva volontà (ibid. ). Ci ren­
de anche umili, e « l'umiltà virtuosa consiste in questo. La riflessione
sulla debolezza della nostra natura e sulle colpe che possiamo aver
commesse o che possiamo commettere, e che non sono minori di
quelle che possono essere commesse da altri, fa sì che non ci prefe-­
riamo a nessun altro e pensiamo che gli altri, avendo il libero arbi­
trio come noi, possono usarne bene quanto noi» (art. 155). Al­
i'« umiltà virtuosa» si contrappone l'umiltà viziosa, che è « il sen-

" Cartesio non è il primo a sostenere questa tesi conciliatorista: l'aveva già so­
stenuta Leonardo Bruni nell'Isagogicon moralis disciplinae, e forse altri.
CARTESIO 123

tirsi deboli e poco risoluti» (art. 159). E Cartesio osserva che


l'umiltà viziosa (quella che consiste, per dirla con parole nostre, nel
dire, di fronte alle difficoltà: «sono fatto cosl», «non mi posso
correggere» ecc.) si accompagna di solito con l'arroganza e la su­
perbia, mentre la generosità, o senso della propria dignità, si ac­
compagna per solito con la modestia.

23. Conclusione
Cartesio è tale filosofo che ogni corrente di pensiero ha cercato
o di 2ccaparrarselo o di presentarlo come la personificazione dell'er­
rore. Questi due atteggiamenti si trovano già nell'illuminismo fran­
cese: accanto a coloro che, come Voltaire, lo giudicano un metafi­
sico che vuol costruire il mondo a priori, anziché partire saggiamente
dall'esperienza, e gli preferiscono Locke in filosofia e Newton in fi.
sica, ci sono coloro che, come Diderot, Lamettrie, d'Alembert, uti­
lizzano proprio l'aspetto sistematico di Cartesio per elaborare una
concezione meccanicistica e materialistica di tutta la realtà, tagliando
via quelli che appaiono loro come rami secchi e cioè quello che ri­
guarda l'anima come res cogitans e Dio. Per questa interpretazione
s1 può vedere il libro di A. Vartanian, Diderot e Descartes 55• « Il
punto di partenza del presente studio, dice Vartanian, è l'assioma
(sic!) secondo cui la filosofia di Descartes, nonostante la metafisica
spiritualistica sulla quale si pretendeva fosse fondata, contiene i pri­
mi germi del naturalismo moderno. A seconda che se ne accentuino
le caratteristiche esplicite o quelle implicite, il sistema cartesiano
può essere inteso come la fonte dell'idealismo di Malebranche, di
Berkeley, di Kant e del secolo decimonono, oppure come l'ispiratore
dell'illuminismo del secolo decimottavo» (p. 13 ). E quando dice
«illuminismo» Vartanian intende senz'altro illuminismo mate­
rialistico. Bastava estendere la teoria cartesiana degli animali-mac­
chine fino all'uomo e veniva fuori L'homme-machine di Lamettrie;
bastava estendere il meccanicismo cartesiano a tutta la realtà e ve­
niva fuori il Systéme de la nature di d'Holbach.
Per gli idealisti Cartesio è invece solo il metafisico: colui che
mette il cogito a fondamento del sapere, il padre dell'idealismo mo­
derno.
55 Traduzione italiana: Milano, Feltrinelli, 1956.
124 FILOSOFIA MODERNA

V. Cousin lo vide come il difensore dello spiritualismo. È in


quest'epoca (prima metà dell'Ottocento), dice Gilson 56, che si pren­
de l'abitudine di studiare il Discorso sul metodo staccato dai saggi
scientifici ai quali doveva servire di introduzione. Nella seconda me­
tà del secolo XIX si torna al testo di Cartesio, continua Gilson, ma
per trovarvi la propria filosofia: la libertà assoluta secondo Secrétan,
l'idealismo secondo Natorp e, potremmo aggiungere noi, secondo
il neohegelismo italiano degli inizi di questo secolo. I positivisti
rivalutarono la passione scientifica di Cartesio, ma è lo stesso Gilson
ad osservare, come abbiamo ricordato, che quando il positivista
L. Levy-Bruhl metteva in evidenza la funzione capitale esercitata
dalla fisica nell'elaborazione del sistema cartesiano, egli faceva « ri­
torno alla storia »: ossia diceva come stanno le cose.
Anche chi scrive ha insistito su questo punto: Cartesio, intento
alla ricerca di un sapere rigoroso sulla natura - in contrasto con la
vacuità della fisica degli aristotelici- non si contenta, come Gali1eo,
di gettare le basi di un nuovo tipo di sapere, ma vuol fondare il sa­
pere, l'unico sapere valido, tutto l'albero del sapere (secondo il pa­
ragone della Prefazione alla traduz. francese dei Principii) - e in
questo è molto più vicino alla scolastica che a Galileo -. Ora, per
fondare tutto il sapere bisogna cominciare dalle radici, dalla meta­
fisica, e debbono essere radici adatte a sostenere il tronco della fi­
sica meccanicistica (della fisica in cui tutto è ridotto ad estensione
e moto locale), mentre la metafisica aristotelica non è adatta a que­
sta funzione 'SI. Ma Cartesio trovò intorno a sé un altro tipo di meta­
fisica, quella della reviviscenza agostiniana, quella in cui non si par­
la del mondo corporeo, ma si istituisce un dialogo diretto fra l'ani­
ma (la mens) e Dio, e accettò questa metafisica, sistemandola fino
in fondo, senza paura, per amor di coerenza, di arrivare fino alla teo­
ria di « spiriti » che urtano un'anima puramente incorporea la quale
risiede nella ghiandola pineale (la teoria dello spettro nella macchina
l'ha chiamata Ryle) e alla teoria degli animali-macchine, del tutto
privi di coscienza.

56
Btudes sur le role de la pensée médiévale, cit., p. 282.
57 Non è adatta a questa funzione se si concepisce il meccanicismo come una filo­
sofia della natura, come una dottrina che pretenda di dire che cos'è l'essenza, il costi­
tutivo ultimo del mondo corporeo. Può invece, una metafisica, anzi una filosofia della
natura di tipo aristotelico, convivere benissimo con una scienza in cui si parli solo de­
gli aspetti misurabili del mondo corporeo, senza « tentar l'essenza �-
CAPITOLO QUARTO

INTORNO A CARTESIO
MERSENNE E GASSENDI

1. Mersenne
Colui che tenne le fila dei rapporti fra Cartesio e i dotti di
tutta Europa fu MARIN MERSENNE, (1588-1648) 1 che si era as­
sunto come una missione il compito di mettersi in relazione coi
dotti dei diversi paesi e di metterli in rapporto fra loro. Baillet,
nella Vie de Monsieur Descartes cita queste parole di Carlo Dati.
discepolo di Galileo: « Gran trafficante fu il Mersenno, tenendo
commercio con tutti i litterati d'Europa... » 2• Molte sono le let­
tere a lui dirette da Cartesio il quale, quando partl per l'Olanda,
gli affidò la sua corrispondenza. Fu Mersenne che raccolse, e forse
scrisse egli stesso le seconde Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio,
sollecitò quelle di Hobbes (le terze), di Arnauld (le quarte) e di
Gassendi (le quinte), del quale era grande amico, e raccolse pure
le seste. Ma, almeno secondo il suo maggiore studioso, R. Leno­
ble, Mersenne non fu « l'uomo di Cartesio » se con questo termine
si intende indicare non solo l'amico e il fac-totum, ma anche il
seguace delle dottrine.
Nato nel 1588 a Oizé, studiò anch'egli al Collegio de La Flèche

1
Lo studio più completo su Mersenne è quello di ROBERT LENOBLE, Mersenne ou
la naissance du mécanisme, Paris, Vrin, 1943, dal quale desumo le mie informazioni.
Il ricco epistolario di Mersenne, che offre un panorama sulla cultura dell'epoca, è pub­
blicato a cura di Mm, P. TANNERY, CoRNELIS DE WAARJJ, Correspondance du P. Marin
Mersenne, Paris 1933.
2
Citato da LENOBLE, op. cit., p. 1.
126 FILOSOFIA MODERNA

dal 1604 al 1609, poi a Parigi e nel 1611 entrò nell'Ordine dei
Minimi, Ordine religioso assai severo, di cui Mersenne osservò
sempre la regola. Nel 1623 pubblicò le Quaestiones celeberrimae
in Genesim: 1900 colonne in folio, e si occupano solo dei primi
sei capitoli della Genesi, ma trattano in realtà di moltissimi argo­
menti, come risulta dal sottotitolo: In hoc volumine Athei et Dei­
stae impugnantur et expugnantur, et Vulgatae editio ab haere­
ticorum calumniis vindicatur.
Mersenne vi polemizza contro Campanella, Pomponazzi, Para­
celso, i cabalisti ( e fra questi mette anche Pico della Mirandola e
Agrippa di Nettelsheim), contro Fludd, che credeva nelle scienze
occulte. La base da cui parte la sua critica è ancora la filosofia tra­
dizionale; suo bersaglio principale, anche ne L'impiété des deistes,
del 1624, il naturalismo del Rinascimento.
Ne La vérité des sciences contre les sceptiques ou pyrrhoniens
del 1625 si serve sopra tutto della scienza per la sua apologetica, e
il tipo di scienza rigorosamente certa è la matematica. Ormai, dice
Lenoble, per lui « la cause de la science et la cause de Dieu ne
font qu'un » (Lenoble, p. 32). Si capisce che egli, divulgatore più
che intelligenza creativa, raccolga nella Synopsis mathematica
1626 3 opere di antichi matematici, aggiungendovi osservazioni
proprie.
Nel 1627 assisté presso il Nunzio Apostolico a quella dispu­
ta fra Cartesio e Chandoux che aveva richiamato l'attenzione di
Bérulle e fu anch'egli affascinato da Cartesio. Era del resto amico
di quei teologi, come Gibieuf, che offrivano a Cartesio il modo di
staccare la metafisica da Aristotele e dalla scolastica, ma era amico
anche di dotti di ortodossia assai sospetta, come Naudé e La Mothe
le Vayer e di un eretico come Hobbes, senza che questa apertura
incrinasse minimamente la sua fede, poiché era persuaso che la
scienza giova alla fede, chiunque sia colui che la professa. Ma so­
pra tutto lo entusiasmano i creatori della nuova scienza: Galileo,
Torricelli, Huyghens. Di Galileo nel 1634 pubblicò per primo
le Meccaniche, ( Les Méchaniques de Galilée), che aveva avute
nel manoscritto, traducendole e aggiungendovi, come era solito,
sue osservaz1om.

3
Ristampata nel 1644 con aggiunte e col titolo Universae Geometriae mixtaeque
Mathematicae Synopsis.
MERSENNE E GASSENDI 127

Questa pubblicazione attesta che Mersenne fu molto meno im­


pressionato. di quanto non fosse Cartesio (che aveva rinunciato a
pubblicare Le, Monde) dalla condanna di Galileo, del quale tra­
dusse poi anche, nel 1639, i Discorsi.-. sopra due nuove scienze col
titolo Les nouvelles pensées de Galilée. Del 1634 sono pure le
Questions inouyer, Questions théologiques, morales et mathé­
matiques; del 1644 i Cogitata physico-mathematica, del 1647 No­
varum Obsevationum tomus III. Era persuaso che l'avversione dei
deisti e dei « libertini » alla religione derivava dal fatto che la
teologia cattolica si era legata al sistema di Aristotele: la Bibbia,
affermava Mersenne come Galileo nelle due lettere a Benedetto
Castelli e a Madama Cristina, non insegna una cosmologia. Fin dal­
le Quaestiones in Genesim aveva scritto: « ... cum Deus hoc mun­
dum disputationibus nostris tradidisse videatur ... » (cit. da Leno­
ble, p. 233). La concezione meccanicistica del mondo corporeo -
ossia la spiegazione dei fenomeni naturali mediante l'estensione e
il moto locale, con esclusione delle qualità e delle forme sostanzia­
li - gli sembra l'unica veramente scientifica, ma, a differenza di
Cartesio, egli non eleva questa concezione a sistema metafisico,
con rigido dualismo di res extensa e res cogitans. Lenoble osserva
che << la dialettica delle Meditazioni cartesiane non l'ha mai con­
vinto », (Lenoble, p. 50) e intende per dialettica delle Meditazioni
le prove dell'esistenza di Dio e dell'immaterialità dell'anima. Per
la metafisica Mersenne non doveva avere né gusto né capacità: per
assicurare i praeambula fidei (esistenza di Dio, immortalità dell'ani­
ma) gli sembrava sufficiente il buon senso e la buona volontà. Nel­
le Quaestiones in Genesim aveva elencato ben trentasei prove del­
l'esistenza di Dio, ma nel 1645, in una lettera a Floriano Crusio
ammette di non averne trovato una prova rigorosa (Lenoble, p.
243): evidentemente non giudica tali neppure quelle cartesiane;
ma non ne sente il bisogno. Quanto all'immortalità, l'anima « n'a
que faire d'autre témoin ... que d'elle-mesme pour appréhender et
sentir son immortalité » (cit. da Lenoble, p. 291). Del resto Mer­
senne sembra non ammettere altra scienza rigorosa fuori della ma­
tematica; la matematica però « ci fa conoscere solo la buccia e la
superficie della natura, senza poterla penetrare », dice nelle Que­
stions théologiques del 1634 (Lenoble, p. 353) quando ha già
raggiunto la· maturità del suo pensiero. Finora la matematica è
parsa « una semplice curiosità », ma oggi ci si è accorti che serve
128 FILOSOFIA MODE.RNA

alle fortificazioni, utili in guerra 4, perché è applicabile alla fisica.


I principi della fisica però sono « incerti », ossia non hanno l'evi­
denza matematica; la fisica, dice ancora nelle Questions théologi­
ques, non è scienza nel senso aristotelico, perché non è scienza
di ciò che è necessariamente (des objects éternels et immuables),
dato che Dio può mutare tutto ciò di cui la fisica si occupa (citato
da Lenoble, p. 351). Mersenne è dunque ben lungi dal concepire
le leggi del moto come una conseguenza dell'immutabilità divina,
alla maniera di Cartesio ed è, nelle sue idee molto più vicino a Ga­
lileo che al suo amico Cartesio. Eccezion fatta per le verità di fe­
de, per tutto il resto Mersenne è positivista, dice Lenoble (p. 50).
Anche il sistema eliocentrico è per lui il più comodo per descri­
vere i moti degli astri, non il solo sistema vero. Né questa posi­
zione, secondo Lenoble, va interpretata come espressione di cau­
tela dopo la condanna di Galileo, poiché Mersenne non ebbe paura
di tradurre opere di Galileo, di cui fu uno degli amici più fidati.
Sembra dunque che sia esatto il giudizio di Leibniz quando dice­
va: « Il P. Mersenne non era poi tanto cartesiano quanto crede:
si divideva fra Roberval, Fermat, Gassendi, Descartes e Hobbes
e non aveva paura di prender parte alle loro tesi e alle loro po­
lemiche; ma era disponibile (officieux) verso tutti e li incoraggiava
mirabilmente » (citato da Lenoble, p. 597).

2. Gassendi
L'atteggiamento di Mersenne, la sua scarsa fiducia nella meta­
fisica, spiega la sua grande amicizia con PIERRE GASSENDI (1592-
1655), autore delle Quinte Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio
e fiero avversario della metafisica spiritualistica di lui. Ironizzando
sull'affermazione cartesiana che l'uomo ha coscienza di sé solo co­
me spirito (mens), che l'io è soltanto una sostanza pensante (sum
igitur praecise tantum res cogitans; A.T., VII, p. 27), si rivolge a

• Si pensi alla lettera cli Galileo a B. Vinta del 7 maggio 1610, nella quale, espo­
nendo i vantaggi che l'opera sua avrebbe avuto per il Granduca di Toscana, dice: « Io
de i secreti particolari, tanto di utile quanto cli curiosità et admirazione, ne ho tanta
copia, che la sola troppa abbondanza mi nuoce ..., ma non possono... essere messe in
opera se non da principi, perché loro fanno e sostengono guerre, fabricano e difendono
fortezze ... » Opere, X, p. 351.
MERSENNE E GASSENDI 129

Cartesio chiamandolo: o Mens! E Cartesio gli risponde seccato: o


Caro! rimproverandogli di usare solo artifici retorici, anziché ra­
gioni, nella polemica; né volle poi continuare la discussione con lui
quando Gassendi pubblicò un replica (Instantiae) alle sue risposte.
Nella traduzione francese delle Meditazioni Cartesio mise, al posto
delle Quinte Obiezioni, una Lettera a Clerselier ( traduttore delle
Instantiae di Gassendi) che servisse di risposta alle Instantiae. Il
tono è piuttosto sprezzante: Cartesio dice che gli è indifferente la
stima o il disprezzo di uomini che diano retta agli argomenti di
Gassendi, fondati solo su parole male intese o su false supposi­
zioni (A.T., IX-1, p. 203). Mersenne riusci tuttavia, un anno pri­
ma della sua morte, a riconciliare i due avversari. Era loro comune
solo l'avversione alla fisica aristotelica, ma Cartesio le contrappo­
neva una metafisica spiritualistica che fornisse le radici ad una
fisica meccanicistica, mentre Gassendi si rivolgeva all'epicurei­
smo 5.
La prima opera di Gassendi è costituita dalle Exercitationes
paradoxicae adversus Aristoteleos, dove la critica alle dottrine ari­
stoteliche sfocia in un certo scetticismo. Ora la tradizione antiari­
stotelica e scettica è viva nel Rinascimento, e Gassendi ricorda co­
me suoi predecessori Vives, Charron, Ramo e Giovan Francesco
Pico della Mirandola; ma - osserva il Gregory - a differenza
di altri che, seguendo Giovan Francesco Pico, svalutano la ragione
umana per esaltare la fede nella rivelazione divina, e fondano
quindi sullo scetticismo una apologetica della religione cristiana,
Gassendi non solo sgancia la teologia dalla filosofia aristotelica,
ma, al sapere incontrovertibile di tipo metafisico contrappone lo
studio del particolare, la conoscenza del fenomeno; apre quindi
lo SCçtticismo metafisico a quel sapere che è promosso dalla nuova
scienza. Scetticismo, si domanda Gregory? « Sì certo se per " scien­
za " si intende, aristotelicamente, la conoscenza delle immutabili
essenze e delle ultime cause; no, se, abbandonando questo am­
bizioso programma, ci si attiene allo studio e alla descrizione della
realtà fenomenica: cade la certezza metafisica e nasce la certezza
scientifica, :6.losologica, storica che ha per oggetto quel mondo che la

' Per Gassendi attingo all'opera di TULLIO GREGORY, Scetticismo ed empirismo.


Studio su Gassendi, Bari, Laterza, 1961. Su Gassendi si veda anche O. R. BLoCH, La
philosophie de Gassendi, La Haye, Nijhoff, 1971.
130 FILOSOFIA MODERNA

gnoseologia aristotelica considerava dominio della fluttuante opi­


nione» (Gregory, p. 40).
Si vede quindi come la posizione di Gassendi sia vicina a quel­
la di Mersenne. Alla metafisica come conoscenza di verità neces­
sarie 6 Gassendi contrappone la sua filosofia « come ricerca di so­
luzioni meramente "probabili " o "verisimili" legate all'espe­
rienza» (Gregory, p. 77). Ed è proprio la svalutazione dell'espe­
rienzi:l sensibile da parte di Cartesio quella che suscita le sue obie­
zioni. Ad essa contrappone la certezza della realtà sensibile, ma in
quanto appare, e la rinuncia a conoscere che cosa sia la realtà in
sé. Cosl, Gassendi non ammette l'esistenza di idee innate: tutte le
nostre idee derivano dall'esperienza sensibile. Quindi non hanno
valore le prove cartesiane che partono dall'idea di Dio per dimo­
strarne l'esistenza. L'idea di Dio « presuppone tutta una storia,
un lungo lavorio del pensiero umano che si è venuto lentamente
distaccando dal primitivo antropomorfismo (e forse anche ateismo)
ed ha a poco a poco idealizzato tutti i valori umani raccogliendoli
attorno ad un unico nome, Dio, che proprio per essere presupposto
infinito, resta un puro nome, del quale non si ha alcuna positiva
conoscenza» (Gregory, p. 101). E cita questa frase di Gassendi:
« Colui che dice "una cosa infinita" attribuisce ad una cosa che
non comprende un nome che ugualmente non intende».
Ma, come si diceva prima, « la rinunzia alla metafisica, l'ac­
centuata distinzione tra ragione e fede non si risolve ad esclusivo
vantaggio di quest'ultima 7, ma schiude e definisce il campo della
scienza che - nella modestia dei suoi limiti - scopre la sua auto­
nomia» (Gregory, p. 125). « In questo trapasso dallo scetticismo
all'empirismo, continua il Gregory, sta anche la peculiarità della
posizione di Gassendì rispetto a quella degli "scettici eruditi"
dell'età sua», come La Mothe Le Vaver e Naudé.
Di qui si capisce la « riscoperta» di Epicuro. Nelle Exercita­
tiones Gassendi non aveva manifestato una particolare preferenza

• E Gregory osserva (op. cit., p. 52) che Gassendi non combatte solo la meta­
fisica aristotelica, ma anche la concezione platonico-magica cli Fludd, contro il quale
scrisse nel 1629 una Epistolica exercitatio in qua principia philosophiae Roberti Fluddi
medici deteguntur etc. e il platonismo cli Herbert di Cherbury, contro il quale scrisse:
Ad librum D. Herberti Angli De veritate Epistola. Anche gli avversari aveva comuni
con Mersenne.
7
Gassendi era un credente, era prete, era detto le doux pr�tre, talora il prete
santo.
MERSENNE E GASSENDI 131

per Epicuro, ma più avanti si propose di scrivere un'apologia di


Epicuro e nel 1649 pubblicò De vita moribus et placitis Epicuri
libri octo seu: Animadversiones in decimum librum Diogenis
Laertii, e Syntagma philosophiae Epicuri cum refutatione dogma­
tum quae contra fidem Christianorum ab eo asserta sunt. Infine
riassunse la sua filosofia nel Syntagma philosophicum, pubblicato
postumo nel 1658. L'apologia di Epicuro, osserva il Gregory (op.
cit., p. 136) non nasce solo dal gusto umanistico di riscoprire nel
suo vero significato una filosofia antica a torto calunniata, ma an­
che dalla convinzione che quella filo·so:fia si presti meglio di ogni
altra a giustificare la nuova scienza: « l'originalità della sua " re­
staurazione di Epicuro " sta proprio nell'interesse portato alla
:fisica, fulcro del sistema; mentre le precedenti difese umanistiche...
si erano limitate... alla sua etica» (Gregory, p. 137). La :fisica di
Epicuro nega infatti l'oggettività delle qualità sensibili, è atomi­
stica e meccanicistica - e quindi elimina le forme sostanziali. Ma
anche la logica epicurea lo trova consenziente: prima di tutto per­
ché mette a fondamento della conoscenza la sensazione, sempre
vera in quanto riferisce l'apparire degli oggetti. E poi perché seb­
bene Epicuro sia classificato fra i « dogmatici» (nel senso antico
della parola) egli è vicino agli scettici, in quanto afferma che le
dimostrazioni sono soltanto probabili. Necessarie sono le dimo­
strazioni geometriche, ma sono puramente ipotetiche; le dimostra­
zioni dei :fisici, quelle che vertono sul reale, sono soltanto proba­
bili. Anche questo è un punto comune con Mersenne. Non c'è dif­
ferenza specifica fra sensazione e idea (anticipatio, praenotio, defi­
nitio ). « Il processo fondamentale del conoscere è sempre l'indu­
zione» (Gregory, p. 152), sì che - contrariamente alla termino­
logia tradizionale - si dovrebbe chiamare a priori il procedimento
induttivo, perché è quello che parte da ciò che per noi è primo,
la conoscenza sensibile, l'esperienza, e a posteriori il procedimento
deduttivo, che parte da premesse universali, che noi conosciamo
solo per induzione dalla esperienza, e quindi dopo. Una acuta os­
servazione di Gassendi è quella che « distingue gli universali, di
cui l'intelletto è capace, dalla conoscenza della natura degli og-

getti » 8

• Gregory indica solo il luogo dove si trova questa affermazione, Syntagma I, p.


372 B, senza riferire il passo, che a me sembra molto interessante perché elimina la
132 FILOSOFIA MODERNA

Ma le negazioni epicuree della provvidenza di Dio, dell'immor­


talità dell'anima come possono conciliarsi con la fede cattolica pro­
fessata da Gassendi?
Gassendi osserva che, come si è « corretto » Aristotele per
assimilarlo al cristianesimo, si può ben correggere Epicuro. Intan­
to la teoria del clinamen fa sl che la fisica epicurea sia più compa­
tibile con la fede nella Provvidenza divina e nella libertà umana
che non il rigido determinismo stoico. Per ciò che riguarda l'anima
umana, Gassendi afferma che, oltre all'anima vegetativa e sensitiva,
che è f/.os materiae, c'è nell'uomo un'anima creata immediatamente
da Dio, spirituale e immortale, e ammette anche considerazioni ra­
zionali, non solo un atto di fede, per giustificare tale persuasione.
L'esistenza di Dio è dimostrata dal consenso universale e dalla
considerazione dell'ordine della natura. Ora, poiché nelle Exerci­
tationes Gassendi aveva negato valore probante a quegli argomenti,
ci si è domandati che cosa egli pensasse effettivamente. C'è chi 9
lo ritiene « uomo duplice », « spirito profano in un'anima cristia­
na» che, nella sua ultima opera, cerca un compromesso fra la sua
filosofia e la sua fede; Gregory non vede in lui duplicità, ma piut­
tosto distinzione fra un sapere umano, limitato al particolare e
al probabile, e la fede. « Distinte - raramente contrapposte -
ragione e fede, ciascuna riacquistava la sua autonomia, ma, unite
nello spirito del filosofo e del credente, non potevano non incon­
trarsi su alcuni problemi: i quali, trascurati negli scritti polemici
e occasionali... necessariamente si riproponevano ove si orientasse
il pensiero all'elaborazione di un'opera sistematica» (Gregory,
p. 226).
E per l'etica? Può un cristiano affermare che il sommo bene
è il piacere?
Anche qui non mancavano precedenti: il Valla, nel De volup­
tate ( o De vero bono), specie nell'ultima redazione, affermava che
anche il Cristianesimo dice che il sommo bene è il piacere: solo lo col­
loca nell'altra vita. Ma non in questo senso accetterebbe Gassen-

confusione fra conoscenza dell'universale e conoscenza dell'essenza intesa come natura


profonda della realtà. Si adopera spesso il termine essen%a in un duplice significato, e
spesso la negazione che noi conosciamo le essenze nel secondo significato è estesa alla
negazione anche del primo.
• PrNTARD, Le libertinage érudit dans la premierè moitié du XVIII siècle, Paris,
Boivin, 1943.
MERSENNE E GASSENDI 133

di l'etica epicurea, almeno secondo il Gregory. Gassendi riafferma


il valore del piacere, contro l'etica stoica, come una componente
essenziale della pienezza di vita di un uomo che non è pura mens.
Cartesio nelle risposte a Gassendi, si rivolge a lui così: « O caro! ».
Gassendi replica che, mentre egli è una carne che non si vergogna
di essere anche spirito, Cartesio è uno spirito che si vergogna di
essere carne. Inoltre Gassendi avverte che, quando parla del pia­
cere come bene, parla de huius vitae felicitate, non di quella quam
sacri doctores ex professo edisserunt e che si ottiene con l'aiuto
della grazia (Gregory, p. 242).
CAPITOLO QUINTO

LIBERTINI E GIANSENISTI
[LEONARDO VERGA]

« Non c'è mai stato un numero così grande di libertini ed empi


- scriveva ARNAULD, il dottore del Giansenismo 1 -, che lavorano
segretamente a scalzare, per lo meno nei cuori e nelle intelligen-

* Per i Libertini si vedano: R. PINTARD, Le libertinage éruàit dans la première


moitié du XVII siècle, Paris, Boivin, 1943, voll. 2. A. ADAM, Les libertins au XVII
siècle, Paris, Buchet Chastel, 1964. G. SCHNEmER, Der « Libertin », Stuttgart, Metsler,
1970.
Per i Giansenisti si vedano: Qi. A. DE SAINTE BEUVE, Port-Royal, 3 ed., Paris,
Bibliothèque de la Pléiade, 1952-1953, voll. J. A. GAZIER, Histoire générale du mou­
vement ;anséniste, Paris, Champion, 1922, voli. 2. J, LAPORTE, La doctrine de Port­
Royal: Saint-Cyran, Paris, P.U.F., 1923; Les vérités de la Gr4ce, Paris, P.U.F., 1923;
La morale ( d'après Arnauld), Paris, Vrin, 1951-1952, voli. 2. J. ORCIBAL, Les origines
du ]ansénisme, Paris, Vrin, 1947-1948, voll. 3. L. GoLDMANN, Le Dieu caché, Paris,
Gallimard, 1959. L. CEYSSENS, Sources relatives aux débuts du ]ansénisme et de l'an­
ti;ansénisme, 1640-1643, Louvain, Pubi. Universitaires de Louvain, 1957; La première
bulle contre Jansénius. Sources relatives à son histoire, 1644,1653, Bruxelles, Roma,
Institut historique Beige de Rome, 1961-1962, voli. 2; La fine de la première période du
Jansénisme. Sources des années 1654-1660, Bruxelles, Roma, lnstitut historique Belge
de Rome, 1963-1965, voli. 2. L. COGNET, Le Jansénisme, Paris, P.U.F., 1968. A. ADAM,
Du mysticisme à la révolte; Les Jansénistes du XVII siècle, Paris, Fayard, 1968.
1 ANTOINE ARNAULD (1612-1694). È il principale esponente del gruppo cosidet­
to centrista del Giansenismo, che seppe dare organicità e vigore polemico alla dottrina.
La sua opera al riguardo, iniziata col noto libro De la fréquente communion, continuò
con le Lettres... à une personne de condition e con i diversi volumi de La morale pra­
tique des Jésuites. Cartesiano, anche se si riavvicinò al tomismo nell'ultimo periodo
della sua vita, compose in collaborazione con N1coLE La Logique ou l'art de penser, in
collaborazione con LANCELOT La Grammaire générale et raisonnée e i Nouveaux élé­
ments de géométrie e si impegnò in una lunga polemica con Malebranche, la cui parte
filosofica, concernente l'origine delle idee, trovò espressione nello scritto Des vraies et
des fausses idées. L'edizione generale, anche se non completa, delle sue opere è quella
in 42 tomi: Oeuvres de Messire Antoine Arnauld, Docteur de la Maison et Société de
Sorbonne, Paris, D'Arnay, 1775-1781.
136 FILOSOFIA MODERNA

ze, la religione l:ristiana, per introdurne una a loro modo, la quale


non consiste, nel migliore dei casi, che nel riconoscere un pri­
mo autore dell'universo e nel vivere secondo la pura natura, sen­
za preoccuparsi di tutto il resto, se non nella misura in cui vi
si è obbligati per non turbare l'ordine pubblico » 2• Era l'accusa
più grave che un credente potesse rivolgere ad un suo avversario:
quella di corrompere le coscienze, avviandole ad una religione svuo­
tata di ogni contenuto soprannaturale. Da parte sua, il libertino
SAINT-EVREMOND poneva sulle labbra di un gesuita in vena di con­
fidenze questo giudizio sui Giansenisti: « Non sono state né la gra­
zia né le cinque proposizioni che ci hanno messi in disaccordo. La
gelosia di governare le coscienze è la causa di tutto. I giansenisti
ci hanno trovato in possesso del governo e hanno voluto toglierce­
lo. Per raggiungere i loro scopi, si sono serviti di mezzi totalmente
contrari ai nostri. Noi adoperiamo la dolcezza e l'indulgenza; essi
ostentano austerità e rigore... Per parlare in modo franco, l'inte­
resse del direttore predomina quasi sempre sulla salvezza di chi
è sotto alla sua direzione » 3• Era la pecca maggiore che uno spi­
rito libero potesse denunziare: strumentalizzare la religione per
dominare sulla parte più intima dell'uomo.
Eppure gli esponenti di questi due gruppi, che si additavano a vi­
cenda come l'incarnazione di quanto di più negativo esisteva per
loro, costituivano il prodotto di un'unica crisi che in quel momento
travagliava il mondo occidentale in genere e la Francia in par­
ticolare, tanto da partire spesso dagli stessi problemi e da arri­
vare a porre in alcuni casi, sia pure per motivi diversi, soluzio­
ni che si richiamavano. L'impressione con la quale rimane il let­
tore del documentatissimo lavoro del Pintard, Le libertinage érudit
dans la première moitié du XVII siècle, è che, al di là della que­
stione di quali siano le figure che in quel momento meritano
la qualifica di Libertini e di quella concernente il valore e l'inci­
denza dal punto di vista filosofico degli scritti dei Libertini, il cli­
ma di pensiero libertino abbia costituito una delle componenti fon­
damentali della cultura francese del secolo XVII, una delle alter­
native nella soluzione dei maggiori problemi spirituali dell'epoca.

' A. ARNAULD, De la nécessité de la foi en Jésus Christ pour etre sauvé, P. III, c.
XV, in Oeuvres de Messire Antoine Arnauld, Paris, 1777, t. X, p. 321.
' A. ADAM, Les libertins au XVII siècle, cit., p. 225.
LIBERTINI E GIANSENISTI 137

Lo stesso si deve costatare per le tesi fondamentali caratteristiche


del gruppo giansenista; e questo spiega la presenza in quel tempo
di interessi e di simpatie per il Giansenismo in ambienti sociali di­
versi e di differente preparazione intellettuale. Si potrebbe dire che,
almeno entro determinati limiti, in ogni Libertino si potrebbe in­
dividuare un Giansenista mancato, così come in ogni Giansenista è
possibile scoprire un Libertino in germe. Proprio sulla rete, alle vol­
te molto sottile, di reciproche implicazioni esistente tra i due mondi
si vorrebbe qui richiamare l'attenzione.

l. La messa in discussione del cristiano come tipo


di uomo universale

Uno dei fatti più rilevanti di cui prende coscienza il mondo oc­
cidentale del secolo XVII è la pluralità di condizioni che l'esistenza
umana comporta. A più di un secolo dalla scoperta dell'America,
l'Europa possiede ormai un'abbondante letteratura sui popoli del
nuovo mondo: la loro situazione religiosa e morale, il loro grado
di sviluppo intellettuale e sociale hanno costituito l'oggetto delle
relazioni di viaggiatori e di missionari. Da tutte queste informa­
zioni sembrava risultare una cosa: l'impossibilità di continuare
a concepire l'umanità come l'incarnazione di un archetipo univer­
sale, giacché essa rivelava di constare di una serie non delimitabile
di condizioni, non riducibili l'una all'altra e tutte relative perché
determinate dai più diversi elementi che caratterizzano l'ambiente
in cui un popolo vive, dal clima ai cibi di cui si nutre. Si ha così
una sorprendente disparità di fedi religiose e di convinzioni morali,
di modi di condurre la vita individuale e collettiva.
Ciò significava la messa in crisi di quel tipo di uomo che l'occi­
dente aveva presentato come il più completo, perché capace, in forza
dell'educazione, di portare a maturazione tutta la gamma dei valori
umani: « Sono ciechi e senza esperienza quelli che si immaginano
- scriveva GABRIEL DE FOIGNY - che l'Europa sia un paese pie­
no, che non ha alcun bisogno dei suoi vicini... Non vi è alcun dubbio
che, se essa potesse comunicare con gli Australiani, sarebbe com­
pletamente diversa da quella che ora è » 4• Ma quel tipo d'uomo

• P. HAZARD, La crise de la conscience européenne, Paris 1961, vol. I, p. 46.


138 FILOSOFIA MODERNA

coincideva con il cristiano, in quanto traeva da lui le sue maggiori


risorse di universalità: era la fede cristiana che permetteva all'in­
telligenza umana di toccare i massimi traguardi del conoscere, cosi
come i precetti evangelici costituivano lo strumento per il massimo
di perfezione morale. Ora, il domma cristiano sembra ridimensio­
narsi, per diventare uno dei tanti modi di esprimere il divino;
tutti decisi a dimostrare il proprio valore assoluto e tutti inca­
paci di farlo. La morale cristiana sembra diventare una delle tante
vie per perseguire quell'ideale di bene, comune a tutti gli uomini
e passibile di diverse interpretazioni.
Questa impossibilità per il Cristianesimo di abbracciare la com­
plessità dei valori umani sembrava trovare un corrispettivo in
un'altra incapacità di controllo, che concerneva non più l'univer­
so geografico, ma quello astronomico. Alla concezione dell'univer­
so come cosmo, ossia come insieme finito di elementi gerarchizzati,
al cui centro stava la Terra, dimora della creatura più nobile,
l'uomo, posto in uno spazio differenziato, era seguita quella del­
l'universo come realtà indefinita e anche infinita, non più unita
da una finalità, ma solo dall'identità delle sue leggi e delle sue
componenti ultime, posta in uno spazio di tipo euclideo, che era
pura estensione infinita ed omogenea 5• In un simile universo, che
non converge più sull'uomo, perché consta di una serie infinita di
mondi, quale credibilità può ancora mantenere il domma cristiano
di una particolare provvidenza di Dio nei confronti dell'uomo, che
si sarebbe soprattutto espressa in una economia della salvezza
avente come suo fondamento l'Incarnazione?
Il piano però sul quale la civiltà occidentale e il Cristianesimo
che la ispira sembrano destinati a subire i ripensamenti più radi­
cali è quello morale. Un fatto attira in modo particolare l'atten­
zione dei raccoglitori di notizie sui nuovi popoli: l'esistenza di
uomini che vivono allo stato selvaggio, privi di religione, di or­
ganizzazione politica, di scrittura, e che tuttavia dimostrano nel­
la loro condotta un notevole equilibrio ed una innegabile sereni­
tà. L1 spiegazione, che preannuncia le teorie di Rousseau, viene ri­
cercata nella maggiore vicinanza con la natura che lo stato primi­
tivo permette, con la conseguenza di una innocenza che sostiene

5
Si veda A. KoYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, Milano 1970.
LIBERTINI E GIANSENISTI 139

una virtù più autentica e una maggiore felicità. « Questi grandi


popoli - costata GuY DE LA BROSSE - senza leggi e senza re­
ligione, che vivono secondo natura, non presentano vizi nelle loro
comunità; una virtù, innata nei loro cuori, più universale della no­
stra, senza trucco ed artificio, e che si manifesta al pari di una fa­
coltà della loro anima, li porta ad un uso moderato delle cose ne­
cessarie e piacevoli al corpo e all'anima, secondo la semplicità della
natura: cosl guidati, passano bene e felicemente il corso della

vita » 6
Si pensa allora di poter trarre alcune importanti condusioni.
Innanzitutto quella riguardante l'indipendenza della morale dalla
religione: la morale non è fondata sui dommi religiosi, ma su quel
senso innato di bontà che ogni uomo porta nel suo cuore e di
cui tutta la vita morale non è che continuo sviluppo, giacché senza
di esso, come dice il bibliotecario del Mazarino, GABRIEL NAUDÉ,
« il timore di Dio, il biasimo del mondo e tutte le scienze imma­
ginabili non servono un capello per mantenere l'uomo nel suo do­
vere >> 7• Le religioni particolari servono alla morale nella misura in
cui entrano a dare un apporto a questo lavoro di sviluppo; ma co­
munque- costituiscono per essa una piattaforma non paragonabile
per ampiezza a quella fornita dalla natura; esse stanno a questa co­
me il particolare all'universale, come ciò che è frutto di elaborazione
e di artificio a ciò che è spontaneo. Anzi, quando la religione traligna
per diventare faziosità, superstizione e bigottismo, non solo non
collabora allo sviluppo della moralità, ma la corrompe, soffocando
nell'uomo quella naturale bontà per gli altri, quel senso di digni­
tà e di coraggio, quel desiderio di cose autentiche che porta con
sé dalla nascita. Le vicende del momento sembravano dare larga con­
ferma a questa analisi. Una fede mal intesa stava all'origine del­
le guerre di religione, delle polemiche astiose che gli esponenti
delle varie confessioni cristiane continuamente conducevano, che
comportavano il misconoscimento di quel principio fondamentale
dell'onestà naturale, che è il rispetto della persona. L'apparizione

• GUY DE LA BROSSE, Traicté contre la mesdisance, Paris, 1624, pp. 188-189.


7 GABRIEL NAUDÉ (1600-1653). Bibliotecario del Mazarino, aveva attinto il suo li­
bertinismo ai corsi del filosofo Cremonini, seguiti a Padova durante il suo soggiorno in
Italia. Nell'opera Considérations politiques sur les coups d'Etats, suggerisce la tesi delle
religioni come strumento di potere politico. Le parole surriferite sono citate da PINTARD,
op. cit., I, p. 474.
140 FILOSOFIA MODERNA

di una cometa poteva ancora diffondere timori, non solo negli stra­
ti più bassi della società, ma anche in quelli più elevati, quasi
fosse preannuncio di imminenti castighi divini 8• Una pratica
religiosa puramente esteriore era per molti motivo per dispensarsi
dalla riforma della vita, dando cosi al loro comportamento un ca­
rattere di doppiezza.
Di fronte a una religione che, ben lungi dal valorizzare le risor­
se spirituali che la natura aveva concesso all'uomo, le mortificava
e le corrompeva, appariva come moralmente superiore la posizione
dell'ateo che si voleva tale al fine di conservare alla propria uma­
nità una certa autenticità e una certa sanità. LA MoTHE LE VAYER 9
cosi fa parlare Orasius Tubero, nel dialogo De la Divinité: « L'atei­
smo - dice il cancelliere Bacone nei suoi Saggi morali in lingua
inglese - lascia all'uomo il buon senso, la filosofia, la pietà na­
turale, le leggi, la reputazione e tutto quello che può servire di
guida alla virtù; la superstizione invece distrugge tutte queste
cose per costruirsi nella mente degli uomini una tirannia assoluta.
Per questo l'ateismo non turba mai gli stati, ma rende l'uomo più
attento a sé stesso, senza che miri più lontano » 10•
A parte questi scadimenti dell'onestà naturale che una religione
segnata da fanatismo e da superstizione poteva provocare, tutto un
insieme di problemi morali concernenti la vita sociale e politica sem­
brava non poter ricevere soluzione sulla base dei precetti evangelici.
Il secolo si chiede quanto sia possibile in una società fondata

8
Ancora nel 1680 Bayle era costretto a scrivere a un teologo di sua conoscenza:
« Non riesco a comprendere come un dottore quale voi siete, che, per il semplice fatto di
essere riuscito a predire con precisione il ritorno della nostra cometa, dovrebbe essere
convinto non trattarsi :.>.ltro che di corpi soggetti a leggi ordinarie della natura e non di
prodigi che non seguooo nessuna regola, si sia lasciato nondimeno trascinare dalla cor­
rente, e immagini conformemente all'opinione generale, nonostante le ragioni portate
da un ristretto numero di persone scelte, che le comete siano come degli araldi, che
vengono da parte di Dio a dichiarare guerra al genere umano». (Pensées diverses
écrites à un Docteur de Sorbonne, à l'occasion de la comète qui parut au mais de de­
cembre 1680, c. III, ediz. di Rotterdam 1699).
' FRANço1s DE LA MoTHE LE VAYER (1588-1672). Precettore del fratello di Luigi
XIV, fa parte assieme a Gassendi, Diodati e Naudé della famosa « Tétrade» libertina
che si riunisce in casa dei fratelli Dupuy. Sotto una apparente esaltazione delle verità
cristiane, le sole capaci di trarre la ragione umana dal dubbio, esercita la critica più
corrosiva di ogni fede religiosa, mostrando come non ci sia affermazione in materia di
religione che non possa essere contraddetta da una opposta. Espressione di tale tesi sono
i Quatre dialogues faits à l'imitation des Anciens par Orasius Tubero e il dialogo
De la divinité. Parallelamente, nello scritto De la vertu des Payens, egli addita come
esempi di moralità autentica ed universale i saggi dell'antichità.
10
A. ADAM, Les libertins au XVII siècle, cit., p. 136.
LIBERTINI E GIANSENISTI 141

sulla forza e sull'astuzia essere evangelicamente umili, mansueti,


alieni da doppiezza. Si chiede soprattutto se tali virtù possano
essere assunte dal principe nel governo dello stato e nei rapporti
con gli altri potenti. La possibilità sulla quale ci si interroga
non è, si intende, quella di attuare le virtù cristiane nel peggio­
re dei mondi o nelle situazioni più difficili - conferme al riguardo
non erano mancate e non macavano -, bensl quella di conciliare
simile attuazione con un adempimento efficace dei propri impegni
terreni, con una certa competitività, che è la condizione indispensa­
bile per non essere emarginati dalla vita civile. In generale, la
risposta è negativa: i precetti evangelici non possono essere presi
come punto di riferimento per la vita sociale e, politica. E que­
sto, si badi, non semplicemente perché il farlo comporterebbe
il sacrificio dell'utile degli individui o degli stati, ma perché
turberebbe un e,quilibrio di valori morali considerato più ampio
di quello contemplato dalla prospettiva propria del Vangelo. La
Mothe Le Vayer non esita a sostenere che il precetto evangelico
di non fare agli altri qudlo che non si desidera ricevere da loro,
risulta, « se lo si consideri bene », come « nemico della vita civile
e particolarmente contrario ad ogni giustizia ». E NAUDÉ, nelle sue
Considérations politiques sur les coups d'état, fa capire, anche
se non lo dice, esplicitamente, che un principe che si ispirasse ai
precetti evangelici, soprattutto in certe situazioni capitali per la
salvezza dello stato, dimostrerebbe non solo di essere un uomo
poco esperto delle cose, ma anche, di non conoscere i propri
doveri, giacché « la giustizia, la virtù e la probità del sovrano
camminano un po' diversamente da quelle dei singoli; esse hanno
i loro modi di procedere più larghi e più liberi, a motivo del
grande, pesante e pericoloso incarico che egli porta » 11•
Idee di questo genere sembravano non essere e,sclusive di spiriti
liberi, ma ottenere l'assenso da esponenti tutt'altro che trascura­
bili del Cattolicesimo. Due ecclesiastici impegnati a fondo nella
politica, come Richelieu e Mazarino, non insegnavano coi fatti la
necessità di prescindere dalla religione quando si trattano gli af­
fari dello stato? E la casuistica dei Gesuiti a quale preoccupazione
rispondeva? Non se,mpre a quella di applicare i precetti della mo-

11 R. PINTARD, Le libertinage érudit, cit., voi. I, p. 546.


142 FILOSOFIA MODER1'JA

raie cristiana alla complessità delle situazioni particolari, ma spesso


a quella di ridimensionare tali precetti sulla logica di una saggezza
puramente umana. PASCAL avrà mancato di obiettività quando
sceglieva ad arte dai manuali dei casuisti i passi che gli servivano
per le sue Provinciali; colpiva però nel segno quando individuava
lo spirito di una certa casuistica nel tentativo di far dominare la
ragione sulla fede, l'esperienza umana sull'insegnamento del Van­
gelo. Le loro buone massime - scriveva nei frammenti Sur
l'obéissance due à l'Église et au Pape e Sur la casuistique et la pro­
babilité - sono tanto poco sante quanto le cattive, perché sono
fondate sull'autorità umana. E cosl, se esse sono più giuste, saran­
no più ragionevoli, ma non più sante; hanno la stessa natura del
fusto selvatico sul quale sono innestate... A fructibus eorum: giu-
dicate della loro fede dalla loro morale ... » u.
Il quadro è così abbastanza completo per permettere di valuta­
re l'entità della crisi che investe il cristiano in questo momento:
egli non riesce più a presentarsi e a sentirsi garante di un tipo
di universalità sulla quale si era fondato sino allora tutto un mo­
do di pensare e di vivere. Si poneva il problema di trovare le
basi per ricomporre una nuova concezione dell'uomo.

2. La filosofia come vera religione


Il Libertino è l'uomo alla ricerca di una nuova universalità da
sostituire a quella che la religione fondava. In relazione a questo
proposito è da interpretarsi uno dei temi fondamentali del discor­
so libertino: la necessità di staccarsi dalla moltitudine per for­
mare una élite; l'« honnète homme » non può essere che un « esprit
escarté ». Esiste cioè una doppia universalità. Quella puramente
esteriore, fondata sul numero, nella quale si ritrovano tutti quel­
li che si accontentano della verosimiglianza, dell'opinione comune,
di ciò che è frutto di credulità. Si tratta di una falsa universa­
lità che unisce solo apparentemente, giacché l'errore non può esse­
re per sua natura se non dispersivo. La vera universalità è quella
di ordine qualitativo, perché fondata sulla ragione, la quale, a
prescindere dai consensi che di fatto ottiene, ha un potere unifìcan-
12 PASCAL, Sur l'obéissance due à l'Église et au Pape, Sur la casuistique et la pro­
babilité, in Oeuvres complètes, Paris 1954, pp. 1073, 1064.
LIBERTINI E GIANSENISTI 143

te irresistibile. Si ha così che, a dispetto delle apparenze, colui


che appartiene alla moltitudine non è uomo universale, ma particola­
re; mentre i pochi separati parlano un linguaggio che può essere
da tutti capito. « La differenza che esiste tra i veri uomini e i
mezzi-uomini - fa dire GABRIEL DE FOIGNY ad un personaggio del
suo racconto di carattere utopico, La terre australe connue - sta nel
fatto che tutti i pensieri e tutti i voleri dei primi, essendo perfet­
tamente uniti, sono gli stessi senza differenza. Basta spiegarli
per farli accettare senza opposizione, in quanto le persone ra­
gionevoli seguono con piacere il vero cammino appena è segnato.
Poiché invece i mezzi-uomini non hanno che degli inizi di conoscen­
za e dei deboli lumi, avviene necessariamente che l'uno pensi una
cosa e l'altro un'altra e che l'uno accetti un cammino mentre
l'altro lo fugge con opposizioni e ripugnanze quasi continue. Il
motivo di ciò è chiaro, giacché colui che solo intravede non può
evitare i pericoli di ingannarsi e di prendere spesso una cosa per
l'altra» 13•
Questa idea, che la verità non è frutto del numero, ma di una
mente che sa rettamente giudicare, che essa sola è principio di vera
unità, mentre l'opinione divide, può essere ritrovata in diversi auto­
ri del tempo. Cartesio, nelle sue Regulae ad directionem ingenii,
ricordava che « non servirebbe a nulla contare i suffragi per segui­
re l'opinione che ha più seguaci; giacché, quando si tratta di que­
stione difficile, è più saggio ritenere che la verità in materia non
abbia potuto essere scoperta che da pochi e non da molti» 14•
E Malebranche asseriva che « non c'è che la ragione che possa riuni­
re gli spiriti, metterli d'accordo e farli agire concordemente» 15•
Nei Libertini però diventa una specie di coscienza ecclesiale che
surroga quella dell'appartenenza ad una confessione religiosa: al
di sopra della « massa damnationis », costituita dai molti che sono
infed�li a quel principio di razionalità che esiste nella loro na­
tura, sta !'accolta di coloro che, seguendo la ragione, ristabilisco­
no tra gli uomini una autentica comunione. In questa nuova chiesa.
la religione che si pratica è la :filosofia, considerata la forma

13 A. ADAlVI, Les libertins au XVII siècle, cit., p. 308.


14 DESCARTES, Règles pour la direction de l'esprit, III, in Oeuvres et Lettres, Pa­
ris 1966, p. 43.
15 MALEBRANCHE, Traité de morale, P. II, c. XI, § VI, in Oeuvres complètes,
Paris 1966, t. XI, p. 245.
144 FILOSOFIA MODERNA

più alta di devozione, in quanto capace di portare l'uomo al mas­


simo di perfezione. Alcuni avevano il coraggio di dirlo apertamente,
come quel medico Basin di cui parla il curato Beurrier nelle sue
Memorie, che, dopo esser passato da una religione all'altra, era
ormai « risoluto a vivere e a morire da filosofo »; cosicché poteva
dichiarare in morte: « Non ho altra religione che quella di essere
filosofo ». Tutti gli altri però ne erano convinti.
Tuttavia si deve subito aggiungere che la nuova universalità che
nasce dal seguire la ragione non è concepita dal libertino, almeno
fino a una certa epoca, come un insieme di principi capaci di ot­
tenere l'assenso da parte di ogni intelligenza ben regolata. Si
tratt'.l di una universalità di carattere essenzialmente critico, che
è conseguenza della coscienza che ciascuno deve avere dell'im­
possibilità di dare a qualsiasi questione una risposta di valore
assoluto; per cui ogni risposta deve essere confrontata con le
altre, ogni punto di vista deve aprirsi ad altri punti di vista. Nes­
16,
suno meglio di CHARRON, il maestro riconosciuto dei Libertini
aveva descritto tale atteggiamento. Al capitolo II del II libro De
la sagesse, trattando della seconda disposizione, dopo la cono­
scenza di sé, per acquisirla, aveve scritto: « L'altra disposizione
alla saggezza è una piena, completa, generosa e signorile libertà
di spirito, che è duplice, ossia di giudizio e di volontà. La prima,
di giudizio, consiste nel considerare, giudicare, esaminare tutte le
cose, non obbligandosi né attaccandosi ad alcuna, ma rimanendo
interiormente libero, universale, aperto e pronto a tutto ... Al con­
trario, chi si risolve non giudica più, si ferma e si accontenta di
ciò che ha, diventando partigiano e particolare » 17• Il libertinismo
cioè è in Francia, sino al 1660, su posizioni prevalentemente scet­
tiche. Dopo quella data, sotto l'influsso del Cartesianesimo ormai
vincitore, assume tinte illuministiche.
Si capisce allora come i Libertini della prima metà del se­
colo si dedichino soprattutto ad una opera di demolizione di tutto
ciò che voglia presentarsi come definitivo, che tenti di ostacolare
l'indagine della ragione col richiamo all'autorità e alla tradizio-

16
PIERRE CHARRON (1541-1603). Col suo scetticismo, che costituisce il tema do­
minante dell'opera principale, De la sagesse, esercita un vasto influsso sul pensiero
francese della prima metà del secolo XVII e in particolare sui Libertini, che vedono
in lui, ad di là delle sue professioni di fede cristiana, un maestro di naturalismo.
17 CHARRON, De la sagesse, 1. II, c.. II, Paris 1824, vol. II, pp. 25-28, 33.
LIBERTINI E GIANSENISTI 145

ne. Naturalmente la religione cosutmsce il loro obiettivo princi­


pale. Cercano di mostrare come la religione in genere non resista
ad un esame critico, in quanto nessuna verità religiosa ha basi
sufficienti di certezza. Il documento più significativo a questo
riguardo è dato dal dialogo De la divinité di LA MoTHE LE VAYER.
In esso si fa vedere come ogni affermazione sull'esistenza di Dio,
sulla sua natura, sulla sua provvidenza possa essere controbattuta
da una affermazione contraria. Lo stesso si deve dire per la tesi
dell'immortalità dell'anima. Lo scritto terminava con un elogio
della rivelazione cristiana, la quale sola poteva trarre la ragione
da tutte le aporie in cui cadeva quando affrontava i grandi pro­
blemi della religione e della morale. E l'elogio della fede diven­
tava per riflesso elogio della scuola scettica, « puisque c'est elle
seule qui nous peut préparer les voyes aux cognoissances révélées
de la Divinité ». Lo scetticismo quindi come propedeutica al Cri­
stianesimo, in quanto obbliga la ragione a riconoscere la sua debo­
lezza: è un tema comune a molti Libertini; ma delle due profes­
sioni, quella di cristiano e quella di scettico, solo la seconda
appare come sincera, se si tiene conto che in questo caso lo scet­
ticismo metafisico era accompagnato da uno scetticismo storico,
che non poteva certo risparmiare quei fatti, come miracoli e pro­
fezie, che costituivano i motivi di credibilità della stessa fede cri­
stiana.
Altri, soprattutto dopo la metà del secolo, arrivavano a conclu­
sioni meno radicali, perché salvavano un deismo fondato sull'affer­
mazione dell'esistenza di un primo principio di tutte le cose e sul
riconoscimento di alcuni suoi attributi derivabili dagli effetti pro­
dotti. Si proibivano però di andare più in là di questo, consideran­
do il tentativo di farlo come la causa che faceva si che la religio­
ne, destinata ad unire gli uomini, si trasformasse in motivo di
sanguinosi dissensi. « È una conseguenza necessaria che, parlando
di una cosa incomprensibile, se ne parli con molta diversità - si
legge nell'opera La terra australe di GABRIEL DE FOIGNY -. Biso­
gna essere cieco per voler ignorare un primo Principio; bisogna però
essere infinito come lui per poterne parlare in modo esatto ... Una
comune dottrina circa questa causa prima deve essere il motivo
della nostra unione, come essa lo è della nostra creazione... » 18•

•• A. ADAM, Les libertins au XVII siècle, cit., p. 313.


146 FILOSOFIA MODERNA

Di qui il rifiuto di ogni aggiunta che una rivelazione soprannatura­


le pretendesse fare alla religione naturale. A parte il fatto che il
concetto stesso di tale rivelazione appare incomprensibile al dei­
sta, in quanto egli non riesce a spiegarsi « d'où peut provenir
cette acception de personnes », e a parte l'impossibilità, che egli
ritiene esistere, di provarla storicamente, tutti i dommi che le
cosiddette religioni rivelate ci propongono, ben lungi dal darci
un'idea più alta di Dio, la abbassano al nostro livello, attribuendo
al Creatore sentimenti che sono incompatibili con la sua perfezione.
Attorno ad una critica come questa ruota uno de.i testi libertini più
noti nella prima metà del secolo e che ottiene una lunga confutazione
da parte di Mersenne, i Quatrains du Deiste. In esso dommi, come
quello del peccato e dell'inferno, vengono mostrati in stridente
contrasto non solo con la sapienza e la bontà che sono proprie di
Dio, ma anche con lo stesso spirito del Vangelo che dovrebbe gui­
dare la religione che li predica. Una volta poi liberata l'idea di
Dio da ogni sovrastruttura, bisognava anche purificarne. il culto:
questo doveva esprimersi non nella magnificenza dei templi e nella
fastosità dei riti, ma nell'interiorità dei sentimenti, come la ri­
conoscenza, la fiducia, l'amore.
Un punto merita particolare attenzione in questa critica che i
Libertini vanno facendo della religione: quello dei suoi rapporti
con il potere politico. Per loro, l'imbarazzo che tutte le religio­
ni dimostrano dinanzi alle realtà politiche è semplicemente il se­
gno di una cattiva coscienza che esse hanno della loro origine, in
quanto sono sorte come strumento in mano dei potenti « pour
embouscher de ce mors le sot peuple, pour le pouvoir mener à leur
fantaisie »; o in senso assoluto, in quanto le nozioni religiose, an­
che le più generali, sono frutto di tale espediente, o nel senso
che quanto le religioni aggiungono alla religiosità naturale mira
ad ottenere scopi politici. « Se consideriamo quale sia stato l'ini­
zio di tutte le monarchie - scriveva Naudé -, troveremo sempre
che sono incominciate con qualcuna di queste invenzioni e soper­
chiere, facendo camminare la religione e i miracoli in testa ad
una lunga serie di barbarie e di crudeltà» 19• Per questo i Liber­
tini mettono la religione sullo stesso piano degli altri mezzi che
servono per il mantenimento dell'ordine pubblico e riprovano,
19
Ibid., p. 142.
LIBERTINI E GIANSENISTI 147

non solo chi contravviene pubblicamente ai precetti della reli­


gione della nazione, ma anche chi comunica imprudentemente al­
la gente comune che cosa ne pensa; ciò infatti finirebbe per atten­
tare alla stessa autorità dello stato, senza della quale ordine e pace
non possono sussistere.
Chi voleva scalzare la religione dalle fondamenta e chi invece in­
tendeva riportarla alla semplicità e all'interiorità originarie ap­
prodava ad uno stesso risultato: l'affermazione della natura come
suprema realtà. Anche il Dio del deista, di cui si poteva parlare
solo sulla base degli effetti da lui prodotti, finiva per diventare
un principio immanente al mondo. Ma questo che i Libertini pre­
se.ntavano come il massimo risultato del loro razionalismo, costitui­
va, per il modo con cui era inteso, un segno di debolezza del mede­
simo. La concezione infatti che essi hanno della natura non si dif­
ferenzia, almeno per la prima metà del secolo, da quella che è pro­
pria delle filosofie naturalistiche: non per nulla i maestri a cui si
rifanno sono alcuni grandi pensatori del Rinascimento italiano,
come Pomponazzi, Vanini, Giordano Bruno, Campanella. Il Leno­
ble, nel suo fondamentale lavoro, Mersenne ou la naissance du mé­
canisme, ha mostrato come l'opposizione fondamentale dell'epoca
non sia tra scolastica e cartesianesimo, bensl tra filosofie che pon­
gono una distinzione tra anima e mondo e filosofie che non la rece­
piscono. Da questo punto di vista, �colastica e cartesianesimo si
trovano sullo stesso fronte; differiscono solo per gli strumenti di cui
si servono per difendere tale distinzione: la fisica aristotelica, che è
pur sempre una fisica delle qualità e non della quantità, per la pri­
ma, e il meccanicismo per il secondo. Il fronte avverso è dato dal na­
turalismo in tutte le sue espressioni, da quelle più alte, come le di­
verse filosofie della natura, a quelle più basse della stregoneria, della
cabala e dell'astrologia. Ora, i Libertini, per la maggior parte, si
trovano su questo secondo fronte, in quanto la natura di cui parlano
ha tutti gli attributi di quel trascendente che si sono proposti
di eliminare. Ciò rimane vero nonostante la critica coraggiosa e
sistematica che essi vanno facendo di alcune forme deteriori del
naturalismo, come la facilità a vedere miracoli in ogni avvenimento
e a credere nelle stregonerie e nei casi di possessione demoniaca 20•

211
RoBERT MANnRou, nel suo documentatissimo libro, Magistrats et sorciers en
France au XVII siècle, Paris 1968, ha mostrato la parte avuta dai Libertini nella
148 FILOSOFIA MODERNA

In loro l'esigenza di una chiara delimitazione dell'ambito dei fe­


nomeni naturali è senz'altro viva, ma manca degli strumenti adatti
per essere soddisfatta con rigore.
Il culto per la natura diventava, sul piano morale, per i Libertini
il proposito di conformarsi ad essa in ogni loro comportamento. Lo
scopo a cui essi mirano è quello di riconciliare la virtù con la
natura, un tempo unite, e che la religione ha separato e messo in
lotta tra di loro.« Noi, sperando un bene migliore, - scriveva GUY
DE LA BRos SE - combattiamo continuamente contro la natura al
fine di dominarla e questa guerra è chiamata la strada della virtù ...
La natura e la virtù non nacquero insieme. La virtù comparve quan­
do la prima governava il mondo già da molto tempo con la sem­
plicità delle sue leggi. Alcuni onest'uomini dei secoli antichi la con­
cepirono dapprima in modo molto consono alle tendenze e ai desideri
della natura; e in quel tempo i vizi erano pochi. Dopo invece, una
volta che la virtù fu unita alla legge, la religione l'ha fatta sua
schiava e l'ha messa alle strette, rendendole sospetta la natura,
così c-he, da amiche che erano, ora non fanno altro che beccarsi.
La virtù era allora molto libera e molto universale. Presa nella
sua attuazione, consisteva in un uso moderato degli appetiti dell'uo­
mo, secondo la semplice e perfetta natura, ed ora non è che una di­
sposi:done che sottomette al bene le facoltà intellettuali, i sensi in­
terni e gli appetiti sensuali... » 21•
È chiaro che, una volta proposto un simile ideale morale, certe
virtù cristiane, come l'umiltà e l'accettazione della sofferenza, per­
devano di significato, così da portare a concludere che il vero
modello di condotta dovesse ricercarsi non nel santo, ma nell'« hon­
nete homme », ossia nella persona che mira a sviluppare con equili­
brio le proprie doti di mente e di cuore e la cui virtù precipua
è la « générosité », intesa come stima di sé, motivata dalla co­
scienza della propria virtù. Incarnazioni efficaci dell'« honnete
homme » erano stati i saggi antichi, ai quali i Libertini continua­
mente si rifanno con ammirazione zi_ E tra questi sono gli Epi-

trasformazione delle concezioni demonologiche e della prassi giudiziaria nei processi


di stregoneria del tempo.
21 R. PrNTARD, Le libertinage érudit, cit. p. 198.
22
Arnauld dava una descrizione esatta del ribaltamento che i Libertini operavano
nella scala dei valori morali, quando scriveva nel suo libro, De la nécessité de la foi
en Jésus Christ pour étre sauvé, composto per confutare quello di LA MoTHE LE
LIBERTINI E GIANSENISTI 149

curei che raccolgono le. loro preferenze: lo Stoicismo, tornato in


auge nella seconda metà del secolo precedente, è ora in declino, per­
ché non sembra rendere in modo completo l'effettiva condizione del­
l'uomo; mentre la rivalutazione che Gassendi e i suoi discepoli han­
no fatto della figura e della dottrina di Epicuro, mostrando quale fosse
il vero significato di quel piacere che egli aveva presentato come
il sommo bene, inducono a ritenere che l'Epicureismo sia la dot­
trina morale più equilibrata.
Cosi razionalismo, naturalismo, virtù morali da sostituirsi a quel­
le cristiane, sono tutti aspetti di quel tipo d'uomo che i Liber­
tini intendono instaurare e la cui universalità essi fondano sul
superamento di ogni fede religiosa.

3. Il Cristianesimo come comprensione esauriente dell'uomo

Il francescano Bonal, nel suo libro Le Chrétien du temps col qua­


le. rispondeva a quello De la fréquente communion di Arnauld, cosi
descriveva i « docteurs extrémes » giansenisti: per loro « non c'è
nulla di virtuoso che non sia eroico ... nulla di tollerabile, se non è
inimitabile... La mediocrità, secondo i loro gusti, è un vizio; tut­
to quello che non è un eccesso è un difetto; ciò che. non è singo­
lare è troppo triviale ... » 23• A parte il tono polemico del passo, in
esso viene colta una delle caratteristiche fondamentali del grup­
po giansenista: la persuasione cioè che la verità possa essere in­
contrata solo superando la banalità dei luoghi comuni, gli atteg-

VAYER, De la vertu des Payens: « C'est una chose étonnante, que, de notre temps,
nous voyons que le démon inspire dans l'esprit de plusieurs Chrétiens, une extre­
me vénération pour !es livres profanes de ces Sages Payens, afin d'étouffer insensi­
blement celle qu'ils doivent avoir pour les Livres saints. Il semble meme qu'il leur
persuade que les Livres saints, et la morale de Jésus Christ ne sont propres que pour
les Cloitres; et que celle de Seneque et des autres Payens, est beaucoup meilleure pour
former un honnete homrne. Que ce n'est pas etre du monde, que de meler l'Evangile
dans l'instruction des moeurs, et vouloir que la vertu ai son fondement dans la piété.
Que l'humilité chrétienne n'est qu'une bassesse 2'esprit; et que ce que nous appellons
orgueil, dans les Payens et les Philosophes, est la véritable grandeur de courage. Aussi
n'entend-on parler ces gens-là, que des Socrates et des Catons, des Césars et des
Alexandres, et de tous ces autres grands hommes de l'antiquité, dont ils trouvent
que le nom seul est capable d'inspirer un secret amour de la vertu ». (in Oeuvres,
t. X, pp. 129-130).
23 H. BRÉMOND, Histoire littéraire du senttment religieux en France, Paris, Bloud
e Gay 1929, voi. I: L'humanisme dévot, P. III, c. I, pp. 400-401.
150 FILOSOFIA MODERNA

giamenti di comodo e tendendo intelligenza e volontà nel massimo


sforzo. In questo senso anche il Giansenismo si presenta, al pari
del Libertinismo, come un movimento di élite. Anzi rimprovera a
questo di non essere stato fedele sino in fondo al proposito di as­
soluta razionalità. « Ateismo, segno di forza di mente, ma solo fino
a un certo punto - leggiamo in uno dei Pensieri di PASCAL-. Gli
empi, che fanno professione di seguire la ragione, devono essere
stranamente forti nel ragionare. Che cosa dicono dunque? "Non
vediamo forse - dicono essi - che le bestie muoiono e vivono
come gli uomini e i Turchi come i Cristiani? Hanno le loro cerimo­
nie, i loro profeti, i loro dottori, i loro santi, i loro religiosi, come
noi, ecc. ". Ciò è forse contrario alla Scrittura? Essa non dice pro­
prio questo? Se non vi preoccupate troppo di sapere la verità, tutto
questo basta per mettervi in pace. Se però desiderate veramente
con tutto il cuore di conoscerla, allora non basta; osservate i par­
ticolari. Potrebbe bastare per una questione di filosofi.a; ma qui
dove tutto è in giuoco! E tuttavia, dopo una simile riflessione di
poco impegno, ci si divertirà, ecc. Ci si informi da questa stessa
religione se alle volte non sia in grado di dar ragione di questa
difficoltà; forse ce la insegnerà » 24•
La pluralità di credenze religiose e di morali, considerata superfi­
cialmente relativizza il Cristianesimo; ma se è esaminata in pro­
fondità, fa emergere la condizione unica del medesimo. Quando
Pascal sviluppa questo disegno apologetico, non fa che dare rigore
logico ad un insieme di tesi concernenti l'attuale condizione dell'uo­
mo, che sono patrimonio comune a tutti i Giansenisti. L'uomo,
come storicamente esiste, è un insieme di grandezza e di miseria, in
quanto ha un pensiero che lo rende superiore a qualsiasi altra crea­
tura, ma trova mille ostacoli per giungere al vero; ha una volontà
che si identifica con la stessa tendenza al bene, ma è segnata da
mille debolezze nel perseguirlo. L'errore capitale, nel quale fa­
talmente è caduta la saggezza antica, è di identificare, al :fine di
sciogliere la contraddizione, un essere di questo genere con uno
solo di questi aspetti: in tal caso si perde la totalità della na­
tura umana. D'altronde la ragione umana non ha i mezzi per opera­
re una loro unione. Solo il Cristianesimo, in forza del domma del

24
PASCAL, Pensées, 360-361, in Oeuvres complètes, cit., p. 1182._
LIBERTINI E GIANSENISTI 151

peccato originale, riesce a superare la contraddizione, ponendo


grandezza e miseria non in uno stesso soggetto, ma in soggetti di­
versi e precisamente, mettendo la potenza dalla parte della grazia
e la debolezza dalla parte della natura. Il Cristianesimo dimostra
la sua verità, proprio in forza di questa sua comprensione esaurien­
te dell'uomo: « Dopo aver compreso tutta la natura dell'uomo. -
Bisogna, perché una religione sia vera, che essa abbia conosciuto
la nostra natura. Deve aver conosciuto la grandezza e. la piccolez­
za e la ragione dell'una e dell'altra. Chi le ha conosciute se non
la religione cristiana? » 25• Ma nel momento stesso in cui il domma
del peccato originale giustifica il Cristianesimo, spiega anche l'esi­
stenza di fedi e di morali diverse dalle sue: « Una volta persa la
vera natura, tutto diviene sua natura; come, una volta perso il suo
bene, tutto diventa il suo vero be.ne... Lui solo (Dio) è il suo
vero bene; e dopo che egli (l'uomo) lo ha lasciato, è strano che non
vi sia nulla in natura che non sia stato capace di prendere il
suo posto: astri, cielo, terra, elementi, piante, cavoli, porri, ani­
mali, insetti, vitelli, serpenti, febbre, peste, guerra, fame, vizi,
adulterio, incesto. E dal momento che ha perso il suo vero be­
ne, tutto può ugualmente sembrargli tale, persino la propria distru­
zione, benché cosi contraria a Dio, alla ragione e alla natura tutta
insieme » 26•
A questo punto, la tesi fondamentale dei Libertini, non solo non
regge più, ma deve essere capovolta: per loro, la vera religione
era data dalla filosofia, in quanto solo questa poteva rendere i
valori umani nella loro universalità; in realtà, la loro filosofia igno­
rava una componente fondamentale dell'uomo, di cui il Cristiane­
simo invece, non solo ricorda l'esistenza, ma dà anche spiegazione.
Per cui la religione cristiana è la vera filosofia; tanto più meri­
tevole di questa qualifica, quanto più ampia è la visione dell'uo­
mo che essa ha nei confronti di ogni altro tentativo di sondarne
il mistero: « La comune degli uomini; - quelli che sono più
elevati, i :filosofi.: essi meravigliano la comune degli uomini; - i
cristiani: essi meravigliano i :filosofi.. Chi si stupirà dunque nel
vedere che la religione non fa che conoscere a fondo ciò che si

,., Ibid., 426, p. 1202.


,. Ibid., 368, 370, pp. 1184, 1185.
152 FILOSOFIA MODERNA

riconosce tanto più quanto maggiore è la luce che si ha? » v. E


a chi obiettasse che questa super-comprensione che il Cristianesimo
dà dell'uomo è ottenuta in forza di un mistero, si deve rispondere
che, « senza tale mistero, il più incomprensibile di tutti, noi ri­
maniamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra compren­
sione prende le sue pieghe e i suoi giri in questo abisso; cosl che
l'uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto esso non
sia inconcepibile all'uomo » 28• Il che significa che il momento più
alto di razionalità è quello in cui il filosofare umano riconosce i
propri limiti per assoggettarsi alla parola di Dio.
Non avendo una comprensione completa dell'uomo, è chiaro
che i Libertini non possono neppure dettargli una morale adeguata:
quella natura che essi presentano come criterio di moralità non trova
riscontro storico, in quanto l'uomo ha perso la sua integrità. In­
vece, <� la vera religione insegna i nostri doveri, le nostre incapa­
cità: orgoglio e concupiscenza; e i rimedi: umiltà, mortificazio­
ne ». Né potrebbe essere altrimenti, giacché « la vera natura del­
l'uomo, il suo vero bene e la vera virtù, e la vera religione, sono
cose la cui conoscenza è inseparabile » 29•
Non si coglierebbe però appieno il ruolo che il domma del pec­
cato originale giuoca nella polemica che i Giansenisti conducono
contro i Libertini, se lo si riducesse alla funzione negativa di battere
il razionalismo e il naturalismo di questi. Esso serve a loro an­
che a far propria l'istanza di riforma della religione che i Libertini
avevano avanzato. Tale istanza affondava le sue radici in epoche
passate: si era espressa già nell'età del Rinascimento, e poi più
decisamente nella Riforma protestante e nella Contro-Riforma cat­
tolica e continuava a travagliare in ceti diversi e in modi diversi
le coscienze dei credenti. Ciò che merita di essere sottolineato è
un certo parallelismo esistente tra la risposta che il Gianseni­
smo le dà e la risposta dei Libertini. Là dove il deismo aveva
salvato alcuni elementi essenziali della religione, si era auspicato
un ritorno alla semplicità e all'interiorità propria della religiosità
naturale e il superamento delle sovrastrutture apportate dalle
varie religioni positive. I Giansenisti, con perfetta coerenza, svi-

n lbid., 427, p. 1203


21
lbid., 438, p. 1208.
"" lbid., 435, 428, pp. 1204, 1203.
LIBERTINI E GIANSENISTI 153

luppano la tesi del Cristianesimo come unica religione vera in


quella della sua riforma in forza di un richiamo alle origini. Ma
per loro, Cristianesimo dei primi tempi significava Cristianesimo
dei Padri della Chiesa e dei Concili, ossia un Cristianesimo la
cui dottrina si alimentava con la Sacra Scrittura e non indulgeva
alla speculazione teologica e la cui pratica morale rispecchiava
gli ideali di perfezione evangelica. Ora, un simile Cristianesimo
trovava nei due dommi del peccato originale e della grazia i suoi
punti di forza. La Scrittura non aveva forse come oggetto sostanzia­
le del suo insegnamento l'economia divina della salvezza come ri­
parazione del decadimento dell'uomo? E il merito di S. Agostino,
che i Giansenisti considerano il più grande dei Padri, non era stato
quello di avere difeso contro i Pelagiani il principio dell'assoluta
necessità della grazia per ogni opera utile alla salvezza? Se la
Chiesa primitiva presenta un alto esempio di distacco dal mondo
è perché essa accetta con sincerità quei precetti di rinuncia e di
mortificazione che conseguono dal sapere che l'uomo è un essere
che ha perso il suo equilibrio interiore, che gli era assicurato
dall'amore di Dio, ed è facile preda dell'amore di sé e delle pas­
sioni.
Di qui i due fronti sui quali i Giansenisti combattono. Sul piano
della teologia dommatica, essi si oppongono in genere a quella cor­
rente di teologi e di autori religiosi che solitamente viene qua­
lificata come « Umanesimo devoto ». Alcuni dei suoi esponenti
- si pensi, ad esempio, ad YvEs DE PARIS -, preoccupati di mo­
strare, nei confronti dei Libertini, che esisteva una continuità tra
natura e soprannaturale, tanto che il secondo doveva considerarsi un
inveramento della prima; che il Cristiano non era che la perfetta
maturazione dell'« honnete homme », finivano per dar l'impres­
sione che la grazia fosse solo un soprappiù che si aggiungeva ad una
natura già in sé completa. Contro costoro, i Giansenisti rivendi­
cano il significato del cristiano come « nova creatura », ossia co­
me essere radicalmente trasformato dalla grazia; tanto più radical­
mente trasformato quanto più profondo è l'abisso di disordine dal
quale è stato tolto. Ma è soprattutto contro i Molinisti che es­
si combattono: la concezione che questi hanno della grazia, la cui
efficacia dipenderebbe semplicemente dal buon volere dell'uomo,
appare a loro come un ritorno, se non proprio al Pelagianesimo,
certo al Semi-Pelagianesimo. Sul piano della morale, il nemico dei
154 FILOSOFIA MODERNA

Giansenisti è il casuista; non quello che, fondandosi sulla virtù


morale della prudenza, cerca di fare dei precetti cristiani una ap­
plicazione adeguata alla complessità delle situazioni particolari, ma
il probabilista, che si serve di ogni opinione in materia morale
per dispensare le anime dagli impegni più seri e più costosi, con
la conseguenza di favorire l'instaurarsi di una pratica religiosa
che spesso non trova riscontro nell'emendamento della vita e che
in alcuni casi diventa addirittura superstizione. Logicamente con­
nesse con queste riforme, perché sempre rispondenti alla preoccu­
pazione che la concupiscenza delle origini non torni a dominare nel­
l'uomo, sono quelle che il Giansenista va patrocinando in materia di
disciplina ecclesiastica. Gli interessa soprattutto il modo con cui
l'autorità deve essere esercitata nella Chiesa: essa deve rivelare
la sua funzione di evangelico servizio e non il desiderio umano
di potere, che non rispetta la libertà delle coscienze e toglie spa­
zio per ogni effettiva collaborazione.
Riassumere in tutto il suo significato e in tutte le sue conseguen­
ze il domma del peccato originale come principio di una riforma
del Cattolicesimo significava trovarsi dinanzi un insieme di pro­
blemi concernenti la parte che ancora spettava alle risorse umane
nell'opera della salvezza. Anche questo interrogativo era di vecchia
data: le risposte ottimistiche che esso aveva ottenuto da certe
correnti della teologia rinascimentale avevano provocato la reazio­
ne pessimistica della Riforma e il concilio di Trento aveva fissato
alcuni punti che permettessero una posizione di equilibrio tra le
dottrine che misconoscevano il ruolo di protagonista da assegnarsi
all'azione di Dio nella salvezza dell'uomo e quelle che praticamen­
te annullavano la collaborazione di questo, presentandone la natura
come intrinsecamente corrotta. Mentre i teologi disputavano sulle
questioni rimaste in sospeso, si avvertiva sempre più nettamente
una necessità: quella di creare una spiritualità, ossia un modo di
vivere il Cristianesimo, che permettesse alla dottrina conciliare sul
peccato e sulla grazia di inserirsi nelle aspettative e nei bisogni
religiosi del momento. Su questo punto i Giansenisti pensano
di avere una loro parola da dire; ma proprio su questo punto il
fronte giansenista perde la sua unità e i riscontri che induce a fa­
re col mondo dei Libertini diventano complessi.
Il Giansenismo della prima fase, quello che ha i suoi espo-
LIBERTINI E GIANSENISTI 155

nenti in SAINT-CYRAN, BARCOS 30, PASCAL, Le Madri .ANGELICA e


AGNESE ARNAULD, e che gli studiosi qualificano come« estremista»,
ha una visione nettamente svalutativa delle realtà terrene 31• Il
mondo è un nulla davanti a Dio e l'uomo è un « doppio nulla», in
quanto al nulla che caratterizza il suo essere si aggiunge quello
scavato in lui dal peccato. Naturalmente chi faceva le spese di
questo pessimismo era innanzitutto la ragione umana. SAINT-CYRAN
interviene con la sua Somme des fautes a difendere lo scettico
Charron contro il gesuita Garasse. Questi aveva sostenuto nella
Somme Théologique che si hanno a disposizione, per dimostrare
l'esistenza di Dio, argomenti talmente validi da darci una sicurezza
pari a quella che avremmo se lo vedessimo faccia a faccia. Il maestro
di Port-Royal ribatte che la debolezza della nostra ragione, che si
manifesta già nelle conoscenze naturali, tanto da impedirci di co­
gliere le cose nei loro elementi essenziali, appare ancor di più in
tutte quelle materie che concernono Dio; cosi che in esse biso­
gna << far spazio non tanto alla percezione dei sensi e alla filoso­
fia umana, quanto a quella comprensione interiore che ci viene
dalla sola rivelazione, la quale il più delle volte capovolge quan­
to concepiamo di Dio in forza della semplice ragione». E qui
egli riprende tutte le difficoltà, mess� in evidenza da Charron,
che esistono a conciliare lo spettacolo di tante cose negative che
il mondo ci offre con l'idea di giustizia che noi abbiamo e secon­
do la quale saremmo portati a concepire la Provvidenza. La reli­
gione quindi verrebbe meno al suo compito se non facesse vedere
all'uomo la pochezza della sua mente e, assieme a questa, tutte le

30
]EAN-AMBROISE DUVERGIER DE HAURANNE, A.BBATE DI SAINT-CYRAN (1581-1643).
Amico personale di Giansenio, che segue nella composizione della sua opera, I'Augu­
stinzis ( 1640) di cui prende la difesa, è l'iniziatore della spiritualità giansenista, che
diffonde tra le religiose di Port-Royal e che espone soprattutto nell'opera Théologie
familière. Suggerisce ad Arnauld il libro De la fréquente communion e ne diviene il
direttore spirituale. MARTIN DE BARcos, ABBATE DI SAINT-CYRAN (1600-1678). Nipote
del precedente e capo del gruppo cosiddetto estremista del Giansenismo, rimane sino
attorno al 1660 l'ispiratore di Port-Royal per poi cedere dinanzi ad Arnauld. Il suo
Epistolario è interessante come documentazione dei contrasti sorti in seno alla cor­
rente giansenista.
31 Sulle varie tendenze in seno al Giansenismo, si vedano i lavori di Luc1EN
GoLDMANN, Le Dieu caché, Paris 1956 e Co"espondance de Martin de Barcos abbé
de Saint-Cyran avec les Abbesses de Port-Royal et les principaux personnages du
groupe Janséniste, Paris 1956, sia pure con tutte le riserve che si debbono fare su
altri loro aspetti fondamentali; e quelli di ]EAN 0RCIBAL, raccolti sotto il titolo, Les
origines du ]ansénisme, Paris 1947-1948. Utile anche: RENÉ TAVENAUX, ]ansénisme
et Politique, Paris 1965.
156 FILOSOFIA MODERNA

altre miserie che segnano la sua volontà, giacché « scopo della reli­
gione è di far sentire all'uomo il suo male, la sua debolezza, il
suo nulla e con questo farlo correre a Dio, suo bene, sua forza,
suo tutto » 32• Come si vede, si tratta della convinzione che la
tesi Libertina dello Scetticismo come introduzione alla rivelazione
possa essere assunta con piena serietà dal credente. PASCAL conti­
nuerà su questa strada, aggiungendo solo maggior rigore di me­
todo: il punto sul quale egli farà forza sarà la dimostrazione che
lo Scetticismo, al pari del dommatismo, è una delle posizioni fon­
damentali sulle quale l'intelligenza umana è continuamente ri­
dotta e nella quale, come nell'altra, è impossibilitata a rimanere;
per cui, ancora una volta, la contraddizione non può essere risolta
se non col potere conciliante della parola di Dio.
La concessione pessimistica del mondo dettava un'ascesi del
completo distacco da esso. « Dio - scriveva ancora Saint-Cyran -
vuole avere la totalità in tutte le cose e non c'è nulla che maggior­
33
mente l'offenda dello spartire con lui » • Per cui quello che non
si concede a Dio è concesso al male, « giacché il diavolo riempie ciò
che non è riempito da Dio, non essendoci vuoto nelle operazioni
della grazia, allo stesso modo che non ve n'è in quelle della natu­
ra » 34• L'odio del mondo diviene cosl l'altra faccia e la misura del­
l'amore di Dio; per cui la condizione ideale per il cristiano è
quella del monaco e solo necessità di fatto, volute da Dio, possono
giustificare la presenza di eletti anche in altre condizioni. L'ab­
bandono del mondo significa, in questo caso, anche sfiducia nelle
possibilità di migliorarlo, sia nelle istituzioni sociali e politiche,
sia negli aspetti umani delle stesse istituzioni religiose che in es­
so sono presenti, come la Chiesa. BARCOS disapprova tutto quan­
to è stato fatto e si fa da parte del gruppo arnoldiano per difen­
dere l'ortodossia dei discepoli di S. Agostino presso l'autorità
romana, i libri che ne sono venuti, le polemiche nelle quali ci
si è messi: tutto ciò vuol dire per lui trascinare la verità su un
piano di lotta che non le è congeniale, perché è quello della po­
tenza umana, e dal quale non può uscire che umiliata. Ancora

" SAINT-CYRAN, Somme des fautes et faussetez principales contenues en la Somme


théologique du P. Garasse, t. Il, pp. V, 400-403.
" J. 0RCIBAL, J. Duvergier De Hauranne, Abbé de Saint-Cyran et son temps,
Paris 1947, p. 598.
34
SAINT-CYRAN, Lettres inédites, Paris 1962, p. 55.
LIBERTINI E GIANSENISTI 157

una volta, il risultato è di coincidere con una delle tesi caratte­


ristiche del Libertinismo. Per il Libertino, i precetti evangelici
di umiltà e di mortificazione possono essere adeguati per la forma­
zione di un monaco, non per quella di un uomo che voglia man­
tenere competitività nel mondo; e questa costatazione li squalifica
dal punto di vista della capacità di rendere tutti i valori umani.
Per il Giansenista estremista invece, proprio perché il monaco rap­
presenta il tipo perfetto di uomo, l'incapacità dei valori evangelici
di farsi accettare dal mondo squalifica questo, rivelandolo nel suo
niente. Le motivazioni sono profondamente diverse, ma la con­
clusione è uguale: netta separazione tra realtà sociali e realtà reli­
giose. È curioso il fatto che Saint-Cyran nel sostenere tale separa­
zione fosse passato, nel corso della sua vita, da un tipo di motiva­
zioni all'altro. Quando nel 1615, prima della sua conversione, scri­
veva !'Apologie pour Messire H. L. Chastaigner de La Roche­
Pozay, éveque de Poictier, egli poneva esplicitamente la questione
se le virtù cristiane potessero ancora rappresentare un modello per
il suo tempo e non aveva esitazioni nel rispondere che i consigli
evangelici non possono considerarsi dei valori assoluti da proporsi
in ogni tempo, ma furono adeguati solo alla Chiesa primitiva, che
era nel pieno della sua giovinezza e del suo vigore spirituali; mu­
tati in peggio i tempi, debbono essere ridimensionati anche i mo­
delli, giacché « les vertus sont camme les arbres qui ont chacun
leur farce et leur influence en certains mois ».
Questo tipo di Giansenismo che cerca di mettere a profitto al­
cune tesi del Libertinismo è declinank attorno alla metà del secolo,
mentre fa sentire sempre di più il suo influsso a Port-Royal la
corrente che gli studiosi qualificano come « centrista » e che ha co­
me maggiori suoi esponenti ARNAULD e NICOLE 35• Costoro, pur
non togliendo nulla al principio del decadimento dell'uomo in con­
seguenza del peccato originale, non ritengono che le realtà terrene
in genere e quelle umane in particolare siano un nulla, confrontate
a quelle divine; anzi sostengono che « on doit d'autant moins les
négliger qu'on ne les regarde dans des vues chrétiennes », giacché

35 P:IERRE NICOLE (1625-1695). Collaboratore assiduo di Arnauld che segul per


qualche tempo quando si rifugiò nei Paesi Bassi. A lui si deve la raccolta del mate­
riale delle Provinciali di Pascal, che tradusse poi in latino sotto il nome di Wen­
drock. Le sue opere maggiori sono la Perpetuité de la foi de l'Eglise touchant l'Eucha­
ristie e gli Essais de morale.
158 FILOSOFIA MODERNA

non hanno perso la capacità di diventare strumenti di salvezza. So­


prattutto essi vedono la pericolosità del tentativo di edificare una
apologia del Cristianesimo sulla base dello Scetticismo; e questo
perché l'affermata incapacità della ragione a dare certezza circa le
fondamentali verità religiose e morali di ordine naturale è passi­
bile di una doppia lettura: può essere interpretata come superiorità
della rivelazione nei confronti della ragione, ma anche come moti­
vo per concludere all'irrazionalità della medesima. E i Libertini
della seconda metà del secolo battevano questa seconda strada,
attaccando direttamente il domma cristiano: Bayle e Fontenelle lo
avrebbero mostrato chiaramente. Era necessario allora un diverso
modo di fare apologetica - e la scarsa eco che quella pascaliana
otteneva in quel momento ne era una conferma 36 -, che si aprisse
il varco tra due estremi opposti: quello della credulità, ossia l'at­
teggiamento di chi non sa dubitare là dove si deve, ma tiene buona
qualsiasi ragione, demolito dai Libertini. e quello dello Scetticismo,
ossia l'atteggiamento di chi ha preso talmente gusto a dubitare,
da non saper più riconoscere il vero quando si presenti. Il cre­
dente cioè deve essere in grado di mostrare che « benché si sia
obbligati a sottomettere il nostro intelletto per obbedire a Gesù
Cristo, come dice San Paolo, non lo facciamo tuttavia ciecamen­
te e in modo irragionevole - cosa che sta all'origine di tutte
le false religioni -, ma con conoscenza di causa e perché è un
atto ragionevole assoggettarsi in questo modo all'autorità di Dio,
quando egli ci abbia fornito prove sufficienti, come i miracoli
e altri avvenimenti prodigiosi, che ci obbligano a credere che sia
stato lui stesso a svelare agli uomini quelle verità che dobbiamo
credere » n_ In fondo, credulità e Scetticismo, pur così diversi,
nascono da una medesima carenza, giacché « i due disordini dello
spirito che sembrano opposti, l'uno che porta a credere con leg­
gerezza ciò che è oscuro ed incerto e l'altro a dubitare di ciò che
è chiaro e certo, hanno tuttavia lo stesso principio, che è la negli­
genza nel rendersi attento quanto è necessario per discernere la
verità » 38• Di quì l'assunzione che Arnauld e Nicole fanno della

36
Sullo scarso successo avuto dai Pensieri di Pascal in quel tempo si veda H.
BussoN, La religion des classiques, Paris 1948, c. XIII: L'influence de Pascal.
37 ARNAULD-NICOLE, La _Logique, P. IV, c. XII, Paris 1965, p. 337.
" Ibid., I Disc., p. 19.
LIBERTINI E GIANSENISTI 159

filosofia cartesiana, il cui metodo appare a loro come lo strumento


più adatto per ottenere un simile obiettivo: la Logique, che essi
compongono in collaborazione, è il segno più convincente di questa
loro fiducia.
Banco di prova della capacità di costruire una scienza certa, che
il metodo cartesiano si attribuiva, era la fisica. E qui gli espo­
nenti del Giansenismo centrista vedono la possibilità di inflig­
gere un colpo veramente mortale al Libertinismo. Il meccanicismo,
che riduceva il mondo materiale ad estensione capace di figure e di
movimento, non lasciava più spazio per il Naturalismo, in quanto,
da una parte, privava il mondo di ogni attributo divino e, dall'al­
tra, poneva una netta distinzione tra corpi e spiriti, che preludeva
alla conclusione dell'immortalità dei secondi. Arnauld e Nicole
fanno di questo punto il loro cavallo di battaglia nella lotta con­
tro i Libertini: con Cartesio, a loro giudizio, la spiritualità del­
l'anima ha trovato una dimostrazione scientificamente inoppugna­
bile. E quando Le Moine, nel suo Traité de l'essence du corps, et
de l'union de l'ame avec le corps, contre la philosophie de M. De­
scartes, faceva notare che il modo col quale la distinzione tra anima
e corpo era stata fondata comprometteva la possibilità di spiegare
la loro unione, Arnauld rispondeva che, posto anche che ciò fosse
vero, non veniva meno il grandissimo merito di Cartesio di aver
chiuso la bocca a certa gente che cosl descriveva: « Si tratta di
persone che non vogliono accettare se non ciò che può essere cono­
sciuto con la luce della ragione; che hanno una completa ripugnan­
za ad incominciare col credere; per i quali tutti coloro che fanno
professione di pietà sono sospetti di debolezza d'animo e che si
precludono ogni entrata alla religione in forza del pregiudizio nel
quale si trovano, e che per la maggior parte di loro è una conseguen­
za della corruzione dei loro costumi, che tutto quanto si dice
dell'altra vita non ha consistenza e che tutto muore col corpo » 39•
La visione più equilibrata che la corrente arnoldiana aveva del­
le realtà naturali la portava a predicare un'ascesi che non aveva
come unica via l'abbandono del mondo. Ancora una volta, essa
avverte il pericolo che la tesi contraria comporta: una virtù che,

39 ARNAULD, Examen d'un écrit qui a pour titre: Traité de l'essence du corps,
et de l'union de l'ame avec le corps, contre la philosophie de M. Descartes, P. IV, in
Oeuvres, t. XXXVIII, p. 136.
160 FILOSOFIA MODERNA

per ottenere la sua perfezione, deve estraniarsi da ogni impegno


terreno, :finisce per non riscuotere più dall'uomo alcun interesse,
perché gli appare come estranea; proprio quello che i Libertini
suggerivano. La perfezione cristiana deve invece mostrare la sua
validità convenendo per natura, e non per semplice necessità di
fatto, con ogni occupazione e con ogni condizione. Per questo i
Giansenisti centristi sono fiduciosi nella lotta condotta nel mondo
per la verità e per la giustizia, al fine di migliorarlo. « Si deve dire -
scriveva Nicole nel suo Traité de l'oraison - che un principe cri­
stiano è un uomo che prega e che governa uno stato; che un ge­
nerale d'armata cristiano è un uomo che prega e che conduce una
armata; che un magistrato cristiano è un uomo che prega e che ren­
de giustizia al popolo; che un artigiano cristiano è un uomo che
prega e che lavora ad un mestiere... La preghiera entra in tutte le
vocazioni e le santifica tutte. Senza di essa non sono che occupazioni
profane e pagane e spesso sacrileghe, ma con la preghiera esse
divengono cristiane e santificanti » 40• Non ci potrebbe essere ca­
povolgimento di prospettiva più netto: per la corrente estremista,
il cristiano deve uscire da ogni impegno terreno per entrare nella
preghiera, che è lo spazio di Dio; qui è la preghiera che entra in
ogni occupazione umana per farne uno strumento di santificazione.
Così Libertini e Giansenisti si richiamano e si oppongono in
un giuoco complesso di rimandi; due possibili soluzioni di un'uni­
ca crisi che segna il loro tempo.

"° NICOLE, Traité de l'oraison, 1679, p. 13.


CAPITOLO SESTO

B. PASCAL
(1623-1662)

Come abbiamo visto anche a proposito di Cartesio e come L.


Verga ha ricordato, c'è nella Facoltà di Teologia di Parigi, verso
la metà del secolo XVII, una corrente che promuove un ritorno
alla teologia positiva e rimprovera alla teologia scolastica di aver
corrotto il dogma e favorito il lassismo in morale: di essere una
ricaduta nel pelagianesimo. Si propugna quindi un ritorno ai Pa­
dri e in particolare a S. Agostino: a S. Agostino filosofo, a un fi.
losofo, però, che filosofa en manière chrétienne, e a S. Agostino
dottore della Grazia. Al S. Agostino filosofo ci si poteva richiama­
re anche seguendo Cartesio, come fa Malebranche; al S. Agostino
della Grazia, seguendo i Giansenisti, si richiama Pascal.

'' L'ediz. critica completa delle opere di Pascal è quella di Brunschvicg Boutroux
e Grazier in 14 voll., Parigi, Hachette, 1904-14. Utile la cosi detta ediz. Brunschvicg
minor, Parigi, Hachette (varie ristampe) che contiene Pensées et opuscules. È l'edi­
zione di cui mi servo. (Abbreviaz.: Br. min.)
Una buona traduzione italiana dei Pensieri è quella edita da Bietti, Milano, 1965,
con introduzione di Ambrogio ALBERTI.
La bibliografia su Pascal è immensa. Fino al 1925 si veda A. MAIRE, Bibliographie
générale des oeuvres de Pascal, Parigi, 1925, 5 voll. Mi limito a ricordare: P.
SERINI, Pascal, Torino, Einaudi, 1942; E. BAUDIN, La philosophie de Pascal, Neuchatel,
1946, 4 voll.; P. MESNARD, Pascal, Parigi 1951 (Mesnard ha iniziato anche una edi­
zione delle opere di P. B. PASCAL, Oeuvres complètes; ne sono usciti, che io sappia,
due volumi, Paris, Desclée De Brouwer, 1964). Amplissima bibliografia e storia della
critica pascaliana nella Introduzione a Pascal di A. BAUSOLA, Bari, Laterza, 1973.
162 FILOSOFIA MODERNA

1. Vita e opere

La sorella di Pascal, Gilberte Périer, ci ha lasciato una Vita


di B. Pascal (Brunschvicg minor, pagg. 1-40) scritta poco dopo
la morte del fratello. Fu pubblicata la prima volta nel 1684, a
Amsterdam e fece una notevole impressione. Bayle scrisse: « Cento
volumi di prediche non valgono quanto questa biografia, e sono
molto meno efficaci per disarmare i non credenti (les impies) ».
(Cit. in Br. min., p. 1).
Pascal nacque nel 1623 e fu educato e istruito dal padre. Anzi
nel 1631 il padre lasciò l'ufficio pubblico che aveva a Clermont
e andò a Parigi dove si dedicò completamente all'istruzione di Bia­
gio. A Parigi, Pascal poté avere contatto coi più illustri scienziati
del tempo. Ma, secondo Gilberte, la passione di Biagio per la ma­
tematica si sarebbe manifestata spontaneamente, quando ancora
il padre non gliela insegnava, perché voleva che imparasse prima
il latino e il greco. Secondo Gilberte, Pascal avrebbe addirittura
riscoperto da solo tutta la geometria, secondo un'altra testimonian­
za avrebbe letto Euclide di nascosto e lo avrebbe capito da solo,
il che è più verosimile. Dopo che il padre se ne fu accorto, gli die­
de il permesso di studiare la matematica, anzi lo condusse regolar­
mentè alle riunioni di scienziati che si tenevano presso il P. Mer­
senne. Pascal manifestò un vero genio matematico e già a 16 anni
scrisse un Traité des Coniques. Gilberte dice che il fratello con­
tinuava a studiare il latino e il greco « ed oltre a ciò, durante o
dopo il pasto, mio padre lo intratteneva ora sulla logica, ora sulla
fisica e sulle altre parti della filosofia; non ebbe altri insegnamenti
all'infuori di questi, poiché non aveva frequentato un collegio né
aveva avuto altri maestri, né in queste né in altre discipline » (Br.
min., p. 8 ). Continuò invece gli studi matematici e a diciotto anni
inventò una macchina calcolatrice e la fece costruire, ma questo
sforzo intellettuale gli rovinò la salute.
A ventitré anni, avendo appreso l'esperienza di Torricelli,
fece esperienze sul vuoto e preparò un Trattato sul vuoto. Non ne
uscirono, se non più tardi (nel 1663) che due estratti: De l'équili­
bre des liqueurs e De la pesanteur de l'air. Ma ci resta un Fram­
mento del trattato sul vuoto del 1647, che è interessante perché
ci fa vedere l'atteggiamento di Pascal per quel che riguarda la co­
noscenza scientifica. È il medesimo atteggiamento che troviamo
PASCAL 163

in Galileo, in Bacone, in Cartesio. Quando si tratta di fisica, di


studio della natura, è vano rivolgersi agli antichi, per sapere che
cosa abbiano pensato: la testimonianza degli altri, degli antichi,
servirà per le conoscenze storiche, non per la fisica. Ma da questo
atteggiamento novatore, necessariamente novatore, in fisica, Pa­
scal, a differenza di Cartesio, non trae nessuna velleità di rifor­
mare la metafisica. Uno dei motivi di questo atteggiamento può
forse ritrovarsi nell'educazione del padre che, dice Gilberte, aven­
do un gran rispetto per la religione, lo aveva ispirato al figlio
« dandogli per massima che tutto ciò che è oggetto di fede non può
essere oggetto della ragione, e tanto meno esserle sottomesso »
(Br. min., p. 11 ). « E cosi quello spirito cosi grande, cosi vasto
e pieno di curiosità, che cercava con tanto impegno la causa e la
ragione di ogni cosa, era tuttavia sottomesso a tutte le cose della
religione come un fanciullo; e questa semplicità regnò in lui per
tutta la vita; sl che, anche quando prese la risoluzione di non de­
dicarsi ad altro studio fuorché a quello della religione, non si ap­
plicò mai alle questioni curiose della teologia, e mise tutte le for­
ze del suo spirito a conoscere e a praticare la perfezione della mo­
rale cristiana... » (ibid).
Nel 1646 il contatto con Guillebert, parroco di Ronville, che
diventò direttore spirituale di tutta la famiglia Pascal, e che era
giansenista, determinò quella che si suole chiamare la prima con­
versione di Pascal. Pascal era sempre stato religioso, ma da quel
momento decise, secondo Gilberte, di rinunciare alle soddisfazio­
ni mondane e di dedicarsi totalmente alla ricerca di Dio. Continuò
però i suoi studi scientifici, a Parigi si incontrò con Cartesio (1647)
col quale ebbe discussioni sul vuoto. Contemporaneamente si re­
cò dai « solitari » di Port-Royal ed ebbe colloqui con uno di loro,
Singlin. In Giansenio e nei giansenisti Pascal trovò la svaluta­
zione della ragione e della filosofia: per Giansenio la teologia deve
essere fondata solo sull'autorità non sulla ragione.
Nel 1651 morl il padre di Pascal; la sorella Jacqueline, dopo
esserne stata ostacolata dal fratello, entrò come monaca a Port
Royal (1652). Cominciò invece per Biagio un periodo « monda­
no » durante il quale Pascal divise il suo tempo fra la ricerca scien­
tifica e le conversazioni, il divertissement, con le persone di mon­
do. Uno di questi « mondani », il Cavaliere di Méré, ci ha lasciato
una versione un po' strana, e probabilmente non del tutto atten-
164 FILOSOFIA MODERNA

dibile, del rapido mutamento di Pascal che, dall'atteggiamento di


totale astrazione nelle matematiche, sarebbe passato all'apprezza­
mento delle qualità che fanno l'uomo di mondo, I'honnéte hom­
me, nel linguaggio di allora.
« Al di sopra delle regole, della riflessione, Méré pone qual­
che cosa che egli si rifiuta di definire e a cui dà i nomi di senti­
mento, di cuore, di esperienza e di istinto, tutti nomi che si ri­
troveranno con frequenza sotto la penna di Pascal» (Br. min.,
p. 116). Essere honnéte homme o galant homme vuol dire aver
tatto, saper trattare gli uomini, avere senso del concreto. Altro
personaggio col quale Pascal ebbe a che fare in questo periodo
fu Miton, mondano disincantato e pessimista, che suscitò l'am­
mirazione di Pascal.
Forse appartiene al periodo mondano di Pascal, se è di lui, il
Discours sur les passions de l'amour, nel quale troviamo già la di­
stinzione fra esprit géométrique e esprit de finesse, che sarà ri­
presa nei Pensieri. Ma qui l'esprit de finesse sembra applicarsi solo ai
sentimenti umani. « Vi sono due atteggiamenti spirituali (deux sortes
d'esprit), vi si dice, uno geometrico e uno che si può chiamare
esprit de finesse. II primo ha le viste lente, dure e inflessibili; ma
il secondo ha una agilità di pensiero che applica insieme alle di­
verse parti amabili dell'oggetto che ama. Dagli occhi va fino al
cuore e, dai moti esteriori conosce ciò che avviene dentro» (Br.
min., p. 125). È l'intuito contrapposto alla ragione che astrae e
che discorre. « A torto si nega il nome di ragione all'amore, e si
oppongono queste due cose senza buon fondamento, poiché amo­
re e ragione sono le medesime cose» (Br. min., p. 133). L'amore
è più rapido (c'est une précipitation de pensées) ma è sempre pen­
siero, e se non avessimo l'amore saremmo « sgradevoli macchine».
Nel 1654 ha luogo la seconda e definitiva conversione di Pa­
scal. Gilberte, nella sua Vita, l'attribuisce all'influenza di Jacque­
line. Il 23 novembre 1654 Pascal ebbe una illuminazione interiore
di cui è testimonianza uno scritto che portò sempre cucito nella
veste e che ll fu trovato dopo la sua morte. È il famoso memoriale
del 23 novembre 1654. Da allora la sua vita fu tutta dedicata alla
preghiera, alla lettura della Bibbia, alla mortificazione. Si ritirò in
campagna, poi in una casa vicina a Port Royal, fra i « solitari».
Gilberte ci parla commossa del suo spirito di povertà e di morti­
ficazione.
PASCAL 165

Nel 1656 la guarigione miracolosa di Margherita Périer, figlia


di Gilberte, richiamò Pascal alla considerazione dei miracoli co­
me argomento per combattere gli atei e per una Apologia del
Cristianesimo. Si sa che i Pensieri di Pascal sono frammenti che
avrebbero dovuto servire per questa Apologia.
L'atmosfera a Port Royal e intorno a Port Royal era permeata
dalfo. controversia fra Giansenisti e Gesuiti e Pascal partecipò alla
polemica contro i Gesuiti con le sue Lettere a un provinciale.
Morì il 19 agosto del 1662, dieci mesi dopo la morte della
sorella Jacqueline.

2. Stoicismo e scetticismo

Quando Pascal si ritirò a Port Royal, dopo la conversione de­


finitiva, fu affidato da Singlin, che già lo conosceva, alla direzione
di M. De Saci, e, all'inizio della sua conversione, ebbe con Saci
un colloquio su Epitteto e Montaigne, di cui Fontaine ci ha con­
servato il resoconto, e che ci interessa per farci conoscere le opi­
nioni di Pascal sulla filosofia. Pascal apprezza Epitteto (e in Epitte­
to lo stoicismo in genere) per la sua dottrina morale, che pre­
dica il distacco e la rinuncia. « Epitteto è uno dei filosofi che han­
no meglio conosciuto i doveri dell'uomo» (Br. min., p. 148). Vuo­
le che l'uomo si rassegni alla perdita di ciò che gli è più caro, si
sottometta agli avvenimenti che la Provvidenza gli manda, abbia
sempre presente il pensiero della morte (p. 149). Epitteto ha co­
nosciuto bene i doveri dell'uomo, - cioè ha saputo delineare un
ideale in cui consiste la grandezza dell'uomo - ma non ne ha
conosciuta la debolezza; se avesse conosciuto ugualmente bene gli
uni e l'altra avrebbe meritato di essere adorato come Dio (il sot­
tinteso è: solo Cristo, che è Dio, ha conosciuto ugualmente bene
ciò che l'uomo deve fare e la sua incapacità a farlo). Invece Epit­
teto ha creduto che con la sua sola intelligenza e volontà l'uomo
fosse capace di compiere il suo dovere. I principi stoici sono « di
una superbia diabolica» (Br. min., p. 150). Da questa superbia
nascono poi gli errori degli stoici: il panteismo, la giustificazione
del suicidio.
Montaigne invece ha il merito di sottolineare la debolezza
della ragione umana; col suo « pirronismo », ossia col suo scetti-
166 FILOSOFIA MODERNA

cismo in filosofia, serve a combattere gli eretici. Fa vedere che


non c'è nessuna conoscenza sicura in metafisica. (Br. min., p. 153).
E non solo in metafisica; ma neppure in geometria. « Rimprovera
così fortemente e crudelmente la ragione priva della fede che, fa­
cendole dubitare perfino della sua ragionevolezza... la fa scendere
dall'altezza che essa si attribuisce e la mette per grazia a parallelo
delle bestie, senza permetterle di uscire da tale piano fin quando
non sia istruita dal suo Creatore » (Br. min., p. 155). E siccome
Saci manifesta la sua indifferenza difronte al profano Montaigne
e si attacca esclusivamente al suo S. Agostino, Pascal incalza: « Vi
confesso, Signore, che non posso vedere senza gioia in questo
autore (Montaigne) la superba ragione così invincibilmente battuta
con le sue proprie armi, e questa rivolta sanguinosa dell'uomo
contro l'uomo che, dalla comunione con Dio alla quale si innal­
zava con le massime della sua debole ragione, lo precipita verso la
natura delle bestie » (Br. min., p. 157). Montaigne col suo scetti­
cismo è dunque un antidoto alla superbia degli stoici. Ma è di
gran lunga inferiore a loro per la morale, ha una morale rilassata,
edonistica. L'errore comune agli Stoici e a Montaigne è di non aver
conosciuto il peccato originale: gli uni (Stoici) perché hanno con­
siderato la natura umana come sarebbe se l'uomo non avesse pec­
cato, l'altro perché ha fatto osservare lo stato attuale di miseria
prendendolo per lo stato naturale e normale dell'uomo. Se si bada
solo alla grandezza dell'uomo si cade nell'orgoglio, come gli Stoici;
se si bada solo alla sua attuale miseria come Montaigne, si cade
nella pigrizia. Il Cristianesimo è vero ed è divino, perché fa co­
noscere la grandezza e la miseria dell'uomo.

3. Il potere della ragione

Pascal non ha dunque fiducia nella ragione umana come organo,


diciamo cosl, per risolvere il problema della vita.
La ragione si identifica per Pascal con l'esprit géométrique:
« ce qui passe la géométrie nous surpasse » (De l'esprit géomé­
trique, Br. min., p. 165). La geometria è l'unica vera applicazione
della logicità. Solo i geometri applicano davvero le regole logiche
(ibid., p. 101), le quali, dai logici, sono trattate solo approssimativa­
mente e per caso (p. 192). La logica ha forse assunto le sue re-
PASCAL 167

gole dalla geometria senza capirne la forza (p. 194). « Il metodo


per non cadere in errore è cercato da tutti. I logici fanno pro­
fessione di condurvi, i geometri soli ci arrivano e, fuori dalla loro
scienza e di ciò che la imita, non vi sono vere dimostrazioni »
(p. 164). Da notare, anche su questo punto, l'accordo con Gali­
leo: anzi Pascal va più in là di Galileo perché critica come inutili
le regole del sillogismo. La geometria invece insegna coi suoi
esempi come debba procedere la ragione per dimostrare la verità
(p. 164).
Come ideale è pensabile un metodo ancora più alto di quello
geometrico, ma è un ideale inattuabile nella conoscenza umana.
Pascal vuol tuttavia indicare quale sarebbe questo ideale, prima di
parlare del metodo geometrico. L'ideale consisterebbe nel definire
tutti i termini usati nel ragionamento e nel dimostrare tutte le pro­
posizioni: tout définir et tout prouver (p. 167). Ideale inattuabile,
perché i concetti primitivi non si possono definire e i principi pri­
mi non si possono dimostrare (p. 167). Il metodo geometrico è
inferiore a questo ideale, perché suppone concetti non definiti e
assiomi non dimostrati; è però il metodo più perfetto, fra quelli
accessibili all'uomo, perché suppone soltanto « cose chiare e che
constano alla luce naturale». La geometria non definisce che cosa
siano lo spazio, il tempo, il moto, il numero, l'uguaglianza, perché
questi termini hanno un significato cosl naturale, che è inutile de­
finirli (p. 168 ). Uno potrebbe pensare che, certo, la geometria non
deve definire cosa siano spazio, tempo e moto, ma che potrebbe
essere un'altra indagine, l'indagine :filosofica, ad occuparsi di que­
sto. Ma secondo Pascal non è cosl: ce qui passe la géométrie nous
surpasse, o almeno supera quel noi che è la ragione, supera la nostra
ragione. Quando infatti si tenta di definire ciò che la geometria
presuppone, si fanno dei discorsi molto deboli. « Che bisogno
c'è, per esempio, di definire la parola uomo? Non si sa già abba­
stanza che cosa è ciò che si designa con quel termine? » (p. 168).
Non si sa già abbastanza? È proprio Pascal che parla? Non
sarà lui a dire: « questa mescolanza [ di spirito e di corpo] è la
cosa più difficile da capire. L'uomo è a se stesso la cosa più strana
(prodigieux) della natura»? (Pensées _. 72). E anche qui, in questo
stesso opuscolo dirà che l'uomo non conosce quasi mai l'intimo
dell'uomo (p. 187). Ma il sottinteso di Pascal è che per ottenere
quest'altra, difficile conoscenza dell'uomo la ragione non serve.
168 FILOSOFIA MODERNA

Ci dà forse l'essenza dell'uomo la definizione platonica dell'uo­


mo come animale bipede implume? Così, non occorre definire che
cosa è il tempo o che cosa è il moto. I filosofi non sono d'accordo
su queste definizioni; il tempo è il moto di una cosa creata, o è
il numero del moto? Il moto è atto di ciò che è in potenza in quan­
to tale? Su questi problemi è difficile ottenere una certezza. La geo­
metria, invece, che prende le nozioni di tempo, moto ecc. così co­
me le intendono tutti, ne scopre mirabili proprietà, p. es. quella
della infinita divisibilità dello spazio. « Donde si vede che la geo­
metria non può definire gli oggetti né dimostrare i principi; ma
per questo solo e vantaggioso motivo: che gli uni e gli altri sono
di una estrema chiarezza naturale, che convince la ragione più for­
temente del discorso» (p. 175). Se si parte da concetti e da as­
siomi semplici e chiari ed a tutti evidenti come sono quelli della
geometria, si può essere sicuri di arrivare alla verità seguendo al­
cune regole che sono appunto quelle del metodo geometrico. Pa­
scal ne enumera otto, ma osserva poi che le più necessarie sono
cinque: 1) definire chiaramente tutti i termini oscuri; 2) usare per
le definizioni termini già noti; 3) non postulare come assiomi se
non proposizioni perfettamente evidenti; 4) dimostrare tutte le
proposizioni che non siano perfettamente evidenti; usare solo gli
assiomi o proposizioni già dimostrate; 5) sostituire, nella dimostra­
zione, le definizioni ai definiti per non usare termini equivoci (pp.
190-191). Sembrano cose da poco, osserva Pascal, eppure è così
difficile osservarle: solo i geometri le sanno osservare.
Così, come tecnica dimostrativa che parte da affermazioni pre­
supposte, la ragione è perfetta. Ma serve solo a questo: a dimo­
strare. E le basi della dimostrazione? Quelle della geometria pro­
priamente detta hanno una chiarezza naturale indiscutibile; quanto
alle altre, alle convinzioni che non sono assiomi geometrici, esse
possono entrare nell'anima attraverso l'intelletto o attraverso la
volontà. « La porta più naturale è quella dell'intelletto, poiché non
si dovrebbe dare l'assenso se non alle verità dimostrate, ma la più
consueta, sebbene contro natura, è quella della volontà», poiché
gli uomini sono portati a credere ciò che a loro piace (p. 185). Non
parlo, dice Pascal, delle verità divine per le quali è legittimo il
processo dalla volontà alla conoscenza « So che Dio ha voluto che
[le verità divine] entrino dal cuore nella intelligenza (esprit),
e non dalla intelligenza nel cuore, per umiliare questa superba
PASCAL 169

potenza del ragionamento e per guarire questa volontà inferma »


(p. 185). Parlo delle verità alla nostra portata, le quali dovrebbero
entrare nell'anima per la porta della mente, ma in realtà vi en­
trano più spesso per la porta del cuore.

4. I limiti della ragione

C'è quel famoso pensiero (Br. min., n. 1) sull'esprit de géo­


métrie e l'esprit de finesse, nel quale Pascal mette in luce la com­
plessità dell'intelligenza 1• Se la ragione si può identificare con
l'esprit géométrique, l'intelligenza è più della ragione: è anche
esprit de finesse.
Nell'esprit de géométrie « i principì sono palpabili, ma lontani
dall'uso comune, sì che ci vuole uno sforzo per rivolgere ad essi
l'attenzione, data la mancanza di abitudine; ma quando si volge
lo sguardo ad essi, si vedono principi in pieno... e bisognerebbe
avere una intelligenza sbagliata per ragionare male su verità così
grandi e grosse (sur des principes si gros ), su principi così evidenti
che è quasi impossibile sfuggano. - Ma nell'esprit de finesse, i
principi sono nell'uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non c'è
bisogno di voltar la testa [di distogliere l'attenzione da ciò che è
comune] e di fare uno sforzo; si tratta solo di aver la vista buona,
ma bisogna averla buona, poiché i principi sono così sparsi, e in
gran numero, che è quasi impossibile non ne sfugga qualcuno».
Sembra dunque che si possa identificare l'esprit géométrique con
l'intelletto astratto, e l'esprit de finesse con l'intelligenza del con­
creto: l'uno richiede sforzo di astrazione, l'altro capacità di pene­
trazione. Chi è avvezzo a maneggiare concetti astratti si perde spes­
so di fronte alla ricchezza del concreto. Nel concreto i principi
astratti sono « appena visibili, si possono sentire più che vedere; ci
vuole una enorme fatica a farli sentire l." quelli che non li sentono da
sé; sono cose così delicate e molteplici, che ci vuole un senso ben deli­
cato e ben netto per sentirle... Bisogna intuire di colpo la cosa con uno
sguardo solo, e non con progresso di ragionamento ... E perciò è raro
che i geometri siano " fini " e che i " fini " siano geometri ».
170 FILOSOFIA MODERNA

Voler ragionare, dunque, astrattamente sulle realtà concrete, sul­


l'uomo, sul mondo morale, è vano. « La vera eloquenza si ride del-
1'eloquenza [ossia delle astratte regole dell'eloquenza], la vera mora­
le si ride della morale; ossia la morale del giudizio si ride della mo­
rale dell'intelletto; poiché [la vera morale, la morale del giudizio]
è senza regole ». Precisa poi che giudizio equivale a sentimento e a
(messe. E conclude: Se moquer de la philosophie, c'est vraiment phi­
losopher (n. 4) 2• Sicché ci si trova in questa alternativa: le cose che
ci premono, che contano, non riusciamo a conoscerle con la ragione,
e quelle che riusciamo a conoscere con la ragione sono inutili. Inu­
tile la matematica (n. 61); inutile la fisica cartesiana, in cui il mondo
appare autosufficiente, salvo una piccola spinta iniziale datagli da Dio
(n. 77 ). E invece, quando si tratta di conoscere il principio e la fine
delle cose, la nostra ragione è impotente (n. 74); non solo non arri­
va a conoscere il fine delle cose, dell'universo, ma neppure il no­
stro fine. Sentiamo infatti cosa dicono i filosofi: « Uno dice che
il bene supremo è la virtù, l'altro lo pone nel piacere; uno nella na­
tura, l'altro nella conoscenza della verità ... l'altro nell'ignoranza to­
tale, altri nel resistere alle apparenze... Eccoci soddisfatti » (n. 73 ).
Questa impotenza della ragione non dipende secondo Pascal dal­
la natura della ragione stessa, dall'essenza dell'uomo, ma dalla sua
situazione esistenziale. L'uomo non opera con la ragione, che pure
costituisce il suo essere (n. 39), che dovrebbe costituire la sua essen­
za, ma si lascia quasi sempre guidare dall'immaginazione (n. 82)
« questa parte dominante nell'uomo, questa maestra d'errore e di
falsità... Non parlo dei pazzi, parlo dei più savi; proprio fra questi
l'immaginazione ha il gran dono di persuadere gli uomini. La ragione
ha un bel gridare, non può esser lei a valutare le cose ». La stima
che si ha degli uomini dipende quasi sempre dall'immaginazione.
Perché i magistrati, gli avvocati, i medici portano toghe, berretti
ecc., se non per colpire l'immaginazione? « Se [i magistrati e i
dottori] avessero la verità e la giustizia e se i medici avessero la
vera arte di guarire, non saprebbero che farsene dei berretti qua­
drati: la maestà di queste scienze sarebbe abbastanza venerabile
da sé » (n. 82).
Altro elemento che influisce sui nostri giudizi è la consue-
PASCAL 171

tudine. Che cosa sono i nostri principi naturali se non i principi


ai quali siamo abituati? (n. 92). Grandissima parte delle nostre
convinzioni è fondata sulla consuetudine, non sulla ragione. Ciò
si avvera specialmente per le convinzioni morali. Ammazzare un
uomo che sta oltre i confini del nostro paese è ritenuto valore;
se quest'uomo stesse di qua del confine, sarebbe ingiusto am­
mazzarlo (n. 293). « Curiosa giustizia quella che è limitata da un
fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore al di là » (n. 294 ). Ma,
si dice, la giustizia non è data da queste consuetudini, ma dalla
legge naturale. E dove la troviamo noi la legge naturale, si domanda
Pascal? « Vi sono, senza dubbio, leggi naturali; ma questa bella
ragione corrotta ha corrotto tutto... Nulla, secondo la sola ragione,
è per sé giusto: tutto crolla col tempo. È la consuetudine quella
che costituisce l'equità » (n. 294 ). E, a sua volta, la consuetudine
è creata dalla forza. Non crediamo che Pascal tragga da questa con­
statazione conseguenze rivoluzionarie, tutt'altro: ne trae la con­
seguenza che, siccome una consuetudine vale l'altra, bisogna ac­
cettarle e rispettarle, perché Dio ha voluto così, perché Dio in
punizione del peccato, ha assoggettato gli uomini a queste « follie »
che sono le consuetudini (n. 338). Solo non bisogna scambiare que­
ste follie con la ragione. « La consuetudine va seguita perché è
consuetudine, non perché sia ragionevole o giusta » (n. 325).
Altro elemento che influisce sui nostri giudizi è il gusto, ciò che
ci fa piacere. « L'amore o l'odio cambia faccia alla giustizia. Come
un avvocato ben pagato in precedenza ritiene più giusta la causa
che difende! » (n. 82). « La volontà è uno degli organi principali
della convinzione (créance); non perché formi una convinzione ma
perché le cose sono vere o false secondo la faccia dalla quale si
guardano. La volontà si compiace più all'una che all'altra, disto­
glie l'intelligenza dal considerare le qualità di quelle che non le
piace vedere; e così l'intelligenza, camminando di pari passo con
la volontà, si ferma a guardare la faccia che questa ama; e così
giudica per quel tanto che ne vede (n. 99).
Un aspetto particolare della volontà in quanto influisce sui
giudizi è l'amor proprio, perché ci impedisce di vedere come sia­
mo » (n. 100).
172 FILOSOFIA MODERNA

5. A Dio non si arriva con la ragione

« Quando un uomo fosse persuaso che le proporzioni dei nu­


meri sono verità immateriali, eterne, e dipendenti da una prima
verità nella quale sussistono, e che si chiama Dio, non lo riterrei
molto avanti nella strada della salvezza. Il Dio dei cristiani non
consiste in un Dio autore delle verità geometriche e dell'ordine de­
gli elementi: questa è la parte dei pagani e degli epicurei » (n. 556).
Così è di tutte le dimostrazioni metafisiche dell'esistenza di
Dio: non convincono « sono cosi lontane dal ragionamento degli
uomini, e così complicate, che colpiscono poco; e se anche servis­
sero ad alcuni, non servirebbero altro che nel momento in cui ve­
dono la dimostrazione, ma un'ora dopo avrebbero paura di esser­
si sbagliati » (n. 543). Peggio ancora giudica le dimostrazioni del­
l'esistenza di Dio che partono dalla considerazione della natura. E
qui influisce anche il pregiudizio cartesiano che dalla natura non si
possa salire a Dio.
Dio non si raggiunge, dunque, mediante la ragione, neppure
allargando la ragione al senso di intellectus, in senso agostiniano.
« Conosciamo dunque l'esistenza e la natura del finito, perché sia­
mo finiti... Ma non conosciamo né l'esistenza né la natur.1 di Dio »
(n. 233 ). Dio non è un oggetto che si conosca e si dimo�tri: è una
Persona con la quale ci si incontra. Pascal riprende e svol�c- il con -
cetto annotato nel Memoriale del 23 novembre 1654: « li Dio dei
cristiani non consiste in un Dio soltanto autore delle verità georn;:­
triche ... Il Dio di Abramo, il Dio di amore e di consolazione, è un
Dio che ricolma l'anima e il cuore di coloro che possiede, è un Di,J
che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la sua misericor­
dia infinita; che si unisce al fondo della loro anima, che la riempiè
di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore » (n. 556. Cfr. anche 544 ).

6. Il cuore

Si capisce quindi che Pascal dica: « È il cuore quello che sente


Dio, t: non la ragione. Ecco che cosa è la fede: Dio sentito dal cuore,
non dalla ragione» (n. 278). La ragione senza il cuore non serve
a nulla, mentre il cuore senza la ragione basta: i cristiani semplici
che « sentono che un Dio li ha creati», anche senza rendersi ragione
PASCAL 173

di ciò che sentono, e amano Dio, ne sanno abbastanza (n. 286 ). Que­
sta conoscenza « cordiale » di Dio non è possibile se non per Gesù
Cristo (n. 547).
Come arriveremo a questa conoscenza di Dio?
Utilizzando quella stessa situazione esistenziale, quella stessa
condizione di fatto per cui la ragione è così offuscata, per rivol­
gerla a Dio. La ragione umana, dicevamo, così come di fatto è, è
soggetta alle impressioni dell'immaginazione, della consuetudine,
della volontà, è condizionata, diremmo noi, dall'essere sensibile
dell'uomo, dal meccanismo del suo corpo, dalla machine (come di­
ce Pascal, da buon cartesiano). Ebbene: pieghiamo la machine
(n. 246 ), e ci tireremo dietro la ragione. E cosa vuol dire, in con­
creto, plier la machine? Compiere gli atti esteriori della religio­
ne, « mettersi in ginocchio, pregare con le labbra » (n. 250). Non
che questi atti esteriori costituiscano la religione: questo sarebbe
superstizione (n. 249); debbono essere mossi dalla nostra volon­
tà di credere, debbono essere espressione della nostra umiltà.
« Sforzatevi, non di convincervi con l'argomentazione delle prove
di Dio, ma con la diminuzione delle vostre passioni... Seguite il
modo in cui hanno cominciato [ quelli che ora credono] : cioè
facendo tutto come se credessero: prendendo l'acqua benedetta,
facendo dire delle Messe, ecc. Naturalmente [ cioè per il modo
stesso in cui siete fatti, in cui è fatta la vostra natura] questo vi
farà credere et vous abetira » (n. 233). Le ultime parole non fu­
rono pubblicate nell'edizione curata da Port Royal e, quando fu­
rono pubblicate la prima volta, suscitarono scandalo. Ma in fon­
do esse non vogliono dire altro che questo: piegheranno la super­
bia, il capriccio della nostra natura, la renderanno meccanismo
docile alle esigenze di quella volontà di credere che è già in noi
un riflesso della Grazia (tu ne me chercherais pas, si tu ne m'avais
trouvé, n. 553 ).

7. Il « pari »
Ma qual motivo daremo noi all'ascesi, al « piegare il meccani­
smo », se non vi è una certezza razionale?
Agli argomenti razionali per dimostrare l'esistenza di Dio, Pa­
scal sostituisce il suo famoso pari, la scommessa. Non potremo di­
mostrare razionalmente che esiste Dio, ma vale la pena scom-
174 FILOSOFIA MODERNA

mettere che ci sia. Vale la pena; poiché ciò che è in giuoco è la


nostra vita, il nostro destino. Pascal fa sentire con un vigore in­
superabile la gravità del problema. Non c'è nessuna retorica, è
esperienza vissuta. Se si trattasse di un problema di matematica,
di scienza, io potrei disinteressarmi della soluzione, potrei dire:
rinuncio a sapere. Ma quando si tratta dell'esistenza di Dio, del­
l'immortalità dell'anima, sono io stesso in questione, e qualunque
mio atteggiamento, qualunque mio modo di vivere è già una pre­
sa di posizione. « Bisogna scommettere: non è una cosa che di­
penda dalla nostra volontà: ormai siete imbarcato. Da che parte
scommetteremo? » (n. 233 ). Da una parte c'è il finito, dall'altra
l'infinito; non c'è nessun dubbio: bisogna puntare sull'infinito.
Quello che si giuoca è una vita breve, finita: un nulla in con­
fronto a « infinità di vita infinitamente felice » (n. 233 ).
Che senso ha questa famosa scommessa? Le interpretazioni
sono state innumerevoli. Non ci sembra sia possibile interpre­
tarla in senso utilitaristico, quasi volesse dire: crediamo per pau­
ra. E neppure in senso pragmatistico: crediamo perché fa bene.
In senso irrazionalistico, però, pare di si, almeno entro certi li­
miti. Per dare l'adesione alle verità fondamentali, ai principi, a
quelle verità che la ragione trova già, e deve presupporre, ci vuo­
le una spinta della volontà, una scommessa, un rischio. Il pari cli
Pascal mi ha sempre richiamato alla memoria il xrù.òç x(vòuvoç del
Pedone, ma questo viene dopo che la ragione si è adoperata fino
all'estremo limite, mentre la scommessa pascaliana dovrebbe par­
tire da zero. Ma ricordiamo che Pascal non ha mai considerato
la ragione in assoluto, per dir cosi, nella sua natura, ma l'ha sem­
pre considerata solo nelle sue condizioni esistenziali, come ragione
di un uomo soggetto ai capricci della fantasia, della sensibilità�
debole ecc.: di un uomo, insomma, che io non posso capire a fon­
do se non alla luce del peccato originale. Ed è di questa ragione
che Pascal non tiene gran conto.

8. L'analisi dell'uomo
Ma Pascal non si limita a invitare l'uomo a scommettere per
la vita eterna: cerca di far sentire all'uomo che ha bisogno di Dio,
attraverso un'analisi dell'uomo. L'analisi pascaliana dell'uomo è
orientata intorno a questi due poli: miseria e grandezza dell'uomo.
PASCAL 175

Per « miseria » dell'uomo Pascal non intende solo la miseria


morale: questa non è che una manifestazione della finitezza del­
l'uomo, del suo essere inficiato di nulla. Pascal riassume così la de­
scrizione dell'uomo: « dipendenza, desiderio d'indipendenza, bi­
sogno » (n. 126). « Condizione dell'uomo: incostanza, noia, in­
quietudine» (n. 127). Dipendenza - La nostra anima è gettata nel
corpo (n. 233): ossia ci troviamo al mondo senza sapere perché ci
siamo, e perché ci siamo a un certo momento e in un certo luogo
piuttosto che in un altro.
Mi trovo in mezzo a una realtà di cui non so il perché, che
mi appare estranea e mi spaventa. « Il silenzio eterno di questi
spazì infiniti mi spaventa » (n. 206). « Che cosa è un uomo nel­
l'infinito? » (n. 72). Nulla. Io sento la mia contingenza, so che po­
trei non essere stato, non essere venuto al mondo (n. 469). E mi
sento sfuggire il mio stesso essere: « È una cosa orribile sentirsi
sfuggire tutto quello che si possiede » (n. 212). Questo passare del
tempo, questo sfuggirci della vita sappiamo dove porta: alla morte,
che ognuno dovrà affrontare per conto suo: on mourra seul (n. 211).
La nullità di questo nostro essere ci è rivelata nel sentimento
della noia. La noia è il senso del n0stro nulla (n. 164) e questo
senso ci pesa, ci dà una tristezza insopportabile. Di qui l'inco­
stanza, la ricerca del cambiamento, del divertissement.
Ma l'uomo non è solo questo, o piuttosto il solo fatto di aver
coscienza della sua condizione, di sentire il desiderio di una pie­
nezza di essere che non possiede, attesta la sua grandezza. « L'uo­
mo non è che un fuscello (letteralm.: una canna, un roseau), il più
debole della natura, ma è un fuscello che pensa. Non è necessario
che l'universo intero si armi per schiacciarlo: un vapore, una goc­
cia d'acqua bastano per ucciderlo. Ma, quando l'universo lo schiac­
ciasse, l'uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, per­
ché sa che muore e conosce la superiorità che l'universo ha su di
lui; mentre l'universo non ne sa nulla. Tutta la nostra dignità con­
siste dunque nel pensiero » (n. 347). Ma, leggendo altri passi di
Pascal, ci accorgiamo che il pensiero è, sì, il segno della nostra
dignità, ma ha una funzione puramente negativa: ci fa conoscere
la nostra finitezza, ci fa desiderare la verità e la perfezione. « La
grandezza dell'uomo è grande in quanto l'uomo si conosce mi­
serabile. Un albero non si conosce miserabile. Conoscersi misera­
bile è dunque esser tale, ma è grandezza il conoscersi miserabile »
176 FILOSOFIA MODERNA

(n. 397). « Non si è miseri senza averne coscienza: una casa crol­
lata non è miseria. Non c'è che l'uomo che sia misero. Ego vir
videns (Lamentaz. di Geremia III, 1)» (n. 399).
È impossibile dunque parificare l'uomo alle bestie, perché
l'uomo ha coscienza della sua miseria e ne soffre.
« L'uomo non è né angelo né bestia, e il guaio è che chi vuol
fare l'angelo fa la bestia» (n. 358). Chi vuol fare l'angelo fa la
bestia perché la ragione umana, il pensiero, l'esprit, non è suffi­
ciente a condurre l'uomo alla sua perfezione. I filosofi, dice in un
altro pensiero Pascal (n. 413), vedendo la lotta fra la ragione e
l'animalità nell'uomo, si son divisi in due scuole (sectes): quelli che
hanno voluto rinunciare alle passioni e diventare dei (gli Stoici).
e quelli che han voluto rinunciare alla ragione, e diventare bestie:
ma non sono riusciti né gli uni né gli altri: la ragione seguita sem­
pre ad accusare le passioni, e queste seguitano a turbare la ragione.
Perché? Perché le antinomie non si superano sul piano della pu­
ra natura. « Che chimera è dunque l'uomo? Che novità, che mo­
stro, che caso, che soggetto di contraddizioni, che prodigio! Giu­
dice di ogni cosa e imbecille verme della terra; depositario della
verità, cloaca di incertezza e di errore; gloria e rifiuto dell'uni­
verso! » (n. 434).
Queste antinomie si spiegano solo con una corruzione della
natura umana che può essere sanata solamente dalla Grazia. Bi­
sogna, per risolvere le antinomie, riconoscere non soltanto due or­
dini di realtà, la carne e lo spirito, ma tre: la carne, Io spirito, e la
carità, ossia la Grazia. « La distanza infinita fra i corpi e gli spiriti
figura [ossia è figura, è immagine de] la distanza infinitamente più
infinita fra gli spiriti e la carità, poiché questa è soprannaturale ».
« Tutto lo splendore delle grandezze non ha fascino per coloro che
sono nelle ricerche dello spirito. La grandezza degli uomini d'in­
gegno (d'esprit) è invisibile ai re, ai ricchi, ai capitani, a tutti que­
sti grandi nell'ordine della carne. La grandezza della sapienza, che
non viene se non da Dio, è invisibile agli uomini " carnali" e agli
uomini d'ingegno. I grandi geni hanno il loro impero, il loro splen­
dore, la loro grandezza, la loro vittoria, la loro gloria (leur lustre),
e non hanno alcun bisogno delle grandezze carnali, a cui non han­
no rapporto. Sono veduti non dagli occhi, ma dagli spiriti; ed è
abbastanza.
« I santi hanno il loro impero, il loro splendore, la loro vitto-
PASCAL 177

ria, la loro gloria, e non hanno alcun bisogno delle grandezze car­
nali o spirituali, a cui non hanno alcun rapporto, poiché esse non
aggiungono loro né tolgono nulla. I santi sono veduti da Dio e
dagli Angeli, non dai corpi, né dagli spiriti curiosi. Dio basta loro.
« Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni,
non valgono il minimo degli spiriti; poiché egli conosce tutto ciò;
e i corpi non ne sanno nulla. Tutti i corpi insieme, e tutti gli spiriti
insieme, e tutte le loro produzioni, non valgono il minimo moto
di carità. Questo è di un ordine infinitamente più elevato» (n.
793).
Ad ognuno di questi ordini di realtà corrisponde un ordine di
valori: valori carnali, valori dell'ingegno, valori religiosi-sopranna­
turali. E solo col raggiungimento di questi ultimi si risolve il pro­
blema dell'uomo. Solo la religione cristiana risolve questo proble­
ma col mistero della Redenzione. La religione cristiana « insegna
agli uomini queste due verità: che vi è un Dio, di cui gli uomini
sono capaci, e che vi è una corruzione nella natura che li rende in­
degni di Dio» (n. 556 ). È essenziale per l'uomo conoscere tutte e
due queste verità, poiché se conosce soltanto la sua somiglianza
con Dio, cade nella superbia dei filosofi, se conosce solo la sua
miseria, senza conoscere il Redentore, si avvilisce al livello delle
bestie. Ma la conoscenza della Redenzione è stata rivelata all'uomo,
gli è stata data, cioè, solo dalla misericordia di Dio; perciò senza
la fede, senza l'accettazione cioè di questa misericordia divina,
l'uomo non risolve il problema della vita. « E perciò non mi met­
terò a dimostrare con ragioni naturali l'esistenza di Dio, la Trinità,
l'immortalità dell'anima né alcuna verità di questo tipo; non solo
perché non mi sentirei forte abbastanza per trovare nella natura di
che convincere atei induriti, ma anche perché questa conoscenza,
senza Gesù Cristo, è inutile e sterile» (n. 556).
« L'ultimo passo della ragione è quello di riconoscere che vi
è un'infinità di cose che la sorpassano» (n. 267).
CAPITOLO SETTIMO

N. MALEBRANCHE
(1638-1715)

1. Il problema dei rapporti fra estensione e pensiero

Il dualismo cartesiano rendeva assai difficile la spiegazione del


rapporto fra l'anima e il corpo: si capisce che anche i seguaci di
Cartesio non fossero soddisfatti della teoria proposta dal filosofo,
che poneva l'anima nella ghiandola pineale a dirigere i moti volon­
tari del corpo. Il medico Loms DE LA FORGE, nel suo Traité de
l'ame humaine, ... et de son union avec le corps d'après les princi­
pes de Descartes, del 1666, afferma che solo la volontà di Dio tie­
ne uniti anima e corpo e che solo i moti volontari del corpo hanno
per causa l'anima, gli altri sono causati da Dio. GERAULD DE CoR­
DEMOY (1620-1684 )) nei Six Discours sur la distinction et l'union
du corps et de l'ame 1 afferma che l'anima umana, che è puramente
spirituale, non può muovere il corpo e neppure dirigerne i movi­
menti: l'unfca causa dei moti del corpo, come di ogni altro moto,
è Dio; la volontà umana è solo l'occasione nella quale agisce Dio.
JoHANN CLAUBERG (1622-1665), il primo che abbia insegnato
la filosofia cartesiana in una Università tedesca, autore, tra l'altro,
di un De animae et corporis in homine coniunctione afferma che il
corpo e l'anima, sostanze totalmente diverse, sono uniti solo dalla

1 Più noto col titolo Discernement du corps et de l'ame. Le Oeuvres philosophi­


ques di CoRDEMOY hanno avuto una recente edizione critica a cura di P. Oair e F.
Girbal, Paris, P.U.F., 1968.
180 FILOSOFIA MODERNA

volontà di Dio; l'anima però, essendo superiore al corpo, può di­


rigerne i movimenti ed esercitare una causalità morale sui moti del
corpo: è ne] corpo analogamente a come Dio è nel mondo e sta
al corpo come il pilota nella nave, secondo l'antico paragone pla­
tonico. Il corpo invece è solo occasione dei moti dell'anima.
La sistemazione dell'occasionalismo è opera di ARNOLD GEu­
LINCX ( 1624-1669) professore a Lovanio, che elaborò il suo siste­
2

ma indipendentemente da Cordemoy. La prima verità è, secondo


Geulincx, l'esistenza del soggetto pensante; il nostro pensiero è la
sola realtà immediatamente evidente. Siamo dunque autocoscienti
e nulla di noi stessi ci può sfuggire. Non esistono quindi azioni no­
stre delle quali siamo inconsapevoli: quod nescis quomodo fiat,
id non facis (Metaphysica l, V). Ora non sappiamo come avven­
gano i movimenti del nostro corpo, dunque non ne siamo causa:
non c'è influsso fisico dell'anima sul corpo. E tanto meno il corpo
può influire sull'anima: i moti del corpo sono solo cause occasio­
nali delle nostre idee, e i moti della nostra volontà sono solo cau­
se occasionali dei moti del corpo; solo Dio è causa efficiente del­
le idee e dei moti del corpo. Dio ha fatto l'anima e il corpo umano
in modo che i loro moti si corrispondano, come un orologiaio po­
trebbe costruire e regolare due orologi in modo che essi fossero
sempre sincronizzati. Poiché i corpi esterni non possono influire
sull'anima, noi conosciamo soltanto le nostre idee. ma le conoscia­
mo come oggetti che non dipendono da noi: debbono dunque ve­
nirci da una realtà distinta da noi, e questa non può essere che Dio.
Dio non produce in noi immediatamente le idee dei corpi, poiché
è puro spirito; le causa mediante l'estensione, di cui i corpi non so­
no che modi. I corpi sono modi dell'estensione, noi siamo modi
della realtà spirituale: « sumus modi mentis, si auferas modum
remanet ipse deus ». Sebbene Geulincx professi la dottrina della
creazione e affermi la trascendenza di Dio, ci si avvicina già no­
tevolmente alla concezione spinoziana.
Il principio fondamentale dell'Ethica di Geulincx è espresso
nella frase: Uhi nihil vales, ibi nihil velis: non volere ciò su cui

' L'edizione critica delle opere filosofiche di Geulinc:x è quella curata da J. P. N.


Land: ARNOLD GEULINCX, Opera philosophica, Hagae Comitum, Nijhoff, 1891-93. Ampia
bibliografia e ottima introduzione in : ARNOLD GEULINcx, Etica e Metafisica, a cura
di I. Mancini, Bologna, Zanichelli, 1965.
MALEBRANCHE 181

non hai potere. E poiché l'unica cosa in nostro potere è la nostra


attività razionale, dobbiamo voler essere razionali, ossia seguire
ciò che la ragione ci insegna. « La virtù è l'amore della ragione.
La ragione è in noi l'immagine della divinità » (Ethica, Tract. I,
Sect. I, 1 ); seguire la ragione vuol dire quindi obbedire a Dio e ri­
conoscere la nostra subordinazione a lui. Non abbiamo fatto il
mondo né il mondo dipende da noi: di fronte al mondo dobbiamo
dunque avere un atteggiamento distaccato e contemplativo: Sum
igitur nudus spectator huius machinae (Ethica, Tract. I, Sect. II,
par. 2). Di qui deriva l'umiltà, una umiltà intesa appunto come
distacco dalle passioni e amore della ragione 3• Se non badiamo
soltanto alle espressioni verbali (Spinoza condanna l'umiltà, come
vedremo) possiamo rilevare una notevole analogia fra l'ideale mo­
rale di Geulincx e la « libertà » di cui parla Spinoza nella quinta
parte dell'Etica.

NICOLA MALEBRANCHE (1638-1715) * è uno spirito profonda­


mente religioso e religiosa è la sua visione della realtà, anche se egli si
interessò pure di problemi scientifici. Nel 1660 entrò nell'Oratorio,
la congregazione religiosa fondata dal Card. de Bérulle, dopo avere
studiato con pochissima soddisfazione la filosofia aristotelica e la teo­
logia scolastica. Aveva studiato filosofia sotto la guida dell'arista-

' « Humilitas est contemptio sui prae amore Dei ac rat1001s. Requiritur ad hu­
militatem contemptus J1egativus sui ipsius, quo quis de se non laboret, se non curet,
nullatn sui prae amore rationis rationem ducat », Ethica, Tract. I, Sect. Il, par 1.
* Delle Opere di Malebranche c'è una edizione critica completa pubblicata sotto
la direzione di André Robinet: Oeuvres complètes de Malebranche, Paris, Vrin,
1958-1967, 20 voli. Le opere principali di Malebranche sono De la recherche de la
vérité (1674-75, seguita, nella terza edizione del 1677-78, dagli Eclaircissements), Con­
versations chrétiennes (1676), Méditations chrétiennes et métaphysiques (1683), Traité
de morale (1683), Entretiens sur la métaphysique (1688), Entretien d'un philosophe
chrétien et d'un philosophe chinois (1708) e altre opere di carattere prevalentemente
teologico, come la maggior parte delle polemiche con Arnauld e col P. Lamy.
Fra le opere su M. ricorderemo H. GoUHIER, La vocation de Malebranche, Paris,
Vrin, 1926; In., La philosophie de Malebranche et son expérience religieuse, Paris,
Vrin, 1926; Malebranche nel terzo centenario della nascita, a cura della Università
Cattolica del S. Cuore, Milano, Ed. « Vita e Pensiero», 1938 (con una Bibliografia ma­
lebranchiana di A. DEL NocE); M. GuEROULT, Malebranche, 3 voll., Paris, Aubier,
1955-1959; S. BANCHETTI, Il pensiero e l'opera di Malebranche, Milano, Marzorati, 1963;
L. VERGA, La filosofia morale di Malebranche, Milano, Pubblicazioni dell'Università
Catt. del S. Cuore, 1972; A. RoBINET, SyJtème et existence dans l'oeuvre de
Malebranche, Paris, Vrin, 1965; Malebranche. L'homme et l'oeuvre (Atti delle "Jour­
nées Malebranche" tenute nel 1965) Paris, Vrin, 1967; D. CoNNELL, The Vision in
God. Malebranche's Scholastic Sources, Louvain-Paris, Nauwelaerts, 1967.
182 FILOSOFIA MODERNA

telico Rouillard, e, dice il Vidgrain, non vide l'aristotelismo se non


attraverso le lezioni di Rouillard, il che vuol dire: lo vide trasfor­
mato e sfigurato. Nello studio della teologia, alla Sorbona, aveva
sentito sopra tutto polemizzare, e anche questo non soddisfece il
suo spirito religioso. Entrato nell'Oratorio studiò specialmente
l'ebraico per conoscere bene la Sacra Scrittura, la storia ecclesia­
stica e S. Agostino, al quale in genere si ispiravano gli oratoriani.
Sembra però che conoscesse S. Agostino indirettamente, attraverso
l'ampia raccolta di testi agostiniani fatta da Ambrosius Victor
(pseudonimo del P. André Martin) nella sua Philosophia chri­
stiana.
Nel 1664 lesse il Traité de l'homme di Cartesio, pubblicato
postumo da L. de la Forge, e il suo confratello e biografo, il P. An­
dré, dice che l'entusiasmo provato da Malebranche a quella lettura
gli mozzava perfino il respiro. Per spiegare un tale entusiasmo o,
comunque, la sua adesione a Cartesio dobbiamo pensare alla netta
separazione che Cartesio poneva tra spirito e corpo, e a quella
specie di estenuazione del mondo sensibile che derivava dalla ridu­
zione di esso a pura estensione. Queste due dottrine cartesiane ser­
vono a giustificare le due fondamentali teorie di Malebranche: la
visione delle cose in Dio e l'occasionalismo.

2. Anima e corpo. La conoscenza

Quanto alla prima è caratteristica la Prefazione alla Recherche


de la verité: « Lo spirito umano si trova per sua natura come si­
tuato fra il suo Creatore e le creature corporee, poiché, secondo
S. Agostino, non vi è che Dio al di sopra di esso e non vi sono che
i corpi al di sotto. Ma, come la grande superiorità in cui si trova
rispetto alle cose materiali non impedisce che sia loro unito ... , co­
si la distanza infinita fra l'Essere supremo e lo spirito dell'uomo
non impedisce che gli sia unito, e in modo molto intimo. L'unione
con Dio eleva lo spirito umano al di sopra di tutte le cose: per
essa riceve la vita, la luce e tutta la sua felicità ...
Al contrario, l'unione dello spirito col corpo abbassa l'uomo
infinitamente, ed è oggi la causa principale dei suoi errori e delle
sue miserie. - Non mi stupisco che la maggioranza degli uomini o
che i filosofi pagani considerino nell'anima solo il suo rapporto e
MALEBRANCHE 183

la sua unione col corpo, senza riconoscere in essa il rapporto e l'unio­


ne con Dio; ma sono stupito che filosofi. cristiani, i quali devono
preferire lo spirito di Dio allo spirito umano, Mosè ad Aristotele,
Sant'Agostino a qualche miserabile commentatore di un filosofo
pagano, considerino l'anima come forma del corpo, anziché fatta
ad immagine di Dio e per Dio, ossia, secondo S. Agostino, per la
verità, alla quale sola è immediatamente unita ».
Si tratta dunque di dimostrare che l'anima umana è « imme­
diatamente unita » a Dio e conosce ogni cosa in lui. Ma per ri­
conoscere questa verità bisogna prima liberarsi dall'errore. L'er­
rore non dipende dall'intelletto, che è una facoltà « totalmente
passiva e non implica nessuna azione »: è la facoltà che ha l'anima
di ricevere le idee, cosl come l'estensione ha la facoltà di ri­
cevere qualsiasi figura (Recherche I, 1) 4• L'errore invece può
aver luogo solo nel giudizio, e poiché giudicare è una attività, il
giudizio è opera della facoltà attiva dell'anima, che è la volontà (tesi
cartesiana). L'assenso è sempre dato dalla volontà, anche quando
è dato ad una verità evidente; l'errore si insinua quando diamo
l'assenso ad una proposizione non evidente. (Recherche I, 2, 4 ).
Gli errori possono nascere dai sensi, dall'immaginazione, dall'in­
telletto, dalle passioni. I primi cinque libri della Recherche de la
vérité sono dedicati a queste diverse fonti di errori, il sesto al me­
todo per trovare la verità. Il primo libro parla dei sensi, i quali so­
no occasione di errore non perché ci ingannino essi stessi, ma per­
ché « la volontà ci inganna con giudizi precipitati ». I sensi infatti
non hanno per loro natura una funzione conoscitiva, ma solo una fun­
zione pratica: quella di avvertirci, con un sentimento di piacere
o di dolore, dell'utilità o del danno che le cose possono recare al
nostro corpo (Recherche, I, 5 passim); l'errore nasce quando noi
attribuiamo ai corpi le qualità sentite.
Il secondo libro della Recherche è dedicato all'immaginazione
e si diffonde sopra tutto su questioni fisiologiche. Nel terzo libro,
dedicato all'intelletto, Malebranche espone la sua teoria della cono­
scenz,l e, dopo alcune considerazioni sui limiti dell'intelletto umano
(prima parte) inizia la parte positiva così: « Credo che tutti siano

• Mi servo dell'edizione curata da G. Lewis, Paris, Vrin, 1946. Il numero ro­


m.ano indica il libro (la Recherche è in sei libri), il primo numero arabo il capitolo,
il secondo numero arabo il paragrafo. Le traduzioni sono mie.
184 FILOSOFIA MODERNA

d'accordo nel ritenere che non percepiamo in se stessi gli oggetti


che sono fuori di noi. Vediamo il sole, le stelle e una infinità di al­
tri oggetti fuori di noi, e non è verosimile che l'anima vada per
dir cosi a spasso nei cieli per contemplarvi tutti questi oggetti. Es­
sa non li vede dunque in se stessi; e l'oggetto immediato del nostro
spirito, quando per esempio vede il sole, non è il sole, ma qual­
che cosa di intimamente unito all'anima nostra, ed è quello che io
chiamo idea. Cosi, con questa parola idea non intendo se non ciò
che è oggetto immediato o più vicino allo spirito quando percepi­
sce un oggetto; ossia ciò che tocca e modifica lo spirito con la per­
cezione che ha di un oggetto» (Recherche III, seconda parte, 1,
1) 5• Affinché ci sia conoscenza, dunque, deve esserci l'idea, ma non
è necessaria la presenza della cosa « fuori di noi». Le idee sono
necessarie per conoscere i corpi fuori di noi, ma non per cono­
scere noi stessi e le realtà spirituali (Recherche III, 2a parte, 1, 1).
Sull'origine delle idee Malebranche enumera cinque teorie: 1)
che le idee ci vengano dai corpi stessi; 2) che siano prodotte dal­
l'anima; 3) che Dio le abbia prodotte nell'anima creandola o ve le
produca ogni volta che conosciamo un oggetto; 4) che l'anima ab­
bia in sé tutte le perfezioni che vede nei corpi; 5) che sia unita ad
un essere perfettissimo il quale le contenga tutte in sé.
« L'opinione più comune è quella dei peripatetici - la pri­
ma - i quali pretendono che gli oggetti di fuori mandino delle
specie loro somiglianti, e che queste specie siano portate dai sensi
esterni fino al senso comune; essi chiamano tali specie impresse ...
Tali specie impresse, essendo materiali e sensibili, sono rese intel­
ligibili dall'intelletto agente, e sono atte ad essere ricevute dall'in­
telletto paziente. Tali specie cosi spiritualizzate sono chiamate
specie espresse ... » (Recherche III, 2" parte, 2). Si capisce che una

' Si noti il passo compiuto rispetto alla pos1z1one di Galileo: Galileo dice che
le qualità tengono lor residenza nel corpo sensitivo; Cartesio, che ha scisso il corpo
sensitivo in: puro meccanismo da una parte (corpo) e res cogitans dall'altra, pone le
qualità nell'anima-res cogitans e quindi le riduce a idee; Malebranche accentua questa
posizione affermando che l'anima sola percepisce gli oggetti e, certo, un'anima pura­
mente spirituale non può andare a spasso per i cieli e neppure aver contatto coi
corpi; bisogna dunque ammettere che essa venga a contatto con qualcosa di più
vicino, che è l'idea. Il più vicino è un termine ambiguo che può indicare sia il più simile
per natura, più affine, sia, in contrapposto ai lor.tani cieli, più vicino spazialmente. Sia
nell'uno come nell'altro caso non c'è sentore di una presenza intenzionale, diversa dal­
l'affinità di natura e dalla vicinanza spaziale: il conosciuto è inteso come un fisica­
mente present('.
MALEBRANCHE 185

interpretazione così rozza della teoria scolastica 6 sia subito scar­


tata da Malebranche, il quale parla delle species impressae addirit­
tura come di corpuscoli (petits corps) che non potrebbero non ur­
tarsi fra loro attraversando lo spazio, e riempirlo tutto.
« La seconda opinione è di coloro i quali credono che le no­
stre anime abbiano la potenza di produrre le idee... e che siano
eccitate a produrle dalle impressioni che gli oggetti fanno sul cor­
po, sebbene queste impressioni non siano immagini simili agli og­
getti che le producono » (loc. cit., cap. 3 ). Questa sembrerebbe
la teoria scolastica meglio interpretata 7• Malebranche la rifiuta per­
ché essa attribuisce all'anima umana un potere creatore. Infatti
« nessuno può mettere in dubbio che le idee siano enti reali » e
spirituali; dunque se l'anima umana potesse produrle potrebbe ad­
dirittura creare degli esseri spirituali (ibid. ).
La terza opinione, quella dell'innatismo, è sbagliata perché noi
possiamo pensare ad una infinità di oggetti ( ogni idea universale
contiene implicitamente un numero infinito di idee) e bisognereb­
be ammettere che il nostro spirito fosse un magazzino di idee (Zoe.
cit., cap. 4 ). Se poi fosse Dio a produrre ogni volta un'idea nel no­
stro spirito, egli non agirebbe per le vie più semplici, come invece
fa sempre.
Secondo la quarta opinione (quella di Arnauld) l'anima con­
tiene eminenter le perfezioni del mondo corporeo, quindi può trar­
ne da sé l'idea. Ma, obietta Malebranche, lo spirito umano può
conoscere tutti gli enti - non solo i corpi - e non contiene in sé
tutto l'essere: solo Dio, « che può chiamarsi l'essere universale, o
semplicemente colui che è » contiene in sé tutto l'essere (loc. cit.,
cap. 5).
Resta dunque la quinta soluzione: che noi vediamo tutte le
cose in Dio. Dio infatti contiene in sé le idee di tutte le cose, ed « è
strettamente unito alle anime nostre con la sua presenza, sì che si

• Così diversa, per esempio, da quella che si può trovare in Tommaso d'Aquino.
7
D. CoNNEL (The Vision in God, cap. V) osserva che l'elenco che Malebranche
fa delle diverse teorie riflette una divisione logica, ossia di possibili soluzioni, piut­
tosto che una divisone storica di teorie realmente professate. Non solo: l'elenco
« corrisponde a quello che Suarez fa delle varie teorie sull'origine delle specie con
le quali gli angeli conoscono le cose materiali ». Di qui la difficoltà di identificare
i sostenitori delle diverse soluzioni. Si veda la recensione del libro di D. Connell in
L. VERGA, Rassegna bibliografica sul pensiero francese del secolo XVII, in « Rivista
di filosofia neoscolastica» LXI (1969), pp. 291-297.
186 FILOSOFIA MODERNA

può dire che egli è il luogo degli spiriti, come lo spazio è il luogo
dei corpi» (loc. cit., cap. 6). Di qui però non si può concludere
che conosciamo l'essenza di Dio: « Ciò che gli spiriti creati vedono
in Dio è qualcosa di molto imperfetto, mentre Dio è perfettissi­
mo». Nel decimo Eclaircissement 8 e negli Entretiens sur la mé­
taphysique, del 1688, la visione in Dio è intesa come visione in
Dio dell'estensione intelligibile - dalla quale derivano le
verità geometriche - e dei principi morali. Malebranche par­
te dalla considerazione che le verità necessarie, ossia le propo­
sizioni universali e necessarie, come sono quelle geometriche,
non possono in alcun modo essere ricavate dall'esperienza,
che è sempre conoscenza del singolare e del mutevole; dun­
que derivano in noi da una luce divina. Fin qui Malebranche
segue S. Agostino, che cita abbondantemente nella Prefazione e nel
primo degli Entretiens; ma deve ammettere che « S. Agostino non
ha mai detto che si vedano i corpi in Dio» (Entretiens, Préface,
p. 41) 9, e questo perché... non c'era ancora stato Cartesio, ossia
perché S. Agostino credeva che si vedessero gli oggetti in se stessi,
e che i colori e le altre qualità fossero proprietà degli oggetti. Ora,
poiché sappiamo che le qualità sono solo nell'anima 10, possiamo
dire che le verità eterne delle quali parla S. Agostino ( e Agostino
stesso dà le verità matematiche come esempio) si fondano sull'esten­
sione intelligibile che vediamo in Dio. « Avete l'idea dello spazio
o dell'estensione; di uno spazio, dico, che non ha limiti. Questa
idea è necessaria, eterna, immutabile, comune a tutti gli spiriti,
agli uomini, agli Angeli, a Dio stesso. Questa idea, badate, non può
essere cancellata dal vostro spirito, come non possono essere can­
cellate quella dell'essere o dell'infinito, dell'essere indeterminato.
Gli è sempre presente. Non potete separarvene o perderla total­
mente di vista. Ora da questa ampia idea si formano in noi non so-

• Gli Eclaircissements sur la Recherche de la vérité, aggiunti nella terza edi­


zione dell'opera, (1677-78), sono risposte alle obiezioni che erano state mosse a Ma­
lebranche e contengono, come dice il titolo, ulteriori spiegazioni sui punti che erano
stati oggetto di discussione. Il decimo Eclaircissement riguarda appunto la visione
delle cose in Dio.
• Cito dall'edizione curata da A. Cuvillier, Paris, Vrin, 1948.
10 « J'avois appris d'ailleurs (cioè da Cartesio) que les qualités sensibles n'étaient
que dans l'a.me... Mais j'en etois démeuré là, jusqu'à ce je tombai heureusement sur
quelques endroits de S. Augustin, qui servirent à m'ouvrir l'esprit sur !es idées ».
Entretiens sur la Métaphysique, Préface, p. 42.
MALEBRANCHE 187

lo l'idea del cerchio e di tutte le figure puramente intelligibili, ma


anche quella di tutte le figure sensibili che vediamo guardando
questo mondo creato» (Entretiens, I, p. 72). Si potrebbe dire cht:
l'idea dell'estensione è l'aspetto intelligibile di ogni altra idea.
Ora una tale estensione è infinita, dunque non può essere una mo­
dificazione del mio spirito che è finito: è l'oggetto del mio spirito.
« La percezione che ho dell'estensione intelligibile appartiene a
me: è una modificazione del mio spirito... Ma l'estensione che per­
cepisco non è una modificazione del mio spirito. Ho coscienza (je
sens bien) infatti di non essere io stesso ciò che vedo quando pen­
so a spazi infiniti, a un cerchio, a un quadrato, a un cubo, quando
guardo questa camera o volgo gli occhi verso il cielo » (loc. cit.,
p. 75) 11• L'estensione intelligibile è un'idea divina: è « l'archetipo
della materia di cui è costituito il mondo e nel quale abitano i no­
stri corpi, e noi la vediamo in Dio. I nostri spiriti infatti abitano
nella Ragione universale, in questa sostanza intelligibile che rac­
chiude in sé le idee di tutte le verità che scopriamo» (Entre­
tiens, I, p. 76).
Concludendo, nella Recherche, il discorso sull'origine delle
idee, Malebranche afferma che ci sono quattro tipi di conoscenza:
1) delle cose in se stesse, 2) delle cose nelle loro idee, 3) conoscen­
za « per coscienza o per sentimento interiore», 4) conoscenza per
congettura. Conosciamo solo Dio per se stesso, conosciamo i corpi
nelle loro idee, conosciamo la nostra anima per « sentimento»,
conosciamo le anime degli altri uomini per congettura.
Malebranche insiste anche nell'XI Eclaircissement e nel Ill
degli Entretiens sulla differenza fra la conoscenza mediante idee
e quella per sentimento: questa è oscura e confusa, mentre quella
è chiara e distinta. Dall'idea di estensione si possono dedurre
le verità geometriche, ma dalla coscienza o sentimento di noi stessi
non possiamo dedurre le capacità, gli atteggiamenti dell'anima no­
stra. �< Il sentimento interiore che ho di me stesso mi insegna che
esisto, che penso, che voglio, che sento, che soffro ecc.; ma non mi

11 Sembra che Malebranche ricuperi la distinzione fra atto e oggetto di conoscen­


za (forse anche in seguito alle obiezioni di Arnauld nel Des vraies et des fausses idées
del 1683 ), ma solo per gli oggetti intelligibili; la sensazione non ha propriamente
oggetto: il sentito è une manière d'étre de l'esprit (Recherche, I, 1, 1). « ... les cou­
leurs... ne sont que des modifications ou des perceptions de l'ame... » Entretiens,
Préface, p. 40.
188 FILOSOFIA MODERNA

fa conoscere che cosa sono, qual è la natura del mio pensiero, della
mia volontà, dei miei sentimenti ... » (Entretiens, III, p. 105).
Non conosco l'archetipo degli esseri spirituali, mentre conosco,
nell'estensione intelligibile, l'archetipo dei corpi.
Intuendo l'estensione intelligibile « vedete in verità la sostanza
divina, dice Teodoro, che impersona Malebranche, ad Aristo; poi­
ché solo la sostanza divina è visibile e può illuminare lo spirito.
Ma non la vedete in se stessa o secondo ciò che essa è. La vedete
solo nel rapporto che ha con le creature materiali, in quanto è da
esse partecipabile, in quanto le rappresenta» (Entretiens, II, p.
85). Tuttavia basta questo per farci vedere che Dio esiste, e per
farcene conoscere gli attributi di infinità, onnipotenza, sapienza.
Di infinità innanzi tutto, poiché quando si pensa l'essere si
pensa l'infinito - e non solo infinito come l'estensione intelli­
gibile, che è l'idea o archetipo dei corpi, mentre « l'essere senza
restrizione, in una parola l'Essere, è l'idea di Dio: è quello che
lo rappresenta al nostro spirito cosl come lo vediamo in questa
vita». E badiamo, aggiunge Teodoro, che Dio non è visibile me­
diante un'idea che lo rappresenti. « L'infinito è per sé la sua idea ...
L'infinito non si può vedere che in se stesso, poiché nessuna realtà
finita può rappresentare l'infinito. Se si pensa Dio, egli deve esi­
stere» (Entretiens, II, pp. 87-88).

3. L'occasionalismo

Il quarto e il quinto libro della Recherche de la vérité interes­


sano specialmente la morale, alla quale accenneremo più avanti;
il sesto libro tratta del metodo, e qui Malebranche presenta la tesi
occasionalistica che Dio è l'unica causa efficiente: le creature sono
soltanto occasioni per l'azione causale di Dio. Esponendo infatti
la prima regola del metodo, quella che prescrive di ragionare su
idee chiare, Malebranche critica la fisica di Aristotele, che ado­
pera termini confusi, presi dalle sensazioni e attribuisce le qualità,
che sono soltanto sensazioni, ai corpi. L'opinione che le qualità
siano nei corpi è non solo erronea, ma è la radice del più grave er­
rore filosofico, che è quello di attribuire alle creature una efficacia
causale. Infatti « se si suppone che vi siano nei corpi delle entità
MALEBRANCHE 189

distinte dalla materia 12, poiché non si ha l'idea distinta di queste


entità, si può facilmente immaginare che esse siano le vere o le
principali cause degli effetti che vediamo accadere » (Recherche,
VI, 2 a parte, 3 ). Le qualità rimandano alle forme sostanziali come
loro principio; ora se i corpi sono dotati di forme sostanziali, sono
anche dotati di attività, e se sono dotati di attività sono divini:
« se si considera attentamente l'idea di causa o di potenza attiva,
non si può dubitare che questa idea non rappresenti qualche cosa
di divino » (Zoe. cit., 3 ). Ma ammettere che ci siano enti divini
nella natura vuol dire essere pagani. Se si è cristiani si adora un
solo Dio e quindi si deve ammettere che egli solo sia causa effi­
ciente di ogni nuova realtà, di ogni mutamento.
« Vi è una sola causa, perché vi è un solo Dio; la natura o la
forza di ciascuna cosa non è se non la volontà di Dio; tutte le cause
naturali non sono vere cause, ma soltanto cause occasionali... »
(loc. cit. ).
Ora nessuna concezione del mondo corporeo si prestava meglio
di quella cartesiana per giustificare questa visione religiosa: il mon­
do corporeo ridotto a pura estensione era quella realtà inerte, pri­
va di ogni forza e attività, che non può ricevere il movimento se
non dal di fuori: da Dio.

4. La morale

Da Cartesio invece si allontana Malebranche nella concezione


delle proposizioni universali, che per lui sono davvero verità eter­
ne, dipendenti dalle idee divine e non da un libero decreto di Dio.
« Se le verità e le leggi eterne dipendessero da Dio, se fossero state
stabilite dalla libera volontà del Creatore; in una parola, se la ra­
gione che consultiamo non fosse necessaria e indipendente, mi
pare evidente che non ci sarebbe più vera scienza, e ci si potrebbe
sbagliare asserendo che l'aritmetica e la geometria dei cinesi è si­
mile alla nostra » (Xe Éclaircissement, p. 77). Cartesio aveva det­
to: ciò che sembra vero a me potrebbe parer falso a un angelo;
Malebranche dice: « ciò che è vero per l'uomo è vero per l'Angelo

12
Che è pura estensione.
190 FILOSOFIA MODERNA

e per Dio stesso» (Traité de morale, I, 1,7). Questa divergenza


si riflette nella fondazione della morale: le norme morali sono ve­
rità eterne, come le verità geometriche. « Vedo che 2 per 2 fa 4,
dice Malebranche, e che si deve preferire il proprio amico al pro­
prio cane, e sono certo che non vi è uomo al mondo che non possa
vederlo altrettanto bene. Quando un uomo preferisce la vita del
suo cavallo a quella del suo cocchiere, ha le sue ragioni, ma sono
ragioni particolari, delle quali ogni uomo ragionevole inorridisce.
Sono ragioni non ragionevoli, perché non sono conformi alla su­
prema ragione, o alla ragione universale che tutti gli uomini con­
sultano» (X" Éclaircissement, pp. 75-76). L'uomo infatti vede in
Dio non solo l'idea dell'estensione e i rapporti matematici, ma an­
che « i rapporti di grandezza o di perfezione» (Traité de morale,
I, 1, 6). I rapporti di perfezione « sono l'Ordine immutabile che
Dio consulta quando agisce, ordine che deve regolare la stima e
l'amore di tutte le intelligenze» (ibid). L'essenza della moralità
consiste dunque nel riconoscere e amare l'Ordine, seguire l'Ordi­
ne, obbedire all'Ordine. E non basta che le azioni umane siano
conformi all'Ordine: esse debbono essere anche motivate dall'amo­
re per l'Ordine. Di qui la distinzione malebranchiana fra doveri
(azioni conformi all'Ordine) e virtù. Unica virtù - che si iden­
tifica con la carità - è l'amore dell'Ordine (Traité de morale, I,
2).
Una fenomenologia della vita morale è contenuta nel quarto
e nel quinto libro della Recherche de la verité che trattano rispet­
tivamente delle inclinazioni e delle passioni. Le inclinazioni stan­
no al mondo spirituale come i movimenti stanno al mondo mate­
riale: sono i moti che Dio imprime allo spirito. Anziché partire
dallo studio di noi stessi per scoprire tali inclinazioni, Malebran­
che parte da Dio, perché le nostre attuali inclinazioni non sono
quelle conformi all'ordine della natur�, che è stato rovesciato dal
peccato originale, ma sono sregolate. Dio non può operare se non
per se stesso come fine primario - poiché far dipendere la sua
volontà da altro sarebbe farla dipendere dal nulla -; come fine
secondario vuole la conservazione degli enti che ha fatto partecipi
della sua bontà. Le inclinazioni naturali delle creature sono dunque
rivolte primariamente a Dio e, secondariamente, alla propria con­
servazione. C'è dunque in noi, fondamentalmente, l'inclinazione
al bene in generale, che dà alla volontà una capacità di infinito
MALEBRANCHE 191

« poiché essa è fatta per un bene che comprende in sé tutti i beni »


(Recherche, IV, 2, 1).
Ora l'esperienza ci mette sempre di fronte a beni finiti; di
qui una inquietudine della volontà, mai soddisfatta: « La volontà
è dunque sempre inquieta, poiché è portata a cercare ciò che non
può mai trovare e che spera sempre di trovare » (ibid). Seconda­
riamente c'è in noi l'inclinazione alla nostra conservazione, che
assume una duplice forma: inclinazione alla grandezza e inclina­
zione al piacere. Per la prima desideriamo la potenza, l'eccellenza,
l'indipendenza (Recherche, IV, 5, 2) e quello che ci fa eccellere
sugli altri: sapere, virtù, ricchezze, onori - o almeno l'apparenza
di queste cose, sopra tutto quando si tratta della virtù, che è sco­
moda da conquistare -. Il desiderio del sapere è buono, mentre
è sempre dannoso il desiderio di sembrare dotti; e qui Malebran­
che fa acute osservazioni su quella che vichianamente chiamerem­
mo la boria dei dotti (Recherche, IV, 8, 2).
Il desiderio del piacere, che Malebranche identifica col benes­
sere, è naturale: il piacere è buono: « il piacere è sempre un bene
e il dolore è sempre un male; ma non è sempre vantaggioso godere
il piacere, ed è talora vantaggioso soffrire il dolore » (Recherche,
IV, 10, 2). Le ragioni di quest'ultima affermazione addotte da
Malebranche sono molteplici, ma quella fondamentale, ripresa an­
che nel quinto libro, è che il piacere è il segno del bene per il no­
stro corpo e noi non siamo il corpo: notre corps n'est pas nous
(Recherche, V, 4 ). Il nostro vero piacere sarà dato dal possesso
di Dio, ma in questa vita, per conseguenza del peccato originale,
sentiamo poco il piacere del nostro vero bene e molto quello del
bene del corpo.
Oltre alla inclinazione al proprio bene c'è l'inclinazione al be­
ne degli altri, o amicizia. Malebranche prende il termine « amici­
zia » nel senso più ampio, come legame con tutti gli altri uomini.
L'amicizia è il fondamento della società civile: produce vantaggi,
ma può anche essere causa di errori perché può renderci ciechi ai
difetti dei nostri amici, può spingerci a sposarne le idee senza cri­
tica e condurci così ad essere settari.
La teoria generale di Malebranche sulle passioni è diversa da
quella di Cartesio, in conseguenza della diversa teoria sull'unione
fra anima e corpo; Malebranche infatti spiega questa unione con
la teoria delle cause occasionali: « Dio ha voluto ... che le diverse
192 FILOSOFIA MODERNA

vibrazioni del cervello siano seguite sempre da diversi pensieri del­


lo spirito che gli è unito. Ed è questa volontà costante ed efficace
del Creatore quella che costituisce l'unione delle due sostanze »
(Entretiens, IV, 11 ). Ora le passioni, essendo solo occasionate dal
corpo, sono sotto un certo aspetto più lontane dall'anima di quanto
non fossero per Cartesio, ma sotto un altro aspetto più importanti,
perché rispondono ad una precisa volontà divina: è Dio che pro­
duce la passione. Più chiara è anche, in Malebranche, la distinzio­
ne della passione dalla conoscenza: la passione è inclinazione, la
conoscenza è visione. « Le passioni dell'anima sono impressioni
dell'Autore della natura che ci inclinano ad amare il nostro corpo
e tutto ciò che può essere utile alla sua conservazione » (Recher­
che, V, 1). A proposito della lotta contro le passioni Malebranche
polemizza contro la pretesa stoica che la ragione basti a mitigare
le passioni o addirittura a spegnerle: le passioni sono inclinazioni
naturali e restano quelle che sono; il Cristianesimo ci insegna
ad accettare il dolore e ad aspettare la liberazione da Dio.
CAPITOLO OTTAVO

B. SPINOZA
(1632-1677)

1. Cenni biografici

Spinoza nacque ad Amsterdam da una famiglia di ebrei porto­


ghesi emigrata in Olanda per sfuggire alle persecuzioni. Un qua­
dro vivace dell'ambiente ebraico nel quale si formò Spinoza s1
trova nel volume di A. BANFI, Spinoza e il suo tempo 1•

* La migliore e più recente edizione delle opere di Spinoza è quella curata da


C. GEBHARDT: SPINOZA Opera, Heidelberg, C. Winter, 1924, 4 voll.
Principali traduzioni italiane: Breve Trattato, a cura di G. Semerari, Firenze,
Sansoni, 1953; La riforma dell'intelligenza, a cura di M. Berté, Padova, Liviana,
1966; Trattato teologico-politico, a cura di C. Casellato, Firenze, La Nuova Italia, 1971;
altra traduzione a cura di E. Giancotti-Boscherini, Torino, Einaudi, 1971; Etica,
varie traduzioni; da tener presente specialmente quella con testo a fronte di G.
Durante, Firenze, Sansoni, 1963; Epistolario, trad. di A. Droetto, Torino, Einaudi, 1951.
Pi:ezioso strumento di lavoro è il Lexicon Spinozanum di E. GIANCOTTI BoSCiiERINI,
L'Aja, M. Nijhoff, 1970, 2 voll.
Della vastissima bibliografia su Spinoza si ricorda: St. von DUNIN-BORKOWSKI, Spi­
noza, Miinster, Aschenciorff, 1933-1936, 4 voll. (La prima ediz. del primo volume Der
junge De Spinoza è del 1910); H. A. WoLFSON, The Philosophy of Spinoza, Cambridge,
Mass., Harvard University Press, 1934; A. Guzzo, Il pensiero di Spinoza, 2• ed., Torino,
Edizioni di Filosofia, 1964 (la prima edizione è del 1924); P. D1 VoNA, Studi sull'onto­
logia di Spinoza, Firenze, La Nuova Italia, 1960--1969, 2 voll. Si citeranno via via altre
opere sui singoli problemi.
1
A. BANFI, Spinoza e il suo tempo, Vallecchi, Firenze 1969. Si tratta di dispen•
se, pubblicate postume e rivedute dall'Editore. Purtroppo sono prive di note, e non
tutto quello che vi è contenuto ha uguale valore, ma riflettono la larga cultura del
Banfi, il suo modo di esporre, spesso affascinante.
Notizie storiche precise nel primo dei quattro volumi di St. von DuNIN-BORKOWSKI,
citati sopra.
194 FILOSOFIA MODERNA

Il pensiero di Spinoza si formò sotto l'influsso della Bibbia,


specie dell'Antico Testamento, e del Talmud; della scolastica ebrai­
ca medievale (specialmente Maimonide e Avicebron); del pensie­
ro rinascimentale, della nuova scienza, e della scolastica del secolo
XVI e XVII. È merito specialmente di H. A. Wolfson aver messo
in luce l'influsso della scolastica ebraica medievale; del Dilthey
aver messo in luce l'influsso del pensiero del Bruno; del Freuden­
thal 2 prima, poi del Dunin-Borkowski e più recentemente del Di
Vona 3 aver messo in luce l'influsso della scolastica cinque-secen­
tesca.
Una data di grande importanza nella vita di Spinoza 4 è la sua
scomunica da parte della comunità ebraica nel 1656. L'atto di sco­
munica parla di opinioni errate su Dio, gli Angeli, l'anima. L'apo­
logia che Spinoza scrisse dopo la scomunica è andata perduta; Bayle
dice che essa conteneva l'interpretazione della religione che Spino­
za espose poi nel Trattato teologico-politico, cioè una interpreta­
zione razionalistica della religione. La scomunica aveva allora an­
che effetti esteriori, poiché obbligava gli ebrei a non avere più
rapporti con Spinoza, e non facili erano i rapporti coi cristiani,
quindi gli rendeva la vita difficile. Egli abbandonò Amsterdam, si
ritirò prima a Ouverkerk, poi a Rijnsburg presso Leida, poi a
Voorburg presso l'Aja e infine all'Aja, dove morl nel 1677. Si
mantenne tagliando lenti, attività che svolgeva molto bene date
le sue cognizioni di ottica. Quando, nel 1673, l'Elettore Palatino
gli offrl una cattedra all'Università di Heidelberg rispose ringra­
ziando, ma rifiutò per conservare la propria libertà e tranquillità
(Lettera 48). Ma, anche se non insegnò pubblicamente, esercitò
un vero e proprio magistero con un gruppo di amici fedeli. La
prima opera di Spinoza è il Breve trattato di Dio, dell'uomo e
della sua felicità, in olandese, scritto verso il 1658, anzi proba­
bilmente dettato, come frutto dell'insegnamento a un gruppo di

2
J. FREUDENTHAL, Spinoza und die Scholastik, in Philosophische Aufsiitze E.
Zeller gewidmet, Lipsia, 1887.
' Del D1 VoNA, oltre ai due volumi citati, si vedano anche gli Studi sulla sco­
lastica della Controriforma, Firenze, La Nuova Italia, 1968.
• Fonti per la biografia di Spinoza sono principalmente le Vite di J. M. LucAs
(1719) e di Joh. K:oHLER (CoLERUS), quest'ultima scritta in olandese e pubblicata
all'Aia nel 1705, tradotta in francese nel 1706. Queste due biografie ebbero molte
edizioni: furono ripubblicate nel 1899 da J. FREUDENTIIAL, Die Lebensgeschichte
Spinozas, Lipsia, Veit, con traduzione tedesca.
SPINOZA 195

amici. È la prima opera di Spinoza, ma fu l'ultima ad essere cono­


sciuta, perché fu pubblicata la prima volta nel 1862 5•
Ricordiamo poi: De intellectus emendatione, scritto probabil­
mente fra il 1661 e il 1662; Renati Des Cartes Principiorum phi­
losophiae pars I8 et II4 more geometrico demonstrata e Cogitata
metaphysica, 1663. È l'unica opera pubblicata da Spinoza col suo
nome; Tractatus theologico-politicus, pubblicato anonimo ad Am­
sterdam, ma con la falsa indicazione « Hamburgi, apud Ki.ihn­
rath », 1670; Ethica, ordine geometrico demonstrata. Spinoza vi
lavorò dal 1661 o 62 alla morte. Usd postuma, nel 1677, insieme
col De intellectus emendatione e col Tractatus politicus, incom­
piuto, e Lettere.

2. Il « Breve Trattato »
II Breve Trattato contiene, anche se meno rigorosamente e­
spresse, le medesime dottrine fondamentali che si ritrovano nel­
l'Etica. Si divide in due parti: la prima tratta di Dio, la seconda
dell'uomo. Fra il capitolo II e il III della prima parte stanno due
dialoghi: il primo fra l'Intelletto, l'Amore, la Ragione e la Concu­
piscenza, il secondo fra Erasmo e Teofilo.
L'intelletto è l'intelligenza come capacità di intuizione, la Ra­
gione è la capacità di argomentare (intellectus e ratio nel senso
scolastico); la Concupiscenza riflette l'atteggiamento empiristico,
mondano. Secondo il Guzzo 6 la Concupiscenza rappresenterebbe
il panteismo naturalistico rinascimentale. L'Amore è l'atteggia­
mento pratico che segue la conoscenza: se segue la conoscenza ve­
ra, dell'intelletto, trova pace; se segue la Concupiscenza e si fer­
ma al molteplice, al finito, diventa preda dell'odio e del pentimen­
to, ossia delle passioni.
Il secondo dialogo, fra Erasmo e Teofilo, pone tre problemi:
1) come Dio possa dirsi insieme causa immanente di tutte le cose,
e causa remota di alcune di esse; 2) se Dio è causa immanente,
perché non dire che Dio cresce, per dir così, quando ha prodotto
i suoi effetti; 3) come mai, se Dio è causa immanente, ci sono cose

' La storia della scoperta e delle edizioni del Breve Trattato si può trovare nel
I volume delle SPINOZA, Opera, ed. Gebhardt, pp. 407-436.
• Il pensiero di Spinoza, cit. pp. 20-24.
196 FILOSOFIA MODERNA

corruttibili. La risposta ai tre problemi è fondata su un unico prin­


cipio, che è espresso sinteticamente alla fine del cap. III: « Dio
è causa prossima delle cose infinite e immutabili, che diciamo im­
mediatamente da lui create. Ma è anche causa ultima, e questo
unicamente in rapporto a tutte le cose particolari » (trad. Seme­
rari, p. 28 ). Dottrina che prelude alla distinzione dell'Etica tra
modi eterni e primitivi e modi finiti e derivati 7•
Altri punti preludono all'Etica. Nel cap. IV, per esempio, la
libertà di Dio è intesa come pura assenza di coazione; nel cap. V
la Provvidenza è intesa come la tendenza di ogni cosa a conser­
varsi nell'essere; nel cap. VI si nega che esistano cose contingenti:
tutto è necessario. Nel cap. VIII si distinguono natura naturans e
natura naturata, e la natura naturans è definita in modo simile
a come è definita la sostanza nella prima parte dell'Etica: « un
essere che per se stesso, senza il soccorso di nessun'altra cosa ...
è conosciuto chiaramente e distintamente », Spinoza aggiunge che
i tomisti indicano, con questo termine, Dio 8• Nel cap. X si nega
l'esistenza di un bene e di un male oggettivi: bene e male sono
entia rationis, perché sono la corrispondenza di una cosa all'idea
generale che ce ne facciamo, e questa corrispondenza non pone
nessuna realtà nelle cose.
La seconda parte del Breve Trattato, in ventisei capitoli, com­
prende in breve tutti gli argomenti trattati nella II, III, IV e V
parte dell'Etica: natura dell'uomo, anima e corpo, passioni. feli-­
cità dell'uomo - e anche qui si anticipano le teorie esposte nel­
l'opera maggiore. Ricorderemo, a titolo di curiosità, che il cap.
XXV parla del diavolo, per negarne l'esistenza, e questo capitolo
colpl il primo che ebbe conoscenza del Breve Trattato, manoscrit­
to, G. Stolle, nel 1704, il quale parlò di una Etica in olandese con
un capitolo sul diavolo (che non c'è nell'Etica).

7
La dottrina della causalità divina, nel Breve Trattato, dipende strettamente da
Heerebord, un cartesiano che però risente fortemente l'influsso di Suarez.
• S. Tommaso, Summa theol. I, q. 85, art. 6 e In l. De divinis nominibus Expo­
sitio, lectio XXI, dice: « quidam dixerunt ». Secondo H. SIEBECK, citato da A. Guzzo
e V. MATHIEU nella voce Natura dell'Enciclopedia filosofica, l'origine del termine sa­
rebbe nel commento medio di Averroè al De coelo di Aristotele, I, 1. Più esatta­
mente il P. PERA in una nota al Commento di S. Tommaso al De divinis nominibus,
ed. Marietti, dice che i termini natura naturans e natura naturata traggono origine
dalla traduzione latina di Averroè, e la traduzione latina di Averroè risente di in­
flussi neoplatonici.
SPINOZA 197

3. I « Principi della filosofia di Cartesio »


e i « Cogitata metaphysica »

L'unica opera pubblicata da Spinoza col suo nome è costituita


dai Principz di filosofia di Cartesio 9, ai quali si aggiungono i Co­
gitata metaphysica. Ci pare non privo di interesse vedere breve­
mente come nacque quest'opera.
Sappiamo dalla Lettera 13 a di Spinoza (Epistolario, trad. Droet­
to, p. 85) che egli, pregato di dar lezioni di :filosofia a un giovane,
e non volendo manifestargli le sue opinioni personali, gli spiegò
la seconda parte dei Principi di Cartesio (quella contenente la co­
smologia: De principiis rerum materialium) messa in forma geo­
metrica, e le cose più notevoli della metafisica. Alcuni amici lo pre­
garono di mettere a loro disposizione (ut sibi copiam facerem)
queste lezioni, che egli aveva già scritte. Veduto lo scritto, gli
amici lo pregarono di esporre al più presto, sempre more geome­
trico, anche la prima parte dei Principi di Cartesio (quella conte­
nente la metafisica) e Spinoza accettò l'invito, scrivendo in due
settimane l'esposizione della prima parte. Ottenuto il permesso
di Spinoza, gli amici fecero stampare tutto lo scritto - cioè le
lezioni fatte al giovane (probabilmente Caseario) - al quale Lu­
dovico Meyer, per incarico di Spinoza, premise una prefazione e
diede uno stile più elegante.
Quello che ci pare interessante rilevare è che la prima parte
dei Principi fu scritta dopo, e non è la metafisica che Spinoza in­
segnò a Caseario. La metafisica insegnata a Caseario è quella dei
Cogitata metaphysica, la quale è molto più vicina alla scolastica
contemporanea che a Cartesio, come rilevò per primo J. Freuden­
thal nel saggio citato Spinoza und die Scholastik, mettendo a raf­
fronto passi di scolastici (Suarez, Martini, Burgersdijk, Heere­
bord) con passi dei Cogitata metaphysica.
Che cosa vuol dire questo? Che Spinoza, non volendo inse­
gnare a Casearius la propria filosofia, preferl, per la metafisica,
insegnargli la scolastica piuttosto che la :filosofia cartesiana. Certo,
alla scolastica egli dà alcuni colpi di pollice che la avvicinano alla
dottrina dell'Etica, ma sta di fatto che egli preferisce interpretare

9
Renati Des Cartes Principiorum Philosophiae pars I et II more geometrico
demonstrata.
198 FILOSOFIA MODERNA

la metafisica scolastica piuttosto che quella cartesiana. Si noti in­


fatti che i Cogitata metaphysica, pur non esponendo ancora le
dottrine dell'Etica 10 sono più vicini alla prima parte dell'Eti­
ca che non la prima parte dell'esposizione fatta da Spinoza
dei Principi di Cartesio. Questo riconobbe anche K. Fischer, nel
volume dedicato a Spinoza della sua grande Storia della filosofia,
che pure affermava una stretta dipendenza di Spinoza da Cartesio
(e doveva compiere sforzi notevoli per vedere nei Cogitata meta­
physica un influsso cartesiano).
Quando invece Spinoza dové insegnare a Caseario la cosmo­
logia, espose i Principi di Cartesio e non la cosmologia scolastica.
Il che vuol dire che il terreno sul quale Spinoza si allontanava ra­
dicalmente dalla scolastica, e la riteneva inutilizzabile, era la filo­
sofia della natura, non la metafisica. Per questa si sentiva più vi­
cino alla scolastica (anche se ne modificava in modo notevole certe
teorie) che a Cartesio 11•
Ma, dopo aver parlato dei Cogitata metaphysica dall'esterno,
per dir così, ossia dell'occasione in cui Spinoza li scrisse, dobbiamo
sia pur brevemente accennare al loro contenuto.
L'opera si divide in due parti: una espone la metafisica gene­
rale (l'ente e le sue proprietà: affectiones), l'altra la metafisica spe­
ciale (Dio e la mens). Della prima parte, in questo brevissimo ac­
cenno, ricorderemo solo la riduzione dell'ens rationis a puro nome,
a suono; la negazione che possibile e contingente siano modi del­
l'ente: tutto ciò che è, è necessario: o in sé, come Dio, o nella
sua causa, come le creature. Possibile e contingente sono nozioni
derivanti solo da un difetto del nostro intelletto: noi diciamo in­
fatti possibile ciò di cui sappiamo che ha una causa, ma ignoriamo
la causa determinante; chiamiamo contingente l'essenza di una co­
sa considerata in se stessa e non nella sua causa. Ma tutto ciò che
è in realtà, in tanto è, in quanto è causato da Dio; dunque consi-

10
Ed essendo più lontani da questa del Breve Trattato. E si capisce: poiché il
Breve Trattato rimase manoscritto, fu esposto solo ad amici, mentre i Cogitata meta­
phisica furono pubblicati, e, prima, furono insegnati a uno che era antipatico a Spi­
noza (Lettera 9").
11
Mi sono fermata su questo punto perché vedo in questo una conferma dell'opi­
nione che la rottura fra filosofia scolastica e la filosofia moderna sia avvenuta origina­
riamente sul piano della fisica e non della metafisica o della gnoseologia. Anche per la
gnoseologia, come vedremo parlando del De intellectus emenda/ione, Spinoza è molto
più vicino alla scolastic., che a Cartesio.
SPINOZA 199

derare una cosa senza rapporto con la sua causa è un considerarla co­
me non è, e non come è. E tutto ciò che è, esiste necessariamente, non
in sé, ma nella sua causa, perché Dio non può mutare il decreto
col quale fa essere una cosa.
A proposito dei trascendentali ( uno, vero, buono) Spinoza è in
polemica con la scolastica: egli nega che uno, vero, buono siano
affectiones dell'ente. Non l'uno, perché non aggiunge nulla all'en­
te, è solo un modus cogitandi; non il vero, poiché vera può essere
solo la conoscenza, non la realtà; non il bene, perché il bene è rela­
tivo a noi, ai nostri desideri. Questa tesi di Spinoza si capisce be­
nissimo se si tien presente che per lui - anche se egli non lo di­
ceva expressis verbis a Caseario - non ci sono enti distinti, l'ente
non è determinato, anzi: omnis determinatio negatio ( ora la no­
zione di uno aggiunge a quella di ente la determinatezza; uno vuol
dire indivisum in se et divisum a quolibet alio): Inoltre, in Dio
non c'è intelletto e volontà, secondo Spinoza; ora l'affermazione
che ogni ente è vero vuol dire che ogni ente risponde a un'idea
divina, e l'affermazione che ogni ente è buono vuol dire che ogni
ente è voluto da Dio.
Ho indicato solo i punti più notevoli di divergenza fra i Cogi­
tata metaphysica e la scolastica; molte altre dottrine scolastiche
sono invece esposte senza alcuna espressione di dissenso.

4. Il « De intellectus emendatione »
Si è detto che il De intellectus emendatione 12 è il « Discorso
sul metodo » di Spinoza e mi sembra che la frase possa essere ac­
cettata, vuoi per certe somiglianze esteriori vuoi perché il De in­
tellectus emendatione contiene la metodologia dell'Etica; non per­
ché il metodo di Spinoza sia quello di Cartesio. Le somiglianze
esteriori sono: il modo autobiografico di esposizione, l'indicazio­
ne di regole per una morale provvisoria, la ricerca di un metodo
per arrivare alla verità. Ma la verità che Spinoza cerca è una verità
che dia significato alla vita, non una verità scientifica, e per questo
Spinoza è più vicino a Pascal che a Cartesio.

" Un buon commento al De int. em. è quello di H. H. JoACHIM, Spinoza's Tractatus


De intellectus emendatione, Oxford, Clarendon Press, 1940 (rist. del 1958). Cfr. anche
G. H. R. PARKINSON, Spinoza's Theory of Knowledge, Oxford, Oarendon Press, 1954.
200 FILOSOFIA MODERNA

Il Proemio è una delle pagine più belle che siano state scritte
da filosofi, e bisognerebbe leggerlo. Il movente dell'indagine è la
ricerca del vero bene: « ... constitui tandem inquirere, an aliquid
daretur, quod verum bonum, et sui communicabile esset, et a quo
solo, rejectis caeteris omnibus, animus afficeretur; imo an aliquid
daretur, quo invento et acquisito, continua, ac summa in aeternum
fruerer laetitia » (Opera, II, p. 5) 13•
Ora non è possibile conciliare questa ricerca con quella dei
beni terreni, poiché il piacere dà luogo alla tristezza, al pentimento,
alla nausea; la sete di ricchezza e di onori è insaziabile e, quando
non è soddisfatta, reca dolore; la ricerca degli onori, poi, ci obbli­
ga a vivere come vogliono i più. Vista l'impossibilità di conciliare
la ricerca dei beni finiti con quella del bene sommo, Spinoza si
domanda se il rinunciare ai primi è veramente un rinunciare al
certo per l'incerto, e risponde che piacere, ricchezza, onori sono
per loro natura un bene incerto, mentre per il bene assoluto è in­
certa solo la possibilità di raggiungerlo. Anzi, se si guarda bene,
piaceri, ricchezze e onori sono mala certa, mentre l'assoluto è un
bene certo, poiché la ricerca dei primi genera liti, tristezza, timore,
mentre l'amore per una realtà eterna ed infinita sola laetitia pascit
animum.
Desta un certo stupore sentire che, nonostante questa ricerca
di un bene assoluto, Spinoza nega l'esistenza di un bene oggettivo:
bene e male sono solo relativi, poiché tutto è come deve essere.
E allora che senso ha la ricerca del sommo bene? Ognuno potrà
cercare solo quello che è bene per lui; ma allora sarà inutile fare
un discorso sul bene come se esso fosse qualcosa su cui si può di­
scutere. Spinoza ripiega dicendo che, fino a quando non si è arri­
vati a quella visione della realtà nella quale tutto ci si rivela come
necessario, ci si figura un ideale di umanità superiore, alla quale
si cerca di partecipare insieme con gli altri. Questo ideale di uma­
nità si realizza quando si arriva a conoscere l'unione del nostro spi­
rito con tutta la natura: Cognitio unionis quam mens cum tota
natura, habet (Opera, II, p, 8), quando si riconosce l'unità del
tutto. Si capisce allora perché l'Etica cominci da Dio.
Ma, prima di passare all'Etica vogliamo aggiungere ancora po-

" Indico con Opera l'edizione Gebhardt; il numero romano è il numero del volume,
SPINOZA 201

che cose sul De intellectus emendatione. Ricordiamo le tre regole


di condotta, la prima delle quali ricorda un po' il primo precetto
della morale provvisoria di Cartesio; dice infatti che bisogna par­
lare in modo da farsi intendere dai più, e non manifestare in modo
paradossale le proprie opinioni, per non urtarsi con gli altri, anzi
per condurli gradatamente verso la verità. Il secondo prescrive
di usare di ciò che è piacevole (deliciis) per quel tanto che giova
a mantenersi in salute; il terzo ripete lo stesso criterio per il de­
naro.
Si tratta poi di emendare l'intelletto, cioè di renderlo capace
di conoscere la realtà in modo tale da farci conseguire il sommo
bene. E qui Spinoza distingue quattro tipi di conoscenza: 1) cono­
scenza indiretta, per sentito dire. In questo modo conosco la data
della mia nascita e da chi sono nato. 2) Conoscenza « per espe­
rienza vaga», cioè per generalizzazione di un certo numero di fatti.
Così so che gli uomini sono mortali, che l'olio alimenta la fiamma
e l'acqua la spegne (è il tipo di conoscenza sul quale era basata
buona parte della fisica aristotelica). 3) Conoscenza mediata, dal­
l'effetto alla causa, da una proprietà all'essenza della cosa. Cosi,
dalla sensazione inferisco l'unione dell'anima col corpo; dal fatto
che oggetti lontani appaiono rimpiccioliti inferisco la grandezza
del Sole. 4) Conoscenza (perceptio) della cosa nella sua essenza o
nella sua causa prossima. E Spinoza aggiunge: quartus modus
maxime est usurpandus: bisogna procedere, in filosofia, sopra
tutto col quarto tipo di conoscenza.
Ma quello che mi sembra particolarmente interessante, nella
gnoseologia spinoziana, è il rifiuto del dualismo gnoseologico che
domina tanta parte della filosofia di questo periodo. La conoscen­
za è originariamente apprensione di realtà, non di idee. « L'idea
vera (e abbiamo idee vere) è qualcosa di diverso dall'ideato: altro
è infatti il cerchio, altro l'idea del cerchio» (Opera, II, p. 14).
Spinoza distingue dunque l'idea dall'ideato, ossia l'idea pel suo
aspetto psichico dall'idea nel suo aspetto intenzionale. Nel suo
aspetto psichico (per la sua essenza formale, dice Spinoza, p. 14,
riga 18) l'idea è una modificazione dello spirito, della mens, ma
una modificazione in virtù della quale lo spirito ha presente l'og­
getto. E l'oggetto non è una cosa in me, per dir così, che faccia
le veci della cosa in sé, ma è la realtà stessa (l'essenza formale) di
ciò che è conosciuto. L'idea nel suo aspetto intenzionale (l'essen-
202 FILOSOFIA MODERNA

tia obiectiva) è la stessa presenza della cosa. « Hinc patet, quod


certitudo nihil sit praeter ipsam essentiam obiectivam; id est mo­
dus quo sentimus essentiam formalem est ipsa certitudo » (p. 15,
rr. 7-9).
In questa concezione, si capisce che la metodologia non debba
precedere la conoscenza della realtà. Come potrei sapere, infatti,
se la metodologia è buona? Dovrei fare una metodologia della me­
todologia, e cosl all'infinito. Sarebbe come se pretendessi di aver
prima un martello per poter battere il ferro; ma per fabbricare il
martello dovrei avere un altro martello. Gli uomini si sono serviti
all'inizio degli strumenti naturali (innatis instrumentis) per battere
il ferro, e poi si son fatti i martelli. Così, dobbiamo adoperare gli
strumenti naturali che abbiamo per conoscere - ossia prima ela­
borare la scienza, e poi farne la metodologia. E gli strumenti na­
turali sono appunto le vere idee.
Si potrebbe allora chiedersi perché è necessario emendare l'in­
telletto, ossia prescrivere, insomma, un metodo. È necessario per
combattere i pregiudizi e per dare ordine alla ricerca. C'è il pregiu­
dizio scettico, ci sono le idee fictae, ci sono i falsi giudizi. Tutti
questi ostacoli si superano se si comincia la ricerca partendo da
un'idea vera, dalla prima idea vera, che è quella dell'Ente perfet­
tissimo (p. 16, rr. 3 ss). E ancora una volta si capisce perché l'Etica
cominci da Dio.

5. L' « Etica »: l'ordine geometrico

L'Etica si divide in cinque parti, dedicate rispettivamente a


Dio, allo spirito umano (mens), alle passioni, alla forza delle pas­
sioni, che è la schiavitù umana, e alla potenza dell'intelletto, che è
la libertà umana. È ordine geometrico demonstrata. Spinoza aveva
già adottato quest'ordine per esporre i Principt di filosofia di Car­
tesio. Ricordiamo che Cartesio, nelle Risposte alle Seconde Obie­
zioni, aveva distinto ordine geometrico da modo geometrico
di dimostrare: il primo consiste nel non dare per dimostrato
ciò che non è veramente tale, ossia ciò che non può esser inferito
da verità immediatamente evidenti; il secondo è il « metodo sin­
tetico »: quello che parte da definizioni, assiomi e di qui deduce
le verità da dimostrare. Nella Prefazione che Lodovico Meyer pre-
SPINOZA 203

mise all'esposizione spinoziana dei Principi (prefazione riveduta


dallo stesso Spinoza), si dice che Cartesio, il primo che riscopri i
fondamenti inconcussi della filosofia (Opera, I, p. 128) e seppe di­
mostrare rigorosamente le sue tesi, preferì il « metodo analitico ».
Ma sebbene la certezza si ottenga per l'una e per l'altra via, il
procedimento analitico non giova a tutti, perché molti, non av­
vezzi al metodo matematico, non si rendono conto degli argomenti
dimostrativi, quando sono presentati secondo il procedimento ana­
litico, e si limitano a imparare a memoria Cartesio, senza capirne
le dimostrazioni. Ecco perché Spinoza ha preferito il procedimento
sintetico (Opera, I, p. 129), che Cartesio riteneva adatto solo alla
esposizione della verità, ma non alla ricerca. Forse la preferenza di
Spinoza per il metodo deduttivo dipende anche dal fatto che la sua
metafisica non è che l'esplicitazione di una intuizione originaria,
quindi esposizione più che ricerca.

6. Le definizioni

L'Etica comincia con definizioni. « Intendo per causa sui ciò


la cui essenza implica l'esistenza, ossia ciò la cui natura non si può
concepire se non esistente ».
« Intendo per sostanza ciò che è in sé, e per sé si concepisce;
ossia ciò il cui concetto, per essere formato, non ha bisogno del
concetto di un'altra cosa. Intendo per attributo ciò che l'intelletto
percepisce della sostanza come costitutivo della sua essenza. Inten­
do per modo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, e
mediante questo altro si concepisce » 14•
Che carattere hanno queste definizioni, e, in genere, le defini­
zioni dell'Etica?
Lo chiese a Spinoza un suo discepolo, Simone De Vries, nella
Lettera 8° . Spinoza, nella risposta (9a), distingue tre (in realtà due)
tipi di definizione: quella che « spiega la cosa quale essa è fuori

" I. Per causam rui intelligo id, cuius essentia involvi! existentiam, sive id, cuius
natura non potest concipi, nisi existens. III. Per substantiam intelligo id quod in se
est, et per se concipitur: hoc est id, cuius conceptus non indiget conceptu alterius rei,
a quo formari debeat. - IV. Per attributum intelligo id, quod intellectus de substantia
percipit, tanquam eiusdem essentiam constituens. - V. Per modum intelligo · substan­
tiae alfectiones, sive id quod in alio est, per quod etiam concipitur.
204 FILOSOFIA MODERNA

dell'intelletto, e allora deve essere vera », e quella che « spiega


la cosa quale è o può essere da noi concepita » ( trad. Droetto, p.
70), ma non dice a quale tipo appartengano le sue definizioni. Di
qui la possibilità di interpretazioni diverse. Il Gentile nella nota 1
alla sua edizione dell'Etica 15 dice che le definizioni di Spinoza so­
no del secondo tipo; L. Robinson dice che sono del primo 16 e chi
scrive è del parere del Robinson, giustificato da una serie di testi
paralleli di Spinoza: in primo luogo da quello del De int. emen­
datione (Opera, II, p. 34) dove si dice: Definitio, ut dicatur per­
fecta, debebit intimam essentiam rei explicare ... E, del resto, non
sarebbe in armonia con la dottrina spinoziana della conoscenza il
cominciare con definizioni nominali. Non ha detto Spinoza che co­
noscere è avere oggettivamente presente una essenza? e che l'unica
regola per non sbagliare, ossia l'unica vera regola del metodo, è
quella di dirigere la mente ad normam verae ideae?

7. Il concetto di attributo

Altro problema di esegesi spinoziana è quello che riguarda gli


attributi: sono reali come ritiene K. Fischer o sono soltanto nostri
modi di vedere la sostanza, come ritiene J. E. Erdmann? 17• Questi fa­
ceva leva sull'id quod intellectus ... percipit, nella definizione del­
l'attribuito; Fischer invece sul tanquam eiusdem essentiam consti­
tuens e faceva già rilevare che la teoria spinoziana della conoscenza
impone di interpretare come reale tutto ciò che l'intelletto perce­
pisce. Anche Robinson (Kommentar, pp. 65 ss.) prende nettamente
posizione per l'interpretazione realistica dell'attributo.
Il concetto spinoziano di attributo come costitutivo del!'es­
senza della sostanza dipende certo da quello cartesiano; ma ci si po­
trebbe chiedere come mai per Cartesio ogni sostanza ha un solo at­
tributo, mentre per Spinoza ne ha infiniti. È che per Spinoza c'è
una sola sostanza e, come ha osservato H. A. Wolfson 18, il pro-

15 Bari, Laterza, 1915. Le note del Gentile sono riportate nell'edizione Sansoni
sopra citata.
16 Kommentar zu Spinozas Ethik, Leipzig, Meiner, 1928, pp. 55 ss.
17
J. E. ERDMANN, Versuch einer wissenschaftlichen Darstellung der neuern Philo­
sophie, del 1836; K. FISCHER, Geschichte der neuern Philosophie, Bd. 2. Spinoza;
5• ed. Heidelberg, 1909, pp. 378 ss.
18
The Philosophy of Spinoza, I, pp. 142 ss.
SPINOZA 205

blema degli attributi in Spinoza riecheggia quello medievale degli


attributi divini e si connette anche con la concezione spinoziana
degli universali, che è una concezione nominalistica. Spinoza è
d'accordo con quei filosofi, come Gersonide, che riducono gli at­
tributi divini a puri concetti, al nostro modo di concepire la divi­
nità, e poiché Spinoza non ammette la realtà degli universali,
Wolfson torna, sia pure inquadrandola molto diversamente da
Erdmann, alla tesi che gli attributi spinoziani sono soggettivi 19•
Dunin Borkowski osserva che Spinoza aveva sottomano, quando
scriveva l'Etica, più Cartesio e gli scolastici contemporanei che i
filosofi medievali. E, a proposito dell'attributo, bisogna partire dal
concetto di realtà come perfezione. La somma realtà è dunque som­
ma perfezione, infinita ricchezza; gli attributi sono le espressioni,
le manifestazioni di questa infinita ricchezza.
Manifestazioni a chi? all'intelletto umano? Innanzi tutto si
potrebbe osservare che per Spinoza dire che gli attributi sono ma­
nifestazioni all'intelletto non vuol dire che siano soggettivi. E poi
si deve osservare che la sostanza è per sua natura manifesta: il pen­
siero non viene dopo la sostanza: è coeterno ad essa. « La sostanza
infinita ha in sé il fondamento ( Grund) per cui l'intelletto umano
deve intuirla sotto due aspetti. Questo fondamento... non è una
creazione dell'intelletto umano » 20•
Sicché mi pare si possa interpretare così l'attributo spinozia­
no: la sostanza, appunto perché è infinita e inesauribile ricchezza
di perfezione, si esprime e si manifesta, si attua in infiniti attributi,
ossia in infinite forme, in infiniti aspetti, ognuno dei quali la espri­
me totahnente.

8. L'unicità della sostanza

Questo indugio sul concetto di attributo ci potrà forse aiu­


tare a capire la dimostrazione che Spinoza dà della unicità della
sostanza. « La sostanza è per natura anteriore alle sue affezioni »
dice la I Proposizione dell'Etica; quindi, se c'è dell'essere, c'è della
sostanza. Prop. 2. « Due sostanze che hanno diversi attributi non

" Op. cit., p. 153.


20 DUNIN - BoRKOWSKI, Spinoza, voi. IV, p. 427.
206 FILOSOFIA MODERNA

hanno nulla di comune», sono totalmente diverse. La proposizione


si capisce se si tien presente il concetto di attributo. Ma due o più
sostanze radicalmente diverse non possono essere causa una del-
1'altra, dice la III proposizione, e Spinoza la dimostra appellandosi
agli assiomi 4 e 5 i quali dicono che due realtà totalmente diverse
non possono esser concepite una in virtù dell'altra; ora la cono­
scenza dell'effetto dipende dalla conoscenza della causa. E, anche
senza rifarsi a questo quinto assioma spinoziano, si capisce che un
rapporto di causalità implica una qualche comunità fra la causa e
l'effetto.
Ma come potrebbero distinguersi due sostanze se non per
una diversità di attributi? Forse solo per una diversità di modi?
No: una diversità di modi non basta, poiché una sostanza può ri­
manere la stessa, pur mutando modi. E allora bisogna concludere
(Prop. 5) che due sostanze che abbiano il medesimo attributo sono
identiche. Siamo dunque nell'alternativa: o unicità della sostanza
o eterogeneità radicale degli enti esistenti. O tutti gli enti sono
modi di una sostanza sola, o ci sono tante sostanze radicalmente
eterogenee. Ma se ci sono tante sostanze radicalmente eterogenee,
ognuna di esse deve essere incausata (perché una sostanza non può
essere prodotta da un'altra, Prop. 6 ), e quindi necessaria, esistente
da sé (Prop. 7). Ora, ciò che è necessario è infinito (Prop. 8 e Scol.
I. Omnis substantia est necessario infinita), quindi esiste una so­
stanza sola: Dio (Prop. 14 ). Come sarebbe infatti possibile conce­
pire una molteplicità di infiniti, di assoluti? In principio è l'uno,
non il molteplice.
La tesi sembra paradossale, osserva Spinoza nello Scolio II al­
la Prop. 8, ma solo se si adoperano idee confuse: se sostanza è
ciò che per se concipitur, si può forse concepire per sé qualcosa
che non sia Dio? Tanto sarebbe farne un assoluto. Quella di Car­
tesio era una scappatoia. Cartesio infatti dopo aver definito la so­
stanza res quae ita existit ut nulla alia re indigeat ad existendum
(Princ. Phil., I, 51 ), aveva detto: e, cosl definita, sostanza è solo
Dio; ma per timore di arrivare a questa conclusione, aveva aggiun­
to: chiamiamo sostanze anche le realtà che hanno bisogno solo del
concorso divino per esistere.
SPINOZA 207

9. Dio

Se tutta la realtà è Dio, è modo dell'unica sostanza divina, le


dimostrazioni dell'esistenza di Dio diventano quasi superflue. Co­
munque Spinoza ne dà tre: due a priori e una a posteriori. 1) Dio
è l'ente la cui essenza implica l'esistenza, dunque esiste. 2) Esi­
ste tutto ciò che non è impedito di esistere da nessuna causa. Ma
non ci può essere una causa della non-esistenza di Dio né fuori
di Lui, né in Lui. Non fuori di Lui, poiché se esistesse un'altra so­
stanza, non avrebbe nulla a che fare con Dio; non in Lui, perché
altrimenti Dio sarebbe contraddittorio, e il contraddittorio è im­
possibile. 3) Se esistono necessariamente le cose finite, a maggior
ragione deve esistere necessariamente l'infinito: ora noi esistiamo,
o in noi stessi o in un altro che esiste necessariamente; dunque esi­
ste necessariamente l'infinito. Nello Scolio, Spinoza avverte che
ha dato una dimostrazione a posteriori per esser capito più facil­
mente, ma che anche la terza dimostrazione si può ridurre ad ar­
gomento a priori, poiché, siccome il potere esistere è una perfe­
zione, l'Ente infinito avrà una infinita potenza di esistere.
Poiché Dio è l'unica sostanza, tutto ciò che è, non potrà essere
che modo o attributo di Dio. « Non può esistere né si può concepire
altra sostanza che Dio » (Prop. 14). In particolare: l'estensione sa­
rà un attributo divino. Perché la estensione sia concepita come at­
tributo e non come modo nori si può capire se non tenendo presen­
te il clima cartesiano e meccanicistico. Ma la preoccupazione di
Spinoza è quella di far vedere che la concezione dell'estensione co­
me attributo divino non conduce ad ammettere in Dio imperfe­
zione. Perciò egli osserva che l'estensione implica imperfezione
solo in quanto implica divisibilità. Ora la sostanza è indivisibile.
(Prop. 12 e 13 ).
Ma come può l'estensione essere un attributo divino senza che
perci0 Dio sia divisibile? Di questo tratta il lungo Scolio alla Prop.
15, nel quale Spinoza cerca di dimostrare che la divisibilità che at­
tribuiamo all'estensione è solo un prodotto dell'immaginazione.
208 FILOSOFIA MODERNA

10. Negazione della finalità

Poiché Dio è l'unica sostanza, si capisce la Prop. 18: « Dio


è causa immanente, non transitiva, di tutte le cose ». Ora tutto ciò
che è immanente alla natura di una cosa le appartiene necessaria­
mente, perciò tutte le cose che derivano da Dio derivano da Lui
necessariamente. « Dalla necessità deila natura divina seguono ne­
cessariamente infinite realtà in infiniti modi (seguono cioè tutte le
cose che possono cadere sotto l'intelletto infinito)» (Prop. 16).
Del resto, già nell'assioma III, Spinoza aveva detto: « Data una
causa determinatr., l'effetto segue necessariamente». E nella defi­
nizione 7 aveva definito la libertà come pura assenza di coazione:
« Si dice libera quella realtà che esiste in virtù della sola necessità
della sua natura e da sé sola è determinata ad agire. Si dice neces­
saria, invece, o piuttosto coatta, quella che da un altro è determi­
nata ad esistere e ad operare». Dio, dunque, è libero nel senso che
non è costretto da altri, ma non nel senso che possa o non possa
creare. « Dio agisce in virtù delle sole leggi della sua natura,
non costretto da alcuno» (Prop. 17) - evidentemente: poiché non
c'è nulla fuori di Dio. E nello Scolio alla Prop. 17 osserva che
l'affermazione che Dio può produrre o non produrre i suoi effetti
è tanto assurda quanto quella di chi dicesse che un triangolo può
avere e non avere gli angoli interni uguali a due retti. Dunque il
mondo segue da Dio come dalla natura di un triangolo segue l'ave­
re gli angoli interni uguali a due retti.
Da questa concezione seguono due conclusioni: 1) rigorosa
necessità del tutto, 2) negazione di ogni finalità.
La necessità del tutto è affermata specialmente nella Prop. 29:
« In natura non vi sono realtà contingenti, ma ogni cosa è determi­
nata dalla necessità della natura divina ad esistere e ad operare
in un determinato modo».
La negazione della finalità è già implicita nella Prop. 31, do­
ve si dice che intelletto e volontà non appartengono alla natura
naturans, ma solo alla natura naturata: sono cioè modi, non attri­
buti (Cfr. lo Scolio alla Prop. 29). Il pensiero, quindi, che è un
attributo divino è un pensiero impersonale (analogo, in questo,
alla ragione come la intendevano gli Stoici). La negazione della fi­
nalità è poi svolta esplicitamente e lungamente nell'Appendice alla
prima parte dell'Etica. Tutto ciò che accade, dice Spinoza, « è pre-
SPINOZA 209

determinato da Dio, non per la libertà della sua volontà o per un


assoluto beneplacito, ma per l'assoluta natura o infinita potenza di
Dio ». A questa concezione della universale necessità si oppongo­
no i « pregiudizi » finalistici, secondo i quali Dio agirebbe per un
fine: avrebbe creato la natura per l'uomo e l'uomo perché adori
Dio 21• Taie « pregiudizio » nasce dal fatto che gli uomini nascono
ignari delle cause dei fenomeni che li circondano ed hanno la ten­
denza a cercare ciò che è loro utile. Poiché ignorano le cause delle
loro tendenze e volizioni, si credono liberi, e poiché cercano il loro
utile, ossia operano per un fine, e trovano in natura molte cose che
sono loro utili, credono che esse siano state fatte per loro da un
Dio che, in cambio di questi benefici, chiede loro sottomissione
e culto. « Cosi avvenne che ognuno escogitò modi diversi di culto
divino, per ingraziarsi più degli altri un Dio che dirigesse tutta la
natura al servizio della loro cieca cupidigia e insaziabile avarizia ».
E poiché nel mondo trovavano cose non. solo utili, ma anche dan­
nose, immaginarono che queste fossero la punizione dei loro pec­
cati. Poiché tuttavia l'esperienza diceva loro che i danni capitano
ugualmente ai buoni e ai cattivi, si rifugiarono nel mistero dei giu­
dizi divini, e preferirono mantenere la loro ignoranza piuttosto che
distruggere la concezione che si erano fabbricata per rifugiarsi in
quell'ignorantiae asylum. Dalla concezione finalistica della realtà
derivano i concetti di « bene, male, ordine, confusione, caldo, fred­
do, bellezza e bruttezza » 22•

21
Come sempre o quasi sempre succede, quando si vuol combattere una dottrina,
Spinoza presenta la concezione finalistica sotto l'aspetto più rozzo e, a tratti, supersti­
zioso. E, subito, occorre osservare che la concezione finalistica afferma che ogni cosa
ha un fine, ossia di ogni cosa c'è un significato, perché ogni cosa è creata da una Vo­
lontà intelligente, ma - almeno come è presentata da alcuni autori - non afferma che si
possano conoscere i fini delle cose, non afferma che l'uomo possa conoscere qual sia
il significato di ogni cc,sa
22 Il fatto che Spinoza dia come esempi di pseudo-concetti nati da una concezione
finalistica anche quelli di caldo e freddo indica che uno dei motivi del suo rifiuto del
finalismo è l'uso e l'abuso che delle pretese cause finali si faceva nella fisica degli sco­
lastici contemporanei. Contro tali pseudo-spiegazioni finalistiche reagisce la nuova fisica
che cerca spiegazioni meccaniche dei fenomeni naturali. Dico: uno dei motivi, poiché un
altro motivo è certo la visione metafisica spinoziana esposta sopra.
Quanto al concetto di bene, resta da vedere se Spinoza riesca veramente a farne a
meno quando traccia il suo itinerario verso la beatitudine.
210 FILOSOFIA MODERNA

11. Pensiero ed estensione

Secondo l'ideale della conoscenza tratteggiato nel De intel­


lectus emendatione, la conoscenza dell'effetto, della natura natura­
ta, dovrebbe esser dedotta dalla conoscenza della causa, della na­
tura naturans: in realtà Spinoza deve spesso fare appello all'espe­
rienza, specialmente quando parla dell'uomo, dello spirito umano
(mens) nella seconda parte dell'Etica. Infatti, dopo le definizioni
del corpo come modo determinato che esprime la essenza divina
in quanto è considerata sotto l'attributo dell'estensione (Def. I),
dopo la definizione dell'idea come concetto formato dallo spirito
(mens), e per il quale lo spirito è pensante (Def. III), vengono as­
siomi che mal si giustificherebbero come deduzioni dalla idea del­
la sostanza. I. « L'essenza dell'uomo non implica la necessaria esi­
stenza; cioè nell'ordine della natura può accadere che questo e
quell'uomo esistano o non esistano». È un'affermazione che stupi­
sce dopo quelle della prima parte sulla rigorosa necessità del tutto,
e che forse si può spiegare così: un uomo, considerato astrattamen­
te, avulso dal tutto, non implica l'esistenza: posso pensarlo esi­
stente o non esistente; ne vedo la necessità solo se lo considero come
un modo o un complesso di modi dell'infinita sostanza. Puri dati di
fatto sono pure quelli registrati negli assiomi seguenti: II.« L'uomo
pensa». Il terzo assioma dice che fra i modi di« pensare» (ossia fra
le attività spirituali) l'idea è il modo fondamentale, perché con­
diziona gli altri, i modi affettivi (p. es. amor, cupiditas) e può stare
senza gli altri. IV. « Sentiamo che un corpo (corpus quoddam) è
affetto in molti modi. V. Non sentiamo né percepiamo altre cose
singolari all'infuori dei corpi e dei modi del pensiero». Le due
prime proposizioni affermano che pensiero ed estensione sono at­
tributi di Dio, e poiché l'idea è il modo fondamentale del pensie­
ro, in Dio vi è l'idea della sua essenza e di tutto ciò che segue ne­
cessariamente dalla sua essenza (Prop. 3 ).
Ma Spinoza è preoccupato di mostrare la diversità della sua
concezione da quella scolastica: l'idea divina non è il modello a
cui si conformerebbe la volontà creatrice (come era nella tradizione
scolastica): non c'è in Dio l'idea così come può esserci nella mente
di un artista, e non c'è in Lui la potenza di attuarla: la potenza
divina non è altro che « l'attuosa essenza divina, e l'idea divina
è l'aspetto pensante di questa attuosa essenza». Tale concetto è
SPINOZA 211

ripreso e chiarito nella Prop. 5: Le idee, nella loro realtà formale,


(ontologica, come noesi), hanno per causa Dio considerato soltanto
come pensiero, il che vuol dire che le idee non hanno come causa
gli oggetti di cui sono idee, ma hanno come causa Dio in quanto
ha (o è) l'attributo pensiero. Dopo di che si capisce il Corollario
della Prop. 6, « L'essere formale delle cose che non sono modi del
pensiero non segue dalla natura divina perché Dio ·abbia l'idea di
queste cose, perché Dio abbia preconosciuto ciò che crea; ma le
cose ideate seguono dai loro attributi con la medesima necessità
con la quale le idee seguono dall'attributo pensiero ». Non dunque:
scientia Dei est causa rerum (secondo la formula scolastica) ma
l'estensione di Dio è causa dei corpi e il pensiero divino è causa
del pensiero. Non: quia Deus vult fit mundus, ma: quia Deus est,
fit (o meglio est) mundus.
La famosa proposizione 7: Orda et connexio idearum idem est
ac orda et connexio rerum si capisce alla luce di queste considera­
zioni e specialmente a quella dello Scolio alla stessa Prop. 7: come
la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola ed identica
sostanza « che è appresa ora sotto il primo attributo ora sotto il
secondo, cosi un modo dell'estensione e l'idea di esso sono la me­
desima cosa espressa in due modi ».

12. L'uomo. Anima e corpo

E ora vediamo come si attuino pensiero ed estensione nell'uo­


mo. Homo cogitat, aveva detto l'assioma II. Ma l'uomo non può
essere una sostanza pensante, poiché non è sostanza; quindi è un
modo o un complesso di modi degli attributi divini, come dice il
Corollario alla Prop. 10. Lo spirito umano è dunque un modo del­
l'attributo pensiero; e poiché fra tutti i modi del pensiero, l'idea
è quello fondamentale, lo spirito umano è fondamentalmente idea,
idea del corpo (Ethices, II, Prop. 13 e Demonstratio; Prop. 19,
Demonstratio).
Questa mi sembra la traduzione spinoziana della definizione
aristotelica dell'anima: l'anima è forma del corpo. Certo, fra la sco­
lastica e Spinoza è passato Cartesio. Voglio dire: la mens spinozia­
na non ha più nessuna delle funzioni biologiche che aveva la forma
212 FILOSOFIA MODERNA

aristotelica: il mondo corporeo si spiega tutto meccanicamente 23, i


processi fisici e fisiologici che condizionano la sensazione si ridu­
cono tutti al semplice urto del corpo sentito sul senziente (vedi
Prop. 17, Demonstr. ), urto che modifica la figura, ossia sposta le
parti del corpo senziente. In questo, ossia nella cosmologia e nella
biologia, Spinoza è cartesiano. Ma lo spirito umano resta per lui
- come per la scolastica - essenzialmente riferito al corpo: idea
corporis.

13. La conoscenza

E questo permette a Spinoza di spiegare la conoscenza del mon­


do corporeo molto più facilmente di quanto non riuscisse a Car­
tesio. La mens è infatti per Spinoza originariamente coscienza del
corpo, quindi si accorge delle modificazioni di questo, e, attraverso
le modificazioni di questo, conosce, sia pure indirettamente, gli
altri corpi. Questa però è una conoscenza inadeguata perché è una
conoscenza indiretta, che riflette più la costituzione del nostro
corpo che quella dei corpi esterni (Prop. 16, Cor. II). Lo stesso
corpo umano, del resto, è conosciuto solo mediante le sue modifi­
cazioni (Prop. 19); tanto più imperfettamente quindi sono cono­
sciuti, attraverso le modificazioni che producono nel nostro, i corpi
esterni (Prop. 25). La mens non è soltanto idea corporis: è anche
idea ideae, ossia conoscenza di sé (Prop. 21, Scolio); ma poiché la
conoscenza che la mens ha del suo corpo è inadeguata, anche la co­
noscenza che ha di sé è inadeguata (Prop. 29). Cioè: se io mi co­
nosco solo come soggetto di quel tipo di conoscenza che è l'espe­
rienza sensibile, mi conosco in modo imperfetto.
La conoscenza adeguata comincia quando si concepiscono le
cose negli aspetti comuni a tutte (Prop. 38 ); e come aspetto co­
mune a tutte si citano (con un rimando al Lemma II) l'estensione
e il moto locale, comuni a tutti i corpi. La conoscenza degli aspetti
comuni a tutte le cose sembra essere, dunque, in special modo la
matematica e la fisica matematica (la meccanica razionale). A que­
sta conoscenza si contrappone la conoscenza per universali nel sen-

23 Alla cosmologia, alla dottrina sulla natura dei corpi è dedicata una serie di as­
siomi e di lemmi interposti fra la Prop. 13 e la Prop. 14 della seconda parte.
SPINOZA 213

so scolastico, come sono le nozioni di uomo, cavallo, cane (Prop.


40, Scol. I). Tali nozioni non sono idee chiare e distinte, ma imma­
gini confuse, che nascono dalla ripetizione di percezioni sensibili.
Di nessun valore sono anche le intentiones secundae, cioè i concetti
di enti ideali (entia rationis) e, finalmente, anche le nozioni tra­
scendentali, come ens, res, aliquid non sono che immagini con­
fuse 24•
Nello Scolio II a questa stessa Prop. 40 della seconda parte
Spinoza riassume ciò che ha detto sulla conoscenza distinguendone
tre generi: il primo comprende le immagini confuse che ci vengono
dall'esperienza sensibile, dall'« esperienza vaga» (immagini alle
quali s'i riducono, come abbiamo visto, anche i così detti concetti
universali) e il loro ricordo suscitato dalle parole che le significano;
il secondo è quello che si ha con le nozioni « comuni» e le idee
adeguate delle proprietà delle cose ( « conoscenza matematica»);
il terzo è la « conoscenza intuitiva». La conoscenza intuitiva è
quella che « procede dall'idea adeguata degli attributi divini alla
conoscenza adeguata delle essenze delle cose». Spinoza fa questo
esempio, come nel De intellectus emendatione: La legge delle pro­
porzioni (il prodotto dei medi è uguale al prodotto degli estremi)
si può conoscere come la conoscono i mercanti, che la adoperano
perché l'hanno imparata dal maestro o perché hanno sperimentato
che riesce (ossia serve a trovare il quarto numero quando si sa
che sta al terzo come i due primi stanno fra loro) - e questa è co­
noscenza di primo genere -; si può conoscerla in base alla pro­
posiz. 19 del settimo libro di Euclide - e questa è conoscenza di
secondo genere -; ma si può conoscerla anche intuitivamente nei
numeri semplicissimi: « Tutti vedono infatti che il quarto numero
proporzionale dopo 1, 2, 3 è 6» (ossia che 1 : 2 = 3 : 6) 25•
Solo la conoscenza di secondo e di terzo genere c1 msegna a
distinguere il vero dal falso (Prop. 42 ), poiché la conoscenza vera

" Quest'ultima affermazione stupisce un poco. Che Spinoza svaluti i trascendentali


verum e bonum si capisce, come abbiamo detto parlando dei Cogitata metaphysica; si
comprende un po' meno che egli riduca ad immagini confuse nozioni che egli stesso
adopera continuamente nella sua filosofia come ens, res, aliquid.
25 Data la spiegazione spinoziana della conoscenza sensibile dei corpi esterni come
conoscenza indiretta, attraverso le modificazioni del proprio corpo, si capisce che Spi•
noza riduca ad un solo tipo (primo genere) la conoscenza per sentito dire e la cono­
scenza sensibile che aveva distinte nel De intell. emendatione: la conoscenza sensibile
è infatti in certo senso una conoscenza per sentito dire, ossia riferita dal proprio corpo.
214 FILOSOFIA MODERNA

porta in sé la sua certezza: chi l'ha, sa anche di essere nel vero:


veritas norma sui et falsi est (Prop. 43, Scolio). « Può dubitarne
solo chi opina che l'idea sia qualcosa di muto, come una pittura su
una tavola, e non [come invece è] un modo di pensare, ossia
lo stesso atto di intendere (intelligere); e, mi domando, chi può
sapere di conoscere se prima non conosce la realtà? » (ibid.).
Rileviamo qui la stessa polemica contro il dualismo gnoseolo­
gico cartesiano che abbiamo trovato nel De intellectus emenda­
tione. Secondo Spinoza la conoscenza umana di secondo e di terzo
genere non solo è apprensione della realtà, presenza del reale alla
mente; ma è conoscenza adeguata della realtà, e poiché in realtà
tutto è necessario, « è proprio della ragione considerare le cose
come necessarie, e non come contingenti » (Prop. 44 ). La nozione
di contingente nasce dall'immaginazione: la ragione conosce le co­
se sub quadam aeternitatis specie 26 (Prop. 44, Cor. II). Ogni idea
implica l'essenza eterna di Dio, e questa conoscenza di Dio implici­
ta nell'idea di ogni cosa è adeguata e perfetta. Si capisce quindi
che Spinoza concluda: « Lo spirito umano ha una conoscenza ade­
guata dell'eterna e infinita essenza di Dio » (Prop. 47).
Questa affermazione, a prima vista paradossale, stupisce meno
se si pensa che, in fondo, per Spinoza Dio non è altro che l'ordi­
ne necessario di tutte le cose. Infatti, continua Spinoza, gli uomini
che negano l'esistenza di Dio cadono in questo errore perché pre­
tenderebbero di avere di Dio una immagine sensibile; ma allora
quello che negano non è Dio, ma una falsa immagine di Dio: chia­
mano Dio quello che Dio non è, e per questo lo negano. Del resto
la maggior parte degli errori dipende proprio da uno scambio di
termini. Se uno per esempio dicesse che il cerchio non ha tutti i
raggi uguali, bisognerebbe concluderne che quello che egli chiama
cerchio non è il cerchio.
Ma altri spiegavano diversamente l'errore. Sia gli scolastici
come Cartesio lo spiegavano con un intervento della volontà, che

26
Questa famosa espressione spinoziana è stata interpretata in vari modi. Nono­
stante l'opposto parere del Gentile (nella nota 71 alla seconda parte dell'edizione da
lui curata dell'Etica) ritengo che essa vada tradotta: conoscere le cose sotto il loro
e.spetto eterno, alla luce dell'eternità. Il termine species qui infatti non va inteso in
senso logico, come opposto a genere, ma nel senso in cui gli scolastici lo adoperavano
nella teoria della conoscenza quando parlavano di species intelligibilis o sensibilis, che
è l'aspetto intelligibile o sensibile della cosa da conoscere.
SPINOZA 215

muove a dare l'assenso a ciò che non è evidente n_ Ora Spinoza ne­
ga che vi sia nell'uomo una volontà libera (Prop. 48): non c'è una
volontà come facoltà di volere; le facoltà sono enti :fittizi, universali,
come la pietreità (lapideitas). Tuttavia si potrebbe obiettare che non
esisterà la lapideitas, ma esistono le singole pietre: le singole vo­
lizioni. Spinoza risponde che le volizioni non sono altro che affer­
mazioni o negazioni, e queste a loro volta si riducono a idee: idee
che implicano certi predicati. L'affermazione, per esempio, che il
triangolo ha gli angoli interni uguali a due retti non è altro che
l'idea del triangolo. Dunque intellezione e volizione si identificano,
e quindi si identificano intelletto e volontà (Prop. 49 e Cor.). La
teoria cartesiana dell'errore è discussa lungamente nello scolio alla
prop. 49 che insiste sulla negazione della libertà del volere.
L'ultima parte dello scolio, nell'indicare l'utilità di questa ne­
gazione apre la via alla parte propriamente morale dell'Etica. La
dottrina che nega la libertà del volere 1) ci insegna che noi ope­
riamo solo diretti da Dio ( ex solo dei nutu) e partecipiamo tanto
più alla natura divina quanto più perfette azioni compiamo e quanto
più conosciamo Dio. Ci insegna che la nostra somma felicità e
beatitudine consiste nella conoscenza di Dio, alla quale ci avvia­
mo con l'esercizio della virtù; sicché la beatitudine non è un pre­
mio concesso da Dio a chi si sobbarca a servirlo, ma quel servizio
divino che è la virtù è già felicità e somma libertà. 2) Ci insegna a
prendere con animo uguale tutto ciò che avviene, poiché tutto è
necessario. 3) Ci insegna a non disprezzare nessuno e ad aiutare
il prossimo, guidati però solo dalla ragione, non dal sentimento.
4) Ci insegna infine ad educare i cittadini alla libertà, ossia a com­
piere ciò che è bene non per paura, ma perché è bene 28•

77 Questo è l'aspetto comune alla dottrina scolastica e a quella cartesiana; c'è poi
una differenza, ed è che per Cartesio l'assenso è sempre un atto di volontà, anche nel
giudizio su ciò che è evidente; per gli scolastici, invece, l'evidenza, ossia la presenza
dell'oggetto determina l'intelletto ad assentire; e solo l'assenso dato a qualcosa che
non c'è, che non è presente, esige un movente extra-teoretico, un atto di volontà.
23 « ...docet qua ratione cives gubernandi sint et ducendi, nempe non ut serviant,
sed ut libere ea, guae optima sunt, agant ». Che questa sia una conseguenza della nega­
zione della libertà del volere non mi è facile capire.
216 FILOSOFIA MODERNA

14. Le passioni

Ma all'esercizio di questa vita secondo ragione, descritta nelle


ultime pagine della seconda parte dell'Etica si oppongono le pas­
sioni (affectus). Bisogna quindi, prima di andare avanti, conoscere
le passioni, descriverle, e questo è l'oggetto della terza parte.
Spinoza lamenta che i filosofi, mossi dal pregiudizio che l'uo­
mo sia libero, anzi padrone di sé (imo hominem in natura veluti
imperium in imperio concipere videntur), si siano preoccupati fi­
nora di esprimere solo giudizi di valore sulle passioni (f/,ent, rident,
contemnunt, vel, quod plerumque fit, detestantur). Ora le passioni
sono realtà come le altre, determinate dalle eterne e immutabili
leggi della natura, quindi non vanno disprezzate o deplorate, ma
descritte e studiate come se si trattasse di linee, piani e solidi, ossia
di enti geometrici.
Nel concetto spinoziano di passione rileviamo una oscillazione
fra il modo cartesiano di considerare la passione come conoscenza
confusa e il concetto scolastico della passione come tendenza, im­
pulso sensitivo. La passione è infatti per Spinoza una modificazione
del corpo che ne aumenta o diminuisce la potenza di agire, unita
alla coscienza (idea) di tale modificazione (Ethices, III, Def. 3 ).
Agire vuol dire essere causa totale di qualcosa, patire vuol dire es­
serne solo causa parziale (Def. 2). Ora lo spirito umano agisce in
quanto ha idee adeguate, patisce in quanto ha idee inadeguate
(Prop. 1). Le idee adeguate infatti sono quelle che derivano dalla
sola natura dello spirito umano, inadeguate invece sono quelle che
lo spirito umano mutua dalle affezioni del corpo. Dunque solo
quando ha idee adeguate lo spirito umano è attivo, e poiché le pas­
sioni (affectus) sono, come abbiamo visto, la coscienza di una mo­
dificazione del corpo, quindi conoscenza inadeguata, si capisce che
esse siano un patire. Fin qui il concetto di affectus si presenta come
quello di una conoscenza confusa. Ma nella Prop. 6 si affaccia l'al­
tro concetto di passione, quello di tendenza (conatus). Dice infatti
Spinoza che ogni cosa tende (conatur) a perseverare nel suo essere,
e questa tendenza si identifica con l'essenza stessa della cosa.
Quindi anche lo spirito umano ha questa tendenza fondamentale,
che si chiama volontà quando è riferita solo allo spirito, si chiama
impulso (appetitus) quando è riferita allo spirito e al corpo insie­
me. Il desiderio (cupiditas) non è altro che l'impulso, unito alla
SPINOZA 217

coscienza di esso. L'impulso è dunque una conseguenza della natura


del soggetto, non della bontà dell'oggetto, e perciò buono è ciò
che soddisfa l'impulso, non l'impulso che tende al bene '}9.

Poiché lo spirito umano è idea del corpo, esso non può tendere
a perseverare nell'essere senza insieme tendere a conservare il
proprio corpo (Prop. 10, Demonstr.); perciò la coscienza di ciò
che favorisce e potenzia il corpo potenzia anche la mens, e vice­
versa la coscienza di ciò che indebolisce il corpo indebolisce anche
la potenza della mens (Prop. 11). Tutte le passioni nascono dalla
coscienza di questo potenziamento e depotenziamento: la gioia
(laetitia) è la coscienza di un potenziamento nell'essere, il dolore
(tristitia) la coscienza di un depotenziamento; e queste due, col
desiderio (cupiditas) sono le passioni fondamentali, dalle quali de­
rivano tutte le altre. L'amore non è altro che gioia accompagnata
dall'idea di una causa esterna, l'odio non è altro che dolore ac­
compagnato dall'idea di una causa esterna. Spinoza descrive poi il
sorgere di moltissime altre passioni da queste fondamentali: spe­
ranza, paura, sicurezza, rimorso, invidia, superbia ecc. Altre pas­
sioni, come la commiserazione, l'emulazione, la benevolenza, l'am­
bizione suppongono anche la tendenza a partecipare alle passioni
degli altri (Propp. 21 e 27), a quella che, con termine non spinozia­
no, potremmo chiamare simpatia.
Ma già, in questo giuoco di passioni, si intravede una via verso
la liberazione: è indicata in quelle proposizioni che riguardano la
dialettica dell'odio e dell'amore. L'odio nasce dal fatto che noi cre­
diamo che l'uomo odiato sia causa di una nostra tristezza, quindi
tendiamo a diminuire, a far del male a colui che ci reca tristezza
(Prop. 39), e così suscitiamo odio in lui che tenderà a far male a
noi. Ma se invece procuriamo letizia a colui che ci odia, egli non
potrà fare a meno di amarci (per la definizione stessa di amore);
quindi « L'odio è aumentato dall'odio reciproco, e, al contrario,
può essere cancellato dall'amore » (Prop. 43).
L'odio e l'amore diminuiscono se si ritiene che la causa della
nostra tristezza o letizia non sia libera (Prop. 49), poiché una causa

29
Anche Aristotele definisce bene ciò a cui ogni cosa tende, e gli scolastici accet­
tano questa definizione. Ma il problema è di vedere se la tendenza di ogni cosa abbia
un senso o se sia cieco impulso. Per affermare che la tendenza di ogni cosa ha un
senso bisogna concepire le nature delle cose come create da una Volontà intelligente
- tesi che Spinoza nega.
218 FILOSOFIA MODERNA

non libera è una causa determinata da altre ad operare, e cosl al­


l'infinito; ora poiché l'odio non è altro che la tristezza, quando le
cause immaginate dalla tristezza sono infinite, l'odio si distribuisce,
per dir cosl, su una infinità di oggetti, e quindi si diluisce quasi.
E perciò, conclude Spinoza nello Scolio alla Prop. 49, gli uomini
si odiano e si amano tanto più fortemente, perché si credono liberi.

15. Le virtù

La quarta parte dell'Etica tratta della schiavitù umana, ossia


della forza delle passioni. Così il tit0lo. In realtà contiene l'etica
stricto sensu, e cioè una dottrina delle virtù, come osserva giusta­
mente il Wolfson, che intitola « Le virtù » il suo capitolo su que­
sta parte 30• La distinzione tradizionale tra virtù e passione era
questa: la virtù suppone un libero esercizio della attività umana,
è espressione di libera volontà, mentre la passione è determinata.
Scomparso il concetto di libertà, scompare anche la distinzione
suddetta 31• La distinzione ricompare però sotto forma di attività
razionale (ductu rationis) e irrazionale. E questa parte dell'Etica
potrebbe anche intitolarsi: sul buon uso delle passioni, dove quel
buon significa: uso razionale. Le passioni infatti ci sono: sono real­
tà naturali come ce ne sono tante altre, l'uomo è loro soggetto, cosl
come è soggetto al variare delle stagioni (in questo senso Spinoza
parla di servitù delle passioni); l'importante è che le passioni non
lo distolgano da quella che è la sua vera attività, rispondente al suo
conatus fondamentale, che è poi espressione della sua essenza: l'at­
tività razionale, la conoscenza adeguata, la contemplazione. Forse
si potrebbe anche intitolare questa parte dell'Etica: delle virtù
etiche (mentre la quinta tratta delle virtù dianoetiche) 32•
La prefazione ribadisce la tesi che il bene e il male sono soltan­
to soggettivi e non corrispondono a nessuna realtà. Continuerò ad
usare questi termini, dice Spinoza, ma intendendo per bene ciò

,o The Philosophy of Spinoza, voi. II, cap. 19, pp. 221-260.


31 Op. cit., II, p. 222.
32 Wolfson divide la quarta parte dell'Etica in due sezioni: Propp. 1-18 identità
di passioni e virtù; dalla prop. 19 alla fine dottrina della virtù, suddivisa in tre parti:
virtù e felicità (Propp. 19-28), la vita sociale (29-40), elenco delle virtù (40-73).
SPINOZA 219

che ci conduce a quel modello (exemplar) di natura umana che


ci siamo figurati, e per male l'opposto".
Le passioni non si possono sopprimere (contrariamente a quel
che dicevano gli Stoici) perché sono una realtà naturale, dipenden­
te dai fatto che siamo una parte dell'universo, e subiamo l'azione
di tutte le altre parti (Propp. 15-17). Di qui la schiavitù delle pas­
sioni.
Ma c'è una via al buon uso delle passioni, a « quello che la
ragione ci prescrive » 34• Ora la ragione esige (postula!) che ognuno
ami se stesso e cerchi il proprio utile, il suo vero utile, che è la
conservazione e il potenziamento del proprio essere: questo è il
fondamento della virtù. Ma nella pienezza del proprio essere con­
siste la felicità; quindi la virtù è già in se stessa via alla felicità e
perciò va praticata per se stessa e non per qualcos'altro. Ossia:
la felicità va intesa come il compimento della virtù, non come qual­
cosa di estraneo, come un premio che venga di fuori (Prop. 18,
Scolio). Si tratta quindi di vedere in cosa consiste il nostro vero
utile, che coincide con la conservazione del nostro essere. Ora noi
siamo spirito (mens), e il nostro utile è ciò che ci conduce a cono­
scere (intelligere), poiché essere spirito vuol dire appunto cono­
scere (Propp. 26 e 27). Bene sommo, poi, è per lo spirito conoscere
Dio (Prop. 28) 35 •
Con la proposizione 29 comincia una dottrina della società ci­
vile, svolta più ampiamente nel Tractatus theologico-politicus. Ne
indicheremo qui i presupposti fondamentali.
Premesso che le cose totalmente diverse dall'uomo non pos­
sono né nuocergli né giovargli, Spinoza afferma che ci giova ciò
che conviene con la nostra natura e che nulla è più vicino all'uomo
dell'uomo stesso (Prop. 31 ); non però gli altri uomini in quanto
sono soggetti alle passioni, ma gli altri in quanto sono guidati dal­
la ragione (Prop. 35, Cor.). Il sommo bene dell'uomo, infatti, è la
conoscenza, e i beni che derivano dalla conoscenza, i beni culturali,

" In realtà Spinoza, nel seguito parla della condotta razionale come di un bene
reale e non soltanto come di qualcosa che ci figuriamo come bene. CTr. Prop. 18, Sco­
lio; · Prop. 28, 41, 45 ecc.
34
Lo Scolio alla Prop. 18 anticipa e riassume le proposizioni seguenti.
35 Wolfson rileva il carattere aristotelico di questa parte dell'Etica (IV, Propp. 18-
28). Si potrebbero anche rilevare le affinità fra la prop. 28 e il capitolo 37 del III libro
della Summa contra Gcntiles di Tommaso d'Aquino.
220 FILOSOFIA MODERNA

sono partecipabili a tutti gli uomini; anzi quanto più uno ne fruisce
tanto più arricchisce gli altri, poiché ciò che un uomo sa non �
tolto agli altri, mentre ciò che un uomo possiede di beni materiali
non può essere posseduto da altri ( di qui la necessità di una disci­
plina di cui si parlerà a proposito del Trattato teologico-politico).
Spinoza espone poi la sua etica speciale, ci dice cioè quale sia
la recta vivendi ratio. Ne rileveremo solo alcuni tratti che ci sembra­
no caratteristici. Il rapporto fra bene � piacere è positivo: « La gioia
(laetitia) direttamente non è cattiva, ma buona; il dolore (tristitia)
invece è un male » (Prop. 41 ). La gioia infatti è la coscienza di un
potenziamento del corpo. Buona è pure l'allegria (hilaritas) che è
la gioia riferita a tutto il corpo, e cattiva la melanconia; l'eccita­
mento (titillatio) invece, che è il piacere riferito a una parte del
corpo, può avere eccessi, come può averne l'amore. « L'odio non
può mai essere buono » (Prop. 45) e così le passioni che ne deri­
vano: invidia, derisione, disprezzo, ira, vendetta: le azioni mosse
da queste passioni sono sempre turpi e ingiuste (ibid., Coroll.).
Ma, dopo aver condannato la derisione, Spinoza sente la necessità
di difendere l'allegria, il riso. « Solo una torva e triste superstizio­
ne può proibire di rallegrarsi (delectari). Perché infatti dovrebbe
essere più approvabile l'estinguere la fame e la sete che il cacciare
la malinconia? Questo è il mio modo di vedere, e così mi sono
comportato » (ibid. Schol). Poiché l'odio è sempre un male, « chi
vive secondo ragione cerca, per quanto può, di ricambiare con l'a­
more e la generosità l'odio, l'ira e il disprezzo » (Prop. 46 ). Tale
condotta è però ispirata al motivo di non aumentare l'odio dell'al­
tro, ricambiandolo con odio, e di non procurarsi dolore. Non h1:1
valore (mala et inutilis) la compassione (Prop. 50): si deve aiutare
il prossimo perché lo prescrive la ragione, ma non giova il soffrire
della sua sofferenza; né giova il pentimento del male compiuto,
perché non fa che aggiungere dolore, ossia male, al male: chi si
pente è misero due volte (Prop. 54). L'umiltà è sempre un male,
perché è dolore (tristitia) della propria impotenza (Prop. 53 ); male
sono pure sia la superbia come l'avvilimento (abiectio), perché di­
pendono da una errata conoscenza di sé, per eccesso o per difetto,
ossia dipendono da ignoranza (Prop. 55) 36•

36
Nello Scolio alla prop. 57 Spinoza osserva che l'abjectus si avvicina al superbo
in quanto, per lenire l"! sofferenza della propria abiezione, cerca di deprimere gli altri.
SPINOZA 221

Poiché tutto è necessario, quindi è come deve essere, non c'è


male in natura, e la conoscenza del male è una conoscenza inade­
guata (Prop. 64 ): è coscienza del dolore. Ma il dolore è passaggio
ad una minor perfezione, quindi è passione, e la passione dipende
da idee inadeguate (ibid. Demonstr.). Se dunque avessimo solo idee
adeguate non avremmo nessuna nozione del male (ibid., Cor.) 37•
Caratteristica, anche per la implicita polemica antiplatonica, la
Prop. 67: « L'uomo libero a nulla pensa meno che alla morte, e la
sua saggezza non è meditazione della morte, ma della vita ».
La quinta parte dell'Etica porta il titolo « La libertà umana
o la forza della ragione ». La libertà di cui si parla non è il libero
arbitrio, ma la liberazione dalle passioni, liberazione ottenuta con
la ragione. La ragione non può sopprimere le passioni, come abbia­
mo visto, non può neppure direttamente dominarle, come ritene­
vano gli Stoici e Cartesio; può tuttavia esercitare su di esse un do­
minio (imperium) conoscendole, oggettivandole. Una passione, in­
fatti, smette di essere tale quando se ne ha un'idea chiara e distinta,
poiché averne una tale idea vuol dire considerare la passione come
effetto di una realtà dipendente da un numero infinito di cause,
tutte necessarie (Prop. 6 ). Allora la passione subita non suscita
più nell'uomo né odio né amore verso la causa, poiché colui che la
subisce si rende conto che quella causa era determinata da infinite
altre; l'amore o l'odio, cosi, si stemperano quasi distribuendosi su
infinite realtà (Prop. 9). La ragione, poi, che considera le cose
nei loro attributi comuni determina in noi un atteggiamento co­
stante, sempre uguale verso le cose stesse, cosi come sono sempre
uguali i loro attributi comuni (Prop. 7). Ordinando quindi i nostri
pensieri possiamo ordinare anche le passioni (Prop. 10) e lo spiri­
to può riferire ogni immagine ed ogni passione all'idea di Dio
(Prop. 14 ): può, cioè, considerare ogni passione come momento
necessario di quell'eterno ordine delle cose che è Dio.

C'è qui, accennata, una fenomenologia del risentimento - che è ampiamente svolta,
nella filosofia contemporanea, da M. Scheler.
37
Suscita qualche perplessità questa tesi, perfettamente coerente con la metafisica
della prima parte dell'Etica, ma non facilmente comprensibile dopo le valutazioni mo­
rali che precedono, le valutazioni su ciò che è bene e ciò che è male nelle azioni uma­
ne. Il bene e il male di cui Spinoza ha parlato sono infatti relativi alla natura umana,
a un modello (exemplar) ideale di uomo; ma non sembra che un tale modello sia una
pura escogitazione soggettiva, variabile secondo i gusti individuali. È che forse è più
facile negare l'esistenza di una norma universale che rimanere poi coerenti con tale
negazione.
222 FILOSOFIA MODERNA

In tal modo la mente ne ha una conoscenza chiara e distinta,


e questa conoscenza suscita gioia, poiché è l'attività propria dello
spirito, l'attività che lo potenzia. E poiché la gioia unita all'idea
della causa di essa è l'amore, la conoscenza chiara e distinta della
passione diventa amore di Dio (Prop. 15). Non si può odiare Dio,
perché avere l'idea di Dio vuol dire fruire del massimo potenzia­
mento della propria natura (Prop. 18). E se si considera Dio come
causa dei propri dolori? Spinoza risponde, nello scolio alla mede­
sima proposizione, che un dolore considerato come effetto neces­
sario di Dio cessa di essere dolore.
Noi dobbiamo amare Dio (Hic erga Deum amor mentem ma­
xime occupare debet, Prop. 16), ma Dio non può amare noi, per­
ché non è soggetto a passioni (Prop. 19 ).
Fin qui, dice Spinoza, ho parlato di ciò che riguarda la potenza
della ragione nella vita presente (Prop. 20, Scol.) o, come aveva
detto nella Prefazione a questa quinta parte, della via che conduce
alla libertà o beatitudine; da qui innanzi parlerò della vita dello
spirito senza relazione al corpo, ossia della beatitudine stessa.
Lo spirito infatti non si esaurisce nella sua vita nel corpo, poiché
c'è in Dio l'idea che esprime l'essenza di ogni corpo umano indi­
viduo sub aeternitatis specie, quindi « Lo spirito umano non può
essere distrutto assolutamente col corpo, ma resta di esso qualco­
sa che è eterno » (Prop. 23). Qualcosa di eterno, dice Spinoza,
poiché, senza il corpo, lo spirito umano non potrà né immaginare
né ricordare, e tuttavia sentiamo e sperimentiamo di essere eterni
(sentimus experimurque nos aeternos esse).
La vita dello spirito è la conoscenza: vita perfetta è la cono­
scenza di terzo genere; a questa perciò è diretto il supremo intento
(conatus) dello spirito (Prop. 25) e nella soddisfazione di questo lo
spirito trova la suprema gioia (Prop. 27). Tale gioia, unita all'idea
di Dio che ne è causa, genera l'amore di Dio (amor Dei intellectua­
lis, Prop. 33) e questo amore è parte dell'infinito amore col quale
Dio ama sé (Prop. 36). In questo consiste la beatitudine, la quale
non è un premio (estrinseco) alla virtù, ma è la virtù stessa. E
« non godiamo della beatitudine perché freniamo l'eccesso delle
passioni (libidines); ma, al contrario, proprio perché godiamo
della beatitudine siamo capaci di frenare l'eccesso delle passioni »
(Prop. 42). Che è quanto dire: non una ascesi programmata come
una ginnastica in vista di un premio ci può portare alla beatitu-
SPINOZA 223

dine, ma è la coscienza e il gusto dei valori spirituali - che assom­


mano nella conoscenza della verità - quella che ci rende capaci
di elevarci al di sopra delle passioni.

16. Il« Trattato teologico-politico »


II Trattato teologico-politico, pubblicato anonimo nel 1670,
svolge, come dice il titolo, due argomenti: il concetto della reli­
gione e la teoria dello Stato, argomenti che sono connessi fra loro
dallo scopo del libro, dichiarato nella Prefazione: dimostrare che
la libertà di pensiero, la libertà religiosa, non solo è compatibile
con la pace sociale, ma è condizione di essa.
La Prefazione ci illumina sullo stato d'animo dell'autore di
fronte alla religione positiva, stato d'animo che possiamo capire
storicamente pensando all'esperienza di Spinoza, scomunicato dal­
la sua religione, vissuto in un clima di lotte religiose. La religione,
cosi come è professata dai più, è superstizione, è uno stato d'animo
passionale che nasce dalla paura dell'uomo, dal suo sentirsi so­
praffatto dagli eventi. Taie paura fa sl che gli uomini immaginino
la divinità come una forza naturale e irrazionale da tener buona
con atti parimente irrazionali, come sacrifici, atti esteriori di culto
ecc. L'unica vera prova del valore della religione sarebbe una con­
dotta conforme ai dogmi professati; ma i cristiani non praticano
affatto le virtù esaltate dal cristianesimo e si comportano come gli
ebrei, i mussulmani e i pagani; ne differiscono solo per gli atti di
culto; il che dimostra che in realtà non credono ai dogmi che pro­
fessano. Una simile religione è soggetta a tutti i mutamenti delle
passioni: il dio di ieri può esser disprezzato domani, il dio di un
popolo non è il dio di un altro, donde seguono guerre e la preoc­
cupazione di stabilire un'unica religione, per ottenere un unico
potere, e di dichiararla indiscutibile, « il che riusci benissimo ai
Turchi, che reputano sacrilegio anche la discussione e riempiono di
tanti pregiudizi la mente di ciascuno, da non lasciare spazio alla
sana ragione, neppure per il minimo dubbio». (Opera, III, p. 6;
trad. Casellato, p. 6 ). Questo tipo di religione serve benissimo ai
governi tirannici 38, perché tiene sottomessi i sudditi con la paura,

38 Spinoza dice monarchici, ma dà a questo termine il significato di tirannici,


come, per contro, repubblica ha per lui il significato di governo rispettoso dei diritti
umani - sia esso repubblicano in senso stretto o monarchico.
224 FILOSOFIA MODERNA

ma non si adatta ad una società libera (libera respublica) dove si


esige obbedienza alle leggi, ma non si impongono teorie, fedi,
opm1om.
Per dimostrare che la libertà religiosa non nuoce, anzi giova
alla stabilità dello Stato, Spinoza spiega cosa sia la religione, e lo
fa non partendo dalla filosofia, ma descrivendo una religione sto­
rica: quella biblica.
La Bibbia contiene la rivelazione divina, trasmessa ai Profeti,
che differisce dalla rivelazione naturale perché, a differenza di que­
sta, che è conoscenza razionale, certa, è conoscenza trasmessa per
immagini. « La rivelazione naturale secondo verità dovrebbe esse­
re detta rivelazione divina, poiché ce la dettano la natura di Dio,
in quanto ne partecipiamo, e i divini decreti» (Opera, III, p. 15),
ma, poiché è comune a tutti, è disprezzata dal volgo, sempre in
cerca dello straordinario, e perciò non è chiamata comunemente
rivelazione. La rivelazione biblica è, dicevamo, trasmessa median­
te immagini, e Spinoza conferma questa tesi citando passi dell'An­
tico Testamento dove si dice che Dio ha parlato a Mosè, a Samuele,
ad altri: ossia ha fatto sentire delle voci. Talora si tratta di imma­
gini visive, come quando appaiono angeli. Se i Profeti ricevettero
la rivelazione mediante immagini, ne segue che si distinguono da­
gli altri uomini non per superiore intelligenza, ma per più viva
immaginazione. Sbagliano quindi coloro che nella Bibbia cercano
una verità filosofica e scientifica 39•
I motivi dunque della certezza che i Profeti avevano di ciò
che trasmettevano agli altri erano non già l'evidenza razionale,
ma questi tre: 1) « Immaginavano le cose rivelate in maniera vi­
vacissima, come noi siamo soliti percepirle da svegli quando siamo
impressionati dagli oggetti»; 2) avevano un segno a conferma di
ciò che era rivelato, come Abramo ebbe da Dio il fuoco che scese
sugli animali del sacrificio come segno della promessa divina;
3) infine, e sopra tutto, perché avevano l'animo incline solo al
giusto e al bene (cap. 2; Opera, III, p. 31). Ma le rivelazioni divi­
ne non allargavano affatto la loro conoscenza speculativa. E qui
Spinoza porta esempi dall'Antico Testamento: Mosè, per esem­
pio, riteneva che Dio fosse soggetto alle passioni. Dio dunque non

39 « Qui igitur sapientiam et rerum naturalium et spiritualium cognitionem ex


Prophetarum libris investigare student, tota errant via» (cap. 2; Opera, III, p. 29).
SPINOZA 225

mirò a dare ai Profeti una conoscenza speculativa, ma li lasciò


nelle loro opinioni errate e cercò di insegnar loro come i genitori
insegnano ai bambini. Insegnò loro precetti morali.
Visto che cosa sia la rivelazione o profezia, si può rispondere
alla domanda se essa sia stata data solo al popolo ebraico o a tutti
i popoli. Premesso che ogni retta condotta di vita e ogni retto pre­
cetto morale deve dirsi ispirato da Dio e viene « da una singolare
vocazione divina» (cap. 3, Opera, III, p. 46), Spinoza distingue
tre tipi di beni ai quali può orientarsi la nostra volontà: la cono­
scenza filosofica, l'esercizio della virtù, il vivere in sicurezza e sa­
lute. Ora i mezzi per ottenere i due primi tipi di beni sono dati
a tutti gli uomini con la loro stessa natura, poiché tutti possono
dedicarsi alla conoscenza e alla virtù, quelli invece per ottenere si­
curezza economica e salute dipendono da circostanze esterne, quin­
di possono essere diversi nei diversi uomini e nei diversi popoli.
Tutti i popoli dunque hanno avuto una rivelazione per quel che
riguarda i precetti morali, tutti « hanno avuto i loro Profeti, come
gli Ebrei» (cap. 3; Opera, III, p. 51); per quel che riguarda in­
vece sicurezza economica e salute, Dio opera diversamente coi di­
versi popoli. Ora l'elezione del popolo ebraico riguarda quest'ulti­
mo tipo di beni.
I primi due tipi di beni, conoscenza e virtù, vengono poi iden­
tificati poiché il sommo bene, al quale ci indirizza la legge divina,
è la vera conoscenza e l'amore di Dio. Da quel che si è detto conse­
gu e che: 1) la legge divina è comune a tutti gli uomini; 2) non
esige conoscenze di fatti storici (fides historiarum); 3) non esige
atti esteriori di culto; 4) non comanda di agire per un premio, ma
ha il premio in se stessa. Basta dunque la sola ragione (lumen na­
turale) a farci conoscere la legge divina, la quale non è un decreto
arbitrario di Dio, poiché in Dio volontà e intelletto si identificano
e tutto ciò che chiamiamo decreto di Dio segue necessariamente
dalla sua natura; è una verità eterna che la ragione può conoscere
senza bisogno di rivelazione speciale. « Concludiamo dunque che
Dio è descritto come legislatore o principe, ed è chiamato giusto
e misericordioso solo secondo un modo di intendere rozzo (ex
captu vulgi) e per un difetto di riflessione» (cap. 4; Opera, III,
p. 65).
Le leggi che, nella Bibbia, prescrivono atti di culto che la ra­
gione giudicherebbe indifferenti sono rivolte solo al popolo ebrai-
226 FILOSOFIA MODERNA

co e sono in realtà leggi positive di quel popolo. In questo senso


è vero che Cristo non abrogò la legge mosaica, poiché la sua legge
è su un altro piano: è legge morale, non legge giuridica (cap. 5;
Opera, III, p. 71). Per Spinoza Cristo è di gran lunga superiore
ai Profeti dell'Antico Testamento: « fu non tanto un profeta
quanto la bocca stessa di Dio » (cap. 4; Opera, III, p. 64) poiché
Dio si rivelò immediatamente al suo spirito, non per mezzo di im­
magini sensibili. Cristo insegnò soltanto precetti universali, validi
per tutti gli uomini. Ora se gli uomini seguissero la loro ragione
non ci sarebbe nessun bisogno di una rivelazione storica, affidata
a determinati uomini e a determinati libri; ma poiché la maggio­
ranza degli uomini non segue la ragione ma le passioni, ed è per­
suasa solo da ciò che colpisce la fantasia, occorre una religione
positiva.
Questo razionalismo religioso è poi applicato ad alcuni pro­
blemi particolari: i miracoli e l'interpretazione della Scrittura. Il
miracolo è impossibile, poiché tutto ciò che accade procede neces­
sariamente da Dio; gli uomini chiamano miracolo ciò di cui igno­
rano le cause naturali e le leggi del loro operare. Quanto alla Scrit­
tura, Spinoza dà alcune regole di esegesi che si assommano in que­
sta: il metodo per interpretare la Bibbia non deve differire da
quello di interpretare la natura; per l'una come per l'altra si deve
cominciare dalla historia, cioè dalla raccolta dei fatti: fatti natu­
rali per la natura, documenti, testi, per la Scrittura. Quindi si deve
seguire la regola di non attribuirle nulla che non risulti dallo studi0
dei testi (cap. 7) e non presupporre che essa debba accordarsi con
la ragione; questo presupposto fu l'errore di Maimonide. Ora la
Bibbia, in modo immaginoso e adatto alla massa degli uomini non
mira se non a inculcare precetti morali. La conoscenza richiesta
per seguire questi concetti non è la conoscenza filosofica, ma solo
« la conoscenza della divina giustizia e carità» (cap. 13; Opera,
III, p. 168), dalla quale segue il dovere per gli uomini di prati­
care la giustizia e la carità.
Se tutti gli uomini seguissero la ragione ricaverebbero da que­
sta la conoscenza dei loro doveri, ma poiché quasi tutti seguono
l'immaginazione, fu necessaria la religione positiva per indurli al­
obbedienza dei precetti morali. Ora lo stesso motivo spiega la esi­
stenza dello Stato.
Tutti gli uomini infatti cercano il loro utile - e questa è la
SPINOZA 227

legge fondamentale della natura umana -; ma pochi lo cercano


razionalmente, e si lasciano invece dominare dalle passioni: di
qui la necessità di un potere che costringa gli uomini ad osservare
quei precetti che rendano possibile una convivenza umana. Quan­
do si dice che i più si lasciano dominare dalle passioni non si vuol
dire che si lascino andare liberamente; non c'è infatti libertà come
potere di opzione per Spinoza: il saggio segue la ragione e lo stolto
la passione perché così sono determinati dalla natura. « Tutto ciò
infatti che è compiuto da un soggetto per le leggi della sua natura
è compiuto di pieno diritto, poiché ogni cosa opera così come è
determinata da natura, né può agire diversamente» (cap. 16;
Opera, III, pp. 189-190). Lo stolto non è tenuto a vivere secondo
ragione come il gatto non è tenuto a vivere secondo la natura del
leone. E poiché i più seguono la passione « il diritto naturale
di ogni uomo non è determinato dalla sana ragione, ma dalla cupi­
digia e dalla potenza» (ibid. ).
Il concetto spinoziano di diritto naturale è dunque molto si­
mile a quello di Hobbes, e si capisce che anche secondo Spinoza
un tale stato di natura non possa portare se non alla lotta di tutti
contro tutti, ad uno stato cioè di intollerabile violenza e anarchia,
dal quale si deve uscire proprio per raggiungere il proprio utile.
È certo infatti più utile vivere in pace che in balia delle inimicizie,
dell'odio, della violenza. Per vivere in pace e in sicurezza gli uo­
mini dovettero rinunciare al loro diritto di natura e « far sì da
avere collettivamente quel diritto che, per natura, ognuno singo­
larmente aveva ad ogni cosa» e cercare che tale diritto fosse deter­
minato non dalla cupidigia del singolo, ma dalla ragione. Per que­
sto è necessario che i singoli trasferiscano i loro diritti ad uno che
abbia la forza di costringerli ad obbedirgli. Quest'uno può essere
una sola persona (monarca) o tutta la società, e Spinoza preferisce
fermarsi su quest'ultimo caso, che è quello della democrazia, defi­
nita « l'unione di uomini che esercita collegialmente il supremo
diritto su tutto ciò su cui ha potere» (ibid., p. 193 ). Se cade la
potenza, cade anche il diritto della società, perciò accade raramen­
te, dice Spinoza, che i reggitori di una società democratica impon­
gano cose assurde, perché rischierebbero di perdere il dominio e
perché è difficile che una intera assemblea sia d'accordo su cose
assurde.
All'autorità è dovuta obbedienza assoluta, la quale però non
228 FILOSOFIA MODERNA

è schiavitù, perché schiavo è colui che deve obbedire a comandi


che giovano solo a colui che comanda - in questo caso colui che
comanda è un tiranno, - mentre è libero suddito colui che obbe­
disce a comandi che giovano all'utilità di tutti. Non si vede bene
però chi debba giudicare se gli ordini dell'autorità giovino solo
a chi comanda - e siano quindi tirannici - o giovino a tutti.
Non si vede bene, dico, perché per un verso Spinoza riconosce
all'autorità civile un potere assoluto, anche quello di definire ciò
che è bene e ciò che è male 40, quello di legiferare in materia reli­
giosa, per l'altro afferma che nessuno potrà mai trasferire ad altri
il suo diritto fino a rinunciare ad essere uomo (cap. 17; Opera, III,
p. 201) e difende appassionatamente la libertà di pensiero ( cap.
20). Sembra però che il pensiero che l'autorità civile deve lasciar
libero sia un pensiero totalmente teorico, perché appena una dot­
trina ha un riflesso sulla condotta umana, essa è soggetta all'auto­
rità dello Stato.
L'atteggiamento di Spinoza, perseguitato dai suoi correligio­
nari in nome dell'ortodossia, spettatore dell'intolleranza religiosa
e delle guerre di religione, e, d'altra parte, vissuto in un'Olanda
repubblicana e religiosamente tollerante, si capisce storicamente:
per lui le minacce alla libertà vengono solo dalle chiese e le ga­
ranzie della libertà dallo Stato. In altre epoche le cose si sono
presentate diversamente.

40
« È certo che la pietà verso la patria è la più alta che uno possa esercitare, poi­
ché se è tolta l'autorità dello Stato, nessun bene sta più saldo, ma tutto è in pericolo,
e regnano solo l'ira e l'empietà, nel più gran terrore di tutti; ne segue che non c'è pietà
verso il prossimo che non possa diventare empia, se ne segue un danno per lo Stato,
e, viceversa, non c'è empietà verso il prossimo che non diventi pia se è co=essa per
la conservazione dello Stato» (cap. 19; Opera, III, p. 232).
CAPITOLO NONO

TH. HOBBES
( 1588 - 1679)

1. Cenni biografici

Nato nel 1588, studiò a Oxford, fu precettore del conte


di Devonshire, fece nel 1610 un viaggio in Italia col suo allievo
e cominciò la sua attività letteraria con una traduzione di Tucidide
(1628-29): di qui dové cominciare la sua meditazione sui proble­
mi politici. Intorno al 1630 studiò gli Elementi di Euclide e nel
1634-37 si recò in Francia, dove conobbe Mersenne, e in Italia do­
ve conobbe Galileo ( delle cui dottrine doveva già aver sentito parla­
re nel suo primo viaggio). La sua prima opera filosofi.ca sono gli
Elementi di legge naturale e politica, che circolarono manoscritti
nel 1640 e furono pubblicati solo nel 1650. In quest'opera Hob­
bes sosteneva già la sua dottrina politica, l'assolutismo; perciò,
nella lotta fra il re Carlo I e il Parlamento, ritenne più opportuno

* L'edizione più completa delle opere è quella curata da G. Molesworth: Opera


philosophica quae latine scripsit, 5 voli. Londra 1839-1845; English Works, 11 voli.
Londra, 1839-1845. La due serie sono ristampate ad Aalen nel 1961 e 1962. Ma re­
stano ancora opere manoscritte.
Traduzioni italiane recenti: Elementi di legge naturale e politica, a cura di A.
Pacchi, Firenze, La Nuova Italia, 1968; Elementi filosofici: Sul cittadino, a cura di N.
Bobbio, Torino, U.T.E.T., 1948, II ed. 1959; Leviatano, a cura di M. Vinciguerra,
Bari, Laterza, 1912; De homine, trad. di A. Pacchi, Bari, Laterza, 1970. Utile è pure
l'antologia curata da A. Pacchi col titolo Th. HoBBES, Logica, libertà e necessità, Mi­
lano, Principato, 1969, che contiene anche una biografia e un'esposizione sintetica della
filosofia di Hobbes. Ricorderemo solo: A. LEVI, La filosofia di Tommaso Hobbes, Mi­
lano, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1929 e J. LAIRD, Hobbes, Londra, 1934. Ampia bi­
bliografia nella Introduzione a Hobbes di A. PAccm Bari, Laterza, 1971.
230 FILOSOFIA MODERNA

lasciare l'Inghilterra e recarsi in Francia, dove aveva degli amici.


Qui, nel 1641, furono pubblicate le sue ( terze) Obiezioni alle Medita­
zioni di Cartesio. Nel 1642 pubblicò in una prima edizione privata
e ristretta il De cive, che fu poi ripubblicato, ampliato, nel 164 7.
Il titolo della prima edizione è Elementorum philosophiae sectio
tertia: De cive, il che indica che Hobbes già pensava di scrivere un
sistema completo di filosofia, ma le due prime sezioni: De corpore
e De homine uscirono molto più tardi: nel 1655 e nel 1658. Nel
1651 Hobbes pubblicò il Leviathan. J. Laird 1 dice che Hobbes
non era ben visto neppure alla Corte, esiliata, dopo il 1642, in
Francia, perché la corte era filocattolica e non vedeva di buon oc­
chio l' anti-papista; gli Scozzesi non vedevano di buon occhio l'ateo,
tant'è vero che, quando Hobbes pubblicò il Leviathan, si disse che
era un elogio a Cromwell; certo il libro non piacque alla Corte e
Hobbes preferl tornare in Inghilterra. Nel 1656 pubblicò le Que­
stions concerning Liberty, Necessity and Chance che riflettono le
discussioni con il Vescovo Bramhall. Quando, nel 1660, tornarono
sul trono gli Stuart, con Carlo II, Hobbes ebbe una pensione dal
re.
Scrisse anche di matematica e di fisica, ma non ebbe l'appro­
vazione dei professori universitari suoi contemporanei e non fu
ammesso nella Royal Society. L'ultima sua opera fu una tradu­
zione di Omero.

2. Empirismo e nominalismo

All'inizio del De corpore, che è la prima sezione degli Elementa


philosophiae, Hobbes espone il suo concetto di filosofia: non si
tratta di scoprirè la pietra filosofale né di vedere come stanno le
cose: la filosofia è la ratio humana naturalis per omnes res creatas
seduto volitans et de earum ordine, causis et effectibus ea quae
sunt vera renuntians. Come tale la filosofi.a è contenuta nello spirito
di ogni uomo, nou esplicitamente, ma almeno virtualmente. Ma po­
co dopo (De corpore, pars I, cap. 1, n. 8) parlando dell'oggetto
della filosofia restringe quelle omnes res creatas, delle quali aveva

1
Hobbes, cit., p. 14.
HOBBES 231

parlato nella prefazione, ai soli corpi. Escluso quindi dalla conside­


razione :filosofica Dio, esclusi gli enti spirituali, esclusa la storia,
benché sia utilissima, anzi necessaria alla considerazione :filosofica,
perché la storia si fonda sulla pura esperienza o sull'autorità, non
sul ragionamento. Un motivo della limitazione dell'oggetto della
:filosofia al mondo corporeo è forse la concezione pragmatica del
sapere (op. cit., nn. 6-7) che Hobbes ha comune con Bacone. In­
dubbiamente il materalismo - se materialismo c'è 2 - è sempre
presupposto da Hcbbes, mai giustificato.
La prima parte del De corpore è dedicata alla logica, della qua­
le rileveremo subito il carattere nominalistico.
Per rimediare al carattere fluido e caduco dei nostri pensieri,
che vengono e vanno, appaiono e scompaiono, abbiamo bisogno di
fissarli con note, le quali sono « cose sensibili, assunte a nostro ar­
bitrio, per poter richiamare alla mente, quando si percepiscono sen­
sibilmente, pensieri si.mili a quelli in grazia dei quali furono assun­
te» (De corpore, pars I: Logica, cap. 2, n. 1) 3• Negli Elementi di
legge naturale e politica Hobbes fa questo esempio: « Cosi, co­
loro che sono passati vicino ad uno scoglio in mare, istituiscono
un qualche contrassegno, con cui ricordare il loro precedente peri­
colo ed evitarlo» (traduz. Pacchi, cap. V, 1, p. 34).
I segni sono una specie di note: sono le note« comuni a molti»
(De corpore, I, 2, 2), ossia le note che valgono non solo per un uo­
mo che se le è scelte arbitrariamente, ma per molti altri. Hobbes
sembra ricondurre questo valere per molti altri ad un insegnamen­
to di chi per primo ha inventato la nota, ma poi definisce il segno
cosi: « Si è soliti chiamare segni gli antecedenti dei conseguenti e
i conseguenti degli antecedenti, ogniqualvolta si sia fatta esperien­
za che essi precedono e seguono generalmente (plerumque) allo stes­
so modo» (De corpore, I, 2, 2).
Questi sono i segni naturali, come la nuvola è segno della piog­
gia e viceversa (se piove, devono esserci state nuvole); altri invece
sono segni arbitrari: indicano cioè la connessione fra la cosa sensibile

2
Secondo Pacchi, infatti, il materialismo è solo un'ipotesi, per Hobbes, non una
verità affermata: indubitabilmente esistenti sono solo le sensazioni e le immagini.
1 Th. HoBBES, Logica, libertà e necessità, a cura di A. Pacchi, cit., p. 36. Ho mo­
dificato leggermente la traduzione.
232 FILOSOFIA MODERNA

e un pensiero. La differenza fra note e segni è che le note servono a


noi per ricordare i pensieri, i segni perché li possiamo manifestare
ad altri (De corpore, 1, 2, 3 ). Le parole sono note e segni insieme
(ibid., n. 4 ).
I nomi sono segni dei pensieri e non delle cose, e perciò pos­
sono esservi nomi come " futuro" o "nulla" ai quali non cor­
risponde nessuna cosa (ibid., nn. 5 e 6 ).
Ci sono nomi positivi (come "uomo", "filosofo" ecc.) e ne­
gativi (come "non-uomo", "non-filosofo" ecc.). I primi espri­
mono la somiglianza, l'eguaglianza o l'identità delle cose pensate
(" uomo" esprime la somiglianza fra Tizio, Caio e Sempronio;
Socrate esprime l'identità: « denota un unico e medesimo ogget­
to »); i nomi negativi esprimono la diversità, dissomiglianza o di­
suguaglianza (n. 7 ).
« Il nome positivo e il negativo sono contraddittorii fra loro,
si che non possono essere ambedue nomi della medesima cosa.
Inoltre di due nomi contraddittorii uno dei due è il nome di qual­
siasi cosa 4 »; il che vuol dire: a qualsiasi cosa spetta uno di due
nomi contraddittorii; ossia: ogni cosa è necessariamente o bianca
o non-bianca, o uomo o non-uomo. Hobbes esprime cioè qui il
principio del terzo escluso. E aggiunge: « e questo è tanto mani­
festo che non occorre dimostrarlo o spiegarlo. Coloro infatti che
lo enunciano così: la medesima cosa non può essere e non essere
si esprimono in modo oscuro; quelli poi che dicono: tutto ciò che
è, o è o non è parlano in modo assurdo e ridicolo » (n. 8 ). Qui il
lettore può rimanere perplesso: perché sarebbero oscure, assurde
e ridicole le due formule criticate da Hobbes e non la sua: « il
nome positivo e negativo sono contraddittorii »? La posizione di
Hobbes comincia a spiegarsi nel paragrafo seguente (n. 9), nel qua­
le egli dice che i nomi comuni, ossia gli universali, non sono nomi
di cose, né di idee, né di immagini formate nell'animo, ma di
nomi. L'universale è il nome di un nome: ai nomi universali cor­
rispondono immagini di cose singolari. « Per capire quindi il valore
(vis) dell'universale non occorre altra facoltà all'infuori dell'im-

' « Contradictoriorum nominum, alterum quidem cuiuslibet rei nomen est ». Mi


pare che la traduzione di A. Pacchi « di due nomi contraddittori uno solo è nome di
una certa cosa» non renda bene il pensiero di Hobbes.
HOBBES 233

maginativa, mediante la quale ricordiamo che tali parole hanno


suscitato nell'animo ora una cosa ora l'altra» 5•
Dalla connnessione di nomi nasce il discorso ( oratio), e quel
particolare tipo di discorso che è la proposizione, « vale a dire
il discorso di chi afferma o nega e che costituisce una nota della
verità e della falsità» (De corpore, I, 3, 1). Pura connessione di
nomi. Infatti Hobbes la definisce cosi: « La proposizione è un di­
scorso costituito dalla connessione di due nomi, mediante il qua­
le chi parla intende significare che egli pensa che il nome seguente
è nome della medesima cosa cui si riferisce il nome che precede;
ovvero ( che è lo stesso) che il nome che precede è contenuto nel
nome che segue». Quando il nome seguente, ossia il predicato,
è nome della medesima cosa di cui è nome il soggetto, la proposi­
zione è vera. « Di qui si può dedurre che le verità assolutamente
prime sono nate dall'arbitrio di coloro che per primi imposero i
nomi alle cose, o adottarono nomi già posti da altri. Infatti, ad
esempio, è vero che l'uomo è un animale per il fatto che piacque
imporre quei due nomi alla medesima cosa» (De corpore, I, 3, 8).
La scienza - il sapere dimostrato - esige un ragionamento,
e il ragionamento, come Hobbes ha detto prima (I, 1, 2), è calcolo:
calcolo sui segni: fondamentalmente addizione e sottrazione. La
semplice conoscenza di un fatto, -.ou IS-n è cognitio, ma non è an­
cora scienza: perché ci sia scienza, occorre che si conoscano le cau­
se, -.ou �M-.L. La scienza comincia però sempre dalla conoscenza dei
fatti (De corpore. I, 6, 1) e il fatto è il concreto, l'esistente (De
corpore, I, 3, 3) il quale è un tutto che consta di parti; ma queste
parti non vanno intese come « parti della cosa stessa», così come
la testa, le spalle, le braccia sono parti di un uomo, ma come « parti
della sua natura », come sono « la figura, la quantità, il modo, la
sensazione, il ragionamento, e simili, che sono accidenti i quali,
insieme composti, costituiscono l'intera natura, non l'intera mole
dell'uomo» (De corpore, I, 6, 2). Nel cap. 3, 3 aveva anche chia­
mato cause questi accidenti, perché essi dànno ragione, spiegano la
natura di una cosa.

5
« Ideoque non est opus ad vim universalis intelligendarn alia facultate quam ima­
ginativa qua recorda.rnur voces eiusmodi modo unam rem modo aliarn in animo exci­
tesse » (n. 9). Ho modificato la traduzione del Pacchi.
234 FILOSOFIA MODERNA

3. Meccanicismo e teoria della sensazione

Coloro che filosofano (philosophantes: gli studiosi) cercano o


di sapere tutto quello che possono, o di conoscere la causa di un
determinato fenomeno, per es. luce, calore, gravità ecc. Quelli che
ricercano la scienza in generale (i filosofi, diremmo noi) devono cer­
care le cause degli « universali e semplici », ossia le cause degli
aspetti comuni a tutte le cose, il che, per Hobbes, vuol dire: a tutti
i corpi; queste cause sono le proprietà geometriche e, sopra tutto,
il moto, poiché anche la varietà delle figure nasce dalla varietà dei
movimenti coi quali si costruiscono, e il moto non ha altra causa
che il moto. Le qualità sensibili non hanno altra causa che il moto.
Se ci chiedessimo come è nata in Hobbes la persuasione che
tutte le qualità si riducano a moto locale, potremmo rispondere ri­
cordando che Hobbes ha conosciuto la nuova scienza e ne è en­
tusiasta. « Galileo per primo ci ha aperto la porta principale di tutta
la fisica: la natura del moto. A tal punto che l'età della fisica non
sembra si possa far iniziare prima di lui » (Epistola dedicatoria del
De corpore ). E Galileo ha aperto questa porta, ossia ha fondato la
fisica come scienza, perché ha applicato alla fisica la geometria. Ora
la geometria è una scienza rigorosamente dimostrata perché siamo
noi che costruiamo le figure geometriche. « Poiché le cause delle
proprietà delle singole figure dipendono da quelle linee che noi
stessi abbiamo tirato, e le generazioni delle figure dipendono dal
nostro arbitrio, per conoscere le proprietà di qualsiasi figura si ri­
chiede solo la considerazione di ciò che consegue dalla costruzione
che noi stessi facciamo nel delineare la figura. È dunque perché noi
stessi creiamo le figure che la geometria c'è, ed è dimostrabile [ è
scienza rigorosa] » (De homine, 10, 5) 6•
Invece, poiché non siamo causa delle cose naturali, non possia­
mo dedurre le loro proprietà dalle loro cause, che ci sono ignote.
Possiamo però risalire dalle proprietà che vediamo alle loro possi­
bili cause, con una dimostrazione a posteriori, e cosl elaboriamo
quella scienza che si chiama fisica. E poiché le cose naturali (res
naturales) si fanno col moto, non possiamo conoscer nulla di esse
senza conoscere il moto, e non il moto in generale ( come lo defini-

• :B la tesi del verum-factum che abbiamo già trovata in Gassendi e che si ritroverà
nel Vico.
HOBBES 235

vano i filosofi) ma le varie specie di moto (come le aveva studiate


Galileo: moto uniforme, moto vario, moto uniformemente accele­
rato, ecc.). Ma per conoscere il moto in questo modo, bisogna mi­
surarlo, bisogna conoscerne la quantità, e la scienza della quantità
è la geometria. Cosi anche il fisico può dimostrare qualche cosa a
priori, e la vera fisica, che si basa sulla geometria, è una scienza ma­
tematizzata (inter mathematicas mixtas numerari solet) (De ho­
mine, 10, 5).
Dal carattere matematico della nuova fisica Hobbes trae come
conseguenza il meccanicismo: negazione dell'esistenza oggettiva
(fisica) delle qualità. Se ciò che si può veramente sapere delle cose
naturali, ciò di cui si può avere vera scienza, è solo la quantità e il
movimento, le qualità non hanno esistenza oggettiva. La teoria gno­
seologica della soggettività delle sensazioni nasce, anche per Hobbes,
da una teoria cosmologica: dal meccanicismo.
Vediamo infatti qual è la teoria hobbesiana della sensazione,
nel De corpore, IV, cap. 25.
Dopo_ aver ricordato che si tratta di spiegare un fenomeno fisico,
non una figura matematica, Hobbes dice che bisogna risalire dagli
effetti alle cause. L;:i, conclusione non sarà necessaria, come nei teo­
remi di matematica, ma sarà probabile. E Hobbes sembra mettersi
da principio in un atteggiamento spregiudicatamente fenomenolo­
gico, come osserva Bontadini. Comincia infatti così: « Di tutti i
fenomeni... l'apparire stesso, -rò cpoclve:cr&on, è quello più mirabile:
il fatto cioè che, tra i corpi naturali, alcuni abbiano in sé gli esem­
plari di quasi tutte le cose, altri non li abbiano; sì che se i fenomeni
[ ossia ciò che è manifesto] sono il principio della conoscenza delle
altre cose, bisogna dire che la sensazione è il principio della cono­
scenza degli stessi principi» (De corpore, IV, 25, 1). E quindi bi­
sogna cominciare dall'esaminare la sensazione.
Con che senso considereremo la sensazione? Con lo stesso
sentire, risponde Hobbes, ossia con la memoria, che è un sentire di
aver sentito: Nam sentire se sentisse meminisse est.
Ma Hobbes lascia subito l'indagine fenomenologica del sentire,
del cpoclve:cr&oct, per ricercare le cause del conoscere. E argomenta co­
sì: il nostro conoscere è in divenire: le immagini sorgono e scom­
paiono; ora ogni divenire (mutatio) non è altro che moto locale
(motus), quindi la sensazione è moto. I1 conoscere è dunque un moto
del corpo senziente, che è quello in cui si trovano le immagini. Causa
236 FILOSOFIA MODERNA

immediata di questo moto, che è la sensazione, è ciò che preme e


tocca l'organo di senso; ma solo la prima fonte del moto deve dirsi
oggetto della sensazione. La sensazione è quindi un moto interno al
senziente, generato da un moto delle parti interne dell'oggetto e pro­
pagato dal mezzo fino alle parti più interne dell'organo di senso.
L'organo di senso reagisce al moto proveniente dall'oggetto ed ex ea
reactione aliquandiu durante ipsum existit phantasma. Il phanta­
sma, l'immagine, è dunque dentro il corpo senziente, è un modo di
essere del soggetto senziente. Ma poiché nasce da una reazione ad un
moto che viene di fuori, poiché è un moto centrifugo, un conatus
versus externa, sembra che l'immagine sia fuori, dove è l'oggetto:
sembra, però. Altre sensazioni, invece, quelle del piacere e del do­
lore appaiono come mie, in me, perché nascono da un moto verso
il cuore, da un moto centripeto. Infatti, poiché il cuore è principio
della vita, ogni moto che va al cuore inffuisce sul moto vitale e, se lo
facilita, produce piacere, se lo impedisce produce dolore.
Questa teoria della sensazione dipende dunque dai presupposti
meccanicistici. Infatti nel Short Tract of First Principles 1, scritto,
secondo F. Tonnies, verso il 1630, Hobbes parla ancora di species.
Ma la pessima interpretazione che si dava allora della teoria scola­
stica delle species dové indurre Hobbes, come tanti altri, ad abban­
donarla. Anche la teoria dello Hobbes maturo, però, quella che ab­
biamo sopra esposta, non può certo ridurre il mondo ad un comples­
so di fatti di coscienza, perché suppone che ci sia il corpo senziente,
che ci siano altri corpi che influiscono su di esso, ossia suppone l'esi­
stenza del mondo.

4. Sentimenti, impulsi, volizioni

Come le sensazioni, così anche i sentimenti - che si ricondu­


cono tutti ai due fondamentali: piacere-dolore - non sono altro che
moto locale: moto centripeto, come abbiamo detto, ossia che va dal­
la periferia al cuore.
Ci sono due tipi di moto: moto vitale e moto animale. Il primo
è quello che si compie inconsapevolmente, come la circolazione del

7
Pubblicato dal Tonnies come P Appendice alla sua edizione degli Elements of
Law, Cambridge, 1928.
HOBBES 237

sangue, il secondo è quello preceduto da una sensazione o immagi­


nazione. Il moto animale è appetito o avversione: queste sono le
tendenze originarie dell'animo (De corpore, cap. 25, n. 12), e anche
queste si riducono a moto locale. Cosl aveva detto Hobbes anche
nel Leviatano (I, cap. 6) 8: « E benché uomini incolti non concepi­
scano che sia un qualunque moto là dove la cosa in moto è invisibile...
pure ciò non impedisce che tali moti avvengano... Questi piccoli
principi di moto, nel corpo dell'uomo, prima che appaiano nel
camminare, nel parlare, nel percuotere e in altre azioni visibili, so­
no comunemente chiamati tendenze». Assurda è quindi, dice Hob­
bes, la tesi degli scolastici che la tendenza sia un moto metafisico:
è un puro moto locale 9•
Certe tendenze sono fisse e costanti (per esempio quella al ci­
bo), altre invece non sono tali: gli animali talora desiderano una
cosa, talora la fuggono, perché in certi momenti essa pare loro
utile, in altri momenti dannosa. C'è quindi un alternarsi di deside­
rio e di avversione verso un determinato oggetto, e questo alter­
narsi dà luogo a quella serie di pensieri che si chiama deliberazione.
Quando un appetito o una avversione segue ad una deliberazione
si chiama volere (De corpore, cap. 25, n. 13 ). Nessuna differenza
fra l'uomo e gli altri animali su questo punto.

5. Negazione della libertà

Non c'è libertà: Neque libertas volendi vel nolendi maior est
in homine quam in aliis animalibus (ibid. ), poiché la volizione è
un motus e il moto è determinato dalla causa che lo produce. Nel
trattare della causa e dell'effetto, infatti, nel cap. 9° del De corpore
Hobbes aveva definito agente il corpo che genera o distrugge un
accidente in un altro corpo, e aveva assunto come esempio la tra­
smissione del moto locale. Un corpo è agente perché è in moto e
urta un altro corpo, il quale si trova sulla sua traiettoria. (Il fatto
di essere in moto secondo una certa traiettoria è un accidente del

' Trad. it. di M. Vinciguerra, Bari, Laterza, 1911, p. 41.


• Ricordiamo infatti quello che Hobbes obiettò a Cartesio: « Che altro è la
paura di un leone che mi assale, se non l'idea del leone che mi assale e l'effetto che
essa genera nel cuore e che induce colui che ha paura a quel moto animale che chiamia­
mo fuga? » Quarte Obb., 6.
238 FILOSOFIA MODERNA

corpo che chiamiamo agente o movente; il fatto di trovarsi su quel­


la traiettoria è un accidente del corpo mosso). Ora, quando certi
accidenti, nell'agente e nel paziente, si incontrano, ossia quando
c'è la causa integra, l'effetto non può non seguire (De corpore, cap.
9, n. 3 ). Così, quando in un uomo ci sono certe tendenze e certi
sentimenti, c'è la causa integra perché si produca quell'effetto che
è la volizione; quindi non c'è libertà di volere, ma libertà di fare.
Si può parlare di libertà, intendendo per azioni libere quelle vo­
lute dal soggetto e non impostegli dal di fuori (si chiamerà libero
il moto di un uomo che cammina perché vuol camminare e non
perché è trascinato a forza; ma il suo voler camminare è determina­
to dalle cause delle sue tendenze) (De corpore, cap. 25, n. 13 ).
Hobbes svolse la sua tesi negatrice della libertà nella polemica col
Vescovo Bramhall (English Works, voli. IV e V), ma l'argomento
fondamentale è sempre quello del De corpore: se ci fosse libertà
non ci sarebbe nesso fra causa ed effetto, ossia, in ultima analisi,
come osserva J. Laird 10, si negherebbe lo stesso principio di iden­
tità, poiché, se ogni cosa è necessariamente quella che è, e se è
quella che è in funzione di certi antecedenti, anche la volizione è
quella che è in funzione di certi antecedenti 11•
Altri argomenti di Hobbes mirano a confutare quelli di Bram­
hall .in favore della libertà (le pene sarebbero inutili, non avreb­
bero senso la lode e il biasimo ecc.): e qui Hobbes ha buon giuoco:
le pene, il biasimo, la lode fanno parte, secondo lui, delle cause
della volizione.

10 Hobbes, cit., p. 190.


11
Ma il problema è, come osserva lo stesso Laird, quali siano questi antecedenti.
Se sono soltanto moti locali, spinte che vengono dal di fuori, la libertà è impossibile;
ma se fra gli antecedenti c'è un soggetto spirituale, sottratto all'azione determinante
delle cause esterne; se c'è un soggetto capace di autodeterminarsi, l'affermazione della
libertà non nega affatto il principio di identità. Si badi però che ho detto fra gli antece­
denti; ho detto azione determinante delle cause esterne. Affermare la libertà non vuol
dire infatti affermare che le cause esterne non abbiano nessuna azione sulla volontà
(che è volontà di un uomo, inserito nella natura e in un contesto sociale); vuol dire
solo negare che tale azione sia sempre ed in ogni caso determinante, irresistibile. Ma
per Hobbes la volizione è soltanto il risultato di moti locali, quindi si capisce che non
possa essere libera. :8 il materialismo di Hobbes, il suo meccanicismo, quello che co­
manda il suo determinismo.
HOBBES 239

6. Bene e male. Fenomenologia della vita morale

Bene e male sono relativi: bene è ciò che è desiderato, male ciò
che fuggiamo: itaque simpliciter bonum dici non potest; cum
quicquid bonum est, bonum sit aliquibus vel alicui (De homine,
cap. 11, n. 4). Ci può essere una cosa buona per molti, per esem­
pio lo Stato; una cosa buona per tutti, per esempio la salute, ma il
bene è sempre relativo. Si dice che buone erano all'inizio tutte le
cose create da Dio, ma erano buone perché piacevano a Dio. Si dice
anche che Dio è buono; sl, risponde Hobbes: bonus est Deus
omnibus qui nomen eius invocant, non autem iis qui nomen eius
blasphemant (ibid. ). Il bene è dunque relativo alla persona, al luo­
go, al tempo.
In base a questi presupposti Hobbes non può certo parlare di
una giustizia naturale, di una regola naturale di giustizia: « non vi
sono teorie autentiche sul giusto e l'ingiusto, sul bene e il male, al­
l'infuori delle leggi istituite in ciascuno Stato, e nessuno può ricer­
care se una azione sia giusta o ingiusta, buona o cattiva, ad eccezio..
ne di coloro cui è stata deferita l'interpretazione delle leggi » (De
cive, trad. Bobbio, p. 61).
Se Hobbes non può darci regole morali, valutazioni morali,
egli ci dà però una descrizione degli atteggiamenti umani, una fe­
nomenologia della vita morale nei capp. 11, 12 e 13 del De homi­
ne, dove dice che cosa, di fatto, gli uomini desiderano e fuggono;
quali sono le passioni, quali i temperamenti e i costumi umani. E le
sue descrizioni sono spesso lapidarie.
Gradevole (iucundum) è il bene quando è acquisito, bello è un
bene quando è considerato. Est enim pulchritudo obiecti qualitas
ea, quae facit ut bonum ab eo expectetur (De homine, cap. 11,
n. 5).
Tutto ciò che piace è bene, ma si può distinguere bene vero da
bene apparente considerando che la realtà è complessa, fatta di
elementi diversi, alcuni dei quali possono essere buoni, altri cattivi.
Ora quando si sbaglia il calcolo del bene e del male ( ossia di ciò
che piace o dispiace) in una realtà complessa, e si sceglie un oggetto
in cui c'è più male che bene, si sceglie un bene apparente. Il bene
primario è la propria conservazione: è un istinto naturale quello di
desiderare il proprio benessere, ed a questo occorrono la vita, la
salute e la sicurezza dell'una e dell'altra per il futuro. Di qui segue
240 FILOSOFIA MODERNA

che il più gran male è la morte, e specialmente la morte dolorosa


(op. cit., cap. 11, n. 6).
La potenza, se è grande, è un bene, perché è utile per difen­
dersi (ad praesidium) e la difesa dà sicurezza; se però non è mag­
giore di quella degli altri, è inutile.
Le amicizie sono un bene, perché sono utili, e le inimicizie so­
no un male, perché sono pericolose.
Le ricchezze, se sono molte sono un bene, perché sono una di­
fesa, ma sono utili anche se sono poche, perché servono a farsi
degli amici, e gli amici sono una difesa. Se però non ci si serve del­
le ricchezze per la propria difesa (praesidium) sono un bene solo
apparente, perché suscitano invidia. Le ricchezze guadagnate sono
un bene, perché il guadagnarle è gradevole (iucundum). L'indigen­
za è un male; ma la povertà senza indigenza è un bene, perché libe­
ra dall'invidia, dalla calunnia e dalle insidie.
La sapienza (sapientia) è utile, perché è una difesa. È anche
desiderabile per sé, perché è gradevole. Ed è anche bella, perché
è difficile da conquistare. L'ignoranza è un male, perché non ha
difese e non può prevedere i mali incombenti (op. cit., cap. 11,
n. 7).
Per solito gli uomini desiderano più la ricchezza della sa­
pienza (Divitiarum quam sapientiae cupido maior), e non cercano
il sapere se non per la ricchezza. E se hanno la ricchezza, deside­
rano di esser creduti sapienti. Non è vero infatti che colui che è
sapiente è ricco, come dicono gli stoici; al contrario: colui che è
ricco vuol esser detto sapiente. « Ma c'è più gloria nella sapienza
che nelle ricchezze, perché queste son ritenute segno di quella.
L'indigenza è ritenuta meno disonorevole della stoltezza, perché
di quella si può dar colpa alla fortuna, questa invece dipende dal­
la natura. Ma la stoltezza è più tollerabile dell'indigenza, perché
uno non si accorge di essere stolto (illa enim in proprio, quod
aiunt, elemento non gravat) » (ibid., n. 8 ).
« Le scienze o le arti sono un bene: perché il possederle è gra­
devole. La natura infatti ha creato l'uomo ammiratore di ciò che è
nuovo, cioè avido di conoscere le cause di tutte le cose » (n. 9).
Sicché le scienze sono come il cibo dello spirito, ma, a differenza del
cibo corporeo, esse non generano mai sazietà. Anche le lettere,
ossia la cultura letteraria, cioè le lingue e la storia, sono un bene,
HOBBES 241

perché il conoscerle è gradevole; e sono anche utili, specialmente


la storia (ibid., n. 10).
« Il lavoro (negotium) è un bene, perché è il movimento della
vita... "Dove debbo rivolgermi? Che debbo fare? " sono espres­
sioni della gente che soffre. L'ozio (otium) fa soffrire (torquet ). La
natura infatti non lascia né spazio né tempo vuoto » (ibid., n. 11 ).
« Il progredire è gradevole, perché è l'avvicinarsi al fine, cioè
a qualcosa di più gradevole. È gradevole vedere il male degli altri:
ci piace, infatti, non in quanto male, ma in quanto è degli altri. E
per questo gli uomini per solito corrono a vedere quando c'è un
morto o un pericolo. Analogamente, è molesto vedere il bene al­
trui: non in quanto bene, ma in quanto è degli altri ».
« L'avere un alto concetto del proprio potere - a ragione o a
torto - è gradevole. Se a ragione, perché si ha coscienza di avere
in sé la propria difesa; se a torto, è ugualmente piacere, perché
le cose che piacciono quando sono vere, piacciono anche imma­
ginate (ficta). Perciò è gradevole la vittoria: perché fa sentire al­
tamente di sé; e son gradevoli i giuochi e le gare, perché chi gareg­
gia spera nella vittoria... È gradevole esser lodato, perché dà un
alto concetto di sé ».
« Perdonare a chi chiede venia è bello, perché è indizio di fi­
ducia in se stessi. Placare i nemici con bene6.cii è turpe: infatti il
comprarsi ht pace è segno di indigenza, perché gli uomini non com­
prano se non ciò di cui hanno bisogno ».
Come descrizione di quello che gli uomini sono, almeno ut in plu­
ribus, questa, di Hobbes, mi sembra vera ed efficace. Ma nelle frasi
che abbiamo citate c'è più della descrizione: ci sono apprezzamen­
ti, valutazioni. Finché Hobbes sentenzia: questo, quest'altro è be­
ne, possiamo ammettere che egli descriva soltanto, poiché ha de­
finito bene ciò che piace, ciò che è desiderato; per lui quindi dire
« questo è bene » è quanto dire: « è desiderato, per lo più ». Ma
quando interviene quel pulchrum o quel turpe non c'è più soltan­
to una descrizione: c'è una valutazione. E qual è il criterio di que­
sta valutazione, per uno che ha negato l'esistenza di valori og­
gettivi?
Altre descrizioni efficaci troviamo nei capitoli del De homine
dedicati alle passioni (cap. 12), ai caratteri e ai costumi (cap. 13 ).
Per es.: chi crede di avere doti che non ha non si corregge mai, e
si occupa invece continuamente dei fatti altrui per correggere, de-
242 FILOSOFIA MODERNA

ridere, vituperare... ut qui, quicquid factum vident praeter sen­


tentiam suam non recte factum putant. Perciò i pedagoghi (non i
pedagogisti!) spesso sono di carattere censorio et ad convictum
odiosum (cap. 13, 6). A proposito degli authores, Hobbes afferma
che cattivi, perché hanno un cattivo influsso, sono quegli autori
classici, greci e romani, che esaltano la democrazia, perché induco­
no il volgo a ribellarsi ai re. Ma ancora peggio sono i libri in cui
si esalta la Chiesa, e quegli autori qui regnum in regno, ecclesiasti­
cum in civili esse volunt.

7. Virtù e vizi. Il fondamento della morale

Quando un carattere si è confermato, esso diventa costume


(mos) e costumi sono le virtù e i vizi. Ma poiché per Hobbes il
bene è relativo, non c'è un criterio universale per giudicare buono
un costume (ossia per giudicarlo virtù) o cattivo (vizio). E infatti,
osserva egli, il medesimo costume è ritenuto virtù dagli uni e vi­
zio dagli altri. Non ha senso, dunque, parlare di virtù e di vizio
in senso assoluto se non nello Stato. L'unica virtù morale è la giu­
stizia, e la giustizia consiste nell'obbedire alle leggi dello Stato.
Giusto è ciò che è conforme alla legge (De homine, cap. 13, 8):
alla legge positiva civile. A questa affermazione Hobbes dà una
grandissima importanza: in essa egli vede il primo principio della
filosofia morale, e la propria scoperta. Gli antichi, infatti, afferma
Hobbes nel De corpore (I, cap. 1, 7) non hanno elaborato scien­
tificamente la filosofia morale: ciò che essi gabellano per filosofia
morale non è altro che retorica, poiché non ci danno una regola,
un criterio per giudicare che cosa sia giusto o ingiusto: non defi­
niscono la giustizia. E da questa ignoranza di che cosa sia la giu­
stizia nascono secondo Hobbes le guerre civili. Si ignorano le cause
della pace e della guerra, si ignorano i propri doveri. Quando in­
vece si ha un concetto esatto di cosa sia la giustizia, si può elabo­
rare una rigorosa scienza morale. Tanto più rigorosa in quanto,
essendo la giustizia la conformità alla legge, ed essendo la legge
fatta dagli uomini, si può avere una nozione quidditativa della
giustizia e quindi si può elaborare su di essa una scienza a priori.
Nam ante pacta et leges conditas, nulla neque iustitia neque iniusti-
HOBBES 243

tia, neque boni neque mali publici natura erat inter homines,
magis quam inter bestias (De homine, cap. 10, 5).
Ma la morale si riduce tutta alla giustizia? Non ci sono altre
virtù? Hobbes risponde che le altre tre virtù cardinali, fortezza,
prudenza e temperanza, non sono virtù del cittadino, ma del­
l'uomo singolo, al quale sono utili.
All'obiezione, poi, che le leggi degli Stati mutano, che sono di­
verse in tempi e luoghi diversi, Hobbes risponde che le leggi so­
no la regola della giustizia nello Stato in cui valgono, mentre
valgono.

8. L'assolutismo politico

Date queste premesse, ci possiamo spiegare la dottrina politica


di Hobbes. Dice molto bene N. Bobbio nella sua introduzione alla
traduzione italiana del De cive che i due elementi costitutivi del­
l'etica hobbesiana sono il convenzionalismo etico e il pessimismo
antropologico. Potremmo anzi osservare che dal pessimismo antro­
pologico nasce il convenzionalismo etico. Pessimismo antropolo­
gico è quello che risulta dalla descrizione che Hobbes fa dei sen ·
timenti umani: è una descrizione dell'animalità umana (che non è
l'animalità delle bestie). Ora lo stato di natura che Hobbes delinea,
è lo stato in cui ha il libero giuoco l'animalità umana. E questo
stato porta alla guerra, a uno stato permanente di guerra, perché
ognuno pretende per sé tutto quello che può avere, senza riguardo
agli altri. « La natura ha fatto gli uomini così eguali, nelle facoltà
del corpo e dello spirito, che, quantunque si trovi spesso un uomo
più forte o più intelligente di un altro, tuttavia in complesso la
differenza tra uomo e uomo non è tanto notevole che un uomo pos­
sa pretendere per sé un beneficio che un altro non possa preten­
dere ugualmente » (Leviatano, trad. Vinciguerra, I, cap. 13 ).
Ma la legge di natura impone di conservare la propria vita, e
quindi la pace che ne è condizione. « Una legge di natura - lex
naturalis - è un precetto o una regola generale, ricavata dalla ra­
gione, per cui ad un uomo è vietato di fare quello che distrugge­
rebbe la sua vita, o di togliersi i mezzi per preservarla, e di omette­
re quello con cui egli pensa che sarebbe meglio preservata » (Le­
viatano, cit., I, cap. 14). « E per conseguenza è un precetto o re-
244 FILOSOFIA MODERNA

gola generale della ragione che ogni uomo deve procurare la pace
tanto per quanto egli ha speranza di ottenerla, e, quando non può
ottenerla, egli deve cercare ed usare tutti i mezzi ed i vantaggi
della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e
fondamentale legge di natura che è: cercare la pace e conseguirla;
la seconda parte il sommo dei diritti di natura, che è: difendersi
con tutti i mezzi possibili » (Leviatano, I, cap. 14 ).
Dall'affermazione che nello stato di natura, avendo tutti ugual
diritto a tutti i beni, si avrebbe la guerra di tutti contro tutti, e
che la legge di natura spinge invece l'uomo a cercare la pace, Hob­
bes trae la conseguenza che « il diritto di tutti a tutto non si deve
conservare, ma certi diritti si devono o trasferire o abbandonare »
(Sul cittadino, II, 3; trad. Bobbio). Bisogna però che tutti gli uo­
mini abbandonino questi diritti, altrimenti non ne viene sicurezza
e pace per colui che li ha abbandon�ti. Quando un uomo ha ab­
bandonato o ceduto un diritto, è obbligato a lasciare che colui al
quale lo ha ceduto ne tragga vantaggio. Questa obbligazione non è
per Hobbes niente altro che la coerenza della volontà che ha ce­
duto il diritto (Leviatano, I, cap. 14 ). Da questa coerenza della
volontà deriva quella che Hobbes indica come seconda legge di
natura: pacta sunt servanda 12• Seguono altre leggi di natura: si de­
ve essere grati a chi ci ha fatto un beneficio, altrimenti nessuno
sarà indotto a far benefici, e si avrà sempre uno stato di lotta. Altre
riguardano la compiacenza, la propensione al perdono, il non fare
ingiuria ecc. (Sul cittadino, cap. III; Leviatano, I, cap. 15). Tutte
queste sono dette leggi di natura perché sono conseguenze della
prima e fondamentale legge: la necessità della propria conservazione.
Ma queste, osserva Hobbes, sono piuttosto teoremi che leggi;
perché si possa parlare di legge in senso proprio, bisogna che ci sia
uno che comanda. E poiché queste cosi dette leggi di natura non
vengono osservate « senza il terrore di un qualche potere che le
faccia osservare », poiché sono contrarie alle nostre passioni, gli
uomini costituiscono questo potere fondando lo Stato, che non è
una società naturale come quelle delle api o delle formiche, ma è
un prodotto volontario.
Lo Stato nasce quando tutti gli uomini conferiscono « tutto il

12 Nel Leviatano questa è indicata come 3' legge perché la prima è sdoppiata.
HOBBES 245

proprio potere e la propria forza ad un uomo o ad una assemblea


di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri... ad un volere solo;
che è quanto dire a deputare un uomo o un'assemblea di uomini a
rappresentare la loro persona, ed a riconoscersi, ognuno per parte
propria, autore di qualunque cosa colui che li rappresenta possa
fare ... in quelle cose che concernono la pace e la salvezza comune »
(Leviatano I, cap. 17). Così la moltitudine unita diventa Stato.
« Volendo dunque dare una definizione dello Stato, dobbiamo di­
re che esso è un'unica persona, la cui volontà, in virtù dei patti
contratti reciprocamente da molti individui, si deve ritenere la
volontà di tutti questi individui; onde può servirsi delle forze e
degli averi dei singoli per la comune difesa » (Sul cittadino, cap.
V, 9).
Si badi che il patto che dà origine allo Stato è un patto fra i
singoli, non fra i singoli e il sovrano. Ognuno dice: cedo i miei di­
ritti se li cedi anche tu; non dice al sovrano: ti cedo i miei diritti
in cambio di questo o di quest'altro. Questo spiega perché il so­
vrano non abbia doveri - spiega l'assolutismo.
E se un individuo non acconsentisse al patto? Non per questo
gli altri debbono rinunciare a farlo. Colui che resta fuori ( che non
si assoggetta alla volontà del sovrano) sarà considerato nemico
(Sul cittadino, VI, p. 2).
Lo Stato sorge per il bisogno di sicurezza, e per mantenere la
sicurezza bisogna punire chi fa qualcosa contro di essa; dunque lo
Stato ha il potere di infliggere pene, e pene tali che distolgano i
singoli dal compiere azioni contro la sicurezza degli altri. Ma chi
ha il potere di punire ha tutti i poteri. « Infatti chi ha il diritto di
infliggere le pene a sua piena discrezione, ha anche quello di co­
stringere tutti a fare qualsiasi cosa egli voglia; ed è questo il po­
tere maggiore che si possa mai concepire » (Sul cittadino, VI, 6 ).
È il sovrano quello che stabilisce se ci debba o non ci debba es­
sere proprietà privata: non esiste diritto di proprietà di fronte
allo Stato. Il potere dello Stato è regolato dallo Stato stesso. Si è
detto infatti che non c'è giustizia fuori dello Stato. Dannosa sa­
rebbe quindi la divisione del potere di giudicare da quello ese­
cutivo. E non solo lo Stato giudica se un'azione è conforme alla
legge, ma lo Stato stabilisce quello che è giusto o ingiusto; stabili­
sce quali siano le dottrine vere sul giusto e sull'ingiusto; stabilisce
insomma anche le leggi religiose e morali. Dipende dalla volontà
246 FILOSOFIA MODERNA

del sovrano lo stabilire che cosa sia furto, omicidio, adulterio ecc.
Hobbes, è vero, aveva parlato di « leggi di natura che proibiscono
il furto, l'omicidio, l'adulterio » ecc., ma spetta allo Stato stabilire
che cosa sia furto, omicidio, adulterio etc. (Sul cittadino, VII >
p. 16).
L'unica legge naturale che Hobbes davvero riconosca è la ten­
denza alla propria conservazione; questa infatti è l'unico limite che
Hobbes riconosca al potere dello Stato. Il sovrano non può co­
mandare ad un cittadino di uccidersi, perché il singolo fa parte del­
lo Stato per vivere.
Ma da questo spiraglio potrebbero rientrare molti dei diritti
naturali che Hobbes ha negati. « Se nessuno è tenuto ad accettare
di essere ucciso, dice H., tanto meno è tenuto a quello che gli sa­
rebbe più gravoso della morte » (Sul cittadino, VI, 13 ). Quindi
nessuno può essere obbligato ad uccidere il proprio padre. « Vi so­
no ancora molti altri casi in cui certi comandi possono essere ri­
pugnanti ad eseguirsi per alcuni e non per altri, e allora, legitti­
mamente, questi possono prestare obbedienza e quelli no: e ciò
senza ledere il diritto assoluto concesso al sovrano ».
All'obiezione che se un uomo ha un potere assoluto, egli potrà
fare ogni danno possibile ai cittadini, Hobbes risponde: 1) potrà,
ma non è detto che lo voglia, perché se lo volesse farebbe torto alla
giustizia e a Dio 13; 2) se lo facesse non ne avrebbe vantaggio; 3)
gli stessi pericoli ci sarebbero anche se il potere del sovrano fosse
limitato. « Chi ha forze bastanti per proteggere tutti, ne ha anche
a sufficienza per opprimere tutti » (Sul cittadino, traduz. Bobbio,
1a ed., p. 171). Cioè: il pericolo non viene dallo Stato in quanto
assoluto, ma dallo Stato in quanto tale. Se gli uomini fossero di­
versi da quello che sono, e potessero fare a meno dello Stato,
questi rischi non ci sarebbero. In compenso, nello Stato con so­
vrano assoluto, non ci sono i guai che ci sono negli Stati con limi­
tazione di poteri, e cioè i disordini e le sedizioni.

Abbiamo rilevato in Hobbes una teoria della conoscenza empiri­


stica ( tutta la conoscenza deriva dalla sensazione, non è propriamen-

13 Qui, osserva il Bobbio (Sul cittadino p. 171) il termine giustizia è preso in un


senso diverso da quello definito da Hobbes. E aggiungerei: è preso in un senso che per
H. non ha senso, non c'è.
HOBBES 247

te che sensazione) e nominalistica (i concetti universali sono puri no­


mi: nomi di nomi): le verità prime, gli assiomi, sono convenzioni,
sono « nate dall'arbitrio di coloro che per primi imposero i nomi
alle cose». Da queste prime verità, calcolando, cioè sommando e
sottraendo segni, è possibile dedurre altre proposizioni, e per Hob­
bes l'ideale del sapere è quello di una scienza deduttiva e unita­
ria. Ma questa concezione del sapere è compatibile col valore che
Hobbes riconosce - e con entusiasmo - alla :fisica galileiana e
alla sua filosofia prima?
È questo il problema che si pone A. Pacchi nel suo libro Con­
venzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Tho­
1
mas Hobbes 4, e l'Autore lo risolve rilevando, attraverso una ana­
lisi non solo delle opere edite, ma anche dei manoscritti inediti,
una progressiva attenuazione della originaria tesi convenzionalisti­
ca. Hobbes deve rinunciare all'ideale di un unico sapere deduttivo
e ammettere, accanto ad esso, un sapere che arriva a proposizioni
universali partendo dall'esperienza: cosl procede la :fisica. Le pro­
posizioni universali (le leggi) della fisica hanno però solo carattere
ipotetico, sono probabili e non assolutamente certe. E il Pacchi si
riferisce qui specialmente al cap. 25 del De corpore. Ma nel De
homine « permanendo ipotetico l'impianto della fisica, la politica
e la morale ridiventano deducibili a priori, come la geometria, ma
partendo da principi ad esse interni; in piena autonomia, quindi,
15
e non più dai princip1 primi generali » •
Si potrebbe anche osservare che, come per Hobbes la fisica
è una mathematica mixta, cioè una applicazione della matematica
al dato delle sensazioni (De homine, 10, 5), cosi anche l'etica e la
politica sono un:1 applicazione di leggi fatte dagli uomini 16 al ma­
teriale dei sentimenti e delle passioni umane.
Resterebbe un problema - da porre però in sede critica e non
esegetica -: per quel che riguarda la fisica, come possono assio­
mi che sono pure convenzioni, accostamenti arbitrari di nomi, ap­
plicarsi a un insieme di dati che non dipendono dal nostro arbitrio,
e riuscire effettivamente a dominare (cioè a permetterci di preve-

" Firenze, La Nuova Italia, 1965.


15 Convenzione e ipotesi, cit., p. 217.
16 E quindi pienamente dominabile dalla m�nte umana, in base al principio del
verum-factum.
248 FILOSOFIA MODERNA

dere) questi dati? E, per quel che riguarda l'etica e la politica, rie­
sce Hobbes ad esser coerente col suo convenzionalismo etico? A chi
scrive sembra ci siano alcuni strappi nel sistema. Se il mondo
umano deve essere solo descritto (per poi esser sottoposto alla
legge positiva), donde vien fuori la tesi dell'uguglianza di tutti gli
uomini? L'uguaglianza degli uomini è un dover essere, fondato
sulla natura razionale dell'uomo; non è un dato della sua natura
animale. Sul piano animale non è vero che gli uomini siano uguali
e abbiano i medesimi « diritti »: c'è chi è nato leone e chi è nato
pecora. Perché non dichiarare « giusto » il diritto del più forte,
come fanno Callicle e, in tempi più vicini a noi, Nietzsche, anzi­
ché l'obbedienza a una legge uguale per tutti, come fa Hobbes?
Inoltre, come si giustificano quei limiti all'obbedienza (il sovrano
non può obbligare a suicidarsi e a tutto ciò che sarebbe più gravoso
della morte)?
Sono strappi alla coerenza del sistema, ma forse ammissioni di
una verità che si fa strada attraverso queste brecce.
CAPITOLO DECIMO

I PLATONICI DI CAMBRIDGE
E NEWTON

1. I platonici di Cambridge

La :filosofia di Hobbes incontrò una forte opposizione da parte


dei platonici di Cambridge. Si indica con questo termine un grup­
po di pensatori, uniti fra loro da legami personali di amicizia e
da convinzioni comuni, che cerca, e trova, nel platonismo una :filo­
sofia adatta a dare l'intelligenza della fede cristiana. È infatti
comune a questi pensatori una viva fede religiosa e una piena fidu­
cia nella ragione. I più noti e notevoli sono Benjamin Whichcote
( 1609-1683 ), John Smith ( 1618-1652), Henry More ( 1614-1687)

* Le opere dei platonici di Cambridge, specralmente di More e di Cudworth, sono


nwnerose e ponderose, il che rende particolarmente utili le antologie. Ci siamo ser­
viti di quelle curate rispettivamente da G. R. CRAGG, The Cambridge Platonists,
Oxford University Press, 1968, e da C. A. PATRIDES, The Cambridge Platonists, Lon­
don, Edward Arnold, 1969, entrambe con buone introduzioni e bibliografia (più am­
pia nella seconda). Citeremo i passi desunti da esse con l'indicazione CRAGG o PATRIDES.
Sui platonici di Cambridge ci limitiamo a indicare : J. TULLOCH, Rational Theology
and Christian Philosophy in England in the 17th Century, 2• ed. London 1874, ripro­
duzione fotostatica Hildesheim, Olms, 1966 (il secondo volume è tutto dedicato ai
platonici di Cambridge); J. H. MUIRHEAD, The Platonic Tradition in Anglo-Saxon
Philosophy, London, 1931; E. CASSIRER, Die platonische Renaissance in England und
Jie Schule von Cambridge, 1932 (trad. it. La rinascenza platonica in Inghilterra e la
scuola di Cambridge, Firenze, La Nuova Italia, 1947).
Di Newton le opere principali sono i Philosophiae naturalis Principia mathematica
(1687) e l'Opticks (1704). Dei Principia c'è una traduzione italiana a cura di A. Pala
(Principi matematici della filosofia naturale, Torino, U.T.E.T., 1965). Su Newton mi
limito a citare: PAOLO CASINI L'universo-macchina. Origini della filosofia newtoniana,
Bari, Laterza, 1969 (con ampia bibliografia) e A. PALA, Isaac Newton, Torino, Einau­
di, 1969.
250 FILOSOFIA MODERNA

e Ralph Cudworth (1617-1688). Formati (salvo More) nell'Em­


manuel College di Cambridge, che era un centro di puritanesimo,
cioè di adesione al calvinismo, del puritanesimo conservano le mi­
gliori qualità morali, ma non la teologia, perché affermano il va­
lore della ragione, la tolleranza religiosa, la libertà umana, contro
il « fatalismo divino arbitrario» (cioè la dottrina della predesti­
nazione) di Calvino. Nell'affermare la tolleranza religiosa sono
d'accordo con gli arminiani 1 dei quali sentirono l'influsso. Aperti
alla conoscenza della nuova scienza, ne combattono i presupposti
meccanicistici in nome di una filosotìa della natura ispirata al Ti­
meo di Platone. Come i platonici italiani del Rinascimento, non
distinguono platonismo da neoplatonismo.
Gli scritti di WHICHCOTE furono tutti pubblicati postumi: so­
no prediche e discorsi, aforismi morali e religiosi e lettere al suo
maestro Antony Tuckney. Queste ultime sono significative del suo
atteggiamento: esprimono un profondo senso religioso, ma riven­
dicano anche il valore della ragione. Al maestro, infatti, che gli
rimproverava di fare troppa filosofia nelle sue prediche, Whichcote
risponde: « Non ho motivo di rimpiangere il tempo che ho speso
a leggere i filosofi e non rinnego l'uso che ne ho fatto. Ringrazio di
cuore Dio per quello che ho trovato in essi, né per questo ho me­
no amato la Scrittura» (Cragg, p. 44). Nella terza lettera si
trova la famosa frase: « Non oppongo il razionale allo spiritua­
le 2, perché lo spirituale è ciò che vi è di più razionale. Ma contrad­
distinguo il razionale dal fantasioso, da ciò che è inetto, affetta­
to, retorico...» (Cragg, p. 46). La ragione non è contro la
religione, anzi la promuove, « poiché la mente e l'intelletto del­
l'uomo è la facoltà che lo rende capace di Dio, capace di cono­
scerlo e di riceverlo. Chi accetta la religione senza cercarne la
ragione non la riceve come essere intelligente, ma come un ca­
tino riceve l'acqua: è solo continens, non recipiens la verità re­
ligiosa (Cragg, p. 65). « Un uomo ha tanto diritto di usare
la sua intelligenza per giudicare la verità quanto di usare i suoi
occhi per vedere la strada» (Aforismi, in Cragg, p. 423).

1 I seguaci del teologo olandese Harmensen (Arminius) che combatté il calvi­


nismo. Per il loro influsso sul protestantesimo inglese si veda il primo volume del­
l'opera di J. TuLLOCH, citata.
2
Nel senso di religioso.
1 PLATONICI DI CAMBRIDGE 251

Whichcote sembra addirittura identificare ragione e fede religiosa


quando dice che per l'uomo religioso la ragione è la ragione e la
ragione è religione (Cragg, p. 67). Certo la religione non si risol­
ve nell'esercizio della ragione, ma esige l'esercizio della virtù; non
d può essere tuttavia virtù senza ragione, poiché la virtù non è
che l'applicazione, nella condotta, di quella verità che l'uomo
riconosce come fo « ragione delle cose ». Si capisce che, con que•
sto concetto della funzione della ragione nella religione, Which­
cote desse valore alle dimostrazioni dell'esistenza di Dio che par­
tono dalla considerazione del mondo, fondandosi su quel passo
della Lettera ai Romani di S. Paolo (I, 20) che dice: « Gli attributi
invisibili di Dio, dalla creazione sono ora conosciuti (sono chia­
ramente veduti con la luce della ragione e dell'intelletto, tradu­
ce W.) mediante le creature», e commenta queste parole di S. Pao­
lo con un 8rgomento di Cicerone nel De natura deorum. Di Cice­
rone egli dice che è miglior teologo di alcuni che pretendono di es­
sere cristiani e rinnegano la ragione (Patrides, p. 55). Whichco­
te è essenzialmente un pensatore religioso, e il suo platonismo si
rivela sopra tutto nella concezione dell'intelletto come facoltà del
divino, facoltà che ci permette di cogliere le realtà spirituali,
specificamente distinta e in certo senso contrastante coi sensi
che ci immergono invece nelle realtà corporee.
Il platonismo è più accentuato in Jmm SMITH che afferma:
-<< L'anima ha i suoi sensi come il corpo ha i suoi » e riempie di ci­
tazioni di Plotino il suo Discorso sulla vera via o metodo per arri­
vare alla conoscenza divina. J. Smith richiama il mito platonico
della caverna per sottolineare l'opposizione fra i sensi e l'intellet­
to e associa il senso, come parte inferiore dell'uomo, al peccato. La
-conoscenza di Dio ha i suoi « principi che sono come radici della
nostra conoscenza e sono immersi cosl profondamente nell'anima
-dell'uomo che la loro impressione non può facilmente essere obli­
terata, anche se può essere molto oscurata» (Cragg, p. 85). Ci
sono quindi principi innati, che non sono puramente teoretici, ma
anche ispiratori di buone azioni, di una scienza divina che è insieme
vita divina.
Questa affermazione è ampiamente sviluppata da HENRY Mo­
RE nel suo Antidoto contro l'ateismo. Per dimostrare infatti che
l'idea di Dio come essere perfettissimo è innata nel nostro spirito,
More afferma che ci sono molte idee innate. Per persuaderci che il
252 FILOSOFIA MODERNA

nostro spmto non è una tabula rasa, More richiama l'attenzione


sulle verità geometriche e sulle nozioni sulle quali sono fondate.
L'esperienza sensibile può richiamare alla mente queste idee, come
l'accenno ad un motivo musicale può richiamare alla mente del mu­
sicista tutto il canto, ma non può darci le nozioni geometriche, per­
ché nessuna cosa sensibile incarna perfettamente in sé tali nozio­
ni: non ci sono cerchi o triangoli perfetti nel mondo materiale.
Anche le nozioni di relazione, come somiglianza, eguaglianza ecc.
e le nozioni logiche non hanno riscontro nell'esperienza sensibi­
le, sono quindi innate. Innate sono pure le verità che su queste no­
zioni si fondano. Fra le idee innate c'è in primo luogo l'idea di
Dio: « È manifesto che, se consultiamo il nostro lume naturale
per ciò che riguarda la nozione di un Ente assolutamente perfetto,
questo oracolo ci dice che è una sostanza spirituale, eterna, infinita
nell'essere e nella bontà, onnipotente, onnisciente e da sé neces­
sariamente esistente» (in Patrides, p. 227). E poiché l'avver­
sario potrebbe obiettare che non abbiamo la nozione di spirito,
dato che l'esperienza ci fa conoscere solo corpi, More, cartesiana­
mente, risponde che la nozione di spirito è molto più chiara di
quella di corpo, poiché la nozione di corpo implica quella di esten­
sione, e la nozione di estensione dà luogo all'antinomia del con­
tinuo: è l'esteso costituito di parti semplici o è infinitamente di­
visibile? Ammesso che abbiamo in noi innata l'idea di Dio, poi­
ché tale idea implica l'esistenza necessaria, si è anche dimostrata
l'esistenza di Dio. Anche qui More segue Cartesio, e lo segue pure
quando dimostra l'esistenza di Dio dalla presenza della idea di Dio
nel nostro spirito. La differenza, rispetto a Cartesio, è un minor
rigore logico e, invece, un accompagnamento di paragoni, un ricor­
so ad immagini ( come quella dei seimila milioni di mostri, che
non potrebbero mai uguagliare l'onnipotenza divina, in Patrides,
pp. 229-30) per rendere più intuitive le argomentazioni. Del resto
More ha premesso che le sue dimostrazioni non sono tali da « for­
zarci ad ammettere che le cose non possano stare altrimenti. Ma
sono tali da meritare il pieno assenso ... di ogni uomo libero da
pregiudizi» (ibid, p. 214 ). More indugia poi lungamente sulle
prove dell'esistenza di Dio dalla finalità della natura, e qui si
allontana decisamente da Cartesio: una materia sottoposta solo
alle leggi del moto, a leggi meccaniche, non potrebbe dar luogo
ad un universo ordinato come quello che vediamo. In modo spe-
I PLATONICI DI CAMBRIDGE 253

ciale poi il mondo della vita, la bellezza delle piante, la loro uti­
lità per l'uomo, le leggi della loro riproduzione, enumerate da
More con sovrabbondanza e con una certa ingenuità, attestano che
una ragione, un piano ha presieduto alla loro struttura. Altrettanto
si dica per il mondo animale. Il primo libro dell'Antidoto contro
l'ateismo termina con queste parole: « Poiché tutta la creazione
in generale ed ogni parte di essa è così ordinata come se la più
eccellente Ragione e Conoscenza l'avesse progettata, è naturale
concludere che tutto ciò è opera di un Dio sapiente, cosi come
quando si scavano dalla terra urne e monete che portano iscrizioni
si riconosce a prima vista che esse non sono prodotti di una na­
tura cieca, ma opera dell'uomo... » (in Patrides, p. 285). More
arriva poi a credere anche ai fatti prodigiosi di stregoneria come
testimonianze dell'esistenza di Dio.
Altra verità fondamentale è l'immortalità dell'anima, alla qua­
le More dedicò una intera opera cercando di dimostrarla con una
serie di assiomi che mirano a sottolineare la differenza dell'ani­
ma, penetrabile e indivisibile, dal corpo. Lo spiritualismo di Mo­
re si oppone tuttavia al dualismo cartesiano: anche lo spirito,
come ogni sostanza, è esteso e per questo può penetrare ogni real­
tà. Lo spazio è infinito ed è organo della presenza di Dio nello
universo. Questa dottrina, svolta specialmente nell'Enchiridion
Metaphysicum, influi sulla concezione newtoniana dello spazio.
Il finalismo della natura non si spiega per i platonici di Cam­
bridge con un intervento divino dall'esterno: c'è nella natura
stessa una forza vitale, una « natura plastica », che, appunto, pla­
sma i corpi che costituiscono l'universo.
A tale « natura plastica » RALPH CuowORTH, il più sistema­
tico di questi autori, dedica una parte 3 della sua vasta opera Il
vero sistemi: intellettuale dell'universo (1678). La natura plastica
è « uno strumento inferiore e subordinato » della Provvidenza di­
vina, una forza spirituale, ma inconsapevole, che pervade la natura.
Con questo concetto Cudworth si oppone non solo al meccanicismo
assoluto, per dir cosi, cioè alla concezione che nega ogni finalità e
vede nell'universo il risultato del caso, ma anche al meccanicismo
cartesiano che vede, sì, Dio all'origine del moto locale, ma con-

' È riportata da PATRIDES, pp. 288-325.


254 FILOSOFIA MODERNA

sidera il divenire del mondo come il risultato delle leggi del moto
applicato ad una materia amorfa, ridotta a pura estensione. Afferma
invece che la sua concezione riprende quella platonica dell'anima del
mondo, la teoria di Aristotele che afferma la presenza di una forma
in ogni corpo e di un'anima vegetativa nei viventi e di un'anima sen­
sitiva negli animali, la teoria stoica delle rationes seminales, accettata
anche da Plotino.
Se tutta la natura è in certo modo viva e attiva, a maggior ra­
gione questi caratteri si ritrovano nell'uomo e nella conoscenza,
Contro Hobbes, Cudworth afferma che la sensazione non è un passi­
vo ricevere delle impressioni dai corpi, ma è già una attività del­
l'anima, la quale però non si limita a sentire. Oltre le sensazioni
la mente « ha le idee delle nature intelligibili e delle essenze
universali delle cose, idee con le quali essa conosce i singolari.
È una opinione ridicola di uno scrittore ateo moderno [Hobbes]
che gli universali non siano altro che nomi attribuiti a molti corpi
singolari, dato che tutto ciò che esiste è singolare » (in Cragg, p.
196). Cudworth riconosce che tutto ciò che esiste è singolare,
ma questo non impedisce che nozioni universali siano oggetti della
nostra mente benché non esistano fuori della mente stessa. Alcune
nozioni universali, come quelle degli enti geometrici, presentano
oggetti che non esistono né possono esistere sensibilmente (non
esistono perfette figure geometriche in natura) e su queste nozio­
ni si fondano « verità assiomatiche ». Di qui Cudworth ricava un
argomento per dimostrare l'esistenza di Dio. Se infatti nozioni e
verità universali, valide per tutti i tempi e tutti i luoghi, non
esistono in rerum natura, eppure hanno un valore oggettivo, es­
se debbono esistere in una mente eterna ed infinita, della quale le no­
stre menti imperfette sono una certa partecipazione (in Cragg,
p. 198). È questo l'argomento ex veritatibus aeternis, caro a S. Ago­
stino, ma S. Agostino non è citato. Ma per i platonici di Cam­
bridge S. Agostino è sopra tutto l'assertore della predestinazione,
il S. Agostino interpretato da Calvino, quindi si capisce la loro
poca simpatia, che a prima vista può sorprendere, per questo tipico
esemplare di neoplatonismo cristiano. Cudworth prende poi in esa­
me le obiezioni correnti al suo tempo contro l'esistenza di Dio;
la più forte è certo quella che si basa sull'esistenza del male. Nel­
le lunghe considerazioni di Cudworth il pensiero dominante è che
i limiti del1a nostra conoscenza, sia i limiti di tempo sia quelli di pe-
I PLATONICI DI CAMBRIDGE 255

netrazione, non ci permettono di vedere il senso e la funzione del


male nel mondo; sl che quando lo giudichiamo incompatibile con la
provvidenza divina, pretendiamo di giudicare il tutto da una picco­
lissima parte a noi nota.
Fra le verità eterne, immediatamente note all'intelligenza umana,
stanno i principì della morale. Nel Trattato sull'eterna e immu­
tabile moralità, pubblicato postumo nel 1731, Cudworth afferma
che il bene e il male morale, il giusto e l'ingiusto, dipendono dal­
le essenze delle cose, non da un decreto arbitrario di Dio, come af­
fermava Calvino, e anche Cartesio; né dalla volontà del principe, co­
me affermava Hobbes. Ci sono azioni obbligatorie e azioni proibite
per la loro intrinseca natura, e ci sono azioni che diventano obbli­
gatorie o proibite solo in seguito ad un comando, a una legge po­
sitiva, divina o umana; ma la stessa obbedienza alla legge positiva
non potrebbe essere giustificata se non fosse per sua natura un be­
ne obbedire alla legittima autorità. Anche More, nello Enchiri­
dion ethicum, afferma che le norme morali ci sono immediatamen­
te note e sono in noi un riflesso della « ragione o legge eterna
che è nella mente divina »; sottolinea tuttavia la connessione fra be­
ne morale e felicità. Condizione del significato e del valore della
legge morale è, sia per More come per Cudworth, in aperta pole­
mica con Hobbes, la libertà del volere; non avrebbe senso infatti
parlare di un assoluto dovere a chi non ha il potere di seguirlo.
Il riconoscimento del valore della ragione, della libertà uma­
na, della dignità delPuomo porta i platonici di Cambrigde ad es­
sere assertori della libertà religiosa in un'epoca di intolleranza e di
guerre di religione. Il loro riconoscimento della libertà e della tol­
leranza è limitato all'ambito del cristianesimo, anzi del cristia­
nesimo riformato: vuol dire rispetto per gli aderenti a qualunque
corrente del protestantesimo, ma per quei tempi e quel clima è già
molto. È significativa in proposito una famosa predica tenuta da
Cudworth al Parlamento il 31 marzo del 1647, nella quale egli in­
siste nel dire che il cristianesimo non consiste in questa o quella
dottrina teologica, nell'elaborare questa o quella confessione di fe­
de (tante se ne elaboravano allora), ma nel vivere secondo Cristo,
nell'osservare i comandamenti. L'insistenza su quello che è comune
alle varie confessioni cristiane, sul dovere di testimoniare il cri­
stianesimo nella vita piuttosto che nelle dotte disquisizioni, sulla
corrispondenza del cristianesimo alle esigenze della ragione umana,
256 FILOSOFIA MODERNA

sulla sua ragionevolezza, come dirà Locke, rendeva i platonici di


Cambridge profondamente avversi a quello che essi chiamavano l'en­
tusiasmo, ossia il fanatismo religioso, tanto nemico della vera re­
ligione quanto l'ateismo.
« La ragionevolezza dei platonici diventò il razionalismo della
generazione futura», come osserva Cragg (Introduzione all'op. cit.,
p. 29), ma di questo sarà detto nel capitolo sull'illuminismo in­
glese.

2. Newton

A Cambridge si formò e insegnò lsAAC NEWTON (1642-1727)


che condivide coi platonici di Cambridge la persuasione della razio­
nalità della natura, e, come loro, la spiega affermando che essa è ope­
ra di un creatore intelligente. Nello Scolio generale, aggiunto alla se­
conda edizione dei Princip'ì, egli scrive: « Questa elegantissima com­
pagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere senza il
disegno e la potenza di un ente intelligente e potente. E se le stelle
:fisse sono centri di analoghi sistemi, tutti questi, essendo costruiti
su un identico disegno, saranno soggetti alla potenza dell'Uno ...
Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come si­
gnore dell'universo. E a causa del suo dominio suole essere chiamato
Signore Dio... » (Princip'ì, trad. Pala, p. 793 ). Si vede già in questo
passo ciò che Newton ha comune coi platonici di Cambridge e che
cosa lo divide da loro. Ha comune una visione religiosa che, anche
per lui, prescinde dalle differenze fra le varie confessioni cristiane
e ruota su due punti fondamentali: creazione e provvidenza di­
vina e immortalità dell'anima; ma lo divide da loro il modo di
spiegare la razionalità dell'universo: non mediante un principio
finalizzatore immanente (un'anima del mondo), ma mediante leggi
meccaniche impresse da Dio alla materia. Newton fu spesso l'ispi­
ratore dei predicatori che tenevano le « Boyle Lectures», e spe­
cialmente del primo di loro, Richard Bentley 4• Ci restano quattro

'Le « Boyle Lectures » erano conferenze che si tenevano nella cattedrale di S. Paolo
a Londra per volontà di Robert Boyle il quale, nel suo testamento, aveva disposto un
lascito per compensare un dotto teologo che tenesse otto sermoni l'anno « per dimo­
strare la religione cristiana contro atei, teisti (sic), pagani, ebrei e maomettani, ma
senza abbassarsi alle controversie fra cristiani» (dt. da P. CASINI, L'universo-macchina,
cit., p. 58).
I PLATONICI DI CAMBRIDGE 257

lettere di Newton a Bentley, scritte tra la fine del 1692 e l'inizio


del 169 3, nelle quali egli risponde a problemi che il suo corrispon­
dente gli poneva per utilizzare la fisica newtoniana a scopo apolo­
getico. Comincia così quella fisico-teologia 5, che fu poi criticata
da Kant. Troviamo, per esempio, in una lettera di Newton una fra­
se come questa: « ... la gravità potrebbe mettere in moto i pia­
neti, ma senza il potere divino non avrebbe mai potuto imprimere
loro il moto circolare intorno al Sole, e per questo, come per altri
motivi, sono costretto ad attribuire la struttura del sistema ad un
agente intelligente» (cit. da P. CASINI, op. cit., p. 77).
Ma il progresso nell'applicazione della matematica alla cono­
scenza del mondo fisico (progresso indicato nel titolo stesso del­
l'opera di Newton) lo porta a concepire la struttura del mondo
come una macchina regolata da leggi esprimibili meccanicamente
- una macchina nella quale non c'è posto per un imprevisto por­
tato da anime o forze vitali -. Di qui il rifiuto del vitalismo neo­
platonico e la spiegazione meccanica del mondo, cioè la spiegazione
mediante materia e moto locale soltanto. Ho parlato di progresso
nell'applicazione della matematica alla conoscenza del mondo fi­
sico, poiché riusci a Newton, dopo molte fatiche (dovute anche alle
misurazioni inesatte che gli vennero fornite della distanza della
Luna dalla Terra), di applicare anche ai moti dei pianeti la legge
del moto dei gravi, scoperta da Galileo 6, e di concludere che la for­
za che trattiene la Luna nella sua orbita è la stessa che attrae i
corpi sulla Terra. Inoltre egli applicò la matematica non solo alla
meccanica, ma anche ad altre parti della fisica, in particolare al­
l'ottica. Con la scoperta del calcolo infinitesimale (delle « flussio­
ni») Newton aveva a sua disposizione uno strumento mate­
matico più raffinato. Il suo metodo è quello di Galileo; la famosa
frase hypotheses non fingo, non vuol dire che egli non facesse
ipotesi, esprimibili matematicamente, ma che si proponeva di non
fare ipotesi che non potessero essere verificate nell'esperienza. An­
che la gravitazione universale è un'ipotesi, ma è suscettibile di ve-

' II termine è usato la prima volta da W. Derham. Cfr. P. CASINI, op. cit.,
p. 149 ss.
' Nello Scolio agli « Assiomi o leggi del movimento» dei Principi (trad. Pala,
p. 126) Newton dice: « Per mezzo delle prime due leggi [che esprimono il principio
di inerzia] Galileo trovò che la caduta dei gravi è proporzionale al quadrato del tem­
po, e che il moto dei proiettili avviene secondo una parabola... ».
258 FILOSOFIA MODERNA

rifìca sperimentale, mentre non è suscettibile di verifica, per esem­


pio, l'ipotesi cartesiana dei vortici.
Ho detto tuttavia che Newton si proponeva di non fare ipotesi
inverificabili, poiché in realtà egli ne fa almeno una, circa la na­
tura dello spazio e del tempo, che ebbe una risonanza notevole
nella storia della :filosofia. Spazio e tempo sono concetti stretta­
mente connessi con quello di moto, e il moto locale è l'oggetto
della meccanica; si capisce quindi che Newton sentisse il bisogno
di trattarne.
Newton dice: che cosa siano tempo, spazio, luogo, lo sanno
tutti, quindi non li definisco. Ma volgarmente, nell'esperienza quo­
tidiana, queste realtà si concepiscono solo relativamente a ciò che
è sensibile. Di qui nascono pregiudizi, per eliminare i quali biso­
gna distinguere tempo, spazio e moto assoluti e relativi, veri e ap­
parenti, matematici e volgari.
« Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura
senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente (aequa­
biliter), e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, ap­
parente e volgare, è una misura (esatta o inesatta) sensibile ed
esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene
usata al posto del vero tempo: tali sono l'ora, il giorno, il mese,
l'anno» (Principi, Def., Scolio, trad. Pala, pp. 101-102).
Dopo aver definito il tempo assoluto, Newton passa allo spazio.
« II - Lo spazio assoluto, per natura sua senza relazione ad al­
cunché di esterno, rimane sempre uguale e immobile; lo spazio re­
lativo è la misura di questo spazio o una dimensione del (corpo)
mobile, che i nostri sensi definiscono in base alla sua posizione (si­
tus) rispetto ai corpi, e che comunemente è assunta in luogo dello
spazio assoluto; come la dimensione di uno spazio sotterraneo,
aereo o celeste definita mediante la sua posizione rispetto alla Ter­
ra» (trad. Pala, pp.· 102-103 - Ho modificato un po' la tradu­
zione).
« III - Il luogo è la parte dello spazio occupata dal corpo, e a
seconda dello spazio [ rispetto al quale si considera] può essere
assoluto o relativo [ ... ] ».
« IV - Il moto assoluto è la traslazione di un corpo da un luo­
go assoluto in un altro luogo assoluto; il moto relativo è la tra­
slazione da un luogo relativo in un altro luogo relativo» (op. cit.,
p. 104). Newton fa l'esempio di un corpo che si trovi su una nave:
I PLATONICI DI CAMBRIDGE 259

il luogo relativo è la parte della nave in cui si trova il corpo, il


luogo assoluto è la parte dello spazio assoluto in cui si trova il
corpo. Così, il moto relativo è il moto di quel corpo nella nave,
rispetto alla nave; il moto assoluto è il suo moto rispetto allo spa­
zio assoluto. Se quindi la Terra si muove, il moto vero e assoluto
di quel corpo risulterà in parte dal moto vero della Terra nello
spazio immobile, in parte dal moto della nave sulla Terra, in parte
dal moto del corpo sulla nave.
Si vede dunque che Newton postula spazio assoluto e tempo
assoluto per assicurare la realtà, l'assolutezza del moto; ma si trat­
ta, vorrei dire, di una esigenza metafisica. non scientifica, poiché
egli stesso ammette che le nozioni di tempo e spazio assoluti non
entrano nelle proposizioni della meccanica: « Ma poiché queste
parti dello spazio [assoluto] non possono essere vedute e distinte
fra loro mediante i nostri sensi, in loro vece adoperiamo misure
sensibili. Definiamo, infatti, tutti i luoghi in base alle posizioni e
alle distanze delle cose rispetto a un qualche corpo che consideria­
mo (spectamus) come immobile... Così, invece dei luoghi e dei
moti assoluti, usiamo i relativi; e questo non reca inconvenienti
nelle cose umane; ma nella filosofia occorre astrarre dai sensi ... »
(op. cit., pp. 106-107).
Può darsi che, oltre la regione delle stelle fisse, ci sia un corpo
in quiete assoluta, come può darsi che non ci sia, e che nessun
corpo sia veramente in quiete, sicché non si può mai stabilire se
un corpo di cui abbiamo esperienza sia in vera quiete o no. E quel
che è detto della quiete si applica anche al moto, sicché da un punto
di vista cinematico non si può stabilire se un corpo sia veramente
in moto, o solo in moto apparente ( e siano invece i corpi intorno a
lui che si muovono); bisogna ricorrere ad un criterio dinamico:
vedere cioè su quale corpo agiscono le « forze impresse » che ge­
nerano il movimento (op. cit., pp. 108-109). Dunque lo spazio as­
soluto e il tempo assoluto non servono affatto a farmi riconoscere
il moto « vero »; cioè non hanno nessuna funzione nella scienza
di Newton, ma rispondono soltanto ad una sua concezione filoso­
fi.ca, concezione che suscitò le obiezioni di Leibniz, come vedremo,
e stimolò la ricerca di Kant.
CAPITOLO UNDICESIMO

]. LOCKE
( 1632-1704)

l. Cenni biografici

Come Hobbes, J. Locke visse nel periodo delle guerre civili in


Inghilterra, ma ne trasse conclusioni opposte a quelle di Hobbes,
per ciò che riguarda la filosofia politica. Anche per lui i problemi
etico-politici furono il primo oggetto del suo interesse, tanto che

* Opere complete: The Works, London, printed for J. Johnson etc., 1801 10,
10 vols. A cui vanno aggiunte le più recenti pubblicazioni di inediti, in genere con­
servati nella raccolta della Lovelace Collection della Bodleian Library: tra queste ri­
cordiamo An Early Draft of Locke's Essay. Together with Excerpts /rom bis fournals,
ed. by Aaron and Gibb, Oxford, University Press, 1936, e Essays on the Law of Nathure,
ed. by W. Von Leyden, Oxford, At the Oarendon Press, 1954.
Traduzioni italiane: Saggio sull'intelligenza umana, a cura di C. Pellizzi, Bari,
Laterza, 1951 (riedito in Univ. Laterza, con prefazione a cura di C. A. Viano nel
1972); Saggio sull'intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Torino, U.T.E.T.,
1971; Scritti editi ed inediti sulla tolleranza, a cura di C. A. Viano, Torino, Taylor,
1961; Due trattati sul governo civile, a cura di L. Pareyson, Torino, U.T.E.T., 1948.
Repertori bibliografici: H. O. CHRISTOPHERSEN, A Bibliographical Introduction
to the Study of f. L., Oslo 1930 (ried. anast. New York, Burt Franklin, 1968);
R. HAAL and R. WooLHousE, Forty Years of Works on f. Locke (1929-1969), in « Philoso­
phlcal Quartely » XX, n. 80 (July 1970), pp. 258-268; P. LONG, A Summary Catalogue
of Lovelace Collection of the Papers of J. L. in the Bodleian Library, Oxford, Biblio­
graphical Society Pubblications, University Press, 1959.
Biografie: P. KING, The Life of J. Locke, with Extracts from his Correspondence,
]ournals, and Common Piace Books, London, H. Colbum, 1829; M. CRANSTON, fohn
Locke: A Biography, London, Longmans, 1957.
Studi sulla filosofia di J. Locke: R. I. AARON, fohn Locke, Oxford, at Clarendon
Press, 1937 (1955', 1965 in Oxford Paperbacks); J. W. YoLT0N, ]ohn Locke and
the way of Ideas, Oxford, at the Clarendon Press, 1956; C. A. VIANO, fohn Locke:
dal Razionalismo all'Illuminismo, Torino, Einaudi, 1960; AA.VV., fohn Locke: Pro­
blems and Perspectives, Cambridge, at the University Press, 1969.
262 FILOSOFIA MODERNA

la monografia italiana più recente su Locke, quella di C. A. Viano,


comincia proprio dagli scritti politici che ci mostrano come Locke
sia partito da una concezione assolutistica dello Stato (pur sempre
diversa però da quella di Hobbes, perché fondata non sulla tesi
che il bene è ciò che piace, ma sulla tesi che bene è ciò che è co­
mandato da Dio) per arrivare poi, anche in base all'esperienza per­
sonale che egli aveva fatto dell'intolleranza, a una concezione di
liberalismo politico.
Nato a Wrigton nel 1632 (suo padre nella guerra del 1642
aveva combattuto contro il re, nelle forze del Parlamento) stu­
diò e poi insegnò a Oxford greco, retorica e filosofia morale, co­
me Master of Arts. Poi si dedicò allo studio della medicina. Col­
tivò pure con Boyle e Sydenham studi di fisica e di fisiologia e nel
1668 fu eletto membro della Royal Society di Londra. Degli anni
fra il 1660 e il 1667 sono i suoi primi scritti politici: Se il magi­
strato civile possa legalmente imporre e determinare l'esercizio
(Use) di materie indifferenti nell'attività religiosa e i Saggi sulla
legge di natura, del 1664 (pubblicati da W. von Leyden nel 1954).
Fu medico e segretario di Lord Ashley, Conte di Shaftesbury
(nonno del moralista di cui parleremo più avanti) e da una con­
versazione con amici in casa di costui, nel 1671, nacque in lui
l'idea di scrivere quello che sarà il Saggio sull'intelligenza umana
e che uscirà solo nel 1690. La conversazione verteva su questioni
morali e religiose, ma a Locke balenò « l'idea che noi battevamo
una falsa strada e che, prima di accingerci a una ricerca di tale sor­
ta, fosse necessario esaminare la nostra propria capacità, e vedere
quali oggetti erano appropriati alla nostra intelligenza e quali no »
(citato da Carlini, nella Prefazione al Saggio, p. VI) 1• Gli amici
concordarono quindi di studiare prima questo problema, e Locke
dice di aver messo in carta « alcuni pensieri frettolosi e mal digesti
su un argomento che non aveva mai prima preso in esame» (Sag­
gio, Epistola al lettore, p. 9) per mostrarli agli amici alla prossima
seduta. Si pensa che questi « pensieri » corrispondano al mano­
scritto datato 1671 e scoperto da R. J. Aaron e J. Gibb nel 1936,
il cui primo capoverso è identico con quello di un documento

1
Citiamo il Saggio nella traduzione di C. Pellizzi, ma per rendere agevole il ri­
scontro delle citazioni a chi avesse altre edizioni indichiamo il libro, col numero, ro­
mano, il capitolo, col primo numero arabo, e il paragrafo, col secondo numero arabo.
LOCKE 263

pubblicato dal King nella sua Vita di Locke (Londra 1830) che
porta come titolo Sic cogitavit de intellectu humano Johannes
Locke, an. 1671. Il manoscritto scoperto e pubblicato da Aaron
e Gibb va sotto il nome di Abbozzo A (Draft A) del Saggio, ed è
stato tradotto da V. Sainati in appendice al Saggio, nella traduzio­
ne del Pellizzi. Non sembra possibile tuttavia che Locke avesse
redatto uno scritto così lungo per leggerlo in un gruppo di amici;
perciò il Sainati pensa che solo il primo paragrafo dell'Abbozzo A
fosse il paper destinato ad essere discusso con gli amici: il resto do­
vé essere aggiunto un po' dopo. Ancora nel 1671 Locke rifece la
trattazione e scrisse l'Abbozzo B 2• Lavorò ancora a quest'opera per
vent'anni e nel 1690 pubblicò il Saggio sull'intelligenza umana.

2. Le idee

L'opera si divide in quattro libri: nel primo si nega l'esistenza


di principi innati, il secondo tratta delle idee, il terzo delle parole,
il quarto della conoscenza.
La critica lockiana all'affermazione che nella nostra mente sono
innati certi principi sia specuìativi che pratici si basa su due osser­
vazioni: 1) anche se ci fossero verità sulle quali tutti gli uomini
fossero d'accordo, « ciò non dimostrerebbe affatto che tali verità
siano innate, ove si potesse indicare un'altra via, mediante la quale
gli uomini abbiano potuto arrivare a questa uniformità di convin­
zioni» (Saggio, I, 1, 3); 2) ma non ci sono verità nelle quali tutti
gli uomini consentano. E Locke comincia da questo secondo punto,
osservando che i bambini, gli uomini rozzi non hanno nessuna idea
del principio di identità, per esempio, o di non contraddizione. Se
poi si pensa a certi principi morali - che dovrebbero essere inna­
ti - le cose vanno ancora peggio: molti popoli non riconoscono af­
fatto quelle che noi riteniamo supreme leggi morali e hanno costumi
per noi orribili. « Solo per gradi noi acquistiamo le idee e i loro ter­
mini e apprendiamo il loro reciproco legame appropriato. Dopo di
che, non appena intendiamo le proposizioni espresse dai termini
di cui abbiamo appreso il significato, e nelle quali si rivela la concor­
danza o divergenza che esiste fra le nostre idee quando vengono

2
Tradotto da A. Carlini, col titolo La conoscenza umana nella P. B. F. Laterza.
264 FILOSOFIA MODERNA

congiunte assieme, diamo il nostro assenso...» (Saggio, I, 1, 23 ).


Questo passo espone in poche parole il modo in cui Locke conce­
pisce il processo conoscitivo, modo che sarà svolto nei libri seguenti.
Le tesi fondamentali del secondo e del quarto libro sono già
contenute nell'Abbozzo A. Idea è «ciò che si trova nello spirito
quando pensa» (Saggio, II, 1, 1). E ancora: « Chiamo idea tutto
ciò che lo spirito percepisce in se stesso o che è l'immediato oggetto
della percezione, del pensiero, o dell'intelligenza» (Saggio, II, 8, 8).
L'idea è dunque oggetto del conoscere, oggetto immediato, dal qua­
le bisognerà poi « passare» alla cosa. Locke distingue infatti le
idee, che sono nella mente, dalle qualità che sono nei corpi e che
sono causa delle idee. Ma non tutte le qualità corrispondono alle
idee che ne abbiamo. Solo le qualità primarie, quelle inseparabili
dal corpo, come solidità, estensione, figura producono in noi idee
corrispondenti; le qualità secondarie, invece, sono « capacità (che
i corpi hanno) di produrre in noi diverse sensazioni per mezzo
delle loro qualità primarie, ossia per mezzo della grandezza, fi­
gura, struttura e movimento delle loro parti insensibili; e saranno
ad esempio sensazioni di colori, di suoni, di sapori ecc.» (Saggio,
II, 8, 10).
Anche Galileo e Cartesio affermavano la soggettività 3 dei co­
lori, suoni ecc., e giustificavano la distinzione fra determinazioni
oggettive e qualità soggettive con la distinzione fra intelligibile e
sensibile: ]'estensione e il moto locale sono intelligibili (perché
ad essi si può applicare la deduzione matematica), le qualità sono
soltanto sentite; ma in Locke non si vede bene il motivo della di­
stinzione, poiché per lui tutte le idee derivano dall'esperienza.
Sembra dunque che in Locke la distinzione sia accettata come
un'eredità, più che giustificata.
Tutte le idee derivano dall'esperienza, la quale è duplice:
esperienza esterna, o sensazione, ed esperienza interna, o rifl,es­
sione 4•

3
Anche se, come abbiamo osservato, Galileo e Cartesio concepiscano diversamente
tale soggettività. Per Galileo è una soggettività fisiologica (le qualità risiedono « nel
corpo sensitivo » ), per Cartesio una soggettività mentale (le qualità sono « pensieri »,
« sentimenti » ).
• Anche questa distinzione non sembra giustificata, in Locke: se infatti oggetto
immed'ato di conoscenza è solo, e sempre, l'idea che è nella mente, non si vede
bene in cosa la sensazione differisca dalla riflessione. E infatti Condillac ridurrà tutta
l'esperienza a sensazione.
LOCKE 265

Le « idee generali » hanno origme per astrazione. Non mol­


to preciso, tuttavia, è il concetto lockiano di astrazione. Talora
sembra che l'universalità (o generalità) delle idee sia il loro mo­
do di essere nella mente; talora invece sembra che l'astrazione
consista nel separare una idea particolare, o un gruppo di idee par­
ticolari, da altre (il colore di un oggetto dalla sua forma, per esem­
pio, oppure un gruppo di idee particolari di questo albero - co­
me tronco, fogliame ecc. - dalla misura e dal colore del tronco di
questo albero). Generale o universale sarebbe solo il nome (Sag­
gio, III, 3 ).
Le idee sono di vario tipo: possiamo riassumere la distinzione
lockiana delle idee nel seguente specchietto:
1
da un solo senso
l (qualità secondarie)

!
di sensazione
da diversi sensi
! • (qualità primarie)
semplici di riflessione
(idea di percezione, di volontà ecc.)

l
di sensazione e riflessione
(potenza, esistenza, unità)

1 degli oggetti di sensazione


idee (spazio, durata, numero)
semplici
degli oggetti di riflessione
modi (ragionare, giudicare, ecc.)
misti (azioni morali)
complesse corporee
sostanze spirituali
Dio
relazioni (identità, causalità, ecc.)

A una particolare critica è sottoposta l'idea di sostanza. L'ori­


gine di essa è spiegata cosi: « Poiché ... lo spirito è provvisto di un
gran numero di idee semplici... esso osserva altresl che un certo
numero di queste idee semplici vanno costantemente insieme; e
poiché si presume che esse appartengano ad una medesima cosa,
266 FILOSOFIA MODERNA

e le parole sono adattate alla nostra comune comprensione ... , quel­


le idee, così riunite in un solo soggetto, vengono chiamate con un
nome solo» (Saggio, II, 23, 1 ). Poi ci illudiamo che a questo no­
me corrisponda una sola idea semplice - mentre in realtà è il
nome di una collezione di idee - e chiamiamo sostanza questa
pseudo-idea, per dir così, immaginandola come il sostegno delle
qualità che percepiamo. L'idea di sostanza in generale è dunque
l'idea di un oscuro sostegno delle qualità; le idee delle particolari
specie di sostanze sono le idee di ciò che supponiamo stia sotto a
varie combinazioni di qualità. Così ci formiamo le idee di uomo,
cavallo, oro, acqua ecc. Ma di tali sostanze non abbiamo nessuna
idea chiara, se non quella di « certe idee semplici che coesistono».
Vano è quindi parlare di forme sostanziali (Saggio, II, 23, 3).
L'osservazione, fatta già da molti altri, che non conosciamo
l'essenza specifica delle cose, ma solo le « essenze nominali », porta
Locke a trarre certe conclusioni per ciò che riguarda la fisica come
scienza, nel quarto libro del Saggio dedicato alla « conoscenza ».

3. Il giudizio

Per « conoscenza» Locke intende il giudizio, e il giudizio è


una connessione fra idee. « Poiché lo spirito, in tutti i suoi pen­
sieri e ragionamenti, non ha altro immediato oggetto che non sia­
no le idee... è evidente che la nostra conoscenza si riferisce sol­
tanto a quelle» (Saggio, IV, 1, 1). « La conoscenza, dunque, altro
non mi sembra essere che la percezione del legame e concordanza,
o della discordanza e contrasto, tra le idee nostre, quali che siano.
Essa consiste soltanto in questo » (op. cit., IV, 1, 2).
Tale concordanza o discordanza può essere: 1) identità o di­
versità, 2) relazione, 3) coesistenza o connessione necessaria, 4) esi­
stenza reale.
La percezione del rapporto fra idee, poi, può essere immediata
o mediata; nel primo caso si ha una conoscenza intuitiva, nel se­
condo caso una conoscenza dimostrativa. Esempi della prima so­
no: « il bianco non è nero », « il cerchio non è un triangolo »;
esempi della seconda sono i teoremi della geometria. Sulla cono­
scenza dei rapporti fra idee si fondano la matematica e la morale.
« Questi due, dice Locke, ossia l'intuizione e la dimostrazione, so-
LOCKE 267

no i gradi della nostra conoscenza; tutto ciò che non raggiunge


l'uno o l'altro di questi gradi ... non è che fede o opinione, ma non
conoscenza, almeno nei riguardi di tutte le verità generali » (op.
cit., IV, 2, 14). C'è però un caso che turba un po' Locke: le affer­
mazioni sull'esistenza di esseri finiti fuori di noi. Questa non è una
conoscenza intuitiva, perché non si tratta di idee; non è dimostra­
tiva, perché va oltre l'idea. E tuttavia Locke non si sente di chia­
marla opinione, fede o conoscenza probabile: la chiama conoscen­
za sensoria e la fonda, in ultima analisi, sul buon senso. « Quan­
to alla quarta specie della nostra conoscenza, ossia dell'esistenza
reale e attuale delle cose, abbiamo una conoscenza intuitiva della
nostra propria esistenza, e una conoscenza dimostrativa dell'esisten­
za di un Dio; dell'esistenza di qualunque altra cosa non abbiamo
che una conoscenza sensoria, che non si estende oltre gli oggetti
presenti ai nostri sensi » (Saggio, IV, 3, 21).

4. La verità

Un altro tema nel quale si vede l'ondeggiamento del pensiero


di Locke è quello della verità. A un primo momento infatti Locke
ci dà una definizione quasi hobbesiana della verità: « Mi sembra
dunque che la verità, nel significato proprio della parola, altro non
voglia dire se non l'unione o separazione di segni, secondo che le
cose significate da essi concordino o discordino tra loro » (Sag­
gio, IV, 5, 2). L'unione o separazione di segni è la proposizione.
Ma c'è quel rimando alle « cose significate » che ci porta lontano
da una concezione convenzionalistica e crea delle difficoltà. Sem­
bra quasi che ci sia una duplice verità: quella che consiste nell'ac­
cordo fra le idee e quella che consiste nella corrispondenza con
le cose. E questa difficoltà si vede bene nel § 8 di questo capitolo,
dove Locke distingue la « verità verbale, nella quale i termini sono
congiunti secondo la concordanza o discordanza delle idee », dalla
« verità reale », nella quale le nostre idee, non solo si accordano fra
loro, ma « possono avere un'esistenza in natura ».
268 FILOSOFIA MODERNA

5. Le proposizioni generali

Le proposizioni « generali» (universali) sono quelle che met­


tono in rapporto idee generali, e il loro valore dipende dal valore
di queste idee: su idee rispondenti alla realtà si possono formu­
lare « verità reali», per usare il termine di Locke; su idee chime­
riche si potranno formulare solo proposizioni chimeriche.
Fra le proposizioni generali ce ne sono alcune che « sotto il
nome di massime e assiomi sono passate per essere principi della
scienza» (Saggio, IV, 7, 1) perché sono immediatamente eviden­
ti. Ma Locke osserva che l'immediata evidenza non è propria sol­
tanto degli assiomi (dei principi primi): anzi l'evidenza di questi
presuppone e si fonda sull'evidenza di proposizioni particolari.
È più evidente che il bianco è bianco e non è blu, che non il
principio di identità e di non-contraddizione (Saggio IV, 7, 4 ).
Il bambino « sa con certezza che la sua bottiglia del latte non è
la verga con cui è punito molto prima di sapere che "è impossi­
bile che la stessa cosa sia e non sia"» (ibid., n. 9). E, anche an­
dando oltre questo piano, che potrebbe esser detto puramente
istintivo, « È forse impossibile sapere che uno più due è uguale
a tre, se non in virtù dell'assioma... "il tutto è uguale a tutte le
sue parti prese insieme"? Molti sono coloro che sanno che uno
più due fa tre senza aver mai udito, né pensato, quello o un
qualunque altro assioma... » (ibid., n. 10). Dunque gli assiomi
non sono i principi o fondamenti della scienza. Anche perché
molte nuove verità si scoprono senza dedurle da quelle propo­
sizioni universalissime. « Mr. Newton, in quel suo libro che non
sarà mai abbastanza ammirato [i Philosophiae naturalis principia
mathematica, usciti due anni prima], ha dimostrato molte... ve­
rità nuove, sconosciute prima al mondo, e sono progressi ulterio­
ri nella conoscenza matematica: ma, a scoprir queste, non furo­
no certo le massime generali "ciò che è, è", oppure "il tutto è
maggiore della parte "» (ibid., n. 11 ). L'uso delle massime, os­
serva Locke, serve, al più, ad insegnare quello che si sa già, ma
non a scoprire nuove verità. Al più, ho detto, perché qualche vol­
ta è pericoloso e dà l'illusione di sapere quello che non si sa:
quando per esempio, si enunciano proposizioni sulle essenze delle
cose e si pretende di dedurne qualche conoscenza.
LOCKE 269

6. Le leggi fisiche

Questo problema delle essenze delle cose, che abbiamo sen­


tito fin da Galileo, affiora spesso nel quarto libro del Saggio. Non
conosciamo le essenze delle cose - dell'uomo, dell'oro o altro -
ripete Locke; e perciò quando formuliamo proposizioni su questi
pretesi concetti non possiamo esser sicuri della loro verità: « co­
me potremo esser certi che questa o quella qualità si trova nel­
l'oro, quando non sappiamo che cosa sia o non sia oro? » (Saggio,
IV, 6, 5). Non possiamo quindi formulare proposizioni univer­
sali sulla natura delle cose: per conoscere le nature dei corpi dob­
biamo prendere un'altra strada: « la nostra mancanza di idee
delle loro essenze reali ci rimanda, dai nostri pensieri, alle cose
stesse così come esistono. L'esperienza, qui, deve insegnarmi ciò
che non può la ragione; ed è solo con l'esperimento che io posso
conoscere con certezza quali altre qualità coesistono con quelle
della mia idea complessa. Per es. se quel corpo giallo, pesante
e fusibile che chiamo oro, sia o non sia malleabile... » (Saggio,
IV, 12, 9).
L'esperienza, però, può dirmi solo che una qualità coesiste
con altre, coesiste in un certo numero di casi, in quelli di cui ho
esperienza: non può dirmi che sempre e necessariamente coesista.
Locke se ne rende perfettamente conto. « Questa maniera di pro­
curarci e accrescere la nostra conoscenza delle sostanze solo me­
diante l'esperienza e la storia ... mi fa sospettare che la filosofia na­
turale non sia suscettibile di venir portata ad essere una scienza »
(Saggio, IV, 12, 10).

7. Esistenza dei corpi

Questo carattere di probabilità riguarda però solo le propo­


sizioni universali sulle cose, riguarda le leggi fisiche, non riguarda
l'esistenza delle cose che, come abbiamo visto, è data per sensa­
zione. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che « la effettiva recezio­
ne delle idee dall'esterno ci informa dell'esistenza di altre cose,
e ci fa sapere che qualcosa esiste in quel momento fuori di noi »
(Saggio, IV, 11, 2).
Per sapere che la sensazione è una « recezione delle idee dal-
270 FILOSOFIA MODERNA

l'esterno » possiamo osservare 1) che senza organi di senso non si


hanno quelle idee; 2) che le subiamo, siamo passivi di fronte ad
esse; 3) tanto che qualche volta ci procurano dolore, mentre non
proviamo dolore quando ricordiamo per es. una scottatura passa­
ta; 4) per la convergenza dei dati di più sensi.
La conoscenza dell'esistenza di cose fuori di noi non è cosi
certa come la conoscenza intuitiva o dimostrativa, ma è pur sem­
pre conoscenza, dice Locke (Saggio, IV, 11, 3), non semplice
opinione: è insomma, potremmo dire, una tesi del buon senso.

8. Esistenza di Dio

Più certa, anzi rigorosamente certa è invece la conoscenza di


Dio. « Sebbene Dio non ci abbia data alcuna idea innata di se
stesso; sebbene non abbia impresso nelle nostre menti, nessun
carattere originale nel quale possiamo leggere l'esistenza sua 5;
tuttavia, avendoci Egli fornito quelle facoltà di cui sono dotate le
nostre menti, non ci ha lasciati senza una testimonianza di se
stesso: poiché abbiamo il senso, la percezione e la ragione, e non
ci può mancare una chiara prova di Lui, fintanto che portiamo
noi stessi con noi» (Saggio, IV, 10, 1).
Sappiamo, infatti, di esistere (ibid., 2); sappiamo « con cer­
tezza intuitiva, che il puro nulla non può produrre un qualunque
essere reale, più di quel che il puro nulla possa essere uguale a
due angoli retti... Perciò, se sappiamo che c'è un qualche essere
reale, e che il non essere non può produrre nessun essere reale,
questo dimostra evidentemente che fino dall'eternità c'è stato qual­
cosa » poiché ciò che ha avuto inizio, è stato prodotto (Saggio, IV,
10, 3). Ma ciò che ha ricevuto l'essere, ha ricevuto anche le sue per­
fezioni, le sue caratteristiche, e non può averle ricevute da chi non
le ha; dunque la fonte dell'essere è anche la fonte di ogni perfezione.
Dalla conclusione che la fisica non è scienza rigorosa Locke trae
argomento per affermare la dignità della morale, che può invece es­
sere scienza rigorosa come la matematica (Saggio, IV, 3, 18). « Dal
che è ovvio concludere che, le nostre facoltà non essendo atte a pe-

5
Mi pare una allusione a Cartesio.
LOCKE 271

netrare nell'intera fabbrica e nelle reali essenze di corpi, bensi a


scoprirci in modo evidente l'essere di un Dio, e la conoscenza di noi
stessi, abbastanza per condurci ad una piena e chiara scoperta del
nostro dovere.. si addirà a noi, come creature razionali, impiegare
le facoltà che abbiamo in quelle cose per cui esse sono meglio adat­
te... » (Saggio, IV, 12, 11 ).

9. L'etica

In realtà, poi, Locke non espose matematicamente la sua etica,


ma la espose occasionalmente e piuttosto in base all'esperienza.
Per la dottrina morale di Locke è opportuno ricordare quello
che egli dice sulla libertà nel cap. XXI del secondo libro del Saggio,
a proposito dell'idea di potere. La libertà è il potere di fare o non
fare, ed è un potere non della volontà (che è pure un potere), ma del
soggetto che agisce.
Nella prima edizione del Saggio il pensiero di Locke è chiaro,
e si potrebbe riassumere cosi: la volontà è sempre determinata dal
piacere, da ciò che maggiormente le piace. Volere una cosa significa
preferirla a un'altra, e preferire vuol dire trovar piacere in una cosa
più che in un'altra. La felicità è il supremo piacere. Ma allora, come
mai uomini diversi vogliono diverse cose? Locke risponde: perché
diverso è, per ciascuno, il bene. Perché allora si pentono talora delle
loro scelte, ossia ammettono di avere sbagliato? Locke risponde: se
il confronto dei beni fosse solo nel presente, gli uomini non sbaglie­
rebbero, ma, quando il maggior bene è futuro, il piacere presente
li attrae e cosi è possibile un errore di prospettiva.
Poi Locke modificò la sua teoria. Ciò che determina la volontà
non è il maggior bene, ma il disagio, il senso di una mancanza. Men­
tre nella prima edizione la teoria di Locke è deterministica, nella
seconda edizione si avvicina ad una certa ammissione della libertà.
Infatti nel disagio possiamo già vedere implicita la conoscenza del
bene presente come finito, limitato, e quindi incapace di soddisfarci
pienamente. E poi Locke ammette che l'esser diverso dei beni
per i diversi soggetti (per uno è bene il piacere, per l'altro la cono­
scenza) dipende da un porre, da un assumere da parte del soggetto
che vuole (Saggio, II, 21, 44). Dice inoltre Locke che lo spirito ha
il potere di tenere in sospeso l'esecuzione di un atto, e che questo
272 FILOSOFIA MODERNA

potere si fonda su quello di considerare e pesare gli oggetti da tutti


i lati.
Resta però sempre l'affermazione che questo pesare gli oggetti
è in funzione del loro valore come mezzi per ottenere una felicità
concepita unicamente come piacere.
Non sembra facile per questa via costruire un'etica dimostrativa,
e Locke sembra aver tentato due vie: una è quella di appellarsi ad
una legge positiva divina: Dio ha fatto sì che all'osservanza della
sua legge fosse legato il massimo piacere e alla violazione di essa il
massimo dolore. Cosi« il bene e il male morale sono soltanto la con­
formità o discordanza delle nostre azioni volontarie rispetto a qual­
che legge, in seguito a che ci procuriamo un bene o un male, a cau­
sa della volontà e del potere del legislatore » (Saggio, II, 28, 5). Per
questa via i principi dell'etica sarebbero i decreti della volontà di­
vina e le leggi positive umane.
Ma secondo Locke c'è anche una legge naturale, non scritta nel­
le nostre menti, come affermavano i platonici di Cambridge, ma tale
che l'uomo può scoprirla con la sua ragione nella realtà stessa. In
che modo, però? Infatti, se la morale deve essere una scienza dimo­
strativa, come la matematica, essa non potrà basarsi solo sull'espe­
rienza, sulla constatazione del come, di fatto, si comportano gli uo­
mini; altrimenti le leggi morali sarebbero come le leggi fisiche e la
morale sarebbe come la fisica, contrariamente a ciò che ha detto
Locke. C'è in Locke un ondeggiamento fra possibilità diverse di so­
luzione, un ondeggiamento dovuto anche alJa riflessione sulla situa­
zione politica, come fa vedere bene C. A. Viano. A un certo mo­
mento la soluzione sembra questa: « L'etica dimostrata può...
essere costruita trovando le condizioni indispensabili per le ga­
ranzie dei beni; l'etica ideale sarà quella che conterrà il minor
numero di conflitti fra i beni ». Nei frammenti inediti « la mo­
rale si presenta come la regola per il raggiungimento della felicità,
cioè per il maggior numero di piaceri possibili ... Rispetto a questa
impostazione fondamentale il riferimento alla via teologica è solo
ausiliario, in quanto, facendo dell'uomo un essere finito, mostra
come esso debba ricorrere a rapporti interpersonali, stringere
patti e osservarli » 6• Per fare un'etica dimostrativa bastava am-

6
A. C. VIANO, J. Locke, cit., pp 165-166.
LOCKE 273

mettere che « gli uomini possono costruire regole per raggiungere


il bene, e che le tradizioni non contengono solo elementi positivi
o elementi negativi ». Cosl « la legge di natura perdeva l'aspetto
di un piano provvidenziale sovrapposto alle tradizioni e alle isti­
tuzioni... e si configurava come la massima generalizzazione delle
condizioni di possibilità dei rapporti liberamente stipulati fra i
. li... » 7
smgo
Ma cosl, come « massima generalizzazione » di rapporti, il
cui risultato, piacevole o spiacevole, può essere solo attestato dal­
l'esperienza, l'etica restava ancora dimostrativa? È la difficoltà
di ogni tentativo di fondare l'etica sul piacere. Si capisce quindi
che l'etica lockiana torni a diventare teologica. C'erano, infatti,
nel pensiero di Locke, come ammette lo stesso Viano, due ele­
menti inconciliabili: da una parte il convenzionalismo, dall'altra
l'intuizione di un ordine immutabile e dato. Si che a un certo
momento Locke abbandona l'idea di fare un'etica sistematica e
si mette a commentare il Vangelo. « Ma ormai le idee centrali
della dottrina lockiana della morale dimostrabile agivano fuori
dei vani sforzi di Locke per darne il sistema. Esse agivano nelle
sue opere politiche » 8•

10. Le dottrine politiche

Le dottrine politiche di Locke sono non tanto una applica­


zione delle sue teorie morali, che egli non espose mai sistemati­
camente, quanto una risposta ai problemi posti dalla situazione
politica del suo tempo nel suo paese. Abbiamo visto che questo
è vero, almeno in parte, anche per Hobbes; ma Hobbes mette al
vertice dei valori la pace, Locke mette al vertice dei valori la li­
bertà. Male supremo è per Hobbes il disordine e la guerra, per
Locke la tirannia.
La dottrina politica di Locke (nella sua maturità) è esposta
nei due Trattati sul governo civile, entrambi del 1690. Il primo
è una critica del Patriarca di Robert Filmer 9, che sosteneva la

1
Op. cit., p. 174.
• Op. cit., p. 179.
9
Tradotto di L. Pareyson, in appendice ai Trattati sul governo civile.
274 FILOSOFIA MODERNA

monarchia di diritto divino, il secondo espone positivamente le teo­


rie di Locke.
Poiché spesso si sente esaltare la concezione di Locke fautore
della libertà contro l'oscurantismo scolastico, è interessante os­
servare come sia Filmer a prendersela contro gli scolastici. Filmer
polemizza contro Bellarmino e contro Suarez, assertori dell'ugua­
glianza originaria di tutti gli uomini, ma quello che dice Filmer
a proposito dei due autori citati vale anche per la dottrina di
S. Tommaso. Il Patriarca di Filmer comincia cosi: « Dal tempo
che la teologia scolastica cominciò a fiorire si è sostenuta, tanto
da parte di teologi quanto da parte di dotti d'altro genere, l'opi­
nione comune secondo cui gli uomini nascono dotati della libertà
da ogni soggezione e del diritto di scegliere la forma di governo
che preferiscono, e il potere che un uomo ha sugli altri gli fu in
principio concesso dalla volontà del popolo. Questa tesi sorse nel­
le scuole e fu in seguito diffusa dai papisti posteriori come teolo­
gia genuina... Ma per quanto questa opinione corrente sia da poco ve­
nuta in grande reputazione, non è dato incontrarla, tuttavia, pres­
so gli antichi padri e dottori della chiesa primitiva, e contrad­
dice alla dottrina e alla storia della Scrittura... » (in appendice
a LocKE, Due trattati sul governo, trad. Pareyson, p. 443 ). Ada­
mo e i patriarchi avevano infatti per diritto divino potere asso­
luto sulle loro famiglie, e tale potere assoluto è ereditato dai re.
Secondo Filmer gli uomini non sono uguali per natura - e per
giustificare questa tesi egli si appella, oltre che alla Scrittura, an­
che ad Aristotele. - Locke confuta le teorie di Filmer e, nel
Secondo trattato, afferma che lo stato di natura è « uno stato cli
perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri
possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i
limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere
dalla volontà di nessun altro» (cap. Il, 4).
La legge di natura è poi identificata con la ragione « e la ra­
gione ... insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla.
che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar dan­
no ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi ... »
(ibid., 6 ). Se infatti non esistesse questa legge di natura (cioè se
esistesse soltanto la legge positiva), con qual diritto un sovrano
potrebbe punire uno straniero per un delitto commesso in quello
Stato? (ibid., 9).
LOCK.E 275

Al diritto naturale alla vita, alla libertà e alla proprietà corri­


sponde il diritto di difendersi, ossia di punire chi minacci di to­
glierci questi beni.
Fra i diritti naturali c'è per Locke il diritto di proprietà pri­
vata. Dio ha dato la terra a tutti gli uomini in comune, ma
ognuno ha diritto ad appropriarsi ciò che ha trasformato e reso
utile col proprio lavoro. Infatti « ognuno ha la proprietà della
propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il la­
voro del suo corpo e l'opera delle sue mani possiamo dire che so­
no propriamente suoi. A tutte quelle cose, dunque, che egli trae
dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha con­
giunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio,
e con ciò le rende proprietà sua» (Secondo trattato, cap. V, 27).
Cosi concepito, il diritto di proprietà individuale dovrebbe esse­
re limitato a ciò a cui l'uomo può estendere il proprio lavoro
e a ciò che (se si tratta, per esempio, di frutti raccolti) può go­
dere subito. « La proprietà di un singolo individuo si estenderà
a quello spazio che egli stesso può seminare, piantare, render fe­
condo e coltivare, usandone il prodotto» (cap. V, 32). « Ma poi­
ché l'oro e l'argento, di per sé poco utili alla vita dell'uomo... non
ricevono il loro valore che dal consenso degli uomini, il cui la­
voro, tuttavia, ne costituisce in gran parte la misura, è chiaro che
gli uomini... per consenso tacito e volontario, hanno scoperto un
modo in cui si può possedere equamente più terra di quanto si
possano usarne i prodotti, col ricevere in cambio del soprappiù
oro o argento... » (cap. V, 50).
Naturale è la famiglia e la subordinazione dei :figli ai genitori,
finché i figli non abbiano il pieno uso di ragione e la capacità di
provvedere a se stessi: « Nasciamo liberi in quanto nasciamo
ragionevoli, anche se non abbiamo subito l'esercizio della libertà
e della ragione: l'età che apporta l'una, porta con sé anche l'al­
tra» (cap. VI, 61 ). Raggiunto il pieno uso della ragione, i figli
restano soggetti al padre solo « per libero consenso» (contro
quello che affermava Filmer) (cap. VI, 74).
La società civile sorge per una necessità naturale. Dice infatti
Locke: « Dio, avendo dell'uomo fatto tal creatura, per la quale,
nel suo giudizio, non era bene esser sola, lo sottopose a potenti
obbligazioni di bisogno, comodità e tendenza a entrare in socie­
tà, e pari.menti lo adattò, con l'intelligenza e il linguaggio, a con-
276 FILOSOFIA MODERNA

tinuarla e a goderne» (cap. VII, 77). Tuttavia questa necessità


deve essere riconosciuta liberamente: « Poiché gli uomini sono,
come s'è detto, tutti per natura liberi, eguali e indipendenti, nes­
suno può esser tolto da questa condizione e assoggettato al potere
politico di un altro senza il suo consenso. L'unico modo con cui
uno si spoglia della sua libertà naturale ... consiste nell'accordarsi
con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una comunità e vi­
vere... con comodità, sicurezza e pace... con una garanzia maggio­
re contro chi non vi appartenga» (cap. VIII, 95).
Lo scopo della società civile è il bene dei singoli. Lo stato di
natura è uno stato di insicurezza, e questo fa sì che gli uomini
rinuncino a una parte della loro libertà per avere maggior sicurez­
za. Gli uomini si uniscono in società per difendere la propria vi­
ta, la libertà, gli averi (cap. IX, 123 ). Quando perciò gli uomini si
uniscono in società, rinunciano solo al potere di difendersi, ma
non al diritto alla vita e alla proprietà. Due sono i poteri della
società: quello di far leggi e quello di farle eseguire. Il potere
legislativo deve rispettare i diritti naturali degli individui. Si
noti che Locke non condivide il pessimismo antropologico di
Hobbes: per lui la legge di natura non è la legge dell'impulso bel­
luino, è espressione della ragione, quindi la legge positiva, la leg­
ge civile, deve rispettare la legge naturale. Anche per Hobbes,
come per Locke, la legge positiva trova, prima di sé, una legge
naturale; ma per Hobbes questa legge naturale è la legge della
giungla, che la legge civile deve solo frenare, dominare; per Locke
è l'espressione della ragione, che la legge civile deve rispettare.
Il potere legislativo emana dalla comunità, anche se questa lo
conferisce ad una persona sola. E poiché il potere legislativo deve
rispettare i diritti naturali degli individui « rimane sempre al
popolo il potere supremo di rimuovere o alterare il legislativo,
quando vede che il legislativo delibera contro la fiducia in esso
riposta » (cap. XIII, 149) 10•

10 Per la concezione lockiana della religione, si veda il capitolo sull'illuminismo


inglese.
CAPITOLO DODICESIMO

G. BERKELEY
(1685-1753)

l. L'ispirazione religiosa

Il meccanicismo newtoniano, non era affatto associato nella men­


te del suo autore ad un qualsiasi materialismo, né, tanto meno,
all'ateismo o al deismo; ma, dalla concezione di Newton, alcuni
avevano tratto conclusioni materialistiche e, se non atee, almeno
razionalistiche come J. Toland nel suo Christianity not misterious
del 1696. Locke, un anno prima, aveva pubblicato la Reasonable­
ness of Christianity, nella quale aveva sottolineato, appunto, ciò
che di ragionevole, di accessibile vi è nel cristianesimo; Toland
andava più in là ed escludeva dal cristianesimo ogni elemento « mi­
sterioso », ossia sopra-razionale. Inoltre, contro Newton, negava
che occorresse ricorrere a Dio come causa della gravitazione: la
materia è per sé attiva; negava pure che vi fossero uno spazio e un
tempo assoluti, distinti dalla materia. È vero che in questo J. To­
land è d'accordo con Leibniz e con Berkeley, ma, a differenza di

* L'edizione critica delle opere è quella curata da A. A. Luce e T. E. Jessop:


The Works of G. Berkeley, in 9 voll. London-Edinburgh, Nelson, 1949. Anteriore a
questa, l'ed. curata da A. Campbell Fraser, The Works of G. B. Oxford 1871, ristampa
nel 1901, 4 voll.
Traduzioni italiane: Saggio di una teoria della visione, a cura di G. Amendola, Lan­
ciano, Carabba, 1919; Trattato sui principi della conoscenza e Dialoghi tra Hylas e Fi­
lonous, trad. Papini, Bari, Laterza 1929; Appunti, a cura di M. M. Rossi, Bologna,
Cappelli, 1924; Alcifrone, a cura di A. Guzzo, Bologna, Zanichelli, 1943.
Su B. ricordo S. DEL BocA, L'unità del pensiero di G. B., Firenze, 1937; G. BONTA­
DINI, Studi sulla filosofia moderna, cit.; M. M. Rossr, Introduzione a Berkeley, Bari, La­
terza, 1970.
278 FILOSOFIA MODERNA

Berkeley, egli attribuisce realtà e consistenza alla materia, e questa


materia basta a spiegare la struttura del cosmo. G. Berkeley, che
era uno spirito profondamente religioso, combatté queste inter­
pretazioni della meccanica newtoniana: anzi ritenne di doverle ta­
gliare alla radice combattendo il concetto stesso di materia. Dice
Paolo Casini: « Toland aveva combattuto i presupposti della mec­
canica newtoniana da un punto di vista materialistico, colmando
il vacuum d:. materia attiva e semovente, escludendo dai fenomeni
del moto la necessità di un intervento divino. Il vescovo Berkeley
credette di scorger tali pericolose conseguenze già implicite in quei
presupposti ... ». lo non direi forse, come dice il Casini, che « ad­
ditò in tutta la scienza moderna e nel metodo sperimentale il ri­
schio incombente di materializzare Dio » 1; ma certo vide tale ri­
schio nella concezione meccanicistica del mondo.
A tale concezione reagirono Malebranche, Leibniz e Berkeley,
se pure in modo diverso: Malebranche portando il meccanicismo
alle estreme conseguenze e privando il mondo fisico di ogni atti­
vità, estenuando la natura, si da dover ricorrere all'azione immedia­
ta di Dio per spiegare ogni movimento; Leibniz negando il mec­
canicismo e concependo il mondo corporeo come dotato di forza
e qualità; Berkeley negando addirittura l'esistenza della materia.
Sono :filosofi.e che hanno fra loro alcune analogie: Berkeley è più vi­
cino a Malebranche, tanto che A. A. Luce nel suo libro Berkeley
and Malebranche 1 bis ha affermato che Berkeley, nel periodo gio­
vanile, rappresentato dagli appunti (Philosophical Commentaries,
nell'ed. Luce), dipende strettamente da Malebranche.

2. Cenni biografici

Berkeley nacque e studiò in Irlanda; studiò e insegnò nel Tri­


nity College all'Università di Dublino e nel 1709 pubblicò il Sag­
gio di una nuova teoria della visione. In una lettera a Sir John
Percival, del marzo 1710, Berkeley dice che quest'opera sembrerà
forse inutile, ma che egli spera di far vedere in un successivo trat­
tato, come essa getti le basi di una teoria che « mostrando la vacui-

' L'universo-macchina, cit., p. 239.


lbi,
Oxford, 1934.
BERKELEY 279

tà e la falsità di molte parti della scienza speculativa, induca l'uomo


allo studio della religione e di cose utili » 2• Il trattato che Berke­
ley ha in cantiere, deve dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità
dell'anima. La prima parte, l'unica pubblicata, del Trattato sui
principi della conoscenza umana usci nel 1710. Berkeley, come ri­
sulta anche dalla lettera di cui abbiamo citato una frase, vedeva
nella sua concezione immaterialistica un nuovo e inconfutabile mo­
do di combattere il materialismo e l'irreligione, e pregava il suo ami­
co Percival di far conoscere il Trattato. Ma, come risulta da una
lettera di Percival 3, le reazioni furono sfavorevoli, le persone alle
quali Percival parlava della dottrina esposta nel Trattato giudica­
vano matto l'autore e non volevano leggere il libro. Invano Ber­
keley si difendeva dicendo che egli non negava affatto l'esistenza
delle cose sensibili, ma solo della materia inerte, dello spazio vuo­
to, delle astrazioni della nuova scienza. Nel 1713 Berkeley cercò
di esporre la sua dottrina in forma più accessibile, nei Dialoghi fra
Hylas e Filonous. Nello stesso anno si recò a Londra, dove co­
nobbe molta gente e si fece conoscere; alla fine del 1713 fece un
viaggio in Francia e in Italia come cappellano di Lord Peterborough,
che era ambasciatore straordinario della corte inglese all'incoro­
nazione di Vittorio Amedeo II come Re di Sicilia. A Parigi co­
nobbe personalmente Malebranche. Fece poi un secondo viaggio
in Italia nel 1716 e vi si trattenne fino al 1721. Del 1721 è il De
motu. Tornato in Irlanda, Berkeley progettò una grande spedizione
missionaria alle Isole Bermude, per fondare là una Università che ir­
radiasse la cultura cristiana nel Nuovo Mondo. Infatti nel 1728
parti e approdò a Rhode Island dove si trattenne un paio d'anni.
Quando ebbe perduto la speranza di ottenere dal governo i fondi
occorrenti alla sua fondazione, tornò in Inghilterra e quindi in
Irlanda, dove, nel 1734, fu consacrato vescovo di Cloyne. Ap­
pena tornato dall'America, nel 1732, aveva pubblicato l'Alcifro­
ne; poco dopo il suo ingresso a Cloyne pubblicò The Analyst:
Discorso a un matematico miscredente per dimostrare che la ma­
teria poggia su fondamenti tanto misteriosi quanto quelli della
religione.

2
Cit. da A. CAMPBELL FRASER nell'introduzione alle Opere (Tbe Workr of G.
B. voi. I, p. XXXI).
3
Cfr. A. A. LUCE, Tbe Li/e of G. Berkeley (è il I voi. delle Opere), pp. 50-51.
280 FILOSOFIA MODERNA

Aveva gran fede nelle virtù terapeutiche dell'acqua di catra­


me e nel 17 44 scrisse la Siris che porta come sottotitolo: Serie
di rifl,essioni filosofiche e di ricerche sulle virtù dell'acqua di ca­
trame, e diversi altri argomenti connessi fra loro. È una strana
opera in cui, partendo da considerazioni di medicina, si risale ad
una filosofia della natura di tipo neoplatonico, in cui il fuoco è lo
spirito animatore. « Comprendendo Dio e le creature in una no­
zione generale, possiamo dire che tutte le cose (Dio e l'universo
nello spazio e nel tempo) fanno un solo universo, o Tutto. Ma se
dicessimo che tutte le cose fanno un solo Dio, questa sarebbe una
erronea nozione di Dio; non sarebbe però ateismo, finché am­
mettessimo che lo Spirito o l'Intelletto è l'hegemonik6n, ossia
il principio che governa tutto » 4•

3. La teoria della visione

Abbiamo sentito, da una lettera a Percival , che Berkeley ri­


teneva « utile » il Saggio di una nuova teoria della visione solo
perché esso preparava alla concezione esposta nei Principi. Ve­
diamo come. La nuova teoria di Berkeley consiste in questo: la
distanza degli oggetti da noi non può essere veduta, ossia non è
oggetto immediato della vista. « La distanza, essendo una linea
che giunge perpendicolarmente all'occhio, proietta nel fondo di
questo un sol punto, che rimane invariabilmente lo stesso, tanto
se la distanza aumenta quanto se diminuisce » (Saggio, trad. Amen­
dola, n. 2). La distanza, dunque, è soltanto inferita (ibid., n. 3 ). E
non è inferita, dice Berkeley, dalla maggiore o minore divergenza
dei raggi luminosi, perché neppure questa è un dato immediato;
ma soltanto dai diversi movimenti che dobbiamo fare per adattare
gli occhi alle diverse sensazioni che producono in noi questi mo­
vimenti: « Non già che vi sia alcuna connessione naturale o neces­
saria fra la sensazione che percepiamo adattando gli occhi e la
maggiore o minor distanza. Ma, poiché la mente ha ricavato dalla
costante esperienza che le diverse sensazioni, corrispondenti alle
diverse posizioni degli occhi, accompagnano rispettivamente diver-

' Cit. da CAMPBELL FRASER nella Introduzione alle Opere, LXXVIII.


BERKELEY 281

si gradi di distanza dell'oggetto, così si è formata fra queste due


specie di idee una connessione abituale o ordinaria; per cui, non
appena lo spirito percepisce la sensazione derivante dalla diffe­
rente disposizione impressa agli occhi... immediatamente percepi­
sce l'idea di distanza che era abituato ad associare con quella
sensazione » (op. cit., n. 17 ). Quello che si è detto per la di­
stanza vale anche per la figura tangibile e la solidità, e Berkeley
conclude: « Avendo da molto tempo sperimentato che certe idee,
percepibili col tatto - come la distanza, la figura tangibile, la
solidità - sono state associate con certe idee della vista, allorché
percepisco queste idee della vista, ne inferisco immediatamente
quali idee del tatto le seguiranno» (op. cit., n. 45). « La vera
conseguenza da trarne è... che gli oggetti della vista e del tatto
sono due cose distinte» (n. 49). Dunque, conclude Berkeley « ci
sono due specie di oggetti che si apprendono con la vista: gli uni
primari ed immediati, gli altri secondari e percepiti per mezzo dei
primi. I primi [ cioè i colori e le forme visibili] né sono né sem­
brano essere fuori dello spirito o a distanza 5• Quando diciamo
che un oggetto si trova ad una certa distanza, dobbiamo inten­
dere che si parli di oggetti della seconda specie, che propriamen­
te appartengono al tatto, e non sono veramente percepiti, ma sug­
geriti dall'occhio, come i pensieri [di uno che mi parla] sono
suggeriti dall'orecchio» (op. cit., n. 50).
La conclusione finale è che « gli oggetti propri della visione
costituiscono il linguaggio universale della natura, la quale, con
questo mezzo, ci insegna come dobbiamo regolare le nostre azio­
ni per ottenere quelle cose che sono necessarie alla preservazione
e al benessere dei nostri corpi» (op. cit., n. 147). E ricordiamo
che gli oggetti della visione, questi segni, non sono fuori dello
spirito, dunque sono idee.

' Si noti l'equivalenza fra il « fuori dello spirito» e l'« a distanza» per rendersi
conto dell'ambiguità del termine, cosl spesso usato, « fuori di noi ». Se, infatti, il
" fuori " esprime una relazione spaziale o una distanza, non ha senso parlare di « fuori
dello spirito»; se esprime una distinzione, non si può negare che un colore sia distinto
dallo spirito che lo percepisce, altrimenti si dovrebbe parlare di spiriti colorati.
282 FILOSOFIA MODERNA

4. La critica delle idee astratte

Nel Saggio sulla visione sembra che siano le cose a mandar­


ci questi segni; nel Trattato, invece, chi ce li manda, ossia chi
parla, è Dio.
Vediamo perché. E ricordiamo che l'introduzione al Trattato
è tutta dedicata alla negazione delle idee astratte, alla critica della
teoria di Locke sulle « idee generali ». Anche questa critica rien­
tra nel programma spiritualistico di Berkeley: le idee astratte che
egli critica sono quelle di estensione in generale, moto in generale,
sulle quali era fondata la concezione meccanicistica del reale.
Trovo in me, dice Berkeley, la capacità di « immaginare o
rappresentarmi le idee delle cose che ho percepite e di comporle
o dividerle. Posso immaginare un uomo con due teste o la parte
superiore di un uomo unita al corpo di un cavallo. Posso consi­
derare la mano, l'occhio, il naso, ognuno per sé, astratto o sepa­
rato dal resto del corpo. Ma, qualunque occhio o mano io imma­
gini, deve avere una particolar forma e colore. Similmente l'idea
dell'uomo che mi figuro deve essere di un uomo bianco o nero
o bruno, dritto o curvo, alto o basso o di media statura » (Trat­
tato, Introd., 10). Non posso concepire un uomo che non sia né
bianco né nero né di altro colore, né posso concepire il moto in
generale: un moto distinto dal corpo che si muove, e che non sia
né lento né rapido, né rettilineo né curvilineo. Con questo, dice
Berkeley, « io non nego che esistano idee generali, ma solo che
vi siano idee generali astratte... Un'idea che, considerata in se
stessa, è particolare, diventa generale quando rappresenta o sta in
luogo di tutte le altre idee particolari della medesima specie »
(Trattato, Introd., 12). Il geometra, p. es., tira una linea, che è
particolare; ma quando insegna come si divide una linea, quella li­
nea, « riguardo al suo significato è generale, poiché cosi come è usata
rappresenta tutte le linee particolari qualunque siano » (ibid. ).
E se mi si chiede come può, per esempio, un teorema sul trian­
golo valere per tutti i triangoli (p. es. che tutti i triangoli hanno
gli angoli interni uguali a due retti), dato che la dimostrazione è con­
dotta sempre su un triangolo che è necessariamente o rettangolo
o no, o equilatero o isoscele o scaleno, rispondo che il teorema
vale per tutti i triangoli perché nella dimostrazione non sono
entrati (are not at all concerned) né la considerazione dell'angolo
BERKELEY 283

retto né quella della lunghezza dei lati. « E qui bisogna ricono­


scere che uno può considerare una figura come puramente trian­
golare, senza badare alle particolari qualità degli angoli o alle
relazioni fra i lati. In questo senso egli può astrarre; ma questo
non proverà mai che egli possa formarsi una inconsistente idea
astratta generale di un triangolo» (Trattato, Introd., n. 16).

5. Esse est percipi

Nel Trattato Berkeley trae la logica conseguenza della dottri­


na quasi universalmente diffusa intorno a lui - che oggetto im­
mediato della conoscenza è l'idea. Se oggetto della conoscenza è
l'idea, se colori suoni ecc. sono idee, poiché un'idea può esistere
solo in un soggetto che la percepisce, si capisce che essi esistano
solo nel soggetto percipiente e che il loro essere consista nell'esser
percepiti. Che senso avrebbe infatti un'idea non percepita? come
si potrebbe ancora chiamarla idea? È una strana opinione quella che
attribuisce agli oggetti sensibili (case, montagne, fiumi) una esisten­
za « naturale o reale» distinta dal loro essere percepiti. Poiché que­
ste cose sono ciò che noi percepiamo coi sensi, e coi sensi perce­
piamo le nostre idee o sensazioni, come potrebbero tali idee e sen­
sazioni essei non-percepite? (Trattato, I, 4. Cfr. anche il n. 7) 6•
Qui la tesi che le qualità sono idee sembra accettata semplice­
mente dai predecessori; nei Dialoghi, invece, Berkeley cerca di giu­
stificarla. E, per dimostrare la soggettività delle qualità, comincia
da quelle che ci sono date con una più forte colorazione affettiva.
Un forte calore dice Filonous (che rappresenta B.) è dato come bru­
ciore; ora un bruciore è un dolore, e un dolore c'è solo in un sog­
getto senziente: l'essere del dolore è il suo essere sentito. Ora sa­
rebbe irragionevole dire che l'essere di un calore più debole è di­
verso dal suo essere percepito; dunque ciò che è vero per il calore

• Questo discorso è una reazione al dualismo gnoseologico: non devo andare al


di là del percepito per conoscere le cose; le cose sono quello che è percepito. Resta
poi il problema: 1) se l'esser percepito esaurisca l'esser delle cose; 2) se il percepito
sia di stoffa spirituale, per dir cosl, o materiale: Berkeley dice: è « nello spirito »,
quindi oltre lo spirito non c'è altro, non c'è un al di là; Avenarius, più di un secolo
e mezzo dopo, dirà: è di stoffa materiale, quindi non c'è bisogno di introiettare dentro
il soggetto un doppio, una rappresentazione del percepito; ma Berkeley e Avenarius
sono d'accordo nel rifiutare il dualismo.
284 FILOSOFIA MODERNA

di un certo grado ( = bruciore) è vero per tutti i gradi di calore.


Analoghe considerazioni fa Berkeley 7 per i sapori e gli odori. Anche
i suoni sono sensazioni.
Ora anche Locke diceva: suoni e colori sono soggettivi, ma af­
fermava che le qualità primarie esistevano anche fuori del soggetto.
E infatti Hylas obietta: « Ma è questo movimento dell'aria esterna
che produce nello spirito la sensazione del suono! Perché, batten­
do sul timpano dell'orecchio, esso causa una vibrazione, la quale
vien comunicata dai nervi uditivi al cervello, e cosi l'anima è im­
pressionata dalla sensazione chiamata suono ». Filonous risponde:
« Come? Il suono è dunque una sensazione? » Hylas distingue al­
lora la realtà oggettiva del suono, che è solo vibrazione, moto lo­
cale, e l'apprensione soggettiva di questa realtà che è il suono. Ma
Filonous ribatte: « Sembra dunque che vi siano due specie di suo­
ni: uno volgare, cioè quello che si sente, e l'altro filosofico e reale.
- H. È cosi. - F. E il secondo consiste nel movimento? - H.
Ve l'ho detto prima. - F. Ditemi, Hylas, a qual senso appartiene,
secondo voi, l'idea del movimento? all'udito? - H. No certamente.
Alla vista e al tatto. - F. Ne deve seguire dunque, secondo voi, che
i suoni reali possono essere visti o toccati, e non mai uditi... Ma po­
tete pensare che sia qualcosa più di un paradosso filosofico dire che
i suoni reali non sono mai uditi, e che l'idea di essi è ottenuta per
mezzo di qualche altro senso? » (Dialogo, I, trad. Papini, pp. 128-
129). Se, dunque, sono soggettivi i suoni e, in genere, quelle che
Locke chiama qualità secondarie, debbono essere soggettive anche
le qualità primarie, estensione e movimento.
Anche nel Trattato (I, 10) Berkeley aveva osservato che le qua­
lità primarie non possono essere astratte dalle qualità secondarie:
non si possono concepire estensione e moto astratti dalle qualità
secondarie.

7
Qui può essere interessante osservare che Condillac nel Trattato delle sensazioni
( 1754) parte pure dalle sensazioni più legate al sentimento di piacere-dispiacere per
giustificare l'affermazione che la sensazione è una nostra « maniera di essere». Dico
che può essere interessante perché Condillac vuol essere seguace di Locke, e porta a
conseguenze più radicali la teoria della conoscenza di Locke negando la differenza
fra sensazione e riflessione e riducendo tutta la conoscenza a sensazione. Non solo:
Condillac si avvicina notevolmente ad una concezione materialistica dell'uomo. Dun­
que si vede che la teoria che riduce gli oggetti sensibili a sensazioni, a « maniere di
essere» del soggetto, non è affatto legata all'idealismo come concezione della realtà, ma
nasce dai problemi che la nuova scienza ( nota a idealisti e a realisti, a razionalisti e ad
empiristi) pone a proposito dell'oggettività delle qualità sensibili.
BERKELEY 285

Un'altra considerazione di Berkeley per negare l'esistenza di cose


indipendenti dallo spirito è la seguente: pensare una cosa esistente
senza (without) lo spirito (mind) è come « concepirla non concepita
o pensarla non-pensata, il che è contraddittorio» (Trattato, I, 23 ).
Si badi però che l'affermazione esse est percipi vale solo per
l'essere delle idee - che sono gli oggetti sentiti -, non per tutta
la realtà. « Oltre l'infinita varietà di idee o di oggetti di conoscenza,
vi è qualcosa che li conosce o percepisce ed esercita diverse opera­
zioni, come volere, immaginare, ricordare» (Trattato, I, 2). Il per­
cipi rimanda necessariamente al percipere, e il percipere a un per­
cipiens: la mente o spirito o anima o io, che è, dice Berkeley, « una
cosa totalmente distinta dalle idee» (ibid. ). Lo spirito è infatti uno,
semplice, indiviso, attivo, mentre l'idea è qualcosa di passivo e di
inerte (Trattato, I, 27).
E proprio per questa diversità radicale fra lo spirito e l'idea,
noi non possiamo avere un'idea dello spirito: dello spirito abbiamo
una conoscenza immediata, che Berkeley chiama nozione (notion)
(ibid. ).
L'affermazione che l'essere delle idee consiste nel loro esser
percepite - e quindi dipende dallo spirito - non vuol dire che
tutte le idee dipendano dal nostro spirito, dallo spirito umano; anzi
noi abbiamo coscienza che molte idee non sono prodotte da noi, so­
no da noi subite, ricevute. E, poiché le idee devono dipendere da
uno spirito, quelle che non dipendono da noi dipendono da Dio
(Trattato, I, 28). « Le idee impresse nei sensi dall'Autore della na­
tura sono chiamate cose reali» (ibid., 3 3 ). La natura non è dunque
negata: restano tutte le cose che vediamo e tocchiamo. « La sola
cosa di cui nego l'esistenza è quella che i :filosofi chiamano materia o
sostanza corporea» (ibid., 35), cioè un al di là della cosa sentita.
Un al di là massiccio, inerte e inintelligibile, però; infatti c'è un
al di là del sentito che Berkeley ammette, ed è Dio: Dio che è visto
proprio in quei segni sensibili che sono le cose, ossia le idee.
Nel IV dialogo dell'Alcifrone Berkeley fa dire a Eufranore:
« Per Alcifrone come persona s'intende un individuo pensante, e
non i capelli, la pelle o la superficie visibile [ ... ] . E, ammettendo
questo, ammettete che, in senso proprio, non vedo Alcifrone, cioè
quell'individuo pensante, ma soltanto quei segni e indizi sensibili
che suggeriscono e dimostrano l'esistenza di quell'invisibile princi­
pio pensante o anima. Proprio cosl, nella stessissima maniera. mi
286 FILOSOFIA MODERNA

sembra che, sebbene io non possa osservare con gli occhi della car­
ne Dio invisibile, tuttavia nel senso più rigoroso osservo e percepi­
sco con tutti i miei sensi tali segni e indizi, tali effetti e operazioni,
da suggerire, indicare e dimostrare un Dio invisibile cosl certamen­
te, e con la stessa evidenza, almeno, con cui altri segni percepiti dal
senso mi suggeriscono l'esistenza della vostra anima, spirito o prin­
cipio pensante ... (Al.cifrane, IV, 5; trad. Guzzo, p. 205).

6. L'etica

L'Alcifrone o Il filosofo minuto consta di sette dialoghi, conte­


nenti, come dice il titolo,« Un'apologia della Religione cristiana con­
tro quelli che son chiamati liberi pensatori ». Alcifrone vuol dire
testa forte: « spiriti forti » si chiamavano allora coloro che, procla­
mando il supremo valore della ragione, negavano la Rivelazione e
finivano spesso col negare anche l'esistenza di Dio e l'immortalità
dell'anima. Il termine « filosofo minuto » è preso da Cicerone (De
Senectute, 86; De divinatione, I, 82): @osofi. minuti sono coloro
che negano l'immortalità dell'anima, che « diminuiscono le cose
di maggior valore ... , riducono al senso tutte le conoscenze, le no­
zioni e teorie della mente; contraggono e degradano la natura
umana al livello basso e meschino della vita animale, e ci assegna­
no soltanto una piccola porzione di tempo invece dell'immorta­
lità» (Ate., I, 10; p. 90).
Il primo dialogo contiene la presentazione degli « spiriti for­
ti », fatta da Alcifrone, ed è tutto pervaso da una fine ironia. Al­
cifrone, gonfio e tronfio, dice che i liberi pensatori sono i primi che
hanno iniziato la lotta contro la schiavitù e la superstizione (Alc., I,
2) per liberare da queste catene il pensiero, che è il carattere che di­
stingue l'uomo dalla bestia. Eufranore, che esprime il pensiero di
Berkeley, assente con entusiasmo all'idea di liberare le menti dalla
schiavitù e dalla superstizione e osserva che certo il clero sarà il
più grande amico dei liberi pensatori. Oh! ingenuità, risponde AI.­
cifrane: i preti sono i nostri più grandi nemici (I, 9). I preti sono
tutti di una razza, di qualunque religione siano, fautori di quella
tale schiavitù delle menti dalla quale noi vogliamo liberarle. C'è
un mostro bicipite, potere ecclesiastico e potere politico, che mi­
naccia con una spada di fuoco chi vuol seguire la ragione e il senso
BERKELEY 287

comune (I, 3 ). Alcifrone spiega poi come sia nato il libero pen­
siero. I liberi pensatori hanno osservato che nella storia umana
ci sono religioni diverse e contraddittorie e ne hanno concluso che
tutte sono ugualmente false e fantastiche (I, 6). Le hanno inven­
tate i capi per tenere a freno i popoli (I, 7). Invenzione dei capi
anche l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima (I, 7).
Che cosa è vero per voi, domanda Eufranore? E Alcifrone ri­
sponde: quello in cui tutti gli uomini sono d'accordo: impulsi, ten­
denze naturali al mangiare, al bere, al riposo. E qui viene il ter­
mine « filosofi minuti »; ma Alcifrone lo intende in questo sen­
so: filosofi che traggono le loro conclusioni da una considerazio­
ne minuta, ossia precisa, particolareggiata delle cose, fondata sul­
l'esperienza e non su idee vaghe.
Ma la concezione della vita che hanno questi filosofi, ribatte
Eufranore, rende impossibile la felicità umana, poiché la felicità
umana non può essere quella del singolo, ma deve essere la fe­
licità generale della specie umana (I, 16). Ora - ecco la tesi cen­
trale di Berkeley - è impossibile che gli uomini si comportino
in modo tale da procurare il bene comune, se non sono persuasi
che esiste una legge morale, che è legge divina, e che ci sarà una
vita futura (I, 16).
I liberi pensatori vogliono allora dimostrare che la vita so­
ciale è possibile anche senza la fede in Dio e nell'immortalità del­
l'anima.
Nel secondo dialogo Lisicle ( altro rappresentante dei liberi
pensatori) cerca di dimostrare che anche la ricerca del piacere e
dell'utile individuale può portare al bene pubblico ed espone la
teoria esposta da Mandeville nella Favola della api 8• La presentazione
che Lisicle fa della dottrina di Mandeville è veramente molto sini­
stra: altro che fondare la vita sociale sul timor di Dio, come aveva
detto nel I Dialogo il pio Eufranore! La vita sociale si fonda sui vizi
degli uomini. Pensate a quanto lavoro dànno i bevitori e gli ubria-

8
BERN. MANDEVILLE ( 1670-1733) pubblicò anonimo nel 1705 un poemetto allego­
rico sull'alveare (L'alveare in fermento), nel quale faceva vedere che quando le api
diventano virtuose, l'alveare va in rovina. Nel 1714, con lo stesso concetto, pubblicò
(sempre anonimo) la Favola delle api che portava questo significativo sottotitolo: Viz:ii
privati, pubblici benefici. Con un commento: Ricerca sull'origine della morale. Nell'edi­
zione del 1729 seguivano sei dialoghi, oltre a una giustificazione della teoria esposta.
Nel 1732 Mandeville rispose anche a Berkeley.
288 FILOSOFIA MODERNA

coni: ai coltivatori di luppolo, ai birrai, ai bottai, agli osti... E la


considerazione si ripete per i giuocatori, le donne di mal affare ecc.
Che cosa voleva dire Mandeville? A sentir lui, nelle spiega­
zioni, giustificazioni e commenti voleva sostenere una morale rigo­
ristica (contro Shaftesbury) e una concezione pessimistica della na­
tura umana e della vita sociale.
Hutcheson distingue cinque diverse interpretazioni possibili
della Favola delle api: 1) i vizi privati sono per sé pubblici bene­
fici (quindi è una ipocrisia quella di chiamarli vizi); 2) i vizi pri­
vati tendono, provvidenzialmente, a diventare pubblici benefici
( e sarebbe una specie di « astuzia della ragione » che ricava il be­
ne dal male); 3) abili governanti possono far servire anche i vizi
al bene pubblico; 4) quando c'è prosperità generale, nascono fa­
talmente vizi privati; 5) non è fatale, ma è probabile, data la cor­
ruzione dell'uomo, che la pubblica prosperità dia luogo a vizi pri­
vati. Mandeville disse che l'interpretazione esatta era la terza, ma
Berkeley non intendeva così lo scritto di Mandeville, dava la pri­
ma interpretazione, e ne era indignato.
Oltre l'indignazione, tuttavia, egli espone anche argomenti
contro la tesi di Mandeville. Un primo argomento resta sul terreno
dell'avversario. Non è vero che i vizi privati siano la strada miglio­
re per arrivare alla prosperità pubblica: un ubriacone infatti berrà
molta birra, ma la beve per pochi anni, perché poi si ammala; un
uomo morigerato, invece, che ha più probabilità di essere longe­
vo, finirà col berne di più, in tutta la sua vita. Ma questo è un ar­
gomento ad hominem; quello su cui più insiste Berkeley è la ne­
gazione del presupposto dal quale parte la teoria di Mandeville: il
presupposto è che l'uomo abbia solo il senso e l'appetito per sue
guide (Alc., II, 14). Se, invece, l'uomo non è soltanto senso, ma
ha « intelletto, ragione, un istinto più alto e una vita più nobile »,
le conclusioni da trarre su ciò che è naturale per l'uomo saranno
diverse da quelle di Mandeville. « Essendo, perciò, la ragione la
parte principale della nostra natura, tutto quello che è più ragione­
vole sembrerebbe più naturale all'uomo ... L'uomo e la bestia,
avendo nature diverse, sembra che abbiano facoltà diverse, godi­
menti diversi, e specie diverse di felicità » (II, 14).
Alla fine del secondo dialogo, Alcifrone introduce al terzo: io
non credo, dice, che la vita sociale si basi sui vizi privati, sull'egoi­
smo; ma non credo neppure che si fondi sul timor di Dio: si fon-
BERKELEY 289

da sul senso, sull'apprezzamento della bellezza morale: « Per...


analizzare la virtù nei suoi principì... dovete comprendere che c'è
un'idea di Bellezza, naturale alla mente dell'uomo. Questa tutti gli
uomini desiderano, di questa si compiacciono e si dilettano, sem­
plicemente per un istinto di natura. Non occorrono argomenti per
far discernere e approvare a un uomo ciò che è bello; esso colpisce
a prima vista e attrae senza una ragione. E come questa bellezza si
trova nelle cose corporee, così c'è, analoga ad essa, una bellezza
d'altra specie ... nel mondo morale». (Alc., III, 3; p. 169).
A differenza della teoria edonistica, dunque, questa ammette:
1) che il bene morale sia diverso dal piacere sensibile, sia un bene
peculiare all'uomo; 2) che il bene morale sia oggetto di una cono­
scenza immediata, di uno speciale « senso» (senso come intuizione),
analogo al senso estetico, al senso del bello. È questa la teoria di
Shaftesbury, che Berkeley non accetta perché ritiene che l'etica deb­
ba essere fondata sulla religione - almeno su una teologia naturale.
Senza riconoscere l'esistenza di Dio, della Provvidenza, di una san­
zione ultraterrena non si possono fondare le norme morali.
Si capisce quindi che i dialoghi seguenti siano dedicati a dimo­
strare: l'esistenza di Dio (il quarto), il quale si manifesta nel mondo,
perché il mondo non è altro che il linguaggio col quale Dio parla
all'uomo; l'utilità della religione cristiana (il quinto) - e qui c'è
ancora una polemica con Shaftesbury -; la verità della religione
cristiana come è rivelata nella Scrittura (il sesto) e a difendere que­
sta fede contro alcune obiezioni di Alcifrone (il settimo). L'ultima
obiezione è rivolta contro la libertà del volere, che Berkeley afferma.
CAPITOLO TREDICESIMO

L'ETICA DEL « MORAL SENSE »

1. Shaftesbury
ANToNY AsHLEY CooPER, conte di SHAFTESBURY (1671-1713)
fu educato da Giovanni Locke, e del maestro ereditò le conce­
zioni liberali in politica, ma non l'avversione all'innatismo, so­
pra tutto per quel che riguarda i principt morali. Anzi, in una
lettera ad uno studente 1, dice che Locke col negare ogni idea in­
nata, ha contribuito alla rovina della morale. E la morale è per
Shaftesbury l'unica parte davvero importante della filosofia. Po­
co importano le teorie sullo spazio e sul vuoto, sulla sostanza,
sulle idee semplici e complesse: quello che importa è conoscere
l'uomo, avere un concetto del bene e del male, sapere come ci dob­
biamo comportare. A questi problemi sono dedicati i saggi di
Shaftesbury, raccolti sotto il titolo generale di Characteristics of
Men, Manners, Opinions, Times 2• Lo scritto più sistematico è il
Saggio sulla virtù e il merito 3•
Shaftesbury non fu filosofo di professione: fu un gentiluomo
colto, animato da interessi morali e politici. Vissuto in un'epoca
e in un paese in cui le controversie religiose erano violente, e

* Una preziosa e ampia antologia di questi moralisti inglesi del '700 è la raccolta
curata da L. A. SELBY BIGGE, British Moralists, Oxford, 1897, ristampata nelle Dover
Publications, New York, 1965, 2 voll.
1 Citata da L. BANDINI, Shaftesbury, Bari, Laterza, 1930, p. 145. Su Shaftesbury si
veda L. ZANI, L'etica di Lord Shaftesbury, Milano, Marzorati, 1954; F. PISELLI,
Shaftesbury. Etica e cosmologia, in « Riv. di filos. neoscolastica» LXI (1969), pp. 425-460.
1 Ed. a cura di J. M. Robertson, Londra, 1900.
3
Traduzione italiana a cura di E. Garin, Torino, Einaudi, 1946.
292 FILOSOFIA MODERNA

portavano a lotte e persecuzioni, è animato da una profonda diffi­


denza verso la religione positiva e dal desiderio di una religione na­
turale che basti a giustificare la morale. Per lui la vera religione si
riduce a moralità. Della religione positiva, poi, ha in antipatia e in
sospetto non solo tutto ciò che può portare all'intolleranza e al­
l'odio fra gli uomini, ma anche ogni forma di misticismo. Questo
atteggiamento si manifesta specialmente nella Lettera sull'entu­
siasmo in cui, riferendosi alle manifestazioni di entusiasmo profe­
tico alle quali si davano alcuni protestanti francesi rifugiatisi in
Inghilterra in seguito alla revoca dell'Editto di Nantes, Shaftesbury
esprime un profondo disprezzo per queste manifestazioni. Egli
raccomanda però al ministro Lord Sommers, al quale è diretta la
lettera, di non reprimere quelle manifestazioni con la violenza,
ma di soffocarle invece nel ridicolo. Era questa, infatti, dell'ironia
e del ridicolo, un'arma nella cui efficacia Shaftesbury aveva grande
fiducia. Di qui l'altro suo Saggio sulla libertà della satira.
Il problema dal quale parte il Saggio sulla virtù e il merito è
questo: la virtù dipende dalla religione o ne è indipendente? Nel
nostro concetto sembrano strettamente unite, ma l'esperienza, in­
vece, ci fa conoscere uomini religiosi immorali e uomini non religiosi
onesti. Diremo allora, come gli « spiriti forti » (gli Alcifroni ber­
keleyani), che la religione positiva è un male?
Shaftesbury non si mette dalla parte degli « spiriti forti » e osser­
va che, fra questi da una parte e coloro che affermano l'impos­
sibilità di una morale senza religione, « ... passerà dei momenti
assai brutti un autore che intende sostenere la religione e la virtù
senza sminuire la forza di nessuna delle due, ma concedendo ad
entrambe il proprio dominio e i propri diritti » (Saggio sulla vir­
tù e il merito, trad. Garin, p. 5).
La religione, o l'atteggiamento religioso, può assumere se­
condo Shaftesbury quattro forme: teismo, ateismo, politeismo,
fede nei demoni. La virtù è certo cosa buona, è un bene. Vedia­
mo allora cosa sia il bene. Il bene di ogni cosa è il fine per cui è
fatta. Nel Saggio sulla virtù e il merito questa affermazione è mes­
sa innanzi senza nessuna giustificazione; nel dialogo I moralisti,
invece, questa tesi è inquadrata in una concezione platonica della
realtà, secondo la quale l'universo è animato e retto da un prin­
cipio intelligente, che è ragione dell'armonia e finalità della natura.
E poiché questo principio o genio animatore è concepito - a
L'ETICA DEL « MORAL SENSE » 29.3

quanto sembra - come immanente alla natura stessa, si sono rile­


vate analogie fra Shaftesbury e Giordano Bruno. Poiché il bene è
il fine, è la corrispondenza di una cosa all'armonia dell'universo,
si capisce che il male consista nell'andar contro al proprio fine o
all'ordine dell'universo. La tendenza a conseguire il bene proprio
è dunque buona; purché non urti contro « l'interesse comune e
della specie ». Anzi, se la tendenza al proprio interesse e alla pro­
pria conservazione mancasse del tutto, non si potrebbe neppur con­
seguire il bene comune.
Dopo questa inquadratura finalistica, ci aspetteremmo di sen­
tir dedurre la determinazione del bene dell'uomo - che è la vir­
tù - dalla natura dell'uomo. Invece, giunti alla sezione Y della
II parte del Saggio sulla virtù, ci troviamo di fronte a una svolta:
il bene dell'uomo è da lui immediatamente intuito. L'uomo, dice
Shaftesbury, è capace di idee generali e di. riflessione: può cono­
scere le proprie azioni e inclinazioni e sentire affetto verso i suoi
stessi affetti. E, come gli oggetti esteriori suscitano in noi un senso
di piacere quando sono belli, e un senso di repulsione quando sono
brutti, cosl le azioni umane, sulle quali siamo capaci di riflettere,
suscitano in noi un senso di piacere, di approvazione quando sono
buone, e un senso di dispiacere e disapprovazione quando sono cat­
tive (Saggio sulla virtù, trad. Garin. p. 21 ). La conoscenza della
bontà o malizia di un'azione non è dunque dedotta con la ragione
dai caratteri essenziali della natura umana, ma è immediatamente
sentita, come la bellezza. Immediatamente percepita e immedia­
tamente amata, quando non si frappongano certi ostacoli, dei quali
diremo due parole.
Affinché un'azione sia virtuosa bisogna poi che anche l'inten­
zione sia buona. Infatti, negli esseri che operano senza sapere il
perché della loro attività ci può essere bontà naturale, ma non vir­
tù, ossia bontà morale. Un cavallo, per esempio, può essere buono,
ossia adatto allo scopo, ma non virtuoso. E cosl, negli uomini che
operano bene solo per consuetudine o per mansuetudine naturale,
ma senza avere l'idea dell'onesto, non c'è vera virtù. E ancor me­
no c'è n'è quando l'azione è esteriormente conforme al fine del­
l'individuo e della specie, ma è determinata da una intenzione cat­
tiva. E, viceversa, un'azione esteriormente dannosa non è moral­
mente cattiva, se non è voluta (per es. l'uccisione di un uomo com­
piuta per errore). Hanno dunque una grande importanza, per la
294 FILOSOFIA MODERNA

bontà delle nostre azioni, le nostre convinzioni, « opinioni, cre­


denze e teorie».
Qui si pone e si risolve il problema dal quale era partita la
ricerca: rapporto fra moralità e religione, poiché la religione è
appunto un sistema di « credenze». Ora per Shaftesbury le reli­
gioni positive sono più spesso dannose che favorevoli alla mora­
lità, come si vede nell'esame che egli fa delle cause che distolgono
gli uomini dalla virtù, cause che si riducono a tre: 1) « perdita del
senso naturale della giustizia e dell'ingiustizia; 2) senso sbagliato
di esse; 3) opposizione di affezioni contrarie al senso della giusti­
zia» (trad. Garin, p. 29). Il primo caso non può mai avverarsi
totalmente, appunto perché si tratta di un « senso », ossia di una
intuizione originaria. Perciò è anche raro, dice Shaftesbury tro­
vare un uomo totalmente malvagio. Sul senso morale non influi­
scono né l'ateismo né il teismo, poiché esso è anteriore ad ogni
convinzione religiosa. « Che una creatura capace di riflessione pos­
sa avere... un senso del bene e del male, prima ancora che si pos­
sa formare una definita nozione di Dio, è cosa che difficilmente
si potrebbe porre in dubbio. Non si può infatti supporre... che un
essere come l'uomo, che dalla fanciullezza procede lentamente e
gradualmente verso la ragione e la riflessione, giunga fin da prin­
cipio a sottili speculazioni e riflessioni intorno all'esistenza di
Dio» (Saggio sulla virtù, p. 38). Dunque né il teismo può dare
il senso morale, come non dà la vista o il senso estetico; né l'atei­
smo può toglierlo.
Esaminiamo allora la seconda causa che distoglie l'uomo dal­
la virtù: la deformazione del senso morale. Qui la falsa religione
è più pericolosa dell'ateismo, dice Shaftesbury. Infatti, una reli­
gione che rappresenti falsamente Dio, rappresenti per esempio
un dio licenzioso come Giove, o tiranno e vendicatore, porta
l'uomo a venerare un tale Dio, e questa venerazione è contraria
al senso morale. Se poi si concepisce Dio come quello dal cui
arbitrio dipendono il bene e il male, sì che il bene sia definito
come ciò che Dio comanda e male ciò che Dio proibisce, senza
rigu ardo al valore intrinseco di ciò che Dio comanda o proibisce,
allora bene e male diventano termini privi di significato (op. cit.,
p. 36).
Infine il terzo ostacolo alla virtù è quello che viene dalle pas­
sioni contrarie. E qui la religione può diventare ostacolo alla vir-
L'ETICA DEL « MORAL SENSE » 295

tù se insegna ad obbedire a Dio solo per timore della pena e per


desiderio della ricompensa, poiché toglie l'intenzione morale che
è un requisito necessario alla virtù, e la sostituisce con una inten­
zione egoistica. Ma può anche favorire la moralità, se insegna ad
amare Dio per la sua infinita perfezione, perché in questo caso
rafforza la tendenza morale, e conforta l'uomo nella tentazione,
insegnandogli che Dio è testimone delle nostre azioni anche quan­
do gli uomini non le vedono o le giudicano ingiustamente. Anzi
non si può negare che anche il timore della pena e la speranza
della ricompensa, quando non siano motivo principale, ma solo
ausiliare, giovino a mantenere gli uomini nella via della virtù.
Inoltre, la persuasione in un ordine razionale dell'universo è con­
forme a sane convinzioni morali.
Nel secondo libro del Saggio sulla virtù e il merito, Shaftesbury
tratta due problemi: quello dell'obbligazione e quello dei rap­
porti tra virtù e felicità. In un'etica :finalistica, come quella di
Shaftesbury il problema dell'obbligazione non offre diflìcoltà. Dob­
biamo essere virtuosi per essere pienamente noi stessi. E per es­
sere pienamente noi stessi, sottolinea Shaftesbury, non possiamo
prescindere dalla totalità di cui facciamo parte (op. cit., p. 55).
Ora nel seguire le inclinazioni della nostra natura, nel cercar di
essere pienamente noi stessi, non possiamo non essere felici;
quindi l'esercizio della virtù per sé, e non per un premio che ven­
ga dal di fuori, porta necessariamente alla felicità. Anche questa
intrinseca unione di virtù e felicità è caratteristica di ogni etica
:finalistica, poiché il conseguimento del fine si identifica con la
perfezione, la pienezza dell'essere, e quindi ha da portare gioia
(intesa appunto come senso, coscienza della pienezza raggiunta).
Ma si noti la colorazione particolare che questa tesi assume
nell'etica di Shaftesbury, dato il suo intuizionismo. Come la bontà
di un'azione è immediatamente sentita, cosl anche la perfezione
che essa porta deve essere immediatamente sentita; quindi Shafte­
sbury cerca in ogni modo di dimostrare che il piacere portato dal­
l'esercizio dell'attività morale è superiore a quello portato da
un'attività egoistica - che è una cosa un po' difficile da dimo­
strare -. Possiamo capire quindi le obiezioni di Berkeley su
questo punto: se uno ha una vitalità non troppo esuberante, è in
una felice posizione sociale, che gli permette di godere dei pia­
ceri superiori della contemplazione, può darsi che trovi più gioia
296 FILOSOFIA MODERNA

nell'esercizio della virtù che in una attività egoistica, ma può


valer questo per ogni uomo? (Alci/rane. III, 13).
Vediamo ora quali siano le tendenze o « passioni » dell'uomo
secondo Shaftesbury.
Ci sono nell'uomo: 1) tendenze o « affezioni » verso il bene
degli altri o « bene pubblico », ossia tendenze sociali; 2) tenden­
ze al bene individuale; 3) affezioni opposte alle tendenze natu­
rali, affezioni innaturali. Le prime e le seconde tendenze sono
naturali, ma affinché ci sia bontà morale occorre che i due tipi di
tendenze siano contemperati, equilibrati. Ed è possibile eccede­
re non solo nella tendenza al bene individuale, ma anche nelle
tendenze altruistiche, per esempio nella pietà. Tuttavia la causa
più frequente di immoralità è il prevalere delle tendenze al bene
individuale su quelle al bene « pubblico » o comune. A ciò con­
duce anche il pregiudizio che solo la soddisfazione delle tenden­
ze al bene individuale arrechi piacere. Bisogna dunque combat­
tere questo pregiudizio e mostrare che l'uomo non può essere pie­
namente uomo, e quindi non può provare piena e completa gioia
se non si inserisce nel tutto e quindi se non segue le inclinazioni
sociali. Per dimostrare che le affezioni sociali sono fonte di gioia,
Shaftesbury distingue piaceri del corpo e piaceri dello spirito.
Che i piaceri dello spirito siano più forti di quelli del corpo è
provato dal fatto che gli uomini sacrificano i secondi ai primi.
Ora i piaceri dello spirito sono quelli che o seguono immediata­
mente le affezioni sociali -. - come la gioia della generosità, della
benevolenza - o derivano mediatamente da esse - come quei
piaceri che nascono o sono rafforzati dalla compagnia degli altri
o dal riconoscimento degli altri. « Cosicché se si potesse calco­
lare il piacere... si potrebbe dire con esattezza che da queste due
sorgenti, la comunicazione o partecipazione agli altrui piaceri e
la fede nell'altrui stima, nascono più dei nove decimi di ogni
gioia nella vita » (Saggio sulla virtù, trad. Garin, p. 78 ).
Le affezioni sociali, per essere moralmente buone, debbono,
almeno potenzialmente, essere aperte a tutta . l'umanità. Dico:
almeno potenzialmente, nel senso che non debbono escludere po­
sitivamente nessuno, non debbono rivolgersi ad alcuni uomini
con danno di altri. La benevolenza verso gli altri è fonte di una
grande gioia: quella data dalla tranquillità della coscienza, mentre
l'odio verso gli altri tormenta la coscienza.
L'ETICA DEL « MORAL SENSE » 297

L'eccesso nelle tendenze alla propria soddisfazione individua­


le (eccesso nel quale consiste l'egoismo) è fonte di infelicità. Per
esempio, l'eccessivo amore alla propria vita genera la viltà, la pau­
ra di perderla e questa paura talora porta a perdere la vita, men­
tre talora è proprio il coraggio quello che la salva. Considerazioni
analoghe si possono fare a proposito degli eccessi nel bere e nel
mangiare, nello sdegno per le offese ecc.
Ma non sta in questi eccessi il male radicale; il male radicale
sta in quelle tendenze innaturali che distruggono la benevolenza: il
desiderio del male altrui, la crudeltà, l'invidia, la tirannia (op. cit.
p. 115). E queste tendenze sono anche seguite dalla massima in­
felicità.

2. Hutcheson

FRANCIS HUTCHESON (1694-1746) dipende in buona parte da


Shaftesbury, ma espone in modo più sistematico le sue dottrine.
Le opere che più interessano per conoscere la sua etica sono la Ri­
4
cerca sul!'origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, del 1725
(il cui sottotitolo indica già la dipendenza da Shaftesbury) e il
Saggio sulla natura e la guida delle passioni, con illustrazioni sul
senso morale 5, del 1728.
La Ricerca contiene due trattati, uno sulla bellezza e uno sulla
virtù. Il primo trattato infatti si propone di dimostrare che abbia­
mo un senso della bellezza immediato, suscitato in noi necessaria­
mente dalla presenza di certi oggetti, ma distinto dai sensi esterni.
Che il senso della bellezza sia distinto dai sensi esterni è provato
dal fatto che ci sono uomini che hanno vista e udito perfetti, ep-

• An Jnquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue: in two Treatises,
in which the principles of the late Earl of Shaftesbury are explained and defended,
against the Author of the Fable of the Bees; and the Ideas of Moral Good and Evil
are established, according to the Sentiments of the Ancient Moralists. with an attempt
to introduce a Mathematical Calculation in subjects of Morality. Cito dalla 5' ed., Lon­
don, 1753 (il numero dei paragrafi non corrisponde sempre a quello della 2• ed., ripro­
dotto da Selby - Bigge, British Moralists, cit.).
' An Essay on the Nature and Conduct of the Passions, with Illustration on the
Moral Sense.
Su Hutcheson si veda G. DE CRESCENZO, Francis Hutcheson e il suo tempo, Torino,
Taylor, 1968; L. VIGONE, L'etica del senso morale in F. Hutcheson, Milano, Marzo­
rati, 1954.
298 FILOSOFIA MODERNA

pure non sanno apprezzare né la bellezza di un quadro ( o di uno


spettacolo naturale) né quella di una musica. Il senso della bel­
lezza è chiamato da Hutcheson fine Genius o Taste.
Il senso della bellezza o « gusto » è distinto dall'interesse per
l'oggetto, dall'apprezzamento della sua utilità, poiché non è il
gusto di possedere l'oggetto bello, ma è il gusto di contemplarlo.
La bellezza non è una proprietà delle cose, una qualità indipenden­
te dallo spirito umano, ma è analoga alle qualità secondarie; è
suscitata nel nostro spirito da certi caratteri delle cose, e questi ca­
ratteri sono la regolarità, l'uniformità nella varietà, che è a sua
volta un segno della razionalità, della finalità della natura.
Analogo al senso della bellezza è il senso morale, la capacità
di cogliere immediatamente la bontà morale delle azioni. E come
il « gusto » non è la percezione dell'utilità delle cose, cosl il sen­
so morale non è e non dipende dalla conoscenza di una cosa come
vantaggiosa per noi. E qui Hutcheson fa degli esempi, fa una certa
fenomenologia delle nostre valutazioni. L'apprezzamento che dia­
mo, ad esempio, di un campo che ci rende è ben diverso da quel­
lo che diamo di un amico generoso, il sentimento di benevolenza
verso un uomo buono è diverso da quello che abbiamo verso una
cosa utile. La differenza tra valutazione morale e valutazione uti­
litaria si coglie anche in un esempio come questo: supponiamo
che la persecuzione religiosa in un paese vicino faccia emigrare
nel nostro un certo numero di artigiani che ci insegnano l'arte lo­
ro e quindi ci sono utili: non per questo noi giudichiamo moral­
mente buona quella persecuzione. Al contrario: supponiamo che
un borgomastro di un paese vicino organizzi una ribellione al ti­
ranno e costituisca una industriosa repubblica che ci faccia con­
correnza: non per questo giudichiamo moralmente cattiva l'azione
di quel borgomastro, anzi, diciamo che è giusta quella ribellione
(Inquiry., tr. II, Sect. I, 3 ). La capacità di valutare moralmente è
una facoltà originaria come la sensibilità o il senso estetico. « Co­
me l'Autore della natura ci ha determinato a [ossia ci ha reso ca­
paci di] ricevere, mediante i sensi esterni, idee piacevoli o sgrade­
voli degli oggetti, secondo che siano utili o nocivi ai nostri corpi; e
a ricevere dagli oggetti uniformi i piaceri della bellezza e dell'ar­
monia ... , così ci ha dato un senso morale (moral sense) per dirigere
le nostre azioni e per darci piaceri ancora più nobili; sl che, men­
tre miriamo solo al bene degli altri, inconsapevolmente (unde-
L'ETICA DEL « MORAL SENSE » 299

signedly) promuoviamo il nostro maggior bene proprio» (op. cit.,


tr. II, Sect. I, 8).
Ciò che intuiamo come bene è la benevolenza verso gli altri,
che è radicata in una inclinazione non meno naturale di quella
al proprio vantaggio. « C'è nella nostra natura (nella natura uma­
na) una inclinazione a procurare il bene degli altri, ossia un istinto,
anteriore ad ogni ragione che dipenda dall'interesse, che ci porta
ad amare gli altri, cosi come il senso morale ci determina ad appro­
vare le azioni che sono mosse da questo amore ... » (op. cit., Sect.
II, 9). Ancora più chiaramente: « C'è nella natura umana un de­
siderio irriducibile (ultimate) e disinteressato della felicità degli
altri; e il nostro senso morale ci fa approvare come virtuose solo
quelle azioni che procedono, almeno in parte, da tale desiderio »
(op. cit., Sect. II, n. 6).
Tutte le virtù si fondano sulla benevolenza (che, nel Saggio
sulla natura... delle passioni, è chiamato anche sensus communis ),
la quale può avere diversi gradi: 1) può essere diretta verso ogni
essere capace di felicità; 2) può rivolgersi solo ad un gruppo di
persone (concittadini, amici, familiari); 3) può assumere forme
particolari ed essere pietà, simpatia, gioia del bene altrui (con­
gratulation). La prima è la migliore, poi viene la seconda. E poi­
ché « ogni agente morale considera se stesso come parte di que­
sto sistema razionale », ossia dell'umanità, ognuno deve amare
anche se stesso con benevolenza» (op. cit., Sect., III, 7).
In genere la migliore azione è quella che procura la maggior
felicità del maggior numero (op. cit., Sect., III, 8).
CAPITOLO QUATTORDICESIMO

D. HUME
(1711-1776)

1. Cenni biografici 1

David Hume nacque nel 1711 a Edimburgo, vi frequentò l'Uni­


versità, dove avrebbe dovuto seguire gli studi giuridici, ma ap­
profondì invece gli studi letterari e :filosofici. Nel 17 34 si recò in
Francia e trascorse un lungo periodo a La Flèche dove meditò e
in parte elaborò il Trattato sulla natura umana. Tornò in Inghil­
terra nel 173 7, e nel 1739 pubblicò 1 primi due libri ( sull'intel-

* Le opere filosofiche di Hume furono raccolte e pubblicate a cura di T. H.


Green e T. H. Grose: D. HuME, Philosophical Works, London, 1874-75, 4 voll. (ri­
stampa anastatica Aalen, Scientia, 1964). Il Tratìato e le Ricerche sono editi anche a
cura di L. A. Selby-Bigge, Oxford, Clarendon Press, 1888 (mi servo della ristampa del
1951). Le Lettere sono pubblicate a cura di J. T. Y. Greig: The Letters of D. H.,
Oxford, 1942. Traduzione italiana: D. HuME, Opere, a cura di E. Lecaldano ed E. Mi­
stretta, Bari, Laterza, 1971, 2 voll. (Contengono: Trattato sulla natura umana, trad.
Carlini, Lecaldano, Mistretta; Estratto del Trattato, Dialoghi sulla religione naturale,
Ricerche sull'intelletto umano e sui principi della morale, trad. M. Dal Pra; Saggi mo­
rali, politici e letterari, trad. Dal Pra, Lecaldano, Misul, Preti; Storia naturale della
religione, trad. U. Forti).
Bibliografia: T. E. ]ESSOP, Bibliography of D. Hume and of Scottish Philosophy from
F. Hutcheson to Lord Balfour, London and Hull, A. Broun and Sons, 1938.
Su Hume: G. DELLA VOLPE, La filosofia dell'esperienza di D. Hume, Firenze, San­
soni, 1933-1935, 2 voli.; N. KEMP SMITH, The Philosophy of D. H., London, Macmillan,
1941; M. DAL PRA, Hume, Milano, Bocca, 1949; E. C. MosSNER, The Life of D. H.,
Edinburgh... 1955; A. SANTUCCI, Sistema e ricerca in D. H., Bari, Laterza, 1969.
M. DAL PRA, Hume e la scienza della natura umana, Bari, Laterza, 1973. Il fase. 4
del 1967 della « Rivista critica di Storia della filosofia» è dedicato a Hume e con­
tiene una bibliografia humiana dal 1937 al 1966.
1
Mi servo per questi cenni dell'ottima Introduzione di E. Lecaldano alle Opere
di Hume, cit., voi. I, pp. VII-CI.
302 FILOSOFIA MODERNA

letto e sulle passioni) dell'opera, nel 1740 il terzo libro (sulla


morale). Ma l'opera non ebbe successo e procurò inoltre al suo
autore accuse di eresia, deismo, scetticismo, che gli impedirono
di ottenere la cattedra di filosofia morale all'Università di Edim­
burgo, nel 1745. Hume fu prima precettore del marchese di An­
nendale, poi, nel 1746, partecipò, al seguito del generale St. Clair,
a una spedizione militare nella Francia del Nord e nel 1748 a
una ambasceria presso le corti di Vienna e di Torino. Nel 1748
pubblicò i Saggi filosofici sull'intelletto umano che esponevano
sotto nuova forma la dottrina contenuta nel primo libro del Trat­
tato e nel 1751 la Ricerca sui principi della morale, che esponeva
la dottrina del III libro del Trattato. Nella racccolta dei Saggi
pubblicata nel 1758 (Essays and Treatises on Severa! Subjects)
Hume dava ai Saggi filosofici sull'intelletto il titolo Ricerca sul­
l'intelletto umano. In questa raccolta erano contenuti anche i
Discorsi politici usciti in prima edizione nel 1752.
Dal 1752 si mise a scrivere una Storia d'Inghilterra: i due
primi volumi, dedicati all'Inghilterra sotto gli Stuart, uscirono
nel 1754 e nel 1756. L'intera Storia d'Inghilterra, dall'invasione
di Giulio Cesare al 1688 uscì nel 1762. Nel 1757 Hume pubbli­
cò Quattro dissertazioni, una delle quali è la Storia naturale della
religione. Le dissertazioni avrebbero dovuto essere cinque e com­
prenderne una sull'immortalità dell'anima e una sul suicidio, ma
queste due non furono pubblicate e furono sostituite da un sag­
gio su La regola del gusto per evitare l'inasprirsi dell'opposizione,
già molto forte, della Chiesa scozzese.
Dal 1763 al 1766 fu a Parigi ed ebbe contatti e scambi di idee
con i maggiori illuministi francesi. Nel 1766 tornò in Inghilterra e
nel 1767 ebbe per un anno la carica di Segretario di Stato. Trascorse
gli ultimi anni a Edimburgo dove rivide per la pubblicazione i Dia­
loghi sulla religione naturale, già redatti nel 1751. L'opera uscì
però solo dopo la sua morte.

2. Hume e Hutcheson

Secondo l'interpretazione di N. Kemp Smith, la :filosofia di Hu­


me nasce da una ricerca sui principi della morale e dall'estensione
ai giudizi di esistenza della teoria di Hutcheson sui giudizi morali.
HUME 303

Hutcheson aveva detto che i giudizi di valore (estetici e morali)


non sono fondati su una evidenza oggettiva, ma su un sentimento:
Hume ha applicato questa teoria anche ai giudizi di esistenza. La
dottrina di Rum.e è quindi, secondo questa interpretazione, una dot­
trina del primato del sentimento, ed è espressa sinteticamente in que­
sta frase: « la ragione è, e deve essere la schiava delle passioni »
(Treatise, II, III, 3 ). L'interpretazione di Hume come scettico o
soggettivista è errata, secondo K. Smith, e dipende dall'aver visto
Hume solo nella linea Locke-Berkeley e nell'aver trascurato l'in­
flusso di Hutcheson e la dottrina morale dello stesso Hume. Se­
condo K. Smith Hume non nega l'esistenza di corpi esterni o del
rapporto causale: egli nega semplicemente che di queste realtà si
possa avere conoscenza - in senso stretto - e le affida alla fede
( belief) generata da un sentimento.
N. K. Smith giustifica questa sua interpretazione, oltre che con
la presentazione secondo il suo punto di vista della :filosofia di Hu­
me, anche con due argomenti estrinseci: una nota alla Introduzio­
ne al Trattato e una lettera di Hume. Nella nota alla introduzione
del Trattato Hume cita come suoi predecessori, nel nuovo modo di
studiare la natura umana, Locke, Shaftesbury, Mandeville, Hutche­
son, Butler etc. Ora, eccezion fatta per Locke, gli autori citati sono
tutti moralisti, e moralisti che assegnano una base non-razionale al­
la morale (N. K. SMITH, op. cit., pp. 18-19). Nella lettera del 1734
al suo medico Hume, parlando della sua salute, accenna anche agli
studi che lo affaticarono da giovane e gli rovinarono la salute per un
certo periodo. A diciotto anni, dice Hume in quella lettera, gli si
aprl una nuova prospettiva (a new Scene of Thought) che lo esaltò
oltre misura. In questo periodo aveva letto molti libri di morale:
Cicerone, Seneca e Plutarco. Dopo una fase di cure si riprese e co­
minciò a pensare come dovesse procedere nella ricerca :filosofica.
« Trovai che la :filosofia morale tramandataci dall'antichità soffre
del medesimo difetto di cui soffre la :filosofia naturale degli antichi,
quello cioè di essere del tutto ipotetica e di dipendere più dall'in­
venzione che dall'esperienza. Ognuno consulta la propria fantasia
nel costruire gli schemi della virtù e della felicità, senza badare al­
la natura umana, dalla quale dipende in primo luogo ogni conclu­
sione morale. Presi quindi la risoluzione di fare di questa [la natura
umana] il mio principale oggetto di studio e la fonte dalla quale
trarre ogni verità in fatto di critica [ossia di estetica] e di morale»
304 FILOSOFIA MODERNA

(cit. da K. SMITH, op. cit., p. 16). Dunque, osserva K. Smith, il


problema centrale di Hume, quello dal quale nasce il Trattato, è il
problema morale. Dalla soluzione data a questo dipenderà anche
quella data al problema della conoscenza. Del resto, prendiamo l'in­
troduzione al Trattato e vedremo che, per Hume, tutte le scienze e
le varie parti della :filosofia, logica, estetica e politica, sono in re­
lazione con l'unico sapere che ci interessi per sé: la scienza del­
l'uomo.

3. Impressioni e idee

Per poter valutare l'interpretazione di N. K. Smith, occorre


rivolgersi ai testi di Hume e, in primo luogo, al Trattato sulla na­
tura umana, che è la prima sua opera.
Il Trattato si apre con la distinzione delle percezioni in impres­
sioni e idee. Hume sente il bisogno di fare questa distinzione nel­
l'ambito di quelle che Locke aveva chiamato indistintamente idee;
resta però comune con Locke il concetto dell'idea (e anche dell'im­
pressione) come di ciò che è oggetto, il dato: non il sentire, ma il
sentito. « La differenza fra esse [impressioni e idee] consiste nel
grado diverso di forza e di vivacità con cui colpiscono il nostro spiri­
to... Le percezioni che penetrano con maggior forza e violenza, le
chiamiamo impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo
tutte le sensazioni, passioni ed emozioni quando fanno la loro prima
apparizione nella nostra anima. Per idee, invece, intendo le imma­
gini illanguidite di queste sensazioni...» (Trattato, II, 1) 2 •
Altra distinzione è quella fra percezioni semplici (p. es. un co­
lore o un sapore) e complesse (p. es. una mela).
Per determinare il rapporto fra impressioni e idee, Hume esa­
mina le impressioni e le idee semplici e afferma che 1) le idee sono
in tutto simili alle impressioni fuorché nel grado di vivacità. « Do­
po un esame diligente, oso affermare che... ogni idea semplice ha
un'impressione semplice che le somiglia, e ogni impressione sem­
plice ha un'idea che le corrisponde» (Trattato, I, I, 1). E poiché

' Il primo numero romano indica il libro, il secondo la parte, il numero arabo
la sezione. Cito il primo libro del Trattato nella traduzione Carlini; dei passi citati
degli altri libri la traduzione è mia, perché li avevo già inseriti in questo capitolo
prima che uscisse la traduzione citata delle Opere.
HUME 305

le percezioni complesse risultano dalle impressioni semplici, possia­


mo affermare in generale che le idee sono simili alle impressioni.
2) Le impressioni sono causa delle idee, e non viceversa. Infatti,
se vogliamo dare a qualcuno, per esempio a un bambino, l'idea di
una cosa, dobbiamo prima procurargliene una impressione. È im­
possibile avere l'idea di un colore, per esempio, se non lo si è visto.
Così, osserv2 Hume, ho risolto il problema delle idee innate, pro­
blema che ha dato tanto da fare a Locke. Se infatti prendiamo il ter­
mine idea nel senso humiano, non ci sono idee innate, perché tutte
le idee derivano da impressioni; ma se prendiamo il termine idea
nel senso ampio, in cui lo prendeva Locke, e cioè in un senso che
si estende alle impressioni, allora bisogna dire che queste, le impres­
sioni, sono qualcosa di originario, non derivante da altro.
Le impressioni possono essere di sensazione e di rifiessione, e le
prime sono il dato ultimo, irriducibile: i loro antecedenti sono di
natura fisiologica, non di natura cosciente, quindi l'indagine intor­
no ad esse « spetta piuttosto all'anatomia e alla filosofia naturale che
a quella morale» (Trattato, I, I, 2). Le impressioni di riflessione
« derivano in gran parte dalle nostre idee»; così: un dolore, p. es.,
è una impressione di sensazione; « Di questa impressione una copia
resta nello spirito, ed è quella che chiamiamo idea. Questa idea di
piacere o di dolore, quando torna a operare sull'anima, produce
nuove impressioni di desiderio e di avversione, di speranza o di ti­
more, e queste possono giustamente esser chiamate impressioni di
riflessione, perché da questa derivano» (ibid. ). Fra le impressioni
di sensazione e le impressioni di riflessione c'è dunque di mezzo una
idea, e perciò Hume dice: « Ho preferito cominciare dalle idee».
E qui si può osservare che la trattazione sulle idee sembra pro­
prio essere diretta alla spiegazione delle passioni, e che la nozione
humiana di « riflessione » sembra più vicins. a quella di Hutcheson
che a quella di Locke.
Ci sono idee di memoria e di immaginazione (sez. 3 ): le prime
sono più vivaci e più forti e, nel loro ordine, non dipendono dalla
nostra volontà; l'immaginazione invece può separare e congiungere
ad arbitrio le idee; segue però certi mc-tivi o principi nel combinare
o associare le idee, e questi principi sono la somiglianza, la contiguità
e la causalità. L'associazione è nel mondo delle idee quello che
l'attrazione è nel mondo fisico: dall'associazione nascono le idee
complesse delle relazioni, dei modi, deUe sostanze (Trattato, I, I, 4).
306 FILOSOFIA MODERNA

4. Negazione delle idee astratte o generali

Sulla causalità e la sostanza Hume tornerà in particolare, ma


non potremmo capire le sue tesi su questi argomenti se non par­
lassimo della sua teoria sulle idee astratte o generali, teoria svolta
nella sezione 7a . Hume accetta in pieno il nominalismo di Berkeley,
che cita esplicitamente, come « un grande filosofo».
« ... Le idee generali non sono altro che idee particolari con­
giunte a una certa parola che dà loro un significato più esteso e,
occorrendo, fa sl che se ne richiamino altre individuali simili a lo­
ro» (Trattato, I, I, 7). Per contestare l'esistenza di idee astratte,
Hume osserva che l'idea astratta dovrebbe rappresentare tutti gli
individui di un tipo; l'idea astratta di uomo dovrebbe per esempio
rappresentare tutti gli uomini. Ora potrebbe far questo o rappre­
sentando gli uomini di tutte le possibili grandezze e qualità o non
rappresentando nessuna grandezza o qualità in particolare. Ma la
prima ipotesi è irrealizzabile perché esigerebbe « una capacità scon­
finata della mente». La seconda è pure irrealizzabile perché senza
una nozione precisa del loro grado è impossibile rappresentarsi
grandezza e qualità - e senza rappresentarsi grandezza e qualità
non ci si rappresenta affatto un uomo -. La tesi, poi, che non
è possibile rappresentarsi una grandezza o una qualità senza rap­
presentarsela in un determinato grado è basata su quest'altra (che
avrà una importanza decisiva anche nella critica alla causalità):
tutto ciò che è distinguibile è separabile, ossia tutto ciò che è di­
stinguibile col pensiero è separabile nella realtà. Ora una qualità o
una quantità non possono esserci senza un determinato grado, os­
sia senza esser questa quantità o qualità. Tutto ciò che esiste è in­
dividuale: « è assolutamente assurdo supporre un triangolo real­
mente esistente che non abbia una precisa proporzione di lati e
di angoli. Se questo è assurdo nel fatto e nella realtà, dev'essere
assurdo anche nell'idea » (ibid.) 3•
Sta di fatto però che noi adoperiamo le idee particolari come
se fossero universali, e bisogna spiegare questo fatto. Qui comincia

3
Se ci domandassimo perché Hume dice questo, dovremmo rispondere: perché
per lui l'idea è semplicemente copia dell'impressione. E ci trovere=o di fronte ad
una petizione di principio. Hume afferma che le idee sono copie delle impressioni
perché nega ogni differenza specifica fra nozioni particolari e nozioni universali, e
nega tale differenza perché afferma che le idee sono copie delle impressioni.
HUME 307

la parte positiva della teoria di Hume. Quando abbiamo trovato


una somiglianza fra diversi oggetti" (diverse impressioni), diamo
loro lo stesso nome, e questa abitudine fa si che, quando si risve­
glia l'idea di uno di quegli oggetti, si ripresenta anche il nome, il
quale però « non essendo capace di far rivivere l'idea di tutti que­
sti individui, si limita a toccar l'anima (se cosi posso esprimermi)
e fa rivivere l'abitudine che abbiamo contratta nell'esaminarli.
Essi non sono realmente, di fatto, presenti alla mente, ma solo
in potenza; né li facciamo sorgere tutti nell'immaginazione, ma
ci teniamo pronti a prendere in considerazione l'uno o l'altro di
essi, secondo che ci spinga qualche intento o necessità presente »
(ibid. ).
Hume riconosce che « uno dei fenomeni più straordinari » è
che ragionando su un'idea particolare possiamo dire cose che val­
gono anche per altre. « Cosi se, dicendo triangolo, ci formiamo,
quale idea corrispondente, quella di un particolare triangolo equi­
latero, e in seguito affermassimo che i tre angoli di un triangolo
sono uguali fra loro [ proposizione che varrebbe solo per il trian­
golo equilatero], le altre idee individuali di scaleno e di isoscele,
che avevamo trascurate, farebbero ressa immediatamente nel no­
stro spirito per farci avvertire della falsità di quella proposizione,
per quanto vera in relazione all'idea che ci eravamo formata »
(Trattato, I, I, 7).
Prima di lasciare l'argomento delle idee astratte, Hume vuole
spiegarci come sorga la nozione della distinctio rationis, cioè di
quella distinzione nei nostri concetti alla quale non corrisponde
una distinzione di realtà. Distinzione che egli ha implicitamente
negata quando ha detto che tutto ciò che è distinguibile è sepa­
rabile. Se infatti tutto ciò che è distinguibile è separabile, ogni di­
stinzione è reale, anzi è separazione. Come si spiega dunque, se­
condo Hume, che noi distinguiamo, ad es., la forma di un corpo
dal suo colore? Hume ricorre alla medesima teoria con la quale
ha creduto di spiegare l'uso universale delle idee particolari. Una
sfera di marmo bianco, egli dice, somiglia a una sfera di marmo
nero e a un cubo di marmo bianco, ma sotto diversi aspetti. Noi
chiamiamo colore la somiglianza fra la sfera di marmo bianco e
il cubo; chiamiamo forma la somiglianza fra la sfera bianca e il
cubo bianco.
308 FILOSOFIA MODERNA

Hume riprende dunque il nominalismo berkeleyano. La sua


originalità su questo punto sta, come osserva Della Volpe, nel­
l'aver cercato l'origine dell'universale in una abitudine.

5. Spazio e tempo

La seconda parte del primo libro del Trattato è dedicata alle


idee di spazio e di tempo. Non ci fermeremo a lungo su questa
parte: solo rileveremo come il radicale empirismo humiano, os­
sia il suo tentativo di ridurre ogni idea a impressione, lo porti ad
una conclusione che sembra contraddittoria.
Hume nega l'infinita divisibilità dello spazio, perché la capa­
cità del nostro spirito è limitata, e non può rappresentarsi le in­
finite parti in cui sarebbe divisibile una estensione. « L'immagi­
nazione, deve poter raggiungere un minimum, e dare a sé un'idea;
della quale non si possa concepire suddivisioni, e che non possa es­
ser diminuita senza esser totalmente distrutta » (Trattato, I, II, 1 ).
Però quel minimum deve pure essere esteso, altrimenti non ce lo po­
tremmo rappresentare, secondo Hume; quindi Hume deve concepire
l'estensione come costituita di estesi, ma indivisibili.

6. Causalità. Parte critica

La terza parte del primo libro del Trattato parla della conoscen­
za e della probabilità. Hume prende il termine conoscenza nel signifi­
cato lockiano, ossia come equivalente a giudizio, a percezione di un
rapporto fra idee. Anzi, per conoscema in senso stretto Hume inten­
de la percezione di rapporti necessari fra idee, relations of ideas;
conoscenza infallibile, perché non fa che enunciare ciò che è conte­
nuto nelle idee stesse, non va oltre ciò che è contenuto nell'idea del
soggetto quando enuncia un giudizio. La nozione humiana di rela­
zione fra idee corrisponde press'a poco a quella kantiana di giudizio
analitico o a quella leibniziana di verità di ragione.
Oltre alle relazioni di idee la conoscenza è costituita di « mate­
rie di fatto », ossia di giudizi su un dato di esperienza (giudizi sinte­
tici a posteriori).
Ma c'è una singolare relazione che ci permette di andar oltre ciò
che è contenuto in un'idea, ed è la relazione di causalità. « La causa-
HUME 309

lità sola produce una tale connessione da darci la certezza che all'esi­
stenza o àll'azione di un oggetto segui o precedette un'altra esisten­
za» (Trattato, I, II, 2). In altre parole le« relazioni fra idee» sono
stabilite in base al principio di non-contraddizione; il nesso è quello
dell'identità; nel caso del rapporto causale invece noi stabiliamo
un rapporto necessario, ma di una necessità che non è la contraddit­
torietà del contraddittorio, per usare una espressione di Bontadini.
Come è possibile questo? Si capisce che questo problema humiano
svegliasse Kant dal suo sonno dogmatico.
La relazione di causalità, dicevamo, è quella che ci permette di
connettere necessariamente idee diverse. Non solo: la causalità è la
sola relazione che ci permette di affermare«l'esistenza di oggetti che
non vediamo né sentiamo», l'esistenza di ciò che non è impressione.
Di qui l'importanza della causalità e la necessità di analizzarne il
concetto.
L'idea di causalità, dice Hume, implica quelle di contiguità spa­
ziale e di successione, ma contiene qualcosa di più: l'idea di connes­
sione necessaria. Bisogna dunque vedere come sorga questa idea. E
qui Hume pone due problemi: « 1. Perché diciamo necessario che
tutto ciò che ha un inizio debba avere anche una causa? 2. Perché af­
fermiamo che certe cause particolari debbono necessariamente avere
certi particolari effetti? » (Trattato, I, Il, 2).
La prima proposizione non è una relazione fra idee, non è « né
intuitivamente né dimostrativamente certa», ossia non è tale che il
negarla implichi contraddizione, perché connette idee diverse, e
tutto ciò che è distinguibile è separabile. L'idea di ciò che incomincia
è distinta dall'idea di ciò che è causato, prodotto. Hume ha poi da­
vanti agli occhi, per dir così, alcuni infelici tentativi di dimostrare la
proposizione « ciò che incomincia è causato» (Hobbes, Clarke) e
questi infelici tentativi lo confermano nell'opinione che la propo­
sizione non è una « relazione di idee».
Vediamo dunque se essa può derivare dall'esperienza.
Ora l'esperienza può offrirci solo relazioni fra oggetti parti­
colari. Si capisce quindi che Hume risolva il primo problema nel
secondo: « Perché diciamo che certe particolari cause debbono
avere di necessità certi particolari effetti, e perché facciamo que­
st'inferenza da quelle a questi? » (Trattato, I, III, 3 ).
Il rapporto causale non è percepito, non è colto immediatamen­
te. Su questo punto Hume si ferma poco nel Trattato e indugia in-
310 FILOSOFIA MODERNA

vece a lungo nella Ricerca, sezz. IV e VII. Come il principio gene­


rale «ciò che incomincia è causato » non è una « relazione di idee »,
cosl le asserzioni del tipo « questo è causa di quello » non sono
« materie di fatto », cioè non sono oggetto di esperienza immediata.
Questa tesi è evidente per gli oggetti che conosciamo la prima vol­
ta. « Adamo, anche se si supponga che le sue facoltà razionali fos­
sero... assolutamente perfette, non avrebbe potuto inferire dalla
:fluidità o trasparenza dell'acqua che questa lo poteva soffocare, o
dalla luce e dal calore del fuoco che questo poteva ridurlo in cene­
re » (Ricerca sull'intelletto umano, sez. IV, trad. Dal Pra).
Ma anche per gli oggetti che ci sono noti, non sperimentia­
mo l'azione causale: vediamo solo successioni. Non sperimentia­
mo l'azione di una palla da bigliardo che ne urta un'altra; dicia­
mo che la prima fa muovere la seconda, ma in realtà vediamo
solo che la prima tocca la seconda e la seconda si muove. Dal
contatto fra le due palle potrebbero seguire cento altri fatti di­
versi. Chi mai intuisce il potere nutritivo del pane? i sensi ci in­
formano di alcune proprietà del pane (colore, peso, sapore), ma
se ci si presentasse un corpo simile, ma privo di potere nutritivo,
non ce ne accorgeremmo certo.
Né si dica che noi sperimentiamo l'efficacia della nostra vo­
lontà sui movimenti del nostro corpo: se la sperimentassimo dav­
vero, nessuno l'avrebbe mai negata - e invece Malebranche
l'ha negata -. Ora i filosofi commettono errori, ma non negano
dati di immediata esperienza.

7. La causalità. Parte positiva della dottrina


Visto dunque che l'esistenza di rapporti causali non è né una
relazione di idee né una « materia di fatto », vediamo come si
spiega la nostra persuasione che rapporti causali ci siano.
Quando inferiamo dall'effetto la causa o viceversa, passiamo
sempre da una impressione a un'idea; per es., dall'impressione
del fumo all'idea del fuoco. Ma la relazione di causalità ha que­
sta caratteristica nei confronti di tutte le altre associazioni di idee:
essa non solo richiama un'idea, ma ci dà la persuasione (la fede, il
belief) dell'esistenza dell'oggetto. L'impressione del fumo può ri­
chiamare, per somiglianza, l'idea della nebbia, ma questa relazio­
ne di somiglianza non mi dice che la nebbia esista. La �edesima
HUME 311

impressione può richiamarmi, per contiguità spaziale, quella del ca­


mino di una casa di campagna, ma non mi fa credere che la casa di
campagna esista; invece la relazione di causalità tra fuoco e fumo
mi fa credere, quando vedo il fumo, che ci sia un fuoco che non
vedo.
Per spiegare allora come sorga in noi la nozione di causalità,
Hume si domanda cosa sia la persuasione dell'esistenza di un og­
getto. E risponde: l'idea di esistenza non è una nuova idea ag­
giunta a quella dell'oggetto, ma è la stessa cosa dell'idea di ciò che
concepiamo esistente (Trattato, I, II, 2; I, III, 7). E allora dove
sta la differenza fra avere un'idea e avere la convinzione che ciò
di cui abbiamo l'idea esiste? La differenza, risponde Hume, sta
« nella nostra maniera di concepire » quell'idea, e questa maniera
non è altro che la forza o la vivacità dell'idea. L'idea richiamata
dalla relazione di causalità è un'idea più vivace di quelle richiamate
dalle relazioni di somiglianza o di contiguità. Ecco perché genera
in noi la persuasione (belief) dell'esistenza. Il problema della cau­
salità si riduce quindi a questo: come, da una impressione, pas­
siamo ad un'idea vivace, tale da generare in noi la persuasione del­
l'esistenza dell'oggetto? Hume risponde: mediante l'abitudine che
abbiamo di veder succedersi quelle due specie di impressioni (p.
es. fumo e fuoco). L'abitudine, la ripetizione, fa sì che non soltanto
l'impressione richiami l'idea di ciò che abitualmente l'accompagna,
ma la richiami con una particolare vivacità. La ripetizione del sus­
seguirsi di due impressioni fa sì che ognuna delle due comunichi,
per dir così, qualcosa della sua vivacità all'idea dell'altra e ci fac­
cia credere che anche l'altra esista. Ma se all'esistenza dell'una (at­
testata dall'impressione) si accompagna la persuasione dell'esistenza
dell'altra (persuasione generata dalla vivacità dell'idea), noi sia­
mo persuasi che l'una non possa esistere senza l'altra, ossia siamo
persuasi che fra le due cose ci sia un rapporto necessario. La ripe­
tizione nel susseguirsi di due impressioni non ci dice nulla degli
oggetti stessi (dei loro pretesi poteri, di una loro pretesa efficacia
causale), ma fa nascere nel nostro spirito una associazione di idee,
la quale genera la convinzione (belief) e quindi l'impressione della
connessione necessaria 4•

4 Potremmo fare questo schema:


abitudine➔ vivacità➔ esistenza➔ connessione necessaria.
312 FILOSOFIA MODERNA

Da quando Hume ha lasciato da parte il problema: « Come


possiamo dire che tutto ciò che incomincia è causato? », per dedi­
carsi al secondo: « come possiamo dire che certe particolari cause
abbiano certi particolari effetti? », egli ha lasciato il terreno della
metafisica per entrare in quello dell'epistemologia, della critica
della scienza. Non è certo la metafisica, infatti - né può essere
una filosofia della natura come quella vagheggiata dagli antichi e
dai medievali - quella che riuscirà a determinare le cause parti­
colari (o meglio: specifiche) di certi particolari (specifici) effetti:
il discorso galileiano lo ha dimostrato abbastanza.
E infatti nella sez. 15 della terza parte del primo libro del Trat­
tato (Regole per giudicare delle cause e degli effetti) Hume fa un
discorso di critica della scienza, tratta di regole dell'induzione ap­
plicata alla conoscenza della natura, di regole del ragionamento
scientifico. La teoria di Hume sulla causalità, nella sua parte posi­
tiva, è una teoria dell'induzione 5• E, certo, nell'affermare che le
leggi della fisica sono, teoricamente, solo probabili, tali che il ne­
garle non implichi contraddizione, e sempre rivedibili, Hume - che
prosegue qui la strada già indicata da Locke - è molto più vicino al­
l'epistemologia contemporanea che non Kant.

8. L'esistenza dei corpi

Ma vediamo ora quale importanza abbia la fede (belle/), que­


sta convinzione extra-teoretica, nella filosofia di Hume.
Essa infatti non interviene soltanto nel problema della cau­
salità: è la fede o credenza (che nelle Ricerche è definita senti­
mento) quella che ci permette di affermare l'esistenza di corpi,
come realtà permanenti anche quando non li percepiamo. Finora
infatti abbiamo parlato di impressioni come dati ultimi.

5
Quello che interessa la metafisica è che egli abbia negato che il principio: « ciò
che incomincia è causato » sia una relation of ideas, e lo abbia ridotto ad una sem­
plice generalizzazione delle affermazioni con le quali risaliamo dai particolari effetti
alle particolari cause. Questa saldatura operata da Hume di un principio metafisico
con le proposizioni sui rapporti fra determinate cause e determinati effetti - ossia
con le leggi della fisica -, questa contaminazione fra una tesi metafisica e proposizioni
scienti.fiche è il punto più discutibile della teoria di Hume. È quella che ha influito
su Kant. È quella che ha dato luogo a quell'ambiguo « principio di causalità» che
non si sa bene che cosa voglia dire.
HUME 313

Nella IV parte del primo libro del Trattato, dopo aver espo­
sto, nella III, la dottrina sulla causalità, Hume si domanda se la
sua dottrina sia scetticismo. E risponde che dallo scetticismo non
ci salva la ragione, ma la « natura », un istinto naturale, come si
vede appunto per ciò che riguarda l'esistenza dei corpi. Si badi
infatti al modo in cui Hume pone il problema: « Possiamo ben
chiedere quali sono le cause che ci inducono a credere nella esi­
stenza dei corpi; ma è vano domandare se i corpi esistano o no;
ché questo è un punto che dobbiamo presupporre in tutti i nostri
ragionamenti » (Trattato, I, IV, 2).
Per corpo Hume intende qualcosa di permanente e di avente
« un'esistenza distinta dalla mente e dalla percezione ». Ora è
significativo il fatto che Hume parli prima dei corpi come per­
manenti, e poi dei corpi come distinti, perché, dice Hume, noi
ci persuadiamo che i corpi sono distinti dalla mente perché sia­
mo convinti che essi continuano ad esistere anche quando non li
percepiamo. Se infatti esistono anche quando non li percepiamo,
sono distinti dalla percezione che ne abbiamo.
E qui - in sede di critica - ci potremmo chiedere come mai
Hume ci parli di una mente nella quale esisterebbero le percezio­
ni, poiché finora egli ci ha detto soltanto che esistono impressioni
e idee - e più avanti dirà che, almeno in un certo senso, non
possiamo parlare della mente come di un soggetto delle impres­
sioni -. Dovremmo rispondere, credo, che Hume presuppone
continuamente (o piuttosto presuppone a intermittenze) come di­
mostrato dai « filosofi » che i dati, gli oggetti presenti, siano mo­
dificazioni della mente. Hume oscilla fra un atteggiamento spre­
giudicato, puramente fenomenologico - per il quale le impres­
sioni sono i dati ultimi -, e un atteggiamento carico di pregiu­
dizi « filosofici », ossia soggettivistici, dualistici, gnoseologistici,
per esprimerci in termini bontadiniani. Quando è nel primo at­
teggiamento considera le impressioni come dati, quando è nel se­
condo le considera come modificazioni di una mente, della quale
non ha mai dimostrato l'esistenza. Nel secondo atteggiamento egli si
appoggia all'autorità dei « filosofi », che sono Cartesio, Locke,
Berkeley. Quando infatti Hume si pone la domanda: ma non
potrebbero le impressioni (i dati) apparirci immediatamente co­
me distinte da noi? - risponde: se i sensi ci presentassero le lo­
ro impressioni come distinte, ci ingannerebbero (Trattato, I, IV,
314 FILOSOFIA MODERNA

2). Ora, possiamo chiederci, rispetto a quale verità sarebbe l'ìn­


ganno? Non, certo, rispetto ad una verità attestata dall'esperien­
za (qual è infatti l'esperienza che re li presenta come nostri?),
ma rispetto ad una verità affermata dai :filosofi precedenti. Hume
dice: « Ogni cosa che penetra nello spirito 6, essendo in realtà
una percezione, è impossibile che appaia al nostro sentire diffe­
rentemente» 7 (Trattato, I, IV, 2). E insiste ancora su questo
punto alla pagina seguente. Inoltre, a conferma della tesi che i
sensi (ossia l'esperienza immediata) non ci dànno i corpi come
distinti dalla mente, Hume argomenta cosl: le impressioni si pos­
sono distinguere in tre gruppi: 1) estensione, figura, movimento
ecc. (le « qualità primarie»); 2) colori, suoni, odori ecc. (le « qua­
lità secondarie»); 3) dolori e piaceri (sentimenti). Ora i due primi
gruppi di impressioni stanno sullo stesso piano di realtà, ci si ma­
nifestano nel medesimo modo, e non c'è ragione di affermare l'esi­
stenza indipendente del primo e non del secondo. Ma anche il ter­
zo gruppo è dato nello stesso modo degli altri due; ora è indubi­
tabile che dolore e piacere sono nella mente, dunque l'esperienza
non può attestarci l'indipendenza delle impressioni dalla mente 8•
Visto dunque che l'esistenza inr:lipendente delle impressioni
non è immediatamente data, Hume afferma che essa potrà essere
affermata solo come una conseguenza della permanenza dei corpi.
Ma come potremo affermar questa?
Non mediante la involontarietà delle impressioni, o la loro
forza, poiché ci sono, per esempio, dolori fortissimi, che subiamo
certo contro la nostra volontà, ma che non ci sogniamo di ritenere
permanenti anche quando non li sentiamo. « Dopo un breve esa­
me - dice Hume - troveremo che tutti quegli oggetti ai quali
si attribuisce un'esistenza continuata hanno una costanza partico­
lare» e una particolare coerenza con altre impressioni (Trattato,
I, IV, 2). Cioè: dal ritorno costante di tante percezioni simili ( tut­
te le volte che torno nella mia stanza ho percezioni simili) e dalla
loro connessione o coerenza (p. es., al rumore caratteristico del

• Ma non si sa ancora se esista lo spirito.


' Come sappiamo che le cose che penetrano nello spirito - ossia le cose perce­
pite - sono i11 realtà una percezione cioè un modo di essere dello spirito?
' Si noti che, nel mettere sullo stesso piano qualità primarie e secondarie, Hume
si scosta da Locke e da Cartesio ed è d'accordo con Berkeley; nell'assimilare le qua­
lità secondarie ai sentimenti è d'accordo con Cartesio.
HUME 315

cigolio di una porta è unita l'apertura - constatata dalla vista -


della porta), la mente è portata a passare facilmente dall'impressio­
ne di questi oggetti alle loro idee, e le idee restano quasi contagiate
dalle impressioni, sl che abbiamo quasi la sensazione, non di un
alternarsi di impressioni e idee (impressione della tavola, idea della
tavola quando chiudo gli occhi, nuova impressione quando li ria­
pro, ecc.), ma di « un'unica percezione costante e ininterrotta »
(Trattato, I, IV, 2).
È l'immaginazione, dunque, quella che riempie le lacune fra
una impressione e l'altra. Ma l'immaginazione, per sé, non fa na­
scere la credenza nell'esistenza dell'oggetto. Tale credenza nasce
solo quando l'immagine ha una particolare vivacità, vivacità che le
è comunicata dall'impressione. Ora le immagini che riempiono le
lacune fra una impressione e un'altra sono vicine, per dir cosi, alle
impressioni e quindi ricevono da queste la vivacità che induce a
credere alla loro esistenza.
È una soluzione, come si vede, molto simile a quella del pro­
blema della causalità.
Soluzione che, osserva Hume, ha questa superiorità su tutte le
altre: di far dipendere la convinzione dell'esistenza dei corpi non
dal ragionamento, ma da qualcosa di istintivo e di inconsapevole.
Infatti all'esistenza dei corpi credono tutti: bambini, gente incol­
ta che non è solita far ragionamenti. I ragionamenti dei filosofi, in­
vece, porterebbero a negare l'esistenza indipendente dei corpi
(Trattato, I, IV, 2). Certo, anche i filosofi credono all'esistenza dei
corpi, ma ci credono non in quanto filosofi, ma in quanto uomini.
E allora, per conciliare l'affermazione « filosofica» della soggetti­
vità delle percezioni, opinione nella quale « tutte le sette filosofiche
sono d'accordo» (ibid.), con la persuasione comune a tutti gli
uomini dell'esistenza indipendente dei corpi, i filosofi hanno esco­
gitato una nuova ipotesi che è un « mostruoso connubio di due
principi: opposti». Tale ipotesi è quella del dualismo gnoseologi­
co - diremmo noi -, è quella della « doppia esistenza, di per­
cezioni e di oggetti, la quale alla nostra ragione piace perché am­
mette che le nostre percezioni dipendenti sono intermittenti e
differenti fra loro; e nello stesso tempo piace all'immaginazione,
perché attribuisce una continua esistenza a qualcos'altro che noi
chiamiamo oggetto» (ibid.).
In realtà questo sistema « ha tutte le difficoltà del modo di
316 FILOSOFIA MODERNA

vedere volgare, oltre quelle che gli sono proprie », e non soddisfa
né la ragione né l'immaginazione. Non la ragione, perché una
volta che ci si è chiusi nel soggetto, non c'è più modo di uscirne,
con la ragione. « Se noi non fossimo fin da principio persuasi che
le nostre percezioni sono i nostri soli oggetti, e che continuano
ad esistere anche quando non appariscono più ai sensi, non sa­
remmo mai indotti a pensare che le nostre percezioni e gli ogget­
ti sono differenti... ». Non l'immaginazione, ossia il modo di senti­
re comune, perché per questo i corpi sono immediatamente per­
cepiti.
Quindi bisogna riconoscere che la ragione per sé ci portereb­
be allo scetticismo, e che da questo ci salva l'istinto o l'impul­
so naturale che ci fa credere all'esistenza dei corpi. Questa non è
perciò l'oggetto di una teoria o di una dimostrazione, ma è og­
getto di fede o credenza.
Se ci domandassimo quindi a che cosa approda l'esame della
conoscenza per Hume, dovremmo rispondere: esistono impres­
sioni e idee - dati originari e dati sbiaditi -. Noi crediamo che
quei complessi di impressioni che chiamiamo corpi esistano anche
indipendentemente da noi, esistano anche quando non sono pre­
senti, perché le loro idee acquistano dalla vicinanza con le im­
pressioni quella vivacità che costituisce, appunto, l'esistenza.
Resterebbe da chiedersi che cosa è quel noi, o io, di cui Hu­
me parla. Hume ce lo dirà più avanti.

9. La sostanza

E cominciamo a vederlo nelle critiche che Hume fa alla « filo­


sofia antica » (scolastica) e alla « filosofia moderna » (Locke e Ber­
keley).
Della filosofia antica Hume critica i concetti di sostanza e di
forma sostanziale, di accidente, di qualità occulta. Per ciò che ri­
guarda la sostanza, Hume osserva che se per sostanza s'intende
ciò che può esistere da sé, nessuno può negarne l'esistenza, ma
in questo senso potrebbero essere sostanze le singole impressioni
(Trattato, I, IV, 5). Chi invece afferma l'esistenza di sostanze,
le concepisce come qualcosa di distinto dalle impressioni; ora noi
non abbiamo nessuna impressione di questo preteso fondamento
HUME 317

delle impressioni. Quelle che la filosofia antica chiamava sostanze


ci si presentano come complessi di qualità (e perciò non possono
essere semplici come, secondo Hume, le concepiva la filosofia an­
tica). Hume non nega che fra certi gruppi di qualità ci sia una
certa unione, ma 1) afferma che tale unità è solo una unità di re­
lazione, non di sostanza; 2) afferma che tale unità di relazione è
creduta in base all'abitudine di veder sempre quelle qualità unite,
ma non può essere dimostrata. Per questo i filosofi moderni, os­
sia Locke e tutti coloro che ammettono l'esistenza oggettiva solo
delle qualità primarie, non sono in condizioni migliori dei filo­
sofi antichi, poiché qualità primarie e qualità secondarie stanno
sul medesimo piano, ed è vero che la ragione porta a dubitare del­
l'esistenza indipendente delle qualità secondarie, ma è altrettanto
vero che, se si segue la ragione, si deve dubitar anche dell'esisten­
za oggettiva delle qualità primarie e ridursi « al più stravagante
scetticismo » (Trattato, I, IV, 4 ).

10. L'io come soggetto conoscente

A mettere sullo stesso piano qualità primarie e secondarie


era arrivato anche Berkeley, ma Berkeley affermava l'esistenza di una
sostanza spirituale. Hume fa alcune critiche ad una dimostrazione del­
l'immaterialità dell'anima, e poi fa una affermazione sorprendente:
dice che l'opinione dei « teologi » sulla sostanzialità e immateria­
lità dell'anima « è un vero ateismo, e può servire a giustificare
quelle opinioni, per le quali Spinoza è cosl universalmente infa­
mato » (Trattato, I, IV, 5). La teoria della sostanzialità e sempli­
cità dell'anima, vuol dire Hume, equivale al panteismo. Infatti le
percezioni si identificano con le cose stesse, il mondo delle per­
cezioni è lo stesso universo reale (ricordiamo che il dualismo gno­
seologico è insos:::--nibile per Hume); quindi affermare che tutte
le percezioni ineriscono ad un unico soggetto semplice, che sareb­
be l'anima, è quanto affermare che tutte le cose dell'universo so­
no modi di un'unica sostanza 9•

• Questo ci fa vedere come fosse totalmente dimenticata la nozione di inteozio­


nalità, ossia come Hume confonda percepire e percepito. I « teologi >> infatti, e tutti
coloro che dicono che l'io è il soggetto identico di tutte le percezioni non intendono
318 FILOSOFIA MODERNA

Ma questo, come ammette lo stesso Hume, è un argomento


ad hominem. Vediamo ora gli argomenti ad rem (Trattato, I,
IV, 6).
1) Non abbiamo un'idea dell'io, perché non ne abbiamo un'im­
pressione. « L'io, o la persona, non è una particolare impressione:
è ciò a cui vengon riferite, per supposizione, le diverse nostre im­
pressioni e idee. Se ci fosse un'impressione che desse origine al­
l'idea dell'io, quest'impressione dovrebbe continuare invariabil­
mente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, poiché
si suppone che l'io esista in questo modo. Invece, non c'è nessu­
na impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, af­
fanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamen­
te... ».
2) L'io non è mai dato senza qualche percezione; dunque,
poiché ciò che è inseparabile è indistinguibile, l'io è le sue per­
cezioni; « noi non siamo altro che fasci o collezioni di diverse per­
cezioni. .. ». « La mente è una specie di teatro, dove le diverse
percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano. Né c'è
propriamente in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né
identità in tempi differenti... E non si fraintenda il paragone del
teatro: a costituire la mente non c'è altro che le percezioni suc­
cessive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove
queste scene vengono rappresentate e del materiale di cui è com­
posto».
N. Kemp Smith osserva che Hume non nega l'esistenza del­
l'io, ma solo la sua assoluta costanza e semplicità 10; anzi non nega
neppur questo, ma nega che la permanenza dell'io sia data alla
conoscenza. Tale identità è infatti creduta, quando si riflette sulla
conoscenza, ed è, come vedremo, data alla nostra coscienza affet­
tiva. « Dobbiamo distinguere, dice infatti Hume, l'identità per­
sonale in quanto riguarda il pensiero e l'immaginazione [ cioè
l'io come soggetto conoscente] ed in quanto riguarda le passioni
o l'interesse che prendiamo a noi stessi» (Trattato, I, IV, 6).
Vediamo prima come tale identità sia creduta.

dire che l'io sia il soggetto identico di tutti i percepiti, ma che l'io sia il soggetto
identico di tutti gli atti di percepire.
10
The Philosophy of D. Hume, cit., p. 96.
HUME 319

L'identità dell'io non è l'identità di una sostanza semplice; è


come quella delle piante e degli animali, quindi si spiegherà in
modo analogo a quella che attribuiamo ai corpi. Così: abbiamo
una serie di percezioni che si succedono e che sono in rapporto
fra loro, e scambiamo questa unità di successione e di relazione
con una identità. Questo scambio o confusione è imputabile al­
l'intelletto, alla ragione; ma la nostra identità è creduta come
quella dei corpi.

11. L'io come soggetto delle passioni

Questo tuttavia non spiega ancora come mai l'io sia distinto
dai corpi: fascio di percezioni l'io, fascio di percezioni la casa;
come mai riferisco le percezioni della casa all'io?
A questo problema risponde il secondo libro del Trattato,
quello dedicato alle passioni.
Le passioni sono « impressioni di riflessione» o impressioni
secondarie, cioè impressioni che nascono da precedenti impres­
sioni (impressioni di sensazione) o da idee. Il dolore di una cri­
si di gotta è una impressione di sensazione; il dispiacere di
questo dolore, la paura che si ripeta, la speranza che passi, sono
impressioni di riflessione e, precisamente, passioni.
Hume distingue le passioni in: dirette e indirette.
« Per passioni dirette intendo quelle che nascono immedia­
tamente dal bene o dal male, dal dolore o dal piacere. Per passio­
ni indirette quelle che procedono dai medesimi princip1, ma per
unione di altre qualità» (Trattato, II, I, 1). Esempi delle prime
sono: desiderio, avversione, dispiacere, gioia, timore, sicurezza;
delle seconde: orgoglio, umiltà, ambizione, vanità, amore, odio,
invidia, pietà. Hume dedica una lunga trattazione alle passioni
indirette: 122 pagine nell'ediz. Selby-Bigge 11, contro una venti­
na alle passioni dirette, e si che nella trattazione di queste entra
anche la libertà),
Ora quando Hume parla delle passioni ammette che in que­
ste ci sia una immediata coscienza dell'io. Parlando infatti del-

11 Quaranta pagine sono dedicate all'orgogiio e all'umiltà.


320 FILOSOFIA MODERNA

l'orgoglio e dell'umiltà (le prime passioni analizzate da Hume)


egli dice: « In primo luogo io trovo che l'oggetto proprio dell'or­
goglio e dell'umiltà è determinato da un istinto originario e na­
turale, e che è assolutamente impossibile, per la costituzione fon­
damentale della mente, che queste passioni mirino mai oltre l'io
o quella persona individua, delle cui azioni e sentimenti ognuno
di noi è intimamente conscio » (Trattato, II, I, 5).
A proposito della simpatia, Hume dice: « È evidente che
l'idea o piuttosto l'impressione di noi stessi ci è sempre intima­
mente presente, e che la coscienza ci dà un concetto cosi vivo del­
la nostra persona che è impossibile immaginare che qualsiasi co­
sa la superi» (Trattato, II, I, 11).
L'io è dunque ricostruito con l'immaginazione, creduto co­
me soggetto conoscitivo: è ciò a cui « vengono riferite, per sup­
posizione», le percezioni (Trattato, I, IV, 6); ma è immediata­
mente vissuto nelle passioni.
E Hume osserva che, per quel che riguarda le passioni, lo spi­
rito umano non è come gli strumenti a :fiato, che smettono di suo­
nare quando smette il soffio, ma come gli strumenti a percussio­
ne che continuano a vibrare anche dopo l'urto. « L'immaginazio­
ne è sommamente rapida e agile, ma le passioni sono lente e per­
mangono » (Trattato, II, III, 9).
Hume tratta prima delle passioni indirette. Passioni indirette
sono quelle che sorgono soltanto per associazione di un'idea che
produce piacere o dolore con l'idea o l'impressione dell'io 12• « Tut­
to ciò che produce una sensazione gradevole ed è connesso con l'io
(per una associazione di idee e di impressioni) suscita la passione
dell'orgoglio » (Trattato, II, I, 5), e tutto ciò che procura una sen­
sazione sgradevole ed è connesso con l'io suscita la passione del­
l'umiltà. L'amore e l'odio invece hanno per oggetto non l'io, ma

12 Hume parla sempre di duplice assoc1az1one, di idee e di impressioni, nelle


passioni indirette (Trattato, II, I, 4). N. K. Smith spiega cosi questa duplice asso­
ciazione: « Il "soggetto" (ossia la causa) che suscita la passione è connesso causal­
mente con l'oggetto (che è l'io) verso il quale la passione qua talis volge l'attenzione
della mente; e la sensazione di piacere o di dolore che il "soggetto " produce è con­
nessa per somiglianza con la sensazione della passione. (Trattato, II, I, 5, p. 286). La
prima associazione, fra il " soggetto " della passione e il suo oggetto, è una relazione
di idee; l'altra associazione, fra il piacere o il dolore e la passione, è una associazione
di impressioni» The Philosophy of D. Hume, cit., pp. 185-186.
HUME 321

un'altra persona ed hanno come cause le stesse che generano l'or­


goglio e l'umiltà, si che si potrebbero disporre in un quadrato cosi:

Orgoglio oggetto: l'io Umiltà

Amore oggetto: l'altro Odio

Orgoglio e umiltà, benché suscitati da cause che producono pia­


cere e dispiacere, non si riducono tuttavia a piacere e dispiacere,
ma sono sentimenti originali e irriducibili ad altri: « è dunque im­
possibile darne una definizione. Si può, al più descriverle, enume­
rando le circostanze che le accompagnano » (Trattato, II, I, 2). Ed
è quello che Hume cerca di fare nel II libro del Trattato. Altret­
tanto si dica dell'amore e dell'odio. Il piacere e il dolore che le pro­
ducono sono dunque circostanze che le accompagnano, ma non ne
costituiscono l'essenza. Hume enumera le cause dell'orgoglio e del­
l'umiltà (virtù e vizi, bellezza e bruttezza, ricchezza e povertà ecc.),
e descrive i vari tipi di amore e le passioni connesse con l'amore e
con l'odio (benevolenza e collera, compassione e invidia, rispetto e
disprezzo etc.). Caratteristico del modo hlllilJano di considerare l'uo­
mo è che egli parli dell'orgoglio e dell'umiltà, dell'amore e dell'odio,
anche negli animali.
Un sentimento di grande importanza nella teoria humiana delle
passioni e nella morale è la simpatia. Egli ne parla diffusamente la
prima volta nella sez. 11 della I parte, a proposito del desiderio del­
la fama. « Nessuna qualità della natura umana è più notevole, in se
stessa e nelle sue conseguenze, della tendenza naturale che abbia­
mo a simpatizzare con gli altri e a riceverne per comunione le in­
clinazioni e i sentimenti, per quanto diversi siano dai nostri » (Trat­
tato II, I, 11 ). È infatti difficile e richiede sempre un certo sforzo
l'opporsi alle opinioni e al modo di sentire del proprio ambiente.
La simpatia consiste nel farci sentire come nostre le passioni al­
trui. E Hume ne spiega l'origine cosi: attraverso certi segni, con
una conoscenza per analogia, ci formiamo l'idea che una passione
322 FILOSOFIA MODERNA

sia presente in un altro (se per es. lo vediamo piangere ci formiamo


l'idea del dolore, se lo vediamo ridere ci formiamo l'idea della
gioia). Non basta però l'idea a farci « simpatizzare » nella passione:
bisogna che l'idea si trasformi in una impressione (diventi cioè più
forte e vivace). Ora l'idea di una passione, colta in un altro, diventa
impressione per la relazione con l'io, quell'io che « ci è sempre con­
tinuamente presente ». È dunque l'impressione dell'io quella che
comunica la sua vivacità all'idea di una passione, e quindi ce la fa
sentire come nostra. Bisogna perciò, affinché sorga la simpatia, che
l'altro che ci dà l'idea della passione sia unito a noi o per vicinanza
spaziale o per altri legami.
Nella sez. 11 Hume applica questa dottrina a spiegare il desi­
derio che abbiamo della buona fama (il fatto che altri ci approvino
ci fa sentire per simpatia questa loro approvazione e quindi ag­
giunge un nuovo sentimento gradevole a quello che già proviamo per
il fatto di avere certe qualità), ma la simpatia entra in giuoco in
molte altre passioni; anzi in tutte. Tutti i sentimenti piacevoli di­
ventano maggiormente piacevoli se possono essere partecipati da
più persone. E lo stesso Hume fa notare la corrispondenza che
c'è fra la sua dottrina della credenza e quella della simpatia. Co­
me la credenza non è una nuova idea, ma una maniera sotto la
quale si presentano certe idee, cosi la simpatia non è una nuova
passione, ma una maniera di rivivere le passioni altrui, quasi un
uscire di sé per partecipare all'esistenza e alla vita dell'altro 13•

12. Volontà e libertà

La volontà è una passione: è una tendenza consapevole, e


poiché, per Hume, non c'è distinzione specifica fra consapevolez­
za sensibile e consapevolezza razionale, si capisce che la volontà
sia una passione come le altre. « Fra tutti gli effetti immediati del
dolore e del piacere non ce n'è uno più notevole della volontà »
(Trattato II, III, 1 ). E per volontà Hume intende « l'impressione
interna che sentiamo e di cui abbiamo coscienza quando diamo
consapevolmente origine a un nuovo movimento del nostro cor­
po o a una nuova percezione della nostra mente » (ibid. ).

13 N. K. SMI'l1H, op. cit., pp. 149 e 170.


HUME 323

Anche la volontà è dunque una impressione, un dato imme­


diato irriducibile ad altri.
È assurdo parlare di libertà del volere: tutte le nostre azioni
sono necessarie. Infatti abbiamo le medesime ragioni per affer­
mare la necessità delle nostre azioni volontarie di quelle che ab­
biamo per affermare che sono necessarie le azioni dei corpi. Per­
ché crediamo che le azioni dei corpi seguano necessariamente
dalla loro natura? Non certo perché intuiamo i rapporti fra le es­
senze dei corpi, non certo perché intuiamo i nessi causali, ma
solo perché vediamo che certe azioni seguono costantemente quan­
do sono presenti certi corpi. È dunque l'unione costante quella
che ci induce a credere a rapporti necessari. Ora possiamo riscon­
trare una unione costante anche fra i caratteri degli uomini e le
loro azioni. « Se consideriamo gli uomini secondo le differenze di
sesso, di età, di governo, di condizione o di educazione, possiamo
discernere la medesima uniformità e regolarità di azione dei prin­
cipi naturali » (Trattato, II, III, 1). Gli uomini hanno certi sen­
timenti, azioni e passioni diversi da quelli delle donne, così come i
prodotti della Guienna sono diversi da quelli della Champagne.
Gli uomini si distinguono per forza e maturità, le donne per deli­
catezza e tenerezza; la cura di una madre per il bambino segue na­
turalmente come la generazione del bambino; i sentimenti di un
lavoratore manuale sono diversi da quelli di un aristocratico, co­
me sono diversi i muscoli dei due, e così via. « Potrei immaginare
un modo solo di eludere questo argomento: quello di negare l'uni­
formità delle azioni umane », dice Hume (Trattato, II, III, 1);
ma tale uniformità è innegabile. Le irregolarità che si riscontrano
nella condotta umana non sono maggiori di quelle che si riscon­
trano nella natura.
E allora come mai tante persone affermano che siamo liberi?
Per tre motivi: 1) perché si confondono necessità e coazione.
Si crede, cioè, che, quando non siamo costretti siamo liberi; si
identifica libertà con spontaneità. E invece può esserci necessità
ab intriseco, come quella per una pianta, ad es., di mettere le fo­
glie in primavera: 2) Un secondo motivo è « una falsa sensazione,
una falsa esperienza della libertà di indifferenza » (Trattato, II,
III, 2). Si intende infatti per « libertà o caso » una certa indipen­
denza nel passare con l'immaginazione da una cosa a un'altra, e
questa sensazione genera l'opinione che noi possiamo fare una cosa
.324 FILOSOFIA MODERNA

o l'altra. Possiamo ad es., immaginare che mentre alziamo un


braccio, il braccio potrebbe star fermo, e allora crediamo di po­
ter scegliere fra il muovere e il tener fermo il braccio. Ma questa
sensazione è falsa. « Possiamo immaginarci di sentire la libertà in
noi, ma uno spettatore può generalmente inferire quali saranno le
nostre azioni dai motivi che abbiamo e dal nostro carattere, e, an­
che quando non può, conclude che potrebbe inferirle se conoscesse
perfettamente tutte le circostanze della nostra situazione e del no­
stro temperamento e i moventi più segreti della nostra comples­
sione e disposizione » (Trattato, II, III, 2) 14•
3) Terzo motivo: si crede che l'affermazione della libertà sia
più favorevole alla religione. Ma, in primo luogo, osserva Hume,
non bisogna addurre motivi religiosi per sostenere una dottrina fi­
losofica; in secondo luogo non è vero che la tesi della libertà sia
più favorevole alla religione; anzi si accorda meglio con la reli­
gione la tesi della necessità delle azioni. Questo è un argomento
ad hominem ( come quello che identificava la tesi che esiste una so­
stanza spirituale con il panteismo), ma può giovarci a conoscere
certi aspetti del pensiero humiano. Dice infatti Hume che la re­
ligione a) col promettere premi e minacciare pene suppone che
queste promesse e minacce determinino la volontà umana; b) e
sarebbe ingiusto che la virtù fosse premiata e il vizio punito se non
ci fosse un rapporto necessario fra colui che opera e le sue azioni.
Perché infatti si dovrebbe premiare o punire un uomo per azioni
che non hanno nessun rapporto con lui, che sono puramente for­
tuite? 15•
Seguendo Hutcheson nella polemica col razionalismo etico, Hu­
me afferma che la ragione non può mai essere movente di un'azio­
ne (Trattato, II, III, 3 ), non può mai essere pratica.

14 E curioso che un empmsta come Hume dichiari falsa una «sensazione», una
esperienza, in nome di una inferenza che lo spettatore potrebbe fare dal nostro ca­
rattere. A questo proposito vorrei ricordare l'osservazione di Bergson che se uno
conoscesse tutti gli antecedenti di una volizione, quest'uno coinciderebbe col sog­
getto stesso che vuole. A proposito poi della regolarità dei comportamenti umani,
data una certa situazione e un certo carattere, ci si potrebbe chiedere quanto, nel
carattere, è dato dalle condizioni naturali e quanto è dovuto alla stessa volontà, è
condotta passata dell'agente. Il carattere è un dato o è, in parte, anche un prodotto
della nostra volontà? Infine credo che nessun assertore della libertà abbia mai iden­
tificato la libertà col caso, con l'assoluta indeterminazione, come fa Hume.
15 E qui si vede ancora quale strano concetto abbia Hume della libertà. Anche qui
egli ripete «libertà o caso ».
HUME 325

Si parla solitamente di lotta fra la ragione e le passioni, si esor­


ta a dominare le passioni con la ragione, ma 1) « la ragione non
può essere per sé sola motivo di un atto volontario » e quindi 2)
« non può mai combattere la passione e dirigerla secondo la volon­
tà» (Trattato, II, III, 3 ). Infatti la conoscenza è o di relazioni di
idee o di fatti. Ora la prima (la conoscenza di verità necessarie)
non può certo suscitare un'azione, perché « il suo dominio è il
mondo delle idee, e la volontà invece ci pone nel mondo delle real­
tà»; quindi sono affatto separate. È vero che la matematica serve
alle arti meccaniche, ma supposto che si voglia realizzare una mac­
china. La matematica non fa la macchina: ci insegna come la dob­
biamo fare, se vogliamo farla. Ma neppure la conoscenza dei fatti
può dar luogo a un'azione, perché la conoscenza ci mette solo in
presenza di un oggetto: quella che ci determina ad agire è la pas­
sione. È vero infatti che « quando abbiamo la prospettiva di pro­
vare un dolore o un piacere per effetto di un oggetto, proviamo
in conseguenza una emozione di avversione o di inclinazione, e
siamo portati a evitare o a ricercare ciò che ci procurerà questo di­
sagio o questa soddisfazione »; ma non è la conoscenza dell'ogget­
to quella che ci determina a cercare o evitare tale oggetto: è la pas­
sione. E poiché la conoscenza non può generare una passione,
essa non può neppure combatterla: una passione può essere con­
trariata solo da un'altra passione. La conoscenza può essere solo al
servizio della passione. E qui viene la frase alla quale N. K. Smith
dà tanta importanza « La ragione è e deve solo essere la schiava
delle passioni » (Trattato, II, III, 3 ).
Si può, impropriamente, parlare di passione irragionevole quan­
do una passione segue un giudizio falso; si chiama irragionevo­
le, per es., il timore di una cosa che non esiste; ma non è il ti­
more quello che è irragionevole: è il giudizio di esistenza quello
che è falso. Quando la conoscenza è vera, nessuna passione è
più ragionevole di un'altra, perché una passione è quella che è:
è « un'esistenza originale », mentre una conoscenza è una co­
pia di un'esistenza originale, o un rapporto fra idee (ossia fra
copie). A proposito di una conoscenza si potrà quindi chiedersi
se la copia corrisponde all'originale, ma la passione non ha da
esser conforme a nulla. A torto quindi diciamo irragionevole il
preferire la distruzione del mondo intero ad una sbucciatura a
un dito o scegliere la propria rovina per prevenire il più piccolo
326 FILOSOFIA MODERNA

disagio ad un indiano o ad uno sconosciuto. Queste scelte e le


passioni che le determinano sono quelle che sono, e basta.
Ma spesso si chiama ragione quello che non è affatto ragione,
ma passione: passione calma. Vi sono infatti desideri e tendenze
che, sebbene siano autentiche passioni, non danno luogo a emo­
zioni violente e allora sono confusi con la ragione: uno di que­
sti sentimenti è la benevolenza.
Ora, se una distinzione fra le passioni non si può fare in ba­
se alla loro « ragionevolezza », dovremo forse concludere che tutte
le passioni si equivalgono?
Questo problema ci porta all'etica, svolta nel terzo libro del
Trattato e nella Ricerca sui principi della morale.

13. La morale
Nella Ricerca Rum.e comincia dicendo che la distinzione fra
il bene e il male è innegabile; il problema non è se ci siano azioni
moralmente buone e azioni moralmente cattive, ma come arrivia­
mo a valutare certe azioni come buone e altre come cattive:
« quale sia il fondamento generale della morale », se sia la ragio­
ne o il sentimento. Nel Trattato il problema è posto cosi: « Di­
stinguiamo il vizio dalla virtù per mezzo di idee o di impressio­
ni? » (Trattato, III, I, 1 ).
C'è chi afferma che la virtù non è altro che la conformità alla
ragione: è la tesi del razionalismo etico di Cudworth, ripreso poi
da Clarke (1675-1729) e da Wollaston (1659-1724 ). Contro que­
sta tesi Rume obietta: le convinzioni morali hanno un influsso
sulle nostre azioni; ora la ragione - come si è detto - non ha
un tale influsso; dunque le valutazioni morali non sono opera del­
la ragione. Se, infatti, la moralità consistesse nella conformità
alla ragione, dovrebbe essere o conf,Jrmità a rapporti tra idee, o
conformità a verità di fatto; e invece non è né l'una né l'altra co­
sa. Quale rapporto fra idee potrebbe esprimere l'esigenza mora­
le? Solo un rapporto fra certi atti interiori (di volontà) e certi og­
getti esterni 16• Ora: 1) non è possibile conoscere un rapporto
essenziale fra una cosa e un'altra (come Rum.e ha detto nel pri­
mo libro a proposito della causalità); e 2) anche se potessimo co-
•• Non ci sono doveri verso se stessi, secondo Hume.
HUME 327

nascere tali rapporti, non potremmo ricavare da tali relazioni il


concetto di obbligo. La conoscenza ci dice infatti come stanno le
cose, non come debbano essere (Trattato, III, I, 1 ).
Ma neppure le conoscenze di fatto possono giustificare la mo­
rale. Nessuna azione, considerata in ciò che è, mi si rivela mai
buona o cattiva: questo carattere sfugge alla ragione. « Non po­
tete trovarlo finché non rivolgete la vostra riflessione sul vostro
cuore, e non scoprite un sentimento di disapprovazione che nasce
in voi di fronte a questa azione » (l'esempio è quello di un'azione
colpevole). Le qualità morali sono paragonabili ai colori e ai suoni
- come aveva detto Hutcheson -: sono la reazione del nostro
spirito a certi aspetti della realtà e vivono, per dir cosl, solo ne1
nostro spirito.
Visto che la moralità non è giudicata dalla ragione, Hume con­
clude che essa è sentita. È moralmente buono ciò che suscita in
noi un sentimento gradevole. Ma, si badi, quello che a noi pro­
cura la virtù è uno speciale piacere. « Non argomentiamo che un
carattere è virtuoso perché ci piace; ma, sentendo che ci piace in
questo modo particolare, sentiamo effettivamente che è virtuoso »
·(Trattato, III, I, 2). La moralità di un atto è immediatamente senti­
ta, cosl come è immediatamente sentita la bellezza di una musica.
Piacere è infatti un termine generico che indica sentimenti ben di­
versi, come il piacere estetico e quello di una bevuta di vino. Il
piacere che ci procura la virtù è un particolare piacere, caratterizza­
to, in primo luogo, dal disinteresse. È vero che, spesso, alle nostre
valutazioni morali si mescola una valutazione interessata: è raro
che noi giudichiamo virtuoso chi ci è nemico « e che distinguiamo
la sua opposizione al nostro interesse dalla sua bassezza reale. Ma
questo non impedisce che i due sentimenti siano in se stessi diversi,
e un uomo di carattere e di giudizio può preservarsi da queste illu­
sioni ». Quindi, anche se di rado e con un certo sforzo, accade che
si riconosca il valore morale di un nemico, e la bassezza di uno che
ci fa comodo.
C'è tuttavia un principio comune dal quale derivano le valuta­
zioni morali: è la simpatia 17•

17 Questa sarebbe la novità di Hume rispetto a Hutcheson, secondo G. DELLA


VOLPE, La filosofia dell'esperienza di D. Hume, cit., voi. II, pp. 57-59.
328 FILOSOFIA MODERNA

Approviamo (ossia sentiamo come moralmente buone) le quali­


tà che sono utili o piacevoli, aUa persona stessa che le ha o agli altri;
e la possibilità di approvare anche qualità che non sono vantaggiose
per noi è fondata sulla simpatia.
Utile agli altri è in primo luogo la benevolenza e tutte le qualità
che le si connettono (Trattato, III, III, 1); utili a chi le possiede
sono le qualità che gli procurano riconoscimento e ricompense dagli
uomini; piacevoli agli altri sono le buone maniere, lo spirito, la
modestia; piacevoli a chi le possiede sono la forza d'animo, il co­
raggio.
Talora però uno di quei quattro caratteri della virtù non è im­
mediatamente presente, ma è derivato da certe regole poste dagli
uomini: si hanno allora le « virtù artificiali » - artificiali, appunto,
perché suppongono regole, convenzioni poste dagli uomini, non già
perché siano finte-. Virtù artificiale è la giustizia, in quanto consi­
ste nel dare a ciascuno il suo, e quindi suppone un mio e un tuo;
suppone la società e la proprietà.
I rapporti di giustizia non sono ( o almeno non sono sempre)
immediatamente sentiti; infatti la giustizia comanda, ad es., a un
uomo che abbia avuto in deposito del denaro, e che saprebbe spen­
derlo molto bene, di restituirlo al proprietario, anche se questi è
un avaro o un « bigotto sedizioso » che se ne servirà malissimo
(Trattato, III, II, 2) - eppure, immediatamente, questo atto non
gioverà a nessuno. La giustizia che mi comanda quell'atto è dun­
que una virtù fondata su una convenzione. Quale?
Posto che 1) è naturale per l'uomo vivere in società; 2) la be­
nevolenza naturale dell'uomo verso i suoi simili non si estende
oltre un certo numero di persone; 3) i beni naturali sono scarsi
per i bisogni umani, e quindi sono oggetto di cupidigie che spesso
sono più forti della benevolenza, segue l'utilità di stabilire con­
venzioni per cui i beni siano divisi e sia ammessa la proprietà pri­
vata. Di qui sorge il concetto del mio e del tuo, e la virtù che pre­
scrive di dare a ciascuno il suo, cioè la giustizia. La giustizia è una
virtù, ossia è un valore morale, ma è virtù « artificiale », perché
promuove indirettamente il bene sociale, in quanto è condizione
di pace sociale.
Ma come ottenere il rispetto della giustizia?
Finché una società è piccola, è possibile che i suoi componenti
si rendano conto del vantaggio a cui dà luogo il rispetto della giu-
HUME 329

sozia, ma, quando una società è grande, il vantaggio che deriva


dal rispetto della giustizia è spesso remoto, mentre certe violazioni
di essa darebbero vantaggi immediati. È quindi necessaria una au­
torità che faccia rispettare le leggi anche con mezzi coercitivi.
Con questa teoria Hume si differenzia da Hobbes perché am­
mette una inclinazione naturale alla benevolenza, quindi vede la
società civile come una conseguenza di tale inclinazione e non co­
me un rimedio ad uno stato di natura che significherebbe il bellum
omnium contra omnes. Diversamente da Locke, nega l'origine con­
trattualistica dello Stato.
Hume si è occupato anche, con atteggiamento fortemente nega­
tivo, di religione nei Dialoghi sulla religione naturale ( usciti postu­
mi nel 1779) e nella Storia naturale della religione (l 757) 17 bis. Nel­
la prima di queste due opere egli critica le prove che si davano ai
suoi tempi dell'esistenza di Dio e quindi lo stesso concetto di re­
ligione naturale. La critica, svolta specialmente da uno degli inter­
locutori dei Dialoghi, Filone, in apparenza è rivolta solo contro la
superstizione e l'antropomorfismo, in realtà combatte ogni argo­
mento per dimostrare l'esistenza di Dio. La religione, secondo Hu­
me, non si fonda sulla ragione, ma su un sentimento: un senti­
mento di terrore.

1
14. Il « senso comune» contro Hume. T. Reid (1710-1796) '

La filosofi.a di Hume fu generalmente interpretata come scetti­


cismo, e questo scetticismo fu giudicato da Thomas Reid come
l'esito necessario di una corrente di pensiero iniziata da Cartesio
e proseguita con Malebranche, Locke, Berkeley e Hume. Si tratta
di filosofie molto diverse fra loro, ma che hanno tuttavia comune
una teoria sulla conoscenza: quella della priorità della sim-

* TH. REID, Philosophical Works, Edinburgh, 1895. Riproduz. anastatica Hildesheim,


Olrns, 1967, 2 voli. Le due opere principali sono: lnquiry into the Human Mind (del
1764) e Essay on the lntellectuals Powers of Man (1785).
Su Reid: S. A. GRAVE, The Scottish Philosophy of Common Sense, Oxford,
Clarendon Press, 1960; M. F. SCIACCA, La filosofia di T. Reid, 3• ed. Milano, Mar­
zorati, 1963; D. F. NoRTON, From Moral Sense to Common Sense. An Essay on the
Development of Scottish Common Sense Philosophy 1700-1765, Ano Arbor, 1966;
F. RESTAIN0, Scetticismo e Senso comune. La filosofia scozzese da Hume a Reid, Bari,
Laterza, 1974.
17 •;, Di questo tratta M. Sina nel cap. 15°.
330 FILOSOFIA MODERNA

plex apprehensio 18 sul giudizio e su ogni altra forma di conoscen­


za. Tutte queste filosofie concepiscono il conoscere come un ave­
re idee; il giudizio sarebbe un rapporto fra idee; il ragionamento
un rapporto fra giudizi. La conoscenza si svolgerebbe quindi tutta
dentro la coscienza e il problema sarebbe quello di passare dalle
idee - i soli oggetti immediatamente conosciuti - alle cose.
Cartesio e Locke cercano di compiere questo passaggio, Berkeley
vi rinuncia e concepisce il mondo come un complesso di idee;
ammette però ancora che Dio sia la causa delle nostre idee. Hume
trae la logica conseguenza dalla premessa che il conoscere sia un
avere idee: lo scetticismo. « I suoi [di Hume] ragionamenti mi
apparivano giusti, scrive Reid; era pertanto necessario mettere in
discussione i principi sui quali quei ragionamenti erano fondati,
oppure si dovevano accettare le conclusioni » 19• Il rifiuto dei prin­
cipi consiste in questo: « Invece di dire che l'assenso (belief)
o la conoscenza [ossia il giudizio di esistenza] è ottenuto col met­
tere insieme e paragonare le semplici apprensioni, dobbiamo dire
invece che la semplice apprensione è ottenuta dalla risoluzione e
dall'analisi di un giudizio naturale e originario » (Inquiry, Cap.
II, 4 ). Il prius, dunque, nella conoscenza, non è l'idea ma la per­
cezione di realtà esistenti, percezione che implica un giudizio di esi­
stenza; l'idea risulta dall'analisi di questa originaria percezione. Pri­
ma si percepisce un albero come qualcosa di esistente, indipenden­
temente dall'atto col quale lo cogliamo; poi, analizzando questo og­
getto percepito, ci formiamo l'idea dell'albero e delle sue qualità.
Reid sottolinea la distinzione fra atto e oggetto della percezione;
nella sensazione atto e oggetto non sono distinti: sentire un dolore
vuol dire essere addolorati; nella percezione invece atto e oggetto
sono distinti: l'albero percepito ha un tronco, rami e foglie, mentre
l'atto della mente col quale lo percepisco non ha né tronco né rami,
né foglie 20•
« La persuasione ( belief) dell'esistenza di un mondo materiale
è più antica e più autorevole di qualsiasi principio di filosofia. Ri­
fiuta il tribunale della ragione e si ride di tutta l'artiglieria del lo­
gico» (Inquiry, V, 7). Anche i filosofi che hanno negato valore al-

•• In latino nel testo di Reid (è termine scolastico tradizionale).


19
Citato da REsTAINO, op. cit., p. 236.
20
Citato da RESTAINO, p. 269.
HUME 331

la conoscenza del mondo esterno devono poi sottomettersi al senso


comune; meglio è dunque fare di 11ecessità virtù e, poiché non
possiamo fare a meno di ammettere un mondo esterno, dobbiamo
conciliare la ragione col senso comune e farne la schiava del sen­
so comune 21•
Le qualità che percepiamo, per esempio i colori, appartengono ai
corpi e non alla mente; certo le nostre sensazioni non sono immagi­
ni della materia (Inquiry, VI, 6) e bisogna distinguere il colore
reale dall'apparenza del colore all'occhio, ma l'apparenza « sug­
gerisce la nozione e la persuasione dell'esistenza di una ignota
qualità nel corpo che occasiona l'idea; ed è a questa qualità, non al­
l'idea, che noi diamo il nome di 'colore '» (Inquiry, VI, 4 ). Il co­
lore è come tante altre qualità, come astringente, narcotico, cau­
stico, che non sappiamo cosa siano in sé, ma conosciamo dai loro
effetti in noi (Inquiry, VI, 5).
Oltre alla percezione di cose esistenti, abbiamo anche la cono­
scenza immediata di certi principi « che la costituzione della nostra
natura ci conduce a ritenere veri ( believe): per esempio: non c'è
pensiero senza un soggetto pensante» (Inquiry, II, 6) - contro
Hume -; ciò che comincia è causato (ibid., II, 7) ecc.
Per la teoria della conoscenza morale, Reid non accetta la tesi
di Locke, secondo il quale le verità morali sono evidenti come le
verità matematiche perché, osserva Reid, i principi morali rigu ar­
dano l'uomo esistente, che è una realtà contingente. Né ammette
che l'organo della conoscenza morale sia il sentimento (feeling).
L'uomo ha però la facoltà di percepire immediatamente ciò che è
giusto e ciò che è ingiusto, e in questo Reid si dichiara d'accordo
coi filosofi del moral sense (Essay, III, 6). Reid afferma pure e
difende con vari argomenti la libertà ciel volere, intesa come potere
di determinare la propria volontà.

21
Forse Reid non si rendeva conto di quanto era vicino a Hwne con questa af­
fermazione.
CAPITOLO QUINDICESIMO

L'ILLUMINISMO INGLESE 1
[MARIO SINA]

Come agli animali Dio diede per guida l'istinto, cosl « egli
diede all'uomo la ragione quale sua regola suprema e pietra di pa­
ragone per esaminare e scegliere a vantaggio sia del corpo sia del-

1 Tra gli studi generali sull'illuminismo ricordo solamente quelli classici di E. CAS·
SIRER, La filosofia dell'Illuminismo (1 ed. Tubinga 1932), tr. it. di E. Pocar, La Nuova
Italia, Firenze 1936; di P. HAzARD, La crisi della coscienza europea (I ed. Parigi,
1934), tr. it. a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1946, e Il Saggiatore, Milano 1968, e
ID., La pensée européenne au XVIII siècle: De Montesquieu à Lessing, Boivin, Paris,
1946, 3 vols; e quelli più recenti di P. CASINI, Introduzione all'Illuminismo. Da Newton a
Rousseau, Laterza, Bari 1973 e di F. VALJAVEC, Storia dell'Illuminismo, trad. it. di
B. Bianco, Il Mulino, Bologna 1973.
Tra gli studi generali sull'illuminismo inglese sono di utile lettura le opere di J.
LELAND, A View of the principal Deistical Writers that have appeared in England in
the last and present Century, Printed for B. Dod, London 1754-56 in 3 vols.; G. V.
LEcHLER, Geschichte des englischen Deismus, J. G. Cottascher Verlag, Stuttgart 1841
(ed. fotost. 1966); L. STEPHEN, History of English Thought in the Eighteenth Century
(I ed. London 1876), Harbinger Books, London 1962; J. M. RoBERTSON, A History
of Freethought ancient and modern to the period of the French Revolution (I ed. Lon­
don 1899 col titolo A Short History... ), Watts and Co., London 1936, 2 vols.; B. WIL·
LEY, The Seventeenth-Century Background, Chatto and Windus, London 1934 e The
Eighteenth-Century Background, ivi 1940 (entrambi con numerose ristampe nei Pelican
Books); E. GARIN, L'illuminismo inglese. I moralisti, Bocca, Milano 1941; G. R. CRAGG,
From Puritanism to the Age of Reason, University Press, Cambridge 1950 e Reason
and Authority in the Eighteenth Century, ivi 1964; C. MoTZo DENTICE D'AccADIA,
Preilluminismo e Deismo in Inghilterra, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1970.
Sempre di grande utilità sono le voci del Dictionary of National Biography dedicate ai
singoli autori.
Indicazioni utili sulla bibliografia relativa all'illuminismo francese sono date da A.
C!ORANESCU, Bibliographie de la littérature française du XVIII• siècle, CN.R.S., Paris,
1969, 3 vols, e da D. C. CABEEN, A Criticai Bibliography of French Literature, voi. IV,
The Eighteenth Century, ed. G. R. Havens and D. F. Bond, University Press, Syracuse
1951, col relativo Supplement, ed. R. Brooks, 1968.
334 FILOSOFIA MODERNA

lo spirito. La ragione è la luce che illumina quelle cose che contri­


buiscono o si oppongono alla nostra felicità, e senza di essa noi
procederemmo invano a tastoni nell'oscurità e dovremmo ricono­
scere frutto del puro caso ciò che ci accade. È vero, la ragione
non è sufficiente a portarci alla perfetta conoscenza di tutte le
cose, ma è capace di darci quelle conoscenze sufficienti per la no­
stra felicità, più di quanto noi ne abbisogniamo. Non è necessaria
la nostra penetrazione nell'intima natura delle cose, ma ( dal mo­
mento che siamo predestinati ad un'esistenza eterna) è necessario
che conosciamo come rendere questa eternità felice, dal momento
che essa dipende da noi; ora, visto che una conoscenza di questo
genere è assolutamente necessaria, io non posso trovare nulla che
me la fornisca al di fuori della nostra guida sovrana, la ragione.
Pertanto, essendo la ragione la suprema ed originaria guida di ogni
uomo, ogni violazione della sua libertà di guida significa una vio­
lazione dello statuto basilare della natura, nonché del diritto spe-­
ci:fico di ogni uomo; cosl che coloro che si comportano in questo
modo sono giustamente bollati come nemici dell'umanità».
In questo modo si esprimeva a Londra nel 1686 Charles
Gildon 2• La sua non era la voce di un isolato, ma fu una delle
tante espressioni di un comune sentire che, nelle forme e con le
sfumature più diverse, aveva pervaso la cultura inglese della fine
del secolo XVII. Non si erano verificati bruschi rivolgimenti, non
ci furono date sensazionali, ma si veniva diffondendo e consoli­
dando un modo di pensare e di valutare che doveva caratterizzare
l'intero secolo dei lumi. Siamo di fronte ad una lenta maturazione
e ad una graduale esplicitazione dei temi che il razionalismo del
Seicento aveva proposto a partire da istanze diverse, ed emerge una
sempre più chiara affermazione di fiducia in quella ragione sulla qua­
le tanto si era insistito: una ragione che veniva con sempre maggior
vigore posta come giudice unico dell'esistenza umana, una ragione
accettata nei suoi limiti, capace però di escludere in ogni momento
quanto la potesse in qualche modo trascendere o vincolare. La sto­
ria dell'illuminismo fu la storia dell'affermazione dell'unicità della
ragione; e qui cercheremo di ripercorrere - anche se per punti
sommari - le tappe di questa maturazione.

' Scritto di CH. GILDON, datato 1686, apparso poi come Preface all'opera dell'amico
ù1. BwuNT, The Oracles of Reason, London 1693.
ILLUMINISMO INGLESE 335

In Inghilterra dapprima si operò l'esclusione della ricerca del


soprannaturale e del suo senso, di quanto cioè fosse « above Rea­
son », al di là del dominio e delle capacità della ragione umana.
Fu una lotta serrata che ebbe per bersaglio ogni religione rive­
lata, ed in particolar modo il cristianesimo. Accettare il valore
della rivelazione significava negare alla ragione la sua completa au­
tonomia gnoseologica e normativa; affermare la validità della re­
ligione naturale, della religione razionale, voleva dire rendere la
ragione umana misura delle cose, criterio di verità e di condotta.
Esigenze politiche e sociali erano più che mai presenti: erano da po­
co passate le lotte della repubblica e del protettorato; l'intolleranza
e l'opportunismo religioso erano regnati durante la restaurazione.
All'insegna delle nuove libertà, che la pacifica e gloriosa rivolu­
zione del 1688-89 aveva portato, sette di « entusiasti » ostentavano
il loro fanatismo religioso. Una soluzione a questi problemi doveva
pur essere data, anche in concomitanza ad una revisione del concetto
di autorità, ed in particolare di autorità religiosa. Ora l'affrancamen­
to dal principio di autorità venne posto alla sua stessa radice, nella li­
berazione cioè dal sovrannaturale e dal sovrarrazionale. Non che Dio
venisse escluso - un formale ateismo, salvo una certa possibile in­
terpretazione di qualche scritto del Toland, apparirà solo molto
tardi e come uno sbocco possibile di questo movimento -, ma,
pur affermato e dimostrato, Dio restava, relegato nella sua sfera
di trascendenza, lontano dall'uomo. La ragione, pur sempre am­
messa come dono di Dio, rimaneva l'unico punto di riferimento va­
lido e sicuro. Non sarà più alla rivelazione, interpretata da una
chiesa, che ci si dovrà rivolgere per stabilire il criterio della bontà
o meno delle azioni 3, ovvero per decidere sull'ambito dei poteri
dell'autorità civile, per permettere questo o quell'altro culto, per
stabilire l'attendibilità di una dottrina filosofica o scientifica; e,
quando anche ci si rivolgerà ad essa, non sarà che per ricevere una
conferma sempre più superflua. Anzi, la stessa ragione è destinata a
diventare giudice della rivelazione.

3
Per quanto riguarda il problema dell'etica �i vedano le pagine di questo volume
dedicate espressamente a questo argomento.
336 FILOSOFIA MODERNA

1. Verso il secolo dei lumi


(il latitudinarismo teologico, Ch. Blount, R. Boyle)

Un'eredità di fiducia nella ragione derivava alla cultura in­


glese anche dalla tradizione più strettamente teologica. Già dai
primi decenni del 1600, in opposizione al dogmatismo calvinistico,
verso il quale si era orientata la chiesa elisabettiana, si levarono
voci di dissenso nel campo teologico, quasi a eco delle più vivaci
dispute contemporanee che erano sorte ad Amsterdam da parte
degli Arminiani al Sinodo di Dordrecht (1618), o di quelle che
serpeggiavano per tutta Europa, combattute ma non soppresse,
ad opera dei seguaci delle teorie di Socino.
Attorno al FALKLAND, nella sua residenza di Tew non lontana
da Oxford, convenivano, legati dal comune interesse di ribadire
la validità dell'indagine personale e dell'accettazione critica e non
dogmatica del testo sacro, teologi quali il CHILLINGWORTH e
l'HALES. Eredi dell'umanesimo erasrniano e difensori convinti del
« libero esame », essi proclamarono il ritorno ad una lettura della
S. Scrittura svincolata da ogni arbitraria inferenza autoritaria 4.
Secondo costoro l'uomo con la sua ragione e con l'impegno della
sua ricerca può essere giudice autentico della verità religiosa rive­
lata, la quale si presenta, nelle sue linee portanti, espressa in po­
chi e comprensibili passaggi del testo biblico. Ogni intervento au­
toritario ecclesiastico o civile, dimentico che il mantenimento del­
la pace e della carità è nell'ordine cristiano più importante delle
formulazioni dottrinali, mira per scopi terreni a dividere gli uo­
mini e a disperdere il loro interesse su dottrine specifiche e det­
tagliate, verso le quali questi teologi mostrano tutto il loro scet­
ticismo. L'accento posto da costoro sulla possibilità di raggiungere

• Cfr. W. UULLINGWORTH, The Religion of Protestants. A Sa/e Way to Salvation,


printed by L. Lichfield, Oxford 1638 e J. HALES of Eton, The Works, now first col­
'.ected together, printed by R. and A. Foulis, Glasgow 1765, 3 vols. Oltre alle mono­
grafie di P. DEs MAIZEAUX, An Historical and Critical Account of the Life and Wri­
tings of W. Chillingworth, printed for T. Woodward and J. Peele, London 1725 e
An Historical and Critical Account of the Life and Writings of the Ever-memorable
Mr. fohn Hales, printed for R. Robinson, London 1719, resta sempre di grande valore
lo studio di J. TULLOCH, Rational Theology and Christian Philosophy in England in
the XVIlth Century, London 1874 (ed. fotost. G. O1.ms, Hildesheim 1966). Utile, anche
se condotto sotto una prospettiva più strettamente teologica, è il volume dell'H. R.
\1cADoo, The Spirit of Anglicanism. A Survey of Anglican Theological Method in Se­
�enteenth Century, A. and Ch. Black, London 1965.
ILLUMINISMO INGLESE 337

da parte del singolo uomo, con l'uso della « natural light», la ve­
rità religiosa - e, implicitamente, la convinzione della capacità
morale e razionale dell'uomo di raggiungere la propria salvezza -
era destinato a maturazione in senso deistico. È vero che per
essi restava indiscusso il valore divino della Scrittura, punto di
riferimento incontrastato e trascendente, ma è pur vero che una
mancanza di netta demarcazione tra la « reason» e l'« above rea­
son» avrebbe permesso una lettura dei loro scritti in chiave di
sovrapposizione della prima alla seconda sfera 5•
Ad una medesima sorte erano destinati gli scritti di un altro
gruppo di filosofi e teologi inglesi, i PLATONICI di Cambridge 6• In­
compreso restò il loro tentativo apologetico contro l'insorgente
materialismo hobbesiano e la loro rilettura cristiana delle opere di
Plotino. Lo sbocco mistico della affermata connessione tra il mon­
dano e il celeste, tra il visibile e il trascendente, tra la natura
e la grazia, in cui l'aspetto di mistero non era negato ma esteso a
tutto l'ordine naturale e soprannaturale, ed in cui la ragione,
« Candle of the Lord», era riconosciuta essa stessa dono divino
e gradino iniziale per quel processo di ritorno al divino, culmi­
nante nel momento dell'estasi, non venne storicamente colto. Per
esempio, tra le opere di BENJAMIN WmcHCOTE - che può es­
sere considerato il caposcuola della rinascenza neoplatonica in­
glese - più che non ai Sermons, i quali presentavano in Cristo,
uomo-Dio, il punto di superamento dell'ordine naturale, si attinse
ai Moral and Religious Aphorisms, ed a quelle affermazioni speci­
fiche che in essi, staccate, parevano celebrare il valore assoluto del­
la ragione: « Andare contro la ragione è andare contro Dio: è la
medesima cosa fare ciò che la ragione richiede e ciò che Dio co­
manda; la ragione è il divino governatore della vita dell'uomo, è la
vera voce di Dio» ( Aph., n. 76), « la religione comincia nella co­
noscenza, continua nella pratica, e termina nella felicità» (Aph.,
n. 169), « La ragione della mente umana deve essere soddisfatta;
nessuno può pensare contro di essa» (Aph., n. 942); ovvero a

' Prova ne sono le numerose accuse di socinianesimo ricevute durante la loro vita,
l'attribuzione postwna di libelli dichiaratamente sociniani all'Hales, le frequenti cita­
zioni di loro proposizioni in scrittori del deismo settecentesco.
' Per la trattazione delle loro concezioni filosofiche dr. le pp. 249-256 di questo
volume.
338 FILOSOFIA MODERNA

quelle dei 0EoqiopouµEv<X À6yµ<X-r<X che potevano indicare l'essenza del-


1'atteggiamento religioso ridotta alla sfera etica: « la vera religione
consiste in una costante buona disposizione dell'animo, in accordo
alla quale seguiranno delle azioni convenienti» (ib., p. 110).
Da una forma di razionalità dell'assenso religioso, intesa come
prudente ricerca che ci garantisca di trovarci di fronte alla parola
di Dio, a cui poteva seguire solo un atteggiamento di comprensio­
ne gradualmente più completa e di conseguente obbedienza, si pas­
sò all'esigenza di un vaglio razionale dello stesso contenuto rive­
lato. Questa esigenza non era sentita soltanto da alcuni teologi,
ma si era insinuata nelle stesse file della chiesa ufficiale: lo stesso
primate della chiesa anglicana JoHN TILLOTSON 7 nei suoi nume­
rosi Sermoni poneva - anche se motivato dalla paura di un in­
cremento del fanatismo religioso di alcune sette dissenzienti -
l'elemento razionale a giudice dell'autentica interpretazione del
contenuto rivelato. Leggiamo già nell'introduzione che egli fece
alla pubblicazione postuma dell'opera di JoHN WrLKINS, vescovo di
Chester, The Principles and Duties of Natural Religion (1675), il
suo interesse a « stabilire i grandi principi della religione - l'esi­
stenza di Dio e di una vita futura - mostrando come essi trovas­
sero fermo e stabile fondamento nella natura e nella ragione uma­
na» e a mostrare come l'insegnamento etico di Cristo, cioè l'amo­
re di Dio e del prossimo, fosse già « scritto nei nostri cuori e sen­
tito dalla coscienza di ogni uomo come obbligo segreto».
Nell'opera di CHARLES BLOUNT 8 vediamo convergere le linee te­
matiche delle dottrine di Herbert di Cherbury, di Hobbes e di Spino-

7
]OHN TILLOTSON (1630-1694) studiò all'umversità di Cambridge, ma non fu in­
fluenzato dalla scuola dei platonici. La lettura dell'opera del Chillingworth e la stretta
amicizia con il Wilkins lo allontanarono dalla rigida ortodossia calvinistica, anche se
non subito dalla confessione puritana non-conformista. Predicatore di talento, oltre che
dallo studio della Sacra Scrittura, attinse abbondantemente dalle concezioni etiche dei
filosofi greci. Dopo l'avvento al trono òi Guglielmo d'Orange fu eletto decano di St.
Paul e nel 1691 veMe nominato arcivescovo di Canterbury e primate d'Inghilterra. Fu
amico e corrispondente del Locke e del Le Clerc. VeMe accusato di socinianesimo per
alcune affermazioni di sapore antitrinitario presenti in alcuni suoi sermoni.
Opere: J. TILLOTSON, The Work.r, containing two hundred Sermons and Discourses,
on severa! Occasions, Printed for W. Rogers, London 1712. L'unico studio monogra­
fico è quello di L. G. LocKE, Tillotson. A Study in Seventeenth-Century Literature, in
«Anglistica», Copenhagen 1954 (interessano l'aspetto dottrinale e filosofico le pp.
65-112).
8
CHARLES BLOUNT (1654-1693) tralasciato l'iniziale interesse letterario che lo vide
come traduttore, insieme con il Dryden, degli scritti di Luciano di Samosata ( edizione
ILLUMINISMO INGLESE 339

za. Non ci troviamo più di fronte a lunghi trattati, spesso scritti in


lingua latina, riservati per la loro sttssa struttura ad un ristretto
pubblico di eruditi, ma a veloci pamphlets, in cui l'erudizione,
quando è presente, è in funzione di criteri di effetto. Nasce cosi
un nuovo stile, più conciso ed incisivo, inteso ad evidenziare, per
strati più ampi, i limiti e le deficienze delle religioni storiche e
positive. Il richiamo alle prime formulazioni deistiche di Lord
Herbert è esplicito fin dalla sua Religio laici ( 1683 ): « Intitolo il
mio libretto col nome di Religio laici, assumendolo dal trattato
omonimo di Lord Herbert di Cherbury», ed il suo argomentare
procede sulla traccia delle proposizioni « cattoliche» proposte dal
filosofo di Cherbury: « 1. Esiste un solo supremo Dio. - 2. Que­
sto Dio deve essere adorato. - 3. L'espressione migliore di questo
culto consiste nella pratica della virtù, nella bontà, nella pietà. -
4. Noi dobbiamo pentirci dei nostri peccati dal profondo del no­
stro cuore, e ritornare sulla retta strada. - 5. Dopo questa vita
c'è una ricompensa o un castigo» (ib., pp. 52-73 ). Anche se talora
emerge nelle sue pagine la controversa esigenza herbertiana di una
concordia religiosa fondamentale tra gli uomini, l'atteggiamento
critico di fondo nei confronti di ogni dato rivelato è però, se non
nuovo, almeno più vigoroso ed esplicito. Gli argomenti di credibili­
tà di ogni religione positiva vengono minati da una sommaria com­
parazione storica: tutte le religioni non hanno fatto altro che

che apparirà solamente nel 1711 ), si dedicò completamente alla compilazione dei suoi
libelli di diffusione del pensiero deista e di difesa del libero pensiero. La sua produ­
zione libellistica si ispira ad Hobbes (alla morte del quale compose The Last Saying or
Dying Legacy of Mr. Thomas Hobbs, London 1679, consistente in una presentazione
per estratti del Leviathan), Spinoza (conosciuto dal Tractatus theologico-politicus, del
quale egli fece una libera versione in inglese del capitolo VI sui miracoli) ed
Herbert di Cherbury (alle cui tesi si ispira la sua omonima opera del 1683, Religio Laici).
Si interessò di problemi politici aderendo al partito whig, ed al termine della sua vita
pubblicò due opuscoli in difesa della libertà di stampa. Morl suicida, sembra per non
aver potuto sposare la sorella della defunta moglie, e la sua memoria fu difesa da
Charles Gildon.
Ricordiamo tra le sue numerose pubblicazioni Anima Mundi, London 1679; Religio
Laici. Written in a Letter to J. Dryden Esq., printed for R. Bentley, London 1683;
Miracles no Violation of the Laws of Nature, printed for R. Sollers, London 1683;
A Summary Account o/ the Deists Religion (datato 14 maggio 1686) e Great is Diana
of the Ephesians: or the Origina! of Idolatry, together with the Politick Institution
of the Gentiles Sacrifices, apparsi in The Miscellaneous Works of Ch. Blount, printed
in year 1695. In queSL'l raccolta sono pure pubblicate le famose lettere, quasi tutte
scritte dal Blount, che formano The Oracles of Reason. Una recente monografia sul
Blount è quella di U. BoNANATE, Charles Blount. Libertinismo e deismo nel Seicento
inglese, La Nuova Italia, Firenze 1972.
340 FILOSOFIA MODERNA

insegnare le cose più disparate e tra loro più opposte. Ogni re­
ligione positiva, poi, pone come sua garanzia l'intervento mira­
coloso di Dio nel mondo, intervento questo che è dal Blount as­
solutamente escluso non solo per mot:ivi di indagine storica, tra cui
la difficile verifica delle testimonianze dell'antichità, ma anche per
motivi teoretici desunti sia dal Leviathan di Hobbes sia dal Tracta­
tus Theologico-politicus di Spinoza.
La religione dunque si presenta come puro rapporto ra­
zionale con una divinità assoluta, rapporto escludente ogni interfe­
renza storica o rivelativa: l'« above reason » è completamente ed
enfaticamente escluso. A conclusione del Summary Account of the
Deist Religion del 1686 il Blount afferma che « la ragione, essendo
la prima rivelazione di Dio, è la prima che deve essere creduta: essa
non dipende da fatti dubbi avvenuti senza di noi, ma col fulgore
della sua luce brilla sempre in noi » (ib., p. 5). A questa religione
pura e razionale, religione dello spinoziano « amor Dei intellectua­
lis », ogni uomo in ogni età è stato idealmente chiamato, anche se
la sua adeguazione fu, per condizioni storiche diverse, sempre ap­
prossimativa. Essa non già è l'<< imperfect Light » che deve essere
soccorsa da un lume ulteriore divino, ma è essa stessa quella luce
alla quale in modo imperfetto attinsero nella storia dell'umanità le
varie religioni positive. È sulla base della religione naturale che van­
no giudicate le religioni positive e non viceversa, ed è attraverso le
religioni positive che quella naturale storicamente è penetrata nella
società: « Io trovai che tutti i Misteri, i Sacramenti e le Rivelazioni
intesero principalmente stabilire questi cinque articoli [ = com­
pendio essenziale della religione naturale], che sono in ultima
istanza il fine principale per il quale quei riti furono prescritti »
(Religio laici, p. 82).

Chi sentì maggiormente questo incrinarsi dell'autentico senso


religioso, aperto per sua natura ad un rapporto di trascendenza e di
sovrarrazionalità, fu RoBERT BoYLE 9• Egli, cosciente del valore di

' RoBERT BOYLE (1626-1691), dopo un giovanile viaggio in Europa ed un breve


soggiorno in Italia, dove ebbe modo di incontrare Galilei, trascorse la sua vita tra Oxford
e Londra dedicandosi a studi scientifici e religiosi. Fu autorevole membro di quel
« collegio filosofico» che divenne sotto Carlo II la « Royal Society ». Compl impor­
tanti studi chimici sulle parti elementari della materia e, contro le teorie dei quattro
elementi, propose una pluralità di elementi invisibili ed indivisibili costituenti i corpi;
ILLUMINISMO INGLESE 341

un'apologetica disinteressata - sovente sottolineò il fatto di esse­


re laico, e di non scrivere di conseguenza per ottenere cattedre di
teologia o cariche ecclesiastiche -, tentò a più riprese di indicare
la compossibilità del razionale e del sovrarrazionale. Le sue opere
scientifiche, pur escludendo un facile finalismo, esprimono soven­
te il desiderio umano di superare le cause immediate e di risalire al
divino ordinatore, alla sua potenza creatrice. Il suo rigore critico
però, come lo induceva ad una posizione scettica di fronte alle ve­
loci conclusioni della fisica e della chimica antica, esigeva pure per
le questioni religiose e le loro soluzioni un approfondimento ul­
teriore.
Le Scritture devono essere accolte tenendo conto delle di­
versità espressive e stilistiche delle lingue ebraica, greca e moderne
(dr. The Style of the Holy Scriptures, pp. 7-16), nonché della loro
struttura come silloge di libri composti in epoche diverse, appar­
tenenti a vari generi letterari, destinati a persone o comunità diffe­
renti tra loro (cfr. ib., pp. 16-21). Cosi le accuse alla Bibbia vengono
dal Boyle man mano eliminate, con la proposta di un ascolto ese­
geticamente critico. Restano però sempre alcuni punti insondabili,
misteriosi, riguardanti la struttura stessa del nostro rapporto con
Dio e la sua natura; Boyle non se ne meraviglia, perché, come già
molte cose dell'ordine fisico ci sono incomprensibili - la natura

distinse tra mixture (aggregato) e compound mass (composto). Numerosi sono i suoi stu­
di sull'aria, intesa come fluido tenue, trasparente, che si può comprimere e dilatare, di
struttura complessa. Compl pure studi sul vuoto e sull'evaporazione.
Per un'edizione completa delle opere del Boyle si rimanda ai cinque volumi di The
Works, by Th. Birch, London 1752 (ripr. fot. Hildesheim 1966). Per le opere di tinta
più strettamente teologica, qui prese direttamente in esame, si veda la loro prima edi­
zione: R. BoYLE, Some Considerations touching the Style of the H. Scriptures (Consi­
derazioni sullo stile delle S. Scritture), printed for H. Herringman, London 1661; Some
Considerations about the Reconcileableness of Reason and Religion (Considerazioni sulla
conciliabilità di ragione e religione), ivi 1675; A Discourse of Things above Reason,
inquiring whether a Philosopher should admit there are any such (Discorso sulle « co­
se superiori alla ragione», in cui ci si domanda se un filosofo possa riconoscerne l'esi­
stenza), printed for J. Robinson, London 1681; A Discourse about the Distinction, that
represents some Thinghs as above Reason, but 11ot contrary to Reason, (Discorso sulla
distinzione che contempla cose « superiori alla ragione» ma non contrarie ad essa) apparso
come prima appendice a The Christian Virtuoso, printed for J. Taylor, in the Savoy
1690. Esiste una traduzione italiana del Chimico scettico, di M. Borella, ed. Boringhieri,
Torino 1962. Una buona biografia del Boyle, oltre a quella di Th. Birch anteposta al­
l'edizione completa citata, è quella di L. T. MORE, The Life and Works of the
Honourable R. Boyle, University Press, Oxford 1944. Di grande utilità è la bibliografia
personale curata da J. F. FuLTON, A Bibliography of the H. Robert Boyle, fellow of
the Royal Society, At the Clarendon Press, Oxford 1961 2•
342 FILOSOFIA MODERNA

dello spazio e del tempo, l'origine del movimento, le azioni del­


l'anima -, a maggior ragione potranno essere tali quelle dell'or­
dine soprannaturale. Ora la causa di questa oscurità non è da ri­
cercarsi nello stile della S. Scrittura, ma nel suo contenuto stesso,
al di sopra del nostro intelletto (cfr. ib., p. 39).
Diverse sue opere successive cercheranno di chiarire quesK>
rapporto tra il misterioso e il raggiurigibile razionalmente e di mc...
strare la non contraddittorietà della « reason » con l'« above rea­
son ». In modo particolare nel suo A Discourse of Things above
Reason (1681) egli sottolinea la necessità dell'accettazione dell'« abo­
ve reason », pur nel rispetto del valore della conoscenza razionale:
« Non penso che rifiutare ogni idolatria dell'intelletto sia degradarlo,
e che considerare la ragione come una facoltà limitata sia farle ingiu­
ria; sarebbe invece un'ingiuria al suo Autore il pensare l'intelletto
umano infinito come quello divino » (ib., pp. 22-23). Ma questa
debolezza della umana ragione non potrà forse man mano dimi­
nuire col progresso?
AnLl1e sulla possibilità di un indefinito progresso dello spirito
umano il Boyle pone le sue riserve: « mi attendo che queste sco­
perte verteranno principalmente su quelle cose in cui la nostra
ignoranza è dovuta alla mancanza di una completa conoscenza del­
la storia della natura, o in cui noi siamo tratti in inganno sia a cau­
sa di erronee professioni, sia per mancanza di libertà o attenzione
nella nostra speculazione. Ma non mi attendo i medesimi risul­
tati nei confronti di tutte le difficoltà metafisiche (se posso così
chiamarle) in cui né i dati di fatto, né le ipotesi di altri subordi­
nati ambiti dell'umano sapere mi possono soccorrere. Comunque
sono persuaso, per quanto riguarda gli oggetti a noi più remoti,
che vi sono alcune cose, che si riferiscono a quell'infinito e somma­
mente monadico essere che noi chiamiamo Dio, che rimarranno
ancor sempre incomprensibili anche agli intelletti filosofici. E pos­
so ben poco sperare di vedere superati quegli ostacoli che nascono
non da un'infermità personale o da errori evitabili, ma dalla limi­
tata natura dell'intelletto » (ib., p. 28).
Questa accettazione del limite della conoscenza razionale non
implica però in Boyle un adagiarsi su posizioni fideistiche. Se mol­
te regole prudenziali vengono date per evitare facili esclusioni di
affermazione di cose soprannaturali (Advices in Judging of Things
said to trascend Reason), resta sempre operante la prima regola:
ILLUMINISMO INGLESE 343

« circa questi soggetti privilegiati [ ovvero trascendenti] noi non


ammettiamo nessuna asserzione positiva che non sia, nel suo ge­
nere, sufficientemente dimostrata» (ib., p. 6) e ciò perché non è
ragionevole assentire a qualcosa come a verità se non se ne ha una
ragione sufficiente (cfr. ibid., p. 8).

2. fohn Locke

]OIIN LocKE 10 fu il modello ideale al quale tutto l'illuminismo


inglese e francese si ispirò. Gli autori del deismo inglese sette­
centesco cercarono continuamente di collegarsi al suo pensiero e
di contrabbandare le proprie formulazioni più audaci come corol­
lari della teoria gnoseologica e teologica lockiana. Voltaire, già a
partire dalle Lettres philosophiques (lettera XIII), diffuse una ge­
nerale venerazione nell'ambiente francese per questo filosofo: sot­
tolineò lo stacco della filosofia lockiana da ogni preteso contenuto
metafisico, elogiò i limiti metodologici della sua indagine, condi­
vise la sua convinzione della non solvibilità in sede filosofica di que­
stioni teologiche controverse (quali la natura dell'anima e la sua
immortalità, la possibilità data alla materia di pensare, la liber­
tà come potere di agire ... ) e non esitò neppure - per mostrare
come la filosofia dei liberi pensatori non turbi l'ordine sociale -
a collegarlo con Montaigne, Bayle, Spinoza, Hobbes, Shaftesbury,
Collins e Toland. Ma c'è una differenza notevole - come ci fa pu­
re osservare R. Aaron - tra la posizione di Locke e quella propria
dello svolgimento del pensiero deistico ed illuministico in genere:
Locke ne differisce « non perché la sua fede nella ragione sia infe­
riore alla loro, ma perché egli non pone la sua fede nella sola ra­
gione».
L'interesse iniziale di Locke fu la chiarificazione giuridico-poli­
tica dei rapporti tra libertà religiosa e comunità organizzata civile;
ricerca condotta nei suoi vari scritti sulla tolleranza. Che Dio deb­
ba essere adorato è una certezza di patrimonio comune ed uni-

1
° Cfr. sopra, pp. 261 e segg. Qui cercheremo solamente di delineare il suo pensiero
più specificamente teologico, per poterne comprendere gli influssi sul deismo inglese
e sull'illuminismo francese.
344 FILOSOFIA MODERNA

versale, ma perché proprio in un determinato modo anziché in un


altro è il problema dibattuto.
Nei suoi inediti del 166O e 1662 Locke portò avanti il discorso
della tolleranza, nella convinzione che esso fosse un problema non
religioso ma politico: la tolleranza è uno dei modi in cui lo stato
può risolvere il problema della convivenza di uomini con fedi e
religioni diverse. Gli anni delle lotte politico-religiose, anni di san­
gue, sopraffazioni, intemperanze settarie, che videro il prevalere del
calvinismo con la Repubblica e il Protettorato, avevano convinto il
Locke della necessità di un'azione del magistrato civile diretta al ri­
stabilimento della concordia religiosa: « il magistrato, se non inter­
ponesse la sua autorità e non mettesse fine alle segrete macchinazioni,
trascurerebbe certamente il proprio dovere di essere il grande con­
servator pacis, e lascerebbe giacere negletti gli stessi fondamenti e
fini del governo, e lascerebbe la pace di quella società, che è affidata
alle sue cure, esposta al pericolo di essere straziata e fatta a pezzi da
chiunque potesse soltanto invocare le pretese della coscienza e snu­
dare una spada» (Scritti editi ed inediti sulla tolleranza, ed. Viano,
p. 187).
Nel successivo Saggio sulla Tolleranza del 1667, affrontando
nuovamente questo tema del rapp0rto tra autorità politica ed
espressioni religiose, il Locke muta 9rospettive e soluzioni. La tol­
leranza, estesa ora anche alle « indifferent Things» e a tutta la
zona del culto, è riconosciuta come un diritto personale inaliena­
bile. Il magistrato non ha potere alcuno nel settore religioso, es­
sendo questo patrimonio incontrastato dell'umana coscienza: « il
magistrato, come magistrato, non ha nulla da fare in relazione al
bene delle anime umane o ai loro interessi in un'altra vita, ma è
stabilito e riceve il proprio potere soltanto per una vita pacifica ed
agevole degli uomini riuniti in società. come è già stato sufficien­
temente provato. Ed è per giunta evidente che il magistrato coman­
da la pratica delle virtù, non perché esse sono comportamenti vir­
tuosi ed obbligano le coscienze, o sono i doveri dell'uomo verso
Dio e la via per ottenere il suo perdono ed il suo favore, ma per­
ché esse sono vantaggiose ai rapporti dell'uomo con l'uomo e la
maggior parte di esse sono forti legami e vincoli di associazione, che
non possono essere allentati senza che sia spezzata tutta la co­
struzione» (ibid., pp. 227-228).
ILLUMINISMO INGLESE 345

La Lettera sulla Tolleranza (1689) è il punto d'arrivo dei più


maturi sviluppi del pensiero di Locke in fatto di tolleranza. Dopo
la delusione della restaurazione di Carlo II ed il dispotismo con­
fessionale di Giacomo II si risente particolarmente viva la neces­
sità di distinzione degli ambiti di competenza religiosa e politica,
basandosi su una forte rivendicazione dei diritti della coscienza.
Limitato l'ambito del potere dell'autorità statale alla tutela degli
interessi materiali (« la vita, la libertà e l'integrità del corpo, la sua
libertà dal dolore, il possesso delle cose esterne » ), si vede come ad
esso non possa strutturalmente competere la cura delle anime: la
religione è innanzi tutto intima persuasione, onde appare evidente
che il magistrato, disponendo solo di una forza coattiva esterna,
ndn abbia su di essa alcun potere; le sanzioni, unico mezzo di cui
egli può disporre, sono del tutto inadeguate ad ottenere la persua­
sione. Ma anche la chiesa è una società libera di credenti, e per­
ciò nessuno ne è membro per nascita, ma lo diventa solo quando
ritiene di aver trovato in essa la via migliore per salvarsi; ognu­
no inoltre deve sentirsi pienamente libero di uscirne qualora tro­
vi che essa non risponda più alle sue esigenze di fede.

Non disgiunto dall'interesse politico matura in Locke parallela­


mente quello più strettamente speculativo e teologico: il rapporto
cioè tra il limite della conoscenza intellettuale e i dati dell'« above
reason », ed il valore conoscitivo e pratico di questi ultimi. In
questa lenta maturazione non saranno di secondo piano le influenze
della teologia razionalistica inglese e dello stesso Boyle, cui il
Locke fu legato anche per interessi scientifici, nonché gli apporti
ed i suggerimenti dei principali rappresentanti dei teologi rifor­
mati olandesi. Già all'origine del suo Saggio è evidente questo suo
interesse critico intorno ai « principi della morale e della religione
rivelata », che si approfondirà negli anni di gestazione di esso in
una continua meditazione sia sul problema dell'ispirazione, come
fonte di conoscenza delle cose non raggiungibili con i naturali mezzi
della sensazione e della riflessione, sia sul valore dei dati da essa
forniti. È qui operante il timore del passaggio dalla pretesa convin­
zione di essere sempre di fronte alla parola di Dio al fanatismo re­
ligioso, il quale esclude ogni verifica razionale dello stesso dato ri­
velato e frantuma l'umanità in numerose sette, convinte dell'au­
tenticità divina del loro credo. Nasce cosi quella esigenza di chia-
346 FILOSOFIA MODERNA

rire e determinare « l'ambito e i confini reciproci tra fede e ra­


gione » (Essay, IV, XVIII, 1) e di giungere ad una definizione
dei due termini che, per quanto possibile, escluda ogni indebita
interferenza: « Qui dunque per ragione, in contrapposizione alla
fede, io intendo la scoperta della certezza e probabilità di quelle
proposizioni o verità, cui lo spirito giunge per deduzione fatta da
quelle idee che ha ottenuto mediante l'uso delle sue facoltà natu­
rali, ossia la sensazione o la riflessione. La fede, d'altro lato, è
l'assenso dato ad una proposizione, non ottenuta mediante le de­
duzioni della ragione, ma sul credito di chi la propone come pro­
veniente da Dio, in una qualche maniera di comunicazione fuori
dell'ordinario. Questo modo di scoprire delle verità agli uomini noi
chiamiamo rivelazione » (ib., IV, XVIII, 2).
Nello stesso capitolo in cui troviamo queste definizioni vengo­
no analizzati i rapporti tra le due fonti di conoscenza: la rivela­
zione non può incrementare il numero delle nostre idee semplici,
perché ci mancherebbero addirittura le facoltà per accogliere tali
idee semplici non riducibili ai sensi (cfr. ib., IV, XVIII, 3); essa
può fornirci delle idee raggiungibili dalla ragione, aumentandone
in questo modo il grado di certezza (cfr. ib., IV, XVIII, 4), mentre
nessuna rivelazione potrà mai essere accolta se contraria ad una
chiara evidenza della ragione, il che implicherebbe la distruzione
di ogni conoscenza (cfr. ib., IV, XVIII, 5). Se già questa contrad­
dizione non va accettata nella rivelazione immediata ( = originale,
direttamente rivolta al singolo), a fortiori essa non deve essere ac­
cettata in quella affidata alla tradizione (cfr. ib., IV, XVIII, 6 ).
L'« above reason » diventa cosl l'oggetto specifico della fede,
e l'ambito proprio e necessitante dell'ascolto della rivelazione si
estende là dove la ragione non può giudicare per nulla e là
dove la ragione resterebbe nel campo della mera probabilità (ib.,
IV, XVIII, 7 e 9). La ragione dunque non potrà determinare dal
di dentro il contenuto della rivelazione, ma avrà sempre il compito
di controllare e « giudicare se la rivelazione sia divina o no: essa
non potrà mai permettere allo spirito di optare per la minore evi­
denza respingendone la maggiore, né consentirgli di accettare la
probabilità in opposizione alla conoscenza ed alla certezza » (ib.,
IV, XVIII, 10). Solo in questo modo si potrà evitare di cadere nel­
l'entusiasmo, che è un credere senza prove, un credere perché si
crede (cfr. ib., IV, XIX, 10).
ILLUMINISMO INGLESE 347

L'esclusione della irrazionalità del dato di ogni rivelazione,


che già appariva dai suoi Journals nel 1681, portava a maturazione
quelle linee che dovevano sorreggere la sua opera più nota del
1695, The Reasonableness of Christianity. In essa viene compen­
diato il credo della rivelazione neotestamentaria nel solo annuncio
salvifico della messianicità di Gesù. Mettendo tra parentesi (e for­
se non negando come i suoi critici contemporanei sottolinearono)
quel « corpus» ulteriore di dottrine, causa di infinite dispute nella
storia delle varie chiese, e basandosi sull'esame dei Vangeli e de­
gli Atti degli Aposto;l.i, egli intese proporre che « tutto ciò che bi­
sogna credere per essere giustificati, non è altro all'infuori di que­
sta singola proposizione: che Gesù di Nazareth fu il Cristo, il Mes­
sia» (op. cit., passim). « È chiaro che il Vangelo fu scritto per
portare gli uomini a credere questa proposizione " che Gesù di
Nazareth fu il Messia ": credendo questo essi avrebbero avuto la vi­
ta » (ib., pp. 28-29). Credere in Cristù non significa ammettere nul­
la di irrazionale: Gesù si manifestò come Messia per mezzo dei mira­
coli, e questi non furono fatti che per dare autorità al suo insegna­
mento, di modo che la sua parola venisse accettata come la parola
dell'inviato autentico di Dio anche dai più umili uomini (dr. ib.,
pp. 258-262). Cristo dunque insegnò sl con autorità, insegnò se­
condo la mente di Dio, ma non insegnò contro la razionalità uma­
na. Dove l'ambito della probabilità e dell'incertezza aveva ceduto
all'errore, là si inserl l'insegnamento di Gesù; dove il vizio o la
superstizione o l'oscurità avevano tradato l'umanità, a questo pun­
to intervenne la sua opera di maestro e di guida. L'umanità fu per­
tanto ricondotta al monoteismo e ad una moralità alla quale - pur
astrattamente potendo - di fatto non era giunta. Ma anche il
culto richiedeva di essere riformato: e Cristo propose un culto
semplice, spirituale, conforme alla natura del Dio rivelato; un
culto essenzialmente interiore, opposto alle cerimonie frivole e pom­
pose (cfr. ib., pp. 282-284 ).
Motivazioni ulteriori per agire virtuosamente sono da Cristo
rivelate con l'affermazione della dottrina dell'immortalità dell'ani­
ma: le oscurità e le incertezze dell'umanità sul ciò che seguirà la
morte, sfruttate spesso dai preti per il proprio tornaconto, scom­
paiono con la rivelazione cristiana. La sanzione ultraterrena in­
cide sul concetto stesso della moralità: « su questo fondamento,
e solo su questo, la moralità resta salda, e può resistere ad ogni at-
FILOSOFIA MODERNA

tacco. Esso la rende un qualcosa di più di un semplice nome: un


bene sostanziale, degno di essere assunto come fine di tutti i no­
stri sforzi, e questo il Vangelo di Gesù Cristo ci ha comunicato »
(ib., p. 289). Cristo inoltre ci promette l'aiuto del dono dello Spi­
rito. Avremmo torto a chiederci come lo Spirito agisca in noi, poi­
ché ignoriamo come lo stesso nostro spirito ci fa agire: ma Cristo
ci ha promesso questo aiuto e nru non possiamo non sperarlo (dr.
ib., pp. 289-90). La fede nel Vangelv - ci dice Locke alla con­
clusione della sua opera - è la fede in un annuncio di salvezza pe1
tutti gli uomini; dal Vangelo noi non dobbiamo ricavare com­
plessi schemi teologici perché Cristo non è venuto per gli scribi e i
sapienti. Se pertanto « il Vangelo doveva essere predicato ai po­
veri (Mt. XI, 5), un tale Vangelo doveva essere senza dubbio sem­
plice ed intelligibile, di modo che i poveri potessero intenderlo:
ed esso, come abbiamo visto, lo fu, sia nella predicazione di Cristo
sia in quella degli apostoli ».
Anche se dei motivati dubbi nacquero sulla non perfetta orto­
dossia della posizione lockiana (l'accusa di socinianesimo che l'Ed­
wards gli mosse non era priva di ogni fondamento), è indubbio il
sincero interesse religioso del nostro autore: il desiderio della ra­
zionalizzazione del contenuto rivelato significa non tanto una nega­
zione, quanto una purificazione dell'insegnamento biblico dalle so­
vrastrutture di successive speculazioni teologiche. Gli ultimi anni
della sua vita furono dedicati ad un continuo studio del Nuovo Te­
stamento, nel desiderio di far emergere - come nelle lunghe Pa­
rafrasi alle epistole di S. Paolo - la vera mente dell'autore. E le
parole dell'Éloge Historique de feu Mr. Locke dell'amico Le Clerc
« On verra f>'1 lui une vie chrétienne, et une étude profonde du
Nouveau Testament, jointe à une :finesse et à une exactitude extra­
ordinnaire de raisonnement, et l'on comprendra que la plus solide
Piété ne se trouve qu'avec la Raison la plus épurée » (pp. I-II) non
sono dettate da una pura esigenza apologetica ed elogiativa di com­
memorazione, ma rispecchiano veramente la vita e l'opera del
Locke.
ILLUMINISMO INGLESE 349

3. Gli scrittori del deismo (]. Toland, A. Collins,


W. Whiston, T. Woolston, M. Tindal)
L'equilibrio lockiano tra il dominio della ragione e del sovrarra­
zionale fu però un equilibrio instabile. L'anno successivo alla Rea­
sonableness del Locke apparve il volume del ToLAND 11 Christianity
not Mysterious (1696). Locke aveva cercato di mostrare come il
cristianesimo non fosse in discordanza con i dati della ragione;
Toland procedette oltre, negando quanto in esso fosse non solo
contrario, ma superiore ai contenuti razionali: « non c'è nulla nel
Vangelo contrario alla ragione, né al di sopra di essa; e nessuna
dottrina cristiana può essere chiamata propriamente mistero » (ib.,
p. 6). Partendo dalla dottrina lockiana sulla conoscenza, Toland vie-
11
]OHN TOLAND (1670-1722), nato in Irlanda vicino a Londonderry, ricevette una
prima educazione cattolica. Passato al protestantesi.mo, studiò a Glasgow e si laureò
nell'università di Edimburgo. Trasferitosi in Olanda, studiò storia ecclesiastica con
Frederick Spanheim e conobbe il Le Clerc. I contatti con l'ambiente del Seminario ar­
miniano contribuirono a radicarlo e confermarlo nelle sue convinzioni razionalistiche
e latitudinarie. Dovette abbandonare nuovamente l'Irlanda nel 1697 dopo la condanna
del suo Christianity not Mysterious da parte delh Camera dei Comuni di Dublino. Nel
1701, al seguito del conte di Macclesfield, si recò in Hannover, dove ebbe modo di
incontrare la regina di Prussia Sofia Carlotta e di venire successivamente in contatto
con Leibniz. Alla regina di Prussia sono idealmente dirette le Letters to Serena, e
l'ultima di esse, che sostiene essere essenziale il movimento alla materia, rispecchia il
confronto verbale avuto con Leibniz circa la dottrina della sostanza. Ritornato de­
finitivamente nel 1710 in Inghilterra, continuò nella sua instancabile opera di libelli­
sta su argomenti politici e religiosi. Mori a Putney vicino a Londra, nel 1721.
Ricordiamo tra le numerosissime sue opere: Christianity not Mysterious: or a Trea­
tise shewing that there is nothing in the Gospel contrary to Reason, nor above it: and
that no Christian Doctrine can be properly call'd a Mystery, (Cristianesimo senzal mi­
steri. Trattato nel quale si dimostra che nel Vangelo non vi è nulla di contrario alla
ragione né di superiore ad essa, e che nessuna dottrina cristiana può essere chiamata
propriamente mistero) London 1696; Letters to Serena, (Lettere a Serena) printed for B.
Lintod, London 1704 (di queste due opere c'è una ediz. fotost. Stuttgart 1966); Adeisi­
daemon, sive Titus Livius a superstitione vindicatus, apud Th. Johnson, Hagae-comitis 1709
ed in appendice le Origines Judaicae; inoltre Nazarenus: or Jewish, Gentile and Mahometan
Christianity, (Nazareno: ovvero il cristianesimo del giudaismo, del paganesimo, e dell'isla­
mismo), printed by J. Brown, London 1718; Tetradymus, printed for J. Brotherton
and W. Meadows, London 1720; Pantheisticon, sive Formula Celebrandae Sodalitatis
Socraticae, Cosmopoli 1720. Altri opuscoli si trovano in The Miscellaneous Works of
Mr. J. Toland, printed for J. Whiston, S. Baker and J. Rohinson, London 1747 (edi­
zione identica all'A Collection of Several Pieces of ]. Toland, London 1726, in 2 voll.);
nel primo volume di questa collezione si veda pure l'A Copious Account of Mr. Toland's
Life and Writings composto dal Des Maizeaux. Tra i recenti studi su Toland ricordiamo
gli articoli di F. H. HEINEMANN, Prolegomena to a Toland Bibliography, in « Notes and
Queries », Sept. 1943, pp. 182-186; In., J. Toland and the Age of the Enlightenment, in
« Review of English Studies» 1944, pp. 125-146; lo., Toland and Leibniz, in « The
Philosophical Review » 1945, pp. 437-457; e quello di P. CASINI, J. Toland e l'attività
della materia. in « Rivista critica di Storia della Filosofia», 1967, pp. 24-53. Recentemente
è apparso il volume di G. CARABELLI, Tolandiana: materiali bibliografici per lo studio
dell'opera e della fortuna di John Toland (1670-1722), La Nuova Italia, Firenze 1975.
350 FILOSOFIA MODERNA

ne alla conclusione che « ciò che è evidentemente in contrasto con


le nostre idee chiare e distinte o con le nostre nozioni comuni è
contrario alla ragione» (ib., p. 23 ); ma nello stesso tempo il « non
contrario alla ragione» diventa per Toland sinonimo di « conforme
alle nostre nozioni comuni» (ib., p. 30). Il contenuto rivelato do­
vrà allora essere giudicato unicamente dalla ragione: la rivelazione
sarà un puro mezzo di informazione soggetto a controlli contenu­
tistici: « lo non credo a nulla, che mi sia puramente proposto per
motivo di autorità, senza che mi sia evidente nel suo stesso conte­
nuto» (ib., p. 38 ). La rivelazione gli si presenta non più come una
comunicazione aperta a cose che possono trascendere i limiti della
razionalità umana, ma vincolata agli stessi limiti di questa. Il cri­
stianesimo autentico è senza misteri, qualora con questo termine si
vogliano intendere cose non raggiungibili razionalmente; se nella
Scrittura si parla di mistero, esso va inteso come una verità velata
nell'Antico Testamento da termini simbolici, da figure, da tipi, da
cerimonie varie e manifestata chiaramente nel Nuovo, o come - e
siamo in una terminologia mutuata dalle religioni pagane - una
iniziazione o partecipazione cultuale. Ma « con il Vangelo questo
velo è stato completamente rimosso» e « nessuna dottrina può più
ora propriamente conservare il nome di mistero» (dr. ib., Section
III). Anche la fede non sarà che la sintesi di conoscenza e di assen­
so: Abramo, accettando di sacrificare Isacco, agi non per una fede so­
vrarrazionale, ma, ricordandosi di come aveva ricevuto questo figlio,
« egli logicamente concluse che Dio era capace di far rivivere Isac­
co con un miracolo, come miracolosamente l'aveva fatto nascere»
(ib., p. 137). Il cristianesimo, una volta liberato dai misteri e da
ogni struttura sovrarrazionale, si presenta con gli stessi caratteri
della religione naturale: « Cristo in modo chiaro e completo predicò
la più pura morale, insegnò quel ragionevole culto e quelle giuste
concezioni sul cielo e sulle cose celesti che erano state, in modo più
oscuro, indicate o designate dalla Legge. Cosl che, avendo spoglia­
to la verità di tutti quei tipi e quelle cerimoni� che l'avevano prece­
dentemente obnubilata, la rese più facile e comprensibile anche per
i più semplici» (ib., p. 158).
I contenuti extrarazionali della fede sono dunque per Toland un
che di estremamente labile e precario, dovuto alle deformazioni sto­
_riche, alle opinioni contrastanti delle autorità religiose, alla contami­
nazione del contenuto originario del cristianesimo a contatto con i
ILLUMINISMO INGLESE 351

giudei e i pagani convertiti, con i filosofi delle più diverse sette,


con i vari imperatori che vollero farne la religione di stato (dr. ib.,
pp. 159-172). Soprattutto essi sono sostenuti ora dalla forza dei
pregiudizi, contro i quali è diretta la prima delle cinque Letters
to Serena (1704).
Numerose altre opere di interesse critico e storico riempirono la
vita di questo errabondo vate del deismo e, se anche non tutte pro­
vocarono un'eco di interesse o di confutazioni come il Christianity
not Mysterious, tutte contribuirono a quell'opera di depotenzia­
mento del credo religioso e di incremento del dubbio. Quando il
suo richiamo era per un ritorno ai temi della predicazione originaria
del cristianesimo, come nel The Primitive Constitution of the Chri­
stian Church (postumo), il suo intento era di professare il valore
della religione razionale, di ricercare nuove giustificazioni alla sua
esclusione dell'« above reason », di riaffermare la dottrina di Cristo
valida solamente in quanto dottrina razionale: « Gesù Cristo inse­
gnò una dottrina ragionevole ... » (ib., p. 139). La presentazione di
un vangelo apocrifo diventava l'occasione per confutare il valore
del canone e dell'autorità di una tradizione dimentica degli apporti
della originaria chiesa giudaico-cristiana (dr. Nazarenus, 1718); le
polemiche sull'attribuzione dell'Eikon Basilike al re Carlo I o al Dr.
Gauden, polemica nella quale lo stesso Milton era intervenuto, gli
davano modo di esprimere i suoi dubbi sul canone del Nuovo Te­
stamento (cfr. The Life of]. Milton, 1699, pp. 77-78); l'analisi dei
passi di Diodoro Siculo e di Strabone relativi a Mosè gli permetteva
non solo di negare l'ipotesi dello Huet della dipendenza dei culti
pagani da quello mosaico, ma di ribadire lo sviluppo analogo di tutte
le forme di religione positiva, da espressioni iniziali di una purez­
za razionale a successive incrostazioni liturgiche e magiche (cfr.
Origines Judaicae, 1709); la difesa di Tito Livio dall'accusa di su­
perstizione gli serviva per riproporre la storia degli errori della re­
ligione pagana di Roma, essa pure religione rivelata, destinata a ma­
nifestarsi in tutta la sua precarietà e infondatezza agli occhi dei filo­
sofi e dei critici dell'epoca di Ottaviano (dr. Adeisidaemon, 1709);
lo studio dei costumi dei popoli dei deserti e del loro uso del fuoco
e del fumo per segnalazioni gli serviva per ridurre il racconto della
miracolosa colonna di fiamme e di nubi alla sua dimensione di fat­
to naturale trasfigurato (cfr. Hodegus, in Tetradymus, 1720); la
storia dell'uccisione di lpazia era ricordata per mettere in luce i cri-
352 FILOSOFIA MODERNA

mini del clero, interessato in ogni tempo a « sopprimere ogni sforzo


possibile, inteso a ristabilire virtù e istruzione » ( cfr. Hypatia, ir.
Tetradymus).
Si è visto sovente in Toland un precursore del materialismo mo­
derno; infatti nella sua quinta Lettera a Serena egli sosteneva un
concetto di materia avente in se stessa il principio del movimento, ed
ad essa si riferirono i materialisti francesi, in particolare il barone
d'Holbach. Ma bisogna pur notare - per integrare certe visioni
unilaterali - come l'intento principale del Toland nel combattere le
tesi della passività della materia ed il connesso concetto di spazio as­
soluto, sia inserito nel contesto della polemica deistica: spogliare
cioè la meccanica newtoniana del suo sfondo metafisico, in modo
da togliere di mano agli apologeti le nuove ed allora molto suadenti
argomentazioni, e parallelamente rispondere al Leibniz che gli ave­
va fatto notare « che al di sopra della materia [ ... ] si deve cercare
l'origine dell'azione della percezione e dell'ordine » 12• Pure il Pan­
theisticon (1720), più che non una adesione ad una specifica forma
filosofica, è da intendersi come una professione di fede in quella fi­
losofia che, vinto l'annoso divario dei suoi limiti e affrancata da ogni
rapporto ancillare con la teologia, si erge alla comprensione libera
del tutto.

Alla dottrina gnoseologica lockiana si ricollega pure l'altro cam­


pione del deismo e sostenitore del libero pensiero, ANTHONY CoL­
LINS 13• Giovane amico del Locke e suo corrispondente, egli già dalla

u Per questi temi � di utile lettura il capitolo settimo del volume di P. CASINI,
L'universo macchina, Laterza, Bari 1969, in cui è studiata l'antitesi tra la concezione
cosmologica tolandiana e quella newtoniana e le relative implicanze apologetiche.
13
A.NrnoNY CoLLINS (1676-1729), nato vicin:J ad Hounslow, studiò ad Eton ed al
King's College di Cambridge. Conobbe Locke, cui fu legato da una stretta amicizia: ci
resta un affettuoso epistolario tra Locke ed il giovane amico. L'influsso della filosofia
lockiana sul pensiero del Collins fu notevole, anche se il Collins già dalla sua prima
opera del 1707 portò le premesse lockiane a sbocchi non certamente intesi dal maestro.
A differenza del Toland, fatta eccezione per due brevi soggiorni in Olanda nel 1711 e
1713, in cui ebbe modo egli pure di conoscere l'ambiente culturale olandese ed in
particolare il Le Clerc, la sua vita fu quella di un tranquillo «country-man». Tra
le sue principali opere ricordiamo: An Essay concerning the Use of Reason in Proposi­
tions, the Evidence thereof depends upon Human Testimony (Saggio sull'uso della ra­
gione nelle proposizioni la cui evidenza dipende dalla testimonianza umana), London
1707; Priestcraft in Perfection, printed by B. Bragg, London 1710; A Discourse of Free­
Thinking, occasion'd by the Rise and Growth of a Sect call'd Free Thinkers (Discorso
sul libero pensiero, oc,;aszonato dal sorgere e dal progredire di una setta chiamata d'ei
liberi pensatori), London 1713; A philosophical Inquiry concerning Human Liberty
ILLUMINISMO INGLESE 353

sua prima opera apparsa nel 1707, An Essay concerning the Use of
Reason, analizza - sull'esempio del Toland, anche se con maggiore
circospezione - il valore della conoscenza religiosa, di quella cono­
scenza cioè che si basa sulla testimonianza. Perché l'uomo possa ra­
zionalmente prestare il suo assenso a proposizioni offerte alla pro­
pria fede, è necessaria, oltre alla credibilità della persona proponen­
te, la credibilità delle cose riferite. Ora questa credibilità « of
things » implica non solo la comprensione delle singole idee pro­
poste ( altrimenti ci troveremmo nella situazione di chi sente par­
lare cinese e non conosce questa lingua, o di chi è cieco dalla na­
scita e sente discutere di colori), e nemmeno solo l'esclusione della
contraddizione, ma l'esclusione di tutto quanto rientri nella cate­
goria dell'« above reason ». È, per il Collins, una speciosa distin­
zione teologica quella tra sovrarrazionale ed irrazionale, proposta
dal clero per mantenere gli uomini nell'ignoranza e nella sotto­
missione al suo potere: o escludiamo dal campo conoscitivo
umano l'« above reason », o diciamo che quanto ci sembra ripu­
gnante alla ragione è effettivamente tale. Le figure intermedie del-
1'« above reason », quelle cioè che rappresentano i limiti storici
del nostro intelletto, non ci autorizzano ad una classificazione in­
termedia tra l'« agreeable » e il « contrary to reason » (ib., pp. 26-
27); il vero « above reason » è il mistero della rivelazione, ma gli
stessi teologi « confessano che i misteri della religione non hanno
una conformità con le massime della ragione e della filosofia, e
questo corrisponde perfettamente all'essere contrary to our Rea­
son; pertanto sarebbe identico affermare che i misteri della fede
sono contrari alla ragione, come che essi sono superiori alla nostra
ragione» (ib. p. 39).
Propugnare l'esclusione del sovrarrazionale equivaleva per il
Collins ad affermare il valore del libero pensiero. L'opera del
1713, A Discourse of Free-thinking, fu il manifesto di questa li­
bertà di pensiero, così definita: « l'uso dell'intelletto nel cercare

(Ricerca filosofica sulla libertà umana), printed fo1 R. Robinson, London 1715; A Di­
scourse of the Grounds and Reasons of the Cristian Religion (Discorso sui fondamenti
e le ragioni della religione cristiana) London 1724; The Scheme of Literal Prophecy
considered, (Considerazioni sull'adempimento letterale delle profezie) London 1726;
A Dissertation on Liberty and Necessity (Dissertazione sulla libertà e sulla necessità)
printed far J. Shuckburgh, London 1729.
Svi Collins si ved� il recente studio monografico di J. O'HrGGINS, Anthony Collins.
The Man and his Works, M. Nijho:ff, The Hague, 1970.
354 FILOSOFIA MODERNA

di scoprire il senso di una proposizione di qualsiasi natura, soppe­


sando il grado di evidenza delle ragioni ad essa favorevoli o con­
trarie, e giudicandone secondo la forza o la debolezza dell'eviden­
za che ci appare » (ib. p. 5). Il criterio di ogni giudizio e di ogni
forma di adesione umana è pertanto unicamente l'evidenza razio­
nale. Il criterio dell'evidenza è ora esteso a « any Proposition
whatsoever » e l'ambito di verità raggiungibile dall'intelletto uma­
no è ora inteso come tutto l'ambito veritativo. L'uomo ha diritto
a questo giudizio libero perché è suo diritto e dovere scoprire la
verità, e mezzo indispensabile alla scoperta della verità è la libertà
della ricerca, perché « il diritto di conoscere qualunque genere di
verità, implica il diritto di pensare liberamente » (ib., p. 6). Esso
è il solo mezzo per progredire nella conoscenza, per liberarsi dal
peso delle superstiziose incrostazioni storiche delle religioni posi­
tive, per non cadere in credenze false e nocive alla società. Non
solo è un diritto, ma è un preciso dovere questo libero giudizio su
ogni soggetto, anche teologico e scritturistico.
Se questi sono i temi più importanti della ricerca umana, in
quanto dalla loro soluzione dipende la nostra salvezza, perché
abbandonarli al caso, all'interesse della classe sacerdotale, agli in­
flussi di una educazione avuta? Aderire ad un credo religioso sen­
za un precedente libero esame porta necessariamente alla supersti­
zione, alla credulità, alla fiducia in pretesi visionari e tauma­
turghi, all'obbedienza supina ad un clero sempre più autoritario
(ib., sez. Il). Anche le obiezioni che si possono levare contro la
libertà del pensiero - mancanza di capacità speculativa di molti
uomini, disordine sociale per l'insorgere di opinioni diverse e con­
trastanti, pericolo dell'ateismo... - trovano una facile risposta
sia in un confronto ideale tra i mali presenti, derivanti dalla super­
stizione e dall'odio settario, ed un possibile superamento di essi
in uno stato di libertà, sia nel ricordo dei grandi liberi pensatori
che, a partire da Socrate e dai profeti :lino a Bacone, Hobbes, Til­
lotson, hanno dato esempio all'umanità intera (ib, sez. III).
L'opera del Collins non si ferma solo ad una generale nega­
zione del carattere specifico della rivelazione come superiore alla
ragione, ma affronta direttamente gli argomenti tradizionali a
sostegno della « testimonianza divina ». Le profezie e i miracoli
erano considerati i segni esterni di questo intervento divino. Ad
una svalutazione implicita del valore delle prime sono diretti i due
ILLUMINISMO INGLESE 355

libri del Collins A Discourse of the Grounds and Reasons of the


Christian Religion (1724) e The Scheme of Literal Prophecy consi­
dered (1726), scritti in risposta alle opere di WrLLIAM WHISTON 14,
in particolare all'An Essay towards Restoring the True Text of the
Old Testament del 1722.
Il Whiston, attento studioso del testo biblico e sincero apo­
logeta della religione cristiana, era convinto che l'argomento tratto
dall'adempimento delle profezie fosse una prova indubitabile ed
insostituibile del cristianesimo come religione divina. Le profezie
erano da lui intese in un riferimento diretto, esplicito e letterale
alla persona ed all'azione del Messia; nel caso contrario - se­
condo cioè una certa prevalente considerazione del loro riferimen­
to solamente tipico, mistico, allegorico al Messia - esse avreb­
bero perso il loro valore apologetico, lasciando un campo senza
limite alle fantasie degli espositori e dei critici, e non rispecchian­
do più l'atteggiamento di Cristo e degli apostoli nel riferimento
costante all'Antico Testamento ( dr. The Accomplishment of
Scripture Prophecies, pp. 13-27): se cioè una profezia avesse una va­
lenza multipla, resterebbe per ciò stesso ambigua e non probante.
Il fatto però di non trovare il corrispettivo immediato o sufficien­
temente chiaro di molte profezie dell'Antico Testamento nel Nuo­
vo Testamento, poteva ricevere secondo il Whiston una soluzione

" WILLIAM WHISTON (1667-1752) nato a Norton nel Leicestershire, studiò mate­
matica e teologia a Cambridge. Nel 1696 pubblicò la New Theory of Earth, (Nuova teoria
sulla terra) in cui interpretava, tra l'altro, il racconto della Genesi secondo le teorie newto­
niane, ed il diluvio universale con l'ipotesi della collisione di una cometa. Successe nel 1703
a Newton sulla cattedra di matematica dell'università di Cambridge. Parallelamente
però i suoi studi storici e teologici lo portarono verso l'arianesimo; fu pertanto, nel
1710, allontanato dall'insegnamento a Cambridge. Continuò a vivere a Londra con i
proventi della vendita dei suoi libri, ritenendosi vittima dell'intolleranza anglicana, ed
impegnandosi sempre più in questioni teologiche. Venne pure a cadere la sua antica
amicizia con il Newton, che si oppose al suo ingresso nella Royal Society. Passò nel
1747 alla setta anabattista. Morl nel 1752 a Lyndon, paese in cui si era ritirato con la
figlia ivi maritata.
Delle numerosissime e prolisse opere teologiche ricordiamo solamente: The Accomplish­
ment o/ Scripture Prophecies (Il compimento delle profezie della Scrittura), at the
University Press, Cambridge 1708 (è la pubblicazione delle conferenze tenute a
Londra nella cattedrale di S. Paolo nell'anno precedente, come incaricato delle Boy/e
Lectures); An Essay towards Restoring the True Text of the Old Testament (Saggio per
la ricostruzione del vero testo dell'Antico Testamento), printed for J. Senex, Lon­
don 1722; The Literal Accomplishment of Scripture Prophecies. Being a full Answer
to a late Discourse « Of the Grounds and Reasons o/ the Christian Religion » (Il com­
pimento letterale delle profezie della Scrittura. Risposta esaustiva ad un recente Discorso
« Sui fondamenti e le ragioni della religione cristiana»), ivi 1724.
356 FILOSOFIA MODERNA

solo se si ammetteva, come egli voleva dimostrare, che « i Giudei


dall'inizio del secondo secolo d.C., alterarono e corruppero gran­
demente le loro copie ebraiche e greche dell'Antico Testamento, e
di proposito manipolarono molti passaggi per opporsi al cristianesi­
mo» (An Essay towards Restoring the True Text of the Old Testa­
ment, p. 220). Le difficoltà cosi nel raccordo tra Antico e Nuovo Te­
stamento verrebbero dunque a cadere quando da questi testi cor­
rotti - da noi comunemente usati - noi risalissimo a quelli au­
tentici, ove non riscontreremmo più difficoltà nell'applicazione let­
terale delle profezie a Cristo: si imponeva pertanto una revisione
e riedizione critica del testo dell'Antico Testamento, che tenesse
conto delle citazioni e delle fonti anteriori al II secolo.
Il CoLLINS, pur difendendo l'atteggiamento di libera e spre­
giudicata ricerca del Whiston - difesa in cui appare chiaramente
il fine anticonfessionale della sua ribadita libertà di dibattito pub­
blico contro il monopolio ecclesiastico del pulpito ed i pretesi mo­
tivi di autorità e di intangibilità del testo sacro (cfr., del Collins,
Grounds and Reasons, Preface to the Reader, pp. XII - XIII e
LV-LVI) - si schiera con i sostenitori dell'interpretazione alle­
gorica delle profezie. Questo non per provare le divinità del cri­
stianesimo, ma - cosa che emerge come sottofondo costante -
per porre il cristianesimo allo stesso livello delle altre religioni
« rivelate»: all'origine di tutte queste, da quella di Zoroastro a
quella di Maometto, sta un riaggancio ad una rivelazione prece­
dente trasfigurata, di cui esse sentivano di essere l'adempimento.
Anche per il cristianesimo avviene la medesima cosa; esso pure
vuol dipendere da una rivelazione precedente, quella giudaica del­
l'Antico Testamento, e se ne sente l'autentico, anche se non lette­
rale, destinatario (cfr. ib., pp. 20-25). Inoltre se l'argomento dellè
profezie, che pur sono « le principali prove del cristianesimo»,
è difeso - come fa Collins intenzionalmente - in un puro va­
lore simbolico ed allegorico, ad esso viene tolta ogni capacità di­
mostrativa, perché tale argomento non troverebbe altro fonda­
mento che l'equivoco e l'arbitrio: « quasi tutti i commentatori cri­
stiani della Bibbia e i difensori della religione cristiana sia antichi
che moderni hanno ritenuto di doverle applicare [al Nuovo Testa­
mento] in un senso traslato, o tipico, o mistico, o allegorico, o
enigmatico, vale a dire in un senso diverso dal loro senso ovvio e
letterale, che pur esse avevano nell'Antico Testamento» (ib., pag.
ILLUMINISMO INGLESE 357

40, sottol. mia). Se il Collins esplicitamente combatte il tentativo


del Whiston di ricostruzione del testo sacro originario, definen­
dolo basato su vane ipotesi, non è certo per un rispetto ai libri
sacri, ma per escludere ogni possibile riproposta di questo argo­
mento apologetico. Se il fondamento della religione cristiana, os­
sia le profezie, è cosi debole e precario, ben si comprendono le
conclusioni dei suoi interlocutori e polemisti « che l'autore di
questo Discorso volesse insinuare che il cristianesimo è senza fon­
damento» in quanto un fondamento ambiguo ed irrazionale non
è un fondamento. Certo è che l'unica difesa sinceramente condotta
nella replica dal Collins è quella della libertà dell'interpretazione
religiosa, nella convinzione che la pietà ed il vero honor of God,
stiano nell'« adorazione di Dio secondo i dettami della propria co­
scienza» illuminata essenzialmente da quella « legge di natura [ ... ]
che sarà allora compresa, stabilita e osservata nel modo migliore >>
(The Scheme of the Literal Prophecy considered pp. 413-414 ).

Anche contro la prova dei miracoli doveva levarsi la pesante


criticc.1 degli scrittori del deismo. Il più noto di questi critici fu
15
TttOMAS WooLSTON che, già entrato apertamente nella polemi­
ca suscitata dal Discourse of the Grounds and Reasons of the Chri­
stian Religion del Collins come « moderator», applicava nei suc­
cessivi sei Discourses on the Miracles of our Saviour ( 1727-1729) il
criterio allegorico al racconto storico dei fatti miracolosi. Prendendo
in considerazione i vari miracoli del Cristo, come ci sono stati
tramandati dal Vangelo, egli evidenzia in primo luogo le assurdità
connesse al fatto narrato, qualora a questa narrazione si voglia

15
THOMAS WooLSTON (1670-1733) studiò teologia a Cambridge e la lettura delle
opere di Origene lo portò ad aderire all'interpretazione allegorica delle Scritture. La­
sciata l'università nel 1720 si trasferl a Londra dove entrò nel vivo delle controversie
deistiche, pubblicando alcuni opuscoli anonimi. Nel 1725 si schierò a favore dei­
l'opera del Collins contro le polemiche di Edward Chandler, col suo A Moderato,
between an lnfidel and an Apostate (Un moderatore fra un infedele e un apostata).
Nel 1727 pubblicò il primo Discourse on the Miracles of our Saviour (Discorso sui
miracoli del Salvatore) a cui fecero seguito altri cinque Discourses (London 1727-1729)
ove passò in rassegna l?. narrazione di tutti i miracoli riportati dai Vangeli. Forte fu
la reazione da parte del clero anglicano a quest'opera che in poco tempo era giunta
alla sesta edizione. Lo stesso vescovo di Londra, Edrnund Gibson, scrisse contro di
essa una lettera pastorale. Woolston fu condannato dall'autorità civile ad una multa di
cento sterline e ad un anno di prigione: non avendo di che pagare la cauzione rimase
in carcere fino alla sua morte sopraggiunta nel 1733.
358 FILOSOFIA MODERNA

dare una credibilità storica. Poi osserva come l'interpretazione


letterale del « prodigio» escluda qualsiasi valore apologetico al
fatto, dal momento che molti altri elementi potrebbero concorrere
a trasformare quel « fatto meraviglioso» in un semplice fatto
naturale o addirittura in un'abile manipolazione di situazioni per
imbrogliare, con la meraviglia, la folla. Infine, con ampie citazioni
dei Padri, evidenzia come il vero ed autentico « fatto», non sia
che un « fatto interno», un richiamo ad una realtà diversa e fu­
tura, una significazione di cose ulteriori al semplice avvenimento
banalmente descritto. « Questi fatti miracolosi, in tutto o in parte,
non furono mai operati, ma sono riferiti solamente come dei rac­
conti parabolici di ciò che Gesù avrebbe operato in modo miste­
rioso e di gran lunga più meraviglioso» (Discourses, II, p. 6 ).
L'intento dichiarato di giungere ai veri e più significativi mi­
racoli del Messia, quelli operati nello spirito e non nella carne (cfr.
Discourses, I, pp. 3-4) non riusciva certo a giustificare, o almeno
a camuffare la critica radicale operata al miracolo come fatto sto­
rico e prova apologetica: quest'opera resterà per l'intero Sette­
cento il più fornito « arsenale di armi polemiche» per le lotte
contro la divinità della religione cristiana. L'attesa di un Messia
non viene negata dal Woolston: egli pure attende e ricerca un
Messia, ma non quello storico, il Gesù di Nazareth; il suo Messia
è il Cristo spirituale, ossia l'avvento della razionalità assoluta e
perfetta che supera ogni particolare miracolo. E replicando al ve­
scovo di Londra, Edmund Gibson, cosl afferma: « il vescovo
Gibson sostiene la messianicità di Gesù di Nazareth, perché egli
curò miracolosamente la cecità fisica di molti; e questa fu un'ope­
ra buona. Ma io sostengo la messianicità di un futuro Gesù spiri­
tuale, che aprirà i ciechi occhi del nostro intelletto, rendendoli ca­
paci di discernere la verità dall'errore, opera ben più degna di am­
mirazione e che Gesù di Nazareth non ha ancora compiuto» (Di­
scourses, VI, pp. 53-54).

Mistero, miracolo, profezie erano cosl esclusi dal cristianesimo


ed il messaggio cristiano era accolto in quanto e per quanto in
esso era possibile riscontrare una conformità perfetta con la ra­
zionalità umana.
Già dal 1697, nel suo Essay concerning the Power of the Magi-
ILLUMINISMO INGLESE 359

strate, MATTHEW TrNDAL 16 definiva la religione come« la fede in un


Dio e il sentimento e la pratica di quei doveri che risultano dalla co­
noscenza che noi abbiamo di lui e di noi stessi, e dal rapporto che
noi instauriamo con lui e con le creature a noi simili; o, in breve,
qualunque cosa ci appaia con convincente evidenza essere nostro
dovere credere o praticare » (ib., p. 3). In questa definizione non
appare per nulla il riferimento ad ogni eventuale rapporto ri­
velativo o soprannaturale e questa esclusione dovrà diventare
man mano un'esplicita negazione. Muovendosi su di un piano
politico e portando avanti le dottrine lockiane della Epistola de
Tolerantia, Tindal esclude, in The Rights of the Christian Church
(1706), ogni autorità legislativa e punitiva ecclesiastica; ma se que­
sta esclusione è fondata su motivazioni storiche e giuridiche, queste
sono a loro volta sorrette da una più generale convinzione della capa­
cità naturale dell'uomo di raggiungere la verità religiosa nella
libera ricerca razionale (cfr. ib., pp. 16-17 e 28-33).
Religione naturale e religione rivelata - sono queste le tesi
iniziali dell'opera principale del Tindal Christianity as old as
the Creation (1730) - non solo non possono essere tra di loro
in contrasto, ma sono la stessa ed identica cosa: perché « la reli­
gione naturale non differisce da quella rivelata, se non nel modo
del suo esser comunicata: la prima è la rivelazione interna, la

16
MATTIIBW TINDAL (1657-1733) studiò e si laureò in legge ad Oxford. Sotto il
regno di Giacomo II aded al cattolicesimo, passando nuovamente all'anglicanesimo nel
1688 quando si schierò con il partito whig dalla parte di Guglielmo d'Orange.
Pubblicò numerosi opuscoli politici e teologici, favorevoli questi ultimi al lati­
tudinarismo ed in polemica con l'high-Church. Mantenne sempre il suo posto di fellow
nell'All Souls' College dl Oxford, dividendo la sua attività tra Londra ed Oxford. Nu­
merose testimonianze ci confermano il suo pessimo carattere e la sua dissolutezza mo­
rale. Christianity as old as the Creation: or th� Gospel a Republication of the Reli­
gion of Nature (Il cristianesimo antico quanto la creazione; ossia il Vangelo come una
ripetizione della religione naturale), London 1730, fu la sua opera maggiore ed una
delle più rappresentative del deismo inglese; contro di essa uscirono numerose con­
futazioni (oltre trenta). Si dice che abbia steso un secondo volume a seguito della sua
opera del 1730 in risposto alle accuse a lui mosse, ma che i manoscritti, venuti in pos­
sesso del vescovo Gib;on di Londra, siano stati bruciati dopo la sua morte avvenuta
nel 1733.
Oltre al sovramenzionato Christianity as old as the Creation, sono di un notevole
interesse An Essay concerning the Power of the Magistrate, and the Rights of Man­
kinde in Matters of Religion (Saggio sul potere del magistrato e i diritti dell'umanità
in materia di religione), printed for A. Beli, London 1697 e The Rights of the Christian
Church asserted, against the Romish and all others Priests who claim an Indipendent
Power over it (I diritti della cl:iesa cristiana contro i preti della chiesa di Roma e tutti
gli altri preti che esigono un potere indipendente su di ess111), London 1706.
360 FILOSOFIA MODERNA

seconda è la rivelazione esterna della stessa volontà immutabile


di un Essere, che è ugualmente in ogni tempo infinitamente sag­
gio e infinitamente buono» (ib., p. 3 ). Dio, in ogni tempo ed
in ogni luogo, ha dato agli uomini mezzi sufficienti per conosce­
re e per praticare ciò che loro è richiesto. Parlando di questi
mezzi, Tindal intende la ragione umana: « Dio non ha dato agli
uomini nessun altro mezzo all'infuori dell'uso della ragione; la ra­
gione, la ragione umana, deve allora essere questo mezzo; perché da­
to che Dio ci ha fatti creature ragionevoli, e la ragione ci dice
che questa è la sua volontà, che noi agiamo secondo la di­
gnità della nostra natura, così è la ragione che deve dirci quan­
do agiamo in questo modo. Ciò che Dio ci chiede di conoscere,
credere, professare e praticare deve essere in se stesso un servi­
zio ragionevole; ma se ciò che ci è proposto come tale, lo sia
realmente, è compito unicamente della ragione decidere; come
l'occhio è il solo giudice di ciò che è visibile, e l'orecchio di ciò
che è udibile, così la ragione è il solo giudice di ciò che è razio­
nale » (ib., p. 6). La religione è sempre e solo conforme all'ordi­
ne razionale umano e la luce naturale è il mezzo unico ed asso­
luto per costituire e giudicare della verità della religione, sia
essa naturale che rivelata (cfr. ib., pp. 65-66). Non si parla nem­
meno più di un perfezionamento, operato dal cristianesimo o
dalle religioni positive, della religione di natura: questa è una
religione « assolutamente perfetta», basata sulla natura delle co­
se, su di un rapporto immutabile degli esseri da cui scaturisce
l'unica legge fondamentale: rispetto di Dio e bene dell'uomo.
Ogni deviazione da questa norma originaria è superstizione, ogni
supposizione di un intervento regolativo divino è assurda. Par­
lare di cristianesimo ha senso solo se per esso si intende una rie­
sposizione fedele della religione originaria, un richiamo alla legge na­
turale fondamentale, un ripristino della pura razionalità sulle de­
viazioni storiche delle religioni pagane. L'opera degli apologeti,
intesa ad esaltare l'apporto della rivelazione e ad indebolire la
forza e la capacità della ragione e della natura, mina alle sue
stesse radici ogni religione: « gli uomini sono religiosi in quanto
sono ragionevoli» (Introduction to the Second Part of Christiani­
ty as old as the Creation, p. Il). Non sono i miracoli, che possono
anche esser fatti dal demonio, a condurci ad una certezza reli­
giosa, e nemmeno le profezie, incerte nelle loro metafore, figure,
ILLUMINISMO INGLESE 361

allegorie (cfr. Christianity as old as the Creation, cit. p. 203); ma è


quel giudice supremo, ossia la nostra ragione, l'unico capace di
aderire al vero. E questa verità è una verità eterna ed immutabi­
le, la verità del « vero cristianesimo, che non è una religione di
ieri, ma è ciò che Dio, all'inizio ha dettato ed ancora continua
a dettare ai cristiani, come pure ad ogni altro uomo» (ib., p. 8).
Dio non ha scelto un popolo dimenticando gli altri: Dio a tutti
si è comunicato, donando a tutti la capacità di conoscerlo e di
adorarlo secondo ragione.

4. Le reazioni al deismo
(S. Clarke, W. Law, P. Browne,]. Butler)

Non mancarono certo nel campo dell'ortodossia inglese delle


reazioni vivaci a questa corrente di pensiero specialmente contro
le conclusioni più empie e riduttive, sia palesi sia implicite. Spes­
so però questi tentativi apologetici restavano ancorati alle convin­
zioni del razionalismo del secolo XVII, senza riuscire a proporre
una reale alternativa al nuovo credo del deismo. Tale fu la posi­
zione di SAMUEL CLARICE 17•

17
SAMUEL CLARKE (1675-1729) nato a Norwich, studiò teologia a Cambridge e
si interessò degli studi newtoniani. Ciò nonostante tradusse per invito di John Ellis il
Traité de Physique di Rohault, che ancora era adottato a Cambridge, forse sperando
di suggerire con le sue note al testo la necessità di modificare le teorie cartesia­
ne. Nel 1704 e nel 1705 tenne le sue celebri conferenze alle Boyle Lectures. Diven­
ne in seguito cappellano della regina e dal 1709 rettore della chiesa di St. James a
Westminster. Entrò in polemica nel 1706 con il Dodwell, sostenitore della mortalità
naturale dell'anima umana, polemica in cui intervenne pure il Collins. Ancora con­
tro il Collins difenderà la libertà umana, secondo la soluzione lockiana di liber­
tà intesa come potere di porre o di non porre un'azione. Per la sua opera del 1712,
The Scripture-Doctrine of the Trinity (La dottrina biblica della Trinità), printed far
J. Knapton, London 1712, che pur venne combattuta per le sue implicanze sociniane,
il Oarke non ricevette nessuna sanzione disciplinare, ad eccezione di un'ingiunzione
di non più trattare simile materia. Tradusse in latino nel 1706 l'Ottica di Newton, e di­
fese le teorie newtoniane di spazio e di tempo nella famosa corrispondenza con Leibniz.
Le sue più note opc:re sono: A Demonstration of the Being and Attributes of God,
(Dimostrazione dell'esistenza e degli attributi di Dio), printed far J. Knapton, Lon­
don 1705; A Discourse concerning the Unchangeable Obligations of Natural Religion,
and the Truth and Certainty of the Christian Revelation (Discorso sulle leggi immu­
tabili della religione naturale e sulla verità e certezza della rivelazione cristiana) prin­
ted by Botham far J. Knapton, London 1706; A Discourse concerning the Connection
of the Prophecies in the Old Testament and the Application of them to Christ, (Discor­
so sulla connessione delle profezie nell'Antico Testamento e l'applicazione di esse
a Cristo), ivi 1725. I suoi numerosi Sermons sono raccolti nei primi due volumi di
362 FILOSOFIA MODERNA

La ragione è in grado - è la tesi fondamentale del suo ciclo


di conferenze tenute alle « Boyle Lectures» nel 1704, e pubbli­
cate l'anno successivo con il titolo Demonstration of the Being and
Attributes of God - non solo di dimostrare l'esistenza di quel
Dio personale, di cui ci parla la rivelazione, ma anche di farcene
conoscere con certezza gli attributi. Non è la ricerca razionale la
causa dell'ateismo, afferma il Clarke nell'introduzione a questa
opera; anzi, hanno negato Dio « innanzi tutto coloro che, a causa
della loro estrema ignoranza e della loro idiozia, non hanno mai
preso nella dovuta considerazione le più facili ed ovvie verità, né
hanno mai usato rettamente della naturale ragione per scoprirle, ma
hanno consumato il loro tempo vivendo in un modo ben poco diver­
so da quello delle bestie». La ragione umana dimostra che Dio esi­
ste: infatti « è assolutamente ed innegabilmente certo che, se
qualcosa oggi esiste, qualcosa dovette pur sempre essere esistito;
diversamente le cose, che ora esistono, dovrebbero aver avuto ori­
gine dal nulla, ed essere cosl completamente senza causa, cosa che
è una patente contraddizione in termini» (op. cit., p. 18). Deve
pertanto essere esistito da tutta l'eternità « un qualche essere im­
mutabile ed indipendente», ragione di quella serie di esseri di­
pendenti l'uno dall'altro e privi in se stessi della loro ragion d'es­
sere. Questo essere, non avendo bisogno di nessuna causa esterna
per esistere, anzi essendo esso stesso causa della esistenza di tutti
gli esseri, è dunque l'essere necessariamente esistente (ib., p. 27 ).
Per il Clarke la umana ragione, partendo dalla considerazione
di Dio come essere « self-existent» e « necessarily existing», è
ora capace di procedere ad affermare con sicurezza quali attributi
competano a Dio. L'attributo, ad esempio, dell'onnipresenza di­
vina è strettamente connesso con la divina caratteristica originaria
di essere che ha in sé la ragion d'essere di ogni esistenza: quindi è
facile la deduzione che dovunque ci sia esistenza, quivi debba di ne­
cessità essere presente in qualche modo la sua causa, e quindi Dio
(cfr. ib., pp. 89 ss.). In modo non dissimile vengono dimostrati

The Works o/ Samuel Clarke D.D., printed for J. and P. Knapton, London 1738,
4 vols. Per la corrispondenza con Leibniz si veda l'edizione curata da A. Robinet,
Correspondance Leibniz-Clarke, Parigi 1957.
Tra gli studi su Clarke si vedano E. GARIN, Samuel Clarke e il razionalismo inglese
del secolo XVIII, in « Sophia » II ( 1934 ), pp. 106-116 294-304 385426; e P. CASINI,
L'universo macchina, Laterza, Bari 1969, cap. IV, pp,' 109-148:
ILLUMINISMO INGLESE 363

gli altri attributi divini, quali la sua in.finita intelligenza, potenza,


saggezza, bontà e giustizia.
A conclusione di questo suo ciclo di conferenze, in cui aveva pu­
re insistito sulla testimonianza che rende a Dio l'opera del creato nel
suo ordine e nella sua armonica bellezza (traduzione questa, al pari
di quella precedentemente operata da Richard Bentley, delle istanze
della cosmologia newtoniana in argomenti apologetici), il Clarke, in­
troducendo la sua indagine all'ordine della rivelazione cristiana, mo­
stra di intendere questo come un puro e semplice completamento
di verità già acquisite o raggiungibili con le sole forze razionali. Nel­
la rivelazione del Cristo, Dio non avrebbe che «prevenuto ogni er­
rore in cui la debolezza della nostra ragione, la negligenza della no­
stra applicazione, la corruzione della nostra natura, la falsa :filosofia
di uomini incapaci o blasfemi ci avrebbero potuto trascinare » (ib.,
pp. 263-264 ).
Anche la norma della condotta morale e la certezza di uno stato
futuro di premio o di castigo sono verità raggiungibili dalla ragione
umana; l'apporto della rivelazione in questo senso non è di qualità,
ma di grado: una ulteriore assicurazione ed una autorevole con­
ferma (cfr. The Discourse concerning the Unchangeable Obliga­
tions of the Natural Religion, in particolare la proposizione V). An­
che nei suoi Sermons osserva come « I doveri proposti dalla religio­
ne rivelata hanno il medesimo fondamento di quelli della religione
naturale ed essi si rafforzano e si confermano a vicenda. È ragione­
vole, secondo i dettami della natura, attendersi che Dio conceda di
rendere più chiaro agli uomini il Suo volere per mezzo della rive­
lazione; e in ogni vera rivelazione è presente una più completa ri­
prova ed una più forte affermazione della legge di natura » (Sermon
XXVIII: Of Believing in God, in Works, I, pp. 177-178). Non vie­
ne dal Clarke negata l'importanza della fede, ma egli non esita,
ancora nei suoi Sermons, a sottolineare come « la vera fede è sem­
pre fondata sulla ragione». (0/ the Faith of Abraham, in Works II,
p. 462). Egli ammette sì il miracolo e la profezia a sostegno della
rivelazione (entrerà nel 1725 in polemica con il Collins, che aveva
negato il valore apologetico delle profezie, pubblicando il Discourst
concernin[!. the Connection of the Prophecies in the Old Testament
and the Application of them to Christ), ma il suo interesse princi­
pale è quello di sottolineare la non difformità dai dati razionali del
contenuto della rivelazione; preoccupazione questa che lo costrin-
364 FILOSOFIA MODERNA

gerà a difendersi dalle accuse di socinianesimo lanciate contro il suo


scritto The Scripture-Doctrine of the Trinity.

In opposizione a questa forma di rivalutazione della ragione in


campo apologetico, si levò la voce dapprima isolata di WILLIAM
LAw 18• Smosso nella sua fede razionalistica dalla lettura dell'anonimo
Fides et Ratio collatae ac suo utroque loco redditae, che sostituiva alla
ragione, lume intellettuale della umana natura corrotta incapace di
ergersi a conoscenze superiori, la fede intesa come comunicazione e
dono divino « vivum substantialeque Dei Lumen in nobis » (ib.,
par. 154 ), egli cercò dapprima di proporre, in sostituzione di quella
razionale e naturalistica, una fondazione puramente religiosa dell'eti­
ca (A Practical Treatise upon Christian Perfection, 1726 e A Serious
Call to a Devout and Holy Li/e, 1729). Replicando poi all'opera del
Tindal Christianity as old as the Creation in The Case of Reason, or
Natural Religion ( 1731 ) il Law ribadisce la trascendenza di Dio e
l'insindacabilità da parte della ragione finita umana dell'ordine divi­
no della sua giustizia e della sua « ragionevolezza ». L'azione di Dio
è creativa, è cioè prima delle cose ed è la causa stessa dell'ordine
delle cose: all'uomo è quindi impossibile un giudizio a priori sul
dover essere delle cose: come pure gli è impossibile un giudizio
aprioristico sul dover essere, sui connotati di « razionalità » della

" W1LLIAM LAw (1686-1761) nato a Kings Clliie nel Northamptonshire, ricevette
in famiglia una profonda educazione religiosa. Studiò nell'Emmanuel College di Cam­
bridge. Nel 1723 pubblicò un volume di Remarks contro la concezione etica di Mande­
ville. Dopo la pubblicazicne delle sue più note opere sia sul piano ascetico che apo­
logetico - A Practical Treatise upon Christian Perfection (Trattato pratico sulla perfe­
zione cristiana), printed for W. and J. Innis, London 1726; A Serious Call to a Devout
and Holy Life (Appel!o ad una vita devota e santa), ivi 1729; The Case of Reason,
or Natural Religion, fairly and fully Stated. In Answer to a Book entitul'd « Chris­
tianity as old as the Creation » (Il processo alla ragione, ovvero una completa e leale
disamina della religione naturale, in risposta al libro « Cristianesimo antico quanto la
creazione»), ivi 1731 - la sua produzione si orienterà su temi più strettamente mistici. Si
ritirò nel 1740 nel paese natale, dove passò i suoi ultimi anni in una vita di studio e di
opere di bene.
Una raccolta completa delle sue opere si ha in The Works of the Reverend William
Law A. M., printed for J. Richardson, London 1762, 9 vols. Sui rapporti di William
Law con il Metodismo si vedano J. B. GREEN, John Wesley and William Law, The
Epworth Press, London 1945 e E. W. BAKER, A Herald of the Evangelica/ Re­
vival, ivi 1948. Sul primo periodo della sua produzione si vedano S. HoBHOUSE,
Fides et Ratio. The Book which introduced Jacob Boheme to William Law, in
« The Journal of Theological Srudies » XXXVII (1936), pp. 350-368; e, di chi
scrive, William Law: i! rifiuto della « reason » nel secolo dei lumi, Rendiconti del­
l'Istituto Lombardo, Oasse di Lettere, val. 106 (1972), pp. 149-184.
ILLUMINISMO INGLESE 365

rivelazione, in quanto la rivelazione, opera di Dio, precede ogni


giudizio di tipo umano (ib., capp. I-Il). Motivo di adesione ad una
rivelazione come parola divina non può essere la sua perfetta con­
formità o almeno il suo non essere in contrasto con la razionalità
umana (ossia non possono essere i motivi intrinseci di credibilità),
in quanto ciò implicherebbe un impossibile giudizio umano sul­
l'azione divina, ma « come Dio solo conosce come creare in modo
degno di sé, e nulla assolutamente può essere provato degno di
essere creato da lui se non ciò che egli ha già creato, cosi Dio solo
conosce ciò che è degno di sé in una rivelazione, e nulla assoluta­
mente può essere provato degno di essere da lui rivelato se non
ciò che egli ha già rivelato » (ib., p. 96). Solo dunque il miracolo
e l'above Reason ci garantiscono dell'azione divina, in quanto pro­
prio nel miracolo e nel mistero avviene la manifestazione di Dio,
il quale non può non essere che al di sopra del corso ordinario delle
cose e della nostra comprensione a questo limitata (cfr. ib., cap.
III). La ragione poi non solo è incompetente a giudicare l'azione
divina, ma si dimostra incapace di dirigere l'azione dell'uomo: es­
sa non deve essere considerata in astratto, e quindi idealizzata in
una pretesa purezza originaria, ma deve essere colta nell'effettua­
lità del suo operato, nella condizione storica umana. Ora l'esisten­
za umana rivela corruzione, quindi la ragione umana, principio
delle nostre azioni, non può non essere che corrotta (cfr. ib., cap.
IV). Poste queste premesse, lo sbocco del suo pensiero non poteva
essere che fideistico.

Tra queste estreme reazioni alle formulazioni deistiche si leva­


rono in Inghilterra pure altre voci, che tentarono il superamento
della pretesa autosufficienza dei puri dettami della razionalità uma­
na, coscienti si della incolmabilità del rapporto finito-infinito, ma
non escludenti ogni possibilità della speculazione umana, pur nel­
l'accettazione dei suoi limiti. Già rispondendo nel 1697 al Christia­
nity not Mysterious del Toland, PETER BROWNE 19 aveva osservato

19
PETER BROWNE ( ? -1735) teologo irlandese, frequentò il Trinity College di
Dublino ° dove fu poi professore. Venne eletto vescovo di Cork e Ross nel 1710. Fu
uno dei più accaniti oppositori del Toland, contro il quale scrisse A Letter in Answer
to a Book entituled « Christianity not Mysterious », As also to al! those who set up
/or Reason and Evidence in Opposition to Revelation and Mysteries (Lettera di ri­
sposta a un libro intitolato « Cristianesimo senza misteri » e a tutti quelli che si sono
366 FILOSOFIA MODERNA

che « benché non possediamo alcuna idea né immediata né ade­


guata di quelle cose [ di un mondo 1:1. noi superiore rivelatoci da
Dio], tuttavia noi siamo chiamati a crederle » in quanto, pur non
potendone avere un'idea adeguata, possiamo pur « foggiarcene un
concetto, partendo da quelle cose di questo mondo di cui noi pos­
sediamo una idea chiara e distinta » (A Letter in Answer to a Book
entituled « Christianity not Mysterious », pp. 36-37). Una co­
noscenza immediata ed esaustiva non è dunque possibile per l'uo­
mo circa le cose divine, ma è pur possibile una certa conoscenza
analogica, inadeguata ma sufficiente, « una specie di composizione
tratta dalle nostre idee degli oggetti mondani » per giungere « a
dei tipi, a delle figure che ci indicano qualcosa dell'altro mondo »
(ib., p. 50). Questa conoscenza analogica, pur nei suoi dichiarati
limiti - osserverà successivamente il Browne ampliando in modo
sistematico questa concezione in The Procedure Extent and Limits of
the Human Understanding -, è pur sempre vera conoscenza, distin­
ta dalla metafora: questa« non è che un'immagine di parole » diretta
alla fantasia, mentre quella è una « similis ratio o proporzione delle
cose », una « reale corrispondenza » che ci autorizza ad istituire un
rapporto, in cui noi conosciamo almeno un termine (cfr. ib., pp.
141-143 ).

Su una linea non dissimile si orienta l'apologetica di JosEPH


BuTLER 20• Nel XV dei suoi Sermons egli ci parla - con accento

schierati in favore della ragione e dell'evidenza contro la Rivelazione e : misteri), printed


for J. Ray, Dublin 1697. I temi presenti nella su:i replica al Toland furono ripresi e rie­
laborati in The Procedure, Extent and Limits of Human Understanding (Procedimento,
estensione e limiti dell'intelletto umano), printed for W. Innis, London 1728, come·
pure in Things Divine and Supernatural Conceived by Analogy with Things Natural
and Human (Concetto delle cose divine e soprannaturali per analogia con le cose na­
turali e umane), ivi 1733. Le sue dottrine trovarono l'opposizione del vescovo Berke­
ley, che - come ci dimostra il terzo dialogo dell'Alciphron - vedeva in esse una pos­
sibilità di slittamento nell'ateismo.
20 JoSEPH BuTLER (1692-1752), nato a Wantage, nella contea di Berk, fu educato­
nella comunione presbiteriana. A Gloucester ed a Tewkesbury studiò logica, ebraico,
matematica, oltre ai classici. Del 1713 è la sua corrispondenza con il Clarke sulle prove
dell'esistenza di Dio. Vinta la resistenza paterna, passò all'anglicanesimo, si iscris­
se all'università di Oxford e ricevette i sacri ordini. Dopo la pubblicazione dei
Fifteen Sermons preached at the Rolls Chappel, printed for J. and P. Knapton, London
1726, e dell'Analogy of Religion Natural and Revealed to the Constitution a11d Course
of Nature (Analogia della religione naturale e rivelata con la costituzione e il corso­
della natura), ivi 1736, fu creato nel 1737 vescovo di Bristol e nel 1750 vescovo di
Derham.
Opere complete: The Works of Bishop J. Butler, McMillan and Co., London 1900 ,._
ILLUMINISMO INGLESE 367

quasi pascaliano - dell'« ignoranza, cecità, oscurità» nella quale


si trova l'uomo. Questa situazione è l'effetto - in primo luogo -
dell'insondabilità dell'azione divina: « anche il più saggio e più in­
formato degli uomini non può comprendere le opere di Dio. i me­
todi e i disegni della sua Provvidenza nella creazione e nel disegno
del mondo» (Serm. XV, n. 4) e« come le opere di Dio e il suo sche­
ma di governo superano completamente le nostre capacità di com­
prensione, cosi ci possono essere forse ragioni che originariamente
fecero apparire giusto che si dovessero tenere nascoste molte cose,
che abbiamo forse la capacità naturale di comprendere: molte cose
concernenti i disegni, i metodi e i fini della divina Provvidenza nel
governo del mondo. Non c'è niente di assurdo nel pensare a un ve­
lo, disteso di proposito sopra alcune scene dell'infinita potenza, sag­
gezza e bontà, la cui vista potrebbe in qualche modo colpirci trop­
po fortemente; o che certi fini siano :neglio perseguiti, essendo na­
scosti, che non se fossero esposti alla conoscenza nostra» (ib., n. 8 ).
Essa - in secondo luogo - è dovuta all'inadeguatezza della ragione
sia a comprendere esaustivamente l'intero ordine naturale (« nessu­
na parte dell'immensità della creazione può essere appieno compresa
senza che la si prenda nei suoi rapporti e proporzioni con il tutto, t
noi non abbiamo facoltà adatte a ciò» ib., n. 7), sia a sciogliere le
difficoltà che da sempre vengono proposte alla ragione, quale - ad
esempio - l'esistenza ed il significato del male (« la nostra ignoran­
za è la risposta adeguata a molte cose che sono chiamate obiezioni
contro la religione, particolarmente a quelle che derivano dalle ap­
parenze di male e di irregolarità nella conformazione della natura e
nel governo del mondo » ib., n. 15). Il Butler conclude quindi
che « noi dovremmo accontentarci e restare soddisfatti della nostra
ignoranza, distogliere i nostri pensieri da ciò che va al di là e al di
sopra di noi, e applicarci a ciò che è al livello delle nostre capacità
e che è il nostro reale compito e interesse» (ib., n. 16).

2 vols. Recente è la traduzione italiana delle opere del Butler ad opera di A. Babolin in
3 volumi, Sansoni, Firenze 1969-70. Per una panoramica sugli ultimi studi sul
Butler si veda la rassegna di A. BAB0LIN, La « Analogy of Religion » di J. Butler nella
critica d'oggi, in « Rivista di Filos. Neoscolastica», LXIV (1972) n. 4, pp. 683-98.
Un recente ed interessante studio dedicato all'analisi del concetto di analogia in
Butler è quello di L. OBERTELLO, J. Butler: la dottrina della probabilità e dell'ana­
logia, che costituisce il primo capitolo del suo volume Le idee e la realtà, Le Monnier,
Firenze 1971. Fondamentale è la monografia di A. BABOLIN, Joseph Butler, etica e reli­
gione, ed. « La Garangola », Padova 1973.
368 FILOSOFIA MODERNA

Questo non è certo un invito ad una passiva rassegnazione di


tinta scettica, ma se da un lato è posto come un richiamo ad una
forma di umiltà intellettuale, ormai dimenticata, che sa fermarsi e
prostrarsi di fronte a Dio, d'altro lato esso è unito alla consapevo­
lezza che nell'ambito di « nostra competenza » può e deve essere
scorto un riaggancio con il soprannaturale. Ciò vale specie nel cam­
po morale. Commentando nei Sermons II e III il passo di Rom. II,
14, il Butler si tiene ugualmente lontano dalle concezioni etiche di
Hobbes e di Shaftesbury: la coscienz� è il principio normativo asso­
lutamente valido; non più al gioco delle passioni o ad un innato e ge­
nerico sentimento etico noi dobbiamo affidarci: « ma c'è un prin­
cipio superiore di riflessione o coscienza in ogni uomo, che distingue
tra i principi interni del suo cuore come tra le sue azioni esterne e
sottopone a giudizio se stesso e le sue azioni, afferma in modo de­
terminato che certe azioni sono in sé rette, giuste, buone, altre in sé
sbagliate, malvagie, ingiuste, e, senza esser consultato, senza deli­
berazione, magistralmente si esercita, e approva o condanna di con­
seguenza l'autore di quelle, e, se non è forzatamente fermato, sem­
pre procede di sua natura ad anticipar� una più alta ed efficace sen­
tenza, che in seguito asseconderà e riconoscerà sua propria » (Serm.
II, Il. 8).
Anche per quanto concerne la conoscenza delle realtà trascen­
denti, il Butler indica una traccia di possibile rapporto. Il dilemma
deistico, posto nell'aut-aut tra la comprensione perfetta dell'ordine
divino e la sua incomprensibilità assoluta, implicante o l'inutilità
o l'impossibilità di una rivelazione soprannaturale, trova una pro­
posta di soluzione in una « via media ». Anche se non è affermata
l'identità dei due piani, naturale e soprannaturale, non è per ciò
stesso negato ogni rapporto conoscitivo. Nell'Analogy of Religion
Natural and Revealed to the Constitution and Course o/ Nature
(17 36) il Butler propone nel principio dell'analogia la possibilità del
parziale superamento gnoseologico del puro ordine naturale. Secon­
do il principio dell'analogia è possibile costituire un paragone, ri­
trovare un legame tra l'ordine naturale, guidato dalla Provvidenza,
e l'ordine sovrannaturale: « paragoniamo la nota costituzione e il
corso delle cose con ciò che viene detto essere il sistema morale del­
la natura, le riconosciute leggi della Provvidenza, o quel governo
sotto il quale ci troviamo, con ciò che la ragione ci insegna a credere
e a sperare; e vediamo se non sono due ordini analoghi e omogenei.
ILLUMINISMO INGLESE 369

Da un tale confronto risulterà, penso, che lo sono in sommo grado,


che entrambi si possono ricondurre alle stesse leggi generali e ri­
solvere negli stessi princip1 della condotta divina » (Analogy, trad.
it. cit., p. 13 ). Non si raggiungerà certo una forma di conoscenza
esaustiva dell'ordine rivelato; ma questo non è uno scandalo, per­
ché già per quanto riguarda l'ordine naturale non è diversa la no­
stra posizione: « ora, se l'ordine naturale delle cose e quello rive­
lato vengono entrambi da Dio, se coincidono l'uno con l'altro e
formano insieme un unico piano provvidenziale, il nostro essere giu­
dici incompetenti di uno deve rendere credibile che possiamo esse­
re giudici incompetenti anche dell'altro » (ib., p. 177). Incompe­
tenza però .che, se da un lato esclude il radicalismo deistico :fidu­
cioso nell'onnicomprensibilità razionale, è capace di essere, per con­
verso, una pur prudente garanzia per la nostra condotta; se accettia­
mo cioè con coscienza i limiti della nostra capacità intellettiva, tro­
veremo nella rivelazione una guida sicura di salvezza, perché solo
Dio conosce nella loro completezza le ragioni e lo schema delle
cose.
Le affermazioni del deismo inglese in generale, e del Tindal in
particolare, vengono a trovare una risposta: l'importanza del cri­
stianesimo non è indicata solo più come « una nuova pubblicazion�
ed istituzione esterna della religione naturale o essenziale, adatta-•
ta alle presenti circostanze dell'umanità e volta a promuovere la
naturale pietà e virtù », ma soprattutto come « contenente una spie­
gazione di un ordine di cose non scopribile con la ragione, in con­
seguenza del quale ci sono ingiunti parecchi distinti precetti. Poiché,
anche se la religione naturale è il fondamento e la parte principale
del cristianesimo, non ne è però in alcun senso la totalità » (ib.,
p. 149).

5. La fine del deismo e Hume

Dal quarto decennio del secolo XVIII, dopo la scomparsa dei


suoi principali attori, il deismo entrò in una sempre più marcata fase
di decadenza. Non che non continuassero più le pubblicazioni o
che fosse caduto l'interesse del pubblico e degli studiosi, ma or­
mai i nuovi autori, nel ruolo accettato di epigoni, si trovarono a
370 FILOSOFIA MODER.i"VA

ripercorrere una strada già segnata, o con apporti di relativa no­


vità 21, o con intenti prevalentemente eclettici e divulgativi 22•
HuME 23 stesso entra in polemica con il deismo. Egli, nei
Dialogues concerning Natural Religion, per bocca dello scettico
Filone combatte il deismo di cui Demea è il portavoce, quel deismo
cioè non ancora soggetto alla critica riduttiva operata dai liberi pen­
satori. Non certo combatte quello sviluppo e quell'ampliamento
critico del deismo che doveva portare alla posizione scettica ra­
dicale. La medesima esigenza di non oltrepassare le effettive pos­
sibilità della conoscenza umana riguardo alla comprensione della
natura divina e alla dimostrazione della esistenza di Dio opera
nei deisti ed in Hume: la diversità delle conclusioni deriva dalla pre­
cedente posizione gnoseologica; l'istanza riduttiva al campo razio­
nale è invece la medesima.
La religione per Hume non ha un fondamento logico. Come
potrà mai lo studio della teologia naturale dare una qualche
fiducia - si domanda Filone nel I Dialogo - quando addirittura
« la coesione di una pietra nelle sue parti [ ... ] , quando questi og­
getti familiari sono a tal punto inesplicabili e racchiudono delle
circostanze cosi incompatibili e contraddittorie, con quale sicurez­
za, allora, possiamo decidere relativamente all'origine dei mondi, o

21 Ricordiamo ad e5empio C. Mm»LETON (1683-1750) autore della Free Inquiry into


the miracolous Powers of the Christian Cburch (Libera ricerca sui poteri miracolosi
della Chiesa cristiana), London 1748, e P. ANNET (1693-1769) autore dell'History and
Character of St. Paul (London 1747), della Resurrection of Jesus considered (London
1744).
22
È il caso specifico di THOMAS CmraB (1679-1747). Operaio ed autodidatta, dalle
sue ampie letture delle opere del deismo trasse argomento per un'ingente quantità
di pubblicazioni di tinta più divulgativa, non prive però di acume e talora di una
personale nota. Le sue opere scritte fino al 1730 sono raccolte in A Collection of
Tracts on Various Subiects, printed for the Aut.hor, London 1730; in seguito pubbli­
::ò The Suffi,ciency of Reason in Matters of Religion (Sufficienza della ragione in cam­
po religioro), printed for T. Cox, London 1732; The True Gospel of Jesus Cbrist
asserted (Il vero Vangelo di Gesù Cristo), ivi 1738; An Enquiry into the Ground and
Foundation of Religion (Indagine sui fondamenti della religione), ivi 1740; A Discourse
on Miracles, considered as Evidences to prove the Divine Origina! of a Revelation
(Discorso sui miracoli, considerati come prove della derivazione divina di una rivela­
tione), ivi 1741. I suoi libelli polemici contro il Warburton sono raccolti in Tbe
Posthumous Works, printed for R. Baldwin, London 1748.
23 Per un'esposizione complessiva del pensiero di David Hume si vedano sopra
le pagg. 301-331. Ricordo qui solamente le traduzioni italiane dei Dialoghi sulla reli­
gione naturale, a cura di M. Dal Pra, Laterza, Bari 1963 (per le vicende della loro
redazione e della loro pubblicazione postuma nel 1779, nonché per un inquadramen­
to storico-critico, risulta di utile lettura la prefazione dell'ed. cit.) e della Storia na­
turale della religione, a cura di A. Sabetti, La Nuova Italia, Firenze 1968.
ILLUMINISMO INGLESE 371

tracciare la loro storia di eternità in eternità? ». È necessario l'uso


dello scetticismo riguardo ai ragionamenti teologici che hanno a
che fare con oggetti che sfuggono alla nostra comprensione limi­
tata al sensibile: « siamo come dei viaggiatori in un paese stra­
niero ». Gli attributi di Dio sono inconoscibili e la conoscenza uma­
na per analogia (la casa sta all'architetto come la natura sta a Dio)
è così insufficiente e deviante che al massimo può giungere ad
« una supposizione, una congettura, una presunzione » (Dia!. Il).
Attribuire la causa degli esseri viventi alla ragione ed alla provvi­
denza di Dio, anziché ai principi immediati della generazione e
corruzione, è allora una pura mia scelta (Dial. VII). « Che il mo­
vimento abbia inizio dalla materia per se stessa è cosa che a priori
si può concepire tanto quanto si può concepire che il movimento le
venga comunicato dalla mente e dalla intelligenza »; e cosl viene
negata la possibilità di risalire al primo motore (Dial. VIII). L'Es­
sere poi non può essere dimostrato a priori, perché le parole di« esi­
stenza necessaria » non hanno senso o meglio non hanno un senso
coerente (Dia!. IX), Il problema del male ci porta ancora alla risul­
tanza scettica: « in che cosa allora la bontà e la misericordia della
divinità assomigliano alla bontà ed alla misericordia degli uomini? ».
Quindi: « le vecchie domande di Epicuro non hanno ancora trovato
risposta. Ha la divinità la volontà di impedire il male ma non il
potere di farlo? Allora è impotente. Ne ha il potere ma non la vo
lontà? Allora è malvagia. Ne ha ad nn tempo il potere e volontà?
Allora di dove deriva il male? » (Dial. X).
In secondo luogo la religione - e questo ancora in opposizione
al credo deistico - non ha un fondamento etico. Hume lo afferma
al termine della Natural History of Religion (1757).
La religione, sorta come ansioso timore degli eventi futuri�
« evoca gli spettri della divinità sotto le parvenze più spaventose
che si possano immaginare. E non si può concepire alcuna rappre­
sentazione di perversa crudeltà che i devoti atterriti non siano pron­
ti ad attribuire senza scrupolo alla loro divinità ». Cosl pure lo spi­
rito di elogio e di esaltazione, che ci induce ad una servile adula­
zione « senza che se ne cerchi una prova nell'esperienza », è con­
trario ad una moralità umana; esso ci porta ad « ottenere il favore
divino non con le virtù e con i retti costumi, che soli possono esse­
re graditi ad un perfetto essere, ma con frivole pratiche, con zelo
372 FILOSOFIA MODERNA

smodato, con le estasi, oppure con la fede in opinioni incomprensi­


bili ed assurde » (ib., capp. XIII-XIV).
La religione per Hume ha dunque unicamente una base antro­
pologica e psicologica. Non la contemplazione ed il ragionamento
sulla razionalità della natura spinse gli uomini all'affermazione di
un Dio, ma fu il terrore, il senso d'angoscia a creare gli dei: « le
prime idee religiose non nacquero dalla contemplazione delle open:
della natura, ma da una contemplazione degli eventi della vita e
dalle speranze e dai ti.mori che incessantemente turbano la mente
umana [ ... ]. In questo spettacolo disordinato, con occhi ancor più
incerti ed attoniti, gli uomini scorgono le prime tracce della divini­
tà » (ib., cap. II). Vengono poi studiati il passaggio antropomorfico,
la posizione intermediaria della divinità tra una natura terribile ori­
ginaria e la vita umana in pericolo, la genesi del culto degli eroi dei­
ficati. Il teismo nasce da questo politeismo, ma gli uomini non sono
guidati in questo passaggio « dal ragionamento, di cui sono incapaci,
ma dalla adulazione e dai timori, nati dalla più bassa superstizione ».
La religione, anche quando si configura come monoteismo, si fonda
su « principi irrazionali e superstiziosi », si serve di « pazzia, fu.
rore, rabbia » e dell' « immaginazione esaltata » per ritrovare « un
contatto immediato con la divinità » (ib., cap. VI). Le religioni mo­
noteistiche, poi, sono portate di natura loro ad essere intransigenti
ed intolleranti. La tolleranza dunque non va ricercata in una auten­
ticazione religiosa, ma in una decisione razionale esterna: « E se, fra
i cristiani, gli Inglesi e gli Olandesi hanno accolto i principi della
tolleranza, questo atteggiamento eccezionale è nato dalla ferma de­
cisione del magistrato civile, contro gli sforzi costanti di preti e di
dotti » (ib., cap. IX).
CAPITOLO SEDICESIMO

L'ILLUMINISMO FRANCESE
[MARIO SINA]

l. L'ambiente olandese e Pierre Bayle

L'Olanda tra la :fine del Seicento e i primi decenni del Sette­


cento rivestì un ruolo di primaria importanza nell'ambito della cul­
tura europea. Essa aveva compreso dalla sua travagliata storia reli­
giosa la necessità della libertà di coscienza e ne aveva sperimentato
i risultati vantaggiosi anche sul piano economico e politico. Già nel
1670 Spinoza aveva, nel suo Tractatus theologico-politicus, elogiato
la città di Amsterdam per la libertà di pensiero che in essa si godeva:
« sia un esempio la città di Amsterdam la quale, tanto con la sua
grande prosperità, quanto con l'ammirazione di tutte le nazioni, co­
nosce, per esperienza, il frutto di questa libertà. Infatti, in questa fio­
rentissima repubblica, e la più ragguardevole delle città, tutti gli uo­
mini di qualunque nazione e setta vivono in somma concordia, e,
nell'affidare i propri beni a qualcuno, essi ciò soltanto si curano di
sapere: s'egli sia ricco o povero, onesto o disonesto, se sia solito
agire in buona fede oppure no; per il resto, non li preoccupa la re­
ligione o la setta perché tutto questo niente giova dinanzi al giu­
dice per far valere come giusta una causa o per farla condannare,
e non vi è, in questa repubblica, una setta tanto ed in tutto odiosa
i cui affiliati (purché non danneggino nessuno, diano a ciascuno il
suo e vivano onestamente) non siano protetti e difesi dalla pubbli­
ca autorità dei magistrati » ( cap. XX). Nel Seicento in Olanda ave­
vano trovato asilo i profughi delle diverse inquisizioni della Contro-
374 FILOSOFIA MODERNA

riforma e dei diversi rivolgimenti politici (gli Inglesi realisti al tem­


po di Cromwell, i repubblicani al tempo della Restaurazione ... ).
Dall'atto di revoca dell'editto di Nantes (1685), frutto dell'asso­
lutismo politico e religioso della Francia di Luigi XIV, un nuovo
flusso di Ugonotti vi trovò ospitalità e cittadinanza. Le università
olandesi di Leida, Groninga, Utrecht erano frequentate da studenti
dei paesi più diversi e dalle tipografie di Amsterdam e Rotterdam
uscivano le opere più controverse dei teologi, biblisti, :filosofi, in­
somma dei sçavans. Dagli ultimi decenni del secolo le gazzette let­
terarie, quivi pubblicate, diventarono il mezzo più spedito ed age­
vole per la diffusione europea di questa cultura più libera ed aperta.
Le recensioni delle « Nouvelles de la République des Lettres » (di­
retta da P. Bayle fino al 1687) e della« Bibliothèque Universelle et
Historique » (1686-1693, diretta da J. Le Clerc, che continuerà dal
1703 col titolo di « Bibliothèque Choisie » ed infine con quello di
« Bibliothèque Ancienne et Moderne ») erano lette in tutta Euro­
pa e servirono da un lato ad una più ampia informazione e circola­
zione delle idee, e dall'altro - nonostante le affermazioni del Bayle
nella Preface: « nous ferons plutot le métier de Rapporteur que celui
de Juge » - alla formazione di un atteggiamento di sempre più
spregiudicata e libera indagine.
Il calvinismo ortodosso ed intransigente dei Gomaristi e di
Maurizio d'Orange, persecutore degli Arminiani condannati dal
sinodo di Dordrecht (1618), non era più che un puro riferimento
formale, in quanto erano maturate, sotto Giovanni de Witt e
Guglielmo d'Orange, esigenze di apertura conciliativa e di ampia
tolleranza. Nonostante i reiterati tentativi sinodali per la restau­
razione di una confessione ortodossa e nonostante alcune forme
di intransigente inquisizione - ad esempio quella sostenuta dal
Jurieu che costò al Bayle l'allontanamento dall'insegnamento dal-
1'École illustre di Rotterdam -, le confessioni dissidenti pote­
rono continuare con soddisfacente libertà nel loro insegnamento
e nel loro culto. Ad Amsterdam, per esempio, il seminario dei
Rimostranti (od Arminiani) godette di un periodo di singolare
floridezza. FILIPPO DA LIMBORCH 1 vi insegnò per numerosi anni

1
FILIPPO da LIMBCRCH (1633-1712), celebre teologo arminiano, nacque ad .t\mster­
dam. Nipote di Episcopio studiò nel collegio dei Rimostranti, dove dal 1688 tenne la
cattedra di teologia e di storia ecclesiastica. Fu legato da stretta amicizia con il Locke,
ILLUMINISMO FRANCESE 375

teologia. Pur nella riproposta delle linee tematiche di Arminio


e di Episcopio, la sua Theologia Christiana è orientata principal­
mente « ad praxin pietatis ac promotionem pacis Christianae », co­
me ci è già dato di constatare dal titolo; nella ricerca libera
della verità dell'annuncio cristiano non può venir meno quella
esigenza di carità ed unità, caratterizzante l'autentico atteggia­
mento cristiano. Se poi l'analisi dei punti di divergenza dottri­
nale evidenzierà il contrasto delle opinioni, da ciò non dovrà
scaturire il facile anatema, ma l'unità e la carità cristiana dovran­
no essere conservate. Fondamento unico e legame autentico dei
cristiani, superiore ad ogni frazionamento settario, è la S. Scrit­
tura: essa deve essere accettata nel suo messaggio salvifico e non
dovrà divenire la fonte di facili condanne di eterodossia, o di pre­
tese regole di valore assoluto, prive di un adeguato fondamento
esegetico (dr. ib., Praefatio ad Lectorem ). Queste idee latitudi­
narie - ereditate da Erasmo, Grozio, Episcopio, riecheggiate
in alcuni contemporanei teologi inglesi, discusse e condivise da
Locke - erano le premesse per l'asserzione della libertà di inda­
gine religiosa, della libertà di coscienza e della tolleranza. La
Historia Inquisitionis di Limborch ne fu il risvolto storico-docu­
mentario: quando la libertà religiosa viene conculcata, quando
un certo credo viene imposto dall'autorità umana con mezzi coat­
tivi, si giunge - e di fatto si giunse come dimostra la repressione
degli Albigesi nel sec. XIV - alla persecuzione, al delitto, al
massacro. Limborch non cede al tono drammatico, ad esecrazioni,
a condanne: descrivendo l'inquisizione cattolica ed analizzandola
nelle sue manifestazioni, nella sua procedura codificata, nei suoi
artefici, nelle sue vittime, lascia al racconto staccato dei fatti tutta
la sua carica emotiva. Il modo di procedere nel racconto storico
- che si rivela in particolare nella seconda parte del volume,

che conobbe durante l'esilio di questi ad Amsterdam; a lui fu dedicata dal Locke l'Epistola
Je Tolerantia.
Tra le sue opere ricordiamo la Theologia Christiana ad praxin pietatis ac promotio­
:nem pacis Christianae unice directa, apud H. Wetstcnium, Amsterdam 1686; De Veritate
Religionis Christianae, amica Collatio cum erudito ]udaeo, apud J. Ab Hoeve, Goudae
1687; Historia Inquisitionis. Cui sub;ungitur Liber Sententiarum Inquisitionis Tholo­
sanae ab anno Christi MCCCVII ad annum MCCCXXIII, apud H. Wetstenium, Am­
sterdam 1692. Sul pensiero e la vita del Limborch si veda del VAN DER HoVEN, De
]oanne Clerico et Philippo a Limborch dissertationes duae, apud F. Muller, Amsterdam
1843.
376 FILOSOFIA MODERNA

intitolata Liber Sententiarum Inquisitionis Tolosanae - è la pre­


cisa esposizione e talora la semplice pubblicazione di atti, di bol­
le, di motus proprii, di verbali di vari processi, di citazioni di sto­
rici contemporanei, capaci da soli di comunicare, in quello scar­
no e freddo stile giuridico, una sensazione di sconcertante fred­
dezza e di rigore formale in cui nulla di cristiano è presente.

Nello stesso seminario dei Rimostranti insegnò pure, con­


temporaneamente al Limborch, JEAN LE CLERC 2• Un razionali­
smo di tinta sociniana permea l'intera sua produzione di filosofo,
di critico, di esegeta. In risposta agli scritti dell'esegeta cattolico
Richard Simon, il Le Clerc propone nei Sentiments de quelques
Théologiens de Hollande una diversa interpretazione del senso
e dell'ampiezza dell'ispirazione: nei testi sacri è autentica parola
divina solo quanto è in stretto rapporto con la salvezza umana,
quanto è coglibile come espresso 0rdine divino in modo chiaro
ed intelligibile, quanto cioè è conforme « alla dottrina del no­
stro Salvatore ed al buon senso » (ib., p. 284 ). Non è accettata
la distinzione tra fede umana e fede divina; si ha sempre una
fede umana, perché il messaggio rivelato è accettato in base ad
un ragionamento e per motivazioni di ordine razionale: « la cre­
denza degli uomini, di qualunque specie essa sia, non è che una
credenza umana, fondata su ragionamenti umani, e la rivelazione
divina presuppone che l'uomo ragioni e che faccia ragionamenti
veri » (ib., pp. 338-339). Questa priorità è ribadita nella sua Lo­
gica: « il nostro ragionamento è l'unico fondamento di ogni fe-

2
}EAN LE CLERC (1657-1736), nato a Ginevra, si formò una vasta erudizione nella
fornitissima biblioteca paterna. Dopo un soggiorno in Francia ed in Inghilterra si sta­
bilì in Olanda dove legò stretta amicizia con il Limborch. Fu nominato nel 1684 pro­
fessore di lettere, filosofia ed ebraico nel Seminario dei Rimostranti di Amsterdam, e,
dopo la morte del Limborch, ottenne la cattedra di storia ecclesiastica. Insegnò fino al
1728, anno in cui, colpito da una paralisi, perse parzialmente l'uso della memoria ed in
seguito anche della parola. Della sua vastissim'.l produzione - oltre alla già men­
zionata direzione di periodici - ricordiamo solamente: Sentimens de quelques
Théologiens de Hollande sur l'Histoire Critique du Vieux Testament, composée par le
P. Richard Simon, H. Desbordes, Amsterdam 1685; De l'Incredulité, H. Wetstein,
Amsterdam 1696; Ars Critica, G. Gallet, Amsterdam 1697, 2 vols.; Opera philosophica
in quattuor volumina digesta, Amsterdam 1698.
Oltre al citato studio di A. VAN Dzrr HoEVEN, ricordiamo la monografia di A.
BARNES, Jean Le Clerc et la République des Lettres, Droz, Paris 1938; di utile lettura
è pure il volume di R. L. CoLIE, Light and Enlightenment. A Study of the Cambridge
Platonists and the Ducht Arminians, at the University Press, Cambridge 1957.
ILLUMINISMO FRANCESE 377

de » (pars II, cap. X, sect. 4 ). Nelle due lettere De l'Incredulité


chiaramente afferma che « in materia religiosa, come in ogni altro
campo, non abbiamo altra guida al di fuori della ragione per
discernere una religione falsa da quella vera: infatti soltanto
col ragionamento possiamo conoscere il senso delle parole che
troviamo in quei libri che sappiamo contenere un messaggio ri­
velato » (p. I, eh. VI, p. 243 ).
L'apologetica del Le Clerc punta in modo ambiguo sulla con­
formità razionale dell'annuncio evangelico (« gli apostoli dunque,
esortando tutti coloro che volevano ascoltarli a vivere in un mo­
do conforme a ragione ed utile alla società umana, non potevano
diventare sospetti di inganno» ib., p. 338): dove l'ambiguità
consiste nella possibile accettazione del contenuto rivelato limi­
tatamente a quel tanto di conformità razionale in esso presente.
Egli accetta sì il miracolo, ma il discernimento tra vero e falso
miracolo è ancora demandato unicamente al giudizio razionale
dell'uomo: « se si esaminano i miracoli del Vangelo non si potrà
dubitare che essi siano stati operati da Dio o da angeli buoni;
in quanto l'unico fine di questi miracoli è di stabilire o di affer­
mare la verità e di portare gli uomini alla virtù » (ib., pp. 369-
370); dove è chiaro che, posto il problema in questo modo, il
giudizio sulla verità e sulla virtù diventa di competenza umana
e precede e giudica l'intervento divino. La critica :filologica ap­
plicata ai libri scritturistici (dr. Ars Critica) viene parallelamente
ad assumere una dimensione, definita dai gesuiti di Trévoux « di
vana congettura », dove cioè il giudizio umano, dimentico di una
certa tradizione ecclesiastica, si afferma capace di sceverare dal­
l'ammasso di pretesi canoni l'autentica parola divina.

Più complessa è la figura di PIERRE BAYLE 3• Il peso del-


1'erudizione e la frammentarietà deJla sua pubblicazione - il

' PIERRE BAYLE (1647-1706) nato nella contea di Foix, studiò nel collegio dei
gesuiti di Tolosa, dove si converti al cattolicesimo; ma nel 1670 ritornò al calvinismo.
Dopo un periodo trascorso a Ginevra come precettore, nel 1675 divenne professore di
filosofia nell'Accademia protestante di Sedan, dove restò fino al 1681, data di chiusura
di questa scuola ad opera di Luigi XIV. Fu chiamato allora ad insegnare filosofia e
storia all'Eco/e illustre di Rotterdam. Nel 1693 però, a seguito di una pesante polemica
con Pierre Jurieu, intransigente calvinista, dovette abbandonare la cattedra. Continuò,
sempre a Rotterdam, la sua instancabile opera di filosofo e di polemista fino al giorno
della sua morte.
La principale raccolta delle sue opere sono le Oeuvres diverses, La Haye, par la
378 FILOSOFIA MODERNA

Cantelli sottolinea in lui l'eminente vocazione giornalistica -


hanno dato luogo alle più diverse interpretazioni storiografiche.
Le sue opere, i suoi articoli, le sue lettere, infatti, nascono occa­
sionalmente e trattano degli argomenti più disparati; è pertanto
necessaria una ricostruzione minuta per cogliere le costanti che
caratterizzano il suo vero profilo.
La sua prima opera di una certa notorietà furono le Pensées
diverses sur la Comète. Da quanto ci racconta il Des Maizeaux
nella sua Vie de P. Bayle, premessa alla quarta edizione del Dic­
tionnaire Historique et Critique, la cometa vista in Europa nel
novembre-dicembre 1680 fu una delle più grandi comete mai vi­
ste e questo fenomeno destò non solo l'interesse degli studiosi,
ma di tutti quanti: « il popolo, vale a dire quasi tutti, fu scosso
da timore e stupore, non essendosi ancora liberato da quell'an­
tico pregiudizio che le comete fossero presagio di sventura »
(ivi, p. XXV). Nonostante le affermazioni del Des Maizeaux ,.
l'opera del Bayle non fu scritta per fugare le apprensioni e gli
infondati timori (il Prat ci dice che altre comete erano apparse
nel XVII secolo e che già altri avevano spiegato la naturalità di
questi fenomeni), ma per esporre le idee dell'autore nei riguardi
della superstizione, su cui da tempo stava meditando, e che po­
tevano riallacciarsi molto bene a quel fatto di attualità. La nega­
zione del valore miracoloso dell'apparizione di una cometa lo
portò così a considerare la tendenza umana ad interpretare come
prodigio o miracolo un fatto naturale qualsiasi che non accada in
modo ordinario o periodico (cfr. ib., par. 66), ad evidenziare
come la superstizione non avesse regnato solo nelle religioni pa­
gane e come gli stessi cristiani fossero ad essa proclivi e soggetti
(dr. ib., parr. 88 ss.), a concludere, da considerazioni storiche e

Compagnie des Libraire:;, 1737, 4 vols.; del Dictionnaire Historique et Critique ricordo
la quarta edizione, Amsterdam 1730, cui è anteposta la vita di P. Bayle ad opera del
Des Maizeaux. Delle Pensées diverses sur la Comète, esiste un'edizione critica a cura
di A. Prat, écl. Droz, Paris 1939, 2 vols. In italiano esiste una traduzione parziale:
Pensieri sulla cometa e Dizionario storico e critico, a cura di P. Brega, ed. Feltrinelli.
Milano 1957.
Tra la recente bibliJgrafia sul Bayle si vedano AA.VV., Pierre Bayle, le Philosophe
de Rotterdam, :Études et documents publiés sous la direction de P. Dibon, ed. Vrin,
Paris 1959; E. LABROUSSE, Pierre Bayle, du pays de Foix à la cité d'Erasme ed Hété­
rodoxie et rigorisme, M. Nijhoff, La Haye 1963-64; G. F. CANTELLI, Teologia ed ateismo.
Saggio sul pensiero filosofico e religioso di P. Bayle, La Nuova Italia, Firenze 1969.
ILLUMINISMO FRANCESE 379

teoretiche, che alla superstizione idolatrica era preferibile l'ateismo


{dr. ib., parr. 114 ss.).
La Critique générale de l'histoire du Calvinisme de Maim­
hourg, non è un'apologia del Calvinismo contro il racconto e le
interpretazioni del padre Maimbourg, ma una espressione di sfi­
ducia nell'azione dell'uomo che in ogni situazione preferisce al­
l'ideale ricerca della verità e della giustizia l'appagamento degli
interessi immediati. « Lo sguardo che Bayle rivolge alla storia
- scrive il Cantelli - risulta così particolarmente acuto. Gli
ultimi 150 anni di guerra, di contrasti, di armistizi e di appa­
renti pacificazioni gli si presentano in una luce nuova, rispetto alla
corrente interpretazione degli avvenimenti. In ogni episodio, in
ogni aneddoto, in ogni memoria che gli vien fatto di leggere,
Bayle vede sempre riconfermato il punto capitale della sua tesi,
che non sono i principi generali della religione a determinare le
azioni degli uomini, ma le immediate passioni, i moventi parti­
colari, che fanno capo ai sentimenti più forti e radicati nel cuore
degli uomini. La religione costituisce in ogni caso sempre un pre­
testo e un paravento, la religione si intende intesa non nella pu­
rezza e nella verità dei suoi principi, ma come costume ed abi­
tudine contratta» (op. cit., p. 64).
La tolleranza religiosa si impone pertanto - almeno in un
primo momento - a garanzia di quella verità religiosa, che
ogni struttura politica o confessionale, di sua natura, mirerebbe
-a falsare. Il Commentaire philosophique intende combattere l'in­
terpretazione di quei teologi che nel passo di Luca XIV , 23
-<< compelle intrare» vedevano il fondamento della costrizione re­
ligiosa. Queste parole, osserva il Bayle, non possono essere ac­
colte nel loro senso letterale, innanzi tutto perché esso sarebbe
-« contrario alle più distinte idee della legge naturale» ( Oeu­
vres div. II, p. 371) e quindi falso, in quanto « la luce naturale,
ovvero i principi generali delle nostre conoscenze, sono la regola
matrice ed originale di tutta l'interpretazione della Scrittura, in
specie per quel che riguarda i costumi» (ib., p. 367). Infatti,
per mezzo delle più pure e più distinte idee della ragione, noi
conosciamo che esiste un essere sommamente perfetto, che go­
verna ogni cosa, che deve essere adorato dall'uomo, che approva
certe azioni e le ricompensa e ne disapprova altre e le punisce.
Sappiamo ugualmente che l'adorazione fondamentale, che l'uomo
380 FILOSOFIA MODERNA

deve a questo essere, consiste in atu interni e non in un mero


atteggiamento cultuale esterno. Dunque l'unica via legittima per
smuovere e portare gli uomini alla religione è quella di suscitare
nell'anima certi giudizi, certi atti di volontà secondo la mente di
Dio. La costrizione è cosi intrinsecamente incapace di ispirare la
religione: « la violenza da un lato non è atta a persuadere lo
spirito e ad imprimere nel cuore l'amore ed il timore di Dio,
mentre d'altro lato è sommamente atta a produrre a livello cor­
poreo degli atti esterni, non accompagnati da alcuna interna real­
tà, o tali da essere segno di una disposizione interiore molto di­
versa da quella effettiva; questi atti esterni pertanto non sono
che o ipocrisia e cattiva fede, o imposizione alla coscienza » (ib ,
p. 371 ). In secondo luogo l'accezione letterale del versetto in
questione « sarebbe contraria allo spirito del Vangelo», perché
il Vangelo, perfettamente conforme alla lumière naturelle, pre­
dica jn ogni sua parte la mitezza e la mansuetudine.
Tralasciando le altre confutazioni, basate su considerazioni
più particolari, nonché le risposte alle varie obiezioni contro la
libertà religiosa, emerge a sostegno delfo tesi a favore della tolleranza
sostenuta dal Bayle la dottrina dell'ignoranza invincibile. Nei capitoli
VIII - X della parte II, viene difeso il primato della coscienza
individuale e la capacità di salvezza anche per la coscienza invin­
cibilmente erronea. L'uomo cioè deve giungere alle verità di di­
ritto, ma queste, oltre ad essere limitate, sono anche puramente
formali; ad esempio « tutto ciò che Dio ha rivelato è vero» op­
pure « bisogna amare la virtù e fuggire il vizio » sono verità
inoppugnabili, ma non ci dicono né ciò che Dio ha rivelato, né
in che cosa consistano la virtù ed il vizio. Ora se Dio ha permesso
tante difficoltà per l'uomo nella ricerca delle « verità di fatto »
( difficoltà originate da educazione, temperamento, passioni, pre­
giudizi, ignoranza... ), il suo giudizio - e di conseguenza il giu­
dizio degli uomini - non potrà essere di condanna per coloro
che agiscono secondo i dettami della propria coscienza, qualora
essa si trovi invincibilmente nell'errore.
Siamo ad una adesione allo scetticismo? Alcuni articoli del
suo Dictionnaire Historique et Critique sembrano favorevoli a
questa soluzione. Nell'articolo Manichéens, affrontando il pro­
blema del male, il Bayle ne sottolinea l'insolubilità da parte del­
la ragione ed evidenzia l'impossibilità di conciliazione teoretica
ILWMINISMO FRANCESE 381

delle ragioni a priori con i dati di fatto. « L'uomo è cattivo e


sventurato: ciascuno può rendersene conto sia considerando ciò
che avviene nel suo intimo, sia riflettendo sui rapporti che ha con
il suo prossimo. È sufficiente vivere cinque o sei anni per con­
vincersi profondamente della verità di quell'asserto; coloro poi
che vivono più a lungo e che più sono inseriti nelle vicende uma­
ne conoscono ancora più chiaramente la verità di quell'afferma­
zione. Se poi si viaggia si ricevono delle conferme continue: dap­
pertutto si vedono i monumenti dell'infelicità e della malizia uma­
na; in ogni luogo sorgono prigioni ed ospedali, in ogni luogo ci
sono patiboli e mendicanti » (ib., nota D). Di fronte alla indu­
bitabile esistenza del male fisico e morale che cosa può dire la
ragione? Le ragioni a priori, mostranti l'esistenza di un solo es­
sere perfetto, eterno, onnipotente e buono, cadono di fronte alle
ragioni a posteriori e resta fermo l'interrogativo insoluto: « se
l'uomo è l'opera di un solo principio sommamente buono, som­
mamente santo, sommamente potente, può allora essere esposto
alle malattie, al freddo, al caldo, alla fame, alla sete, al dolore,
alla tristezza? può avere tante cattive inclinazioni? può commet­
tere tanti crimini? La somma santità può creare una creatura cri­
minale? La somma bontà può creare una creatura infelice? La
sovrana potenza unita all'infinita bontà, non dovrebbe colmare
di beni la sua opera ed allontanare quanto potrebbe essere causa
di offesa o di incomodo? » (ibid. ). La sfiducia nella ragione è
espressa in modo radicale: « la ragione umana è troppo debole
per giungere alla verità; essa è un principio di distruzione e non
di edificazione; essa non serve che a formare dei dubbi, che a far
girare a destra e a manca per rendere senza fine una disputa »
(ibid.; cfr. anche art. Pauliciens).
È sincero lo sbocco :fideistico proposto dal Bayle a soluzione del
limite razionale professato? Se anche qui egli afferma che« la ragio­
ne non serve che a far conoscere all'aomo le tenebre e l'impotenza
in cui si trova e la necessità di un'altra rivelazione, quella della
Scrittura; là noi troviamo le argomentazioni per refutare invin­
cibilmente l'ipotesi [manichea] dei due principi e tutte le obie­
zioni di Zoroastro. Vi ritroviamo l'unità di Dio e le sue perfe­
zioni infinite; la caduta del primo uomo e ciò che ne consegue »
(ibid. ), e nell'articolo Pyrrhon: « conoscere i difetti della ragione
è dunque una felice disposizione verso la fede; per cui si capisce
382 FILOSOFIA MODERNA

che Pascal, e qualche altro scrittore, abbiano detto che per con­
vertire i libertini bisognava mortificarli sul capitolo della ragio­
ne, e mostrare loro a diffidarne » (ib., nota C), l'assenso :fideisti­
co bayliano è di una precarietà tale e di una tale equivocità da far
emergere, per uno smaliziato lettore, l'insufficienza e l'indiretta e­
sclusione della soluzione cristiana. Questa soluzione infatti è sem­
pre solo accennata, mai perseguita, analizzata, riesposta nella sua
luce e nelle sue dimensioni: nelle Réponses aux questions d'un
provincia! il dubbio rimane sempre più radicato. Dietro al :fidei­
smo di Bayle rimane incontrastato l'atteggiamento scettico, pron­
to a sollevare difficoltà, a dimostrare l'infondatezza delle opinio­
ni degli avversari, alieno da ogni riproposta positiva. Il suo scet­
ticismo può manifestare un animo fondamentalmente ateo, ma
il significato storico della sua opera non è legato a questa matrice
né porta necessariamente a questa soluzione: l'illuminismo fran­
cese trovò nei suoi scritti - oltre ad un arsenale critico di pron­
ta utilizzazione - ormai operata l'esclusione delle inutili ed
interminabili dispute teologiche, ridotte al ruolo di questioni in­
sensate, e poté, liberato da preoccupazioni teologiche, tentare una
strada di ordine puramente « naturale ».

2. Gli anni della clandestinità e l'opera del Fontenelle

All'inizio del secolo XVIII, nonostante le misure repressive


e di controllo del governo di Luigi XIV, assistiamo in Francia al­
la circolazione segreta non solamente dei fascicoli dei deisti in­
glesi o delle opere dei teologi olandesi, ma ad una produzione e
diffusione di manoscritti, per lo più anonimi, ispirati ai temi del
deismo e del razionalismo religioso ed eredi pure degli apporti
dei « libertins » del Seicento. La loro comune caratteristica -
al di là delle specifiche divergenze nei confronti dell'ortodossia
cattolica - sta nel richiamo unanime al valore dell'indagine ra­
zionale nel dominio religioso, al rifiuto di ogni forma autoritaria
e di ogni imposizione dottrinale, alla giustificazione implicita o
esplicita della tolleranza e della libertà religiosa, alla priorità del­
l'amore fraterno sulle differenze dottrinali.

Circolava ad esempio in questo periodo Le livre des trois Im-


ILLUMINISMO FRANCESE 383

posteurs 4 che già dalle prime pagine diagnosticava come causa


del sorgere e del perdurare della superstizione e delle religioni
storiche il pregiudizio: « benché interessi grandemente a tutti
gli uomini conoscere la verità, pochi tuttavia giungono a questa
conoscenza, perché la maggior parte è incapace di cercarla da so­
la, o piuttosto non vuole sottoporsi a questa fatica. Cosl non bi­
sogna meravigliarsi se il mondo rigurgita di opinioni vane e ri­
dicole, che trovano un fertile terreno nell'ignoranza. Essa è la
fonte unica da cui sgorgano le false idee sulla divinità, sull'ani­
ma, sugli spiriti e su quasi tutte le altre cose. Il costume di accon­
tentarsi dei pregiudizi instillati fin dalla nascita è prevalso, e se­
condo ancora questo costume per la soluzione di ogni questione
ci si rimette a persone interessate, che sostengono tenacemente
i preconcetti, e che parlano in modo diverso da come pensano, per
paura di rovinare la propria posizione» (ib. f. 3 r.). Per contro,
rimedio unico per lo stabilirsi della verità in mezzo agli uomini è il
fiducioso ricorso alla ragione - alla « sana ragione che è la sola
regola che l'uomo deve seguire» - antidoto ad ogni più radi­
cato pregiudizio: « allora vedremo che il popolo a poco a poco
aprirà gli occhi, diventerà disponibile alla verità, e comprenderà
che Dio è ben diverso da come se lo immaginava» (ib., f. 4 r.). Al
sorgere delle religioni positive sono sempre concorsi due fattori:
l'ignoranza della folla, fertile terreno per la credulità, e l'interes­
sata menzogna del clero e dei principi che, forti del fatto che
« il popolo sempre fluttuò tra la speranza e il timore, lo vincola­
rono alle leggi, fomentando l'opinione che Dio ha creato gli uo­
mini per renderli eternamente felici o infelici» (ib., f. 16 r.).
Mosé, Cristo e Maometto, fondatori delle tre principali religioni

• Cito dal manoscritto conservato al British Museu.m (Add. Mss. 12064), conforme al
ms. Mazarine 1193. Quest'opera, circolante fin dJi primi anni del 1700, porta in altre
copie il titolo Esprit de Spinoza, oppure Traité des Trois Imposteurs, o, ancora, De
Tribus Impostoribus. P. Retat ha recentemente pubblicato, per il Centre international
d'éditions et de rééditions, Saint-Etienne 1973, un'edizione anastatica della ristampa
del 1777 (l'opera era stata pubblicata nel 1719 ad Amsterdam, ma, difficilmente repe­
ribile, continuava a circolare manoscritta).
Per notizie più ampie su questa produzione anonima, ed in genere sulla circola­
zione delle idee filosofiche all'inizio del XVIII secolo in Francia, si vedano: I. O. WAJJE,
The Clandestine Organization and Diffusion of Philosophical Ideas in France /rom
JIOO to 1750, University Press, Princeton 1938; nonché J. S. SPINK, French Free­
Thought from Gassendi to Voltaire, University of London, The Athlone Press, Lon­
don 1960 (tr. ital. di L. Roberti Sacerdote, Va!kcchi, Firenze 1974).
384 FILOSOFIA MODERNA

storiche mediterranee, sono definiti i pm grandi impostori della


storia; essi ebbero buon gioco a sfruttare la credulità popola­
re, con sortilegi magici infusero nel loro popolo la credenza di
« essere più che uomini » e lo convinsero che le loro leggi « fos­
sero le leggi emanate e ricevute da una divinità » (ib., f. 36 r.).
Se dunque l'azione di questi tre massimi legislatori dell'umanità
non fu che ipocrisia, inganno, impostura, « si giudichi di conse­
guenza se essi sono degni che noi prestiamo loro fede, e se è am­
missibile il lasciarci condurre da simili guide che l'ambizione e
l'inganno sostengono, e che l'ignoranza rende eterne » (ib., f.
56 r.).

« La ragione e la coscienza sono perfettamente sufficienti per


la condotta degli uomini », afferma un altro noto manoscritto,
Le Militaire philosophe 5, all'inizio deHa parte III. È questa un'ope­
ra tipicamente deistica, di mole ingente, divisa in quattro parti:
nella prima si pongono i criteri per individuare le religioni stori­
che erronee (Examen général des religions factices), nella secon­
da si indicano i motivi per cui la rivelazione si oppone alla ra­
gione (Réfutation de la foy), nella terza si confutano gli argomenti
a favore della divinità della religione cristiana (il probabile titolo
è Examen de la religion ), nella quarta infine si viene a delineare
una religione filosofica, fondata sulla « lumière naturelle » ( Qua­
trième cahier: contenant un système de religion fondé métaphysi­
quement sur les lumières naturelles) et non sur des faits ). Emer­
gono in queste pagine la sfiducia nelìa guida della fede e la con­
vinzione che tutte le religioni storiche non siano altro che inven­
zioni umane, basate su « principi diversi da quelli della natura e
della ragione, e su altre leggi che non quelle della coscienza ». Si
apre in questo modo la strada all'esigenza della costituzione di una
religione puramente razionale: « bisogna allora costruirsi una re­
ligione fondata sulla ragione, ovvero su questa luce che la natura
ha donato a tutti gli uomini per guida, luce che è una partecipazic-

' Sotto questo nome si diffuse il manoscritto Difficultés sur la religion proposées au
R. P. Malebranche, prétre de l'Oratoire, par un ancien olficier (Mazarine 1163 ). Del
manoscritto il circolo d'holbachiano pubblicò un'edizione ridotta (Londra 1768) con
il titolo Le Militaire philosophe, ou Difficultés JU1 la religion proposées au R. P. Male­
branche, Prétre de l'Oratoire, par un ancien Officier. R. Mortier ne ha dato un'edizione
critica (Bruxelles 1970).
ILLUMINISMO FRANCESE 385

ne, un'emanazione dell'intelligenza universale e che ci illumina in


ogni tempo e in ogni luogo, anch::! nostro malgrado». La ra­
gione con le sole sue forze è capace di mostrare il retto compor­
tamento religioso: non c'è più bisogno di mediazioni insicure e
precarie, di profeti, di preti, di concili, ma « la raison et la con­
science» guidano infallibilmente verso la verità e la giustizia. È
chiaro il riferimento ai temi portanti del deismo d'oltre Manica,
ripresi esplicitamente anche nelle espressioni conclusive del mano­
scritto: « ci si attenga dunque ai principì generali incontestabili: che
c'è un Dio autore di tutte le cose, che ricompenserà la virtù e puni­
rà il vizio; che non esiste altra virtù all'infuori dell'adorare Dio
interiormente dal profondo del cuore e con tutte le nostre forze,
ed in secondo luogo del trattare in ogni occasione tutti gli uomi­
ni nel modo in cui noi vorremmo ragionevolmente essere tratta­
ti [ ... ] ; in una parola non c'è per nulla religione al di fuori di
ciò che la pura ragione, senza interesse o suggestioni, ci detta ».

Anche il manoscritto Examen de la religion 6, fin dal suo pri­


mo capitolo sostiene il diritto e dovere di ogni uomo di esami­
nare criticamente la propria religione, per evitare ogni slittamen­
to nel pregiudizio: « Noi aderiamo ad una credenza, ad un sen­
timento, o in virtù della ragione o in virtù di pregiudizi. Vi ade­
riamo per ragione quando l'accogliamo dopo un serio esame e
con l'evidenza della dimostrazione. Vi aderiamo per pregiudizio
quando l'accogliamo per altra strada; come quando noi crediamo
a qualcosa unicamente perché i nostri padri, i nostri pastori, i
nostri maestri, i nostri amici ce l'hanno insegnata e ci hanno det­
to che le cose erano cosi» (ib., p. 3 ). Seguire la ragione significa
sia rispettare la parola divina, perché « l'uomo non deve agire
che secondo ragione, e Dio stesso non agisce su di noi che tra­
mite questa via» (ib., p. 7); sia assicurarci di agire secondo la
sua volontà e di non seguire i nostri pregiudizi: essere disposti
a fare la volontà di Dio significa innanzi tutto essere disposti a
sacrificargli i nostri pregiudizi (cfr. ib., p. 9). Ora ogni religione

• Cito dal manoscritto conservato al British Museum (Lansdowne 414), conforme


al ms. della Bibliothèque Nationale (fonds français 13214). Esso fu pubblicato per la
prima volta nel 1745 e poi da Voltaire nel 1765, nella raccolta L'Evangile de la
Roison. Per ulteriori informazioni sulla diffusione di questo manoscritto e sulle vicende
del testo, dr. I. O. WAJJE, op. cit., pp. 141-163.
386 FILOSOFIA MODERNA

storica, ed in particolare il cristianesimo, è fondata sul pregiu­


dizio, sulla non conformità razionale. Già il concetto antropolo­
gico di Dio presentato nella S. Scrittura, che urta, secondo l'au­
tore di questo manoscritto, contro la più pura concezione razio­
nale di Dio, mostra la base puramente preconcettuale del cristi::i­
nesimo. Se « la principale condizione, o meglio, il vero carattere
della vera religione è che essa non ci dia una falsa idea di Dio,
questa condizione manca completamente alla religione cristiana »
(ib., p.19); non solo, ma « la religione cristiana ci dà un'idea di
Dio più bassa di ogni altra religione» (ib., p. 22). Nelle pagine
seguenti ogni articolo della fede è letto e proposto nel suo aspet­
to di irrazionalità; anche la morale del cristianesimo viene presen­
tata come una morale di comodo e di inganno, e nei suoi precetti
particolari (disprezzo delle ricchezze, stima dell'ignoranza, invito
alla verginità e al disimpegno dai compiti terreni) come nociva
alla società civile (cfr. ib., pp. 100-106): « riassumendo, per es­
sere perfetto cristiano, bisogna essere ignorante, credere cieca­
mente, rinunciare a tutti i piaceri, agli uomini, alle ricchezze, vi­
vere solo in un deserto, abbandonare i propri parenti, i propri
amici, serbarsi vergine; in una parola fare tutto ciò che è con­
trario alla natura; bisogna dare tutte le proprie ricchezze agli ec­
clesiastici, e, dopo aver fatto questo, si può essere ben certi - se­
condo le promesse che fanno - di andare dritto in cielo» (ib.,
p. 106). L'unico criterio di moralità (cfr. cap. XI: Qu'il y a un Ètre
Supreme. La Conduite qu'un honnete homme doit garder dans la
vie) è quindi individuato nella ragione che ci prescrive un culto spi­
rituale di Dio - un Dio affermato nella sua infinita trascendenza -
e ci propone, come comandamento dell'amore fraterno, il precetto di
« fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te » e viceversa. Siamo
ad un punto di perfetta coincidenza della religione con la morale:
Dio è riconosciuto nella sua completa trascendenza ed il compito re­
ligioso dell'uomo non è altro che la costruzione - secondo i lu­
mi razionali (« la raison et la nature sont les Ouvrages de Dieu,
et les Religions sont les ouvrages des hommes» ib., p. 114) -
della società terrena, opera in cui di fatto consiste « tutta la sot­
tom1ss1one e tutto il rispetto che io devo al mio Creatore e Si­
gnore» (ib., p. 183 ).

Fedele ad una forma di deismo « puro » - ed intendo con


ILLUMINISMO FRANCESE 387

questo aggettivo indicare una formulazione ongmaria deistica


non ancora soggetta a slittamenti atei, scettici o materialistici -
resta l'opera del BouLAINVILLER 7• Lettore attento di Spinoza, -
al cui Trattato teologico-politico compose verso il 1695 una Ré­
futation e della cui Etica stese una traduzione francese (rimasta
manoscritta fino al 1907 quando fu pubblicata da F. Colonna
d'Istria) ed un estratto dal titolo Réfutation des erreurs de Benoit
de Spinoza - ereditò dal pensatore olandese e dalla tradizione razio­
nalistica del Seicento una salda :fiducia nella funzione redentiva della
ragione umana: ne sono testimoni i sei volumi manoscritti degli
Extraits des Lectures de Mr. le Comte de Boulainviller.
Preziose, per comprendere l'equilibrio religione-filosofia, sono
le pagine introduttive dell'Histoire de la philosophie et de la re­
Jigion ancienne, dove religione e :filosofia vengono rapportate in
quel loro legame naturale, rivolte come sono allo stesso oggetto,
ossia alla verità: « esse non differiscono che nel modo di considè·
rare la verità. Se una la cerca nella natura, l'altra si eleva per
cercarla al di sopra di tutto quanto è sensibile. Se una l'ammira
l'altra l'adora, e tutte e due perseguono, pur su diverse strade, la
medesima meta: riempire cioè il cuore e lo spirito di tali luci e
sentimenti, sia per perfezionare le operazioni della ragione, sia
per condurre i costumi sul piano della virtù. Così, rendendo gli
uomini pii e dotti, esse non presentano loro che uno stesso oggetto
da conoscere, da amare, da praticare » (ibid., ff. 354-354 v.). Reli­
gione però, per Boulainviller, sta qui ad indicare non tanto quel­
la rivelata, quanto quella razionale. R. Simon, nella sua monogra­
fia sul Boulainviller, sottolinea « la sua preoccupazione di non
considerare mai la religione cristiana a motivo della rivelazione »

7
HENRI DE BouLAINVILLER ( 1658-1722 ), dopo gli studi presso gli Oratoriani di
Juilly, scelse la carriera delle armi. La morte del padre e i dissesti finanziari lo obbli­
garono a lasciare l'esercito. Ricomposto il patrimonio familiare, poté dedicarsi comple­
tamente agli studi storici e filosofici per l'istruzione sua e dei suoi figli. Cito dai
manoscritti Histoire de la philosophie et de la religion ancienne (Parigi, École
Supérieure de Guerre Ms. 8332 k II 78), Abrégé de l'histoire universelle (Parigi, Bi­
bliothèque Nationale, Ms. fond fr. 6363/4). Tra le opere edite dopo la sua morte:
Vie de Mahomed, London 1730; Réfutation des erreurs de B. Spinoza, par M. de Fé­
nelon, par le P. Lami, par le Comte de Boulainvillers, chez F. Foppens, Bruxelles 1731.
Le opere filosofiche del Boulainviller sono state recentemente pubblicate da R. SrMON,
Henry de Boulainviller. Oeuvres philosophiques, M. Nijhoff, La Haye 1973, voi. I,
1975 voi. II.
Fondamentale per Io studio di Boulainviller è la monografia di R. SrMON, Henry
de Boulainviller, Boivin et C.ie, Paris 1941.
388 FILOSOFIA MODERNA

(p. 358): quando cioè Boulainviller parla di religione ha in


mente costantemente quelle di origine umana, nate nel cuore dei
singoli popoli.
Storico attento e preciso, il Boulainviller ama rivolgere il
suo sguardo alle civiltà antiche ed intende analizzare e far co­
noscere la storia « dei costumi, delle opinioni e delle religioni dei
diversi popoli della terra»: questo è l'intento del suo Abrégé de
l'histoire universelle, opera composta, come ci è dato di leggere
nell'avvertimento iniziale, per l'istruzione dei suoi figli. Supe­
rato è ormai il rapporto non solo con la cronologia biblica, ma
anche con gli stessi contenuti miracolosi: « io cercherò di conci­
liare gli stessi miracoli della creazione e del diluvio con i concetti
che ci sono dati dalla filosofia naturale, essendo convinto di aiu­
tare cosi la verità e di fornire il mezzo più sicuro per fugare dub­
bi ed inquietudini» (ibid., Avertissement). La storia cosi, nella vasti­
tà della sua trama (non più cioè intesa come cronologia in funzione
del racconto biblico, ma aperta all'inàagine degli sviluppi autonomi
di molti popoli) e nella diversità delle componenti considerate (le va­
rie manifestazioni della cultura umana) diventa il luogo non più
dell'azione divina - come per il Bossuet -, ma dell'azione uma­
na. È pertanto logico che il giudizio storico rientri esso pure nelle
sole categorie umane: « Questi principi [di verità, giustizia, ca­
rità] che io suppongo sempre essere invariabili, mi porteranno ine­
vitabilmente a condannare i loro contrari, ovunque io li venga ad
incontrare, anche nella persona o nella posterità dei Patriarchi,
per quanto siamo soliti ritenerli degni di venerazione; e questo
perché sono persuaso che la giustizia e la verità devono essere con­
siderate da noi ancora più degne di rispetto» (ibid. ). Anche la re­
ligione, come la filosofia, è espressione umana: sorge, matura e si
giustifica all'interno dei singoli popoli, secondo le loro attitudini,
adeguata alle loro concezioni. Un es�mpio ci è dato nella Vie de
Mahomed, in cui il Boulainviller rivaluta la religione mussulma­
na: pur essendo il cristianesimo astrattamente più elevato, l'isla­
mismo ha il vantaggio di presentare massime morali più semplici,
più naturali e maggiormente conformi alla cultura di quel popolo
particolare. Il valore di entrambe queste religioni è comunque de­
dotto non dalla verità del fatto di rivelazione, ma dalla loro con­
formità con le idee comuni religiose del genere umano (cfr. ib., p.
133), e dal fatto che entrambe, per vie diverse, perseguono il me-
ILLUMINISMO FRANCESE 389

desimo scopo: « [le loro massime] sono ancorate ad un principio


che non è diverso dal nostro; perché è sempre la religione che con­
duce i cristiani e i mussulmani, pur per due vie così opposte » (ibid.,
p. 158).

Sulle orme del Boulainviller, e da questo incoraggiato, conti­


nuerà la sua opera di storico N1coLAS FRÉRET 8, allievo e poi se­
gretario dell'Accademia delle Iscrizioni di Parigi. Fu un uomo di
eccezionale erudizione e le sue opere abbracciarono la storia del-
1 'intera antichità, da quella mediterranea a quella orientale, in un
ampio cerchio di indagine cronologica, geografica, mitologica, filo­
sofica, grammaticale. Il suo rigore scientifico lo portava ad esclu­
dere con cautela il valore di ogni narrazione di prodigi: alcuni pos­
sono essere interpretati come « favole inventate dal clero corrotto,
ed accolte dal popolino ignorante e superstizioso » (Réfiexions sur
les prodiges rapportés par les anciens, in Oeuvres Compi., I, 159),
altri come « effetti puramente naturali, ma che per la loro rarità
sembravano in contrasto con il corso ordinario della natura, e che
venivano pertanto attribuiti ad una causa soprannaturale » (ibid.,
I, 160). A proposito pertanto di questi ultimi, egli non ritiene meto­
dologicamente corretta un'esclusione a priori: toccherà allo studioso
moderno indagare sulle cause naturaìi che hanno determinato quel
fatto specifico, ma non gli sarà consentito un frettoloso giudizio ne­
gativo sulla attendibilità di una fonte storica antica che ci parli di
fatti prodigiosi; va distinto cioè il fatto narrato dalla interpretazio­
ne data di esso. Ad ogni modo non è dato spazio dal Fréret alla
possibilità dell'autentico miracolo.

8
N1C0LAS FRÉRET (1688-1749), ingegno precoce, a diciannove anni fu accolto
all'Académie des Inscriptions et Médailles di Parigi, dove poteva partecipare alle
discussioni sui temi più controversi della storia ecclesiastica e civile, della cronologia
e della geografia. Divenne nel 1716 socio effettivo e poi segretario di questa Acca­
demia. Conobbe e restò legato d'amicizia con il conte di Boulainviller; dal 1720 al
1723 si occupò dell'educazione dei figli del duca di Noailles, una delle figure di
maggior rilievo dei circoli culturali parigini. Restano numerosissime sue ricerche
su temi di storia, cronologia, archeologia, geografia, religione, filologia... raccolte nel­
le Mémoires de l'Académie.
Nelle Oeuvres Complètes (Daudré-Obré éd., Paris 1796) in 20 volumi, troviamo
raccolte anche opere interessanti per le loro affermazioni deistiche, ma la cui attri­
buzione a Fréret è dubbia, come la Lettre de Thrasybule à Leucippe, già edita a
Londra nel 1768. Interessante è Io studio pubblicato da G. F. CANTELLI, Nicola
Fréret: tradizione religiosa e allegoria nell'interpretazione storica dei miti pagani, in
« Riv. critica di storia della filosofia» XXIX (1974), pp. 264-283 e 386-406.
390 FILOSOFIA MODERNl1

Al Fontenelle successe come segretario perpetuo dell'Accade­


mia francese }EAN-BAPTISTE DE MIRABAUD 9, cui vengono attri­
buiti alcuni significativi manoscritti composti nel primo periodo
dell'illuminismo francese. Sono composizioni di una spiccata ten­
denza anticristiana, miranti da un lato al discredito della tradizione
giudaico-cristiana e dall'altro ad una formulazione di tinta materiali­
stica. Nell'Opinion des anciens sur le monde, edito ancora anonimo
ad Amsterdam nel 1740 nella raccolta, curata da J. F. Bernard,
Dissertations mélées sur divers sujets importants et curieux, l'eru­
dizione storica è posta chiaramente a servizio della confutazione del
racconto della creazione del I capitolo della Genesi: dal confronto
delle teorie cosmogoniche dell'antichità si salva solo la teoria ato­
mistica, presentata e proposta come capace di dare risposta cri­
tica agli interrogativi in proposito. Anche l'Opinion des anciens su,
la nature de l'ame, cui non mi sembra estranea l'influenza di paral­
lele discussioni dell'ambiente deista inglese, sorte già dai tempi di
Locke, intorno alla possibilità che la materia possa ricevere la fa­
coltà del pensare, unita alle istanze gassendiane e materialistiche
francesi, giunge a conclusioni negative, sottolineando, contro le
contraddittorie teorie platoniche, le argomentazioni dei negatori
dell'immortalità. Ancora al Miraband sono attribuiti altri mano­
scritti quali l'Opinion des anciens sur les Juifs (edito poi a Lon­
dra nel 1769), silloge delle accuse levate contro il popolo eletto,
cui attingeranno abbondantemente scrittori e polemisti del Set­
tecento, primo fra i quali Voltaire.

Lontano dai salotti e dalle accademie pangme, nella sua pic­


cola parrocchia di Etrépigny, il curato }EAN MESLIER 10 lasciava
come suo testamento spirituale, nel 1733, un lunghissimo manoscrit­
to dove poteva finalmente dire apertamente ciò che pensava « de la

9
}EAN BAPTISTE DE MIRABAUD ( 1675-1760), amante del ritiro e dello studio,
dopo una breve parentesi nell'esercito, passò al servizio della duchessa di Orléans
come precettore delle sue figlie. Dedito allo studio delle lettere, tradusse in fran­
cese la Gerusalemme Liberata. Dal 1742 ricoprl la carica di segretario perpetuo al­
l'Académie Française.
Per un quadro generale sulla questione dell'attribuzione al Mirabaud dei mano­
scritti e delle pubblicazioni postume, si veda I. O. WADE, op. cit., pp. 205-221 e
J. S.0 SPINI<, op. cit., pp. 143 e 344-345.
' }EAN MESLIER (1664-1729), condusse la vita normale di un comune parroco
di campagna. Studiò nel seminario di Reims, dove probabilmente venne a contatto
con la filosofia di Cartesio e con la scolastica cartesiana di tinta malebranchiana.
ILLUMINISMO FRANCESE 391

conduite et du gouvernement des hommes, de leurs religions et de


leurs moeurs » (ed. cit., p. 3 ). Voltaire pubblicò nel 1762 un Extrait
di questo testamento, volgendolo a conclusioni deistiche, mentre
d'Holbach ne Le Bon sens du curé ]. Meslier; suivi de son te­
stament esporrà in sintesi e a scopo divulgativo le proprie idee
atee e materialistiche. Le prime prove della falsità della religio­
ne cristiana, proposte in quest'opera, fanno eco alle comuni ac­
cuse lanciate dai liberi pensatori: religioni storiche come inven­
zioni umane, inconsistenza dei racconti miracolosi, falsità delle
profezie, imperfezione della dottrina della pretesa rivelazione...
Di una considerevole originalità sono invece le ultime prove. La
sesta, di tinta politica e sociale: « Una religione che subisce, che
approva e che persino autorizza degli abusi contrari alla giu­
stizia ed al buon governo degli uomini, 6.no al punto di sancire
la tirannia dei grandi a scapito del popolo, non può essere né ve­
ra, né di istituzione divina » (ed. cit., II, p. 168 ). Ora - e Me­
slier ha presente la situazione politico-sociale-religiosa della Fran­
cia cristiana di Luigi XIV - come può essere divina la religione
cristiana che accetta ed autorizza l'ingiustizia sociale, il parassi­
tismo di certe classi sociali (nobiltà, alto clero), il diritto incondi­
zionato alla proprietà, una certa istituzionalizzazione familiare,
l'assolutismo tirannico ... ?
La settima e l'ottava prova testimoniano la derivazione del
suo ateismo e del suo materialismo dalla tradizione cartesiana. La
settima prova mostra la vanità della religione dalla vanità del suo
fondamento: l'esistenza di Dio. Già precedenti annotazioni in
margine al Traité de l'existence de Dieu del cartesiano Fénelon
avevano preparato questa confutazione; un essere infinito spiri-

Isolato anche culturalmente nel suo paesetto, non sembra fosse in contatto con le
correnti del deismo inglese. Lesse le opere di Bayle e di Montaigne ed annotò mar­
ginalmente la Démonstration de l'existence de Dieu di Fénelon. Alla sua morte fu
scoperto il famoso manoscritto dd suo Testament.
La prima edizione completa di questa opera fu assai tardiva: Testament de Jean
Meslier, Rudolf Charle,, Amsterdam 1864, 2 vols. (è l'edizione da cui cito); recente­
mente sono uscite le Oeuvres Complètes de ]ean Meslier, par J. Deprun, R. Desné,
A. Soboul, éd. Anthropos, Paris 1970-72, 3 vols.
Oltre alle introduzioni alle citate Oeuvres Complètes, sono utili le Etudes sur le
curé Meslier, Actes du Colloq ue International d'Aix-en-Provence 21 nov. 1964,
Paris 1966. Tipico di una certa interpretazione di tinta marxista dell'opera del
Meslier è il volume di M. DoMMANGET, Le curé Meslier, athée, communiste et revo­
lutionnaire sous Louis XIV, Julliard, Paris 1965.
392 FILOSOFIA MODERNA

tuale è un essere chimerico - citiamo a mo' di esempio una sua


critica - perché l'esistenza necessaria va al massimo attribuita
ad un essere reale, vero, materiale « che si vede, che si è sempre
visto e che si trovi sempre manifestamente in ogni luogo » (ib ..
II, p. 309). Il Dio della tradizione cartesiana, il Dio della filoso­
fia è una astrazione inutile, un'entità indimostrabile. L'ottava
prova - la religione è falsa perché sostiene la dottrina della spi­
ritualità e immortalità dell'anima - risolve il dualismo di res
cogitans e res extensa a favore di un monismo materialistico: pen­
sieri, sentimenti, volizioni non sono che modificazioni della ma­
teria. Ritengo utile osservare solamente che il materialismo di
Meslier non nasce - come vedremo invece in altri autori del Set­
tecento - da istanze di scienze sperimentali, ma da una riflessio­
ne sulle difficoltà inerenti alla metafisica cartesiana ( dualismo, crea­
zione...).
11,
BERNARD LE BovIER, signore di FoNTENELLE segretario per­
manente dell'Accademia francese, fu il rappresentante ufficiale della
cultura francese del primo Settecento. Cartesiano convinto soprattut­
to in fisica, anche se risentì degli influssi dell'empirismo scientifico e
gnoseologico, ereditò dalla tradizione cartesiana una fiducia radicale
nelle possibilità della ragione. Scienziato, filosofo, letterato, ma
soprattutto uomo di mondo, seppe, con mano discreta e pruden­
te, insinuare più di quanto non dicesse letteralmente. Già nei

11 BERNARD LE BOVIER DE FoNTENELLE (1657-1757) nipote di Corneille, nacque a


Rouen e frequentò il collegio dei gesuiti della sua città natale. La carriera paterna
dell'avvocato non gli piaceva e fu disgustato dagli studi di logica cosi ridondanti di
barbarismi. A Parigi �i dedicò a studi e composizioni letterarie; una ricercata legge­
rezza e purezza di stile resterà sempre presente nelle sue opere insieme al culto della
chiarezza ed evidenza cartesiana. Nel 1691 fu accolto all'Académie Française, di cui
fu nominato segretario perpetuo nel 1697, e di essa compose la storia dal 1666 al
1699. Restano numerosi Elogi pronunciati in questa sede, tra cui quelli di Newton,
Leibniz, Malebranche...
Tra le varie raccolte delle opere di Fontenelle ricordo le Oeuvres de Monsieur de
Fontenelle, Amsterdam, aux dépens de la Compagnie, 1756, 6 vols. (da cui attingo).
Edizioni critiche: De l'origine des fables, par J. R. Carré, éd. Alcan, Paris 1932;
Histoire des oracles, par L. Maigron, Paris 1934 2; Entretiens sur la pluralité des
mondes, par A. Calarne, éd. Didier, Paris 1966.
Su Fontenelle si vedano: J. R. CARRÉ, La philosophie de Fontenelle ou le sourire
de la raison, Akan, Paris 1932; J. F. CouNILLON, Fontenelle écrivain, savant, philo­
sophe, Durant, Fécamp 1959; A. RoBINET, Considérations sur un Centenaire: notes
soumises aux historiens de Fontenelle, in « Revue de Métaphysique et de Morale »
1958, pp. 283-298.
ILWMINISMO FRANCESE 39}

Dialoghi dei morti, per bocca di Anacreonte aveva rimproverato


ad Aristotele le vuote classificazioni della sua etica, ed aveva espres­
so la convinzione che l'unico valore della filosofia non fosse che
quello operativo, pratico: « Non è questione di definire le passio­
ni con metodo, come tu Aristotele mi dici d'aver fatto, ma di vin­
cerle! Gli uomini affidano volentieri alfa filosofi.a i loro mali per­
ché siano studiati, ma non perché siano guariti, ed essi hanno tro­
vato il segreto di costruire una morale che sia loro estranea al pari
dell'astronomia» (Oeuvres, I, p. 17). Anche per il Fontenelle -
come per tutti i filosofi del Settecento - il male fondamentale del­
l'uomo è il pregiudizio (definito come « supplemento della ragio­
ne ») contro cui sono dirette le sue principali opere. Negli Entre­
tiens sur la pluralité des mondes ( 1686) - presentazione vivace e
« salottiera » delle dottrine copernicane -, mentre pone in primo
piano il valore dello spirito scientifico, che nulla crede se non ciò
che sia razionalmente dimostrato, e che è pronto altresì a ricono­
scere il valore del dubbio e del limite gnoseologico, diffonde, attra­
verso la nozione del pluralismo cosmico, dubbi per quel tempo no­
tevoli per la fede cristiana. « Allontanando la terra e l'uomo dal
centro del mondo veniva scosso il valore del racconto della crea­
zione presentato dalla Genesi »; inoltre, posta « la possibilità del­
l'esistenza di altri uomini in altri mondi », il senso della redenzio­
ne avrebbe acquistato una dimensione diversa; infine l'affermazio­
ne « che tutto nell'universo procede secondo leggi o processi
meccanici costanti equivaleva a negare l'intervento della Prov­
videnza » tutti elementi che contribuirono alla messa all'indice
12:

di questo libro nel 1687.


Anche l'Histoire des Oracles (1687) a prima vista presenta
una tesi non pericolosa per la religione cristiana: in essa infatti il
Fontenelle confuta la credenza che gli oracoli degli antichi fossero
stati operati da demoni. Furono i primi cristiani ad accettare la
realtà degli oracoli delle religioni pagane e, per comodità, ad at­
tribmrli ai demoni: « i demoni, a cui cristiani e pagani credevano,
servirono come spiegazione di questi fatti soprannaturali. Questa
sorta di miracolo ordinario, che avveniva nelle religioni pagane, era
riconosciuto, ma gli si toglieva tutto il suo valore probante; via

12 Cfr. l'introduzione di A. Calarne agli Entretiens sur la pluralité des mondes,


ed. crit. cit., pp. XXXIV-XXXIX.
394 FILOSOFIA MODERNA

molto più breve e più facile di quella di contestare il miracolo stesso


attraverso un lungo seguito di ricerche e di ragionamenti» ( Oeuvres
I, p. 340). Il Lanson attribuisce a quest'opera un'importanza, che
supera il limitato intento dell'opera stessa: « facciamo attenzione al
ragionamento. Fontenelle analizza le cause della credulità che si ri-•
scontrano negli oracoli: vi si è creduto perché vi si voleva credere.
Lo spirito umano nell'ignoranza ama il meraviglioso. Per leggerez­
za e pigrizia intellettuale si è preferito esplicare piuttosto che verifi­
care; e si interpretano i prodigi che non esistono [ ... ]. La credulità
della folla incoraggia la bricconeria di qualcuno; l'interesse del clero
lo spinge ad approfittare dell'ignoranza popolare. Gli oracoli non
sono cessati che dal momento in cui lo spirito umano si è rischia­
rato: la :filosofia li ha messi a tacere. L'argomentazione supera la
tesi che vi compare [ ... ] . In fondo questa innocente critica della
fede prestata dagli antichi ai loro oracoli è il primo attacco che lo
spirito scientifico sferra contro il fondamento del cristianesimo»
(Histoire de la littérature française, p. 635).
Nel 1724 il Fontenelle, in un breve opuscolo De l'origine des
Fables, si interesserà, con animo uguale, ma con una più espli­
cita formulazione, del come siano sorte in mezzo agli uomini
tante favole e leggende. « Ordinariamente si attribuisce l'origine
delle favole alla viva immaginazione degli orientali; secondo me es­
sa è da attribuirsi all'ignoranza degli uomini primitivi » ( Oeuvres,
II, pp. 186-187), infatti « nella misura in cui si è più ignoranti e
si ha una minore conoscenza sperimentale dei fatti, tanto più si ve­
dono dei prodigi» (Oeuvres, II, p. 177). L'ignoranza delle cause
dei fenomeni è dunque causa del sorgere del racconto prodigioso­
favolistico; esso però non si ferma a formulazioni iniziali ma è de­
stinato ad arricchirsi ed adornarsi di particolari fantastici nell'atto
della comunicazione: « quando noi narriamo qualcosa di sorpren­
dente, la nostra immaginazione si accende sul suo oggetto, ed è in­
dotta spontaneamente ad ingrandirlo [. .. ]. Inoltre, lusingati dalle
reazioni di sorpresa e di ammirazione destate negli uditori, è ben
facile ingrandire questi fatti ancora di più » (ibid. ). Ne consegue
che con l'andare del tempo ci si allontana sempre di più dalla ve­
rità dei fatti « cosi che quell'uomo, che pur non ha nessuna inten­
zione di mentire, mentre inizia un racconto che si discosta un po'
dall'ordinario, venga condotto, ciò nonostante, alla menzogna»
(ibid. ). L'oggetto specifico dell'indagine del Fontenelle è il racconto
ILLUMINISMO FRANCESE 395

meraviglioso e fabulistico della tradizione pagana, ma è difficile ne­


gare un riferimento indiretto ai racconti della tradizione giudaico­
cristiana: essi pure contengono narrazioni di prodigi ... Unico rime­
dio comunque è la lotta contro l'ignoranza; non è il caso di una
confutazione puntuale di questi errori (la storia delle favole è « la
storia degli errori dello spirito umano » ), perché col diradarsi delle
nubi dell'ignoranza e con l'avvento della scienza cadono ipso facto
anche le menzogne: « col graduale diminuire dell'ignoranza si vi­
dero di conseguenza meno prodigi, si costruirono meno falsi sistemi
filosofici e le narrazioni storiche risultarono sempre meno fabulose »
(Oeuvres, II, p. 191).

3. Montesquieu

Dopo aver negato il valore normativo della rivelazione e l'au­


torità del suo insegnamento, l'illmrunismo francese si orientò ad
una nuova costituzione della società umana: una società svinco­
lata da legami trascendenti e da pregiudizi confessionali, una
società compresa secondo i criteri di una razionalità immanente,
colta nello svolgimento della sua ;toria terrena e naturale. Ora
a questa comprensione, secondo le pure categorie razionali, del­
la storia - storia ormai divenuta interamente « regnum homi­
nis » - sono indirizzate le Considérations sur les causes de la gran­
deur des Romains et de leur décadence ( 17 34) di CHARLES Lours
DE SECONDAT, barone di MONTESQUIEU 13• Il Lanson, dimentico pe­
rò che su simile linea già si erano mossi sia il Boulainviller sia il

u UiARLEs-Loms DE SECONDAT barone di MONTESQUIEU (1689-1755), nato nelle


vicinanze di Bordeaux, studiò presso il collegio oratoriano di Jully e l'università di Pa­
rigi. Fu per alcuni anni consigliere del Parlamento di Bordeaux e collaboratore con
la locale Accademia delle scienze. Nel 1721 pubblicò le Lettres persanes, opera che
gli rese un immediato successo. Secondo un genere letterario allora assai diffuso, rac­
colse in un volume le immaginarie lettere di due nobili persiani, Usbek e Rica, du­
rante il loro soggiorno in Francia. Più che per le notizie di seconda mano sugli usi
e costumi persiani, esse destarono l'interesse per le numerose e sottili critiche alla
società francese dell'inizio del Settecento, ai suoi costumi, alle sue istituzioni poli­
tiche e religiose. Dal 1727 iniziò una serie di lunghi viaggi per i vari stati europei
di cui restano interessanti appunti (cfr. Oeuvres Complètes I, pp. 535-972): lo studio
dei problemi civili e politici delle principali nazioni europee lo assorbl interamente e
divenne la preparazione del suo capolavoro l'Esprit des lois.
Ricordo la raccolta delle Oeuvres Complètes, par R. Caillois, Bibliothèque de la
Pléiade, Paris 1949-51, 2 vols. (da cui attingo). Traduzioni italiane: Lo spirito delle
leggi, a cura di S. Cotta, U.T.E.T., Torino 1952; Considerazioni sulle cause della
396 FILOSOFIA MODERNA

Fréret, definisce questo studio di storia romana come « un'opera


di :filosofia razionale e di pensiero laico, in diretta opposizione al­
l'opera del Bossuet, completamente teologica. Per la prima volta la
dottrina della provvidenza direttrice è eliminata dalla storia,e la ra­
gione dei fatti è ricercata unicamente nei fatti stessi, nel rapporto
degli antecedenti e dei conseguenti» (op. cit., p.714). Certo, secon­
do il Montesquieu, non fu per un disegno provvidenziale che Roma
poté estendere le sue conquiste su tanti popoli, pur cosl forti e cosi
diversi. Le cause della grandezza di questo impero son da ricer­
carsi in fatti di ordine meramente storico e naturale: l'amore di
questo popolo per la libertà, la forza delle sue istituzioni militari,
la ferrea disciplina, la costanza di tutta la nazione nei momenti di
avversa fortuna, l'abile politica del senato nei confronti dei popoli
nemici e sottomessi... (cfr. Considérations, capp. III-VI). Né come
azione divina è da interpretarsi il cro1lo dell'impero romano; pure
la sua decadenza fu causata da fatti naturali, quali la grandezza ec­
cessiva dello stato (Oeuvres, II, p. 119 ), il prevalere dell'interesse
particolare sull'interesse pubblico (ib., II, pp.121-122 ), le discordie
faziose dei partiti (ib., II, p.124),la serie di imperatori inetti (ib.,
II, pp. 143 ss.)... fino al momento della definitiva caduta, non do­
vuta ad un accidentale rovescio militRre, ma preparata da un lento
processo di degenerazione ben più vasto: « I Romani giunsero a co­
mandare tutti i popoli, non soltanto con l'arte della guerra ma an­
che grazie alla loro prudenza, saggezza, costanza, al loro amore per
la gloria e per la patria. Quando,sotto l'impero, tutte queste virtù
svanirono e restò loro unicamente l'arte militare, essi riuscirono a
conservare per mezzo di essa, nonostante la debolezza e la tirannia
dei loro principi, le loro conquiste; ma, quando la corruzione entrò
nello stesso esercito, essi divennero la preda di tutti i popoli» (ib.,
II,p.174).
Un analogo proposito di indagine informa - almeno a livello

grandezza e decadenza dei Romani, a cura di G. Pasquinelli, Boringhieri, Torino 1960;


A»tologia degli scritti politici, a cura di N. Matteucci, Il Mulino, Bologna 1961.
Tra gli studi ricordo: D. C. CABEEN, Montesquieu; a Bibliography, Public Li­
brary, New York 1947; S. COTTA, Montesquieu e la scienza della società, Pubblicazioni
dell'Istituto di Scienze Politiche dell'Univ. di Torino, Torino 1953; R. SHACKLETON,
Montesquieu, a criticai biography, Oxford University Press, London 1961; M. A. CATIA·
NEO, Le dottrine politiche di Montesquieu e Rousseau, La Goliardica, Milano 1964;
C. Rosso, Montesquieu moralista, Ed. Libreria Goliardica, Pisa 1965; M. H. WADDI·
COR, Montesquieu and the Philosophy of natural Law, M. Nijhoff, The Hague 1970.
ILLUMINISMO FRANCESE 397

iniziale - il capolavoro del Montesquieu De l'esprit des lois ( 17 48).


Per giungere alla comprensione del senso e del valore della « legge»
( definita come « rapporto necessario che deriva dalla natura delle
cose» - Oeuvres, II, p. 232), egli si ripromette un'analisi che gli
permetta di comprendere l'uomo attraverso l'uomo stesso, le sue
espressioni storiche, le sue credenze, le sue abitudini, le sue azioni:
« Ho innanzi tutto esaminato gli uomini ed ho creduto che, in questa
infinita diversità di leggi e di costumi, essi non fossero unicamente
guidati dalle loro fantasie» (ib., II, p. 229). Se ogni tipo di legge
deve rispecchiare la natura delle cose, la legge civile più di ogni altra
deve essere conforme alla specifica situazione umana: « [le leggi
civili] devono essere relative all'ambiente fisico del paese; al suo
clima glaciale, torrido o temperato; alla qualità del terreno, alla sua
posizione, alla sua grandezza; al genere di vita dei popoli, contadini,
cacciatori o pastori; esse devono rapportarsi al grado di libertà che la
costituzione può permettere; alla religione degli abitanti, alle loro
inclinazioni, alle loro ricchezze, al loro numero, al loro commercio,
ai loro usi e costumi. Infine esse hanno delle connessioni tra di lo­
ro, con la loro origine, con l'intenzione del legislatore, con l'ordine
delle cose su cui esse sono stabilite. Sotto tutti questi aspetti bisogna
considerarle » (ib., II, p. 238). Già nell'inedito Essai sur les causes
qui peuvent affecter les esprits et les caractères, composto anterior­
mente alla stesura del suo capolavoro, il Montesquieu aveva studiato
le influenze dei fattori di ordine fisico, quali la struttura somatica ed
il clima, determinanti il temperamento, le volizioni e le azioni degli
uomini (cfr. ib., II, pp. 39-52), nonché dei fattori di ordine morale,
quali l'educazione, la società, la professione (cfr. ib., II, pp. 53-65).
Questi temi, peraltro ripresi nella parte III dell'Esprit de Lois
(libri XIV-XIX), emergevano essi pure da quel desiderio, espresso
nelle Considérations, di ridurre il giudizio sui fatti e sulle azioni uma­
ne a categorie di comprensione razionale e di valenza naturale: ora
lo stretto legame tra fatto etico e condizione fisico-ambientale poteva
essere una risposta in tale senso.
Ma allora saremo costretti a pure enumerazioni di leggi diversis­
sime? Montesquieu nutre la fiducia di ordinare secondo linee costan­
ti e sistematiche le pur cosi diverse :::'. dispersive formulazioni stori­
che; cosa che - pur con le esigenze di organicità dell'« esprit de
système» che ancora vive nella sua opera - non nascerà mai come
deduzione da aprioristiche definizioni di « uomo» o di « bene », ma
398 FILOSOFIA MODERNA

da considerazioni su realizzazioni storiche che, pur nella loro diver­


sità, sono riconducibili a classificazioni comuni. Tenendo pertanto
presenti le varie forme di governo realizzatesi nel corso dei secoli, il
Montesquieu viene a raggrupparle in tre tipi fondamentali: 1) quella
repubblicana, in cui il potere sovrano è in mano al popolo, basata
sulla virtù, intesa sia come capacità dei cittadini di sottostare alle
leggi da essi stessi emanate, sia come responsabilità delle proprie
azioni; 2) quella monarchica, in cui un uomo solo governa, secondo
leggi fissate e stabilite, basata sull'onore, inteso come « consapevo­
lezza che ognuno ha della propria persona e della propria condizio­
ne»; 3) quella dispotica, in cui un uomo solo dispone a suo talento
di ogni cosa, basata sul timore. Quest'ultima forma però, sempre
secondo il Montesquieu, è « corrotta di sua natura » e, se la re­
pubblica e la monarchia possono degenerare per mancanza delle
virtù che le sorreggono o per fatti accidentali, il despotismo « peri­
sce di vizio interno, quando qualche cosa di accidentale non impe­
disca al suo principio di corrompersi » (ib., II, p. 357). In corri­
spondenza a queste forme politiche dovranno allora essere intese
le varie leggi: altra sarà la legislazione in una repubblica, altra in
una monarchia. La conformità poi della legislazione al tipo di gover­
no garantisce la durata di quest'ultimo.
Esiste ancora la libertà in un ipotetico convergere ideale di leg­
gi e costituzioni? Una certa risposta è già stata data dal Montesquieu
nelle sue considerazioni a proposito della degenerazione delle for­
me di governo: nei cittadini o nei sudditi si possono affievolire
quelle virtù fondamentali che sostengono una certa costituzione.
Al Montesquieu però interessa evidenziare il valore della libertà poli­
tica, di quella libertà cioè che è conforme alla legge ed alla costituzio-·
ne; vale a dire« quel diritto di fare turto ciò che le leggi permettono;
perché se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono, non
ci sarebbe più libertà, in quanto gli altri avrebbero ugualmente
questo potere» (ib., II, p. 395). Solo la libertà politica garantisce
al cittadino « quella tranquillità di spirito che deriva dalla con­
vinzione che ciascuno ha della propria sicurezza; e perché si pos­
sa avere questa libertà bisogna che il governo sia tale che un cit­
tadino non debba temere un altro cittadino » (ib., II, p. 397). Ora
questa libertà verrebbe a mancare se i tre poteri (legislativo, ese­
cutivo, giudiziario) fossero nelle mani della stessa persona: « Quan­
do nella stessa persona o nello stesso organo di magistratura il po-
ILLUMINISMO FRANCESE 399

tere legislativo è unito al potere esecutivo, non v1 e più libertà;


in quanto si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato
stabiliscano delle leggi tiranniche per renderle esecutive in modo
tirannico. Manca ancora la libertà se il potere giudiziario non è
separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse
unito al potere legislativo, si avrebbe un potere arbitrario sulla vi­
ta e sulla libertà dei cittadini, perché il giudice sarebbe legislatore.
Se esso fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe ave1
la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perso poi, qualora lo stes­
so uomo, o lo stesso organismo di principi o di nobili o di gente
del popolo esercitasse questi tre poteri» (ib., II, p. 397). È ne­
cessario quindi - ed il suggerimento deriva dall'analisi della co­
stituzione liberale inglese - per la salvaguardia della libertà po­
litica la divisione dei tre poteri.
È interessante infine notare come il Montesquieu, pur non
prendendo posizione circa la verità o meno delle religioni specifi­
che, veda uno stretto rapporto tra forma religiosa e forma poli­
tica. Egli evidenzia, ad esempio, come al governo dispotico si ad­
dica la religione maomettana (ib., II, p. 716), alla monarchia il
cattolicesimo ed alla repubblica il protestantesimo (ib., II, pp.
718-19) perché « quando una religione nasce e si forma in uno
stato, essa segue ordinariamente il modo del governo del luogo
in cui si è stabilita, dal momento -:he gli uomini che la ricevono
e coloro che la predicano non hanno concezioni politiche diverse
da quelle dello stato nel quale essi sono nati» (ib., II, p. 718).
Tra legge civile e norma religiosa esiste di solito una forma di in­
terazione, a livello di una reciproca correzione e moderazione (ib.,
Il, p. 726 ss.) e questo sarebbe giustificato perché « la religione e
le leggi civili devono tendere principalmente a rendere gli uomini
dei buoni cittadini» (ib., II p. 724 ).

4. Voltaire
All'indomani di un prolungato soggiorno in Inghilterra, VOL­
14
TAIRE , già conosciuto a Parigi come l'autore dell'Oedipe e della
Henriade, pubblicò le sue famose Lettres philosophiques, che su-

14 FRANço1s MARIE AROUET detto VOLTAIRE (1694-1778), figlio di un avvocato


parigino giansenista, fu educato nel collegio dei gesuiti Louis-le-Grand. Al primo pe-
400 FILOSOFIA MODERNA

scitarono un insolito interesse nell'ambiente francese e che provo­


carono la condanna del Parlamento. In esse era superato il mero
interesse giornalistico, così di moda in tanta produzione letteraria
del primo Settecento, ed era proposto nel modello inglese - idea­
lizzato a simbolo di una libertà illuminata - il superamento del­
l'intransigente assolutismo politico e confessionale francese. Le pri­
me lettere (I-VII), trattando della religione degli inglesi e insisten­
do sul pluralismo delle confessioni colà ammesso, sottolineavano
la possibilità di una concordia in un clima di tolleranza religiosa;
le successive, che trattavano del regime politico inglese (VIII - X),
mostravano un potere regio limitato, una fondamentale uguaglian­
za di tutti i cittadini davanti alle imposte, l'onorabilità del com­
mercio, un regime di libertà antagonista a quello della Francia tra­
dizionale; quelle sulla filosofia inglese (XII - XVII), presentando

riodo nella Parigi letteraria e salottiera, fecero seguito alcuni anni di esilio in In­
ghilterra (1726-1729), dove si interessò di problemi scientifici, politici, storici e fi­
losofici colà dibattuti. Dopo il successo e la condanna delle Lettres philosophiques,
si ritirò presso l'amica marchesa di Chatelet nel castello di Cirey, dove per circa
quattordici anni si dedicò ad un'attività di studio e riflessione. Alla morte della
arnica accettò l'invito di Federico di Prussia e si recò a Berlino (1750), attirato dal
clima di illuminato riformismo della corte prussiana. Ma non tardò la rottura con
questo ambiente e con lo stesso re. Lasciato definitivamente il mondo dei circoli
letterari e galanti, si stabilì dapprima alle Délices, presso Ginevra, e dal 1760 nel
castello di Ferney sul confine franco-svizzero. In questo angolo continuò, « patriarca »
riconosciuto ed incontrastato degli spiriti illuminati francesi, nella sua lotta con­
tro l'oscurantismo, la superstizione, l'intolleranza con un'instancabile produzione di
racconti, dialoghi, sermoni, libelli, opuscoli filosofici... Solamente nel 1778 ritor­
nò a Parigi, per la rappresentazione della sua ultima tragedia Irene, dove venne
ricevuto con onori trior.fali. Poche settimane dopo morl.
Ricordo la raccolta delle Oeuvres Complètes de Voltaire, par L. Moland, Garnier
Frères, Paris 1877-1882, vols. 52; della Voltaire's Co"espondence, ed. by Th. Be­
sterman, Institut et Musée Voltaire, Les Délkes, Genève 1953-1965, 107 vols.; del
Voltaire's Notebooks ed. by Th. Besterman, ivi 19682, 2 vols.
Tra le innumerevoli edizioni parziali, cito solamente i Mélanges, par J. Van den
Heuvel, Bibl, de la Pléiade, Gallimard, Paris 1965 (in cui sono raccolti i principa­
li opuscoli di interesse polemico e filosofico), e le Oeuvres historiques, par R. Po­
meau, ivi 1957. Numerose sono pure le traduzioni italiane recenti; mi limito a
ricordare gli Scritti filosofici, a cura di P. Serini, Laterza, Bari 1962, 2 voli.
Per la bibliografia rimando ai numerosi repertori bibliografici: G. BEGESCO, Vol­
taire, Bibliographie de ses Oeuvres, Perrin, Paris 1882-1890, 4 vols.; M. M. H. BARR.
A Century of Voltaire Studies; a Bibliography of Writings on Voltaire, 1825-1925,
Instirute of French Srudies, New York 1929, e In., Quarante années d'études vol­
tairiennes. Bibliographir:: analytique des livres et articles sur Voltaire, préface de
R. Pomeau, Colin, Paris 1968.
Non cito particolari studi su Voltaire ad eccezione della recente biografia di
TH. BESTERMAN, Voltaire, tr. it. di R. Petrillo, Feltrinelli, Milano 1971 e le periodiche
pubblicazioni degli Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, Instirut et
Musée Voltaire, Genè\·e 1955 ss.
ILLUMINISMO FRANCESE 401

le figure di Bacone, Locke e Newton, esaltavano il metodo della


filosofi.a sperimentale, aliena dalle pretese metafisiche della scola­
stica e del cartesianesimo; quelle infine su argomenti letterari e
culturali (XVIII-XXIV) sottolineavano la diversa considerazione
di cui godevano gli intellettuali inglesi ed il loro diverso grado di
libertà e di influenza culturale. La venticinquesima lettera era una
confutazione di alcuni pensieri di Pascal, e fu quella che suscitò lo
scandalo maggiore.
Nell'opera in cui Voltaire riproponeva, idealizzata, la possibi­
lità di una società diversa, criticando indirettamente la cultura e le
istituzioni francesi, il punto di maggior vigore polemico era a li­
vello religioso: minato cioè il pilastro del cristianesimo, tutto l'e­
dificio dell'ancien régime doveva croilare. L'attacco dunque a Pa-­
scal, dichiarato « grand génie » dallo stesso Voltaire, era un at­
tacco contro l'antica forma di religione, riproposta nella sua espres­
sione più persuasiva da questo massimo apologeta: così che scre­
ditare Pascal agli occhi dei Francesi significava screditare tutta la
religione cattolica; e screditare la tradizione cattolica equivaleva,
per Voltaire, ad affermare la possibilità della costruzione di una
società puramente umana, lontana da ogni inquinamento trascen­
dente, da ogni stimolo extra umano di impegno. Il « nous sommes
incompréhensibles à nous-memes » di Pascal (Br. n. 434) è per
Voltaire un'affermazione infondata: l'enigmaticità dell'uomo evi­
denziata da Pascal per indurre alla ricerca di una soluzione trascen­
dente e redentiva, non trova per Voltaire un riscontro oggettivo,
perché « l'uomo sembra essere al suo posto nella natura, superiore
agli animali, ai quali è simile negli organi, inferiore ad altri esse­
ri, ai quali somiglia probabilmente per il pensiero. Egli è, come
tutto quanto noi vediamo, mescolato di bene e di male, di piacere
e di dolore. È fornito di passioni per agire e di ragione per diri­
gere le proprie azioni. Se l'uomo fosse perfetto sarebbe Dio; e
queste pretese contrarietà, che voi chiamate contraddizioni. sono
gli ingredienti necessari che entrano nel composto umano, che è
quel che deve essere » (Rem., III). Per Voltaire non è necessario
ricorrere alla rivelazione per comprendere l'uomo nel suo auten­
tico significato, nei suoi rapporti con Dio e con il mondo: siamo
dotati della ragione, lume sufficiente, anche se non esaustivo, per
rispondere alle fondamentali domande che l'esistenza ci pone.
Nella filosofi.a di Locke, a cui è fondamentalmente ispirato il
402 FILOSOFIA MODERNA

Traité de Métaphysique (composto nd 1734 ), egli trova conferma


al suo atteggiamento speculativo. Lontano dalla presunzione del­
l'antica metafisica che ostentava di tutto conoscere e di tutto giu­
dicare, egli pure vuole evitare la proposta di conoscenze che « su­
perino il limite della nostra natura » proprio perché « la vera filo­
sofia consiste nel sapersi fermare al punto giusto, e non mai proce­
dere senza una guida sicura » (ib., cap. III). E non è poco quanto
sia raggiungibile dalla facoltà conoscitiva umana, pur nei limiti
della gnoseologia lockiana fondata sull'esperienza e la riflessione:
« resta ancor molto cammino da percorrere senza viaggiare negli
spazi immaginari » (ibid. ). Non ogni cosa ci è nota, ma quanto è
sufficiente per orientare la nostra vita e per compiere le nostre
scelte è dalla ragione umana raggiungibile: conosciamo l'esistenza
di Dio ed i suoi principali attributi, pur senza pretendere di cono­
scere la sua natura (ib., cap. II); sappiamo di avere un'anima,
principio di vita, ma non possiamo affermare nulla circa la sua es­
senza e la sua pretesa immortalità, proprio perché il fatto della
sua capacità di pensare non ci assicura della sua immaterialità (ib.,
capp. V-VI); sappiamo che il nostro comportamento deve essere
secondo virtù, e che il vizio, il male morale, deve essere rifuggito
da tutti gli uomini, ma non abbiamo dei criteri assoluti per deter­
minate a priori che cosa sia il bene ed il male al di fuori del rap­
porto sociale: « la virtù e il vizio, il bene ed il male morale sono
dunque in ogni paese quello che è utile o nocivo alla società» (ib.,
cap. IX); e tanto ci basta.
Domina nel primo periodo della produzione voltairiana una
serena nota di ottimismo antropologico: l'uomo, lontano da preoc­
cupazioni trascendenti, da ansie e da timori immotivati per la pre­
carietà della sua condizione, accettandosi totalmente nell' ordine
naturale, deve e può godere della propria esistenza e cogliere il frut­
to della vita e della gioia offertogli giorno per giorno (cfr. Le Mon­
dain, 173 6). Furono questi gli anni di permanenza a Cirey, nel ca­
stello della marchesa di Chàtelet, anni densi di studio appassionato
e profondo su temi di storia e di esegesi biblica, anni che videro la
composizione del suo capolavoro di critica storica, l'Essai sur les
Moeurs.
E poi la crisi degli anni 1750: la morte della marchesa di Chà­
telet_, i mutati rapporti con Federico di Prussia, il disastro del ter­
remoto di Lisbona... tutto servl a smuoverlo dalla precaria con-
ILLUMINISMO FRANCESE 403

vinzione del « tout est bien». (Cfr. Poème sur le désastre de Li­
sbonne e Candide). Ritiratosi a Femey, presso Ginevra, spetta­
tore appartato ma non estraneo alle vicende di un'Europa turbata
dalla guerra dei sette anni, di una Francia in cui la reazione del­
l'assolutismo politico e clericale voleva stroncare le voci nuove
e le idee :filosofiche, inizia la sua azione più strettamente polemica:
« il faut écraser l'infàme». Tutto diventa occasione di ripensamen­
to e di attacco. A Tolosa nel 1761 una tranquilla e laboriosa fami­
glia di commercianti protestanti, la famiglia Calas, è accusata di
omicidio per odio confessionale: Voltaire non solo ne prende le
difese, ma stila, tenendo presente questo ennesimo delitto dell'in­
tolleranza religiosa, il suo Traité sur la Tolérance. Ad Abbéville
un giovane scanzonato e burlone, il cavaliere de La Barre, è con­
dannato nel 1765 alla pena capitale perché sospettato di aver ab­
battuto un crocifisso e perché aveva confessato di aver cantato una
canzoncina blasfema: una simile pena per una colpa di una gravità
relativa sdegna profondamente Voltaire; per quanto « abomine­
vole ed esecrabile» una canzonetta vale una canzonetta, mentre
« è il sangue umano sparso con tale leggerezza, è la tortura, è il
supplizio della lingua strappata, della mano tagliata, del corpo get­
tato nelle fiamme che può essere definito una cosa abominevole ed
esecrabile» (Mélanges, ed. Pléiade, p. 781). Le critiche alla reli­
gione cristiana, ad ogni religione rivelata, diventano sempre più
continue e pesanti : dalle accuse de Le Sermon des Cinquante
(1749), che raccoglievano in sintesi i frutti dei suoi studi biblici
di Cirey, fino agli articoli del Dictionnaire philosophique (1764),
informati alla più ostile produzione c.!el deismo inglese, ed alle pa­
gine de La Bible enfin expliquée (1776), non c'è soluzione di con­
tinuità. Bibbia, profezie, miracoli, tradizione ecclesiastica, giudai­
smo, credenze, dogmi... tutto viene confutato e deriso dalla sua
frase incisiva, dalla sua parola mordace.
La sua critica però non è solamente distruttiva: se il suo pes­
simismo lo porta da un lato ad evidenziare i limiti dell'uomo (de­
bolezza conoscitiva ed errori storici dei :filosofi; negazione dell'im­
mortalità dell'anima umana; negazione della libertà umana ... cfr.
Le philosophe ignorant, 1766) e gli errori ed i crimini di cui la storia
umana si è macchiata a causa delle religioni positive, una fonda­
mentale fiducia di ricostruzione umana e mondana non viene però
meno. Anche se nell'evidenziare la corruzione e la debolezza del-
404 FILOSOFIA MODERNA

l'uomo Voltaire viene a parlare con accenti pascaliani, la soluzione


proposta è diametralmente contraria: la redenzione dell'umanità
non è attesa dal di fuori dell'uomo, da un intervento salvifico di­
vino; l'uomo per Voltaire è con le sue forze capace di liberarsi
dalla miseria e dall'angoscia che lo turbano. L'uomo può costruire
una società migliore, perché la sua ragione, per quanto limitata, è
pur tuttavia capace di scoprire la legge fondamentale della morale:
« vi sono si mille differenze nell'interpretazione di questa legge
in mille circostanze diverse; ma il fondo sussiste sempre identico,
e questo fondo è l'idea del giusto e dell'ingiusto » che noi possia­
mo acquisire « con il sentimento e con la ragione » (Phil. ign., cap.
XXXVI). L'uomo, ancora, può giungere ad un razionale atteggia­
mento religioso, perché, pur non conoscendo la natura di Dio, po­
trà riconoscere ed affermare l'essere supremo (cfr. Phil. ign., cap.
XXIII) e adorarlo seguendo quei dettami di carità fraterna da lui
impressi nel profondo del cuore di ogni uomo (cfr. Traité sur la
Tolérance, cap. XXIII, la « Prière à Dieu»). Viene proposta una
religione puramente umana, ben diversa da quella proposta da
Pascal, che era pur sempre quel cristianesimo « che ha prodotto
interminabili ed inevitabili dispute sui dogmi e sui misteri; dove
non esiste un articolo di fede che non abbia generato una guerra
civile» (Remarque XC, del 1778).
Pur non prendendo in esame specifico la vasta ed interessante
produzione storica di Voltaire, non possiamo dimenticare che con
questo autore la storiografia illuministica raggiunge la sua espres­
sione di più vasto respiro. La storiografi.a del Seicento e del primo
Settecento si era sobbarcata a un labmioso lavoro di erudizione -
ricordiamo, solo per inciso, l'interesse per la cronologia cosl vivo
nei dotti dell'ambiente inglese ed olandese, cui non furono estra­
nei né Locke né Newton -, lavoro sì di grande utilità, ma carente
di una sintesi interpretativa. Voltaire stesso nelle Nouvelles remar­
ques sur l'histoire esprimerà la sua insoddisfazione: « Ci si pren­
de cura di precisare in quale giorno sia stata combattuta una bat­
taglia, e a ragione. Si pubblicano i trattati, si descrivono la pompa
di una incoronazione, la cerimonia della imposizione di una ber­
retta cardinalizia e persino il ricevimer,to di un ambasciatore, in cui
non si dimenticano né il suo svizzero né i suoi lacché. È bene
che ci siano archivi di ogni cosa, perché sia possibile all'occorrenza
consultarli: ed io considero oggi tutti i grossi libri come altrettan-
ILLUMINISMO FRANCESE 405

ti dizionari. Ma, dopo aver letto tre o quattromila descrizioni di


battaglie ed il contenuto di alcune centinaia di trattati, mi sono
reso conto di non essere, in definitiva, più istruito di prima. Ap­
prendevo soltanto degli avvenimenti ».
Prima di Voltaire, Bossuet aveva tentato una sintesi della sto­
ria universale nel Discours sur l'Histoire universelle. Voltaire ave­
va letto con molta attenzione, insieme con la marchesa di Chàtelet,
questo Discours ma, pur ammirando l'ingegno del vescovo catto­
lico, non poteva non lamentare dei limiti e denunciare una diversa
prospettiva. << [La marchesa] - ci dice Voltaire nel Supplément
à l'Essai sur les Moeurs - si dolse che un uomo così eloquente
avesse di fatto dimenticato in una storia universale l'universo e
si fosse limitato a parlare di tre o quattro nazioni oggi scomparse.
Ma quel che più la urtò, fu il vedere che quelle tre o quattro po­
tenti nazioni sono sacrificate, in quell'opera, al piccolo popolo
ebraico, che ne occupa i tre quarti». Bossuet cioè, per ragioni di
una più comoda interpretazione della storia alla luce dell'avveni­
mento cristiano, giunse solamente a delineare la convergenza di
due culture (l'antichità classica e l'antichità giudaica) toccando
solo con brevi accenni il mondo islamico ed indiano e dimentican­
do completamente la Cina. Ma la diversificazione fondamentale
tra il Discours e l'Essai sur les Moeurs et l'Esprit des Nations, che
Voltaire gli fece seguire (partl infatti dal periodo di Carlo Magno,
punto in cui si era interrotta la narrazione del Bossuet), fu l'esclu­
sione dalla storia del concetto di Provvidenza. Entrambi - osser­
va il Pomeau presentando questo Essai - vedono nello « spirito
degli uomini » il motore della storia: la differenza è che lo spirito
degli uomini secondo Voltaire ha smesso di essere la mano di Dio
nella storia. Non esistono più cause particolari agenti (sentimenti,
passioni umane ... ) dirette ed ordinate dalla Provvidenza, ma è uno
spirito totalmente umano che si sviluppa verso fini puramente urna•
ni; compito dell'indagin,e storica sarà allora quello « di vedere per
quali gradi si è pervenuti dalla barbara rusticità di quei tempi sino
alla civiltà dei giorni nostri » (Supplément cit.). Lo spirito degli
uomini per Voltaire non è lo spirito della massa, soggetta alla su­
perstizione e amante dell'inganno, ma è lo spirito del genio illu­
minato: nella storia dei grandi « personaggi » sono individuate le
più vive forze che hanno interpretato il cammino del progresso e
lo hanno guidato. Se è escluso il « popolo » nella sua valenza de-
406 FILOSOFIA MODERNA

teriore, non è con ciò esclusa dal processo storie-e �-umanità; l'uma­
nità con il suo connaturale desiderio di pace, di ordine, di opero­
sità esprime quella fondamentale tensione alla società perfetta, con­
forme alla natura specifica dell'uomo inteso come animale sociale.
La storia dovrà essere compresa non da credente, non da puro eru­
dito, ma da cittadino e filosofo: in una tale veste egli allora« cerche­
rà quale sia stato il vizio radicale e la virtù dominante di una nazio­
ne: perché sia stata potente o debole sul mare, come e sino a qual
punto si sia arricchita nell'ultimo secolo. Vorrà sapere come si sia­
no affermate le arti e le manifatture; ne seguirà il passaggio e i!
ritorno da un paese in un altro. Ma il suo grande oggetto saranno
i mutamenti intervenuti nei costumi e nelle leggi. Si saprebbe
così la storia degli uomini, e non soltanto una piccola parte della
storia dei re e delle corti» (Remarque sur l'histoire).

5. Enciclopedia, d'AJ,embert, Diderot

Alla diffusione delle idee dell'illuminismo contribuirono in


modo preminente i volumi dell'Encyclopédie ou Dictionnaire rai­
sonné des sciences des arts et des métiers 15• A giudizio di Dide­
rot, che fu il principale artefice di quest'opera, « un dizionario
universale e ragionato è destinato all'istruzione generale e perma-

15
Nata dal modesto progetto dell'editore pariglllo Le Breton di tradurre la
Cyclopaedia dell'inglese E. Chambres, venne ad assumere, per opera dei suoi diret­
tori Denis Diderot e Jean d'Alernbert, un disegno ben diverso da quello originario. Nel­
novembre del 1750 Diderot pubblicò il Prospectus della nuova opera, dove si in­
dicavano tra l'altro i criteri redazionali e le condizioni d'acquisto: numerosi furono
i sottoscrittori. Dopo l'edizione dei primi due volumi (1751-1752) incominciarono a
levarsi serie opposizioni specie dagli ambienti religiosi. La pubblicazione poté però
continuare con una certi regolarità fino al 1758 (volume settimo), quando cioè alle con­
danne esterne si unirono le discordie sorte nello stesso comitato di redazione, e molti
collaboratori - tra cui il d'Alembert - defezionarono. Diderot, con un numero più
ristretto di collaboratoti, continuò nella sua opera di pubblicazione dei volumi delle
tavole, non menzionati nell'atto di condanna politica. Nel 1766 furono però, grazie
alle mutate condizioni politiche, distribuiti i restanti volumi di testo, e nel 1772
l'opera venne ultimata. Si ebbe cosi un corpus cli 17 volumi di testo e 11 di tavole.
Una larga scelta di voci de L'Enciclopedia e quella curata da P. Casini, Laterza,
Bari, 1968. Di utile ed agevole lettura è il volume curato dallo stesso P. Casini, La fi·
losofia dell'Enciclopedia, Laterza, Bari 1966, in cui sono raccolti il Discorso pre­
liminare di d'Alembert ed il Prospectus e gli articoli Arte ed Enciclopedia di Diderot.
Tra gli studi sull'Encyclopédie ricordo solamente: F. VENTURI, Le origini del­
l'Enciclopedia, Edizioni U., Torino 1946; J. LouGH, Essays on the Encyclopédie of
Diderot and d'Alembert, University Press, Oxford 1968.
ILLUMINISMO FRANCESE 407

nente del genere umano » ( voce Encyclopédie ); per raggiungere


dunque questo scopo l'editore ed il curatore di esso si dovrà porre
« a livello dell'intelligenza media », dovrà cioè « considerare sua
scuola il mondo, ed il genere umano suo allievo; e darà lezioni che
non facciano perdere tempo prezioso agli intelligenti, né scoraggi­
no la folla delle menti comuni. Vi sono due classi di uomini, pres­
s'a poco egualmente ristrette, che bisogna egualmente trascurare:
i geni trascendenti e gli imbecilli: né gli uni né gli altri hanno
bisogno di maestri » (ibid. ). Questo suo carattere divulgativo non
deve però, sempre secondo Diderot, tradire né da un lato la
serietà scientifica dell'informazione, :'Jé d'altro lato la comprensio­
ne teoretica, il disegno filosofico sorreggente l'impalcatura delle
scienze. Nasce quindi, per un progetto così vasto, inteso ad abbrac­
ciare, seppure in sintesi, l'intero raggio delle conoscenze umane,
la necessità della collaborazione di più specialisti: « l'esperienza
quotidiana ci insegna anche troppo bene quanto sia difficile ad un
autore trattare con profondità la scienza o l'arte alla quale si è
espressamente dedicato per tutta la vita. Quale uomo può essere
dunque tanto ardito o tanto limitato da intraprendere a trattare da
solo tutte le scienze e tutte le arti? » (Diderot, Prospectus ); e si
impone parallelamente l'esigenza di affrontare ogni scienza secon­
do la propria metodologia specifica, nel rispetto di una autonomia
di analisi e di linguaggio: « le diverse mani delle quali ci siamo
serviti hanno impresso in ogni articolo il suggello del proprio stile
e quello dello stile appropriato al contenuto ed all'oggetto di una
data parte. Un processo chimico non sarà certo descritto con il
tono usato per i bagni ed i teatri antichi, né la tecnica del fabbro
sarà esposta come le ricerche di un teologo su una questione do­
gmatica o disciplinare. Ogni cosa ha il suo colorito, e ridurre i di­
versi generi ad una certa uniformità significherebbe confonderli »
(ibid. ). Se difficoltà lessicali o stilistiche sono quindi inerenti al
carattere stesso dell'opera, quest'ultima presenta inoltre un altro
ordine di difficoltà: la « chiarezza e la precisione » dovranno con­
durre verso la « metafisica » ( = teoria del sapere scientifico), e
« questa parte è sempre astratta, elevata e difficile; tuttavia dev'es­
sere la parte principale di un dizionario :filosofico, e si può dire
che, finché resta qualcosa da fare in tal senso, vi sono fenomeni
inesplicabili, e viceversa. Allora l'uomo di lettere, il dotto, l'arti­
giano camminano nelle tenebre; se fanno qualche progresso, lo
408 FILOSOFIA MODERNA

debbono al caso; giungono in porto come un viaggiatore smarrito


che segua la strada buona senza saperlo. È dunque estremamente
importante esporre bene la metafisica delle cose, ossia le loro ra­
gioni prime e generali; il resto diventerà cosi più chiaro e più
certo nella mente. Tutti i pretesi misteri, che si rimproverano tan­
to a talune scienze e che altre adducono per velare i loro, discus­
si metafisicamente, svaniscono come i fantasmi della notte al giun­
ger del giorno. L'arte, illuminata :fin dai primi passi, avanzerà ra­
pida e sicura, e sempre per la via più breve. Bisognerà esporre le
ragioni delle cose, quando ve ne sono; indicare le cause, quando
sono note; indicare gli effetti, quando sono certi; sciogliere i nodi
mediante un'applicazione diretta dei principì; dimostrare la verità,
svelare gli errori, screditare accortamente i pregiudizi; insegnare
agli uomini a dubitare e ad aspettare, a dissipare l'ignoranza, ad
apprezzare il valore delle conoscenze umane, a distinguere il vero
dal falso, il vero dal verosimile, il verosimile dal meraviglioso e
dall'incredibile, i fenomeni comuni da quelli straordinari, i fatti
certi da quelli dubbi, questi dai fatti assurdi e contrari alla natura;
a cogliere la causa generale degli avvenimenti e a prendere ciascu­
na cosa per quella che è, e cioè ispirare il gusto per la scienza, l'or­
rore per la menzogna e per il vizio e l'amore per la virtù; giacché
tutto ciò che non ha come :fine ultimo la felicità e la virtù è nulla »
(ibid. ). Cade in questo modo e a queste condizioni il puro gusto
di erudizione e si impone la rivalutazione del sapere come compito
morale di liberazione dell'uomo dal pregiudizio: « bisogna calpe­
stare tutte queste vecchie puerilità, capovolgere tutte le barriere
non imposte dalla ragione, restituire alle scienze ed alle arti la li­
bertà per loro cosi preziosa » (ibid. ).
Raggiunse l'Encyclopédie queste mete così alte? Fu fedele agli
scopi proposti da Diderot? Quanto alla collaborazione, nonostan­
te il positivo giudizio di Diderot ( « I letterati più famosi, gli arti­
sti di prim'ordine non hanno sdegnato di inviarci qualche raggio
dell'arte loro », ibid. ), numerose si rivelarono le difficoltà. Spesso
gli autori e gli esperti più significativi non collaborarono, o la loro
collaborazione non fu che marginale; le discordie sorte nel gruppo
degli enciclopedisti, che portarono lo stesso d'Alembert ad abban­
donare il campo, nonché le opposizioni politiche e religiose, che
contribuirono alla defezione di altri collaboratori, addossarono viep­
più il pondus maggiore di quest'impresa ad una sola persona:
ILLUMINISMO FRANCESE 409

Diderot. Già d'Alembert aveva commentato l'apporto « immen­


so » di Diderot ai primi volumi ed il suo lavoro fatto « con un
coraggio degno dei più bei tempi della filosofia, con un disinteres­
se che fa onore alle lettere, e con uno zelo degno della riconoscen­
za di tutti coloro che le amano e le coltivano » (Prospectus ). Per
ragioni editoriali e di censura in molti articoli religiosi, filosofici,
politici si rinunciò alle posizioni più radicali, preferendo ad esse
più opportune formulazioni di compromesso: si veda, per esem­
pio, l'articolo Religion chrétienne in cui, secondo i moduli di un
moderato deismo, si affetta, in tono ambiguo, una rivalutazione
della religione rivelata: « la religione cristiana ha in particolare
per oggetto la felicità d'un'altra vita, e procura la nostra felicità
in questa. Essa dona alla virtù le più dolci speranze, giusti allarmi
al vizio impenitente, e al vero ravvedimento le più forti consola­
zioni; ma essa soprattutto si propone di ispirare agli uomini amo­
re, dolcezza e pietà per i loro simili ».
Al di là però dei limiti di quest'opera, delle sue inconseguen­
ze, delle sue dissimulazioni, della stessa eterogeneità delle varie
posizioni nei vari articoli, il nuovo atteggiamento spirituale del­
l'illuminismo trovò nell'Encyclopédie un primario canale di dif­
fusione. Nel riaggancio dichiarato o latente con la nuova metodo­
logia scientifica e critica dei filosofi del XVII secolo, all'emblema
del newtoniano « hypotheses non fingo », l'Encyclopédie, propo­
nendosi il « sistema universale delle conoscenze umane », fu un ele­
mento di non irrilevante importanza per quel « fermento degli
spiriti » che secondo d'Alembert era caratteristico del Secolo dei
lumi: « questo fermento che agisce in tutte le direzioni ha affer­
rato tutto quanto gli si presentava, con violenza, come un torrente
che rompa gli argini. Dai principi deHa scienza ai fondamenti del­
la religione rivelata, dai problemi della metafisica a quelli del
gusto, dalla musica alla morale, dalle controversie teologiche alle
questioni dell'economia e del commercio, dalla politica al diritto
dei popoli e alla giurisprudenza civile, tutto fu discusso, analiz­
zato, agitato » (Éléments de Philosophie, I).

L'apporto di n'ALEMBERT 16 all'Encyclopédie fu di natura

" ]EAN LE RoND o'ALEMMRT (1717-1783), figlio di un ufficiale e di una ari­


stocratica, fu esposto sul sagrato di una chiesa parigina e fu allevato da una po-
410 FILOSOFIA MODERNA

prevalentemente scientifìca. Quando nel 17 47 in collaborazione


con il Diderot accettò la direzione dell'Enciclopedia, aveva già
pubblicato il Traité de Dynamique ed il Traité de l'équilibre et
du mouvement des fl,uides. Nel Discours préliminaire all'Encyclo­
pédie esprime l'esigenza baconiana di una costruzione organica di
un albero del sapere che esponga « nel modo più esatto possibile
l'ordine e la connessione delle conoscenze umane» (trad. it. cit.,
p. 44) e questo perché « possiamo sperare di conoscere la natura,
non in base ad ipotesi vaghe ed arbitrarie, ma grazie allo studio
ben meditato dei fenomeni, ai paragoni che istituiremo tra questi,
all'arte di ridurre per quanto possibile un gran numero di feno­
meni ad un solo fenomeno, principio di tutti», (ib., p. 59 ). Pur
cosciente delle difficoltà di ritrovare questi nessi essenziali per la
costituzione dell'albero enciclopedico delle scienze - in quanto
« l'universo non è che un vasto oceano, sulla cui superficie distin­
guiamo alcune isole più o meno grandi, mentre i loro nessi col con­
tinente ci sfuggono» (ib., p. 86) -, tuttavia egli crede che si pos­
sa trovare questo ordine enciclopedico che dovrà permettere di
« collocare il filosofo, per cosl dire, al di sopra di questo vasto
labirinto, in un punto di osservazione assai elevato, d'onde egli
possa abbracciare tutte insieme le principali arti e scienze» (ib ..
p. 84). La scelta avviene « secondo l'ordine genealogico delle no­
stre conoscenze»: visto che le tre diverse funzioni secondo le
quali la nostra mente opera sugli oggetti dei propri pensieri sono
la memoria ( = collezione puramente passiva e meccanica delle
conoscenze), la ragione ( = riflessione sugli oggetti delle idee) e

poiana. Studiò diritto e medicina, ma si dedicò poi completamente agli studi di ma­
tematica e fisica. Dal 1741 fu membro dell'Accademia delle Scienze di Parigi e dal
1746 di quella di Berlino. Dopo la pubblicazione delle Recherches sur la précession
des équinoces et sur la mutation de l'axe de la terre dans le système newtonien
(1749), iniziò la sua collaborazione con Diderot per I'Encyclopédie, durata fino al
1758. In questo periodo i suoi interessi superarono il mero ambito scientifico; com­
pose infatti dei Mélanges de philosophie, d'histoire et de littérature ( 1753), le
Réfl,exions sur l'usage et sur l'abus de la philosophie dans les matières de gout (1757)
e gli Élements de philosophie ( 1759). Non accettò l'invito di Federico di Prussia a
trasferirsi a Berlino, in qualità di presidente dell'Accademia, né quello di Caterina II
cli Russia di recarsi colà come precettore del figlio. Visse a Parigi, dove continuò a
dedicarsi ai suoi studi matematici; dal 1772 divenne segretario perpetuo dell'Aca•
démie Française di cui era stato eletto membro nel 1754. Morl a Parigi nel 1783.
Una buona raccolta delle sue opere restano allcora le Oeuvres philosophiques, histori­
ques et littéraires, par J. F. Bastien, Paris 1805, 18 vols. Tra i recenti studi ricordiamo:
R. GRIMSLEY, Jean d'Alembert, At Clarendon Press, Oxford 1963; T. L. HANKINS,
Jean d'Alembert. Science and the Enlightenment, At Clarendon Press, Oxford 1970.
JLLUJfINISMO FRANCESE 411

l'immaginazione ( = imitazione creativa), « queste tre facoltà for­


mano anzitutto le tre fondamentali suddivisioni del nostro sistema
e i tre oggetti fondamentali delle conoscenze umane: la storia, che
si riferisce alla memoria; la filosofia che è frutto della ragione, e
le belle arti, che sorgono dall'immaginazione». L'inversione di
questo ordine di conoscenze ed il gusto delle « vaghe ipotesi»
dei metafisici antichi, per i quali « l'esame approfondito della na­
tura e il grande studio dell'uomo erano sostituiti da mille frivole
questioni circa esseri astratti e metafisici», e della scolastica, « che
formava tutta la pseudoscienza dei secoli oscuri», impedirono il
costituirsi della vera filosofia. D'Alembert è convinto che solo con
Bacone, Newton e Locke nacque veramente la :filosofia. Di Des­
cartes, stimato come matematico, egli ammira come filosofo « il co­
raggio di indicare agli spiriti sani come scuotere il giogo della sco­
lastica, della opinione, della autorità, in una parola dei pregiudizi
e della barbarie» (ib., p. 111); ritiene d'altro canto inutile il con­
tributo di Leibniz alla soluzione dei principali problemi metafi­
sici (dr. ib., p. 119).
Negli Éléments de philosophie egli ribadisce, secondo i moduli
di Locke, il limite della metafisica: « la genesi delle idee appar­
tiene alla metafisica; è uno dei suoi principali oggetti, anzi essa
dovrebbe forse limitarsi a quello. Quasi tutti gli altri problemi
che essa si propone sono insolubili o frivoli, alimento di temerari o di
mistificatori; non bisogna pertanto stupirsi se tante questioni sot­
tili, sempre discusse e mai risolte, hanno provocato il disprezzo
degli uomini per quella scienza vuot� e sofistica che comunemen­
te si chiama metafisica. Essa si sarebbe salvata da un tal disprezzo
se avesse saputo contenersi nei giusti limiti e occuparsi solo di ciò
che ]e è consentito attingere; il che, per verità, è assai poco»
(Élém. de Ph. VI). Al pari di Locke e dei latitudinari, anche d'A­
lembert aveva riconosciuto un certo valore alla rivelazione « de­
stinata ad integrare la conoscenza naturale di quanto è per noi in­
dispensabile conoscere: il resto ci è precluso, e pare che lo sarà
sempre. Alcune verità nelle quali credere, pochi precetti da pra­
ticare: a tanto si riduce la religione rivelata » (Disc. Prél., trad.
cit., p. 63 ). Ma anche questo riconoscimento è ormai solo più for­
male perché, dirà più chiaramente, « i doveri a cui tutti siamo
tenuti nei confronti dei nostri simili appartengono essenzialmente
ed unicamente al dominio della ragione, e pertanto sono uniformi
412 FILOSOFIA MODERNA

presso tutti i popoli. La conoscenza di questi doveri costituisce


ciò che si chiama morale, e rappresenta uno degli oggetti più im­
portanti a cui la ragione possa riferirsi » (Élém. de Ph., VII). La
società diventa il parametro del giudizio morale, essendo la mo­
rale « una conseguenza necessaria dello stabilirsi della società »
(ibid.). Ogni giudizio di bene o di male è quindi possibile solo in
riferimento alla società: « sembra dunque che si possa definire
molto esattamente l'ingiusto o, il che è lo stesso, il male morale
come ciò che tende a nuocere alla società, turbando il benessere
fisico dei suoi membri » (ibid. ).
L'opera di DIDEROT 17 non si esaurl nell'Encyclopédie, e fer­
marsi, per comprendere l'evoluzione del suo pensiero, ai soli arti­
coli quivi apparsi può certamente rendere la sua figura monca ed
irrigidita. È però tutt'altro che facile raccogliere in sintesi il pen­
siero di chi, come Diderot, ha rifiutato ogni esposizione sintetica
e sistematica; seppure a certi temi più specificamente « filosofici »
sono dedicate alcune sue opere, di un autentico « spirito filosofi­
co » ?- informata tutta la sua vastissima produzione che spazia dal­
la poesia, al romanzo, alla critica dell'arte, alla saggistica ...
Lettore attento dello Shaftesbury, di cui tradusse nel 1745
in francese il Saggio sul merito e la virtù, Diderot aderisce nelle

17 DENIS DIDEROT (1713-1784), figlio di un artigiano, fu educato presso il collegio


dei Gesuiti della nati.le Langes. Avviato alla carriera ecclesiastica, studiò in un
collegio di Parigi, e nell'università . della Sorbona dove nel 1732 terminò i suoi studi.
Dopo alcuni anni di vita libertina, in cui venne a contatto con le opere dell'illumi­
nismo inglese e con i circoli parigini dei liberi pensatori, convogliò la sua eccezionale
attività nella direzione e nella redazione dell'Encyclopédie. La sua produzione non
si esaurl nella mole di questo lavoro: numerosissime sono le sue opere letterarie e
critiche (Les biioux indiscrets, 1A religieuse, Le neveu de Rameau, ]acques le fata­
liste) e le sue opere filosofiche (Lettres sur les aveugles, 1749; De l'interprétation
de la nature, 1753; Reve de d'Alembert, 1769), Ebbe contatti con Caterina II di
Russia e dal 1773 al 1774 si recò a Pietroburgo, dove si interessò di problemi relativi
alle riforme politiche ed a quella universitaria. Morl a Parigi nel 1784.
Oltre all'edizione delle sue Oeuvres Complètes, par Assézat et M. Tourneaux, Paris
1875, in 20 voll., ricordo le buone edizioni parziali delle Oeuvres, Bibliothèque de
la Pléiade, Paris 1965, e delle Oeuvres pbilosopbiques, par P. Vernière, Garnier, Paris
1964 (da cui attingo). Del suo epistolario esiste una recente edizione: Correspondance,
par G. Roth et J. Varloot, Ed. de Minuit, Paris 1955-69, 16 vols. Tra le traduzioni
italiane ricordo gli Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Feltrinelli, Milano 1963 e gli
Scritti politici, a cura di F. Diaz, U.T.E.T., Torino 1967.
Una recente e buona biografia è quella di A. M. WILSON, Diderot, Oxford Uni­
versity Press, 1972. Si vedano inoltre gli studi di F. VENTURI, 1A Jeunesse de Di­
derot, Skira, Paris 1939; P. CASINI, Diderot « pbilosopbe », Laterza, Bari 1962;
J. PROUST, Diderot et l'Encyclopédie, A. Colin, Paris 1962. A. STRUGNELL, Diderot's Po­
litics, M. Nijhoff, The Hague, 1973.
ILLUMINISMO FRANCESE 413

sue Pensées philosophiques ( 17 46) ai contenuti generici del dei­


smo inglese. Di fronte ai pericoli dell'ateismo, non certo la super­
stizione può erigersi a baluardo della vera religione: « il tempo
delle rivelazioni, dei prodigi e delle missioni straordinarie è com­
pletamente passato. Il cristianesimo non ha più bisogno di que­
sta impalcatura» (Pensée, XLI) e « il deista solo è in grado di
tener testa all'ateo» (ib., XIII). Non la Sacra Scrittura, data l'in­
certezza del valore della testimonianza (ib., XLV-XLVI) e del ca­
none (ib., XL), e nemmeno la narrazione dei miracoli (ib., XLVII)
o la pretesa sublimità dei dogmi (ib., LIX) potranno mai assicu­
rare l'uomo del Secolo dei lumi circa la verità di una religione ri­
velata: « vuoi che divenga tuo proselito? Lascia perdere tutte que­
ste suggestioni, e ragioniamo. Io sono più sicuro del mio giudizio
che dei miei occhi. Se la religione che tu mi annunci è vera, la sua
verità può essere messa in evidenza e dimostrarsi con delle argo­
mentazioni irrefutabili. Trova queste argomentazioni! » (ib., L).
Non ad una forma però passiva e dogmatica di deismo, ormai di
maniera, aderisce Diderot - e già da queste sue linee viene emer­
gendo il suo atteggiamento di rifiuto di ogni forma conclusa e sta­
tica di pensiero, che resterà una costante della sua opera filosofi­
ca -: di qui l'elogio del vero scettico « che è un filosofo che ha
dubitato di tutto ciò che egli crede, e che crede quello che un uso
legittimo della sua ragione e dei suoi sensi gli ha dimostrato come
vero» (ib., XXX), perché « ciò che non si è mai messo in questio­
ne non è mai stato provato. Ciò che non è mai stato esaminato sen­
za prevenzione non è mai stato ben esaminato. Lo scetticismo è
dunque il primo passo verso la verità» (ib., XXXI). Ora - se­
condo Diderot - non alle « sottigliezze dell'ontologia » è dato di
condurre gli uomini alla verità, ma « alla conoscenza della natura
è riservato di fare dei veri deisti» (ib., XIX). Già da queste pa­
gine, che insistono sulla inutilità delle « meditazioni sublimi di
Malebranche e di Descartes» e sui meriti, anche sul piano teolo­
gico, della « fisica sperimentale» {ib., XVIII), si intravede la
sua fiducia nella capacità delle scienze sperimentali di risolvere le
questioni fondamentali della umana esistenza.
Nell'operetta del 1753 De l'interprétation de la nature, che
può essere considerata un breve saggio sul metodo sperimentale,
esponendo le linee generali della ricerca scientifica, egli si ramma­
rica che « le scienze astratte abbiano occupato per troppo tempo
414 FILOSOFIA MODERNA

e con troppo pochi frutti gli spmtI migliori » (De l'interprét.,


XVII). Cosciente « dei limiti del nostro intelletto e della debolezza
dei nostri organi » in confronto con « la moltitudine infinita dei
fenomeni » (ib., VI), rifiuta, sulle orme di Bufton, le spesso como­
de formulazioni ed assolutizzazioni non solo dei metafisici, ma -
e in questo si discosta radicalmente dal d'Alembert - anche dei
matematici e dei geometri: « la ragione dei matematici è un mon­
do intellettuale in cui ciò che si reputa verità rigorosa perde com­
pletamente questo privilegio qualora lo si trasporti sulla nostra
terra » (ib., II), e richiama con nuova insistenza al rigore metodo­
logico: « noi possediamo tre mezzi principali: l'osservazione del­
la natura, la riflessione e l'esperienza. L'osservazione raccoglie i
fatti; la riflessione li combina; l'esperienza verifica il risultato del­
la combinazione. È necessario che l'osservazione della natura sia
assidua, che la riflessione sia profonda e che l'esperienza sia esat­
ta » (ib., XV). Diderot è alieno dall'entusiasmo anche nei confron­
ti della scienza sperimentale; sa i limiti dell'intelletto con i suoi
pregiudizi, dei sensi con le loro incertezze, degli strumenti con la
loro imperfezione tecnica... ; riconosce però alla « :filosofia speri�
mentale » un netto vantaggio sulla « filosofia razionale »: quella
continua a provare, a lavorare, a tentare senza posa; questa, dopo
una sommaria valutazione, si arresta a formulazioni perentorie e
spesso false (cfr. ib., XXII - XXIII).
Lo studio della natura pone dei quesiti precisi a Diderot :
qual è la costituzione della materia? esiste un'unità organica della
natura? le specie sono fisse o sono il risultato di un processo evo­
lutivo? tra la materia inerte e la materia viva c'è soluzione di con­
tinuità? (cfr. ib., LVIII). Nella trilogia formata dall'Entretien
entre d'Al,embert et Diderot, da Le Réve de d'Alembert e dalla
Suite de l'Entretien, e nei Principes philosophiques sur la matière
et le mouvement, egli risponde a queste domande secondo una
prospettiva evoluzionistica e materialistica. Facendo seguito alle
concezioni tolandiane delle Letters to Serena, Diderot vede, come
l'elemento costitutivo stesso di tutti i corpi, il movimento. Egli
osserva dapprima che non esiste uno stato di quiete assoluta:
« il corpo secondo alcuni :filosofi è per se stesso senza azione e
senza forza; questa è una terribile falsità, completamente in con­
trasto con ogni valida concezione fisica e chimica: il corpo per se
stesso, per la natura delle sue qualità essenziali, sia che lo si con-
ILLUMINISMO FRANCESE 415

sideri in molecole sia che lo si consideri in massa, è pieno di azioni


e di forze » (Principes, ed. cit., p. 394 ); inoltre: « lo stato di quie­
te assoluta è un concetto astratto che non esiste punto nella na­
tura, mentre il movimento è una qualità altrettanto reale che la
lunghezza, la larghezza e la profondità » (ib., p. 395); di quiete
dunque si può parlare solo in modo relativo. Rileva poi che tra i
vari regni della natura non esiste un salto qualitativo, ma che tut­
to è sensibilità anche se manifestata in modi e in gradi diversi:
« la sensibilità è una proprietà universale della materia, proprietà
inerte nei corpi bruti, come il movimento nei corpi pesanti arre­
stati da un ostacolo, proprietà resa attiva nei medesimi corpi per
la loro assimilazione con una sostanza animale vivente » (Lettera
a Duclos del 10 ottobre 1765); cioè l'animale, mangiando ed ap­
propriandosi dei vari elementi, che pur sembrano privi di sensibi­
lità, non farebbe altro che rendere attiva la sensibilità ostacolata
dell'alimento: « voi l'assimilate con voi stessi, ne fate della car­
ne, l'animalizzate, lo rendete sensibile» (Entretien, ed. cit., p.
261 ). Secondo il processo nutritivo, « le piante si nutrono della
terra, gli animali delle piante », ogni essere può diventare sensi­
bile: tutto dunque è animato dalla sensibilità, tutto è espressione
di un flusso in continua mutazione. Il tutto muta senza posa.
« L'uomo - Diderot fa dire a d'Alembert in sogno - non è che
un effetto comune, il mostro è un effetto raro; tutti e due ugual­
mente naturali, ugualmente necessari, ugualmente nell'ordine uni­
versale e generale ... Che cosa c'è di sorprendente in questo? Tutti
gli esseri circolano gli uni negli altri, di conseguenza tutte le spe­
cie... tutto è in un flusso perpetuo... Ogni animale è più o meno
uomo; ogni minerale è più o meno pianta; ogni pianta è più o
meno animale. Non c'è niente di fisso in natura... » (Le Reve de
d'Alembert, ed. cit., p. 311).
Una simile visione cosmologica esclude completamente il con­
cetto di Dio, a meno che non lo si voglia intendere nella equazione
spinoziana di Deus sive Natura, cui già probabilmente alludeva la
XXVI Pensée philosophique: « Gli uomini hanno bandito la di­
vinità di mezzo a loro; essi l'hanno relegata in un santuario; i muri
di un tempio chiudono la sua vista; la divinità non esiste per nulla
al di là di quei muri. Insensati che siete: distruggete quei recinti
che restringono le vostre idee: scarcerate Dio; vedetelo in ogni luo­
go dove egli è, o dite che egli non è ».
416 FILOSOFIA MODERNA

Anche per la morale Diderot è alieno dal proporre un codice


normativo. Prodotto della natura, l'uomo dovrà tendere a vivere
in conformità alle sue più schiette tendenze naturali; non un falso
ascetismo dovrà macerare inutilmente numerose vite, non i co­
stumi corrotti di una società decadente dovranno essere assunti
come modello di civiltà. Nel Supplément au voyage de Bougain­
ville viene così idealizzata la società dell'uomo naturale (rappre­
sentata dalle pacifiche popolazioni primitive di Tahiti), in cui la
passione e la spontaneità non inquinate diventano la guida sicura
al vivere comune.
Il materialismo di Diderot non vorrà però mai porsi come ma­
terialismo dogmatico, come forma conclusa ed invariabile, come
giudizio perentorio e « metafisico ». La Réfutation pertanto del­
l'opera di Helvétius intitolata l'Homme non è un rinnegamento
della concezione materialistica, ma il rifiuto di un certo tipo di
materialismo che voleva trarre, dalle premesse di una scienza na­
turale ancora ai primi passi, conseguenze troppo strette e dogma­
tiche, dimentiche di dimensioni specificamente umane, seppur bio­
logicamente spiegate. Di Helvétius Diderot ammira il punto di
partenza e le concezioni generali che sorreggono la sua opera; non
altrettanto valide gli risultano le conclusioni: « In quasi tutti i
ragionamenti dell'autore le premesse sono vere e le conseguenze
sono false, ma le premesse sono piene di finezza e sagacia. È dif­
ficile trovare i suoi ragionamenti soddisfacenti, ma è facile retti­
ficare le sue induzioni e sostituire la conclusione legittima alla
conclusione erronea, che in genere pecca per eccesso di generaliz­
zazione » (Réfutation, VII).

6. Condillac

Lettore attento dell'Essay del Locke, al quale è informata nelle


sue linee portanti la sua prima opera Essai sur l'origine des con­
naissances humaines ( 17 46), il CoNDILLAC 18 rifiuta - come il

18 ETIENNE BoNNOT, abate di CoNDILLAC (1714-1780) studiò nel seminario parigino


di St. Sulpice e frequentò la Sorbonne. Diventato prete nel 1740, continuò ad inte­
ressarsi esclusivamente di problemi filosofici, approfondendo le dottrine di Newton e
Locke, e frequentando i salotti colti parigini, specialmente quello di madame de
Tencin e di madame de Lespinasse. Dopo la pubblicazione dell'Essai sur l'origine des
ILLUMINISMO FRANCESE 417

maestro inglese - quella metafisica « ambiziosa che vuole sonda­


re tutti i misteri, la natura e l'essenza degli esseri, le cause più
nascoste », origine di tanti errori e di molta presunzione, per ade­
rire invece a quella metafisica « più modesta, capace di proporzio­
nare l'ambito della sua ricerca alla debolezza dello spirito umano,
e d'altra parte cosl poco preoccupata di ciò che di necessità le
sfugge, quanto avida di ciò che può raggiungere: essa sa fermarsi
nei limiti che le sono assegnati » (Essai, Introd.). Il suo disegno
- ci dice ancora sempre nell'Introduction - è quello di « ricon­
durre ad un solo principio quanto concerne l'intelletto umano, e
questo principio non sarà né una proposizione vaga, né una mas­
sima astratta, né una supposizione gratuita, ma una esperienza co­
stante, di cui tutte le conseguenze saranno confermate da nuove
esperienze » (ibid. ). Questo principio unitario della conoscenza è
individuato nella sensazione: la percezione, la coscienza, l'atten­
zione, la memoria e l'immaginazione non sono che dei modi parti­
colari in cui la sensazione si è trasformata (dr. ib., I, Il, capp. 1-
3 ). Anche la riflessione - ed in questo è superato il dualismo
lockiano di sensazione e riflessione - trova la sua origine e la sua
spiegazione nella sensazione (dr. ib., I, II, cap. 5). « Il Condillac
- spiega il Dal Pra - ha introdotto una modificazione radicale
alla veduta lockiana, quando afferl'!la che non si hanno due atti
conoscitivi, dei quali uno esterno ed uno interno, mentre se ne ha
uno solo ed interno, che consiste nell'atto di attenzione, la quale
va intesa come quell'attività che penetra e si assimila i dati della
percezione esterna » ( op. cit., pp. 63-64 ). Il medio, che rende pos-

connaissances humaines (1746) e del Traité des Systèmes (1749), divenne membro del­
l'Accademia cli Berlino. Nel 1754 pubblicò il Traité des Sensations e l'anno successivo
il Traité des animaux. Fu a Parma dal 1758 al 1767 come precettore dell'infante
Don Ferdinando, nipote di Luigi XV, dove compose il Cours d'études (pubblicato poi
nel 1775). Tornato a Parigi nel 1768, venne eletto membro dell'Accademia francese.
Ritiratosi nella sua proprietà di Flux, compose la Logique e la Langue des calculs;
quivi mori nell'agosto del 1780.
Per gli scritti cli Condillac rimando alle Oeuvres philosophiques, par G. Le Roy,
Presses Univers. de France, Paris 1947-51, 3 vols. (da cui attingo}. Traduzioni italiane:
Trattato delle sensazioni, a cura di P. Salvucci, Laterza, Bari 1970 (da cui attingo) e
Saggio sull'origine del!e conoscenze umane, a cura di L. Quattrocchi, Loescher, Torino
1960. Studi: G. LE RoY, La psychologie de Condillac, Boivin et C.ie, Paris 1937;
M. DAL PRA, Condillac, Fr. Bocca, Milano 1942; G. SoLINAS, Condillac e l'illumini­
smo, Ed. Università degli Studi, Cagliari 1955; P. SALVUCCI, Linguaggio e mondo
umano in Condillac, S.T.E.U., Urbino 1957 e Condillac filosofo della comunità umana,
Nuova Accademia, Milano 1961; F. KNlGHT, The Geometrie Spirit. The Abbé de Con­
dillac and the French Enlightenment, Yale University Press, New Haven 1968.
418 FILOSOFIA MODERNA

sibile il passaggio dalla sensazione alla riflessione - e quindi alle


attività superiori dell'intelletto umano -, è dal Condillac indicato
nel « segno ». La riflessione sorge dai segni e senza segni non è
possibile progresso intellettuale: « per avere delle idee sulle quali
poter riflettere, abbiamo bisogno di immaginare dei segni che ser­
vano di legame alle diverse collezioni di idee semplici; e le nostre
nozjoni non sono esatte che nella misura in cui noi abbiamo in­
ventato con ordine i segni che devono fissarle» (Essai, I, IV, 1,
par. 9). I segni sono di tre generi: segni accidentali, segni naturali,
segni istituzionali o convenzionali; ma di importanza fondamenta­
le per la riflessione sono « i segni istituzionali, quelli cioè che noi
stessi abbiamo scelto, e che non hanno che un rapporto arbitrario
con le nostre idee» (ib., I, II, 4, par. 35). Con l'invenzione del
linguaggio articolato, che si serve dei segni convenzionali, sorse
nell'uomo la riflessione consapevole. L'uomo ha cominciato ad
esprimersi per mezzo di un linguaggio di azione, originato dal solo
istinto e da segni puramente naturali: « per esempio, colui che
soffriva perché privato di un oggetto che i suoi bisogni gli rende­
vano necessario, non esitava a mandare delle grida: faceva degli
sforzi per ottenerlo, agitava la testa, le braccia e tutte le membra
del suo corpo. L'altro, commosso da questo spettacolo, osservava
il medesimo oggetto; e sentendo passare nella propria anima dei
sentimenti, di cui non era ancora capace di rendersi ragione, sof­
friva di veder soffrire questo misero. Da questo momento egli si
sentl interessato a soccorrerlo ed obbedi a questa impressione per
quanto fu in suo potere. Cosl, per mezzo del solo istinto, questi
uomini si chiedevano e si prestavano l'aiuto reciproco » (ib., II,
I, 2). Da questo linguaggio di azione che « con ogni verosimiglian­
za dovette consistere in contorsioni ed agitazioni violente » (Ib.,
II, I, 5), l'uomo passò molto lentamente ad un linguaggio conven­
zionale << abituandosi a legare alcune idee a dei segni arbitrari »
(Ib., II, I, 6). La prima sezione della seconda parte dell'Essai del
Condillac è dedicata allo studio dell'origine e dello sviluppo del
linguaggio dalla sua forma primordiale d'azione, ai gradi inter­
medi, fino alle forme più evolute e più astratte.
Contro i sistemi filosofici astratti è diretto il Traité des Systèmes
(17 49), dove per sistemi astratti s'intendono quei sistemi meta•
fisici « che si basano su principi astratti » (Traité des Systèmes.
cap. I). Una prima specie di principi astratti è costituita dalle mas-
fLWMINISMO FRANCESE 419

sime generali, accolte come proposizioni « così evidenti o cosl ben


-dimostrate da non poter essere revocate in dubbio » (ibid. ). I me­
tafisici, quali Descartes, Malebranche, Leibniz, diedero a questi
principi primi tale importanza da continuare senza posa a molti­
plicarne il numero, quasi a gara. Una seconda specie di principi
astratti è indicata in « quelle supposizioni foggiate per spiegare
quelle cose di cui non si saprebbe altrimenti rendere ragione »; e
« i metafisici - aggiunge ancora in modo ironico il Condillac -
hanno mostrato il loro genio inventivo facendo proliferare questa
seconda specie di principi in modo identico alla prima; grazie alle
loro fatiche, la metafisica non si è più incontrata con nulla che po­
tesse esserle un mistero » (ibid. ). Unitamente a Locke « che ha
riconosciuto che le massime astratte non sono la fonte della nostra
conoscenza » (ib., cap. Il), Condillac critica questi sistemi astratti
come inutili ed erronei, e si richiama, contro queste ipotesi gra­
tuite, a quei « fatti ben constatati che soli possono essere i veri
principi delle scienze » (ib., cap. I). Solo se alla base di un si­
stema ci sono questi « fatti ben constatati » si potrà avere garan­
zia della validità di quel sistema (cfr. ib., cap. XIV).
Diderot, nella sua Lettre sur les aveugles, faceva però notare
una certa ambiguità idealistica della gnoseologia condillachiana,
scrivendo: « d'altronde, rileva giudiziosamente l'autore dell'Essai
sur l'origine des connaissances humaines, sia che noi ci alziamo
fino al cielo, sia che noi discendiamo fino negli abissi, non uscia­
mo mai da noi stessi; e non percepiamo mai altro che il nostro
pensiero ». Questa ambiguità rilevata dal Diderot derivava dalla
poca chiarezza con cui erano definiti quei dati sensibili sui quali
l'intelletto doveva operare, talora intesi come immagini rappre­
sentative di oggetti reali, talora invece come semplici modi del pen­
siero (cfr. G. Le Roy, Introd. cit., pp. XVII - XVIII). Allo scopo
di uno studio genetico e critico della sensazione, il Condillac, nel
Traité des Sensations (1754 ), ricorse alla non originale ma persua­
siva rappresentazione della statua « organizzata internamente co­
me noi e animata da uno spirito privo di ogni sorta di idee ».
« Supponemmo inoltre - continua il Condillac - che l'esteriore
tutto di marmo non le permettesse l'uso di alcun senso e ci riser­
bammo la libertà di aprirli a piacer nostro alle diverse impressioni
che possono ricevere » (Traité des Sensations, Dessein). L'indagi­
ne del Condillac inizia dall'odorato. Alla statua fornita solo di
420 FILOSOFIA MODERNA

questo senso vien fatto sentir l'odore di una rosa; immediatamen­


te in essa sorge l'attenzione « al primo odore, la capacità di sen­
tire della nostra statua è interamente volta all'impressione che si
produce sul suo organo» (Traité, I, II, 1) e da questo momento
essa « comincia a gioire e a soffrire, poiché, se la capacità di sen­
tire è tutta rivolta ad un odore gradito, è piacere; se è tutta rivolta
ad un odore sgradevole, è dolore» (Ib., I, II, 2). Insorge pure la
memoria, perché « l'odore che sente non le sfugge interamente al­
lorquando il corpo odoroso cessa d'agire sul suo organo. L'atten­
zione che essa vi ha posto lo trattiene tuttavia: le resta un'impres­
sione più o meno forte a seconda che l'attenzione è stata essa stessa
più o meno viva» (Ib., I, II, 6). La statua sentirà poi altri odori
e potrà instaurare tra di loro un paragone, potrà cioè giudicare,
in quanto « un giudizio è la funzione di un rapporto tra due idee
messe a confronto» (Ib., I, II, 15). Potrà immaginare, cosa che av­
viene quando la sensazione sarà ricordata con una forza notevole
(ib., I, II, 29). Dunque, con l'uso anche di un solo senso, la sta­
tua « ha contratto parecchie abitudini» che non sono delle facol­
tà originarie dell'anima umana, ma delle conseguenze, dei prodotti
della sensazione. Anche le idee astratte derivano dalla sensazione:
« considerando che le idee di contentezza e di malcontento sono
comuni a molte sue modificazioni, essa prende l'abitudine di se­
pararle da questa o quella modificazione particolare, da cui non
le aveva prima distinte. Queste idee diventano, dunque, per lei
nozioni astratte e queste nozioni diventano generali perché sono
comuni a molti suoi modi di essere >> (ib., I, IV, 2). Allo stesso
modo dalla sensazione ha origine l'idea della possibilità ( « essendo
abituata a essere, cessar d'essere, ridiventare lo stesso odore, essa
penserà, quando non lo è, di poterlo essere, e quando lo è, di po­
ter non esserlo più» ib., I, IV, 9), f' dal discernere gli odori na­
sce in lei l'idea della successione (ib., I, IV, 11), della durata (ib., I,
IV, 12, 17). È chiara cosl la conclusione di Condillac: « la sensa­
zione involge tutte le facoltà dell'anima » (ib., I, VII, 2). Dopo aver
svolto simili considerazioni anche per i sensi dell'udito, del gusto
e della vista, ed aver notato come il concorrere delle impressioni
da essi percepite « aumenti il numero dei modi di essere della no­
stra statua», e come « la catena delle sue idee divenga più estesa e
varia, gli oggetti della sua attenzione, dei suoi desideri e del suo
godimento si moltiplichino», egli osserva che la statua resta an-
ILLUMINISMO FRANCESE 421

cora tuttavia nell'ignoranza di una causa esterna e non sa giudi­


care se vi è qualcosa al di fuori di lei: « essa continua a vedere
solo se stessa, e niente potrebbe ancora staccarla da sé per traspor­
tarla fuori. Essa neppure sospetta, dunque, che i suoi modi di es­
sere sono prodotti da cause estranee: ignora persino che le ven­
gano dai quattro sensi» (ib., I, XII, 1-2). Solo il tatto giudica gli
oggetti esteriori e ammaestra gli altri sensi a giudicarne 19•
Limitata al solo tatto, la statua sentirà la connessione e l'azione
reciproca delle parti del suo corpo, i mutamenti di agenti esterni
che possono urtarla ... e giunge cosl al primo infimo grado del­
la coscienza di sé, cioè a quello che è detto sentimento fondamentale
(ib., II, I). Col movimento delle sue membra e con le nuove sen­
sazioni tattili, « la statua impara dunque a riconoscere il suo corpo
e a riconoscersi in tutte le parti che lo compongono» (ib., II, V,
4 ), ed impara, non senza meraviglia, a riconoscere i corpi circostan­
ti ad essa esterni (II, V, 5-10). Mossa dal piacere derivato dalle
prime sensazioni moltiplica i suoi movimenti: « il piacere l'attrae
agli oggetti, l'impegna a prestar loro rutta l'attenzione di cui è ca­
pace, ed a formarsene idee più esatte; il dolore l'allontana da tutto
ciò che le può nuocere, la rende ancor più sensibile al piacere, le
insegna i mezzi di godere senza pericolo e la rende ingegnosa» (ib.,
II, VIII, 1). A differenza degli altri sensi il tatto permette alla
statu� di raffigurarsi l'oggetto di sensazione come entità esterna;
mentre « con la vista poteva distinguere molti colori sentiti insie­
me, ma non arrivava ad avvertire che formavano un tutto figurato:
sentiva soltanto di essere contemporaneamente in molti modi», col
tatto invece essa « stacca dal suo io qveste modificazioni, le giudica
fuori di sé, e ne fa dei tutti diversamente combinati in cui può distin­
guere una molteplicità di rapporti» (ib., II, VIII, 14 ). Ancora al
tatto toccherà il compito di ammaestrare gli altri sensi, facendo loro
scoprire come la causa della sensazione sia loro esterna, e riuscirà

" Già il Berkeley, rifacendosi al famoso dibattito tra il Locke ed il Molyneux


sul problema del riconoscimento di oggetti da parte di un cieco nato, a cui di
colpo fosse stata restituita la vista, aveva, nel suo Essay towards a New Theory
of Vision, condiviso la stessa persausione, che si dovesse riconoscere solo al tatto
la capacità della percezione della distanza o della percezione spaziale. Voltaire,
negli Eléments de la philosophie de Newton, aveva utilizzato la tesi berkeleyana,
del primato del tatto, in una direzione però realistica, assente in Berkeley e con­
traria alla :filosofia del vescovo inglese: il tatto cioè, oltre la percezione spaziale,
darebbe la certezza dell'esistenza dei corpi.
422 FILOSOFIA MODERNA

ad ottenere questo solamente con un reiterato esercizio e non senza


fatica: « avvicina il fiore all'organo dell'olfatto, l'allontana: mette
in rapporto il fiore presente con l'attualità della sensazione, il fiore
assente con il dileguarsi di essa: si conferma nell'opinione che la
sensazione le viene dal fiore, giudica che l'odore è in questo » (ib.,
III, I, 6). Con il tatto quindi, che attribuisce ai corpi esterni la
causa delle nostre modificazioni sensoriali, è per il Condillac risolto
in senso positivo il problema dell'oggettività della nostra conoscen­
za. L'affermazione dell'oggettività non significa per Condillac la ri­
soluzione di ogni problema e di ogni dubbio - primo tra i quali
l'esistenza delle qualità secondarie: « [la statua] si chiederà: ci so­
no realmente, negli oggetti, suoni, sapori, odori, colori? » -, bensì
la conquista di un ambito minimo, ma sufficiente, di certezza in cui
operare: « la statua non ha bisogno di una certezza maggiore di quel­
la che ha: l'apparenza delle qualità sensibili basta a farle nascere de­
sideri, a illuminarla nella sua condotta e a formare la sua felicità o in­
felicità, mentre, d'altra parte, la dipendenza in cui si trova dagli og­
getti, ai quali deve per forza riferire le sue sensazioni, non le per­
mette di dubitare che non esistano <1ltri esseri al di fuori di sé. Ma
poi, qual è la natura di questi pensieri? Essa l'ignora, e noi ne sap­
piamo quanto lei: tutto quello che sappiamo è che noi li chiamiamo
cose» (ib., IV, V, 2).

7. Fdosofia della natura

L'approfondimento critico e metodologico delle scienze natu­


rali ed i progressi delle conoscenze scientifiche operati tra la fine
del Seicento ed il primo Settecento nonevano nuovi interrogativi ed
aprivano la strada ad ipotesi tanto ardite quanto suggestive. Si deli­
neavano, ad esempio, nelle indagini del MAUPERTUIS 20 sulla gene-

20
PIERRE Lou1s MoREAU DE MAUPERTUIS (1698-1759) divenne, ancor molto
giovane, membro dell'Accademia francese e fu nominato nel 1740 presidente del­
l'Accademia di Berlino. Si interessò prevalentemente di problemi scientifici e parte­
cipò pure ad una spedizione in Lapponia per il rilevamento di dati, al fine di stabilire
la figura della terra.
Edizioni: Oeuvres, Lyon 1768, 4 vols. (Ed. fotost. G. Olms, Hildesheim 1965).
ILLUMINISMO FRANCESE 423

razione animale e sull'ereditarietà (Vénus physique 1745, Disser­


tation sur le nègre blanc 17 44) anticipazioni evoluzionistiche, e
le sue pagine del Système de la nature (17 51) venivano lette in
chiave materialistica ed atea. Opponendosi sia alle ipotesi mecca­
nicistiche cartesiane sia alle fantastiche nature plastiche « che sen­
za intelligenza e senza materia eseguono nell'universo tutto ciò che
la materia e l' intelligenza potrebbero eseguire » ( Oeuvres, II,
142), egli vede non in contraddizione con il concetto di materia - e
questo per un'eredità lockiana - la possibilità di una sua parteci­
pazione alla razionalità: « un'attrazione uniforme e cieca, diffusa
in tutte le parti della materia, non sarebbe sufficiente a spiegare
come si combinino le parti che formano i corpi anche i più sem­
plicemente organizzati. [ ... ] Come si spiegano così meravigliose
combinazioni? Perché le parti non si mescolano alla rinfusa? Se
si vuol dire in proposito qualcosa di intelligibile, sia pure sotto
forma di analogia, bisogna ricorrere ad un qualche principio di
intelligenza, a qualcosa di simile a ciò che chiamiamo desiderio,
avversione, memoria» (Oeuvres, II, 147).
Accordare alla materia « un qualche grado d'intelligenza, di
desiderio, di avversione, di memoria» apre la via all'evoluzioni­
smo biologico: questo principio, applicato alla genetica, potrebbe
spiegare - contro l'ipotesi fissistica - l'evoluzione delle specie
animali: « Non si potrebbe con ciò spiegare anche come da due
soli individui siano potute uscire le specie più diverse? La loro
prima origine sarebbe stata dovuta a qualche produzione fortuita,
in cui le parti elementari non avrebbero conservato l'ordine che
avevano negli animali padre e madre; ogni grado d'errore avrebbe
determinato una nuova specie: dal ripetersi di tali mutazioni sa­
rebbe emersa l'infinita diversità degli animali che oggi vediamo
e chè: forse si accrescerà ancora nel tempo secondo accrescimenti
impercettibili» (Oeuvres, II, 164-165). Questo evoluzionismo
non implica però necessariamente un'ipotesi atea, perché si po­
trebbe sempre ammettere « che Dio abbia dotato ciascuna delle
più piccole parti della materia, ciascun elemento, di qualche pro-

Studi: P. BRUNET, Maupertuis. Étude bibliographique, e Maupertuis. L'oeuvre et


sa place dans la pensée scientifique et philosophique du XVIII• siècle, Paris 1929,
2 vols.; E. CALLOT, La philosophie de la vie au XVIII• siècle, M. Rivier et C.ie,
Paris 1965.
424 FILOSOFIA MODERNA

prietà simile a ciò che chiamiamo in noi desiderio, avversione, me­


moria; la formazione dei primi individui può essere stata miracolosa,
mentre gli individui successivi non sono più che gli effetti di tali
proprietà» (Oeuvres, II, 157-158). Certo però il vincolo tra l'uo­
mo e gli altri esseri naturali risulta sempre più ristretto ( cfr.
Oeuvres, II, 178-179).
In Maupertuis, come almeno formalmente in Buffon, e forse
più sinceramente nel Bonnet e nel Robinet, i nuovi studi e le
nuove prospettive delle scienze naturali non possono e non de­
vono per nessun motivo contraddire ai dettami religiosi del cri­
stianesimo, o almeno del teismo: « è un peccato contro la società
lasciar pensare che la filosofia ( e in questo caso specifico la filosofia
della natura) conduca all'empietà o al vizio; sarebbe peccare con­
tro se stessi lasciar credere che essa vi ci avesse condotti» (Répon­
se aux objections de M. Diderot, in Oeuvres, II, 186). Altro è l'am­
bito religioso, altro è l'ambito scientifico: « la religione - afferma
nella Lettre XVII - non ha nulla in comune con le altre parti
dello scibile; essa non si fonda né sui principì delle matematiche,
né su quelli della filosofia: i suoi dogmi sono di un ordine che
non ha nessun legame con alcun altro ordine delle nostre idee, e
costituiscono nel nostro spirito una scienza interamente a parte,
di cui non si saprebbe dire se si accordi o contrasti con le altre
nostre scienze» (Oeuvres, II, 327).

Con il Maupertuis - che nella sua Lettre VII definiva i siste­


mi « vere sciagure per il progresso delle scienze: un autore siste­
matico, infatti, non vede più la natura, ma soltanto la sua propria
opera» (Oeuvres, II, 257) - si schiera il BuFFON 21, altro insigne

21 GEORGE Loms LECLERC, conte di BuPFON (1707-1788) fu celebre studioso di


scienze matematiche, fisiche e soprattutto naturali. Nel 1739 venne nominato direttore
del. Ja•·din Royal. Si propose di redigere una Histoire naturelle générale et particu­
lière, di cui pubblicò il progetto ed il piano nel 1748 sul « Joumal des Savans ».
L'iniziativa fu accolta calorosamente, e l'edizione dei primi tre volumi, apparsi l'anno
successivo, fu esaurita in sei settimane. Seguirono, con la collaborazione del Dauben­
ton, dodici volumi dedicati all'Histoire des Quadrupèdes (1753-1768), nove dedicati
all'Histoire des Oiseaux (1770-1783), cinque all'Hzstoire des Minéraux (1783-1788);
tra i Suppléments apparve nel 1778 il suo capolavoro Les Époques de la Nature.
Di utile consultazione sono le Oeuvres philosophiques de Bu/fon, par J. Pivetau,
Presses Univers. de France, Paris 1954. Esiste una recente traduzione parziale italiana
àe Le epoche della natura, a cura di M. Renzoni, Boringhieri, Torino 1959.
Oltre alla bibliogr'-lfu data da J. Pivetau nell'ed. cit., si veda L. HANKS, Buffon
avant L'Histoire nature/le, Presses Univers. de France, Paris 1966.
ILWMINISMO FRANCESE 425

studioso francese di scienze naturali. Le classificazioni del Linneo


sono l'oggetto costante della sua critica: esse, come ogni classifi­
cazione arbitraria, si oppongono alla vera conoscenza della natura.
Ad esempio, « Linneo divide tutti gli animali in sei classi, cioè
i quadrupedi, gli uccelli, gli anfibi, i pesci, gli insetti, i vermi. Que­
sta prima divisione è, come si vede, sommamente arbitraria e for­
temente incompleta, in quanto essa non ci fornisce alcuna idea di
certi generi di animali, per altro di notevole importanza e nume­
rosi, quali, tanto per citarne alcuni, i serpenti, i molluschi, i cro­
stacei ... » (Oeuvr. philos., 18 B). Ogni classificazione, anche la
più perfetta, è erronea perché nella natura non ci sono specie,
ma ci sono individui: « e, in generale, più si aumenterà il numero
delle divisioni delle produzioni naturali, più ci si avvicinerà al ve­
ro, poiché nella natura non esistono in realtà che individui, e i
generi, gli ordini e le classi non esistono che nella nostra immagi­
nazione» (Oeuvr. phil., 19 A). Modellandosi sull'Historia anima­
lium di Aristotele, egli propone un metodo puramente descrittivo,
lontano da ogni arbitrio interpretativo e fedele alla natura che
« procede per gradi sconosciuti e, di conseguenza, non può pre­
starsi completamente a queste divisioni, perché essa passa da una
specie ad un'altra, e spesso da un genere all'altro, con sfumature
impercettibili; di modo che si trovano un gran numero di specie
intermedie e di oggetti ibridi, che non si sa dove sistemare, per
cui ne rimane necessariamente sconvolto il sistema generale»
(Oeuvr. phil., 10 B).
Nello studio sulla formazione del mondo, condotto nel Second
Discours intitolato Histoire et théorie de la terre (1749) e poi
nelle Époques de la Nature (1778), egli sottolinea l'inammissibi­
lità dello schema cronologico della Bibbia e implicitamente con­
ferma l'ipotesi evoluzionistica del cosmo: « i cambiamenti che han­
no modificato il globo terrestre in questi ultimi due o tre mila anni
sono di ben poca importanza in confronto alle rivoluzioni che do­
vettero avvenire nei primi tempi dopo la creazione; infatti è fa­
cile dimostrare che, al pari di tutte le materie che compongono la ter­
ra, le quali non hanno acquisito la solidità che per l'azione continua
della gravità e di altre forze che riavvicinano e riuniscono le parti­
celle della materia, anche la superficie della terra dovette essere al­
l'inizio molto meno solida di quanto non lo sia diventata in seguito.
Di conseguenza le stesse cause, che oggi producono dei cambia-
426 FILOSOFIA MODERNA

menti pressoché insensibili nello spazio di molti secoli, poterono


certo produrre allora dei grandi rivolgimenti nel volgere di pochi
anni » ( Oeuvr. phil., 49 A).
In fondo alle indagini naturali del Buffon sta un atteggiamen­
to religioso, anche se venato di certe sfumature panteistiche: « La
natura non è un essere, perché questo essere sarebbe Dio; ma la
si può considerare come una potenza viva, immensa, che abbrac­
cia tutto, che anima tutto, e che - subordinata a quella del primo
Essere - ha incominciato ad agire per suo ordine e non agisce
attualmente che col suo concorso o con la sua approvazione. Que­
sta potenza è la parte della potenza divina che si manifesta; è nel
medesimo tempo la causa e l'effetto, il modo e la sostanza, il di­
segno e l'opera. Ben diversa dall'arte umana le cui produzioni non
sono che opera morta, la Natura è essa stessa opera perpetuamente
viva, operaio attivo senza posa, che sa tutto impiegare, che lavo­
rando da solo sempre sul medesimo materiale, ben lontano dal­
l'esaurirlo, lo rende inesauribile... » ( Oeuvr. phil., 31 A).

CHARLES BoNNET (1720 - 1793), naturalista e :filosofo gine­


vrino, oppone sempre più viva alle interpretazioni materialistiche
la sua concezione finalistica ed ottimistica del mondo. Le sue inda­
gini di scienze naturali trovano nell'opera Contemplation de la na­
ture la loro finalità apologetica e di edificazione spirituale: « ele­
vare, cioè, il cuore e lo spirito all'adorabile fonte da cui tutto essen­
zialmente emana, e che dovrebbe essere sempre il primo ed ultimo
fine di tutte le nostre ricerche». « Ho dunque - continua - so­
prattutto contemplato la natura nei suoi rapporti così numerosi, va­
ri, diversi, con le perfezioni del suo divino autore. L'ho cercato nelle
sue produzioni minime come in quelle nelle quali maggiormente
risponde la sua maestà e ovunque ho inteso questa sublime paro­
la: eccomi... » (ed. 1782, p. XXIV). L'intero universo è colto se­
condo una profonda ed emblematica armonia: gli esseri e gli even­
ti sono fra loro intimamente legati. « Tutto è sistematico nell'uni­
verso : tutto è connessione, rapporto, legame, concatenamento.
Non c'è nulla che non sia l'effetto immediato di qualcosa che l'ha
preceduto, e che non determini l'esistenza di qualcosa che segui­
rà » (ib., part. I, eh. VII). Riemerge da un lato la tematica della
« great chain of beings » propria dell'apologetica inglese d'inizio
del secolo, cioè della catena universale degli esseri, aperta però
ILLUMINISMO FRANCESE 427

questa volta ad istanze di netta tinta evoluzionistica: « Non ci


sono salti in natura; tutto vi è graduato e sfumato. Se tra due es­
seri qualsiasi esistesse un vuoto, quale sarebbe la ragione del pas­
saggio dall'uno all'altro? Non esiste dunque alcun essere al di so­
pra o al di sotto del quale non ve ne siano altri che ad esso si avvi­
cinano per qualche carattere o che da esso si allontanano per qual­
che altro» (ib., part. Il, eh. IX).

Anche JEAN BAPTISTE RoBINET (1735 - 1820), di cui ricor­


diamo il trattato De la nature (Amsterdam, 1761) vuole ricondur­
re ad unità interpretativa l'intera manifestazione della natura, ri­
cercando quell'« ipotesi la quale, riuscendo a connettere tutti gli
effetti, non esclusi anche i più straordinari, li riconduca dapprima
ad un solo effetto generale, per chiarirne poi tutti i particolari det­
tagli» (De la nature, introd. ). E quest'ipotesi è indicata, già dalla
stessa introduzione, nella generazione uniforme di tutti gli esseri:
« Come può ciò che non esiste, passare all'esistenza? Per qual for­
za vivificante ciò che è appena di ieri, è capace oggi di generare
un suo simile? Mi propongo di esaminare questi difficili problemi.
L'analogia della natura esige che, dall'atomo, sfuggente ai nostri
sensi, fino al globo scintillante, padre della luce, tutti gli esseri
si riproducano allo stesso modo. Vedrete rientrare nell'unità di
questa legge tutti i regni, tutti i generi, tutte le specie» (lbid.).

8. I materialisti

Quella di LA METTRIE 22 fu la prima esplicita voce di materia­


lista e di ateo. Lo portarono alle sue affermazioni radicali sia le
conclusioni dei contemporanei studi di biologia e di fisiologia che
consideravano la materia - avente in se stessa le ragioni del moto

22
JuLIEN 0FFRAY DE LA METTRIE (1709-1751) studiò medicina prima a Reims,
poi fu discepolo a Leida del Boerhaave. Dopo un periodo di esercizio della profes­
sione medica nell'esercito, si ritirò dedicandosi allo studio e alla composizione delle
sue opere. Già l'Histoire naturelle de l'ame (L'Aia 1745) scandalizzò i lettori francesi,
per cui egli dovette cercar rifugio prima a Leida e poi a Potsdam, sotto la protezione
di Federico di Prussia. In questi brevi anni uscirono le sue principali opere: L'homme­
-machine (1748), L'homme-plante (1748), Les ammaux plus que machines (1750), L'an­
ti-Sénèque (1750), L'Art de ;ouir (1751) e, postumo, il Système d'Epicure.
Opere: rimando alle Oeuvres philosophiques, nouvelle édition, chez Ch. Tutot,
428 FILOSOFIA MODERNA

e dell'organizzazione - sufficiente alla spiegazione dell'essere viven­


te e dei suoi processi biologici ( questi fisiologi e medici « hanno
percorso, hanno illuminato il labirinto dell'uomo; essi soli ci han­
no rivelato quei meccanismi celati da involucri che sottraggono ai no­
stri occhi tante meraviglie» L'Homme-machine, Oeuvres philoso­
phiques, III, p. 117 ), sia, per altro verso, la teoria meccanicistica
cartesiana dell'animale-macchina, ridotta a forma interpretativa di
tutti gli esseri, una volta superato il dualismo spirito-materia se­
condo una soluzione monistica che cancellava il primo termine.
L'uomo non è che materia organizzata in un modo particolare,
non è che una macchina che procede secondo la costituzione delle
sue parti: « L'organizzazione basterebbe dunque a tutto? Si, an­
cora una volta; giacché è chiaro che il pensiero si sviluppa insieme
agli organi, perché la materia, di cui essi sono fatti, non potrebbe es­
sere anche suscettibile di rimorsi, una volta che, col tempo, avesse
acquisita la facoltà di sentire? L'anima non è dunque altro che un
vago termine del quale non si ha alcuna idea, e di cui un buon in­
telletto non deve servirsi se non per nominare quella parte che in
noi pensa. Posto il minimo principio di movimento, i corpi animati
avranno tutto ciò che occorre loro per muoversi, sentire, pensare,
pentirsi, per comportarsi insomma nel fisico e nel morale che ne di­
pende» (Oeuvr. phil., III, p. 168-169). Non ha senso, secondo il La
Mettrie, ricorrere per l'anima umana - ed in questo punto egli
supera le concezioni della sua precedente Histoire naturelle de l'ame
- alla vecchia ed inintelligibile dottrina delle forme sostanziali, per­
ché « tutto dipende dalla diversità di questa organizzazione fisica
[ ... ] e questo è sufficiente per sciogliere l'enigma delle sostanze e
dell'uomo» (Oeuvr. phil., III, p. 185). Il pensiero non ci può
autorizzare a considerare l'uomo su di un piano diverso da quello
degli animali, che pur sono considerati puramente macchine, per­
ché « il pensiero è cosi poco incompatibile con la materia organiz­
zata da sembrarne anzi una proprietà, come l'elettricità, la facoltà
del movimento, l'impenetrabilità e l'estensione» (ib., III, p. 189).

Berlin 1796 (da cui attingo). Una raccolta dei &uoi scritti in italiano è L'uomo-mac­
china e altri scritti, a cura di G. Preti, Feltrinelli, Milano 1955. Recentemente, a cura di
S. Moravia, sono state pubblicate le sue Opere filosofiche, Laterza, Bari 1974.
Utile è la prefazione di A. VARTANIAN all'edizione critica de L'homme-machine,
Princeton 1960. Si veda anche il recente studio di G. P. BoccARDI, Motivi preroman­
tici nella filosofia della natura di La Mettrie, Vallecchi, Firenze 1969.
ILLUMINISMO FRANCESE 429

Lo studio dell'anatomia comparata gli svela la connessione di tutti


gli esseri in quella « scala impercettibilmente graduata, nella qua­
le si vede la natura passare esattamente per tutti i suoi gradini sen­
za saltarne in alcun modo alcuno in tutte le sue diverse produzio­
ni» (L'homme-plante, cap. III; Oeuvr. phil., II, p. 69). Se esi­
stono similitudini ed analogie, esistono pure delle differenze: que­
ste non sono però che effetto di un diverso grado di organizza­
zione a cui la materia è giunta nei vari esseri. Cioè più l'essere è or­
ganizzato, più ha bisogni e più si sviluppano le sue capacità nella
ricerca della loro soddisfazione; vale a dire « più un corpo orga­
nizzato ha bisogni, più la natura gli ha dato i mezzi per soddisfar­
li. Questi mezzi sono i diversi gradi di quella sagacia che è cono­
sciuta col nome di istinto negli animali e di anima nell'uomo »
(Oeuvr. phil., Il, p. 62).
La sua concezione etica, incentrata sulla voluttà, non sarà che
la conseguenza di questa intima connessione uomo-natura in un
rapporto di continuità inalterato: le funzioni biologiche e le esi­
genze dello « spirito » sono già risolte nell'armonia di quella orga­
nisation che deve essere rispettata e goduta in quanto tale.
Per HELVÉTIUS 23, l'uomo, essere naturale al pari di tutti gli
altri animali, non è dotato di facoltà diverse dalle loro. Le sue fa­
coltà « spirituali » sono comuni a quelle degli animali: e si ridu­
cono alla sensibilità fisica, che è « la facoltà di ricevere le impres­
sioni diverse, prodotte su di noi da oggetti esterni », ed alla me­
moria, che non è che una facoltà di conservare le impressioni ri­
cevute, ed in ultima analisi « nient'altro che una sensazione che
perdura, ma indebolita » (De l'Esprit, Discours premier, eh. I).
La causa della superiorità dell'uomo sugli altri esseri della natura,

23 CLAUDE AoRIEN HELVÉTIUS (1715-1771) nacque a Parigi da un medico di corte,


e, sotto la protezione della regina, ricopri a carte alcune cariche. Ritiratosi a Voré.
si dedicò a studi letterari e scientifici. La pubblicazione della sua opera De l'Esprit,
nel 1758, sollevò reazioni fortissime in tutta la Francia: gli appoggi alla corte di
Luigi XV gli valsero non poco ad evitare condanne e sanzioni. Dopo una breve vi­
sita in Inghilterra ( 1764) ed in Prussia ( 1765), dove fu ricevuto con grande onore,
continuò la sua vita sempre più ritirata, dedicandosi alla composizione del suo poema
Le Bonheur, che sarebbe uscito postumo nel 1772.
Opere: Oeuvres philosophiques, London 1791, 3 vols. (da cui attingo). Fonda­
mentale rimane lo studio di A. KEIM, Helvétius, sa vie et son oeuvre, Alcan, Paris
1907. Si vedano :inoltre I. L. HoROWITZ, C. Helvétius, Philosopher of Democracy and
Enlightenment, New York 1954 e D. W. SMITH, Helvétius. A Study in Persecution, at
Clarendon Press, Oxford 1965.
430 FILOSOFIA MODERNA

è dunque da ricercarsi non in pretese facoltà recondite, ma nelle


differenze fisiche accidentali. « Se la natura, invece che con mani
e con dita flessibili, avesse fatto terminare i nostri arti con uno
zoccolo di cavallo, si potrebbe forse mettere in dubbio che gli uo­
mini - senza arte, senza abitazioni, senza difese contro gli ani­
mali, e tutti occupati a provvedersi il cibo e ad evitare le bestie
feroci - sarebbero ancora erranti nelle foreste a guisa di bran­
chi randagi? » (ibid. ). Inoltre « la vita degli animali, in genere,
è più breve della nostra e permette loro di fare un numero minore
di osservazioni, e di conseguenza di formarsi idee in numero mi­
nore dell'uomo » (ibid., nota a).
Ma l'uomo non è forse superiore agli animali a causa della sua
capacità di azione morale? Che cos'è allora la virtù? Va ricordato
innanzi tutto che per Helvétius il giudizio dell'uomo è sempre dipen­
dente « dalla diversità delle sue passioni, delle sue idee, dei suoi
pregiudizi, dei suoi sentimenti, e in ultima analisi dei suoi inte­
ressi » (ib., Discours II, eh. I). Anche il giudizio morale dipende
dall'interesse sia privato sia pubblico: buona è l'azione che arre­
ca vantaggio: « la virtù - dunque - non è che il desiderio della
felicità degli uomini, e la probità, che io considero come l'eserci­
zio della virtù, presso ogni popolo e sotto ogni governo, non è che
l'abitudine a compiere azioni utili alla propria nazione » (ib., II,
eh. XIII). Non ha senso una morale normativa astratta, perché
« tutti gli uomini non tendono che alla loro propria felicità: né
li si può sottrarre a questa tendenza, anzi sarebbe inutile intra­
prendere simile impresa e nocivo realizzarla »; compito dunque
del moralista, in tal modo essenzialmente funzionalizzato al com­
pito del legislatore, sarà quello di studiare la possibilità di ren­
dere gli uomini virtuosi « unendo l'interesse personale all'inte­
resse generale » (ib., II, eh. XV). Col gioco degli interessi, i legi­
slatori saggi potranno educare i popoli e condurli alla prosperità:
« unicamente per mezzo di buone leggi possono essere formati
degli uomini virtuosi. Tutta l'arte del legislatore consiste nel con­
durre gli uomini, servendosi del sentimento dell'amor proprio,
ad essere sempre giusti gli uni con gli altri. Ora, per redigere si­
mili leggi, bisogna conoscere il cuore umano, e preliminarmente
sapere che gli uomini, interessati al tornaconto personale, indiffe­
renti al bene degli altri, non sono nati né buoni né cattivi, ma
pronti a diventarlo, secondo che un interesse comune li unisca o
ILWMINISMO FRANCESE 431

li divida ... » (ib., II, eh. XXIV). Anche storicamente è mostrato


come, nel concorrere dell'interesse privato con quello pubblico,
gli stati abbiano raggiunto e si siano garantiti una stabile prospe­
rità. Eccitando opportunamente le passioni, i grandi condottieri
riuscirono a fare dei loro soldati degli eroi, e a compiere cosl im­
prese straordinarie: la molla dell'azione è comunque sempre l'in­
teresse: « le grandi ricompense fanno le grandi virtù, ed una sag­
gia amministrazione degli onori è il legame più forte che i legi­
slatori possano usare per unire l'interesse particolare all'interesse
generale» (ib., III, eh. XXIV).
Nell'opera postuma De l'homme, de ses facultés intellectuel­
les et de son éducation (pubblicata nel 1772) Helvétius considera
l'educazione come la radice di ogni progresso umano. Non dipende
da doni spirituali diversi, da attitudini fisiche o psichiche parti­
colari la diversità dello sviluppo dell'esprit dei vari uomini: gli uo­
mini sono uguali; è l'educazione che, impartita in modi diversi,
sviluppa doti diverse e causa « l'inegalité des esprits» (cfr. ib.,
sect. II e III). Ora però « l'educazione morale dell'uomo è quasi
completamente lasciata al caso » (ib., sect. I, eh. VIII) e questo
è contrario al progresso dell'umanità. È vero che, grazie al caso,
sono sorti pure dei grandi geni, ma per controparte un numero
ingente di uomini è restato fermo, inibito da pregiudizi religiosi.
È necessario reimpostare criticamente e scientificamente, su larga
scala, per il bene futuro dell'umanità, il problema dell'educazione.
A questo scopo « bisognerebbe dirigere il piano educativo in rap­
porto all'utilità pubblica, fondare Peducazione su principi sem­
plici ed invariabili. Questo è l'unico modo per far diminuire l'in­
fluenza che il caso esercita su di essa e per togliere tutte quelle
contraddizioni che si trovano, e devono necessariamente trovarsi
tra tutti i diversi precetti dell'educazione attuale» (ibid. ).

Nell'opera del barone n'HoLBACH 24 convergono in una sintesi


materialistica, seppur non originale almeno significativa, le diver-

24
PAUL HEINRICH DIETRICH barone d'HoLBACH (1723-1789), nato a Edesheim, si recò
giovanissimo a Parigi, presso uno zio naturalizzato francese, di cui divenne ricco erede.
Tra il 1750 ed il 1780 il suo salotto fu famoso ritrovo parigino degli spiriti più spregiu­
dicati e luogo delle più libere conversazioni anticlericali e materialistiche. Amico del
Diderot, collaborò all'Encyclopédie anche dopo il 1758, con articoli di mineralogia, chi­
mica e storia naturale. Negli anni sessanta, oltre alla traduzione e all'edizione ano-
432 FILOSOFIA MODERNA

se istanze emerse nell'illuminismo francese e inglese. I suoi inte­


ressi scientifici, sorti durante gli studi a Leida e coltivati a Pa­
rigi ( dove tradusse alcune opere di chimica e di mineralogia e col­
laborò all'Encyclopédie su argomenti scientifici), le sue letture e
le sue traduzioni degli scritti del deismo inglese e della letteratura
clandestina anonima del primo Settecento francese, l'amicizia con
Diderot e l'incontro familiare nel proprio salotto parigino con i
filosofi più radicali lo portarono ad una riesposizione complessiva
ed unitaria delle tesi maturate nel corso di un intero secolo, se­
condo una prospettiva di estrema riduzione. Quanto poteva essete
affermato inconoscibile o operativamente invalido venne dal d'Hol­
bach decisamente negato come « chimerico ». La riduzione del­
l'uomo all'ordine puramente fisico ( « l'homme est un étre pure­
ment physique », Système de la Nature I, p. 3) non era certamen­
te una novità nel mondo filosofico francese del 1770: nuovi sono in­
vece il dogmatismo e la consequenzialità deterministica con la qua­
le egli procede anche in campo sociale. L'uomo, opera della natu­
ra, è in tutto simile ad ogni altro essere fisico e « in tutti i suoi
progressi, in tutte le sue mutazioni egli non agisce che secondo le
leggi proprie della sua organizzazione e dei materiali di cui fu com­
posto dalla natura »; non c'è distinzione tra azione fisica ed azione
morale; tutto è ridotto alla pura dimensione biologica. Vera scien­
za dell'uomo è dunque solamente la fisica: « alla fisica e all'espe­
rienza l'uomo deve ricorrere per tutte le sue ricerche; esse egli
deve consultare nella sua religione, nella sua morale, nella sua le­
gislazione, nel suo governo politico, nelle scienze e nelle arti, nel­
le gioie e nei dolori» (ib., I, p. 6). Come tutti gli esseri della na­
tura, tutto l'uomo è spiegato come materia e movimento. Le fa­
coltà intellettuali non sono che modi di essere e di agire risultanti

nima di numerosi scritti del deismo inglese, dalla coterie holbachiana vennero com­
pilati numerosi pamphlets antireligiosi. Dopo il 1770 apparvero gli scritti di maggiore
importanza del d'Holbach, anche questi spesso coperti dall'anonimato, o sotto falsa attri­
buzione. Ricordiamo il S3•stème de la nature, Londres 1770 (ed. fotost. G. Olms, Hilde­
sheim 1966); La politique naturelle, ou discours sur les vrais principes du gouver­
nement, London 1773; La morale universelle, ou les devoirs de l'homme fondés sur la
nature, Paris, Balli, 1776. 3 vols.
Un utile repertorio bibliografico è quello di J. VERCRUYSSE, Bibliographie descriptive
des écrits du Baron d'Holbach, Lettres Modernes Minarci, Paris 1971. Utili gli studi di
P. NAVILLE, D'Holbach et la philosopbie scientifique au XVIII• siècle, Gallimard, Pa­
ris 1943, e di V. W. TOPAZIO, D'Holbach's moral pbilosophy: its background and deve­
lopment, Institut et Musée Voltaire, Genève 1956.
ILWMINISMO FRANCESE 43}

dall'organizzazione del nostro corpo, « si riducono a modificazio­


ni, a qualità, a modi d'essere, a cambiamenti prodotti dal movi­
mento nel cervello, che è visibilmente in noi la sede del sentimen­
to ed il principio di tutte le nostre azioni» (ib., I, p. 141). Solo
con una coerente concezione materialistica si può costruire una
morale come scienza: « L'uomo sarà sempre un mistero per coloro
che si ostineranno a studiarlo con gli occhi prevenuti della teologia ,.
o che attribuiranno le sue azioni ad un principio del quale mai pos­
sono avere un'idea. Ma quando noi vorremo conoscere l'uomo, do­
vremo cercare di scoprire le materie che entrano nella sua combi­
nazione e che costituiscono il suo temperamento; queste scoperte
serviranno a farci comprendere la natura e la qualità delle sue pas­
sioni e delle sue inclinazioni ed a prevedere la sua condotta in
determinate occasioni; esse ci indicheranno i rimedi che noi po­
tremo adoperare con successo per correggere i difetti di una orga­
nizzazione viziosa o di un temperamento che è di nocumento sia
alla società sia a chi lo possiede» (ib., I, p. 149).
Come per numerosi altri scrittori dell'illuminismo, anche per
d'Holbach la società è il fondamento della morale. Ne La Morale
universelle la morale è definita come « la scienza dei rapporti che
intercorrono tra gli uomini e dei doveri che conseguono da questi
rapporti » (ib., voi. I, p. 1 ), e nel Système de la Nature la virtù come
« tutto ciò che è veramente e costantemente utile agli esseri della
specie umana che vivono in società» (ib., I, 161). Secondo d'Hol­
bach pertanto occorre agire innanzitutto a livello :fisico per conse­
guire questo bene sociale o morale; il vizio può essere corretto con
una terapia :fisica: « un uomo di temperamento sanguigno, qualora
si nutrisse di cibi meno succulenti o in quantità minore e si astenesse
da liquori forti... potrebbe giungere a correggere la natura, la quanti­
tà, la qualità del movimento del fluido in lui dominante. Un bi­
lioso o un melanconico potrà, con l'aiuto di qualche rimedio, di­
minuire la massa di questo fluido, e correggere il vizio del suo umo-•
re con l'aiuto dell'esercizio, della dissipazione, della gaiezza che
risulta dal movimento ... » (ib., I, p. 150).
Con il d'Holbach abbiamo la risposta affermativa più esplicita
al dibattuto quesito se possa esistere una società di atei. È com­
pito della politica, intesa come « arte di regolare le passioni degli
uomini e di dirigerle verso il bene della società» (ib., I, p. 169),
il raggiungimento di una società :fiorente ed armonica. A questo
4.34 FILOSOFIA MODERNA

scopo essa dovrà servirsi di una accurata educazione del cittadino


(l'educazione « deve seminare nei nostri cuori, coltivare i germi
deposti, incanalare e fortificare le disposizioni e le facoltà che di­
pendono dalle diverse organizzazioni, trattenere il fuoco dell'im­
maginazione [ ... ], fare contrarre agli animi abitudini vantaggiose
per l'individuo e la società» - ib., I, p. 346) e di sagge leggi, evi­
tando l'uso puerile di favole e di menzogne, prime tra queste la
credenza dell'immortalità dell'anima e le sanzioni del mondo fu­
turo (cfr. ib., I, p.320 ss.). L'ipotesi dell'esistenza di Dio, alme­
no a garanzia de1l'ordine morale e sociale, diventa per d'Holbach
perfettamente inutile. L'ateo dunque non è il sapiente isolato,
ma il vero cittadino: « Chi è dunque un ateo? È un uomo
che distrugge delle chimere nocive al genere umano per ricon­
durre gli uomini alla natura, alla esperienza, alla ragione; un uo­
mo che non ha bisogno di ricorrere a potenze ideali per spiegare
le operazioni della natura» (ib., II, p. 315).

9. Jean-Jacques Rousseau

Nel 1749 dall'Accademia di Dijon era stato proposto un te­


ma: « se il progresso delle scienze e delle arti avesse contribuito al
miglioramento dei costumi». JEAN-JACQUES ROUSSEAU 25 rispose
con il suo Discours sur les Sciences et les Arts che, pubblicato nel
1750, valse all'autore - come egli stesso ebbe a dire nell'Avertis-

25 JEAN-JACQUES ROUSSEAU (1712-1778) nato a Ginevra, dopo una giovinezza dif­


ficile ed errabonda, si stabili presso Madame de Warens a Chambéry. Fu una breve pa­
rentesi di serenità. Nel 1740 le sue peregrinazioni ricominciarono: Lione, Parigi, Venezia,
lo videro co=ediografo, pedagogo, segretario, critico d'arte, comp05itore, copi­
sta... Il successo gli arrise solo nel 1750 con il Discorso premiato dall'Accademia
di Digione. Pochi anni dopo però sorsero le polemiche ed il distacco dai circoli illu­
ministici; già il Discours sur l'inégalité del 1755 non riscontrò più comuni consensi. In
un nuovo periodo di isolamento, negli anni 1758-1761, scrisse le sue opere più note: la
Nouvelle Hélo'ise, I'Emile ed il Contrat social. Le sue opere però furono condannate sia
dal Parlamento di Parigi sia dal Consiglio di Ginevra, e contro di lui scrissero i phi­
losophes, da Voltaire a Diderot a d'Holbach. Dor,o nuovi anni di vita errabonda - pas­
sò da Neuchatel, a Bema, a Berlino, a Londra - dal 1770 trovò pace a Parigi, conducendo
una vita anonima. Per vivere ricopiava partiture musicali, dedicando i giorni liberi agli
studi di botanica ed alla composizione dei Dialogues, delle Confessions e delle Réveries
du promeneur solitaire. Mori ad Ermenonville nel 1778.
Opere: numerose sono le raccolte delle opere di Rousseau; tra quelle complete ricor­
do la Collection complète des Oeuvres de J. J. Rousseau citoyen de Genève, par Du
Peiron et P. Moulton, Genève 1780-82, 24 vols. e la recente edizione critica Oeuvres
ILLUMINISMO FRANCESE 435

sement - oltre il premio dell'Accademia, un successo notevole e


l'accoglienza nella società letteraria parigina.
Da uno sguardo sommario alle vicende storiche dei popoli an­
tichi, il Rousseau concludeva la prima parte del Discours facendo
osservare « come il lusso, la dissolutezza e la schiavitù sono stati
in ogni tempo la punizione degli sforzi orgogliosi che noi abbiamo
fatto per uscire dalla felice ignoranza in cui la saggezza eterna ci
aveva posti» (Oeuvr. compi., voi. III, p. 15). La scienza fu
la causa della corruzione di ogni popolo, e non per nulla la « na­
tura ha voluto preservare [l'uomo] dalla scienza, come una
madre allontana un'arma pericolosa dalle mani del suo bambino»
(ibid. ). Le scienze infatti nascono dal vizio ( « l'astronomia è nata
dalla superstizione; l'eloquenza dall'ambizione, dall'odio, dall'adu­
lazione, dalla menzogna; la geometria dall'avarizia; la fisica da una
curiosità vana ; tutte, compresa la stessa morale, dall' orgoglio
umano. La scienza e le arti devono dunque la loro origine ai no­
stri vizi» - Oeuvr. compi., III, 17); hanno per oggetto speci­
fico il vizio ( « senza le ingiustizie degli uomini a che servirebbe la
giurisprudenza? ... » - Oeuvr. compi., ibid.) ed il loro effetto, oltre
alla perdita di tempo e all'indebolimento fisico, non è che l'affievo­
limento del senso morale. Il richiamo è dunque esplicito e pres­
sante alla semplicità incontaminata originaria, a quel mondo « ap­
prestato dalle sole mani della natura» in cui « gli uomini inno­
centi e virtuosi tenevano caro ad avere gli dei per testimoni delle
loro azioni, abitavano insieme sotto le stesse capanne», mentre
col progresso « divenuti cattivi, si seccarono degli dei, incomodi
spettatori, e li relegarono in templi magnifici» ( Oeuvr. compi.
III, 22).

Complètes, par B. Gagnebin et M. Raymond, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1959-69,.


4 vols. (da cui attingo). Per l'epistolario si veda la Co"espondance générale, par Th..
Dufour, Paris 1924-34, in 20 vols., nonché la Correspondance complète, par R. A. Leigh,
Genève 1965 ss., ancora in via di pubblicazione.
Tra le molte traduzioni italiane, si vedano Scritti politici, a cura di P. Alatri, U.T.
E.T., Torino 1970; Scritti politici, a cura di M. Garin, Laterza, Bari 1971, 3 voli.; Opere,
a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972.
Per la bibliografia degli scritti di Rousseau e degli studi su Rousseau si vedano:
TH. DUFOUR, Recherches bibliographiques sur les oeuvres imprimées de J. J. Rousseau,
Giraud-Badin, Paris 1925, 2 vols.; J. SÉNELIER, Bibliographie générale des oeuvres
de J. J. Rousseau, Presses Univers. de France, Paris 1954; A. ScHINZ, État présent des
travaux sur J. J. Rousseau, Soc. d'édition Les Belles Lettres, Paris 1941. Di grand�
utilità sono i volumi degli « Annales de la Société J. J. Rousseau» pubblicati a Gi­
nevra dal 1905.
436 FILOSOFIA MODERNA

Nel Discours sur l'origine et les fondaments de l'inégalité par­


mi les hommes (1755) il medesimo ritorno allo stato naturale ori­
ginario viene esigito per il superamento delle diseguaglianze sorte
nel corso storico. Per conoscere la fonte dell�. diseguaglianza, e
per poter cosi rispondere al nuovo quesito dell'Accademia di Di­
jon se l'ineguaglianza può essere autorizzata dalla legge naturale,
si dovrà delineare il quadro dell'uomo in questo momento primi­
tivo. Poiché i generi di ineguaglianza lamentati riguardano o l'am­
bito fisico o l'ambito etico-politico, Rousseau fa distintamente os­
servare come nell'ideale stato originario di natura minimo fosse
il grado di queste diseguaglianze, e come esse fossero invece sorte
con la società. Già a livello fisico: l'uomo primitivo, per la vita
semplice e naturale che conduceva, aveva un corpo ben più robu­
sto del nostro, meno soggetto a malattie, mentre poi « associando­
si e diventando schiavo, egli diviene debole, timoroso, strisciante;
ed il suo modo di vivere molle ed effeminato finisce per togliere
ogni vigore alla sua forza e al suo coraggio» (Oeuvr. compi., III,
139); e questo in analogia con l'animale, che allo stato di natura
(selvatico) è sempre più forte e robusto di quando vive addome­
sticato. Non solo, « ma è triste dover ammettere che quella fa­
coltà distintiva e pressoché illimitata [ = facoltà di perfeziona­
mento, tipica dell'uomo] è la fonte di tutte le disgrazie dell'uo­
mo» (Oeuvr. compi., III, 142). È infatti questa facoltà - pro­
segue il Rousseau - a staccare l'uomo dalla fase di iniziale inno­
cenza ed uguaglianza, in cui l'uomo era guidato dal puro istinto,
e a portarlo per gradi a diventare « tiranno di se stesso e della
natura» (Ibid. ). Questo istinto primordiale, « che conteneva in
sé tutto ciò che era necessario per vivere nello stato di natura »
(Oeuvr. compl., III, 152), pur precedente ad ogni classificazione
etica, era meno nocivo al bene dell'umanità che le leggi delle so­
cietà evolute. Contro la dottrina politica di Hobbes, dunque, si
leva la sua critica: Hobbes avrebbe si da un lato confutato (con
ragione) gli errori delle moderne dottrine del diritto naturale, ma
« se fosse stato conseguente avrebbe dovuto affermare che, essen-­
do lo stato di natura quello in cui la cura della propria conserva­
zione è la meno pregiudizievole a quella altrui, questo stato dove­
va essere il più idoneo al mantenimento della pace e il più confa­
cente al genere umano » ( Oeuvr. compl., III, 153 ). Originario e
tipico dello stato di natura è infatti « quel sentimento naturale
ILLUMINISMO FRANCESE 437

di pietà che, moderando in ogni individuo l'attività dell'amor pro­


prio, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie» (Oeuvr.
compl., III, 156). La storia della società civile - fin dal primo
momento in cui un uomo « recinse un terreno e dichiarò questo
è mio e trovò persone tanto semplici da credergli» ( Oeuvr. compl.,
III, 164) - è la storia dello sfruttamento, dell'inganno, della
tirannia: « rotta l'uguaglianza segui il disordine più orrendo;
fu cosi che le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le
passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce
ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e
cattivi. [ ... ] La società nascente fece spazio al più orribile stato di
guerra» (Oeuvres compl., III, 176).
Il ritratto dell'umanità che esce dalle pagine del Rousseau,
lontano dal generale ottimismo del Secolo dei lumi, è molto si­
mile a quello pascaliano: la stessa nota di accorato pessimismo vi
domina. « Il Rousseau - fece già notare E. Cassirer - accetta
da Pascal tutte le premesse sulle quali questi aveva fondato i suoi
ragionamenti. Egli non tenta mai di moderarle o di smorzarle; ma
come lui descrive lo stato presente dell'umanità come uno stato
della più profonda decadenza. Ma come riconosce il fenomeno,
dal quale il Pascal era partito, altrettanto decisamente si rifiuta
di accettare il criterio di spiegazione che la mistica e la metafisica
religiosa del Pascal aveva adottato » (La filosofia dell'Illuminismo,
cit., pp. 220-221). La spiegazione teologica pascaliana della corru­
zione originaria del peccato di Adamo e della redenzione nella mor­
te salvifica di Cristo manca in Rousseau; o, meglio, vi si trova un
corrispettivo immanente. L'uomo, dalla sua condizione di originaria
bontà, è stato condotto alla corruzione dall'avvento della civiltà
( « Tout est bien sortant des mains de l'Auteur des choses, tout
dégénère entre les mains de l'homme » sono le celebri parole ini­
ziali dell'Émile che richiamano le tesi dei precedenti Discours);
la corruzione non ha toccato la natura dell'uomo e non è pertanto
richiesto un intervento esterno divino. L'uomo trova in se stesso
la capacità della sua redenzione etica e politica, ritornando, o me­
glio riconquistando, secondo una nuova prospettiva storica, quel­
la fase originaria naturale di incontaminata bontà. Rousseau ben
sa che l'ipotetico tempo dell'innocenza e dell'uguaglianza non può
essere banalmente raggiunto con un ritorno all'età delle caverne,
ma crede in un recupero collettivo (Du contrat socia!) o almeno
438 FILOSOFIA MODERNA

personale (Émile) delle condizioni originarie di innocenza e di pu­


rezza.
Alla base della dottrina politica del Contratto sociale sta
l'esigenza di « trovare una forma di associazione che difenda e
protegga, con tutta la forza comune, la persona e i beni di ogni
associato, e per via della quale ciascuno nell'unirsi a tutti non ob­
bedisca pertanto che a se stesso e resti libero come prima » (Du
contrat social, I, 6 ). Innanzitutto, va osservato, solo un patto può
aver dato o dare origine ad una società, perché nessun uomo può
esercitare autorità su di un altro uomo senza che quest'ultimo
vi acconsenta: « poiché nessun uomo possiede per natura autorità
sul proprio simile, e poiché la forza non dà luogo a diritto alcuno,
non rimangono che le convenzioni come basi di qualsiasi autorità
legittima fra gli uomini » (ib. I, 4 ). Se poi il patto rispetterà l'uma­
na libertà, sarà garantita la dignità originaria dell'uomo e, d'altro
canto, sarà salvaguardata la sua storia dalle calamità conseguenti
alle più svariate forme tiranniche. Nasce con il patto la civitas, in
cui « ciascuno di noi mette in comune la sua persona ed il suo
potere sotto la direzione suprema della volontà generale, e noi
accogliamo inoltre ciascun membro come parte indivisibile del
tutto » (ibid., I, 6 ). Questo patto ora, pur mantenendo il carattere
di « subjectio », con il relativo trasferimento dei propri diritti
originari al sovrano, è un patto non lesivo della dignità e dell'au­
tonomia umana, perché il sovrano non è altro che lo stesso popolo
in quanto esercita la sovranità, cioè l'intero corpo sociale (ib., I,
8). « In luogo di distruggere l'eguaglianza naturale - osserva
Rousseau a conclusione del libro I -, il patto fondamentale so­
stituisce al contrario una eguaglianza morale e legittima a quella
ineguaglianza fisica che la natura poteva aver posto tra gli uomini,
e questi, pur potendo essere ineguali per forza o per intelligenza,
divengono tutti eguali per convenzione e per diritto ». Questo
sovrano dunque persegue nella società il bene comune, superiore
al limitato interesse del singolo, o della fazione, secondo i dettami
di una « volontà generale » che, in quanto tale - lontana cioè
dalle passioni di parte -, non potrà che essere sempre retta e sem­
pre mirante all'utilità pubblica (ib., II, 3 ). Al bene pubblico è li­
mitato il potere del sovrano e nell'obbedienza al sovrano il citta­
dino ritrova e manifesta la sua libertà. « Che cosa è dunque - si
chiede Rousseau - un atto di sovranità? Non è per nulla una
ILLUMINISMO FRANCESE 439

convenzione del superiore con l'inferiore, ma una convenzione del


corpo con ciascuno dei suoi membri »: il cittadino cioè, nell'obbe­
dienza alle leggi, agisce come parte di quel tutto che liberamente
accetta di essere; col patto egli non ha rinunciato alla primitiva li­
bertà, ma non ha fatto che uno « scambio tra la naturale indipen­
denza e la libertà, tra il potere di nuocere agli altri e la sicurezza
propria, e tra la sua forza, che altri poteva sopraffare, e un diritto,
reso invincibile dall'unione sociale » (ib., II, 4 ). Accanto alla li­
bertà, come sua stessa condizione, è rivendicata da Rousseau l'e­
guaglianza: il vero patto e l'intero sistema legislativo deve garan­
tirla: « quanto all'eguaglianza non bisogna intendere con tale pa­
rola che i gradi di potenza e di ricchezza debbono essere assoluta­
mente gli stessi, ma che, quanto alla potenza, essa sia al di sopra
di ogni violenza e non si eserciti mai se non in virtù del grado e
delle leggi, e quanto alla ricchezza che nessun cittadino sia tanto
ricco da poter comprare un suo simile, né tanto povero da essere
costretto a vendersi: tutte cose che suppongono, da parte dei gran­
di, moderazione di ricchezza e di credito, e da parte dei piccoli,
moderazione d'avarizia e di cupidigia » (ib., II, 9).
Al governo ed alle sue varie forme è dedicato il libro III.
Esso è definito come « un corpo intermediario istituito tra sud­
diti e sovrano per le loro reciproche relazioni, incaricato dell'ese­
cuzione della legge e della conservazione della libertà, tanto civi­
le che politica » (ib., III, 1 ). Tutti i teorici della politica si sono
chiesti quale fosse mai la forma ideale di governo: Rousseau, pur
sapendo di essere di fronte ad una « questione insolubile », pone
come condizione ottimale la priorità assoluta della volontà gene­
rale: « in una perfetta legislazione la volontà particolare o indi­
viduale deve essere nulla, la volontà di corpo propria del governo
molto subordinata e, in conseguenza, la volontà generale o sovrana
sempre dominante e regola unica di tutte le altre » (ib., III, 2).
Strettamente a priori non si può definire come forma migliore di
governo una forma particolare, né quella democratica, né quella
aristocratica, né quella monarchica; anzi, secondo motivi di con­
venienza generale, si può affermare che in linea di massima « il
governo democratico convenga ai piccoli stati, l'aristocratico agli
stati di media estensione, il monarchico ai grandi » (ibid). Pen­
sando forse allo stato di Ginevra ed idealizzandolo, Rousseau
traccia un brevissimo ritratto del vero stato democratico, in cui
440 FILOSOFIA MODERNA

si intravede la sua ammirazione per questa forma di governo, pur


celata da una pesante coltre di pessimismo: « Se ci fosse un po­
polo di dei, esso si governerebbe democraticamente. Un governo cosl
perfetto non si conviene a uomini » (ib., III, 4 ). Ogni governo poi
tende a degenerare, e la degenerazione consiste nella sopraffazione
della volontà del corpo di governo (sia esso collegiale o singolo)
sulla volontà generale: allora però il « patto sociale è spezzato ed
i cittadini, rientrati di diritto in possesso della naturale libertà,
sono forzati, non obbligati ad obbedire » (ib., III, 8). A monte di
questo processo di degenerazione, sta, secondo Rousseau, il disin­
teresse per la cosa pubblica da parte del singolo cittadino, perché
« non appena l'attività pubblica cessa d'essere il più importante
affare dei cittadini, ed essi preferiscono offrire il loro denaro piut­
tosto che la loro persona, lo stato è già presso alla rovina»; anche la
rappresentatività parlamentare non è che un espediente di como­
do ed una forma di assenteismo, ma« quel che è certo è che appe­
na un popolo elegge dei rappresentanti, questo popolo non è più
libero, anzi non esiste più» (III, 15).
Al medesimo scopo redentivo è diretta, seppure per via diver­
sa, l'altra famosa opera di Rousseau, l'Émile (1762). Quella con­
formità all'ordine naturale originario, garantita alla collettività da
un autentico patto sociale, può e deve diventare patrimonio indi­
viduale, ad opera di una corretta azione pedagogica. I principi edu­
cativi proposti nell'Émile - e tralasciamo ogni ulteriore valuta­
zione e critica pedagogica - si ispirano dunque all'esigenza fon­
damentale di educazione « naturale ». Primo proposito dell'edu­
cazione è la salvaguardia della libertà naturale del bambino, e poi
dell'uomo, che si esprime già in una iniziale libertà fisica dei mo­
vimenti, dei giochi, delle espressioni: in essi il bambino non deve
sentire che la legge e i rapporti delle cose naturali e non le sovra­
strutture sociali della costrizione e della punizione (cfr. Émile, li­
bro I). Anche la successiva educazione sensoriale, intellettiva, reli­
giosa, politica dovrà sorgere secondo il libero impulso naturale nel
rispetto di una maturazione lenta e graduale: l'azione del pedago­
go, specie nei primi periodi dello sviluppo del ragazzo, dovrà as­
sumere una valenza prevalentemente negativa, da un lato evitando
ogni intervento di stimolazione prematura ed intempestiva, ogni
anticipazione sullo spontaneo sviluppo della natura, ogni influsso
deviatore di una società corrotta, dall'altro sapendo intervenire in-
ILLUMINISMO FRANCESE 441

direttamente mediante la stessa natura ed in conformità ad essa,


facendo cioè in modo che lo stimolo naturale venga recepito col
massimo frutto. La natura pertanto è il vero pedagogo del fanciullo:
egli non dovrà che trovare le condizioni di libertà necessarie
per seguirla. È implicito, in questo rispetto della natura, il rispetto
e la considerazione del bambino come tale, dell'infanzia come mo­
mento autonomo richiedente un intervento educativo non statico,
ma capace di adeguarsi progressivamente, per contenuti e metodi,
alle varie tappe della sua maturazione. Nell'ultima fase della sua
educazione, superati ormai i quindici anni, Emilio si apre alla co­
scienza sociale: dal rapporto unidirezionale con la natura, al rap­
porto plurimo con i suoi consimili. Al mondo sociale e storico egli è
inviato ancora dalla stessa natura, nel tempo da lei prescritto e per
mezzo delle passioni da lei suscitate durante la pubertà. Questi
slanci naturali, che sono le passioni, non sono da eliminarsi, ma
da dirigersi: la pietà, la filantropia, la gratitudine dovranno miti­
gare l'amor proprio e l'ambizione. Non solo più allo spettacolo
del mondo fisico attingerà in questo momento terminale il ragazzo,
ma alle vicende del mondo umano storico, passato e presente:
Emilio è chiamato a diventare marito, padre, cittadino.
Nel libro quarto dell'Émile si trova la nota Professione di fede
del vicario savoiardo, riformulazione accorata delle tesi ormai as­
sodate della religione naturale, rese più vibranti ed attuali nel
momento della loro stesura, momento cioè della rottura di Rous­
seau con il partito dei filosofi (specie Hélvetius e Diderot) ormai
incanalato su posizioni radicali ed atee. Rousseau stesso nella III
Promenade conferma il valore di queste pagine quali somma di lun­
ghe meditazioni precedenti: « il risultato delle mie faticose ricer­
che fu pressoché tale quale lo consegnai in seguito nella Professio­
ne di fede del vicario savoiardo ». Contro la tesi di tinta atea della
materia avente in sé il principio di movimento e di ordine, ritor­
nano le argomentazioni del Bentley, del Clarke e di tutta la tradi­
zione teistica settecentesca sulla finalità della natura e sull'esisten­
za di Dio, sulla passività della materia e sull'immaterialità e im­
mortalità dell'anima umana. « Quali assurde supposizioni - escla­
ma il vicario - per dedurre tutta questa armonia dal cieco mec­
canismo della materia mossa fortuitamente. Coloro che negano la
unità di intento che si manifesta nei rapporti di tutte le parti di
questo grande tutto, possono ben ricoprire le loro scempiaggini
442 FILOSOFIA MODERNA

d'astrazioni, di coordinazioni, di principi generali, di parole em­


blematiche; per quanto essi facciano, mi è impossibile concepire
un sistema di esseri così costantemente ordinati senza concepire
un'intelligenza ordinatrice. Non dipende da me credere che la
materia passiva e morta abbia potuto produrre degli esseri viven­
ti e sensibili, che una fatalità cieca abbia potuto produrre degli es­
seri intelligenti, che ciò che non pensa per nulla abbia potuto pro­
durre degli esseri che pensano » ( Oeuvr. compl., IV, 580 ). Dio
dunque è affermato, è sentito, è esigito dall'ordine e dall'armonia
della natura: « questo essere che vuole e che può, questo essere
attivo per se stesso, questo essere infine - qualunque esso sia -
che muove l'universo ed ordina tutte le cose, io lo chiamo Dio »
(Oeuvr. compl., IV, 581). Al termine del processo evolutivo del­
l'educazione l'uomo scopre l'ordine dei fini e con esso l'ordine re­
ligioso ed etico. Non c'è bisogno di più: è comune a Rousseau l'at­
teggiamento del deismo illuministico: quanto razionalmente rag­
giungibile è sufficiente, anche se è poco. È escluso il ricorso alla
rivelazione, perché essa non può che servirsi di una garanzia uma­
na: « Apostolo della verità - esclama ancora il vicario - che
hai tu dunque da dirmi di cui io non sia giudice? Dio stesso ha
parlato: ascoltate la sua rivelazione! Ma le cose stanno in modo
diverso. Dio ha parlato! Ecco certo una grande parola. E a chi ha
parlato? Ha parlato agli uomini. Perché allora io non ho inteso
nulla? Ha incaricato altri uomini di riferirci la sua parola. Capi­
sco! sono degli uomini che mi diranno ciò che Dio ha detto. Pre­
ferirei aver inteso lo stesso Dio direttamente; in fondo non gli
sarebbe stato più difficoltoso ed io sarei così stato al riparo dal-
1'errore. Ma egli se ne fa garante manifestando la missione dei
suoi inviati. Come? Con dei prodigi. E dove sono questi prodigi?
Nei libri. E chi ha scritto quei libri? Degli uomini. E chi ha visto
questi prodigi? Degli uomini che li attestano. Che! sempre delle
testimonianze umane ! sempre degli uomini che mi raccontano
quanto altri uomini hanno a loro volta raccontato! Quanti uomini
tra Dio e me! » (Oeuvr. compl., IV, 610).
E non pensiamo che ci sia contraddizione tra la libera scoper­
ta religiosa di Emilio e la religione civile - o meglio religione
di stato - del quarto libro del Contra! social. La religione civile
è in fondo l'espressione della comune credenza razionale, della
volontà generale che è stata definita « sempre retta », ed i suoi
ILLUMINISMO FRANCESE 443

dogmi non sono che l'esplicitazione dei capisaldi di un elementare


teismo: « l'esistenza della divinità possente, intelligente, benefica,
previdente e provvida; la vita avvenire, la felicità dei giusti, il ca­
stigo dei cattivi, la santità del contratto sociale e delle leggi » (Du
contr. soc., IV, 8). È inoltre espressione della secolare richiesta della
tolleranza religiosa: « quanto ai dogmi negativi io mi limito ad uno
solo: l'intolleranza » (ibid. ). La religione, nella sua forma più pura e
il governo politico, nella sua forma più razionale e matura, non po­
tranno essere tra loro in lotta: saranno entrambi espressioni con­
vergenti di quella stessa naturale razionalità che guida l'umanità.
Il cristianesimo anche a livello politico - come già a livello di
conoscenza religiosa - ha segnato il suo fallimento: « Gesù ven­
ne a stabilire sulla terra un reame spirituale, cosa che, separando
il sistema teologico da quello politico, fece sl che lo stato cessasse
d'essere uno e causò le divisioni intestine che non hanno mai ces­
sato di agitare i popoli cristiani » (ibid).

10. Il progresso umano: Turgot e Condorcet

Nello stesso anno in cui apparve il Discours sur les Sciences


et les Arts di Rousseau, alla Sorbona RoBERT TuRGOT '}/), noto
economista, studioso di problemi politici e successivamente mini­
stro di Luigi XVI, tenne a chiusura dell'anno accademico un cele­
bre Discours sur les progrès successifs de l'esprit humain. La pro­
spettiva del discorso di Rousseau è qui capovolta. Il solo mondo
umano è per Turgot soggetto di divenire storico; mentre « i feno­
meni della natura, sottomessi a leggi costanti, sono chiusi in un
circolo di rivoluzioni sempre identiche. Tutto rinasce e tutto peri-

25
RoBERT TuRGOT (1727-1781 ), avviato alla carriera ecclesiastica, dopo aver frequen­
tato il seminario di St. Sulpice e la Sorbona, entrò nella carriera amministrativa dello
stato, rivestendo vari incarichi nel Consiglio di Stato, e si interessò di economia po­
litica. Fu ministro delle finanze di Luigi XVI dal 1774 al 1776. Gli ultimi anni della
sua vita furono dedicati a studi matematici e scientifici.
Le sue opere più note sono di economia politica; ricordiamo le Réflexions sur la for­
mation et la distribution des richesses (1766) e le Lettres sur la liberté du commeI:
ce des grains (1770). Ai temi da noi trattati del progresso, della storia, della tol­
leranza sono dedicati il Discours tenuto alla Sorbona (1750), il Pian de deux Discours
sur l'histoire universelle (1751) ed alcune lettere, abbozzi, frammenti, raccolte di pen­
sieri... Attingo dalle Oeuvres de Turgot, Guillamin Libraire, Paris 1844, 2 vols. Una mono­
grafia è quella di P. VIGREUX, Turgot, Paris 1947.
444 FILOSOFIA MODERNA

sce; e in queste generazioni successive, con le quali i vegetali e


gli animali si riproducono, il tempo non fa che ricondurre, in ogni
istante, l'immagine che ha fatto scomparire »; al contrario « la
successione degli uomini offre di secolo in secolo uno spettacolo
sempre diverso. La ragione, le passioni, la libertà producono sen­
za posa nuovi avvenimenti » (Discours, in Oeuvres cit., II, p.
597 ). Turgot sa che questo divenire storico talora può presentar­
si come un regresso verso forme di involuzione e di errore, rico­
nosce che « l'interesse, l'ambizione, la vana gloria cambiano di
continuo la scena del mondo ed inondano la terra di sangue » (ib.,
II, p. 598), ma è altresì convinto, come già Voltaire, che l'alternarsi
delle umane vicende debba di necessità sortire una direzione posi­
tiva. La storia è progresso e l'umanità « in questo succedersi di
paci e di guerre, di prosperità e di calamità, cammina sempre, an­
che se a passi lenti, verso una perfezione maggiore » (ibid. ). Già
in questo discorso - e ritornerà sull'argomento l'anno successi­
vo col suo Plan de deux Discours sur l'Histoire Universelle - il
Turgot cerca di tracciare a larghe pennellate un quadro generale
della storia del progresso umano, tentando di evidenziare il con­
correre positivo o negativo dei suoi vari fattori. Condizioni del
progresso storico sono le risorse naturali da un lato, e le risorse
intellettuali dall'altro: ora « queste risorse della natura ed il ger­
me fecondo delle scienze si trovano ovunque vi siano degli uo­
mini » (Discours, ibid. ). Perché allora non vi fu un uniforme pro­
gresso? Perché il sorgere, il crescere e il perire di tante civiltà?
Perché la disuguaglianza tra le varie nazioni? « La natura non è
dunque ovunque la stessa? E, se essa conduce tutti gli uomini
alle stesse verità, se i loro stessi errori si rassomigliano, perché
non camminano tutti d'un medesimo passo su questa strada che
loro è tracciata? Senza dubbio lo spirito umano racchiude dovun­
que il principio del medesimo progresso; ma la natura, disuguale
nei suoi benefici, ha donato ad alcuni spiriti un'abbondanza di
talenti che ha rifiutato ad altri: le circostanze fanno fruttifi­
care questi talenti o li lasciano infossati nell'oscurità; e dalla va­
rietà infinita di queste circostanze nasce l'ineguaglianza dei pro­
gressi dei popoli » (ib., p. 599). Ogni miglioramento storico è co­
munque non solo proporzionato al grado di splendore della « lu­
mière » intellettuale, ma addirittura da esso dipendente. Questo
grado, poi, non è determinato da pure circostanze fisiche o ambien-
ILLUMINISMO FRANCESE 445

tali, « perché - osserva il Turgot opponendosi a certe conclusioni


deterministiche precipitate - vi sono popoli diversi sotto il me­
desimo clima, e sotto climi completamente diversi si ritrovano
assai spesso popoli di uno stesso carattere e di uno stesso spirito »
(Discours sur l'histoire universelle, ib., II p. 646), ma è una con­
quista umana libera e responsabile: l'impegno nella ricerca scien­
tifica, con l'esclusione di ogni dogmatismo, la cura dell'educazione,
il controllo delle passioni e delle inclinazioni... sono le condizioni
morali indispensabili per il progresso intellettuale e quindi civile
di un popolo. La scelta della stessa religione può influire sul dive­
nire dei lumi. E il Turgot - a differenza del Condorcet - assegna
al cristianesimo un ruolo positivo: il cristianesimo è accolto in
quanto esso stesso è « lumière » destinata a rischiarare un'umanità
che stava camminando verso la dissolutezza e la superstizione:
« Religione santa! potrei forse dimenticare i costumi [da te] per•
fezionati, le tenebre dell'idolatria alfine dissipate, gli uomini ri­
schiarati sulla divinità? » (Discours, ib., II, p. 606). Resta comun-.
que incondizionata e non sminuita l'ammirazione del Turgot per
i progressi più recenti ed i trionfi della ragione: « Tutte le ombre
sono infine fugate. Quale luce brilla da ogni parte! Quale folla di
grandi uomini in tutte le scienze! Quale perfezione la ragione uma­
na ha raggiunto! » (ib., II, p. 610).

Ai plurimi abbozzi di un quadro complessivo e critico del pro­


gresso dello spirito umano tracciati dal Turgot (cfr. anche Oeu­
vres, cit., Il, pp. 668-671), si riallacciò il CoNDORCET n nella ste­
sura della sua Esquisse d'un tableau historique des progrès de

27
MARIE-}EAN-ANT01NE-N1coLAS CARITAT, marchese di CONDORCET (1743-1794), do­
po i primi anni di studio trascorsi presso i Gesuiti di Reims ed il collegio di Navarra,
si stabili a Parigi, nel cui ambiente culturale si rese noto con la presentazione all'Ac­
cademia del suo Essai sur le calcul intégral (1765), guadagnandosi l'amicizia e la prote­
zione di d'Alembert, Helvétius, Turgot e Voltaire. Oltre agli interessi strettamente ma­
tematici, la sua attività si rivolse ai sempre dibattuti temi politici e religiosi, e nel 1774,
con le Lettres d'un théologien à l'auteur du Dictionnaire des trois siècles, si rivelò ar­
dente polemista e difensore della tolleranza. Fu nominato ispettore generale delle monete
durante il ministero Turgot. Nel 1782 entrò a far parte dell'Accademia francese. Dallo
scoppio della Rivoluzione francese fu membro della Comune di Parigi, poi membro e
presidente dell'Assemblea legislativa. La sua opera divenne allora quella di giornalista
e di collaboratore a pubblicazioni periodiche di indole politica ( « Chronique de Paris »,
« Bibliothèque de l'ho=e public » « La bouche de fer » ). Denunciato e ricercato nel
1793 sotto l'accusa di cospirazione contro la repubblica, per circa nove mesi restò rifu­
giato presso Madame Vemet, dove, sotto la minaccia della ghigliottina, compose
446 FILOSOFIA MODERNA

l'esprit humain (1793). Come il Turgot, egli era convinto del


progresso dell'umanità verso la civiltà; pertanto abbozzare la storia
dell'umanità significava per il Condorcet da un lato ripercorrere « il
cammino che [l'umanità] ha seguito, i passi che essa ha fatto verso
la verità o la felicità », e dall'altro prevedere « i mezzi per assicu­
rare o per accelerare i nuovi progressi che la sua natura le permette
ancora di sperare », nella convinzione di un cammino verso una
« perfettibilità indefinita » (Esquisse, ed. cit., pp. 2-3 ).
L'intero arco della storia umana - « storia ipotetica di un po­
polo unico » (ib., p. 8) in marcia verso il suo destino di perfezio­
ne - è diviso in dieci epoche, in funzione non di avvenimenti po­
litici, ma del progresso della scienza, delle arti, delle tecniche. Non ci
fermeremo a discutere sulla validità storiografica di questa classifi­
cazione aprioristica, che dalla comparsa dell'uomo sulla terra rag­
giunge il momento del trionfo completo della ragione, né ad analiz­
zare singolarmente i giudizi perentori, dati secondo il metro di
un'escatologia (la decima epoca, quella dei progressi futuri dello
spirito umano) già in qualche modo anticipata nella sua epoca,
quella post-cartesiana (la nona epoca, che va da Descartes fino alla
formazione della Repubblica francese). Può essere però utile il
rimando alla lettura diretta di quest'opera che veramente si pre­
senta, per la vastità dei temi filosofici, storici, politici, religiosi toc­
cati e per un certo innegabile aspetto eclettico, come il testamento
spirituale dell'illuminismo.
Non la potenza politica della Grecia, né le conquiste dell'Impe­
ro romano interessano il Condorcet, ma il suo sguardo è costante­
mente rivolto allo storico manifestarsi dei lumi della ragione: « Noi
mostreremo come la libertà, le arti, i lumi abbiano contribuito a
mitigare e a migliorare i costumi; faremo vedere come quei vizi dei
Greci, cosl spesso attribuiti agli stessi progressi della loro civiltà,
fossero in effetti quelli dei secoli più barbari, mentre i lumi ed il
culto delle arti li avessero, quando non distrutti, almeno temperati.

I'Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit bumain. Arrestato il 27 marzo
1794, fu trovato morto in carcere il giorno successivo.
Ricordo l'edizione delle Oeuvres de Condorcet, éd. Arago, Paris 1847-49, 12 vols.
Per I'Esquisse ... , mi servo dell'edizione curata da H. O. Prior, Boivin, Paris 1933.
Studi: J. S. ScHAPIRO, Condorcet and the Rise of Liberalism, Octa gon Books, New York
1963; A. CENTO, Condorcet e l'idea del progresso, Parenti, Firenze 1956; M. Gmo, L'idea
di progresso nell'illuminismo francese e tedesco, Ed. di « Filosofia », Torino 1962.
ILWMINISMO FRANCESE 447

Proveremo che quelle declamazioni oratorie contro le scienze e le


arti sono fondate su di un'erronea interpretazione della storia; men­
tre, al contrario, il progresso della virtù abbia sempre accompagnato
quello dei lumi, come il progresso della corruzione abbia sempre se­
guito o annunciato la decadenza dei lumi » (ib., p. 62).
Ai primi parziali trionfi della filosofi.a e della scienza, si oppose
principalmente il cristianesimo, il quale apri, secondo il Con­
dorcet, quella parentesi barbarica medievale, che - eccezion fatta
per brevi e parziali momenti di schiarita - doveva raggiungere il
secolo dell'invenzione della stampa: « Il disprezzo delle scienze
umane fu uno dei primi caratteri del cristianesimo. Esso doveva
vendicarsi degli oltraggi della filosofia; temeva questo spirito di
esame e di dubbio, questa confidenza nella propria ragione, flagel­
lo di tutte le credenze religiose. Anche la luce delle scienze naturali
le era odiosa e sospetta; esse infatti sono dannosissime al successo
dei miracoli, e non c'è nessuna religione che non costringa i suoi
seguaci a trangugiare qualche assurdità fisica. Cosi il trionfo del
cristianesimo fu il segnale dell'intera decadenza delle scienze e
della filosofi.a» (ib., p. 84 ).
Condorcet vive al termine del secolo filosofico, e scrive nel
momento in cui la Rivoluzione francese poteva dare a sperare un
futuro carico di promesse: « le nostre speranze sullo stato futuro
della specie umana possono ridursi a questi tre punti fondamen­
tali: la distruzione dell'ineguaglianza tra le nazioni; i progressi
dell'uguaglianza nel medesimo popolo; infine il perfezionamento
reale dell'uomo» (ib., pp. 203-204 ). Quale garanzia però ci po­
teva mai essere per non restare delusi di simili attese? Il progres­
so dei lumi ed il loro diffondersi nell'età post-cartesiana sono, per
il Condorcet, non solo il merito dichiarato dell'illuminismo, ma
l'indicazione di una direzione di progresso sicuro ed il pegno della
possibilità di questa marcia: « Fino a quest'epoca (la IX) le scienze
non erano state che il patrimonio di qualche uomo; ma già esse
sono divenute patrimonio comune, e si sta avvicinando il momento
in cui i loro elementi, i loro principi, i loro metodi più semplici
diventeranno veramente di dominio del popolo. Allora la loro
applicazione alle arti, la loro influenza sulla giustizia generale de­
gli spiriti sarà d'una utilità veramente universale» (ib., p. 193).
CAPITOLO DICIASSETTE SIMO

G. W. LEIBNIZ
(1646-1716)

La presenza dei due motivi che dominano il pensiero dei se­


coli XVII e XVIII: la nuova scienza e la metafisica tradiziona­
le, si rileva, ancora più evidente forse, e con proprie caratteri­
stiche, in Leibniz. Quest'uomo di vastissimi interessi - dalla
matematica alla logica (è, con Newton, il creatore del calcolo in­
finitesimale, è precursore della moderna logica matematica), dalla
fisica alla metafisica, dalla teologia al diritto e alla storia, - non

* L'edizione completa delle opere di Leibniz è in corso di pubblicazione a cura


dell'Accademia delle Scienze di Berlino: G. W. LEIBNIZ, Samtliche Schriften und
Briefe, Darmstadt, Reichl 1923 ss. Sono usciti finora 14 voli.
Ci sono varie edizioni incomplete: quelle di R. E. Raspe, Amsterdam e Lipsia
1765 (nella quale furono pubblicati per la prima volta i Nouveaux Essais sur l'en­
tendement humain); di L. Dutens, in 6 voli., Ginevra 1768; di J. E. Erdmann, Ber­
lin 1840; di Foucher de Careil, in 7 voli., Parigi 1859 ss. Finché non sarà comple­
tata l'edizione dell'Accademia di Berlino, la migliore edizione è quella curata da C. I.
Gerhardt: G. W. F. LEIBNIZ, Mathematische Schriften, Berlin 1849-1863, 7 voli.;
Philosophische Schriften, Berlin, 1875-1890, 7 voli. (ristampa anastatica: Hildesheim,
Olms, 1960-61). Per gli scritti storico-politici l'edizione più completa è quella di
O. Klopp, Die Werke von Leibniz, Hannover 1864-1884, 10 voli. Alcuni studiosi di
Leibniz hanno pubblicato scritti inediti o dato edizioni migliori di scritti editi:
ricordiamo fra questi: L. Coututat: LEIBNIZ Opuscules et fragments inédits (di lo­
gica), Paris 1903 (ristampa anastatica, Hildesheim, Olms, 1961); P. Schrecker, G. W.
LEIBNIZ Lettres et fragments inédits, Paris, Alcan, 1934. G. Grua: LEIBNIZ Textes
inédits, Paris, P.U.F., 1948, 2 voli.; Y. Belava!, LEIBNIZ, Confessio philosophi, Paris,
Vrin, 1961. A. Robinet ha dato una edizione critica della Monadologia e dei Principi
della natura e della Grazia, Paris, P.U.F., 1954. Testi inediti si trovano pure nel vo­
lume dello stesso A. RoBINET, Malebranche et Leibniz, Paris, Vrin, 1955.
Fra le traduzioni italiane ricordiamo: G. W. LEIBNIZ, Scritti politici e di diritto
naturale a cura di V. Mathieu, Torino, U.T.E.T., 1951; Saggi filosofici e lettere, a
cura di V. Mathieu, Bari, Laterza, 1963; Scritti di logica, a cura di F. BARONE, Bo-
450 FILOSOFIA MODERNA

ha mai esposto il suo pensiero in un'ampia opera sistematica, for­


se per la sua situazione (fu sempre al servizio di principi, uo­
mo di corte, con varie incombenze), forse proprio per la vasti­
tà dei suoi interessi. Ne ha esposto i punti fondamentali in mo­
do chiaro e rigoroso in brevi opere famose come la Monadologia e
i Principi della natura e della Grazia fondati sulla ragione, entram­
be del 1714 ed entrambe pubblicate dopo la sua morte; li ha esposti
meno compiutamente e un po' più distesamente nel Discorso di
metafisica del 1686; ma, se vogliamo trovare gli sviluppi e le giusti­
ficazioni di quei punti fondamentali, dobbiamo ricorrere agli scrit­
ti d'occasione: lettere e osservazioni su opere altrui. Le due ope­
re filosofiche più ampie di Leibniz, i Nuovi saggi sull'intelletto
umano (del 1704, ma postumi) e i Saggi di Teodicea, del 1710,
sono scritti d'occasione.

l. La disputa fra gli antichi e i moderni: filosofia e scienza

In una lettera del 1669 al suo maestro Jakob Thomasius


Leibniz prende posizione nella disputa fra antichi e moderni, scola­
stici e riformatori. Dopo aver distinto Aristotele dai suoi seguaci
scolastici - verso i quali manifesta avversione, in questa lette­
ra, e che accusa di aver male interpretato il maestro - non si
vergogna di dire (dicere non vereor) di aver trovato più verità
nella Fisica di Aristotele che nelle Meditazioni di Cartesio (Saggi
e lettere 1, p. 15). Ed era proprio la fisica quella che dava luogo
alle più gravi obiezioni contro la filosofia di Aristotele. Possia­
mo chiederci dunque che cosa ci trovasse di approvabile Leibniz

logna, Zenichelli, 1968; Scritti filosofici, a cura di D. O. Bianca, Torino, U.T.E.T.,


1967-68, 2 voli.; Teodicea, a cura di V. Mathieu, Bologna, Zanichelli, 1973.
Leibniz - Bibliographie a cura di K. Milller, Frankfurt a. M., Klostermann, 1967.
Su L. dr.: B. RusSELL, A Critical Exposition of the Philosophy of L., Cambridge
1900 (2• ed. col titolo The Philosophy of Leibniz, London, Allen, 1937); L. CouTURAT,
La logique de L. d'après des documents inédits, Paris 1901 (ed. anastatica: Hil­
desheirn, O1.ms, 1961); E. CASSIRER, Leibniz' System in seinen wissenschaftlichen
Grundlagen, Marburg 1902; S. DRAGO DEL BocA, Leibniz, Milano, Bocca 1946; G.
GRuA, Jurisprudence universelle et théodicée selon Leibniz, Paris P.U.F. 1953; G. PRETI,
Il cristianesimo universale di G. W. Leibniz, Milano, Bocca 1953; Y. BELAVAL, Leibniz
critique de Descartes, Paris, Gallimard, 1960; G. MARTIN, Leibniz, Logik und Meta­
physik, 2• ed. Berlin, De Gruyter, 1967; W. JANKE, Leibniz. Die Emendation der Me­
taphysik, Frankfurt a. M., Klostermann, 1963; D. O. BIANCA, Introduzione alla filosofia
di Leibniz, Brescia, La Scuola, 1973.
1 Indicherò cosl il volume curato dal Mathieu: G. W. LEIBNIZ, Saggi filosofici e
lettere, citato.
LEIBNIZ 451

e, per rispondere, ricorderemo che il distacco dalla fisica aristo­


telica si era compiuto in tre momenti: 1) Una fisica che voglia
dire qualcosa di specifico sui fatti naturali, che ci permetta di pre­
vederli e di dominarli, non può adoperare la nozione di forma
sostanziale, perché non sappiamo quali siano le forme sostanzia­
li, le essenze delle cose 2• E non può neppure adoperare nozioni
qualitative, perché delle qualità abbiamo solo sensazioni, « noti­
zie dependenti da più sensi », ma non concetti, non « notizie in­
trinseche ». Una fisica come scienza può adoperare solo le nozioni
di estensione misurabile e di moto locale. 2) In natura esistono
solo estensione e movimento: le qualità sono soggettive. 3) Ne con­
seguiva il dualismo di res extensa e res cogitans svolto nella me­
tafisica cartesiana. Ora Leibniz non crede che il secondo e il terzo
momento siano conseguenze necessarie del primo; che dalla nuo­
va scienza derivino necessariamente le Meditazioni cartesiane. Di­
ce infatti nel Nuovo sistema della natura, del 1695: « M'ero già
molto inoltrato nel paese degli scolastici, allorché le matematiche
e gli autori moderni mi indussero ad uscirne, ancora giovane... Al­
l'inizio, appena liberato dal giogo di Aristotele, m'ero imbattuto
nel vuoto e negli atomi, cose che sono le più adatte a soddisfare
l'immaginazione... » (Saggi e lettere, p. 222). Leibniz allude dun­
que ad una sua formazione scolastica - e ne troviamo le tracce
nella sua dissertazione per il baccalaureato ( 1663) Disputatio me­
taphysica de principio individui (G., IV, 3, pp. 17-26), che tratta
un problema tipicamente scolastico 4 - e ad una sua successiva
adesione al meccanicismo cartesfono. Parlando dei « moderni »

' Si ricordi il passo di Galileo citato sopra a p. 56.


' Indico con G. l'edizione del Gerhardt, Die philosophischen Schriften, von G.
W. LEIBNIZ, citato; il numero romano corrispondente al numero del volume.
• Aristotele aveva detto che la sostanza, la 1tpWTI) oùcrloi: è l'individuo, non l'idea;
ma la « forma » aristotelica è pur sempre, come era l'idea platonica, il principio di
intelligibilità presente nelle cose; di quella intelligibilità che noi esprimiamo con
concetti universali. Di qui la tentazione di identificare forma con universale e di
domandarsi: come mai ci sono molti individui della medesima specie, ossia che han­
no la medesima forma universale? Qual è il principio di individuazione? Si veda per
la storia del problema M. D. RoLAND-GoSSELIN, Le « De ente et essentia » de Saint
Thomas d'Aquin, Paris, Vrin, 1926. Per Tommaso d'Aquino il principio di individua­
zione nel mondo corporeo è la materia signata; nei puri spiriti, gli Angeli, invece ogni
individuo fa specie a sé. Per Duns Scoto, che attribuisce all'universale più realtà di
quanta ne attribuisca S. Tommaso, il problema dell'individuazione si pone per ogni
realtà, anche per le realtà spirituali, e il principio di individuazione è qualcosa di
reale, che non è né materia né forma, ma è ciò per cui la materia e la forma sono
haec materia et haec forma: donde il termine haecceitas. Leibniz è in continua po-
452 FILOSOFIA MODERNA

dice infatti: « I loro eleganti procedimenti per spiegare meccani­


camente la natura mi attrassero e disprezzai con ragione il metodo
di coloro che non impiegano se non forme o facoltà che non inse­
gnano nulla. Ma poi, avendo cercato di approfondire i principi
stessi della meccanica... mi accorsi che non basta considerare uni­
camente una massa estesa, ma occorre impiegare anche il concetto
della forza, che è intelligibilissimo, benché appartenga al dominio
della metafisica » (Saggi e lettere, p. 222). Nelle stesse nozioni
scientifiche dunque sono impliciti concetti che non si riducono a
quelli di estensione e moto locale: l'estensione, che è molteplici­
tà, suppone l'unità; il moto suppone l'azione; c'è dunque nei
corpi un principio di unità e di attività, che è poi quello che
gli scolastici chiamavano forma sostanziale. (Cfr. Saggi e lettere,
pp. 112, 223, 300). Ma questo concetto, che pure è implicito in
quelli della nuova fisica, « non serve a nulla quanto ai particolari
della fisica, e non deve assolutamente essere adoperato per spiega­
re questo o quel fenomeno: in questo i nostri Scolastici hanno sba­
gliato ... credendo di dar conto delle proprietà dei corpi col men­
zionare forme e qualità, senza curarsi di esaminare il modo del lo­
ro operare; come se ci si volesse accontentare di dire che un oro­
logio ha la proprietà orodittica, derivante dalla sua forma, senza
considerare in che cosa questa consista... Ma questo difetto e cat­
tivo uso delle forme non deve farci respingere una cosa la cui co­
noscenza è cosl necessaria in metafisica che, senza di essa, ritengo
non si possano conoscere bene i primi principi, né elevare abba­
stanza la mente alla conoscenza delle nature incorporee e delle me­
raviglie di Dio. Però come un geometra non ha nessun bisogno di
ingarbugliarsi la mente con il famoso labirinto della composizione
del continuo 5, e nessun filosofo morale - e, ancor meno, giure­
consulto o politico - ha bisogno di affaticarsi sulle grandi difficol-

!emica con Duns Scoto (dr. il paragrafo 17 della Disputatio). La sua tesi è: « pnnc1-
pium individuationis est entitas tota» (§§ 3 e 4); cioè: ogni cosa è individua per
tutta se stessa. Infatti una realtà universale sarebbe contraddittoria « quia nulla da­
retur divisio adaequata, daretur anima! nec rationale nec irrationale. Et daretur
motio neque recta neque obliqua» (§ 22). La tesi di Leibniz nella Dissertatio con­
tiene già in nuce il principio dell'identità degli indiscernibili, che Leibniz enuncerà
più tardi.
• Cioè col problema se una grandezza continua sia divisibile all'infinito o sia
composta di semplici (se l'esteso p.es. sia composto di indivisibili, se il tempc sia
composto di istanti).
LEIBNIZ 453

tà che s'incontrano nel conciliare il libero arbitrio con la provvi­


denza divina, perché il geometra può condurre a termine le sue
dimostrazioni, e il politico prendere tutte le sue decisioni senza en­
trare in codesti problemi, che tuttavia non cessano di essere im­
portanti in filosofia e in teologia; allo stesso modo un fisico può ren­
dere ragione dell'esperienza ... senza aver bisogno delle conside­
razioni di ordine generale ». (Discorso di Metafisica, del 1686,
par. 10, in Saggi e Lettere, pp. 112-113. Cfr. Nuovo Sist. della
natura, del 1695, ibid., pp. 222-23) 6• Come aveva dunque già
detto nella Lettera del 1669 a Jakob Thomasius, Leibniz affer­
ma che, se si vogliono spiegare specificamente i fenomeni natu­
rali, bisogna adoperare solo grandezza, figura e movimento (Sag­
gi e lettere, p. 16); e tuttavia una tale spiegazione non conduce
ad una metafisica di tipo cartesiano, anzi si accorda meglio con
la metafisica aristotelica 7•

2. La concezione della sostanza come monade

Leibniz afferma dunque che l'estensione e il moto locale non


danno una spiegazione esauriente della realtà naturale, e che vi è
anche nei corpi qualcosa di analogo allo spirito 8• Questo qual­
cosa è chiamato da Leibniz prima, con termine aristotelico, en­
telechia, poi monade 9• La monade è la realtà fondamentale, la

• È questa la prima distinzione tra filosofia e scienza che mi sia occorso di tro­
vare. Intorno ad un medesimo oggetto, afferma Leibniz, ci sono due tipi di sapere
che rispondono a diversi problemi. Anche Cartesio aveva elaborato una meta.fisica e
una fisica, ma si trattava di due sfere del sapere, aventi oggetti totalmente diversi:
la metafisica ha per oggetto la mens e Dio, la fisica il mondo corporeo; per Leibniz
la medesima realtà è oggetto di considerazioni diverse: una che risale ai principi uni­
versalissimi, ai concetti impliciti anche nelle considerazioni della fisica, ma non da
questa tematizzati, l'altra che descrive ed entro certi limiti spiega come si svolgano
i diversi fenomeni naturali.
7
E questa è una specie di prevaricazione dalla teoria generale esposta sopra,
poiché per sé una fisica come scienza non è né meccanicistica né finalistica, proprio
perché meccanicismo e finalismo non sono teorie scientifiche. Il geometra, per pren­
dere l'esempio leibniziano, dimostra i suoi teoremi nel medesimo modo qualunque
sia la sua teoria sullo spazio e l'estensione, comunque la pensi a proposito del « la­
birinto del continuo».
• « Omne corpus intelligi posse mentem momentaneam seu carentem recorda­
tione » (Lettera ad Arnauld del 1671; G. I., p. 73).
• Il termine monade compare, sembra, per la prima volta in una lettera a Mi­
chelangelo Fardella del 1696. Certo nello scritto del 1698 De ipsa natura etc. (G., IV,
pp. 504-516; Saggi e lettere, pp. 289-306) Leibniz dice: « ... quod Monadis nomine
appellare soleo»; quindi già da un certo tempo doveva usare il termine.
454 FILOSOFIA MODERNA

sostanza individua, semplice, inestesa, principio di attività. Nel


primo paragrafo della Monadologia (1714) Leibniz la definisce
cosi: « La monade ... non è altro che una sostanza semplice, che
entra nei composti; semplice, cioè a dire senza parti ». Nel primo
paragrafo dei Principi della natura e della grazia, che sono del
medesimo anno dice: « La sostanza è un ente capace di azione
(ens vi agendi praeditum). Essa è semplice o composta. Sostanza
semplice è quella che non ha parti. Sostanza composta è l'unione
di sostanze semplici o monadi ».
L'universo è costituito da innumerevoli monadi, distinte fra
loro per grado di perfezione, che vanno dai corpi (da quella che
a torto si chiama materia inerte) a Dio. I corpi sono sostanze
composte, aggregati di monadi; le anime, gli spiriti, sono so­
stanze semplici, ma ogni monade, dalle infime :fino a Dio, è una
e intelligibile. All'universo cartesiano, diviso in due mondi ra­
dicalmente eterogenei, quello delle sostanze estese (che sono sol­
tanto estensione) e delle sostanze pensanti (che sono soltanto
pensiero) si contrappone l'universo leibniziano unitario, pur nel­
la gradazione delle perfezioni: tutte le sostanze partecipano di
una certa unità, attività, intelligibilità: un universo molto più si­
mile a quello aristotelico.

3. Origine del concetto di monade. Origine logica

Se seguiamo dunque storicamente l'origine del concetto di


monade - così come Leibniz ce la indica quando dice che, passato
dalla concezione scolastica a quella cartesiana, trovò poi questa
insufficiente a spiegare la realtà, poiché a fondamento dell'este­
so, che è molteplice, deve stare l'uno, a fondamento del reale de­
ve stare un principio di determinazione e di intelligibilità - se,
dico, seguiamo questo processo, dobbiamo concludere che l'ori­
gine del concetto di monade è una riflessione metafisica. Ci so­
no tuttavia altre interpretazioni sull'origine del concetto di mo­
nade. B. Russell e L. Couturat assegnano origini logiche a questo
concetto: la monade non sarebbe altro che l'ipostatizzazione del
soggetto logico. B. Russell si fonda specialmente sul Discorso di
Metafisica, L. Couturat sull'inedito, da lui pubblicato, che comin-
LEIBNIZ 455

eia con le parole Primae veritates 10• Nel Discorso di metafisica


la sostanza individuale, cioè la realtà che esiste ed agisce, è de­
finita come il soggetto a cui si attribuiscono vari predicati e che
non è predicato di nessun soggetto (Alessandro Magno, per esem­
pio, è soggetto di vari predicati e non è predicato di nessun sog­
getto). « Ora consta (il est constant) che ogni predicazione vera
ha un fondamento nella natura delle cose; e quando una proposi­
zione non è identica, cioè quando il predicato non è compreso
espressamente nel soggetto, occorre che vi sia compreso virtual­
mente ...», sicché « chi intendesse perfettamente la nozione del
soggetto sarebbe anche in grado di giudicare che il predicato gli
appartiene. Ciò posto, possiamo dire che la natura di una sostanza
individuale, o ente completo, è di avere una nozione così per­
fetta, che basti a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati
del soggetto a cui tale nozione si attribuisce» (Saggi e lettere,
pp. 110-111). E Leibniz fa questo esempio: se avessi una nozione
perfetta di Alessandro Magno, come l'ha Dio, avrei potuto preve­
dere tutto quello che egli ha fatto. Da questo concetto della so­
stanza individuale Leibniz trae poi alcune conseguenze che costi­
tuiscono i punti fondamentali del suo sistema. Nel frammento
Primae veritates II Leibniz comincia cosi: « Verità prime sono
quelle che affermano sé di se stesse o negano l'opposto dell'oppo­
sto medesimo», ossia sono identiche, come A è A o A non è
non-A. Il principio di identità, al quale Leibniz riconduce sen­
z'altro il principio di non-contraddizione, è dunque la prima ve­
rità e, insieme, la prima regola di verità, poiché applicato a no­
zioni più determinate dà luogo alle altre verità. Dà luogo alle al­
tre verità mediante la risoluzione (scomposizione) delle nozioni
più determinate in nozioni semplici, finché si trovi, nella risolu­
zione, quella parte della nozione, per dir cosi, identica nel sog­
getto e nel predicato. Leibniz fa questo esempio: la proposizione
' la parte è minore del tutto ' si riduce ad una proposizione iden­
tica quando si definisca ' minore ' ciò che è uguale alla parte di
un'altra cosa. Le proposizioni vere, dunque, sono sempre, o espii-

10 B. Russell pubblicò la sua opera su Leibniz prima che Couturat pubblicasse


il volume La logique de Leibniz e gli Opuscules et fragments inédits, fra i quali si
trova il frammento Primae veritates.
11
In Opuscules et fragments inédits de Leibniz, a cura di L. Couturat, cit., p.
518 e in Saggi e lettere, pp. 70-75.
456 FILOSOFIA MODERNA

citamente o implicitamente, proposizioni identiche: « Sempre, dun­


que, il predicato o conseguente inerisce al soggetto o anteceden­
te» (Saggi e lettere, p. 71). La sostanza-monade, dicono Russell
e Couturat, non è dunque altro che il soggetto logico ipostatiz­
zato u.
Ora da questa prima affermazione Leibniz deduce tutte le te­
si fondamentali della sua metafisica: 2) « Ne nasce infatti imme­
diatamente, continua Leibniz, il noto assioma secondo cui « nulla
è senza ragione» o « nessun effetto è senza causa». Altrimenti si
darebbe una verità incapace di essere dimostrata a priori; tale,
cioè, che non si risolverebbe in verità identiche; e ciò è contro la
natura della verità, che è sempre identica, o esplicitamente o
implicitamente» (ibid. ). Leibniz enuncia qui i due principi fon­
damentali della conoscenza: il principio di identità-non contrad­
dizione, e il principio di ragion sufficiente, di cui riparleremo.
3) « Consegue inoltre di Il non potersi dare in natura due
cose singolari differenti unicamente per numero» (Saggi e lette­
re, p. 71). È questo il principio dell'identità degli indiscerni­
bili, che è in fondo lo stesso principio di identità: ogni cosa
è se stessa e non altra, è determinata fino all'individuazione o,
come diceva Leibniz nella Dissertatio de principio individui, è
individua per tutta se stessa. 4) « Segue pure che non vi sono
denominazioni puramente estrinseche, che non abbiano assolu­
tamente alcun fondamento nella cosa determinata» (ibid. ). Il
che vuol dire: tutto ciò che si può dire con verità di una cosa,
tutti i suoi predicati sono contenuti nella cosa stessa, come Leib­
niz aveva detto definendo la sostanza nel Discorso di metafisica.
Se infatti un predicato fosse totalmente estraneo alla cosa di cui
si dice, la cosa sarebbe sé ed altro insieme - contro il princi­
pio di non-contraddizione. 5) E tuttavia le sostanze singole so-
12
E aggiungono: se Leibniz avesse avuto un'altra logica, se per esempio avesse
considerato non solo le proposizioni che esprimono appartenenza o inerenza del pre­
dicato al soggetto, ma anche le proposizioni che esprimono una relazione, avrebbe
avuto un'altra metafisica. Couturat porta questi esempi: « Il cavallo del cocchiere è
bianco come neve » o «Il cavallo del cocchiere mangia l'avena datagli dal suo pa­
drone » ( La logique de Leibniz, cit., p. 433 }. Ci si potrebbe chiedere tuttavia se pro­
posizioni di questo tipo non presuppongano proposizioni predicative, pur aggiun­
gendovi dell'altro. Non presuppongano ad esempio che il cavallo di cui si parla non
debba essere descritto in un certo modo etc. E questo basterebbe a giustificare l'affer­
mazione leibniziana dell'esistenza di sostanze individuali - affermazione che, come
si dirà, è anche giustificata in altri modi.
LEIBNIZ 457

no in relazione fra loro: ogni sostanza è or1gmariamente in rela­


zione con tutto l'universo, lo riflette, lo esprime in sé, e ne espri­
me la causa prima, che è Dio. Ogni mutamento in una sostanza
si ripercuote quindi in tutto l'universo, ma non perché una so­
stanza in.fluisca dal di fuori sull'altra, ma perché appunto ogni so­
stanza singola esprime in qualche modo in sé tutto l'universo,
sia pure con diversa perfezione (È già la tesi dell'armonia presta­
bilita).

4. Origine metafisica

Torneremo più avanti su queste tesi, ma osserviamo che Leibniz


arriva al concetto di monade anche per altre vie. Nella Monadolo­
gia la monade è presentata come l'unità che sta a fondamento del
molteplice-composto: « È necessario che esistano sostanze sem­
plici, perché esistano i composti; infatti il composto non è altro
che un ammasso o aggregato di semplici (Monadologia, n. 2). Ana­
logamente, in una lettera ad Arnauld, di poco posteriore al Discor­
so di metafisica, nel quale si trova la fondazione « logica» del
concetto di sostanza individuale, Leibniz dice: « Se il corpo è una
sostanza, e non un semplice fenomeno come l'arcobaleno, né un
ente unito per accidens o per aggregazione, come un mucchio di
pietre, esso non può consistere nell'estensione, e si deve necessa­
riamente concepire qualcosa che si chiama forma sostanziale e che
corrisponde in certo modo all'anima» (Saggi e lettere, p. 164). E
in un'altra lettera dell'aprile 1687: « ... credo che laddove non vi
sono che enti per aggregazione non vi siano neppure enti reali;
perché qualsiasi ente per aggregazione suppone enti dotati di una
vera unità, non avendo la sua realtà se non da quella degli enti di
cui si compone» (ibid., p. 185; cfr. anche p. 222). Non c'è il
mucchio di sassi se non ci sono i sassi, e ogni sasso deve essere un
sasso, altrimenti non è neppure un sasso.
Sul concetto della sostanza come unità a fondamento della
molteplicità Leibniz insiste specialmente nell'epistolario con de
Volder 13• All'affermazione leibniziana che l'estensione suppone la

13
Burcher de Volder (1643-1709) era professore di filosofia, fisica e matematica
all'Università di Leida. La discussione fra Leibniz e de Volder fa pensare a quella
fra un fenomenologo e un neopositivista.
458 FILOSOFIA MODERNA

unità, de Volder obietta che il concetto di unità è così generale


che non dice nulla, è un « puro concetto, un ens rationis » (G., Il,
p. 177). Così anche il concetto di soggetto di mutamento è una
« mera nozione logica che non spiega nulla » (ibid. ). Leibniz gli
risponde che non è una nozione logica, un ens rationis, ma una no­
zione metafisica (G., Il, pp. 183 e 186) perché non si riferisce a
un modo di esser pensato, ma alla realtà. Logica o metafisica, ri­
batte de Volder, la nozione di sostanza è così generale che non
spiega nulla (G., II, p. 188); l'estensione è rappresentabile, l'uni­
tà no. Leibniz gli osserva che altro è immaginare altro pensare, e
che quelle nozioni generalissime che de Volder disprezza sono
implicite nelle altre nozioni, meno generali; sembrano non dire
nulla perché sono ovvie, ma da ciò che è ovvio seguono talora
conseguenze importanti: spernimus obvia, ex quibus tamen se­
quuntur non obvia (G., II, pp. 183 e 186). In margine ad una
lettera a de Volder, quasi filo conduttore di tutta la lettera, Leibniz
ha scritto: « La sostanza è un atomo per sé completo o compien­
tesi; dal che segue: un atomo vitale, ossia un atomo che ha una
entelechia. E intendo per atomo [indivisibile] ciò che è vera­
mente uno » 14•
Con de Volder Leibniz insiste specialmente sul concetto di
sostanza come unità: non si può pensare l'esteso-molteplice sen­
za pensare l'uno che sta a fondamento del molteplice; insiste in­
vece sul concetto di sostanza come attività in uno scritto del 1698
De ipsa natura etc. in polemica contro G. Sturm, :fisico e mate­
matico, seguace di Cartesio in filosofia. Secondo Sturm non c'è
nei corpi un principio immanente di attività, ma il moto è stato
comunicato ai corpi inizialmente da Dio, come riteneva Cartesio.
Leibniz domanda: l'azione divina che ha dato origine al moto
lascia inalterata la natura dei corpi o vi lascia una specie di im­
pronta che resta nei corpi? (Saggi e lettere, p. 293 ). La prima
opinione, che è quella di Malebranche, non è accettabile, poiché
« quel comando passato [ quello con cui Dio ha dato inizialmente
il moto] non esistendo più, non può far nulla ora, se allora non
ha lasciato dopo di sé un qualche effetto sussistente, tale che an-

14 « Substantia est &-roµov a:ò-ro1t),ripouv, Atornon per se completum seu ipsum


cornplens, unde sequitur esse Atomon vitale seu Atornon habens i:vn:).éxeia:v. Ato­
mon idem est quod vere unurn ». (G., II, p. 227).
LEIBNIZ 459

che adesso duri e operi» (ibid., p. 294 ). Ora un tale effetto sus­
sistente coincide con quel principio di attività che Leibniz chiama
entelechia o monade. Ma questa specie di impronta lasciata da
Dio nelle cose non è « tra quelle cose che si colgono con l'imma­
ginazione, ma con l'intelletto» (ibid., p. 295). È una condizione
dell'essere delle cose, perché una cosa non può essere senza at­
tività; se Dio fa tutto nelle cose, bisogna concludere che Dio è
tutto nelle cose, e queste diventano solo modi di apparire del­
l'unica sostanza divina, come è stato detto « da uno scrittore sot­
tile, ma empio», cioè Spinoza. (ibid., p. 296 ). Ma poiché Leibniz
ha detto che il negare attività alle cose - come fa Malebranche
- porta a negar loro l'essere, dietro la polemica con Sturm sta
quella con Malebranche, come ha osservato A. Robinet. Se dun­
que, non si può negare alle cose una certa attività, bisogna ammet­
tere che in esse ci sia un principio dell'attività, « una entelechia
prima come principio suscettivo (1tpw1"ov ae:>mx6v) dell'attività »
(ibid., p. 299).
Potremmo chiamare giustificazione metafisica del concetto di
monade questa argomentazione che risale alla monade come unità
a fondamento della molteplicità-estensione, e come principio di
attività a fondamento del moto, e chiederci se essa sia per Leibniz
radicalmente diversa dalla giustificazione logica di cui si è par­
lato prima. Leibniz stesso scrive in una lettera alla duchessa So­
fia di Braunschweig: « j'ay reconnu que la vraye Métaphysique
n'est guères différente de la vraye Logique» (G., IV, p. 292).
Con questo, Leibniz, che nella corrispondenza con de Volder ha
tanta cura di distinguere concetti logici da concetti metafisici, non
voleva identificare logica e metafisica, ma voleva dire che a fon­
damento della logica e della metafisica stanno i medesimi prin­
cipi: di identità-non contraddizione e di ragion sufficiente. Tali
principi non fanno che enunciare i caratteri di ogni realtà, del
reale in quanto tale: ogni realtà è una e determinata; ogni realtà
è intelligibile. E sono i principi della conoscenza perché secondo
Leibniz conoscere non è in ultima analisi se non vedere, manife­
stare come stanno le cose: « ogni predicazione vera ha qualche
fondamento nella natura delle cose» (Saggi e lettere, p. 110).
C'è poi in Leibniz anche una giustificazione « fisica» della
nozione di sostanza come principio di attività: quella cioè che
Leibniz intende trarre dalla sua tesi secondo la quale ciò che si
460 FILOSOFIA MODERNA

conserva nel mondo non è la quantità di moto (mv) come affer­


mava Cartesio, ma la forza viva (m v2 ). Su questo tipo cli giustifi­
cazione insiste M. Guéroult 15, illustrandola con una indagine sto­
rica molto accurata delle polemiche che Leibniz ebbe su questo
punto coi cartesiani e con Huygens. Lo stesso Guéroult però am­
mette che Leibniz ritiene che la dinamica non fondi la sua con­
cezione della sostanza, ma la confermi e la chiarisca 16•

5. I corpi

Ogni sostanza, dunque, anche quelle che chiamiamo inanimate,


è un principio di attività, semplice, inesteso, dotato di percezione.
Si tratta ora di vedere che cosa sia, in questa concezione, il mondo
corporeo.
La materia prima non è altro che l'aspetto di limitazione,
di passività di ogni monade finita; la materia seconda è l'insie­
me di monadi subordinato ad una monade superiore dominante.
In una sostanza corporea, per esempio un animale, Leibniz di­
stingue: il corpo, che è un insieme di monadi, ognuna delle quali
ha la sua materia prima, ossia la sua passività, e l'anima, che è la
monade dominante (Lettera a de Volder del 17O 3; G., II, p. 25 2).
Il corpo è paragonabile ad uno stagno pieno cli pesci (Lettera ad
Amauld del 1686; G., II, p. 76); con questa differenza: che in
uno stagno i pesci vanno ciascuno per conto suo, mentre nel cor­
po di un animale le monadi parziali sono subordinate all'anima,
sicché, sebbene il corpo di un animale perda continuamente del­
le parti e ne acquisti altre - cioè si rinnovi continuamente -
si può dire che resta lo stesso, perché resta sempre in esso il me­
desimo ordine (Lettera a Des Bosses del 1706; G., II, pp. 305-
306).

" Dynamique et métaphysique leibnitiennes, Paris, Les Belles Lettres, 1934.


Guéroult si associa a Lasswitz, Boutroux, Milhaud, Rivaud nel sostenere l'origine
« :fisica » della metafisica leibniziana, contro Russell e Couturat. Direi che il presup­
posto tacito delle due interpretazioni è che la metafisica non possa giustificarsi da
sé, ma sia sempre la proiezione ( e in certo senso la distorsione) o di una fisica o di
una logica.
16 « Leibniz ne prétend pas d'ailleurs avoir tiré de la dynamique toute sa con­
ception de la substance, mais simplement avoir reçu d'elle à cet égard beaucoup de
lwnières nouvelles » (GuÉROULT, op. cit., p. 172).
LEIBNIZ 461

In realtà, dunque, ci sono sostanze inestese variamente ordi­


nate. La massa, ossia l'estensione con la sua antitipia 17, non è che
il modo di apparire a noi di un aggregato di sostanze. Questa è la
tesi che Leibniz ripete innumerevoli volte e in tempi diversi (p. es.
ad Arnauld nel 1687, in Saggi e lettere, p. 206; a de Volder nel
1703, G., 11, p. 252; a Des Bosses nel 1706, G., II, p. 306). Sic­
ché in ultima analisi non vi è differenza per Leibniz tra qualità se­
condarie ed estensione: sia le une come l'altra sono phaenomena
bene fundata, sono il modo di apparire a noi di sostanze che non
sono in sé estese, come non sono colorate e sonore. Il paragone
che Leibniz fa più spesso è quello dell'arcobaleno. Esiste l'arcoba­
leno? Sì, nel senso che non è un'illusione, ma esiste come il mo­
do di apparire all'occhio umano di un aggregato di goccioline d'ac­
qua che riflettono la luce bianca scomponendola. Allo stesso modo
esiste l'esteso: come il modo di apparire alla sensibilità umana di
un aggregato di monadi. Questa teoria è abbastanza vicina a quella
di Berkeley. Lo fa osservare il P. Des Bosses nella sua lettera del
20 settembre 1714 (Saggi e lettere, p. 552). Leibniz però non vuol
saperne di un simile accostamento e risponde sdegnosamente:
« Colui che in Irlanda contesta la realtà dei corpi non sembra ad­
durre ragioni acconce, né chiarire a sufficienza il suo pensiero. So­
spetto che appartenga a quel genere di persone che cercano di ac­
quistare fama con paradossi» (ibid., pp. 553-54).

6. Spazio e tempo

Sulla natura dello spazio e del tempo Leibniz ebbe una discus­
sione epistolare con Clarke 18, che sosteneva la teoria del suo mae­
stro Newton. L'estensione dei corpi, abbiamo detto, è per Leibniz
un phaenomenon bene fundatum, la nozione di uno spazio unico

17 Antitipia è l'impossi�ilit,� che l'es!e.s� ha di a�ette�e u� altro estes? n1


luogo dove esso si trova: e I unpenetrabilità, ma spogliata d1 ogm carattere di resi-
stenza attiva.
18 È tradotta in Saggi e lettere, pp. 387467; edizione critica a cura di A. R0-
BINET: Correspondance Leibniz-Clarke présentée d'après !es manuscrits originaux des
Bibliothèques de Hanovre et de Londres, Paris, P.U.F., 1957. La corrispondenza è de­
gli ultimi anni della vita di 1:,eib!llZ ( 1715-16) . e riflette una situazi�ne . triste P:r il
filosofo. Giorgio di Hannover, il signore alla cu1 corte era addetto Le16mz, era diven­
tato re d'Inghilterra, e Leibniz si era adoperato diplomaticamente con grande impe-
462 FILOSOFIA MODERNA

e infinito è un « idolo », una immaginazione: lo spazio è una re­


lazione, è « l'ordine delle coesistenze, allo stesso modo che il tem­
po è l'ordine delle successioni. Infatti lo spazio segna, in termini
di possibilità, l'ordine di quelle cose che esistono nello stesso tem­
po, in quanto esse esistono insieme...» (Saggi e lettere, p. 400). E
spiega poi: « Ecco come gli uomini giungono a formarsi il concetto
dello spazio. Essi considerano che più cose esistono insieme, e tro­
vano tra esse un ordine di coesistenza, secondo cui il rapporto del­
le une con le altre è più o meno semplice: è la loro situazione o di­
stanza». (Saggi e lettere, pp. 441-42). Il moto è la variazione
nelle distanze, e all'obiezione che, senza ammettere uno spazio
assoluto, non si potrebbe determinare quale è in moto di due
corpi fra i quali varia la distanza ( è in moto la nave verso il por­
to o il porto verso la nave? ) Leibniz risponde: « Quando avvie­
ne che uno dei coesistenti muti il suo rapporto con più altri,
senza che questi mutino il loro rapporto fra loro... un tal cangia­
mento vien chiamato movimento, ed è attribuito a quello in cui
risiede la causa immediata del cangiamento» (ibid. ). Anche Newton,
del resto, aveva ammesso che per determinare qual sia il cor­
po che si muove bisogna considerare « le forze impresse nei cor­
pi per generare il movimento» (Principi, trad. Pala, p. 108).
Il luogo occupato dai corpi è il rapporto che essi hanno con gli
altri. « Ciò che comprende tutti questi luoghi viene chiamato
spazio. Il che mostra che, per aver l'idea del luogo, e quindi del­
lo spazio, bisogna considerare quei rapporti e le regole del lo­
ro mutamento, senza bisogno d'immaginare alcuna realtà assolu­
ta... Infine: spazio è ciò che risulta dai luoghi presi insieme»
(Saggi e lettere, p. 442).
A Clarke che, per illustrare la teoria di Newton, diceva che

gno per ottenere questo risultato: era stato un servitore fedele del suo principe, ma
il suo principe non se ne ricordò quando ebbe ottenuto quello che voleva, e giunto
in Inghilterra, cercò sopra tutto di ingraziarsi gli inglesi. Colmò, giustamente, di ono­
ri Newton, ma, meno giustamente, non si curò di difendere la fama scientifica di
Leibniz contro i detrattori di lui. La ruggine, poi addirittura l'inimicizia fra Leibniz
e Newton era sorta a proposito del calcolo infinitesimale: chi dei due fosse stato
il primo a scoprirlo. Nel 1712 la Royal Society aveva dato torto a Leibniz; ma la
controversia, come spesso succede, non si limitò ei problemi scientifici, e ognuno
dei due avversari accusò l'altro di empietà, come si vede dal riassunto della prima
lettera e dalla risposta di Oarke. Storicamente la controversia è importante special­
mente per la discussione sullo spazio e sul tempo, dalla quale prese avvio la teoria
di Kant.
LEIBNIZ 463

lo spazio non è una sostanza, ma una proprietà, Leibniz domanda:


proprietà di che cosa? « Non sembra ragionevole dire che questo
spazio vuoto, rotondo o quadrato, sia una proprietà di Dio »
(ibid., p. 440 ).
La teoria di Leibniz è indubbiamente più moderna, più in
armonia con le teorie fisiche contemporanee, di quella di Newton,
come osserva H. Reichenbach 19•

7. Vinculum substantiale

Il punto centrale dell'epistolario con Des Bosses (G., II, pp.


285-521, riportato largamente in Saggi e lettere, pp. 479-574) è
quello che riguarda il vincolo sostanziale fra le monadi. Leibniz
aveva detto che ogni sostanza composta (come sono un uomo,
un animale, una pianta) è un insieme di monadi unificato da una
monade dominante (che nell'uomo è l'anima spirituale). Come
va inteso questo vincolo fra le monadi? È tale da permettere la
sostanzialità del composto (e non solo delle parti componenti)?
Il problema si fa più acuto nell'epistolario con Des Bosses per
i rapporti che ha con la teologia della Eucaristia, col dogma della
transustanziazione. I cattolici infatti affermano che nell'Eucari­
stia la sostanza del pane si muta in quella del Corpo di Cristo;
come è conciliabile questo dogma con la concezione leibniziana
della sostanza composta? Leibniz era luterano e non credeva alla
transustanziazione, ma non voleva che la sua filosofia fosse inac­
cettabile per un cattolico, quindi, con spirito ecumenico, si preoc­
cupa del problema e finisce con l'affermare che il vincolo fra le
monadi che costituiscono una sostanza composta è indistruttibile
naturalmente. « Quindi la sostanza corporea, o vincolo sostan­
ziale delle monadi, sebbene naturalmente o fisicamente richieda
le monadi, dato che, tuttavia, non si trova in esse come in un sog­
getto, non le richiede metafisicamente, e perciò, ferme restando
le monadi, potrà esser mutato o distrutto, e venire adattato a mo­
nadi naturalmente non sue, sì da divenire il loro vincolo » (Sag­
gi e lettere, p. 549).

19 La teoria del moto secondo Newton, Leibniz e Huygens, nel voi. La nuova
filosofia della scienza, Milano, Bompiani, 1968, pp. 69-97.
464 FILOSOFIA MODERNA

8. Caratteri della monade


Leibniz afferma che ogni monade è ingenerabile e indistrutti­
bile perché, non avendo parti, è indecomponibile, per dir così. E
ogni monade è dotata di percezione. Ma poiché egli ripete innu­
merevoli volte che percezione non equivale a coscienza, occorre
precisare che cosa egli intenda per percezione. Da una lettera ad
Arnauld del 9 ottobre 1687 sembra che percezione significhi sol­
tanto principio di unità del molteplice. Dice infatti Leibniz: « ... mi
sembra che si possa concepire che i fenomeni divisibili, o di più en­
ti, possano essere espressi o rappresentati in un solo ente indivisi­
bile: e questo basta per concepire una percezione, senza che sia ne­
cessario annettere a tale rappresentazione il pensiero o la riflessio­
ne» (Saggi e lettere, p. 209). E poco prima aveva detto: « Una
cosa "esprime " un'altra, nel mio linguaggio, quando c'è un rap­
porto costante e regolato fra ciò che si può dire dell'una e dell'al­
tra. In questo senso una proiezione di prospettiva esprime il suo
piano geometrico» (ibid., p. 198). In una lettera a Des Bosses
dell'll luglio 1706 dice: « Poiché la percezione non è altro che
l'espressione del molteplice nell'uno (expressio multorum in uno),
è necessario che tutte le entelechie o monadi siano dotate di perce­
zione» (G., II, p. 311). Sicché mi sembra che il termine ' perce­
zione ' non indichi nulla di più del termine entelechia o monade;
o piuttosto, mentre questi ultimi termini si riferiscono alla sostan­
za, la percezione si riferisce alla qualità caratteristica della mona­
de. Per far capire cosa intenda per ' percezione ' Leibniz fa spesso
l'esempio delle percezioni inconsapevoli, come quelle del rumore
di un fiume al quale abitiamo vicini; di tutti i piccoli rumori che
danno luogo al muggito del mare - piccoli rumori parziali dei qua­
li non abbiamo coscienza separatamente -. Altro esempio: « Ab­
biamo in noi stessi esperienza di certi stati nei quali non ci ricor­
diamo di nulla e non abbiamo nessuna percezione distinta, co­
me quando ci coglie uno svenimento o quando siamo immersi in
un profondo sonno senza sogni. In tali condizioni l'anima non
differisce sensibilmente da una semplice monade, ma poiché nel­
l'anima questi stati non sono durevoli, ed ella se ne libera, l'ani­
ma è qualche cosa di più» (Monadol., n. 20). Alla percezione
consapevole Leibniz riserva il nome di appercezione, e questa non
è propria di tutte le monadi, ma solo delle anime.
LEIBNIZ 465

9. L'armonia prestabilita

Le monadi sono qualitativamente diverse, ovvero c'è una ge­


rarchia fra le monadi, da quelle dotate solo di percezione a quelle
dotate di appercezione. Queste ultime poi, alle quali Leibniz riserva
il nome di anime, possono essere dotate o solo di sensibilità, come
le anime degli animali, o anche di intelligenza, come le anime
umane. Leibniz non crede infatti che gli animali bruti siano pure
macchine, come credeva Cartesio; che abbiano un'anima non si
può dimostrare, ma è « moralmente certo» (Lettera a Des Bosses.
in Saggi e lettere, p. 492. Cfr. Sull'anima delle bestie, in Saggi
e lettere, pp. 348-53).
Per la loro inestensione, le monadi non possono essere in con­
tatto fra loro, né subire trasposizioni di parti nel loro interno: « Le
monadi non hanno finestre dalle quali possa entrare o uscire qual­
che cosa» (Monadologia, n. 7). Eppure il mondo non è un caos di
enti estranei l'uno all'altro perché vige fra le monadi una armonia
prestabilita. Questa dottrina ha un significato più ampio ed uno più
ristretto: nel significato più ampio è una teoria metafisica generale;
nel significato più ristretto spiega i rapporti fra anima e corpo nel­
l'uomo, e quest'ultimo è l'aspetto più noto della dottrina. Il proble­
ma dei rapporti fra anima e corpo era infatti reso particolarmente
vivo dal dualismo cartesiano. Leibniz distingue tre soluzioni del pro­
blema (Cfr. G., IV, pp. 498 e 500): 1) teoria dell'influsso reciproco.
che egli stranamente 20 attribuisce agli scolastici, 2) teoria delle causi!
occasionali, sostenuta da Malebranche, 3) teoria dell'armonia pre­
stabilita, che è la sua. Nel Nuovo sistema della natura Leibniz spie­
ga l'origine della propria teoria dicendo che, dopo aver concepito
la sostanza come monade, credeva di essere già arrivato in porto
quando il problema dei rapporti fra anima e corpo lo fece tornare
in alto mare. « Su questo punto Cartesio aveva abbandonato la par­
tita...» e i suoi seguaci (Malebranche) escogitarono la teoria delle
cause occasionali (Saggi e lettere, p. 228 ). La teoria dell'armonia
prestabilita è presentata qui come una generalizzazione di quella
occasionalistica: anziché fare intervenire Dio con un'azione parti-

20 Stranamente, poiché agli scolastici, che concepivano l'anima come forma so­
stanziale del corpo, non si pone affatto il problema dei loro rapporti, perché anima e
corpo non sono due sostanze, ma due componenti di quel tutto che è l'uomo.
466 FILOSOFIA MODERNA

colare, ad ogni momento, è più ragionevole ammettere che egli ab­


bia creato tutte le monadi in modo che armonizzino fra loro, si
che ad un moto dell'anima, per esempio a una volizione, corrispon­
da un moto o un insieme di moti del corpo, e, viceversa, a un moto
del corpo, per esempio ad un urto subito, corrisponda un dolore
nell'anima. Leibniz ricorre spesso al paragone dei due orologi co­
struiti dall'artefice in modo da essere perfettamente sincronizzati,
senza che però in.fluiscano l'uno sull'altro.
Il problema posto dal dualismo cartesiano offre poi a Leibniz
l'occasione di applicare al rapporto anima-corpo la tesi generale
sulla comunicazione fra le sostanze (e questo è il significato più am­
pio dell'armonia prestabilita). Nel Discorso di metafisica si vede co­
me la tesi generale dell'armonia prestabilita nasca dalla concezione
della sostanza come realtà che contiene in sé la ragione di tutti i suoi
attributi. Tutto ciò che si può predicare della sostanza, anche ciò
che appare come un evento, non è qualcosa che accada alla sostanza,
ma è conseguenza della sua natura. Il passaggio del Rubicone non è
qualcosa che accada a Cesare, ma è legato necessariamente con Ce­
sare. Si capisce quindi che le monadi non abbiano finestre: tutto
viene ad esse dal di dentro, per dir cosi. Ma le monadi sono create
da Dio, hanno, per dir cosi, una finestra aperta verso Dio, e quindi
sono armonizzate fra loro.

1 O. Teoria della conoscenza

Prima di vedere come Leibniz dimostri l'esistenza di Dio e con­


cepisca i rapporti fra Dio e mondo è opportuno esporre brevemen­
te la sua teoria della conoscenza, nella quale egli si distingue sia da
Cartesio come da Locke, coi quali polemizza. A Cartesio 21 obietta
che il criterio dell'evidenza è troppo semplicistico: non basta dire
che è vero tutto ciò che percepisco chiaramente e distintamente:
bisogna anche spiegare che cosa sia chiaro e distinto (G., IV, pp.
328, 331 ). Cartesio non spiega neppure cosa intenda con l'analisi,
la sintesi e l'enumerazione completa, delle quali parla nelle altre
tre regole del metodo (G., IV, p. 331). Del resto le regole carte-

21 I principali scritti polemici contro Cartesio sono raccolti nel IV volume del-
1'edizione Gerhardt, pp. 274406.
LEIBNIZ 467

siane del metodo somigliano a quella cli un tal chimico che diceva:
« prendi quello che devi, opera come devi, e otterrai ciò che desi­
deri» (G., IV, p. 329). Il dubbio metodico è una inutile cerimonia
(G., IV, p. 327); il cogito è una verità immediatamente evidente;
bisogna però aggiungere: varia a me cogitantur 22 (G., IV, p. 357);
inoltre, come il cogito è la prima verità evidente nell'ordine delle
verità cli fatto, cosi il principio di non-contraddizione è la prima
verità cli ragione, senza la quale non si può fare nessun ragiona­
mento, e quindi neppure dimostrare l'esistenza cli Dio (G., IV,
p. 327).
Nell'opuscolo Sulla conoscenza, la verità e le idee, del 1684,
( tradotto in Saggi e lettere, pp. 95-101) Leibniz distingue, se­
condo il loro grado cli perfezione, vari tipi cli conoscenza. « Oscura
è la nozione che non basta a far riconoscere la cosa rappresentata: co­
me quando, poniamo, ricordo un qualche fiore o animale visto una
volta, ma non a sufficienza per riconoscerlo quando mi sia presen­
tato, e distinguerlo da un altro simile ... Chiara è dunque una cono­
scenza, quando ho un fondamento su cui riconoscere la cosa rap­
presentata. Una tal conoscenza [la conoscenza chiara] può essere,
a sua volta, confusa o distinta: confusa, quando io non sia in grado
di enumerare separatamente i caratteri sufficienti a distinguere
quella cosa dalle altre... Così sappiamo riconoscere abbastanza
chiaramente e distinguere l'uno dall'altro i colori, i sapori, gli odo­
ri,... ma per la semplice attestazione dei sensi, non per caratteri
che si lascino dichiarare 23; per questo né possiamo spiegare a un
cieco che cosa sia il rosso, né chiarire ad altri tali oggetti se non
portandoli in loro presenza» (Saggi e lettere, pp. 95-96). Tali no­
zioni sono dunque chiare, ma confuse. Distinte sono le nozioni che
includono i caratteri essenziali dell'oggetto, come quelle cli numero,
grandezza, figura (ibid. ). Ci sono anche nozioni distinte indefinibili:
sono « le nozioni primitive, che sono il carattere distintivo cli se
stesse», cioè sono irresolubili. Leibniz qui non fa esempi, ma cre­
do si potrebbe esemplificare con le nozioni cli uno e cli essere. Quan­
do poi tutti i caratteri che entrano a formare una nozione distinta

22 Il che fa pensare alla espressione di Husserl per formulare la prima verità


evidente: ego cogito cogitata.
23
Si noti l'analogia con quello che Galileo dice ne Le macchie solari. Cfr. so­
pra, p. 56.
468 FILOSOFIA MODERNA

sono a loro volta distinti, cioè « quando l'analisi sia stata condotta
fino in fondo, la conoscenza è adeguata » (ibid. ). Leibniz aggiunge
che forse nella conoscenza umana non si dànno nozioni adeguate;
le più vicine a questo ideale sono le nozioni dei numeri. Non sem­
pre possiamo intuire la realtà dell'oggetto pensato (per esempio
quando l'oggetto pensato è il chiliogono); ci serviamo allora di se­
gni, ed abbiamo una conoscenza simbolica. La conoscenza simbolica
suppone però la conoscenza intuitiva, e si fonda su questa. Per ave­
re, ad esempio, la nozione simbolica del chiliogono o poligono di
mille lati, dobbiamo avere le nozioni intuitive di unità e di linea.
Idea vera è l'idea di una realtà possibile, idea falsa quella che
unisce elementi contraddittorii. La possibilità, poi, può essere co­
nosciuta a priori o a posteriori: a posteriori « quando abbiamo
esperienza che la cosa esiste attualmente, dato che tutto ciò che
esiste o è esistito attualmente è possibile» (op. cit., p. 99). La co­
noscenza a priori della possibilità sembra ridursi per Leibniz alla
conoscenza della non contraddizione. Leibniz ammonisce tuttavia
a non appellarsi troppo facilmente alle idee, senza provarle sulla
pietra dell'esperienza.

11. Contro Locke

Il che non vuol dire però che egli accetti la tesi lockiana che
ogni conoscenza deriva dall'esperienza. Alla discussione delle teo­
rie di Locke Leibniz dedicò i Nuovi saggi sull'intelletto umano. Del
Saggio sull'intelletto umano di Locke, pubblicato nel 1690, Leibniz
si era interessato fin dal 1693 e aveva scritto alcune brevi osserva­
zioni (G., V, pp. 14-15) mandate a Burnett e lette da Locke, che
però non vi aveva trovato nulla di speciale. Nel 1698 Leibniz scris­
se altre osservazioni (Echantillon de réftexions sur le Ier livre de
l'Essay etc. (G., V, pp. 20-24) che ampliò fra il 1703 e il 1704 e
che divennero i Nuovi Saggi. Ma nel 1704 morl Locke, e Leibniz
non volle pubblicarli perché non gli sembrò opportuno esporre obie­
zioni a chi ormai non poteva rispondere (G., V, p. 9). Cosl i Nuo­
vi Saggi furono pubblicati postumi nel 1765.
Leibniz comincia, già nel Proemio, a discutere la negazione
lockiana dell'innatismo: si tratta di vedere « se tutte le veri­
tà provengano dall'esperienza, cioè dall'induzione e dagli esem-
LEIBNIZ 469

pi, o se alcune abbiano un altro fondamento» (G., V, p. 42).


Ora, osserva Leibniz, l'esperienza e l'induzione non bastano a
fondare la necessità di una proposizione, « donde appare che le
verità necessarie, come quelle che si trovano nella matematica
pura, e particolarmente nell'aritmetica e nella geometria, devono
avere dei principi la cui prova non dipenda dagli esempi, né per
conseguenza dalla testimonianza dei sensi... » (G., V, p. 43 ).
È vero, aggiunge Leibniz, che queste verità non si intuiscono di
colpo, non si leggono nell'anima come si legge nell'albo l'edit­
to del pretore, ma esse presuppongono pur sempre qualcosa che
non è puro dato di esperienza. Ed è la conoscenza delle verità
necessarie quella che distingue l'uomo dalle bestie. Del resto
anche Locke ammette, oltre la sensazione, la riflessione come
fonte di conoscenza; e la riflessione non consiste forse nel trova­
re in sé certe idee? « ... Come si può negare che vi sia molto di
innato nel nostro spirito, poiché siamo, per dir cosl, innati a
noi stessi? » (G., V, p. 45). Vi è in noi essere, unità, sostanza,
durata, e noi possiamo apprendere in noi stessi queste realtà e
formarcene le idee: « perché meravigliarsi se diciamo che queste
idee ci sono innate? » (ibid. ). Ma ci sono innate virtualmente,
come una statua potrebbe esser presente in un blocco di marmo
le cui venature disegnassero già in qualche modo la figura della
statua. E qui Leibniz fa appello al suo concetto di monade e di
percezione inconsapevole. « Credo che tutti i pensieri e le azioni
della nostra anima vengano dal suo intimo, senza che possano
esserle dati dai sensi [ ... ] sebbene i sensi ci diano l'occasione
di accorgercene» (N.S., I, 1, 1, 24; G., V, pp. 66-67). Locke
aveva detto che oggetto immediato della nostra conoscenza è l'i­
dea; Leibniz precisa: l'idea è l'oggetto interno, che è « espres­
sione della natura o delle qualità delle cose. Gli oggetti ester­
ni sensibili sono solo oggetti mediati, perché non possono agi­
re immediatamente sull'anima. Dio solo è l'oggetto esterno im­
mediato. Si potrebbe dire che l'anima è a sé oggetto immedia­
to interno; ma è tale in quanto contiene le idee, che corrispon­
dono alle cose. L'anima è infatti un microcosmo, nel quale le idee

2
• Abbrevio con N.S. il titolo Nuovi Saggi; il numero romano indica il libro,
il primo numero arabo il capitolo, il secondo numero arabo il paragrafo; il lettore
potrà quindi ritrovare facilmente il passo nella traduzione italiana edita dalla U.T.E.T.
470 FILOSOFIA MODERNA

distinte sono una rappresentazione di Dio, le idee confuse sono


una rappresentazione dell'universo» (N.S., II, 1, 1; G., V, p. 99.
Sottolineatura mia). Col suo concetto di virtualità Leibniz inter­
preta anche la tesi cartesiana, rifiutata da Locke, che l'anima pen­
sa sempre: si pensa sempre virtualmente; quindi il fatto che non
si ha coscienza di pensare ( qu'on ne s'aperçoit pas de la pensée)
non prova che il pensiero venga meno (N.S., II, 1, 10; G., V,
p. 102).
Locke distingue le idee, che sono in noi, dalle qualità delle
cose, ma suddistingue queste ultime in qualità primarie e secon­
darie. La distinzione (anche se con altri termini) si capisce bene
in Galileo e in Cartesio, per i quali le qualità primarie sono l'in­
telligibile, le qualità secondarie il sensibile; ma si capisce meno
bene in Locke; ora Leibniz torna al criterio galileiano-cartesiano
di distinzione: « Credo si possa dire che, quando la potenza [dei
corpi di produrre idee in noi] è intelligibile, e può spiegarsi di­
stintamente, deve essere annoverata fra le qualità primarie; quan­
do invece è soltanto sensibile e non dà luogo se non ad un'idea
confusa, bisognerà metterla fra le qualità secondarie» (N.S., II,
8, 9; G., V, pp. 117-18). Quanto all'oggettività, Leibniz è pro­
penso a mettere sul medesimo piano qualità primarie e seconda­
rie, e si capisce, poiché per lui l'estensione è un phaenomenon
bene fundatum, è anch'essa il modo di apparire a noi della realtà.

12. Le nozioni universali e la conoscenza


delle essenze specifiche

Due altri problemi, nel secondo e nel terzo libro, hanno un


particolare interesse: quello delle « idee generali» e quello del­
la sostanza; problemi del resto connessi, poiché Locke, parlando
della sostanza, parla dell'essenza specifica e parlando delle nozio­
ni universali si riferisce pure all'essenza specifica. A proposito
della sostanza Leibniz osserva che noi non cogliamo qualità stac­
cate - colore, calore, luce ecc., - che si debbano poi immaginare
appoggiate ad un « ignoto sostegno», ma cogliamo originariamen­
te un concretum - caldo, lucente, colorato - ossia una medesima
realtà che ci si presenta sotto vari aspetti, un soggetto con di­
versi predicati. Termini come substrato o sostegno sono solo
LEIBNIZ 471

espressioni metaforiche per indicare il concreto (N.S., II, 23, l;


G., V, pp. 201-202). Né c'è da stupirsi se l'idea di sostanza è
vuota, poiché distinguendo, nel concreto, il soggetto dai suoi
predicati, ii soggetto resta privo dei predicati: ma la distinzio­
ne, l'astrazione, l'abbiamo fatta noi. Si potrebbe muovere la me­
desima difficoltà a proposito dell'essere in generale, eppure que­
sta è una nozione fondamentale in filosofia. Ma la difficoltà di
Locke dipende, osserva a più riprese Leibniz, (p. es. N.S., II, 29,
13; G., V, p. 242) dal confondere immagine con idea. Il crite­
rio per sapere se abbiamo o no un'idea non è quello di provare
ad immaginarla, ma di vedere se abbiamo modo di ricavarne a
priori delle verità (N.S., II, 23, 4; G., V, p. 203). E questo si
può vedere a proposito dei concetti matematici: a Filalete (Lo­
cke) che dice: non abbiamo l'idea di un poligono di mille lati,
Teofilo (Leibniz) risponde che ne abbiamo un'idea distinta, anche
se non possiamo immaginarlo, poiché possiamo dimostrare di es­
so molte verità (N.S., II, 29, 13; G., V, p. 243).
Il problema della sostanza, dicevo, è connesso, anzi talora
sembra identificato con quello dell'essenza specifica; conoscere
la sostanza, averne un'idea, equivale per Locke a conoscere la es­
senza specifica di una cosa, a conoscere che cosa fa sl che una
determinata cosa sia tale (sia oro, o gatto, o uomo). Perciò il
problema della sostanza si connette con quello dei concetti uni­
versali, del significato dei « termini generali ». Leibniz afferma
che le nozioni universali non sono la somma di tante idee parti­
colari, ma esprimono un modo originario di apprendere le cose:
un modo che le coglie precisamente sotto un aspetto universale,
tant'è vero che « anche i nomi propri sono stati ordinariamente
appellativi, ossia generali nella loro origine, come Bruto, Cesa­
re, Augusto ... » (N.S., III, 3, 1; G., V, p. 267), cioè si riferiva­
no ad un carattere dell'individuo - carattere che può ritrovarsi
anche in altri individui. - L'astrazione, dunque, non va intesa
come la separazione di un carattere individuale da altri, ma come
un modo originario di apprendere l'individuo. Non riusciamo in­
fatti mai a cogliere l'individuo nella sua individualità, poiché
« l'individualità implica l'infinito » (N.S., III, 3, 6; G., V, p.
268). E non è vero che i bambini si aprano alla conoscenza comin­
ciando ad avere idee particolari, per esempio della madre o della
nutrice, come dice Locke, poiché anche la mamma e la nutrice la
472 FILOSOFIA MODERNA

colgono sotto aspetti generici ( quindi universali), tant'è vero che


basta una somiglianza perché chiamino 'mamma' un'altra donna.
Tuttavia le idee generali non ci fanno conoscere le essenze spe­
cifiche; su questo anche Leibniz è d'accordo, ammette quindi che
le proposizioni universali sulle cose della natura abbiano solo
valore di probabilità, siano « provvisorie», ma sottolinea il lo­
ro valore pratico, per orientarci nella vita quotidiana, come la per­
suasione che domani farà giorno (N.S., IV, 6, 8; G., V, p. 385).
« Sono d'accordo, dice Teofilo, che la fisica non sarà mai una scien­
za perfetta per noi [per noi uomini che non abbiamo l'intuizione
delle essenze specifiche]; ma non rinunceremo ad avere una qual­
che scienza fisica, e ne abbiamo già degli esempi », e fa l'esempio
della magnetologia. « Non dobbiamo sperare di render ragione
di tutte le esperienze - neppure i geometri sono riusciti finora
a dimostrare tutti i loro assiomi - ma come i geometri si sono
contentati di dedurre un gran numero di teoremi da un piccolo
numero di principì della ragione, cosl i fisici, per mezzo di alcu­
ni principì di esperienza, rendono ragione di una quantità di fe­
nomeni e possono anche prevederli nella pratica» (N.S., IV, 12,
9; G., V, p. 435). Leibniz prevede l'importanza di una logica della
probabilità: « Ho detto più di una volta che ci vorrebbe una nuo­
va specie di logica che trattasse dei gradi della probabilità, poi­
ché Aristotele, nei Topici, non l'ha fatto per niente, e si è con­
tentato di mettere in un certo ordine alcune regole popolari, di­
stribuite secondo i luoghi comuni... » (N.S., IV, 16, 5; G., V,
p. 448).

13. Le verità necessarie. Gli Assiomi

Ma il punto nel quale Leibniz si oppone decisamente a Locke


è quello che riguarda le verità necessarie, e in particolare le verità
primitive di ragione o assiomi. Leibniz distingue infatti verità di
ragione - il cui opposto è contraddittorio - e verità di fatto, il
cui opposto è falso, ma non contraddittorio. Alla base delle verità
di ragione stanno le proposizioni identiche, come abbiamo visto
parlando del frammento Primlle veritates. Sembra che le verità pri­
mitive di ragione, che sono proposizioni identiche, non facciano
che ripetere la medesima cosa, senza insegnarci nulla, sembra che
LEIBNIZ 473

siano « proposizioni irrilevanti », come dice Locke; in realtà esse


sono il nerbo delle dimostrazioni logiche e geometriche: « le con­
seguenze di logica... si dimostrano mediante principi identici, e i
geometri hanno bisogno del principio di contraddizione nelle di­
mostrazioni per assurdo (N.S., IV, 2, 1; G., V, p. 344). Né gli as­
siomi possono derivare dall'esperienza, come vorrebbe Locke, il
quale affermava che è molto più evidente la proposizione parti­
colare, del tipo 'questa cosa è questa cosa' (una mela è una mela)
che non il principio di identità; più evidente' uno più uno fa due '
che non gli assiomi più universali della matematica. Leibniz ri­
sponde che solo i principi universali dànno ragione di quelle affer­
mazioni particolari. Nelle proposizioni particolari, quando esprimono
una verità necessaria, « l'assioma è come incorporato nell'esempio
e lo rende vero » (N.S., IV, 7,10; G., V, p. 394). Che un corpo
intero sia più grande del tronco è vero, necessariamente vero,
perché il tutto è più grande delle sue parti (ibid., p. 393). Per di­
re, rendendosene ragione, che due più due fa quattro occorre una
teoria dei numeri, occorrono dimostrazioni; non basta fidarsi del­
l'intuizione, altrimenti può accadere come all'« eccellente geome­
tra » Hardy, il quale negava che la sezione obliqua del cono, l'el­
lisse, fosse uguale alla sezione obliqua del cilindro solo perché
non coglieva intuitivamente questa verità. (N.S., IV, 7, 4; G., V,
p. 389). Leibniz sente l'esigenza di una assiomatizzazione della
geometria - precursore anche in questo -. È vero che un esem­
pio studiato per caso può portare un uomo d'ingegno a scoprire
un principio universale, ma si tratta appunto della scoperta, nel
caso particolare, di una verità che va oltre quel caso. « Anche se
questo procedimento empirico dalle verità particolari fosse stato
l'occasione di tutte le scoperte, non sarebbe stato sufficiente a dar­
cele; e gli scopritori stessi sono stati felici di cogliere le massime
e le verità generali quando le hanno potute raggiungere; altrimen­
ti le loro scoperte sarebbero state assai imperfette » (N.S., IV, 7,
11; G., V, p. 397).
Leibniz non condivide quindi affatto il disprezzo di Carte­
sio per la logica. « Credo che l'invenzione della forma dei sillo­
gismi sia una delle più belle dello spirito umano, e delle più con­
siderevoli. È una specie di matematica universale la cui impor­
tanza non è conosciuta come dovrebbe ... » (N.S., IV, 17, 4; G.,
V, p. 460). Gli argomenti « in forma » non sono soltanto quelli
474 FILOSOFIA MODERNA

usati nelle dispute scolastiche, ma sono tutti 1 ragionamenti ri­


gorosi, come « un calcolo di Algebra, una analisi degli infinitesi­
mali. Poco manca il più delle volte alle dimostrazioni di Euclide
per essere argomenti in forma... Le inversioni, composizioni e
divisioni delle ragioni, di cui egli si serve, non sono altro che
specie di forme di argomentazione particolari e proprie dei ma­
tematici e della materia che trattano; ed essi dimostrano queste
forme con l'aiuto delle forme universali della logica» (ibid., p.
461). La matematica non è dunque altro che una logica applicata.
A Gabriele Wagner, che criticava la logica scolastica, e an­
noverava lo stesso Leibniz fra gli spregiatori di quella logica, egli
risponde in una lettera del 1696 (G., VII, pp. 514-527) che, cer­
to, gli scolastici hanno abusato della logica, adoperando argomenti
in forma proprio là dove meno occorrerebbero, e lasciandoli da
parte dove sarebbero stati più necessari; ma confessa di trovare
molto di buono e di utile anche nella logica così come era stata
insegnata fino ad allora. La sillogistica aristotelica è un primo ten­
tativo di stabilire leggi infallibili dell'argomentazione, di « scri­
vere matematicamente anche fuori della matematica» (G., VII, p.
519). Anche la sillogistica però ha bisogno di essere perfezionata:
il lavoro di Aristotele su questo punto è solo un inizio e quasi
l'A.B.C. (ibid.), poiché nella matematica ci sono argomentazioni
più complesse delle « prime e semplici forme » enumerate da Ari­
stotele. Più complesse, ma non in contrasto con queste. Altra
parte che manca nella logica aristotelica è « l'arte di interrogare
la natura e quasi di portarla sul banco di tortura» (G., VII, p.
518), è l'ars experimentandi, che è stata invece iniziata da Bacone.

14. Principio di non-contraddizione


e principio di ragion sufficiente

Vediamo ora quali sono gli assiomi, i principi pr1m1 non solo
di una scienza, come può essere la matematica, ma di tutta la co­
noscenza umana, e ricordiamo che secondo Leibniz i principi della
::onoscenza sono anche le leggi fondamentali della realtà 25•

25 Come per Aristotele, il quale risponde affermativamente alla domanda « se


'.a scienza cli quelli che i matematici chiamano assiomi sia tutt'una con quella che
r,
:ratta della sostanza » (Metaph, 1005 a.).
LEIBNIZ 475

Tali principi sono due: « quello di contraddizione, in virtù


del quale giudichiamo falso tutto ciò che implica contraddizione,
e vero ciò che si oppone o contraddice al falso. E quello di ra­
gion sufficiente, in virtù del quale affermiamo che nessun fatto
potrebbe essere vero o esistente, nessuna enunciazione vera, sen­
za che vi sia una ragion sufficiente del perché sia cosl e non al­
trimenti, sebbene queste ragioni ci siano il più delle volte igno­
te» (Monadologia, nn. 31 e 32).
Come si è visto dalla prima proposizione del frammento Pri­
mae veritates il principio di non-contraddizione non fa che espri­
mere negativamente il principio di identità: ogni cosa è se stessa, os­
sia è quella che è, è determinata. Il principio di ragion sufficien­
te è ancora una esplicitazione del principio di identità o, se si
vuole, della nozione di sostanza individuale: dire infatti che ogni
fatto esistente, ogni enunciazione vera ha una ragione sufficiente
del suo essere o del suo essere vera è quanto dire che ogni pre­
dicato procede dalla natura del soggetto ed ha in questa la sua
spiegazione 26•

15. Verità di ragione e verità di fatto

Qui occorre chiarire la differenza tra verità di ragione (o ve­


rità necessarie) e verità di fatto: l'opposto delle prime è impossi­
bile (contraddittorio), l'opposto delle seconde è falso, ma non
contraddittorio (Cfr. Monadologia, n. 33). Esempio classico di ve­
rità di ragione sono le proposizioni geometriche: negare che una
retta (euclidea) sia la linea più breve fra due punti vuol dire enun­
ciare una contraddizione; negare invece che quest'uomo abbia gli
occhi azzurri (quando invece li ha) è falso, ma non contradditto­
rio, poiché quest'uomo potrebbe anche avere .gli occhi di un altro
colore.
Ma, data la concezione leibniziana della sostanza individuale,
c'è proprio differenza fra questi due tipi di verità? O non diventa

26
Nelle Primae veritates, dopo aver detto che le prime verità sono le verità
identiche, Leibniz aggiunge: « Da tali cose non abbastanza considerate a causa della
loro troppa facilità, nascono conseguenze di grande momento. Ne nasce infatti im­
mediatamente il. noto assioma secondo cui " nulla è senza ragione " o " nessun ef­
fetto è senza causa " » (Saggi e lettere, p. 71 ).
476 FILOSOFIA MODERNA

tutto necessario, come nella concezione di Spinoza? È il sospet­


to che sorge in Arnauld dopo la lettura del Discorso di Metafisi­
ca TT. Se ogni sostanza individua contiene già in sé tutti i suoi
predicati, se in Adamo è già implicito tutto ciò che egli farà,
tutto ciò che è storicamente accaduto a lui e al genere umano se­
guirà « con una necessità più che fatale». Come, ammesso che
Dio abbia voluto creare un uomo, non ha potuto non crearlo ca­
pace di pensare (che l'uomo abbia la capacità di pensare è una ve­
rità necessaria), così, ammesso che abbia voluto creare Adamo, non
ha potuto non crearlo con tutto ciò che di fatto egli ha compiu­
to (G., II, p. 15). Leibniz risponde che si tratta solo di necessità
ipotetica (supposto che Dio voglia creare Adamo... etc.), Arnauld
nega alle verità di fatto anche la necessità ipotetica, e poiché Leibniz
aveva parlato della nozione di Adamo così come essa è in Dio,
Arnauld replica: non ci domandiamo come è la nozione di Ada­
mo nella mente divina, ma guardiamo alla nozione di Adamo in
se stessa, così come, quando vogliamo conoscere le proprietà della
sfera, non ci domandiamo come è la nozione della sfera nella men­
te divina, ma guardiamo alla sfera in se stessa (Saggi e lettere,
p. 146). La risposta di Leibniz merita di essere citata letteral­
mente. Egli è ricorso alla nozione di Adamo così come è nella
mente divina perché solo Dio ha la nozione dell'individuo nella
sua individualità. « La nozione di me in particolare, e di ogni
sostanza in particolare, è infinitamente più comprensiva e difficile
da capire di una nozione specifica come quella della sfera, che è an­
cora incompleta e non contiene tutte le circostanze necessarie...
perché si abbia una sfera determinata ... Questo fa sì che, mentre
è facile giudicare che il numero dei piedi del diametro non è con­
tenuto nella nozione della sfera in generale, non sia altrettanto
facile giudicare... se il viaggio che ho in mente di fare sia con­
tenuto nella nozione · di me; altrimenti sarebbe tanto facile esse­
re profeti quanto essere geometri» (Saggi e lettere, p. 158).
La differenza fra le verità necessarie e le verità di fatto è
dunque questa: il soggetto logico delle verità di fatto è un in-

n Sospetto manifestato prima in una lettera al Landgravio di Assia Rheinfels,


che gli aveva trasmesso il Discorso di Metafisica: « ... je trouve dans ces pensées tant
de choses qui m'effrayent, et que presque tous les hommes, si je ne me trompe,
trouveront si choquantes ... » G., II, p. 15. (La lettera non è riportata in Saggi e let­
tere). La discussione continua poi nella corrispondenza diretta con Leibniz.
LEIBNIZ 477

dividuo, e l'individuo è inesauribile per l'intelletto umano. Le


verità di fatto differiscono dalle verità necessarie come i numeri
irrazionali differiscono dai numeri razionali; come nei numeri ir­
razionali la risoluzione procede all'infinito, così è nelle verità di
fatto: per scoprire l'inerenza del predicato nel soggetto bisogne­
rebbe procedere all'infinito nell'analisi del soggetto. « La certez­
za, pertanto, e la perfetta ragione delle verità contingenti [ di
fatto] è nota soltanto a Dio, che abbraccia in un solo sguardo l'in­
finito » 28 (Saggi e lettere, p. 307). Ecco perché nella Monadologia
(n. 32) Leibniz dice che le ragioni dei fatti ci sono il più delle vol­
te ignote.
La contingenza, la fattualità - se fosse lecito dir così - del­
le verità di fatto dipende dunque soltanto da un difetto della no­
stra conoscenza? Saremmo ancora nella posizione spinoziana. Ma
Leibniz fa presente un altro carattere delle verità di fatto: l'esi­
stenza del soggetto di tali verità dipende da un libero decreto
divino. Che Cesare abbia passato il Rubicone è implicito nella no­
zione di Cesare, ma che Cesare di fatto esista dipende da un li­
bero decreto divino 29•

16. L'esistenza di Dio

Per vedere come Leibniz intenda tale libero decreto divino è


opportuno parlare della concezione leibniziana di Dio e, innanzi
tutto, delle dimostrazioni che egli dà dell'esistenza di Dio 30, di­
mostrazioni alle quali egli attribuiva grande importanza, tanto da
affermare che se si riuscisse a dimostrare rigorosamente che Dio
esiste si compirebbe a favore della religione un'opera più efficace
di quella di molti missionari. Leibniz ne parla in moltissimi suoi
scritti, ma quasi sempre occasionalmente o per accenni. Vediamo
quindi le formulazioni che egli ne dà nella Monadologia e cer­
chiamo di commentarle giovandoci di altri scritti.

211
« Verae contingentes sunt quae continuata in infinitum resolutlone indigent »,
in Opuscules et fragments inédits, p. 371.
29 E Arnauld fu soddisfatto di questa spiegazione di Leibniz. (Cfr. G., Il, pp.
63-64).
30 Si veda in proposito J. IWANICKI, Leibniz et les démonstrations mathématiques
de l'existence de Dieu, Strasbourg, Librairie Universitaire d'Alsace, 1933.
478 FILOSOFIA MODERNA

La prima dimostrazione applica il principio di ragion suffi­


ciente alle realtà particolari e contingenti. Contingente è ciò che
è, ma potrebbe anche non essere: non ha quindi in sé la ragion
sufficiente del suo essere, né può averla in altri contingenti ante­
riori e particolari, poiché ognuno di questi rimanda ad una ragion
sufficiente fuori di sé. « Perciò la ragione ultima delle cose de­
ve essere in una sostanza necessaria... e questa è quel che noi chia­
miamo Dio » (Monadol., n. 38). Leibniz aggiunge che questa so­
stanza necessaria, essendo ragion sufficiente di tutti gli enti par­
ticolari e contingenti che sono connessi fra loro, deve essere unica
ed infinita (ibid., nn. 39-40).
Forse da questa formulazione leibniziana è derivato l'uso di
parlare di una dimostrazione dell'esistenza di Dio ex contingen­
tia, poiché Leibniz parte dalla contingenza come se essa fosse
un dato, e non sembra che abbia cercato di dimostrare che ci sono
realtà contingenti, e quali sono. C'è all'inizio della Dissertatio
de Arte combinatoria ( 1666) una Demonstratio existentiae Dei
(G., IV, pp. 32-33) nella quale si dimostra l'esistenza di Dio a
partire dal moto, ma non sembra che vi sia un rapporto fra questa
prova giovanile e l'argomento ex contingentia. Dio vi è definito
substantia infinitae virtutis, si enunciano assiomi il primo dei
quali è: Si quid movetur, datur illud movens; il secondo è: Om­
ne corpus movens movetur, dal che si inferisce che, finché si tro­
vano corpi moventi bisogna prosegu ire la ricerca, e, poiché non
è possibile un processo all'infinito, bisogna affermare l'esisten­
za di un movente incorporeo e di forza infinita (infinitae virtu­
tis).
Nella Con/essio naturae contra atheistas (1668) Leibniz dice
che la natura del corpo non può render ragione della sua figura
e del suo movimento (Saggi e Lettere, pp. 6 ss.).
Nella Teodicea (171 O) Leibniz accenna al limite come segno
di contingenza, senza però sviluppare il discorso sul nesso fra
limite e contingenza. Dice infatti: « Dio è la prima ragione del­
le cose: infatti quelle che sono limitate, come è tutto ciò che
vediamo e sperimentiamo, sono contingenti e non hanno in sé
nulla che renda necessaria la loro esistenza, poiché è manifesto
che il tempo, lo spazio e la materia, uniti e uniformi in se stessi,
e indifferenti a tutto, avrebbero potuto ricevere tutt'altri movi­
menti e figu re, e in un altro ordine. Bisogna dunque cercare la
LEIBNIZ 479

ragione dell'esistenza del mondo, che è l'insieme completo delle


cose contingenti, e bisogna cercarla nella sostanza che porta in
sé la ragione della sua esistenza... » (G., VI, p. 106).
Dopo questa prima dimostrazione viene, nella Monadologia,
l'argomento che risale a Dio come ragion d'essere delle essenze,
sulle quali si fondano le verità necessarie. « Ed è pure vero che in
Dio è non soltanto la fonte delle esistenze, ma anche quella del­
le essenze, in quanto sono reali, o di ciò che vi è di reale nel­
la possibilità. E ciò perché l'intelletto divino è quasi la regio­
ne delle verità eterne, o delle idee dalle quali dipendono, e sen­
za di esso ... non solamente non vi sarebbe nulla di reale, ma
non vi sarebbe neppure nulla di possibile ». (Monadologia, n. 4 3 ).
Il che vuol dire: le verità necessarie (verità di ragione) hanno
valore prescindendo dall'esistenza del soggetto logico a cui si ri­
feriscono: anche se non esistessero corpi con superfici triangolari
sarebbe pur vero che un triangolo euclideo ha gli angoli interni
uguali a due retti. Ora il valore di queste verità suppone che
il soggetto a cui si riferiscono (nell'esempio citato: il triangolo)
sia possibile; quale verità infatti potrei enunciare su un oggetto
contraddittorio, per esempio su un triangolo con quattro lati?
Potrei dire insieme che è triangolo e non triangolo. Ora si tratta
di vedere che cosa voglia dire: una cosa è possibile; e ciò non
può voler dire se non: è pensata da un intelletto infinito, da un
intelletto che è all'origine di ogni pensiero e di ogni pensabilità.
Possibile, infatti, vuol dire pensabile, ma non è l'intelletto umano
quello che costituisce la pensabilità delle cose: l'intelletto umano
riconosce tale pensabilità, non la costituisce.
In terzo luogo viene il classico argomento a priori, fondato
sull'idea di Dio. Leibniz ricorda che esso fu formulato da S. An­
selmo e fu ripreso, tra altri, anche da Cartesio. È un argomento
valido, afferma Leibniz, ma formulato in modo imperfetto, per­
ché sottace la premessa più importante: Dio è possibile. Nelle
formulazioni date fino ad allora si afferma che l'idea di Dio im­
plica la sua esistenza, ma si dimentica di enunciare che l'idea
di Dio risponde ad un ente possibile. L'argomento, per essere
valido, deve dunque essere formulato cosl: Se Dio è possibile
Dio esiste; ma Dio è possibile; dunque Dio esiste. La maggiore
si concede facilmente: Dio può esistere solo per forza propria,
e se Dio non esistesse, nulla al di fuori di lui potrebbe farlo esi-
480 FILOSOFIA MODERNA

stere; dunque se Dio è possibile, Dio esiste. Ma è l'importanza


della minore quella sulla quale Leibniz ha richiamato l'attenzio­
ne: Dio è possibile. « Bisogna dimostrare con tutta l'esattezza
immaginabile che vi è un'idea di essere perfettissimo, ossia di
Dio »; bisogna dimostrarlo perché « si pensano talora cose im­
possibili » per esempio la massima velocità possibile (Lettera alla
Duchessa Sofia, G., IV, p. 293 ). Ma sembra che, in tale dimostra­
zione, Leibniz non abbia detto niente di più di quello che affer­
ma nella Monadologia: « nulla può esser di ostacolo alla possibi­
lità di ciò che non ha alcun limite, alcuna negazione e quindi
alcuna contraddizione » (Monadol., n. 45), sebbene abbia dedicato
molte pagine all'argomento, specialmente nella corrispondenza con
Eckhard ( 16 7 7), che difendeva la formulazione cartesiana della
prova 31• In un testo del 1683-84 Leibniz riprese la giustificazione
di Eckhard, osserva Bausola, e cioè « ... summe perfectum est
possibile, quia nihil aliud est quam pure positivum » 32•

17. I possibili e la libertà divina

Dio è la fonte non solo delle esistenze, ma anche delle essenze


ossia della possibilità, dice Leibniz, ma è opportuno vedere come,
poiché questo è uno dei punti, e non dei minori, nei quali Leibniz
si oppone a Cartesio. Cartesio aveva detto che le verità eterne (ve­
rità di ragione, nella terminologia leibniziana) dipendono dalla
volontà di Dio, da un libero decreto divino; Leibniz obietta: se
cosi fosse « la volontà divina sarebbe un decreto assoluto, senza
ragione » (Lettera a Philippi; G., IV, p. 284). La volontà divina,
intesa alla maniera cartesiana, è un potere irrazionale, che rischia
di assomigliare ad una cieca necessità: l'estremo volontarismo
coincide con l'assoluto necessitarismo. « Se le nature delle cose e
le verità dipendono dall'arbitrio di Dio, non vedo come si possa
attribuire a Dio il sapere, e neppure la volontà. La volontà infatti
suppone l'intelligenza e nessuno può volere una cosa se non consi-

31
ar. al riguardo A. BAUSOLA, A proposito del perfezionamento leibniziano del­
l'argomento ontologico: il carteggio Leibniz-Eckard, in « Riv. di filos, neoscolastica»
LIII (1961), pp 281-297.
32 GRUA, Textes inédits, p. 325, cit. da Bausola, p. 294.
LEIBNIZ 481

derandola come bene. E l'intelligenza suppone che ci sia un intel­


ligibile, ossia una natura o essenza» (Lettera a Hon. Fabri, G., IV,
p. 259), che le essenze delle cose non dipendano dall'arbitrio
divino, ma dalla stessa essenza divina; « non le essenze delle co­
se, ma le cose sono create» (ibid.). « Le cose sono create» vuol
dire per Leibniz: ciò che è possibile, perché è una partecipazione
dell'essenza divina e risponde a un'idea divina, è attuato dalla vo­
lontà di Dio, viene ad esistere. Dio solo è l'essere che, se è possi­
bile, esiste, perché ha in sé la ragione del suo essere; le cose con­
tingenti sono « fatte essere», ossia sono create da un libero de­
creto divino.
Vediamo ora come Leibniz intenda questo libero decreto divi­
no. L'opera nella quale egli svolge più ampiamente la sua dottri­
na su questo punto è la Teodicea, del 1710, ma il problema della
Teodicea - che è il problema della « giustificazione di Dio», di
fronte all'esistenza del male - e la sua soluzione erano già pre­
senti a Leibniz da molto tempo 33• Alla domanda: Perché c'è il
male?, Leibniz in sostanza risponde: perché il male fa parte di
questo universo creato, che è il migliore dei mondi possibili. Dio
doveva dunque creare questo mondo, perché questo è il migliore
dei mondi possibili. Dal principio di ragion sufficiente, infatti, se­
gue necessariamente che Dio deve avere una ragione per creare
questo mondo piuttosto che un altro, e la ragione non può essere
se non che il mondo attuale, ossia il mondo che Dio ha scelto, è il
migliore dei mondi possibili.
La tesi non è nuova: nel medioevo era stata sostenuta da Abe­
lardo, e poiché alla tesi si era obiettato ( tra gli altri da San Tom­
maso) che il concetto di « migliore dei mondi possibili» è con­
traddittorio, poiché un ente finito può sempre ammetterne uno
più perfetto, Leibniz risponde: « se fosse cosi, Dio non avrebbe

33 Già nella Confessio philosophi, del 1673,, il Teologo, interlocutore del dialo­
go, affronta la « spinosa questione della giustizia di Dio» (ed. Belava!, p. 24); ora
« giustizia di Dio» è la traduzione di teodicea; quindi le di.flicoltà di P. Bayle - sia
nel Dictionnaire historique et critique del 1697,, sia nelle Questions d'un Provincia!,
del 1704, circa la possibilità di conciliare la giustizia di Dio con l'esistenza del male,
e la predestinazione divina con la libertà umana - sono state solo l'occasione per­
ché Leibniz esponesse, negli Essais de Théodicée, teorie che aveva già eleborate da
tempo.
Su Bayle si veda G. CANTELLI, Teologia e ateismo, Firenze, La Nuova Italia,
1969.
482 FILOSOFIA MODERNA

creato nessun mondo, poiché è incapace di agire senza ragione... »


(Teodicea, n. 196; G., VI, p. 232). Ma se Dio deve creare il mi­
gliore dei mondi possibili non ne segue forse che egli non può crea­
re diversamente da come crea, quindi che tutto è necessariamente?
Leibniz risponde distinguendo necessità metafisica, il cui opposto
è contraddittorio, da necessità morale, e afferma che la necessità
che Dio crei il migliore dei mondi possibili è necessità morale,
non metafisica. « ... Se potessimo conoscere la struttura e l'eco­
nomia dell'universo, troveremmo che è fatto e governato come po­
trebbero desiderarlo i più saggi e i più virtuosi, poiché Dio non
poteva mancare di far così. Tuttavia questa necessità è soltanto mo­
rale: e ammetto che se Dio fosse necessitato di necessità metafi­
sica a produrre ciò che produce, farebbe essere tutti i possibili
o nulla ... Ma poiché non tutti i possibili sono compossibili tra loro
in un medesimo complesso (suite) di universo, per questo non tutti
i possibili potrebbero essere attuati (produits) e per questo si deve
dire che Dio non è necessitato, metafisicamente parlando, a creare
questo mondo. Si può dire che, quando Dio ha decretato di creare
qualcosa, vi è una lotta fra tutti i possibili, poiché tutti pretendo­
no all'esistenza; e la vincono quelli che uniti insieme costituiscono
più realtà, più perfezione, più intelligibilità. È vero che questa lot­
ta non può essere se non ideale, ossia non può essere che un con­
flitto di ragioni nell'intelletto perfettissimo, che non può mancare
di agire se non in modo perfettissimo, e per conseguenza di sceglie­
re il meglio. Tuttavia Dio è obbligato, di necessità morale, a
far le cose in modo che non possa attuarsi nulla di meglio... »
(Teodicea, n. 201; G., VI, p. 236).
La tesi filosofica espressa da questo discorso un po' immagi­
noso è questa: Dio non è necessitato a creare; infatti se Dio fosse
necessitato a creare, tutti i possibili si attuerebbero, e siccome tut­
ti i possibili sono infiniti, tutto sarebbe Dio: l'essenza divina si di­
spiegherebbe necessariamente fuori di sé (tesi panteistica). Ma la
ragione per la quale i possibili non si attuano tutti, è che non tutti
sono compossibili: è possibile una umanità nella quale Adamo non
abbia peccato, ed è possibile una umanità nella quale Adamo ha
peccato, ma non sono compossibili queste due umanità. L'impos­
sibilità, dunque, che tutti i possibili si attuino non dipende da una
scelta divina (da una ragione morale), ma dalla stessa natura dei
possibili: è una impossibilità metafisica. E il motivo per cui si
LEIBNIZ 483

attuano questi possibili, quelli che cost1tu1scono il mondo attua­


le, è la loro maggior perfezione, quindi la loro natura. Non si
vede quindi in che cosa la necessità morale si distingua dalla ne­
cessità metafisica. La tesi espressa nella Teodicea si trova già nella
Confessio philosophi, dove il Teologo dice: ho capito a cosa
vuoi concludere: « che l'armonia universale non dipende dalla
volontà di Dio, ma dal suo intelletto o dall'idea, ossia dalla na­
tura delle cose. E che da questa dipendono anche i peccati; quindi
i peccati non seguono dalla volontà di Dio, ma dalla sua stessa
esistenza ». E il filosofo risponde: « L'hai indovinato ». Ora se
il mondo fosse dìverso, anche Dio sarebbe diverso; « È impos­
sibile infatti che dalla medesima e integra ragion sufficiente, che è
Dio, procedano conseguenze diverse; è impossibile che dal mede­
simo segua il diverso come è impossibile che il medesimo sia di­
verso». (Confessio philosophi, ed. Belava!, p. 42).

18. La libertà umana

Dalla concezione (o dalla negazione) della libertà divina di­


pende anche quella della libertà umana. Leibniz stesso dice in­
fatti nella Teodicea: « Duns Scoto ha avuto ragione di dire che
se Dio non fosse libero, nessuna creatura lo sarebbe» (n. 337; G.,
VI, p. 315). Anche sulla libertà umana il pensiero di Leibniz
è rimasto costante dalla Confessio philosophi alla Teodicea Nel­
la Confessio il Filosofo dice che Giuda peccò perché poteva peccare
e perché volle peccare. Il potere lo ebbe da Dio, il voler tradire
il Maestro dipese dal fatto che egli stimò bene il farlo (quia bo­
num putarat). II Teologo domanda: « E perché stimò bene ciò che
era male? ». E il filosofo risponde: « Ogni opinione ha due cause:
il temperamento di chi opina e la disposizione dell'oggetto, cioè
lo stato della persona... Alla prima si riconduce il temperamento
nativo, alla seconda le circostanze » ( op. cit., p. 36) 34• Il soggetto
entra nella decisione in quanto ha un determinato temperamento,

" Cosl ho creduto di poter tradune il testo, supplendo le parole fra parentesi
uncinate: « Omnis opinio habet duas causas: temperamentum opinantis et objecti
dispositionem, id est statum personae ... Ad primum nascentis temperamentum, <ad
secundum> id est statum personae circumstantias (sic!) rei resolvuntur... ».
484 FILOSOFIA MODERNA

non perché abbia una vera e propria iniziativa, un potere di scel­


ta. Nella lettera a Coste del 1707 Leibniz parla prima della libertà
divina, nei termini che già conosciamo, e poi della libertà uma­
na. La differenza fra le due libertà è che Dio sceglie sempre ciò
che è meglio, mentre l'uomo sceglie ciò che gli appare meglio; ma
si tratta di una differenza nella conoscenza - infallibile quella di­
vina, fallibile quella umana - non nel potere di optare, che man­
ca nell'uno e nell'altro (Saggi e lettere, pp. 344-46 ). La libertà, di­
ce Leibniz nel terzo libro della Teodicea, implica tre condizioni:
intelligenza, spontaneità, contingenza (n. 288; G., VI, p. 288). Un
atto, infatti, per essere libero, deve procedere dall'agente (spon­
taneità) e non essergli imposto dal di fuori, come potrebbe esse­
re il movimento di uno che è trascinato. La libertà come sponta­
neità si oppone alla coazione. Inoltre, per essere libero, un atto
deve procedere dall'agente in base ad una conoscenza: conoscen­
za di ciò che si vuol fare, dell'oggetto della propria azione, e co­
noscenza intelligente, ossia conoscenza del perché si opera in quel
modo. In altre parole: un atto libero è un atto motivato. Quando
poi deve spiegare la terza condizione dell'atto libero, la contin­
genza, Leibniz avverte che essa non va intesa come indifferenza,
ma solo come esclusione della necessità meta.fisica; il che vuol
dire: atto libero è quello che potrebbe anche non essere com­
piuto, dove il « potrebbe non» significa: non sarebbe contraddit­
torio che non fosse compiuto; ma questa esclusione della neces­
sità meta.fisica non è esclusione della necessità morale. « Una co­
noscenza assai chiara del meglio determina la volontà; ma non la
necessita, a parlare propriamente. Bisogna sempre distinguere fra
il necessario e il certo o l'infallibile ... e distinguere la necessità
metafisica dalla necessità morale» (Teodicea, n. 310; G., VI, p.
300). All'argomento in favore della libertà come potere di scelta,
tratto dall'esperienza interiore, Leibniz obietta che tale esperienza
è illusoria, perché la nostra scelta potrebbe dipendere da perce­
zioni inconsapevoli. Se l'ago calamitato avesse coscienza, crede�
rebbe di volgersi liberamente verso il Nord (Teodicea, n. 50). Su
questo punto Leibniz è d'accordo con Bayle, del quale riporta
lunghi passi nella terza parte della Teodicea.
LEIBNIZ 485

19. Morale e Diritto naturale

Un maggiore spazio alla libertà sembra lasciato nei Nuovi Sag­


gi, dove Leibniz, pur negando la libertà di indifferenza, afferman­
do che « la scelta è sempre determinata dalla percezione » (N.S.,
II, 21, 25; G., V, p. 168) e sottolineando l'influsso delle perce­
zioni inconsapevoli nelle nostre scelte, ammette che l'uomo abbia
il potere di dirigere i suoi pensieri verso quei beni che la ragione
gli presenta come essenziali alla sua natura e distoglierli dalle im­
pressioni sensibili, più immediate, di beni allettanti, ma inferiori.
L'uomo vuole il bene, ossia la propria perfezione, lo vuole neces­
sariamente e lo vuole così come la conoscenza glie lo presenta;
ora accade spesso che l'uomo abbia sì la conoscenza dei beni che
sono essenzialmente conformi alla sua natura - che è natu­
ra razionale - ma pensi a quei beni mediante nozioni « sorde»,
« cioè vuote di percezione e di sentimento », come avviene per cer­
ti segni algebrici, coi quali si calcola, ma senza pensare alle gran­
dezze concrete che rappresentano. « Si ragiona spesso con le pa­
role, senza avere presente allo spirito l'oggetto stesso. E proprio
in questo modo gli uomini il più delle volte pensano a Dio, alla
virtù, alla felicità» (N.S., II, 21, 31; G., V, p. 171). I beni sen­
sibili invece sono presenti, e sollecitano. È vero che di ciò che è
sentito l'uomo ha una nozione confusa, ma questa conoscenza
è vivace e suscita una attrazione, un gusto (N.S., II, 21, 54; G.,
V, p. 186). Ora si può dirigere l'attenzione verso i beni veri, si
può cercar di riempire le nozioni astratte dei veri beni e di render­
li, così, attraenti. « Bisognerebbe cominciare con l'educazione, che
deve essere regolata in modo da render sensibili, per quanto si
può, i veri beni e i veri mali, rivestendo le nozioni che ce ne for­
miamo con le circostanze più adatte a questo scopo; e un uomo
adulto, che non abbia avuto questa eccellente educazione, deve co­
minciare - meglio tardi che mai - a cercare i piaceri luminosi e
ragionevoli per opporli a quelli dei sensi, che sono confusi, ma
attraenti» (N.S., II, 21, 31; G., V, p. 173). Leibniz parla di
piaceri luminosi e ragionevoli: il piacere, infatti, corrisponde sem­
pre ad un bene: è la « coscienza di una perfezione» (un sentiment
de perfection: N.S., II, 21, 42; G., V, p. 180), ma « certe perfe­
zioni portano con sé delle imperfezioni maggiori» (N.S., II. 21, 58;
G., V, p. 187) e il piacere sensibile, che è la via apparentemente
486 FILOSOFIA MODERNA

più breve verso la felicità, non è sempre la via migliore. « Si può


perdere la strada buona per seguire la più breve, come un sasso
che cade in linea retta può incontrare troppo presto degli ostacoli
che gli impediscono di proseguire verso il centro della terra. Dal
che si inferisce che sono la ragione e la volontà quelle che ci gui­
dano verso la felicità... » (N.S., II, 21, 46; G., V, p. 180).
La conoscenza di quello che è il vero bene non è innata, se
per ' innato ' si intende conosciuto esplicitamente, cosl come non
si può dire che siano innate le proposizioni dell'aritmetica; ma
come le dimostrazioni dell'aritmetica sono ricavate con la luce
naturale dell'intelletto da principi immediatamente noti, cosl le
norme morali, che sono quasi caratteri impressi da Dio nel no­
stro spirito, possono essere « lette » dalla ragione in noi stessi
(N.S., I, 2, 9; G., V, p. 84). E poiché, continua Leibniz, la cono­
scenza delle norme morali è più importante per l'uomo della cono­
scenza dell'aritmetica, « Dio ha dato all'uomo degli istinti che
portano direttamente e senza ragionamento almeno a una parte di
ciò che la ragione ordina » (ibid. ). Questa parte fondamentale
delle norme razionali alla quale gli uomini sono portati anche
senza un esplicito ragionamento (oggi si direbbe: della quale han­
no una precomprensione) è quella che costituisce il diritto naturale
e riguarda i rapporti degli uomini fra loro (ibid., p. 85).
I precetti fondamentali « generalissimi e divulgatissimi » del
diritto naturale sono: « non ledere alcuno, dare a ciascuno il suo,
e vivere in modo onesto » (Scritti politici e di filos. del diritto, cit.,
p. 161). Leibniz li cita in questo ordine, che non è quello di Ulpia­
no, dal quale li desume (honeste vivere, neminem laedere, suum
cuique tribuere), perché li vede secondo un ordine di perfezione
crescente. Esprimono infatti le esigenze della giustizia, che è la virtù
sociale, quella che regola i rapporti fra gli uomini e che Leibniz
definisce carità del saggio. Ora il minimo di giustizia, e il presuppo­
sto di ogni altra azione più perfetta è il non nuocere ad alcuno: « È
precetto del diritto puro e semplice, o stretto, che a nessuno si de­
ve nuocere: in modo che nello Stato non si dia motivo di azione
giudiziaria, e fuori dello Stato diritto di guerra. Di qui nasce la
giustizia che i :filosofi chiamano commutativa [ ... ] . Il grado supe­
riore chiamo equità o, se si preferisce, carità (però in senso più ri­
stretto) ed estendo questa anche a quelle obbligazioni che non dan
luogo ad una azione giudiziaria che possa costringere a prestare il do-
LEIBNIZ 487

vuto: ad esempio la gratitudine o l'elemosina [ ... ].Come del grado


più basso era proprio il non ledere alcuno, cosl del mediano è gio­
vare a tutti; ma a ciascuno nella misura conveniente; cioè a seconda
dei relativi meriti. Pertanto cade qui la giustizia distributiva, con il
precetto del diritto che ordina di dare a ciascuno il suo » (op. cit.,
p. 162). Il grado più alto del diritto, l'honeste vivere, consiste nel
procurare il bene altrui a costo di qualunque sacrificio, anche se
nessuno lo comandi, e questo grado suppone che l'uomo si consideri
non solo chtadino di uno Stato terreno, ma partecipe di una società
perfetta, che durerà anche oltre questa vita, soggetto a « leggi di
una eterna monarchia divina, essendo noi debitori di noi stessi e di
tutto ciò che abbiamo a Dio » ( op. cit., p. 164 ).
Questa eterna monarchia divina non va però intesa come espres­
sione della volontà di Dio. « Che Dio sia l'autore di tutto il di­
ritto naturale è verissimo; ma non per sua volontà - dice Leibniz
polemizzando con Samuele Coccej, - bensl per la sua essenza,
per cui è pure autore della verità » (op. cit., p. 207). Il che vuol
dire: Dio è il fondamento dell'essenza delle cose, e il diritto na­
turale esprime i rapporti fondamentali fra gli uomini considerati
nella loro essenza, in quanto uomini: è « l'eterno diritto della na­
tura razionale », sicché si può consentire con Grazio nell'affer­
mare che il diritto naturale rimane intelligibile anche supposto
che Dio non esista (ibid. ). Poiché il diritto naturale, fondato sulla
natura delle cose, esprime le esigenze fondamentali della giustizia,
si capisce che questa, come non dipende da un decreto arbitra­
rio di Dio, tanto meno dipende dalla volontà del principe. Su que­
sto punto Leibniz è in diretta polemica con Hobbes.
CAPITOLO DICIOTTESIMO

LA FILOSOFIA IN GERMANIA
NELL'ETA' DELL'ILLUMINISMO
[MARCO PAOLINELLI]

« Civiltà (Bildung), cultura e rischiaramento 1 sono modi della


vita associata; effetti dell'impegno e dello sforzo che gli uomini
adoperano per migliorare lo stato della società; quanto più lo sta­
to sociale di un popolo è portato, con capacità ed impegno, ad ar­
monizzare con la destinazione (Bestimmung) dell'uomo, tanto più
questo popolo è civile. Nella civiltà si distinguono cultura e rischia­
ramento. Quella sembra riferirsi maggiormente all'aspetto pratico ... :
[ e tanto più la cultura] presso un popolo corrisponde alla destina­
zione dell'uomo, tanto maggior cultura viene attribuita a quel po­
polo... Il rischiaramento sembra invece riferirsi maggiormente al­
i'aspetto teoretico. Alla conoscenza razionale ( dal punto di vista og--

* Oltre la bibliografia generale, per la quale dr. p. 333, ricordiamo in parti­


colare, per quanto riguarda il Settecento tedesco W. DILTHEY, Friedricb der Grosse
und die deutscbe Aufkliirung e Das acbtzebnte Jabrbundert und die gescbicbtlicbe Welt
in Gesammelte Scbriften III, Lipsia e Berlino 1927; K. ANER, Die Tbeologie der
Lessingzeit, Halle 1929, rist. Hildesheim Olms 1964; M. WUNDT, Die Deutscbe Scbul­
pbilosopbie im Zeitalter der Aufklarung, Tubinga 1945, rist. Hildesheim Olms 1964;
H. M. WoLFF, Die Weltanscbauung der deutscben Aufkliirung, Berna 1949, 2• ed. 1963;
F. BARONE, Logica formale e trascendentale. I-Da Leibniz a Kant, Torino 1957; L'illu­
minismo tedesco, a cura di B. BIANCO, in Grande Antologia filosofica XV, Milano Mar­
zorati 1968; N. Mfilu<ER, L'illuminismo tedesco. Età di Lessing, Bari 1968; L. W.
BECK, Early German Philosophy. Kant and bis Predecessors, Cambridge Mass. 1969;
L. MARINO, I maestri della Germania. Gottinga 1770-1820, Torino, Einaudi, 1975.
' Usiamo il termine «rischiaramento» per tradurre il termine tedesco Aufkliirung;
tale termine non indica infatti soltanto il movimento che va sotto il titolo di «illumi­
nismo», ma, con maggiore aderenza al proprio significato etimologico, l'effetto che il
retto uso di quella luce che è la ragione ha sull'uomo, sulla sua vita singola e associata;
lo stesso termine Aufkliirung ha poi un senso più marcatamente soggettivo, ad indicare
il progressivo aprirsi della mente alla luce della ragione.
490 FILOSOFIA MODERNA

gettivo ), e ( dal punto di vista soggettivo) alla capacità di rifles­


sione razionale su oggetti della vita umana, secondo la norma co­
stituita dalla loro importanza e dall'influsso che hanno sulla desti­
nazione dell'uomo » 2•
Questo passo, tratto dalla risposta di M. Mendelssohn alla fa­
mosa questione posta dalla Berlinische Monatsschrift: « Che cosa
è l'illuminismo? >,, serve senz'altro a delineare alcuni dei caratteri
che sono sentiti come essenziali del movimento.
Innanzitutto, vediamo qui funzionare come pietra di paragone
della civiltà e del rischiaramento l'essenza e il fine (cosi potrebbe
tradursi la Bestimmung) dell'uomo: tanto più avanzato è l'illumi­
nismo quanto più l'uomo storicamente si approssima ad adeguare
l'ideale di uomo, e di società pienamente umana. Questo pare es­
sere il fondamento dell'esigenza, cosi tipica di questo momento sto­
rico, che ogni conoscenza sia « utile »; anche se poi il criterio ri­
schia di essere interpretato con grettezza. Altro carattere essen­
ziale è la salda fede nella capacità della ragione di operare e por­
tare a termine questo perfezionamento; e la ragione da una par­
te cerca di penetrare e di comprendere l'intima intelligibilità
di ogni campo del reale, d'altra parte cerca il connubio con l'espe­
rienza; non è più la ragione sede di verità eterne ed innate, ma fa
largo spazio all'osservazione e all'esperimento: accoglimento dun­
que della nuova scienza della natura e del suo metodo. Ed è an­
che chiaro come l'illuminismo sia un clima intellettuale e morale,
piuttosto che una filosofia. Certo però, la filosofia (ma si potrebbe
ancora ripetere: l'esercizio della ragione) è essenziale, perché
- scrive Krug ancora nel 1827 - « senza concetti chiari, distinti,
adeguati ed esatti non è possibile né una conoscenza conforme a
verità, né un agire adeguato al fine. Solo mediante il rischiaramento
l'uomo diventa uomo, e perciò è anche obiettivo irrinunciabile del­
la filosofia quello di favorire il rischiaramento. I filosofi sono per­
ciò per nascita i ministri del rischiaramento ... » 3•

Alcune brevissime annotazioni vorremmo fare a proposito dei

2
Was ist Aufklarung?, a cura di N. l-IINSKE, Darmstadt Wissenschaftliche Buchgesell­
schaft 1973, pp. 444445.
3
W. T. KRUG, Allgemeines Handworterbuch der philosophischen Wissenschaften,
Lipsia 1827-1829, I, pp. 212-213.
ILLUMINISMO TEDESCO 491

presunti antimeta:6.sicismo, antireligiosità ed antistoricismo del pen­


siero illuministico. Tali giudizi sono da rigettare, crediamo, anche
per l'illuminismo francese e inglese, ma ci sembrano particolar­
mente inadeguati se applicati al Settecento tedesco. Non solo in­
fatti, quanto alla presenza di preoccupazioni metafisiche, nella pri­
ma metà del secolo abbiamo Wolff, ma anche nella seconda metà
Mendelssohn intende del pari tener fede alla metafisica, nella so­
stanza anche se non nella forma sistematica; e poi Lambert e Tetens
vogliono recuperare, al di là dello stesso Wolff, una ontologia che
sia più saldamente fondata. Tutto il secolo è poi percorso, e con esse
fortemente impegnato, da problematiche di tipo religioso, intorno al
rapporto tra l'assoluto, più esattamente il Dio del cristianesimo, o
almeno un Dio personale, e l'uomo: si pensi a Thomasius e al suo
periodo « pietista», a Wolff e alle dispute intorno alla sua tesi af­
fermante l'anteriorità della ratio boni rispetto alla volontà divina e
della possibilità di una vita morale senza che si possegga una ade­
guata visione religiosa; all'impegno di Lessing attorno a questi
medesimi temi, e alle discussioni dei neologi intorno alla beatitudi­
ne dei pagani. Quel che è vero è che si attua una progressiva seco­
larizzazione, intesa come atteggiamento per cui si desidera un'inda­
gine sulle leggi proprie del mondo naturale ed umano che meno fret­
tolosamente voglia metter capo, per trovarvi i suoi principi, agli
attributi divini, o ad un immediato intervento divino nel creato.
Quanto alla storia, infine, è proprio alla Leibniz-Renaissance, che si
verifica nella seconda metà del secolo, che si debbono idee che si
riveleranno feconde nella interpretazione della dimensione storica
della realtà.

Per un complesso di ragioni politiche economiche e sociali, re­


ligiose e culturali, lo stato della Germania si trova ad essere diver­
so da quello di Inghilterra e Francia; solo nella seconda metà del se­
colo la Germania acquista una fisionomia culturale più simile a quel­
la dei paesi che sono le più tipiche sedi dell'illuminismo; anche se
differenze resteranno ancora, ad esempio lo scarso impegno politico
del pensiero tedesco. Per questo, si è riservata talora la denomina­
zione di illuminismo solamente a quegli anni che vanno dal 1740-50
al 1780-90. Però, se guardiamo alla evoluzione storica della cultura
tedesca, i grandi mutamenti che sopraggiungono alla fine del seco­
lo XVII con Leibniz e Thomasius permettono di considerare uni-
492 FILOSOFIA MODERNA

tariamente, nonostante le articolazioni interne alle quali si è fatto


cenno, il secolo che intercorre tra il declinare del barocco e il sor­
gere dell'età romantica.
Quanto alla collocazione cronologica del movimento illuministi­
co in Germania, quella che ne colloca l'inizio nel 1690 (C. Thomasius
comincia ad insegnare ad Halle) ed il termine nel 1781 (prima edi­
zione della Critica della ragion pura) appare giustificata quindi
cosl dalla capacità di indicare effettivi punti nodali della evoluzione
del mondo culturale tedesco, come, almeno in parte, dalla corri­
spondenza con il più vasto movimento illuministico europeo. L'ac­
cettazione di una tale periodizzazione e delimitazione cronologica
( come di qualsiasi altra) non esime comunque dalla indagine in­
torno alle correnti ed ai movimenti :filosofici e culturali sulla base
dei quali prende l'avvio il pensiero :filosofico settecentesco in Ger­
mania. E queste correnti e questi movimenti sono da ravvisare
fondamentalmente nella tradizione aristotelica e scolastica delle
Università, cosl evangeliche come cattoliche e riformate, e nella
filosofia cartesiana; a questi elementi si aggiungerà presto la me­
ditazione del pensiero leibniziano e lockiano. Al di fuori dell'am­
bito più strettamente filosofico, ma egualmente importanti per la
comprensione dell'atteggiarsi del nuovo pensiero, sono da ricor­
dare la scienza newtoniana, ed il movimento pietistico.

1. L'eredità del Seicento

Una delle caratteristiche del mondo culturale tedesco in que­


sto periodo, che vale a distinguerlo cosl da quello inglese come
dal francese, è il fatto che l'Università resta, pressoché per tut­
to il secolo, il massimo centro di elaborazione culturale e :6.loso­
fìca (si dànno, è vero, eccezioni, soprattutto nella seconda me­
tà del secolo, ad esempio Lessing e Mendelssohn; ma si pensi poi
a Kant e all'idealismo). Alle Università si affiancherà poi l'Acca­
demia di Berlino, e saranno da ricordare ancora il giornalismo eru­
dito e le « riviste morali ». Ma badiamo per ora al periodo che è
a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. Quanto alle università di
indirizzo cattolico, non c'è mai stata vera e propria rottura con la
tradizione filosofica e metafisica medievale, grazie a quel movi­
mento che si suole designare col nome di « seconda scolastica ».
ILLUMINISMO TEDESCO 493

Le cose stanno diversamente per quelle protestanti; ma, anche in


questo caso, dopo le iniziali condanne della filosofia (e per essa di
Aristotele) da parte dei riformatori, come inconciliabile con la reli­
gione (« si deve porre Aristotele al di sopra di Cristo? » ), si attua
un progressivo riaccostamento della cultura luterana all'aristote­
lismo; questo moto, che ha inizio già con Melantone, assumendosi
la dialettica e la retorica, si estende poi fino a reimpiegare l'eti­
ca e la fisica e la psicologia, e, infine, la metafisica: il ritorno
alla metafisica, dopo gli attacchi di Ramus e Flacius, caratterizza
la Schulphilosophie protestante dei secoli XVII e XVIII nei con­
fronti del secolo XVI. Tra il 1597 e il 1605, infatti, essa viene
introdotta nella ratio studiorum, che è quella di Melantone, della
maggior parte delle università luterane. A questo ritorno non
è estraneo l'influsso, come causa almeno concomitante, della « se­
conda scolastica » spagnola, i cui centri di irraggiamento sono co­
stituiti dalle università cattoliche, in particolare da Dillingen,
ove insegnò Gregorio di Valenza (1551-1603 ), aprendo la via alla
diffusione della nuova corrente di pensiero. Una particolare im­
portanza riveste poi, per l'influsso che esercitò sul pensiero te­
desco, F. Suarez (1548-1617). Alcuni altri centri (Altdorf ad
esempio) restano invece legati ad una tradizione aristotelica che
si rifà ai peripatetici italiani del Rinascimento, non consideran­
do gli scolastici. Le opere di P. Petersen 4 e di M. Wundt dànno un
quadro esauriente della situazione delle università tedesche sul
volgere del secolo XVI, mentre P. Mesnard 5 mostra come anche
pensatori sommamente originali, e per vicende biografiche non le­
gati direttamente e continuativamente agli ambienti universitari,
come Leibniz, siano poi ampiamente debitori a questa tradizione
metafisica.

Già subito nella seconda metà del secolo XVII il sistema car­
tesiano appare come l'unico capace di entrare in alternativa alle
varie costruzioni filosofiche che, pur variamente orientate, si ri­
chiamano in ognì caso a quella base comune che è costituita dal

• P. PETERSEN, Geschichte der aristotelischen Philosophie im protestantischer


Deutschland, Lipsia 1921.
, P. MESNARD, Comment Leibniz se trouva placé dans le sillage de Suarez, « Archi
ves de philosophie » XVII (1949), 7-32.
494 FILOSOFIA MODERNA

sistema aristotelico. Ma il cartesianesimo, che trova rapida diffu­


sione in Francia e in Olanda, penetra più lentamente nel mondo cul­
turale tedesco; il tramite è costituito dalle università riformate
olandesi, in particolare Leida, Utrecht e Groninga, dove la gio­
ventù tedesca confluisce in gran numero per completare la pro­
pria formazione, provenendo dalle regioni più diverse, dalla Re­
nania come dalla Slesia. E si nota generalmente, anche nel massi­
mo rappresentante del cartesianesimo tedesco che è J. Clauberg
( 1622-1665), una volontà di mediazione e di integrazione tra la
tradizione scolastica e il nuovo pensiero cartesiano.
E. Weigel si rappresenterà la scolastica e la cartesiana come
le due principali filosofie con le quali è necessario confrontarsi;
e, caratteristicamente, C. Thomasius coinvolgerà in un'unica con­
danna ( che fa perno nella concezione della sostanza) peripatetici
e cartesiani, mentre Wolff si dichiarerà debitore di entrambi gli
indirizzi filosofici, anche se tenderà a vedere gli elementi carte­
siani come propri del periodo giovanile del suo pensiero, defini­
tivamente superato sin dai primi anni del suo insegnamento ad
Balle.

Per quanto riguarda il pensiero leibniziano, che attraverso


Wolff dominerebbe l'intero panorama della filosofia tedesca del
Settecento, sono necessari alcuni avvertimenti: è da ricordare co­
me, innanzitutto, ci sia una forte distanza tra il Leibniz, che è
noto (o potrebbe esserlo) al '700, il Leibniz che traspare dal si­
stema wolfE.ano, ed il Leibniz a noi oggi noto. Edita e ben cono­
sciuta è prima di tutto la Teodicea, importante per le tesi ivi con­
tenute intorno alla concordia tra fede e ragione, alla soluzione
del problema del male, alla distinzione tra necessità metafisica e
morale. Sono noti inoltre diversi saggi pubblicati su riviste eru­
dite, tra i quali sono da ricordare principalmente le Meditazioni
intorno alla conoscenza, la verità e le idee (Acta Eruditorum, 1684),
con la distinzione, destinata a diffusione larghissima, delle idee
in chiare ed oscure, e delle chiare in distinte e confuse, distin­
zione che è fondamento della concezione leibniziana e poi wolffia­
na dei rapporti tra conoscenza sensibile ed intellettuale. Ancora,
Sul!'emendazione della filosofia prima e la nozione di sostanza (Acta
Eruditorum, 1694), contributo leibniziano alla causa affermante la
necessità della costruzione di una ontologia, e il Nuovo sistema della
ILLUMINISMO TEDESCO 495

natura e del commercio delle sostanze (Journal des Sçavans, 1695)


contenente l'ipotesi dell'armonia prestabilita. Importante poi la
raccolta del Des Maizeaux, contenente il carteggio Leibniz-Clarke,
base per le discussioni intorno alla valenza del leibniziano princi­
pio di ragion sufficiente. La Monadologia viene pubblicata negli
Acta Eruditorum solo nel 1721; per tutto il secolo, si conti­
nua a pubblicare inediti, finché si giunge al 1765, quando R. E.
Raspe pubblica i Nuovi Saggi; seguono nel 1768 gli Opera omnia
( tali solo nel titolo) editi a Ginevra a cura di L. Dutens. E si
parla, per questi anni e per i successivi, non soltanto in relazione
ad una accresciuta conoscenza degli scritti leibniziani ma soprat­
tutto in relazione all'approfondimento di tematiche mortificate nel­
la trascrizione wolffiana, di una Leibniz-renaissance, accanto alla
prossima Spinoza-renaissance.

L'influsso di Locke, il cui Saggio sarà tradotto in tedesco so­


lo nel 1757, si fa sentire però già all'inizio del secolo: è confessato
in Thomasius, e rintracciabile in Wolff; ma, più ancora che non
attraverso Locke, il pensiero inglese agisce su quello tedesco per
la via della scienza della natura. Sono da ricordare nomi come
quello di R. Boyle, ma, soprattutto, Newton; il quale dà con la sua
opera l'attestazione della possibilità di raggiungere, partendo dal­
l'esperienza di fenomeni disparati, un principio esplicativo unico,
e di confermare, mediante l'esperienza, conoscenze acquisite
per via puramente concettuale.
Da ricordare è ancora l'influsso dei teorici del diritto naturale,
J. Althusius e H. Grotius, cosl nelle sue opere giuridiche come
nelle teologiche; della :filosofia della natura derivante da Paracelso,
destinata ad alimentare un filone di pensiero che tenterà di op­
porsi, col sottolineare il ruolo del qualitativo nella interpretazione
dei fenomeni naturali, al procedere matematico e meccanicistico del­
la nuova scienza; della teosofia e mistica tedesca, J. Bohme soprat­
tutto.
Infine, contribuisce in maniera non certamente secondaria a for­
mare il clima spirituale dell'epoca il pietismo, il cui influsso rag­
giungerà, oltre il periodo che qui ci interessa, Kant, Fichte, pro­
babilmente Hegel, e quindi Schleiermacher e Kierkegaard. Inten­
zionato a riprendere il genuino atteggiamento della Riforma di
contro alla situazione in cui è sfociata la cosiddetta Ortodossia,
496 FILOSOFIA MODERNA

con la sua sopravvalutazione dell'aspetto dogmatico ed istituzio­


nale, il pietismo ha a suo tema centrale la nuova nascita dal pec­
cato alla Grazia, dalla vecchia alla nuova creatura; la fede è una
« fede vivente» che non si ferma alla elaborazione di formule ed
alla connessa necessità di difenderle; si sottolinea invece l'im­
portanza della conversione e decisione personali e dei « frutti del­
la fede» nella vita etica e in particolare nell'amore. L'amore deve
guidare la vita del credente, di colui che è ri-nato; ché il cristia­
nesimo è agire, non sapere; e la fede è un rapporto del tutto diver­
so dal sapere: « impiegare la ragione nelle cose umane in tutto
ciò a cui essa può giungere... ma nelle cose spirituali restare sin­
ceramente attaccati a quel che è colto col cuore»; così il conte di
Zinzendorf. Fenomeno connesso con il forte accento posto sulla pietà
personale è l'istituzione delle conventicole dei « rinati » (conventa
pietatis), i quali meditano insieme la Scrittura, in particolare il
Nuovo Testamento. fonte e norma della pietà per il ritorno al Cri­
stianesimo originario; di qui anche la forte sottolineatura del sa­
cerdozio universale. L'inizio del movimento si fa cadere conven­
zionalmente nel 1675, anno della pubblicazione dei Pia desideria
di J. Ph. Spener (1635-1705), che del movimento è considerato
l'iniziatore. Si ricollega alla attività di Spener, che fu prima a
Strasburgo, quindi a Lipsia e Berlino, la fondazione nel 1694
dell'Università di Halle, uno dei centri principali dell'illuminismo
tedesco soprattutto nella prima metà del secolo, e dominata al­
l'inizio da professori legati al pietismo. Tra questi A. H. Francke
(1663-1727), al quale, con la sua natura più battagliera, e soste­
nitore della necessità dell'organizzazione, si deve quella importan­
te istituzione che è l'Orfanotrofio, che sarà il centro del pieti­
smo di Balle, ed è testimonianza della cura volta dal pietismo
stesso al problema pedagogico. Forme particolari assunse poi il
pietismo ad opera del conte di Zinzendorf (1700-1760; fratelli mo­
ravi), e nel Wiirttemberg.
La secolarizzazione di vari campi dell'agire umano, resa possi­
bile dalla indifferenza di ciò che è « mondano » per il rinato, la
forte accentuazione etica ed antropocentrica - ma non si ha nel pie­
tismo una riduzione razionalistica del cristianesimo a dottrina mo­
rale -, sono elementi che caratteristicamente avvicinano il pieti­
smo al nascente movimento illuministico; si avrà presto tuttavia un
sensibile riavvicinamento alla ortodossia, ed una prima occasione
ILLUMINISMO TEDESCO 497

ad esso sarà offerta proprio dalla necessità, da entrambi avvertita,


di ostacolare il peso crescente che viene assumendo ad Halle l'inse­
gnamento di Wolff, con il suo preteso determinismo ed ateismo, con
il suo spinozismo camuffato.

Conviene occuparsi innanzitutto dei pensatori, attivi sul vol­


gere del secolo XVII, che sono da ricordare perché legati da parti­
colari rapporti agli iniziatori dell'illuminismo tedesco, E. Weigel,
S. Pufendorf, ed E. W. v. Tschirnhaus.
ERHARD WEIGEL 6 (1625-1699) fu professore, a Jena, di Leibniz
e Pufendorf, ed il suo insegnamento, attraverso Hebenstreit, influl.
presumibilmente su Wolff, che giunse a Jena un anno appena dopo
la sua morte; C. Thomasius, infine, gli fu amico. Da un impegno ini­
ziale in direzione prevalentemente matematica, egli passa presto ad
occuparsi di filosofia, attirandosi l'ostilità dei colleghi della facoltà
filosofica: propugna la necessità di introdurre il metodo matematico
in filosofia, e si rifà, a questo fine, ad Aristotele interpretato al­
la luce di Euclide; i matematici posseggono infatti già nella Grecia
antica lo strumento che permette loro di trovare metodicamente
e con sicurezza verità sconosciute: e sulle loro tracce si pone
l'analitica aristotelica. Formatosi alla scolastica, Weigel intende
quindi riliutarla, come intende rifiutare il cartesianesimo ( di cui
ha però conoscenze molto vaghe) in favore di una filosofia « ma­
tematica », la quale è in grado di rimediare alle deficienze delle
altre due: la filosofia aristotelica e scolastica sta ferma a quelle
capacità dell'uomo che sono il parlare (con cui si resta al descrit­
tivo, alla superficie delle cose) e il sillogizzare (ma il sillogismo non
fa trovare nuove verità, serve solo ad esprimere ciò che è già no­
to, anzi, ciò che è già chiaro); e con ciò non utilizza e non svi­
luppa quella facoltà propriamente umana che è il calcolare (rechnen,
si potrebbe tradurre « render conto », o « render ragione », ri­
chiamandosi a Leibniz). La stessa :filosofia cartesiana, nonostante
faccia uso del metodo matematico, è incapace però di impiegare tale

• WEIGEL Erhard, Weiden (Alto Palatinato, nell'attuale Baviera) 1625 - Jena 1699.
Tra le sue numerosissime opere ricordiamo: Analysis Aristotelica ex Euclide restituta
(Jena 1658), Idea Matheseos universae (Jena 1669), Arithmetische Beschreibung der
Moral-Weìsheit (Jena 1674), Aretologistica (Norimberga 1687), Philosophia mathematica
(Jena 1693). Su W. dr. W. HEsTERMEYER, Paedagogia mathematica, Paderborn 1969;
« Studia Leibnitiana » III (1971), n. 1 (fascicolo dedicato a W.).
498 FILOSOFIA MODERNA

strumento in modo da cogliere non solamente il principio materiale,


l'esteriorità delle cose, ma il loro interno dinamismo, la loro na­
tura e l'orientamento finalistico.
L'uso della matematica è in Weigel spesso fantasioso ed avvol­
to in una macchinosa veste simbolica; comunque, la matematica è vi­
sta da lui non solo come non estranea alla filosofia, ma neppure co­
me semplice parte di essa, bensì come il culmine di tutte le parti
della filosofia, come quel tipo di conoscenza che è conoscenza se­
condo modo e misura, e per causas: essa indaga la costituzione
delle essenze finite in quanto tali, nelle loro prime ragioni, cau­
se, effetti. Queste affermazioni di metodo sono radicate nella
assunzione metafisica fondamentale in Weigel della piena razionali­
tà del reale, radicato in un principio unico, Dio, che tutto crea
numero, pondere et mensura. Il richiamo a queste parole del libro
della Sapienza ( 11,20 ), citatissime non solo in Weigel ma costante­
mente in quest'epoca, va inteso appunto come significante insieme
l'ardore ottimistico con cui si intende mediante la nuova scienza
scoprire i segreti della natura, dei quali si possiede la chiave, il senso
vivissimo della manifestazione della saggezza e bontà di Dio nelle
opere del creato, e ancora l'espressione della tesi ontologica e
teologica (di teologia naturale, di metafisica) per cui l'omogenei­
tà di natura tra la ragione divina e la umana dice la possibilità e
la doverosità da parte di quest'ultima, sia pur limitata, di indagare
ogni campo ed ogni dimensione del reale. Ma torniamo a Weigel: se
noi vogliamo dar conto dell'essere delle cose del mondo dobbiamo ri­
conoscere la loro insufficienza, la loro assoluta incapacità di darsi
l'essere e di mantenersi nell'essere, e dobbiamo perciò ricorrere
ad un essere che non sia, come quelle, affetto da limitazioni, col­
locato nel tempo, esistente « al posto di nulla », all'unico essere
veramente attivo e sussistente per sé, Dio, che ad ogni istante,
nuovamente, le pone in essere con una creazione continua.
Al concetto centrale dell'onesto, dell'agire secondo misura
(Rechenschafftlid,keit), che ha, come abbiamo visto, immediate im­
plicazioni metafisiche, si ricollega una nuova trattazione della logica
e dell'etica, poste entrambe sotto il segno del metodo matematico;
l'uomo è infatti per Weigel, secondo la dottrina biblica, immagine
di Dio, e lo è per Weigel soprattutto in ciò, che anch'egli agisce
onestamente; e con ciò non si fa riferimento solamente alla vita
conoscitiva, ma anche alla vita morale e religiosa. Sforzo costan-
ILLUMINISMO TEDESCO 499

te di Weigel è stato appunto quello di dare una sistemazione rigo­


rosamente scientifica dell'etica, e di darne poi applicazioni peda­
gogiche: rechnen significa infatti anche agire moralmente e vive­
re virtuosamente: e la matematica non solo fa conoscere - essa so­
la in maniera adeguata - la virtù, che è un rapporto quantitativa­
mente determinato, ma, esercitata, porta anche alla pratica del­
la virtù. Nel campo pedagogico, idee fondamentali sono l'appli­
cazione del modello della storia della salvezza (unità originaria -
caduta - redenzione e ritorno all'armonia) ad indicare il fine del
lavoro pedagogico; la forte sottolineatura della necessità di una
formazione della volontà, accanto a quella dell'intelletto, con con­
seguenti esercizi pratici per la formazione della volontà; l'intro­
duzione dell'insegnamento di matematica, fisica, lingua tedesca e
lingue moderne, sviluppo delle conoscenze ed abilità tecniche so­
no infine caratteristica delle scuole weigeliane.

Sul fondamento della tesi affermante l'ordine razionale del


mondo operato da Dio, e dell'altra secondo la quale l'uomo è imma­
gine del suo creatore, Weigel distingue due tipi di enti, i natura­
li o fisici e gli impositivi, le cui essenze sono poste e foggiate
da un atto appunto impositivo dello spirito umano, sia pure sul
fondamento della realtà creata da Dio: e gli enti impositivi si
distinguono in logici (o nozionali) e morali o civili. Il concetto
di ens morale è ripreso da SAMUEL PuFENDORF 7 (1632-1694), ed
è da lui posto a fondamento della sua trattazione del diritto na­
turale: e per questa via si comincia a porre il problema del ca­
rattere particolare del mondo della cultura accanto a quello del­
la realtà fisica. La trattazione scientifica, matematica, del diritto

7
PuFEND0RF Samuel, Chemnitz (l'attuale Karl-Marx-Stadt) 1632 - Berlino 1694.
Figlio cli un pastore protestante, ricevette dal padre la sua prima educazione. Studiò
quindi teologia, filologia, filosofia e storia a Lipsia e a Jena, ove ebbe maestro E. Weigel.
Durante un periodo cli prigionia che dovette subire in Danimarca come precettore nella
famiglia dell'inviato svedese, approfondì la lettura cli Hobbes, Cumberland, Grazio,
dopo cli che scrisse gli Elementa, che gli valsero una cattedra cli diritto naturale ad
Heidelberg. Trasferitosi nel 1670 all'università cli Lund, divenne quindi storiografo
ufficiale prima a Stoccolma e poi a Berlino. Elementa iurisprudentiae universalis (L'Aia
1660; ed. crit. W. A. OLDFATHER, Oxford 1931), De statu imperii Germanici (Ginevra
1667), De iure naturae et gentium (Lund 1672; rist. Francoforte, Minerva, 1967),
De habitu religionis christianae ad vitam civilem (Brema 1687). Traduzioni: Principi di
diritto naturale, antol. a cura di N. BoBBIO, Torino 1943. Su P., N. BoBBI0, Leibniz e P.,
« Rivista di filosofia» XXXVII (1947), 118-129.
500 FILOSOFIA MODERNA

naturale si fonda sulla tesi della costituzione, in senso lato quan­


titativo, delle essenze cosi degli enti naturali come degli enti mo­
rali. Sono due appunto gli argomenti dei quali si tratta nei Pro­
legomeni al De Jure naturae et gentium: in primo luogo, la distin­
zione tra enti naturali, i quali hanno ciascuno i propri principi, asse••
gnati ed accordati dal creatore nella costituzione di ogni essenza,
e le proprie forze e le proprie azioni, e gli enti morali, modi che
gli esseri intelligenti creati aggiungono agli enti naturali, al fi­
ne di dirigere e moderare la volontà negli atti volontari, e di ot­
tenere ordine e dignità nella vita umana; in secondo luogo, la ne­
gazione decisa della tesi secondo la quale le discipline etiche re­
stano abbandonate alla sfera del probabile, e non si può dare cer­
tezza nelle discipline riguardanti gli enti morali; i quali possono
invece essere indagati in quello stesso atto di impositio che li co­
stituisce. Oggetto dell'opera sono le azioni morali, in quanto so­
no rette dalla legge naturale. Non è conveniente che l'uomo viva
eslege, e la norma più universale delle azioni umane è appunto la
legge o il diritto naturale; ora, per Pufendorf (che ha definito la
legge come il decreto in virtù del quale il superiore vincola colui
che gli è soggetto a compiere azioni conformi a ciò che in essa è
prescritto) il diritto naturale si distingue si dal diritto umano,
ma non però dal diritto divino positivo, ché nessun atto è in se debito
o illecito, prima di esser reso tale dalla legge: ora, creando l'uo­
mo, Dio deve crearlo di necessità ipotetica sottomesso alla legge
naturale, e chi non concede ciò pone quasi un principio estrinseco
a Dio, a cui egli dovrebbe di necessità far riferimento « in assi­
gnandis rerum formis ».
Ciò non significa tuttavia che per indagare i precetti di que­
sto diritto naturale, che non si radica su presunte eterne essenze
delle cose, considerate come indipendenti da intelletto e volontà
divina, si debba fat ricorso alla rivelazione, e magari alla distin­
zione ivi contenuta tra lo stato di natura integra e lo stato di na­
tura corrotta dell'uomo. Lo strumento di indagine è la pura ragione
che osserva la natura dell'uomo quale questa si rivela alla nostra
esperienza; ed il principio sommo del diritto naturale è la natura
sociale dell'uomo. Da questo principio nasceranno poi precetti di­
versi, assoluti (verso se stessi e verso gli altri uomini), aventi
vigore in qualsiasi stato ci si trovi, e ipotetici, una volta che si
abbiano anche istituzioni dovute alla iniziativa dell'uomo (si ha
ILLUMINISMO TEDESCO 501

di mira la distinzione tra stato naturale, economico, civile). Quan­


to al sorgere della società civile, Pufendorf ritiene che la natura
sociale dell'uomo, che lo porta a costituire la società familiare
(al cui interno egli studia il rapporto tra moglie e marito, ge­
nitori e figli, signore e servi), non è sufficiente per sé a portarlo
alla costituzione di una società civile, ove non si congiunga al
desiderio di rimediare con un freno più forte della sola legge
naturale alle rivalità che sorgono tra gli uomini; su tale base si
attua il patto, o meglio una pluralità di patti (di unione e di sog­
gezione) che dànno origine a quella unità, quella persona morale
composita che è la civitas. Nel delineare il rapporto che tale dottrina
ha con la teologia rivelata, Pufendorf sottolinea come il diritto na­
turale si indirizzi all'uomo considerato nell'ambito della sua vita
terrena (anche la religione è in esso considerata solo in questo oriz­
zonte, nel suo puro aver riferimento alla vita associata) e come esso
prescinda da ogni rivelazione: è per questo che il diritto naturale
considera l'uomo con la sua natura quale questa si presenta attual­
mente, corrotta e viziata da innumerevoli inclinazioni malvagie.

Molto più strettamente legato ai grandi pensatori del secolo


XVII di quanto non fosse E. Weigel è EHRENFRIED WALTER von
8
TscHIRNHAUS (1651-1708), che conosce ben più da vicino il pen­
siero cartesiano, ed è in rapporto epistolare, oltre che con Leibniz,
anche con Spinoza. Proprio col De intellectus emendatione tradisce
una indubbia affinità la sua opera maggiore, la Medicina mentis. Il
che si rivela già nelle movenze iniziali dell'opera: infatti, il fine di
questa è, istituito il parallelismo di matematica e filosofia, di trarre,
a partire dalla matematica che ne è in possesso, una ars inveniendi
generale che possa condurre a quel terzo tipo di conoscenza, la rea­
le, che sola è da perseguirsi, al di là della verbale e della istoriale;

• TsCHIRNHAUS Ehrenfried Walter von, Kiesslingswalde (Alta Lusazia) 1651 -


Dresda 1708. Di nobile famiglia di origine morava, ricevette una accurata educazione.
Privatamente e all'Università di Leida, si dedicò a studi soprattutto matematici, e poi
fisici e filosofici. Dal i675 al 1678 viaggiò a lungo in Olanda, Inghilterra, Francia e
Italia, e nel corso di questi viaggi entrò in contatto con Huygens, Newton, C.Ollins e so­
prattutto con Spinoza e Leibniz. Nel 1682 divenne membro dell'Accademia di Parigi.
Medicina mentis (Amsterdam 1687; 16952 ; rist. Hildesheim Olms 1964). Su T. cfr.
J. VERWEYEN, E. W. v. T. als Philosopb, Bonn 1906; G. RADETTI, Cartesianesimo e
Spinozismo nel pensiero di E. W. v. T., « Rendiconti dell'Ace. Naz. dei Lincei, Cl. Se.
morali », 1938, pp. 566-601.
502 FILOSOFIA MODERNA

ma tutto ciò è ricompreso in un discorso intorno ai falsi e ai veri,


immutabili ed eterni, beni dell'uomo. Taie discorso culmina nella
delineazione di una :figura ideale di saggio, che assomma in sé sa­
pienza, virtù e tranquillità d'animo; e poiché il tratto fondamentale
è quello della sapienza, si conclude che « la invenzione della verità
attraverso le nostre proprie forze è la più nobile occupazione a cui
ci si possa dedicare in questa vita » (Med. mentis, p. 21 ). Una unica
disciplina fondamentale, che dia i precetti universali dell'acquisizio­
ne di verità sconosciute a partire da verità note, ci permette infatti
già di accostarci a Dio è di contemplare, in certo qual modo, per via
naturale, la mente divina. La via che conduce ad impossessarsi di ta­
le disciplina passa attraverso la matematica; notandosi infatti che in
essa non vi sono dispute, che essa progredisce costantemente e che
i suoi problemi si possono risolvere con relativa facilità, si è portati
a supporre che essa sia in possesso del metodo desiderato. Ed è in­
fatti possibile strapparle il suo segreto. Quattro sono i principi, le
evidenze fondamentali su cui è basata la costruzione tschirnhausiana:
a) sono cosciente di diverse cose, b) qualcosa mi colpisce piacevol­
mente, qualcosa spiacevolmente, c) posso concepire alcune cose, altre
cose non posso assolutamente concepire; ed è questo il criterio della
distinzione del vero dal falso: si distinguerà però tra l'avvertire di
non poter concepire, la impossibilità di concepire un certo oggetto,
ed il non essere in grado di formare un concetto di ciò che pure si
percepisce; si dà infatti, oltre al concipere, d) il percipere mediante
i sensi esterni ed interni, l'immaginazione. L'intelletto, che conce­
pisce, è attivo, questa passiva, e solo i matematici sono riusciti fi­
nora a discernere accuratamente le due facoltà: di qui la certezza
della loro scienza. Fondandosi sul criterio del conceptibile e sulla
sua distinzione dal perceptum, la scienza progredisce; e progre­
disce partendo da definizioni, che son ciò che prima è concepito
della cosa ( esse debbono essere genetiche, e nella loro formazione
intervengono l'esperienza e l'induzione); gli assiomi sono verità
riguardanti i possibili rapporti tra gli elementi delle definizioni;
da una loro combinazione si costruiscono teoremi, e si passa alla
risoluzione dei problemi. Una ultima sezione dell'opera è dedicata
alla applicazione del metodo, agli impedimenti che sono di osta­
colo alla sua applicazione ed alla loro rimozione. Infine si ha una
classificazione delle scienze condotta col criterio dei loro oggetti,
degli oggetti più degni di essere investigati: della matematica -
ILLUMINISMO TEDESCO 503

abbiamo visto - non si può fare a meno, ma scienza veramente


divina è la fisica, di contro alle altre scienze, scienze umane. Suo
oggetto sono infatti gli entia realia, enti fisici (essa spiega le leggi
date da Dio alle sue opere, leggi dipendenti dal creatore e non dal
nostro intelletto) e non gli entia imaginabilia o anche rationalia
(considerando i quali si ha a che fare con leggi formate dal nostro
intelletto, in quanto astraiamo dalle cose stesse). Di temi più spe­
cificamente metafisici Tschirnhaus tratta solo di passaggio: qual­
che accenno di dimostrazione dell'esistenza di Dio è contenuto nel­
la Medicina mentis; il problema della libertà è invece oggetto di
discussione nell'epistolario con Spinoza.

2. Chr. Thomasius e la sua scuola

Con CHRISTIAN THOMASIUS 9 (1655-1728), entriamo nella


prima fase del movimento illuministico tedesco. Ma, p�r quanto
assunto a caratterizzare l'inizio della nuova epoca storica, l'attacco
thomasiano alla scolastica non è certamente senza precedenti. L'op­
posizione che aveva accompagnato il risorgere dell' aristotelismo
nel protestantesimo, in nome del puro luteranesimo contro una
dogmatica razionalisticamente elaborata e con richiamo all'anima
pagana di ogni filosofia, era continuata durante tutto il secolo
XVII, fino a congiungersi con l'opposizione filologico-storica, e
quella di pietisti, galanti e poliistori. Ora comunque, il pietismo

• THOMASIUS Christian, Lipsia 1655 - Halle 1728. Figlio di Jakob T., famoso come
storico della filosofia e per essere stato maestro di Leibniz, studiò filosofia e diritto a
Lipsia e a Francoforte sull'Oder: importanti le letture di Grozio e Pufendorf. Dopo
un viaggio in Olanda, egli operò a Lipsia e successivamente ad Halle, ove insegnò sin dal
1690 e nel 1694 fu tra i più importanti docenti della nuova università. Per quanto
riguarda la sua evoluzione intellettuale e le sue battaglie culturali, cfr. il testo. Tra le
sue opere ricordiamo: Introductio ad philosophiam aulicam (Lipsia 1688), Institutiones
iurisprudentiae divinae (Francoforte e Lipsia 1688; rist. Aalen Scientia 1963), Einleitung
zu der Vernunftlehre (Halle 1691; rist. Hildesheim Olms 1968), Ausubung der Ver­
nunftlehre (Halle 1691; rist. Hildesheim Olms 1968), Einleitung zur Sittenlehre (Halle
1692; rist. Hildesheim Olms 1967), Ausubung der Sittenlehre (Halle 1696; rist. Hil­
desheim Olms 1967), Versuch vom Wesen des Geistes (Halle 1699), Fundamenta Juris
naturae et gentium (Halle 1705; rist. Aalen Scientia 1963). Su T.: F. BATTAGLIA, C. T.,
filosofo e giurista, Roma 1936; D. DEL Bo, Le dottrine giuridiche di C. T., « Riv. di fil.
neoscolastica», XXXI (1939), 78-92; G. SOLARI, C. T., « Riv. di filosofia», XXX (1939),
39-65; R. LIEBERWIRTH, C. T., Weimar 1955; G. AcEn, Considerazioni di C. T. sullo
studio dell'economia, « Riv. int. di scienze sociali», LXVI (1958), 217-241; W. ScHNE1-
DERS, Recht, Moral und Liebe, Miinster 1961.
504 FILOSOFIA MODERNA

e la prima generazione dell'illuminismo (nel suo rappresentante


C. Thomasius) si trovano concordi nel combattere quella eccessiva
e deformante intellettualizzazione del Cristianesimo che individua­
no nella « scolastica»: la distinzione tra lume naturale e sopran­
naturale (inteso in senso lato, cosi da abbracciare l'intelletto come
la volontà) è tesi che Thomasius non si stanca di sottolineare, dal­
la giovanile Introductio in philosophiam aulicam sino all'ultima
fase del suo pensiero. I due lumi convergono, pur essendo supe­
riore il soprannaturale; ma non vanno tuttavia confusi. Da una
sopravvalutazione del primo si originano la « teologia scolastica »
e la « teologia mistica», puntando quella su una eccessiva valu­
tazione dell'intelletto, questa, della volontà; ma neppure è lecito
fare uso in filosofia di principi desunti dalla Scrittura (ad esempio
partendo dall'affermazione dello stato di innocenza originaria e
della successiva caduta).
Accanto a quello della denuncia della indebita commistione di
:filosofia e teologia, elemento costante nella ricerca :filosofica di
Thomasius è il rifiuto del principio d'autorità, il rifiuto di ogni
:filosofia « settaria» per una filosofia che riesca ad essere « eclet­
tica»: una filosofia che non dipenda cioè dalle sentenze di un
unico maestro e dall'autorità di un unico pensatore, ma che sia
pronta ad ascoltare tutti e a cogliere il buono dove si trova; e,
soprattutto, che ponga al vaglio ogni argomento, servendosi dei
propri mezzi per giudicare le cose, non degli altrui. A ciò si ac­
compagna la rivendicazione costante della libertà di pensiero e
della tolleranza. Comunque - afferma Thomasius - l'uomo non
è fatto tanto per la contemplazione, quanto per l'azione: di qui
l'esigenza della traduzione del sapere nella pratica, il forte accento
posto sui concetti di uso, di utilità del sapere stesso. Ogni cono­
scenza che non torni utile, che sia solo per l'intelletto e non per
il perfezionamento e raddrizzamento della volontà e del mondo
umano che ne dipende, non è sapienza ma stoltezza. Il cuore, sede
dei desideri e dell,1. volontà, vien contrapposto al cervello, alla
mente; la volontà e non l'intelletto è causa del male, e del bene,
e si ingannano coloro che ritengono possibile emendare la volontà
emendando l'intelletto, favorire - potremmo dire - la Aufkla­
rung partendo da una riforma dell'intelletto e della facoltà cono­
scitiva. Presto messo in ombra dal prevalere dell'intellettualismo
wolffiano, questo pensiero non cederà mai completamente il cam-
ILLUMINISMO TEDESCO 505

po: sarà ripreso decisamente da Hegel negli Scritti teologici gio­


vanili.
Thomasius stesso, a testimonianza della sua totale mancanza
di pregiudizi nella ricerca, più e più volte torna a delineare le
tappe della sua evoluzione intellettuale e spirituale. Egli deve mol­
to, per la sua formazione, al padre Jacob Thomasius, che, legato
alla tradizione aristotelica ma critico della scolastica, è tra gli ini­
ziatori di studi di storia della filosofia in Germania, e fu maestro
di Leibniz. Dal padre, C. Th0masius fu avviato alla lettura di Gra­
zio, lettura che segna l'inizio del suo interesse per la « giurispru­
denza », alla quale finalizzò gli studi di filosofia e teologia. Da una
iniziale posizione di condivisione dell'intuizione centrale di Gra­
zio sulla deduzione del diritto naturale dalla natura dell'uomo, ma
con ciò anche del suo presupposto « scolastico », Thomasius giun­
ge poi alla piena accettazione dei principi pufendorfiani, nelle sue
dissertazioni sul tema della bigamia, e soprattutto nelle Institu­
tiones iurisprudentiae divinae: il punto controverso riguarda fon­
damentalmente la dottrina, secondo Thomasius, comune agli scola­
stici e a Grazio, del criterio di moralità delle azioni come antecedentt!
alla volontà divina, dottrina che egli sente di poter senz'altro rigetta­
re, dopo che una più approfondita meditazione sulla distinzione tra
filosofia e teologia gliene ha svelato la natura di tesi filosofica e non
teologica. La legge viene definita, pufendorfianiamente, come coman­
do del superiore, che obbliga il suddito ad indirizzare le proprie azio­
ni secondo quel comando. Dio non agisce secondo una legge in
qualche modo anteriore alla sua volontà, e la legge eterna è una
finzione degli scola�tici. Ancora sulla scia di Pufendorf, si afferma
che fondamento conoscitivo del diritto naturale è la stessa natura
sociale dell'uomo (la socialità viene dedotta come essenziale al­
l'uomo a partire dalla razionalità, per il tramite del linguaggio,
non dalle leggi della santità divina, o dallo stato di innocenza pri­
mitiva). Se inoltre la giurisprudenza ha comune con la teologia il
compito di procurare la beaiitudo, la felicità della parte spirituale
dell'uomo, e cioè dell'anima, se ne distingue però perché il suo
orizzonte è limitato al temporale e non si volge alla vita eterna.
Nei restanti due libri delle Institutiones, Thomasius tratta dei do­
veri verso Dio, verso se stessi, verso gli altri uomini.
Negli stessi anni 1687-88, Thomasius solleva polemiche nel­
l'ambiente culturale di Lipsia: dapprima, con il Discorso sull'imi-
506 FILOSOFIA MODERNA

tazione dei francesi, redatto, contro ogni uso accademico, in lin­


gua tedesca; in esso, attaccando l'assetto dominante della vita cul­
turale delle università, in polemica con chi, a cagione della pro­
pria terminologia barbarica � delle astrazioni e sottigliezze meta­
.fisiche resta del tutto isolato dalla vita del mondo, propone un
nuovo ideale di cultura, dell'uomo sçavant, del bel esprit, del ga­
lant homme, la cui cultura è adeguata alla società del tempo e il
cui sapere è volto a discipline utili al genere umano, tali da ave­
re un immediato aggancio con la promozione della felicità tra gli
uomini, secondo l'ideale del feliciter, e cioè honeste, iucunde, uti­
liter vivere. Quindi, della lingua tedesca che così di prepotenza
aveva introdotto nella vita accademica tedesca, Thomasius si ser­
virà ancora nei Monats-Gespri:iche (1688-90), una rivista a carat­
tere bibliografico, a periodicità mensile, in cui gli strumenti del­
l'ironia e della satira sono adoperati a colpire ancora gli ambienti
universitari; e forse non gli è estranea l'intenzione di rivaleggiare,
proponendo uno strumento di più larga diffusione, destinato ad
un pubblico più vasto e più vario, con i prestigiosi Acta erudito­
rum, editi anch'essi a Lipsia.
Quelle preoccupazioni di carattere religioso che pure si era­
no viste già operanti nel periodo preso in esame vengono in primo
piano in quello che si può dire il periodo « pietistico » di Thoma­
sius, che è in stretto contatto con i massimi rappresentanti del
movimento pietistico, Spener, Francke ed Arnold. Cadono in que­
sto periodo ampie trattazioni di logica e di etica; poiché alla sag­
gezza si richiedono discernimento ed applicazione del vero e del
buono. In entrambi i casi, il momento decisivo della critica alle
posizioni tradizionali sta nella denuncia del loro trascurare l'uomo
reale, conoscente ed agente. La logica (e la conoscenza storica) so­
no strumenti indispensabili sia al sapere costruito sulla luce na­
turale dell'intelletto, che ci dà conoscenza delle cose sensibili e
terrene per la felicità di questa vita, sia per quello costruito sulla
rivelazione divina. Logica però non è sinonimo di sillogistica, o
di logica formale; essa è prudentia cogitandi ac ratiocinandi, si oc­
cupa non tanto di proprietà e relazioni formali tra concetti, di giu­
dizi, della struttura dell'argomentazione; essa non vuole trascu­
rare quella che è la cosa principale, la materia della conoscenza;
la sua destinazione è infine eminentemente pratica: riforma, e li­
berazione dell'intelletto dagli ostacoli e dai vizi che ne impedisco-
ILLUMINISMO TEDESCO 507

no il retto uso. La logica si configurerà quindi essenzialmente co­


me una ars inveniendi, che fornisce dapprima regole intorno alla
distinzione del vero dal falso, quindi si occupa delle verità imme­
diatamente evidenti e del modo di acquisirne di nuove a partire
da quelle; fornisce poi precetti intorno al modo di giungere concre­
tamente alla verità, in date situazioni psicologiche, e troviamo qui
la tecnica della liberazione dai pregiudizi, che sono principalmente
due, autorità e precipitazione; abbiamo infine indicazioni intor­
no al modo di interpretare e giudicare le opinioni altrui, e di co­
municare ad altri verità conosciute. Intorno all'origine delle idee
Thomasius assume una posizione sensistica; particolare spazio,
perché particolare importanza ha nella vita, è fatto alla teoria del­
la probabilità, più che non a quella della dimostrazione matemati­
camente rigorosa.
Dopo la riforma dell'intelletto, la riforma della volontà. Tho­
masius si accinge alla trattazione dell'etica: gli uomini si possono
distinguere in tre classi: le bestie, che si lasciano dominare dai
vizi e neppure avvertono la necessità di liberarsene; gli uomini,
che si sforzano di realizzare una vita virtuosa, e i cristiani, allo
stato dei quali si richiede il concorso della grazia; la filosofia mo­
rale non potrà presumere altro, evidentemente, che cercare di ele­
vare dal primo al secondo stadio. Il difetto fondamentale delle
consuete trattazioni dell'etica sta appunto in ciò, che la sua parte
più importante, che deve fornire la regola di una vita virtuosa, e
il modo in cui ci si può liberare dalla schiavitù dei vizi, non è nep­
pure sfiorata. La natura umana dice movimento dal meno al più
perfetto: e la perfezione, che consiste nell'armonia, si manifesta
nella tranquillità dell'animo. Ora, l'amore vicendevole tra gli uo­
mini, l'amore razionale, è l'unico mezzo per ottenere tale tranquil­
lità d'animo. Il secondo volume dedicato all'etica è terminato solo
nel 1696; e si distanzia dagli scritti del 1691-92 per il più accen­
tuato pessimismo che vi si rivela, presumibilmente sotto l'influsso
pietistico, quanto alla possibilità per l'uomo di porsi con mezzi na­
turali sulla via della virtù. Origine del male, come anche degli er­
rori dell'intelletto, è la volontà dell'uomo in quanto si lascia do­
minare dall'amore irrazionale (specificantesi nei tre affetti del de­
siderio di onori, avidità di denaro, ricerca del piacere), che tra­
scina con sé l'intima inquietudine dell'animo. Ad una analisi più
pessimistica, lo stesso amore razionale si rivela come null'altro
508 FILOSOFIA MODERNA

che una mistura dei tre affetti malvagi. L'opera è chiusa da un


abbozzo di caratteriologia, volto sempre a fini pratici, morali.
Questo particolare periodo del pensiero thomasiano culmina
nel Saggio sull'essenza dello spirito: lo sguardo si amplia qui a
considerare non soltanto l'uomo, che era stato finora l'oggetto presso­
ché unico della ricerca, ma la realtà tutta. Nel rifiuto, legato a
quello della filosofia settaria, così dell'aristotelismo come del car­
tesianesimo, Thomasius delinea una concezione decisamente anti­
meccanicistica del reale ( due sono i principi della natura, mate­
ria passiva e spirito attivo, di cui consta ogni corpo), che si ri­
chiama alla tradizione « mistica » attingendo a J. Bohme e alla
Cabala giudaica, e poi a R. Fludd, V. Weigel, Paracelso. L'uomo
risulta da tre elementi componenti: il corpo, materia passiva or­
ganizzata dallo spirito animale, cioè l'anima, che non è elemento
caratteristico solo dell'uomo e che mediante varie potenze e moti
trascina alle creature, e infine lo spirito, che volge l'uomo dalle
creature a Dio. Sia nell'anima che nello spirito si hanno intelletto
e volontà, ed il primato spetta senz'altro alla volontà. Se nel
primitivo stato di integrità c'era armonia nell'uomo, nello sta­
to decaduto c'è lotta tra anima e spirito. Una rigenerazione è pos­
sibile solo mediante la grazia e la fede, la quale ultima non si ri­
duce certo ad essere una speculazione sui misteri divini, e può
senz'altro accompagnarsi con un errore dell'intelletto intorno ad
essi; è questa la risposta thomasiana alla situazione delineata in
sede etica.
Con i primi anni del nuovo secolo, quel periodo che era stato
caratterizzato da un senso della caduta e del peccato molto forte,
si chiude; secondo lo stesso Thomasius, motivi di ciò sono la ac­
quisita consapevolezza che la teologia « mistica », poggiante innanzi­
tutto sulla distinzione tra anima e spirito, conduce all'esaltazione
fanatica e porta infine, col disprezzo della retta ragione, alla ser­
vitù intellettuale e spirituale; poi, il maggior frutto che si ricava
dalla distinzione tra i due lumi, naturale e soprannaturale, nella
ricerca della verità e nella moderazione degli affetti; infine, l'in­
flusso della lettura del Saggio di Locke, con le sue ammonizioni
circa l'entusiasmo. In questi anni, non troviamo opere di carattere
propriamente filosofico; sono del 1705 i Fundamenta juris natu­
rae et gentium, una rielaborazione, su nuove basi, del materiale
delle Institutiones. Resta la distinzione sopra ricordata tra giuri-
ILLUMINISMO TEDESCO 509

sprudenza e teologia, ma si contesta la legittimità dell'eccessivo


peso dato da Pufendorf alla impositio nella definizione degli enti
morali contrapponendoli ai naturali, ciò che renderebbe difficile
l'applicazione del metodo dimostrativo agli argomenti morali: si
afferma ora, con un ritorno alla posizione di Grozio, la tesi della
indipendenza, della anteriorità del diritto naturale rispetto alla
volontà divina: la legge naturale è immutabile perché eterne ed
immutabili sono le nature delle cose. L'aspirazione a una vita lun­
ga e felice, l'orrore della morte e del dolore e il desiderio di pos­
sesso e di dominio costituiscono le tre fondamentali inclinazioni
dell'uomo; ove non siano regolate dalla ragione, si ha lo stato di
natura, caratterizzato più dal ripetersi di conflitti che da una si­
tuazione di pace. Con l'ordine portato dalla ragione si passa ad
uno stato morale, civile, di vita giusta, decorosa ed onesta; rispet­
tandone i principi si potrà avere una vita felice. Rigettato infatti
quello della socialità dell'uomo, al rango di primo principio cono­
scitivo del diritto naturale è posta la norma che prescrive « doversi
fare ciò che è atto a rendere la vita degli uomini massimamente du­
revole e felice; da evitarsi, ciò che rende infelice la vita, ed affretta
la morte ». Questo principio generale è capace di raccogliere sotto
di sé i principi particolari del triplice bonum, e cioè del giusto,
del conveniente, dell'onesto, che è richiesto perché si abbiano sa­
pienza e felicità.
Poggiando sui principi della sua etica e del suo diritto natu­
rale, Thomasius conduce battaglie di grande risonanza, in campo
giuridico, che rispondono appieno allo spirito di riforma pratica
dell'illuminismo: il processo inquisitorio, l'accusa per il delitto
di magia e la pratica della tortura risultano contrari a quei prin­
cipi, non reggono al vaglio della ragione: l'antiquitas, la frequen­
tia ed il consensus non valgono di per sé a conferire ad un costume
valore di consuetudine e di legge, ché ciò che vuole attribuirsi
il titolo di vera consuetudine deve essere sempre conforme a ra­
gione (rationabile), e non essere stato originariamente introdotto in
virtù di un errore.

Se Thomasius non dimostra particolare profondità ed origina­


lità 8peculativa, soprattutto se lo si pone a confronto con il suo
contemporaneo Leibniz, tuttavia egli ebbe una grandissima influen­
za nella vita culturale tedesca: le sue opere, molto diffuse, ebbero
510 FILOSOFIA MODERNA

parecchie edizioni, e un buon numero dei suoi seguaci occupò le


cattedre di varie università, fino a che, nel corso degli anni '20, il
wolf!ismo non giungerà a soppiantarne quasi del tutto la presen­
za. Si possono ricordare, tra i discepoli di Thomasius, N. H. Gun­
dling, F. Budde ed A. Riidiger.
NIKOLAUS HYERONIMUS GUNDLING (1671-1729), professore
di filosofia ad Halle, è autore di una Via ad veritatem (1713-15),
che comprende tre parti: una logica, in cui all'influsso di Thoma­
sius si congiunge, sensibile, quello di Locke, e l'ars inveniendi
viene arricchita di motivi gnoseologici; un'etica, e una giurispru­
denz.1 naturale. Particolarmente significativi, in sede conoscitiva,
l'ampio spazio fatto alla probabilità, e, in sede morale, alla teoria
dei temperamenti. Anche gli obiettivi polemici sui quali deve
trionfare la verità, pedanteria e superstizione, sono quelli thoma­
siani.
Sempre nell'ambiente di Halle è attivo JOHANN FRANZ BuDDE
(1667-1729), professore prima di morale ad Halle, quindi di teo­
logia a Jena. Teologo anziché giurista come C. Thomasius e N.
H. Gundling, forse proprio per questo Budde avverte il bisogno
di riallacciarsi maggiormente, pur restando nell'ambito thomasia­
no, a1la tradizione filosofico-teologica precedente. Non solo nella
sua opera maggiore torna alla lingua latina, ma persegue l'ideale
di una certa maggiore sistematicità, sia pur disgiunta dalla ricerca,
che giudica insensata, di una certezza, sempre ed in ogni campo,
di tipo matematico; e infine, soprattutto, torna a trattare ex pro­
fesso e sistematicamente, accanto alla logica, di ontologia, che del
resto egli considera una disciplina strumentale della :filosofia, espli­
cativa dei termini più generali. Con Thomasius, Budde condivide
la persuasione della utilità della storia della :filosofia quale intro­
duzione al filosofare, e rigetta la filosofia « settaria » optando per
quella « eclettica ». Come natiti a rerum divinarum humanarum­
que, la filosofia ha a strumento la retta ragione, ciò che la distin­
gue dalla teologia; come fine però la felicità, vuoi terrena, vuoi
eterna. Sia in logica sia in etica, si tratta di indicare i rimedi per
curare le deficienze ed i vizi di intelletto e volontà, per portarli
alla salute.
Particolare attenzione merita infine ANDREAS RunrGER (o an­
che Ridiger, 1673-1731); discepolo anch'egli di Thomasius, e me­
dico oltre che :filosofo, è autore di una grossa opera, redatta in
ILLUMINISMO TEDESCO 511

latino, abbracciante le diverse discipline filosofiche in modo


sistematico, e dedicata all'uso accademico, la Philosophia pragma­
tica (1723 ). Altra opera notevole è il De sensu veri et falsi (1709;
17222 ). Sensibile anch'egli agli influssi pietistici, la sua preoccu­
pazione di determinare la capacità e i poteri dell'intelletto umano,
non del tutto perduti a causa della colpa originale, si avverte par­
ticolarmente nella trattazione della logica, la quale viene così a ca­
ricarsi di temi gnoseologici, oltre a quelli psicologico-fisiologici,
derivanti dalla sua formazione medica. L'empirismo lockiano vie­
ne insieme apprezzato e combattuto, di contro alla posizione car­
tesiana: egli intende infatti porsi come mediatore tra le posizioni
opposte dell'empirismo scolastico e del razionalismo cartesiano:
non si dànno idee innate, ed ogni idea deriva dalla sensazione; ma
si dà però una sensio interna, oltre alla sensazione esterna. Parti­
colare interesse ha l'affermazione del darsi di primi principi pra­
=
tici, la cui sede è l'anima ( volontà, distinta dalla mens o intel­
letto, e col corpo una delle tre « sostanze » che entrano a costi­
tuire l'uomo): si tratta di un qualcosa di simile, nell'uomo, al­
l'istinto che è negli animali, e che, indipendentemente da ogni
preliminare ragionamento, ma non contro la ragione, « divina »
verità pratiche, verità cioè concernenti i mezzi atti al raggiungi­
mento di un fine, più precisamente di un fine mondano. Resta in­
vece problematico se si dia un tale stimulus voluntatis, che inten­
zioni « le cose eterne e celesti ». Quindi, partendo dall'assunto
fondamentale secondo il quale i sensi son principio primo e crite­
rio ultimo di ogni verità, Riidiger elabora una metodologia che
implica la negazione della universale applicabilità del metodo ma­
tematico (la matematica ha ad oggetto l'ente possibile, la :filosofia
l'ente reale, le definizioni puramente possibili in :filosofia sono no­
minali, e tali - non reali - sono le conclusioni che se ne trag­
gono, ecc.), ed il conferimento di una particolare importanza al
ragionamento probabile, che si estende ad esempio a coprire l'am­
bito dell'intera fisica. In fisica - ed è questo un altro aspetto inte­
ressante del pensiero di Riidiger - egli evita la piena accettazione
della scienza meccanicistica della natura, che Wol:ff andava com­
piendo proprio in questi anni; essa presume infatti di basare la
propria spiegazione della natura su principi « autocratici » che
fanno ricorso a forze che sono in realtà incapaci di spiegare i fe­
nomeni naturali. Oltre che alla materia, principio del meccani-
512 FILOSOFIA MODERNA

cismo matematico, ed al corpo, princ1p10 del meccanicismo fisico,


bisogna far ricorso allo spirito, principio animatore e vitale (cfr.
la sua Physica divina, 1716).
È utile notare infine che dalla cerchia dei discepoli di Thoma­
sius proviene la prima grossa opera di storia della filosofi.a, avente
carattere di completezza, che sia stata edita in Germania: quella
di J. Brucker. Non trascurabili, in relazione alla storiografi.a filo­
sofica, erano stati i meriti di J. Thomasius, salutato da Leibniz
come colui che dà una vera storia della filosofia e non dei filosofi,
che sostituisce ad una pura elencazione di nomi l'esame delle ra­
gioni del concatenarsi delle varie dottrine filosofiche; il figlio Chri­
stian - come abbiamo visto - aveva posta la storia, e la storia
della filosofia, alle soglie del :filosofare, come disciplina strumen­
tale fondamentale. E su questa linea si era mosso Budde. L'ap­
proccio di F. BunnE alla storia della filosofia era stato mediato
dalla storia ecclesiastica: lo studio del sorgere delle eresie riman­
da alla storia della filosofia, dalla quale quelle si originano; e gli
errori :filosofici hanno in comune con le eresie la loro radice nella
presunzione di poter superare i limiti imposti dalla natura all'in­
telletto umano. Accanto quindi al fine di elevare e preparare gli
animi alla filosofia, alla storia della filosofi.a viene affidato il com­
pito importante di render palpabile la imperfezione dell'intelletto
umano, il quale invano cerca di ottenere sempre quella certezza
derivante da dimostrazioni matematiche, che non in ogni caso gli
è concessa. Non c'è « setta » che non abbia detto qualcosa di vero,
e insieme qualcosa di falso: di qui la necessità di prendere a criterio
quello della filosofia « eclettica », e di qui anche l'importanza del la­
voro critico ed ermeneutico, per essere in grado di interpretare la
verità trovata ed esposta da altri.
Budde è autore anche di uno schema di storia della filosofia,
per « sette » , che sarà ripreso dal discepolo ]AKOB BRUCKER
(1696-1770) nella sua opera maggiore, la Historia critica philo­
sophiae (1742-44 ). Il materiale necessario alla stesura di una uni­
taria storia della fì!osofìa è ormai pronto, grazie all'opera dei gran­
di eruditi del secolo precedente. Brucker riconosce, almeno in
linea teorica, la necessità di dare una storia non delle persone, ma
delle dottrine, anche se poi troppo spesso la presentazione di que­
ste si risolve in una elencazione di « tesi », troppo numerose e
ILLUMINISMO TEDESCO 513

slegate. Seguendo Budde, egli ribadisce la necessità di distinguere


nettamente tra teologia e filosofia, ed è questa la ragione princi­
pale della polemica anti-scolastica che percorre tutta la sua opera;
riafferma la doverosità per lo storico della filosofia di possedere
non solo l' ars ratiocinandi, ma anche l' ars critica, per poter con­
durre uno studio sulle fonti. Come storia delle sorti dell'intelletto
umano, dei suoi errori e delle sue cadute come del suo graduale
progresso dall'oscurità alla verità e felicità, la storia della filoso­
fia è indicazione, per il futuro, di ciò che è da evitare (accettazione
del principio d'autorità, settarismo, amore per le vane sottigliez­
ze) e delle direzioni a cui tendere; insegna la modestia nella ricerca
del vero, il dialogo. In cinque grossi volumi (se ne aggiunge un
sesto nel 1767), Brucker traccia, con gran dovizia di particolari e
ricchi riferimenti bibliografici, la storia della filosofia universale,
in tre grandi periodi: dall'era anti-diluviana al sorgere dell'impero
romano, di qui al rinascere delle scienze, dal rinascimento e la ri­
forma ali' età contemporanea. La storia della filosofia post-me­
dievale viene trattata, secondo gli schemi di Thomasius e di Bud­
de, in due parti, l'una dedicata alla filosofia settaria (ripresa delle
varie sette dell'antichità), l'altra alla :filosofia eclettica, ai pensatori
autonomi; fanno spicco tra questi Cartesio, Leibniz e Thomasius;
di Wolff, come di pensatore ancora vivente, si tratta in poche pa­
gine.

3. Christian Wolff
Come per Thomasius e per la sua scuola, cosl anche per Wolff
- e per tutto il secolo - la filosofia non è pura contemplazione,
attività meramente teoretica, ma saggezza di vita (Welt-Weisheit),
scienza del vero e del bene, e che, avendo a strumento la ragione,
intende delineare e costruire un modo di vita che sia - almeno
nella sfera terrena -, insieme ed indissociabilmente, moralmente
coerente e felice. Al raggiungimento di questo fine è volta la esi­
genza stessa della « scientificità » della filosofia, che si compendia
nella asserita necessità di richiamarsi al fondamento di ogni verità,
alla ragione del nesso che unisce soggetto e predicato; questo ri­
chiamo è essenziale, per Wolff, perché solo per esso la conoscenza
filosofica si distingue dalla storica, che sta ferma al puro fatto,
senza elevarsi alla consapevolezza della sua ragione.
514 FILOSOFIA MODERNA

10
CHRISTIAN WoLFF ( 1679-1754) è la figura dominante del
pensiero tedesco del '700; e il suo merito non sta tanto in una
particolare profondità speculativa, quanto piuttosto nella cura del
costante perseguimento di un ideale di sistematicità e di fonda­
tezza, ciò in cui Kant ed Hegel lo riconosceranno maestro. L'ap­
provazione e la diffusione che la sua filosofia incontra faranno si
che verso la metà del secolo gran parte delle cattedre di filosofia,
e diverse anche di teologia, delle università tedesche siano occu­
pate da wolffiani; e se pensatori più tardi, soprattutto Mendels­
sohn, saranno i fondatori e modelli della prosa filosofica tedesca,

10 WOLFF Christian, Breslavia 1679 - Halle 1754. Tenninati gli studi ginnasiali nella
nativa Breslavia, dove già ha modo cli conoscere la filosofia aristotelica e scolastica ed ha
i primi contatti con la cartesiana, si reca a Jena per studiare teologia. Ma si applica
soprattutto alla filosofia e alla matematica: legge tra l'altro Tschirnhaus, Pufendorf,
Sturm. Trasferitosi a Lipsia, vi insegna matematica, mentre entra nel circolo degli
Acta eruditorum, e attraverso O. Mencke che ne è l'editore, conosce Leibniz con cui
intrattiene una corrispondenza che cesserà solo con la morte del filosofo di Hannover.
Dal 1706 al 1723 insegna matematica, e poi filosofia, ad Halle, con successo crescente;
ma alcune sue tesi gli procurano l'avversione dei colleghi pietisti, che riescono infine,
per mezzo di un ordine reale, ad ottenerne l'allontanamento dagli stati prussiani. Da
Marburgo, presso la cui università è negli anni successivi, tornerà ad Halle, avendo rifiu­
tato la presidenza dell'Accademia cli Berlino, solo con l'avvento al trono di Fede­
rico II; vi insegnerà, ma non col successo di un tempo, sino alla sua morte. A parte
le opere giovanili e quelle cli carattere matematico, le opere maggiori di W. si organiz­
zano in due serie: la prima in tedesco, cronologicamente anteriore, e la seconda in la­
tino. Abbiamo la serie dei Verniinftige Gedanken: Verniinftige Gedanken von den
Kriiften des menschlichen Verstandes (citati anche come Logica tedesca, Halle 1713),
vom Gott, der Welt und der Seele des Menschen auch von allen Dingen iiberhaupt (Me­
tafisica tedesca, Francofc.rte e Lipsia 1719), von der Menschen Tun und Lasse11 (Morale
tedesca, Halle 1720), vom gesellschaftlichen Leben der Menschen (Politica tedesca,
Halle 1722), von den Wirkungen der Natur (Fisica tedesca, Halle 1723), von den
Absichten der natiirlichen Dingen (Teleologia tedesca, Halle 1724), von dem Gebrauche
der Teile in Menschen, Tiere und Pflam;en (Fisiologia tedesca Francoforte e
Lipsia 1725). Quindi, le opere latine: Logica (Francoforte e Lipsia 1728),
Ontologia (ibid., 1730), Cosmologia generalis (ibid., 1731), Psychologia empirica
(ibid., 1732), Psychologia rationalis (ibid., 1734), Theologia naturalis, pars prior (ibid.,
1736), Theologia naturalis, pars posterior (ibid., 1737), Philosophia pratica universalis
(2 voli., ibid., 1738-39), Jus naturae (8 voli., ibid. e poi Halle, 1740-48), ]11s gentium
(Halle 1749), Ethica (4 voli. Halle, 1750-53), Oeconomica (2 voli., Halle 1754). Le
opere di W. sono in corso di riedizione o di ristampa presso l'editore Olms di Hil­
desheim: sono già uscite la Ontologia (1962), Cosmologia (1964) e Psicologia empirica
(1968) a cura di J. EcoLE, e la Logica tedesca (1965) a cura di H. W. ARNDT. Su W. cfr.
H. PrcttLER, Ueber C. W.s. Ontologie, Lipsia 1910; S. DRAGO DEL BocA, Kant e i mo­
ralisti tedeschi: W., Baumgarten, Crusius, Napoli 1937; M. CAMPO, C. W. e il ra­
zionalismo precritico, Milano 1939; H. HEIMSOETH, W.s. Ontologie und die Prinzipien­
forschung Kants in Studien zur Philosophie I. Kants, Colonia 1956; N. MERKER, C. W.
e la metodologia del razionalismo « Riv. critica cli storia della fil.» XXII (1967), 271-
293 e XXIII (1968), 21-38; A. BISSINGER, Die Struktur der Gotteserkenntnis. Studien
zur Philosophie C. W.s, Bonn 1970; R. CIAFARDONE, Le origini teologiche della filosofia
wolffi.ana e il rapporto ragione..esperienu, « Il Pensiero» XVIII (1973), 54-78.
ILLUMINISMO TEDESCO 515

merito di Wolff è però quello di essere stato colui che ha fissato


la terminologia filosofica tedesca. Ma il suo influsso è da valutare
su scala europea: la stessa redazione in latino dell'intero corpus
della sua filosofia, a cui si accinse dopo la serie delle sue opere
tedesche, è voluta al fine di superare i limiti dell'area culturale
germanica.
È subito da respingere la rappresentazione - rigettata dallo
stesso Wolff -, secondo la quale egli sarebbe mero sistematizza­
tore e divulgatore del pensiero leibniziano; e ciò per la duplic�
ragione che la conoscenza e la personale rielaborazione di motivi
scolastici e cartesiani, cronologicamente anteriori alla conoscenza
di Leibniz e conducenti ad una prima delineazione di personale
sistema filosofico, non restano poi del tutto sommersi ed inattivi
nella forma definitiva del sistema; d'altra parte, nel ruolo di vol­
garizzatore Wolff mutila ed irrigidisce troppo i pensieri fondamen­
tali di Leibniz, perché la filosofia di quest'ultimo si possa ricono­
scere compiutamente nella rielaborazione wolffiana. Ciò detto, l'in­
flusso di Leibniz è tuttavia tutt'altro che trascurabile; rielabora­
zione, quindi, di quei tre filoni; e non è da dimenticare l'influsso
di Tschirnhaus.
Wolff stesso ci ragguaglia intorno alla direzione ed alla meta
delle sue meditazioni: « Sin dall'inizio dei miei studi, tutto ho
riferito ad un certo fine ... ebbi sempre in animo di vedere se non
fosse possibile mostrare la verità in teologia con tanta distinzione,
che essa non potesse soffrire alcuna contraddizione. E come sentii
parlare del fatto che i matematici dimostrano le loro cose con
tanta certezza, che ognuno è costretto a riconoscerle per vere, fui
subito desideroso di apprendere la matematica in grazia del me­
todo, per applicarmi al compito di portare la teologia ad incon­
testabile certezza; e poiché sentii dire anche che mancava ancora
la filosofia pratica e che la teologia morale di Diirr, allora di moda,
era una opera arida e superficiale, mi proposi anche di comporre
una filosofia e teologia morale». (Cfr. Wolffens Eigene Lebensbe­
ffhreibung, ed. H. Wuttke, Lipsia 1841, pp. 120-122). Se la
forte accentuazione posta in questo passo sugli interessi teologici
può dipendere dalle necessità della polemica coi pietisti ( e si po­
trebbe eventualmente giustificare in rapporto alla teologia razio­
nale, non certo alla rivelata), è qui invece giustamente sottolineata
l'importanza che ha per Wolff la costruzione di una filosofia mo-
516 FILOSOFIA MODERNA

rale, e soprattutto quello che è il suo atteggiamento nei confronti


della matematica. La matematica è per lui quell'arte di trovare
verità ancora sconosciute, quella ars inveniendi specialis, la quale,
già considerevolmente sviluppata per parte sua, ci dà modo di
astrarre, dalle sue regole, regole generali per la scoperta della ve­
rità; regole di un metodo che può quindi e deve estendersi, per il
cammino obbligato delle varie discipline :filosofiche, alla teologia
ed alla filosofia morale. Attraverso lo studio della matematica e
la meditazione dell'opera di Tschirnhaus, Wolff giunge alla deli­
neazione del metodo matematico: « il metodo matematico dà a
conoscere il retto uso della ragione; come si giunga cioè a concet­
ti chiari, distinti e completi, e come di qui senza inciampo si de­
rivi tutto il resto ». (Anfangsgrunde alter mathematischen Wis­
senschaften, Halle 1710, Vorrede). Sul modello di Tschirnhaus,
si procede dalle definizioni - che devono dare le essenze delle
cose - e dagli assiomi ai teoremi; ma Tschirnhaus ha bisogno,
secondo Wolff, di essere corretto quanto al criterio di verità (la
non contraddizione è il vero criterio e non la conceptibilitas) ed
intorno al modo di giungere a definizioni reali. Il metodo mate­
matico ed il filosofico in tanto si riveleranno coincidenti, in quanto
in entrambi « non si debbono usare se non termini accuratamente
definiti, non si ammette come vero, se non ciò che è stato sufficien­
temente dimostrato, nelle proposizioni soggetto e predicato sono
entrambi accuratamente determinati, ed ogni cosa è ordinata in
tal modo che preceda ciò per mezzo del quale ciò che segue è com­
preso ed affermato » (Logica, Disc. prel. § 139). La Logica è quin­
di la prima parte del sistema che viene esposta, come quella che,
insegnando « l'uso della facoltà conoscitiva nell'apprendere la ve­
rità e nel guardarsi dall'errore » (ibid., § 61), fa sl che venga sa­
puto ed osservato il rigore del metodo. Quanto alla sua fondazione
assoluta, però, essa, oltre che a tesi di psicologia empirica, deve
rifarsi a tesi ontologiche che condizionano la stessa definizione del­
la filosofia come « scienza dei possibili, in quanto possono essere »
(ibid., § 29). In tanto infatti è possibile la filosofia (e la scienza in
generale) in quanto il reale tutto obbedisce alla legge della ragion
sufficiente, che ne enuncia la universale intelligibilità: questa tesi
ontologica schiude l'indagine di ogni campo del reale ad una ra­
gione che non si limiterà perciò ad una pura registrazione di fatti
(conoscenza storica), ma che sarà in grado di riscoprire le intime
ILLUMINISMO TEDESCO 517

connessioni degli enti nelle ragioni che li fanno intelligibili e


reali ( conoscenza filosofica).
Delineando la Ontologia, definita come « la scienza dell'ente
in generale, ossia in quanto ente » ( Ontologia, § 1), fondamento
indispensabile della metafisica speciale nelle sue diverse ramifica­
zioni, e di ogni disciplina filosofica, Wolff sente di compiere opera
nuova, risollevando l'ontologia dallo stato di mero lessico filosofi­
co, e purificando e perfezionando la ontologia scolastica sotto lo
stimolo di J. Clauberg e di Leibniz. Il principio su cui tutto pog­
gia è il principio di non contraddizione, dato che anche il princi­
pio di ragion sufficiente, in Wolff, è dedotto a partire da quello.
Si tratta poi, al fine di costruire la ontologia come scienza, di ren­
der distinte le noiioni e determinate le proposizioni di quella on­
tologia « naturale » a cui si giunge « mediante una naturale forza
dell'animo ... , attribuendo alle cose presenti ciò che ad esse inerisce,
e ricordando di aver già attribuito predicati simili ad altre cose »
(Ontologia, § 19): si applichi ciò ai predicati dell'ente in quanto
ente, alle proprietà universalissime dell'essere. Dalla nozione di
possibile e impossibile, determinato e indeterminato, di ente, si
passa a trattare delle affezioni dell'ente stesso, dei mutui legami tra
gli enti.
Sulla base dell'ontologia, è possibile costruire una cosmologia,
una psicologia e una teologia naturale; in questo ordine. Della
Cosmologia trascendentale Wolff si dice l'iniziatore, come di quel­
la scienza il cui oggetto è costituito dalle proprietà del mondo in
genere, non di questo particolare mondo esistente, ma del mondo
in quanto ente composto e modificabile, abbracciante la totalità de­
gli enti contingenti connessi nello spazio e nel tempo; le tesi co­
smologiche sono applicabili quindi a quei mondi infiniti che co­
stituiscono l'oggetto dell'intelletto divino. In particolare, il mondo
si rivela essere una macchina, nonostante che le leggi del moto
siano in assoluto contingenti, vale a dire non dipendenti dall'es­
senza del corpo. Accanto ad una Psicologia empirica, che per espe­
rienza, a posteriori, stabilisce i principi che dànno ragione di ciò
che avviene nell'anima umana, viene delineata una Psicologia ra­
:zionale, che rende invece ragione a priori di ciò che nell'anima può
avvenire; basandosi anche sui risultati della psicologia empirica,
la razionale rende ragione dei fenomeni psichici a partire dalla na­
tura dell'anima stessa. Il fatto che solo a questo punto venga in-
.518 FILOSOFIA MODERNA

tradotta l'ipotesi dell'armonia prestabilita permette di porre in


evidenza uno dei più notevoli punti di distacco di Wolff da Leibniz;
Wolff non accetta infatti la dottrina leibniziana della sostanza co­
me monade, con il superamento definitivo, che essa implica, della
distinzione radicale tra sostanze corporee e pensanti; egli non at­
tribuisce agli elementa corporum, che sono i costitutivi semplici
della realtà materiale, la forza percettiva che resta a caratterizzare
invece le anime; e quella dell'armonia prestabilita non è una tesi
ontologica volta a spiegare il commercio delle sostanze, ma una
ipotesi, non necessariamente collegata col resto del sistema, intor­
no al problema del rapporto tra anima e corpo. Tesi caratteristica
della psicologia wolflìana è il posto preminente accordato all'intel­
letto (alla facoltà conoscitiva in genere) rispetto alla volontà; ciò
che porterà a valutare in modo predominante il ruolo dell'intelletto
nel perfezionamento e nella vita morale dell'individuo e - si può
aggiungere - nella generale riforma dei costumi e della società;
tesi che non mancheranno di suscitare vivaci denunce da parte di
pietisti e thomasiani.
Al culmine delle scienze metafisiche si colloca la Teologia na­
turale: si dimostra innanzitutto l'esistenza, e poi gli attributi, e
le possibili operazioni, di un ente che corrisponda ad una certa
rappresentazione - definizione nominale - di Dio. E, per Wolff,
la prova più chiara e stringente è quella dalla contingenza, che
fa capo ad un ente a se, in cui è la ragion sufficiente dell'esistenza.
di questo mondo e delle anime nostre. La prova cartesiana, che
pure è ampiamente rielaborata, è a tal punto fedele alla esigenza
leibniziana di completamento, da risultare chiaramente non più
una prova « a priori »; piuttosto, essa procede dalla contem­
plazione dell'anima. La prova fisico-teologica, se vuol concludere,
deve necessariamente rifarsi alla nozione di contingenza.
Come si è ricordato, al perfezionamento della filosofia pra­
tica Wolff aveva dedicato fin dalla giovinezza la massima atten­
zione; già nel 1703, ne aveva intrapreso una trattazione secondo
il metodo matematico, seguendo quelli che erano stati i desideri
degli stessi Locke e Leibniz. Quanto al periodo della maturità,
due sono le opere tedesche, ben quattro (in sedici tomi) le opere
latine dedicate a questo giro di problemi.
Poiché la filosofia, per definizione, dà la ragione per cui i
possibili possono attualizzarsi, e poiché, sulla base dei principi
ILLUMINISMO TEDESCO 519

ontologici fondamentali, si dà ragione anche di ogni atto di volun•


tas e di noluntas, restano fissati la possibilità ed il compito di
una filosofia pratica, « scienza affettiva pratica della direzione del­
le azioni libere mediante regole generalissime » (Filosofia pratica
universale, § 3 ). Sappiamo dalla psicologia che le azioni dell'anima
in volendo e in nolendo sono libere, che si dànno cioè azioni libere
accanto a quelle, naturali e necessarie, emananti dall'essenza e dal­
la natura del corpo e dell'anima. Le azioni libere tendono alla per­
fezione dell'uomo, ove siano determinate dalle stesse ragioni fina­
li che dirigono le azioni naturali; altrimenti, portano alla sua im­
perfezione; di qui la distinzione delle azioni in buone e malvagie,
tali per la stessa essenza e natura dell'uomo e delle cose. Di qui
ancora l'affermazione che l'uomo è tenuto per la sua essenza e na­
tura a porre azioni per sé buone, ché sappiamo dalla psicologia
empirica che motivo della volontà è la rappresentazione del bene.
Si è passati in tal modo al concetto di obbligazione e di legge na­
turale: legge è quella regola secondo la quale siamo obbligati a
porre le nostre azioni; ed è legge naturale in quanto ha la sua ra­
gione sufficiente nella essenza dell'uomo e delle cose. La legge po­
sitiva dipende invece dalla volontà di un qualche ente razionale�
Dio o uomo, e non obbliga se è in contrasto con la legge naturale.
Definito il diritto come la facoltà morale di porre un'azione o me­
no, per cui si agisce con diritto quando si fa ciò che è moralmente
possibile, quando si agisce salva restando la rettitudine dell'azione,
diritto naturale è quello che compete all'uomo in virtù della legge
naturale. Segue da tutto ciò che anche l'ateo resta vincolato dalla
legge e dal diritto naturale, ché quegli, pur negando Dio, non può
tuttavia negare quella che è l'essenza dell'uomo e delle cose; e,
posto ciò, resta posta la legge naturale. Nonostante ciò, avendo le
essenze la loro sede nell'intelletto divino, Dio è da considerarsi au­
tore della legge naturale. Tuttavia, l'aver Wolff sostenuto la tesi della
anteriorità della moralità alla volontà divina, contenuta già nel­
l'Orazione sulla filosofia pratica dei cinesi (1721 ), costituirà uno
dei principali capi d'accusa nell'attacco dei pietisti di Halle contro
Wolff.
Dal rispetto della legge naturale nell'abito della virtù, l'uo­
mo acquisisce il sommo bene, che è il « non impedito progresso a
perfezioni sempre maggiori ». Visti i concetti di coscienza e di col­
pa, Wolff passa alla parte della filosofia pratica universale che si
520 FILOSOFIA MODERNA

occupa della prassi morale, della quale pure - e non solo della teo­
ria - si dà scienza.
Ci siamo fermati abbastanza a lungo sulla filosofi.a pratica uni­
versale, come quella scienza che, in analogia con la mathesis uni­
versalis che è a fondamento dell'aritmetica come della geometria,
è fondamento di tutte le branche della filosofi.a morale, etica eco­
nomica e politica.
Altro principio fondamentale della filosofi.a pratica è infatti
quella proprietà della natura umana, saputa a posteriori, per cui
nessun uomo, da solo, può portare a maggior perfezione il suo sta­
to, può vivere moralmente; a ciò si richiede la società. Le leggi
naturali sono radicate nella stessa essenza e natura dell'uomo, ma
non sempre tale derivazione è immediata; è compito del Diritto na­
turale rendere evidente quella derivazione, e ciò per lo stato natu­
rale come per lo stato civile dell'uomo. Mostrando il diritto na­
turale quali azioni siano comandate, quali possibili e quali permes­
se, esso precede l'Etica, che insegna il modo in cui l'uomo può con­
formare le sue azioni alle leggi di natura; è di spettanza dell'eti­
ca quindi la dottrina delle virtù. L'Economica si occupa delle so­
cietà intermedie, non della società statale, oggetto della politica;
ma Wolff non arrivò a scrivere la sua politica latina.

4. Discepoli e avversari di Wolff

Tra i più fedeli discepoli di Wolff sono da ricordare LunwrG


PHILIPP THUMMIG (1697-1728), anch'egli travolto dalle polemi­
che scoppiate intorno a Wolff nel 1723 e costretto, come il mae­
stro, ad abbandonare Halle; proponendosi il fine di illustrare le tesi
wolffiane in modo più agile e comprensibile di quanto non fosse quel­
lo dei ponderosi volumi del maestro, nelle sue Institutiones philoso­
phiae wolffeanae (1725) è attento anche a parare i colpi degli accusa­
tori, sostenendo non esservi alcun rapporto tra l'ipotesi dell'armo­
nia prestabilita, presunto cavallo di Troia introducente il fatali­
smo e la necessità assoluta nel sistema, e le discipline pratiche,
nelle quali da tutti si riconosce che l'anima deve agire sul corpo,
come se tra i due ci fosse mutuo influsso; e neppure la dottrina
dell'ottimismo, afferma Thiimmig, toglie l'affermazione della li­
bertà.
ILLUMINISMO TEDESCO 521

FRIEDRICH CHRISTIAN BAUMEISTER (1709-1785), autore an­


ch'egli di manuali di filosofia wolffiana, merita di esser ricordato per
il fatto che Kant si servì talora del suo testo di metafisica come ba­
se per le sue lezioni. Nell'ambito della logica, egli si propone
un'integrazione della trattazione wolffiana per quanto riguarda la
dottrina della probabilità, rifacendosi per questo ad A. Ri.idiger:
nell'ambito stesso del wolffismo vengono quindi accolte istanze
proprie del fronte antiwolffiano.
All'interno della scuola wolffiana ha origine la estetica tede­
sca come disciplina autonoma; e bisogna fare i nomi di Gottsched,
Baumgarten, Meier.
JoHANN CHRISTOPH GoTTSCHED 11 (1700-1766), che non si for­
ma alla scuola di Wolff, ma arriva ad essa partendo da esperienze
culturali diverse, mantiene quella certa indipendenza di giudizio che
gli permette ad esempio, nella condanna della filosofia « settaria »,
di correggere Wolff con Leibniz, o di rifiutare l'armonia prestabilita
per tornare all'influsso fisico. È utile rilevare come, appunto, la
presenza di Leibniz non si restringa sempre ed in ogni caso al Leib­
niz filtrato attraverso Wolff; tra coloro che si ricollegano autono­
mamente a Leibniz si possono fare i nomi di M. G. Hansch, che
tentò una personale sistemazione, methodo mathematica, di Leibniz,
facendo perno sul concetto di perfezione ( realitas), e che fu in po­
lemica con Wolff; di G. B. Bilfinger, a cui sarebbe dovuta l'intro­
duzione dell'espressione « filosofia leibniziana-wolffiana »; e, infine,
lo stesso A. G. Baumgarten.
Ma torniamo a Gottsched. Nel Saggio di una poetica critica per
i tedeschi (1730) Gottsched, che è sotto l'influsso del pensiero este­
tico di Aristotele e di Boileau, si rivela pur sempre discepolo di
Wolff, sia nell'impostazione del problema come nelle tesi metafisi­
che e gnoseologiche che sono la base concettuale dell'opera. Il cri­
tico è quel filosofo, che è in grado di filosofare intorno alla poe­
sia; di questa deve ricercare quindi innanzitutto l'essenza, che è

11 GoTTSCHED Johann Christoph, Juditten (presso Konigsberg) 1700 • Lipsia 1766.


Frequentò teologia all'università di Konigsberg, con un crescente interesse per la filosofia;
in particolare, la lettura di Wolff Io portò ad aderire alla scuola wolffiana. Divenne nel
1734 professore di logica e metafisica, ma è da ricordare soprattutto per la sua attività
di poeta, critico e riformatore della letteratura tedesca. Ricordiamo: Vindiciae systematis
influxus pbysici (Lipsia 1727-29), Versuch einer critischen Dichtkunst (Lipsia 1730; rist.
Darmstadt Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1965), Erste Grunde der gesamten Welt­
weisheit (Lipsia 1734; rist. Francoforte Minerva 1964).
522 FILOSOFIA MODERNA

da riconoscersi nell'imitazione della natura. E ciò in quanto la


natura, opera di Dio, è ordinata numero, pondere et mensura; la co­
noscenza chiara ma ancora indistinta di tali perfezioni dà la bellez­
za, ed è per questo che si può distinguere il gusto dalla fondata
visione, che è propria della conoscenza distinta. Il teorema wolf­
fì.ano ( e leibniziano) della infìnità dei mondi possibili fornisce
poi la base al concetto di favola come imitazione di un frammento
di uno dei mondi possibili, più che di quello realmente esistente.
Concetto questo che è ampiamente sfruttato anche dai due zurighesi
J. J. Bodmer e J. J. Breitinger. Zurigo costituisce infatti in questo
periodo l'altro importante centro, con Lipsia, di elaborazione del­
l'estetica; Bodmer e Breitinger, anch'essi, almeno all'inizio, sotto
influsso wolffiano (la poetica va fondata sulla filosofia, vanno
espresse matematicamente le regole dello scriver bene), pubblicano
negli anni 1721-22 i Discorsi dei pittori, una rivista in cui ven­
gono spesso affrontati temi di estetica; domina il canone aristote­
lico dell'imitazione della natura, via via poi interpretato alla lu­
ce della dottrina della infìnità dei mondi possibili, che permette
ai due zurighesi di giustifìcare il ruolo dell'immaginazione nella
arte e di operare un ricorso al verosimile, e poi alla fantasia e al
meraviglioso, ben più ampio di quel che non sembrasse lecito al
Gottsched.
Ma vero fondatore della estetica come scienza (ivi compreso
il nome stesso), è considerato ALEXANDER GoTTLIEB BAUMGARTEN 12
(1714-1762), con le giovanili Meditationes philosophicae de nonnul­
lis ad poema pertinentibus, ma soprattutto con la Aesthetica:

12 BAUMGARTEN Alexander Gottlieb, Berlino 1714 - Francoforte sull'Oder 1762.


Fratello minore del celebre teologo Sigmund Jakob B., studiò a Berlino e quindi all'Orfa­
notrofio di Halle; durante gli studi teologici, vi lesse nascostamente W., le cui opere
erano proibite; e lo prese per W. una grande ammirazione. Professore ad Halle per
diversi anni, fu quindi destinato dal re cli Prussia nel 1740 all'università di Franco­
forte sull'Oder. Dal 1751, quasi sempre malato, vi lavora a completare, senza peraltro
riuscirci, la sua Aesthetica. Tra le sue opere ricordiamo: Meditationes philosophicae
de nonnulli s ad poema pertinentibus (Halle 1735; rist. a cura di B. Croce, Trani 1900);
Metaphysica (Halle 1739; rist. Hildesheim Olms 1963); Ethica philosophica (Halle 1740;
rist. Hildesheim Olms 1969); Aesthetica (Francoforte sull'Oder 1750-58; rist. Hilde­
shei.m O!ms 1961). Su B. dr.: B. POPPE, A. G. B., Berna e Lipsia 1907; B. CROCE in
Ultimi saggi, Bari 1935; L. PAPPALARDO, L'arte e il bello nell'estetica di A. G. B., « Sycu­
lorum Gymnasium » 1953; G. MARTANO, La conoscenza sensibile nel razionalismo mo­
derno (da Cartesio a B.), Napoli 1960; A. LAMACCHIA, Libertà e motivazione in B. in
Libertà e responsabilità, Padova 1967; M. CASULA, La metafisica di A.G.B., Milano 1973;
H. R. SCHWEIZER, Asthetik als Philosophie der sinnlicben Erkenntnis, Basilea 1973.
ILLUMINISMO TEDESCO 523

egli si rifà alla distinzione leibniziana, e poi wolffiana, tra la


conoscenza intellettuale, chiara e distinta, e la conoscenza sen­
sibile, chiara ma confusa. Già altri, ad esempio Bilfìnger, ave­
vano additato, sulla scia di quella distinzione, la necessità di
una più accurata trattazione delle peculiarità della conoscenza
sensibile. Ora, per Baumgarten, « l'estetica ( teoria delle arti li­
berali, gnoseologia inferiore ... ) è la scienza della conoscenza sen­
sibile » (Aesthetica, § 1), e il suo fine è « la perfezione della cono­
scenza sensibile come tale. E questa è la bellezza» (ibid., § 14).
Con ciò, l'estetica acquista un ambito proprio, accanto alla logica,
e resta insieme fissata la possibilità di trattazione scientifica - e
cioè qui ancora, wolffianamente, methodo mathematica, della estetica
stessa. - I concetti metafisici ai quali Baumgarten ricorre sono
quelli di perfezione, ordine e, attraverso questo, di ragion suffi­
ciente. La meditazione intorno ai fondamenti dell'estetica resta
in tal modo strettamente saldata alle fondamentali problemati­
che ontologiche. Il manuale baumgarteniano sulla Metaphysica me­
rita menzione perché fu considerato da Kant come il più preciso ed
acuto tra i manuali disponibili, e fu da lui utilizzato per lunghi anni
come base per le sue lezioni. La posizione relativamente indipen­
dente di Baumgarten si rivela nella sua concezione dell'armonia pre­
stabilita, che, pur diversamente valutata, mostra in ogni caso chia­
ramente come egli sia tornato alla posizione leibniziana che ne fa
non pura ipotesi risolutiva del problema dei rapporti tra anima e
corpo, ma tesi ontologica fondamentale intorno alla natura del rap­
porto tra le sostanze. Nell'Ethica l'influsso pietista - Baumgar­
ten fu educato all'Orfanotrofio di Halle - si manifesta nel ri­
mando insistente a Dio, legislatore e fondatore del diritto natura­
le e della morale, più che alla ragione e alla natura.
Di MARTIN KNUTZEN (1713-1751 ), professore a Konigsberg e
maestro di Kant, la tesi più comunemente nota è quella intorno al
commercio tra le sostanze; egli farebbe trionfare - ma ormai, dopo
tanti tentativi di spiegazione, è pericoloso fidarsi della denomina­
zione sotto la quale queste dottrine vengono proposte - l'influsso
sull'armonia prestabilita. Già in questo si farebbe sentire l'influenza
pietista, come poi anche nel rifiuto della ipotesi dell'eternità del
mondo. Interessanti anche le sue prese di posizione antideistiche
ed antimaterialistiche (egli conosce bene il pensiero inglese), e
la sua Prova filosofica della verità della religione cristiana ( 1740):
524 FILOSOFIA MODERNA

imprese tutte nelle quali si rivela un compenetrarsi di motivi pieti­


stici e wolfE.ani. Un fenomeno analogo si veri.fica anche nella per­
sonalità di FRANZ ALBERT ScHULTZ, che, discepolo di Spener, di­
viene direttore del Fridericianum di Konigsberg ed entra in amici­
zia con la famiglia di Kant; egli pensa al wolfE.smo come ad un possi­
bile valido ausilio per la spiritualità pietista. Nei due educatori che
maggiormente dovettero influire sulla prima formazione di Kant si
realizza quindi una confluenza di suggestioni wolfliane e pietistiche.
Ma è, quello che abbiamo qui ricordato, un fenomeno piuttosto
fuori del consueto; in realtà è proprio dall'ambiente pietistico
che Wolff e il wolflismo viene combattuto più vivacemente. Infatti,
nonostante la sua amplissima diffusione, la filosofia wolfE.ana non
godette di un unanime consenso: in particolare, si lascia individua­
re una linea continua di critici, che ha le sue radici nell'ambiente
pietistico e thomasiano di Halle, e i cui ultimi influssi sono chia­
ramente percepibili nello stesso Kant.

È noto come la pubblicazione della Metafisica tedesca, e


anche l'Orazione sulla filosofia pratica dei cinesi (la presenza di
una nobile morale presso i cinesi privi di un retto concetto di
Dio è testimonianza dell'autonomia della morale dalla religione),
portassero nel 1723 ad un violento attacco a Wolff condotto nella
stessa università di Halle, attacco a cui prese parte la facoltà di
teologia, e che portò alla cacciata del filosofo dagli stati prussia­
ni per ordine del sovrano. Anima del fronte anti-wolfliano nel
1723-24 è il pietista J. LANGE; accanto a lui, D. STRAHLER, ex allie­
vo di Wolff, e il thomasiano F. BuooE. La loro polemica è general­
mente acre, ingenerosa, estrinseca e poco preoccupata di compren­
dere l'intimo articolarsi del pensiero dell'avversario; e tuttavia ven­
gono toccati punti nodali della speculazione wolfE.ana: le accuse
di idealismo (riduzione della realtà tutta alla sostanza pensante)
e di spinozismo (necessità fatale e negazione di un Dio personale,
panteismo), con cui si vuol colpire Wolff, riassumono in realtà in­
terrogativi che concernano l'universale applicazione del metodo
matematico, esteso da Wolff anche alla sfera delle sostanze spiri­
tuali, la validità senza restrizioni del principio di ragion sufficien­
te, la presunta ripresa della teoria leibniziana delle monadi e del­
l'armonia prestabilita, la pretesa affermazione della eternità e ne­
cessità del mondo. Costituiscono il perno di tali accuse, che sono
ILLUMINISMO TEDESCO 525

in fondo strettamente legate, la convinzione che non tutto si lasci


determinare concettualmente (in particolare sembra ripugnare l'idea
di ridurre la domanda su Dio ad un problema metafisico), e la preoc­
cupazione di salvare la libertà, cosi divina come umana. Con A.
Riidiger, accanto alla denuncia della inadeguatezza della definizione
wolflìana di spirito in base alla sola vis repraesentativa, facendo di­
pendente da questa la volontà, compare un nuovo elemento della
polemica antiwolfE.ana, e cioè l'opposizione alla teoria meccanici­
stica della natura di una teoria vitalistica che, per questa via, riesce
poi a colmare di nuovo almeno in parte quel dualismo tra realtà
corporea e spirituale a cui Wolff era andato incontro proprio per
la sua infedeltà a Leibniz.
Mentre i pensatori fin qui richiamati polemizzano con Wolff
per così dire dall'esterno, avendo come base sistemi elaborati al­
l'infuori della meditazione delle opere wolflìane, il pensiero di
AnoLPH FRIEDRICH HoFFMANN (1703-1741), discepolo di A. Rii-•
diger, e di C. A. Crusius, discepolo di Hoffmann, che pure si pongo­
no su quella stessa linea di sviluppo, si nutre della stessa specula­
zione wolflìana e si forma a partire dal confronto con quella. Parti­
colarmente interessante - a parte gli scritti rivolti esplicitamente
a combattere Wolff -, è la Logica (1737) di Hoffmann, intesa co­
me la dottrina delle attività dell'intelletto nel concepire, giudicare,
argomentare. Con particolare enfasi viene affermato che ogni cono­
scenza prende inizio dalla sensazione, se vuol essere conoscenza
reale, se vuol vertere intorno a cose esistenti. Le dottrine di Hoff­
mann, che, morto in giovane età, non poté pubblicare altri manua­
li oltre quello di logica, trovano un'eco precisa nel suo discepolo
Crusius; e probabilmente dalla fortuna e diffusione delle opere
del discepolo derivò la dimenticanza in cui cadde il maestro.
CHRISTIAN AuGUST CRusrns 13 (1715-1775), che si pone al cul­
mine della tradizione di pensiero che abbiamo fin qui seguito, e

13 CRusrus Christian August, Leuna presso Merseburg 1715 - Lipsia 1775. Studiò
a Lipsia teologia e filosofia, discepolo di A. F. Hoffmann e J. A. Bengel. Dal 1744
al 1750 professore di filosofia, insegnò teologia a partire dal 1750, e alla teologia
si dedicò in seguito quasi esclusivamente. Tra le sue opere: De corruptelis intel­
lectus a voluntate pendentibus (Lipsia 1740), De appetitibus insitis voluntatis humanae
(ibid., 1742), De usu et limitibus principii rationis determinantis, vulgo su/ficientis (ibid.,
1743 ), Anweisung vernunftig zu leben (ibid., 1744; rist. a cura di G. TONELLI, come
per i seguenti, Hildesheim Olms 1969), Entwurf der notwendigen Vernunftwahrheiten
(ibid., 1745; rist. Hildesheim Olms 1964), Weg zur Gewissheit und Zuverlii.ssigkeit der
526 FILOSOFIA MODERNA

che in campo teologico è aperto all'influsso di J. A. Bengel, il padre


del pietismo svevo, è poi anche colui che trasmetterà a Kant que­
sto patrimonio di esigenze polemiche nei confronti della sistema­
zione wolffiana. Già negli anni 17 40-4 3, in tre diverse dissertazio­
ni, egli delinea i temi fondamentali, che saranno al centro del­
l'interesse delle sue opere sistematiche più tarde. Si tratta innan­
zitutto, in campo antropologico, di rompere lo schema wolffiano
che faceva troppo spazio all'intelletto a scapito della volontà; la vo•
lontà è autonoma rispetto all'intelletto, anche se ad esso necessa­
riamente correlata, ed è da concepirsi come « una facoltà pura­
mente attiva, possibilità compiuta di agire, che, prima in riposo,
si determina poi all'agire in virtù della sua attività spontanea ed
originaria, e che quindi, nelle stesse circostanze, può agire o me­
no » (De appetitibus ... , p. 3 ). Anche se non siamo in grado di
concepire la possibilità di azioni di tal fatta, una tale libertà si
deve assumere, perché si dimostra che essa si dà in Dio, ed ognu­
no può esser cosciente della sua presenza in noi; anche se non
necessariamente ogni azione dell'uomo è libera. Togliere la li­
bertà, sarebbe togliere l'imputazione delle azioni e la vita morale.
Per questa via, Crusius giunge alla discussione del principio
wolffiano di ragion sufficiente, che forma l'oggetto della terza e
più nota delle dissertazioni. Quel principio non può essere accet­
tato senza accurate valutazioni e limitazioni, ché, altrimenti, esso
conduce a conclusioni false: la introduzione della universale neces­
sità nel mondo in primo luogo; una sanior philosophia invece - e
la rivelazione - ci dicono il darsi della libertà, e non si può negare
l'esperienza, che è il banco di prova di ogni conoscenza astratta.
Quelle limitazioni si rendono del resto necessarie per il fatto che
il principio da un lato non è stato dimostrato da Leibniz, ma nep­
pure da Wolff, e non è dimostrabile; d'altro lato, esso è ambiguo:
si intende parlare della ragione conoscitiva, o reale, della ragio­
ne che è nella cosa stessa, o di quella che è al di fuori di essa?
Il principio non è da prendersi quindi nel significato universale -

menschlichen Erkenntnis (ibid., 1747; rist. Hildesheim 01.ms 1965). Anleitung uber
naturliche Begebenheiten ordentlich und vorsichtig nach1.udenken (ibid., 1749). Su C.:
H. HEIMSOETH, Metaphysik und Kritik bei C.A.C., 1926, ora in Studien zur Philosophie
I. Kants, Colonia 1956; W. R. JAITNER, Thomasius, Rudiger, Hoffmann und C., Bleiche­
rode 1939; R. C!AFARDONE, Sul rapporto Kant - C., « Il pensiero» XII (1967) 86-104;
M. BENDEN, C.A.C., Wille und Verstand als Prinzipien des Handelns, Bonn 1972.
ILLUMINISMO TEDESCO 527

ed ambiguo - che ha in Leibniz e in Wolff: esso si scioglie in una


molteplicità di principi (di causa sufficiente, di contingenza, del­
l'obbligo di agire razionalmente, ecc.), dal campo di applicazione
meglio determinato e più ristretto, e che fanno salva la possibili­
tà del darsi di cause libere; con ciò, di una vita morale: « tutto
ciò che non è una azione prima libera, se accade, è prodotto da
qualche causa sufficiente in modo tale, che nelle stesse circostanze
non può accadere in modo diverso, o mancare » (De usu. .. , § 26).
È vero quindi che « tutto ciò che comincia ad essere, comincia ad
essere da una causa agente, che ha avuto forza sufficiente per at­
tualizzarlo» (Anweisung ... , § 47), ma questo non significa che
ogni sostanza attiva sia determinata in qualsivoglia caso ad agire
cosi e non altrimenti. Si distingue quindi tra ragioni (Grunde)
della possibilità ed esistenza della realtà fisica, e ragioni della realtà
morale. Nel campo della realtà fisica, si distingue ancora tra ragione
conoscitiva (o ideale), che produce la conoscenza della cosa, e
che può essere a priori o a posteriori, e ragione reale, che pro­
duce, e rende possibile in tutto o in parte, la cosa stessa « al di
fuori del pensiero », e che può intendersi a sua volta in diverse
maniere.
Crusius sottolinea fortemente, di contro alla fiducia che è ca­
ratteristica della mentalità wolffiana, la finitezza del nostro in­
telletto, per cui « le pretese di definire le questioni non debbo­
no esser portate al di là delle naturali capacità degli esseri fi­
niti» (De usu..., § 27), e « la nostra limitatezza ci è anche troppo
avvertibile e nota, perché noi possiamo dubitare che possa darsi un
intelletto più perfetto di quanto non sia il nostro» (Entwur/. .. ,
§ 14). Ed è per questo che al principio di non contraddizione,
come criterio della possibilità delle cose, si affiancano altri due
principi legati alla natura finita dell'uomo, il principio degli inse­
parabili ( « ciò che non si può pensare separatamente, neppure può
di fatto essere separatamente») e degli incongiungibili ( « ciò che
non si può pensare congiuntamente, non può neppure essere con­
giuntamente») (Entwurf... , § 15). Infatti, il principio di non
contraddizione è un principio identico: « ciò che è, è; ciò che
non è, non è». E perciò esso presuppone già concetti, i quali
possiedono già la loro strutturazione, ed ai quali lo si applica,
giudicando che cosa in virtù del principio di non contraddizione si
deve ammettere nella loro analisi, e nella loro sintesi o separa�
528 FILOSOFIA MODERlvA

zione con e da altri concetti. Così, noi otteniamo originariamente


concetti mediante la sensazione, esterna come interna, e la neces­
sità o possibilità di unione e separazione di concetti è regolata
dai due principi sopra indicati. Criterio della realtà delle cose è
la sensazione, « quello stato del nostro intelletto, per cui siamo co­
stretti a pensare immediatamente qualcosa come esistente » (Ent­
wurf... , § 16). Crusius analizza quindi l'essenza e l'esistenza; ogni
cosa esistente « al di fuori del pensiero » deve collocarsi in qual­
che luogo e in qualche tempo; spazio e tempo ne sono connotati
essenziali, e, astratti dall'esistenza, non sono qualcosa di assoluto
e neppure un che di fenomenico, ma qualcosa che veramente com­
pete alle cose esistenti. Siamo con ciò entrati nella Metafisica, che
Crusius intende come la scienza fondamentale, in cui ogni altra
trova i suoi fondamenti a priori, e il cui oggetto è costituito dalle
verità necessarie di ragione. Di ragione, note cioè per ragione e
non per fede; necessarie, e cioè tali che - si lascino dimostrare
con piena evidenza o solo in via probabile - valgono necessaria­
mente ed universalmente per ogni mondo possibile (vanno escluse
però le verità matematiche e le verità pratiche). La realtà delle
cose di cui essa tratta consta a posteriori; la metafisica ne esplica
a priori la possibilità e necessità. Quanto alla partizione della me­
tafisica stessa, la ripresa wolffiana dell'ontologia è considerata po­
sitiva: la ontologia, scienza delle essenze universali delle cose e
delle proprietà che se ne conoscono a priori, mostra subito una
particolarità che la distingue da tutte le altre scienze. In essa, non
è possibile fondarsi originariamente su definizioni, ricercare quella
chiarezza e distinzione che consiste nella visione dei diversi ca­
ratteri che entrano a costituire un'essenza (un concetto). Infatti
i concetti assolutamente semplici, « in cui non sono contenute an­
cora altre proprietà, dalle quali essi risultino » (Entwurf... , § 7),
possono esserci dati. solo attraverso il metodo analitico; cioè si
può solo spiegare il modo in cui si giunge ad essi, « prestando at­
tenzione, nell'analisi dei concetti composti offerti dai sensi, al mo­
do in cui dai composti si originano i semplici, e cioè eliminando
da quelli ciò che ad essi [ ai semplici] non appartiene, in modo tale
che non resti altro nel pensiero se non ciò che spetta loro » (ibid.,
§ 8 ). Dalla consueta chiarezza e distinzione consistente nella vi­
sione distinta dei diversi costituenti essenziali della cosa si diffe­
renzia quindi da una parte quel tipo di distinzione che è proprio
ILLUMINISMO TEDESCO 529

dei concetti sensibili, per noi irresolubili (suoni e colori, ad esem­


pio), e d'altra parte dal tipo di distinzione di questi concetti sem­
plicissimi di cui abbiamo detto, (e Crusius ne enumera diversi:
sussistenza, spazio, tempo, causalità, ecc., anche se non è certo
della completezza della loro tavola).
Segue alla ontologia la teologia, la quale - contro Wolff -
non presuppone ma è presupposta da cosmologia e pneumatologia,
facendosi ricorso, in queste scienze, al concetto delle perfezioni
divine. Da notarsi, in sede di teologia naturale, accanto allo svi­
luppo di numerose dimostrazioni della esistenza di Dio, tutte a
partire « dalle sue opere », il rifiuto della prova ontologica, la
quale, secondo Crusius, incorre in una quaternio terminorum, poi­
ché « esistenza » ha un senso diverso nella premessa e nella con­
clusione, designando là un'esistenza « nell'intelletto », qui un'esi­
stenza « fuori del pensiero ». Per dimostrare l'esistenza di Dio
come causa del mondo ci si deve richiamare al principio di causa
sufficiente ( uno dei principi in cui Crusius scioglie il wolffiano
principio di ragion sufficiente), il quale si fonda a sua volta non
sul principio di non contraddizione, ma sul principio degli insepa­
rabili.
Viene anche rifiutata la tesi, leibniziana e wolffiana, dell'otti­
mismo: non si può affermare che Dio ha scelto il mondo ottimo,
poiché, essendo il mondo una creatura, un essere finito, si può
sempre pensare che si dia un altro mondo che abbia perfezione
maggiore di un mondo dato. Il mondo inoltre non è una macchina,
perché gli esseri spirituali, che, come abbiamo visto, agiscono li­
beramente, ne sono parte integrante.
La filosofia ha ad oggetto quelle verità che sono conosciute
mediante la ragione e non per fede, e che riguardano oggetti che
almeno nel mondo realmente esistente sono forniti di tali inva­
riabilità che non cessano naturalmente di essere (le leggi della fi­
sica ad esempio). Certo, per Crusius tra teologia e filosofia esiste
l'armonia più completa; la filosofia è utile al teologo, come anche
la filosofia può trovare utili orientamenti ed ammonimenti nella
religione cristiana. Ma ci si guardi bene dall'affermare che la filo­
sofia sia capace di portare per forza propria alla fede nelle verità
rivelate, o che sia cosl indispensabile alla teologia da rendere im­
possibile, ove manchi, la predicazione; come è falso che essa pos-
530 FILOSOFIA MODERNA

sa, allo stato attuale dell'umanità, condurre da sé gli uomini alla


virtù.
Non appartengono alla metafisica ma alla :filosofia la fisica, co­
me dottrina dei corpi, la noologia e la logica, scienze della natura
ed effetti dell'intelletto umano (in primo luogo della conoscenza
e della verità) e la telematologia e filosofia pratica, che ne sono
l'analogo per quanto riguarda la volontà.
La volontà non solo è affermata autonoma - come abbiamo
detto - rispetto all'intelletto, ma si vede assegnata una posizione
di primato. La riforma crusiana dell'ontologia ha reso poi possibile
sostenere che proprietà naturale della volontà è la libertà; col che
resta non solo esclusa la costrizione esterna, ma anche la interna
necessità, ed è ciò che fa sl che l'uomo possa esser sottoposto alla
legge e all'obbligazione. Ed è nella volontà l'origine dello stato di
distorsione e malessere in cui si trova l'intelletto: se la logica è
necessaria perché l'uomo possa prender coscienza dei suoi errori,
solamente l'esercizio dei precetti della filosofia pratica ne può com­
battere le origini, ché sono da ricercarsi nella volontà. Conforme­
mente alla stessa tradizione thomasiana dalla quale derivano que­
ste tesi, il formale della legge è posto da Crusius nell'obbedienza
al comando divino; il che sarà motivo della critica kantiana alla
morale crusiana come eteronoma. Eppure, Crusius fa notare pro­
prio come la virtù debba esser ricercata per sé, « anche se non si
vogliono prendere in considerazione l'utile o il danno che su essa
poggiano» (Anweisung ... , § 163 ); ed afferma che si danno non
solo obbligazioni legate a certi fini che per la nostra natura desi­
deriamo di raggiungere, ma anche obbligazioni della virtù, fon­
date su leggi divine. Che si diano obbligazioni di tale genere, e vere
leggi morali divine, si conclude da ciò: se c'è in noi una inclina­
zione a riconoscere una legge divina, e ad agire in conformità con
essa, allora deve esserci in noi anche una idea innata della legge
naturale, che è il modello secondo il quale l'inclinazione della co­
scienza vuole orientare le azioni umane. Essa si enuncia cosl: fare
ciò che è conforme alle essenziali perfezioni divine ed umane, sul
fondamento della obbedienza che dobbiamo a Dio e della nostra
dipendenza da lui. La virtù si definisce quindi come conformità
dello stato morale di uno spirito .-:on la legge divina: ad essa si
accompagna la felicità.
ILLUMINISMO TEDESCO 531

5. L'Accademia di Berlino

In una seconda fase dell'illuminismo tedesco, in quella che è


stata detta l'età di Lessing (1740-81), lo sviluppo della cultura fi­
losofica è meno legata di quanto non lo fosse precedentemente al­
l'ambiente universitario: al di fuori delle università vivono ed ope­
rano ad esempio Lambert e Mendelssohn e Lessing, ed un ruolo
importante è svolto dalla Accademia reale delle Scienze di Berlino.
L'Accademia deve la sua origine ai piani teorici e agli sforzi orga­
nizzativi di Leibniz, che fin dal 166 7, ventunenne, vagheggiava
anche per la Germania una società delle scienze, come già ne esi­
stevano in vari Stati italiani, in Francia e in Inghilterra. L'impre­
sa, che si riaggancia agli ideali leibniziani di un'arte caratteristica
e di una enciclopedia universale, deve essere volta a favorire la fe­
licità del genere umano: « affinché ogni umana conoscenza sia or­
dinata all'uso »; essa cresce poi gradualmente di dimensioni, dal-
1'auspicato catalogo di tutte le notizie utili contenute nei nuovi
libri, sino a comprendere la scienza di Dio, dell'anima, del corpo
e la loro applicazione; questo patrimonio di conoscenze deve sod­
disfare i bisogni degli uomini, essere a tutti accessibile, e ordinato
in modo tale da poter essere prontamente consultato. Ma l'atten­
zione di Leibniz andava soprattutto alle scienze « reali », le scien­
ze della natura, la medicina, le manifatture, i commerci. La Socie­
tà delle scienze fondata a Berlino nel 1700 con decreto di Federico
III di Brandeburgo (poi Federico I re di Prussia) si rivolge innan­
zitutto a questi campi con l'istituzione delle classi di matematica
e fisica; alle due classi devono affiancarsi studi sulla lingua tede­
sca, e si auspicano infine sforzi di evangelizzazione missionaria,
per il tramite della diffusione delle scienze. Con l'ascesa al trono
di Federico II nel 1740, la Società, che aveva già avuto periodi di
vita difficile, viene ristrutturata e trasformata nell'Accademia.
Il desiderio del re filosofo, di porre a capo della Accademia
Wolff e Maupertuis (rappresentante, questi, della scienza new­
toniana e dell'illuminismo anglo-francese), non ebbe seguito per
il rifiuto di Wolff, che preferl riprendere ad Halle il suo ruolo
di docente, il cui uditorio doveva essere ormai costituito dall'Eu­
ropa intera. Maupertuis fu presidente; e accanto a lui c'è un buon
numero di intellettuali di formazione francese. Con gli statuti del
1744 e 1746, viene istituita anche una classe di filosofia specula-
532 FILOSOFIA MODERNA

tiva, nella quale, anche attraverso lo strumento offerto dal bando


di concorsi intorno a temi proposti dall'Accademia, si mettono
in discussione molti dei concetti centrali della sistematizzazione
metafisica leibniziana e wolffiana, che, pur avendo prima un lar­
ghissimo seguito, comincia a perdere terreno negli anni '50 e '60.
Furono ad esempio proposti all'indagine degli studiosi temi quali
la monadologia (per il 1747), il determinismo (1751), l'ottimismo
(1755), l'evidenza dei principi della teologia naturale e della morale
(1763), i progressi della metafisica dai tempi di Leibniz e Wolff
(1791); ed è noto come più volte anche Kant si sia cimentato nel­
la soluzione di queste problematiche.

Lo stesso FEDERICO II (1712-1786), oltre che circondarsi di


filosofi, pretende dedicarsi personalmente a riflessioni filosofiche;
nel 1740 - lo stesso anno della sua ascesa al trono - vien pub­
blicato il suo Anti-Machiavelli: Io spirito dell'opera è indicato a
sufficienza nelle sue prime linee: « il Principe di Machiavelli è,
nel campo della morale, ciò che l'opera di Spinoza è nel campo
della fede; Spinoza everteva i fondamenti della fede e mirava
niente meno che ad abbattere l'edificio della religione: Machia­
velli corruppe la politica, e diede avvio alla distruzione dei pre­
cetti della sana morale »; contro questo « mostro » che ne vuole
la distruzione, Federico intende prendere le difese dell'umanità.
Non son mancati gli interpreti che hanno letto l'opera come il
machiavellico gesto del principe ereditario; eppure, in qualche mo­
do gli ideali umanistici di cui Federico è imbevuto gli impediscono
di mettersi dal punto di vista del Principe. Alla pura morale, di
cui là si ergeva a difensore, Federico riduce anche la religione cri­
stiana, la quale avrebbe adeguato questa sua vera natura nel pe­
riodo delle origini. Negli anni 1735-36 Federico si era dedicato
allo studio di Wolff, ma poi leggerà Bayle, ripudierà le specula­
zioni metafisiche: « amo molto la filosofi.a e la poesia - scrive
a Voltaire nel 1739 - ma quando dico filosofia, non intendo né
la geometria né la metafisica: la prima [ e si intende qui Newton] ,
per quanto sublime, non è fatta per il commercio degli uomini...;
quanto alla metafisica ... è un pallone pieno di vento ». Il suo inte­
resse va quindi alla morale; per lui l'uomo è fatto non per specu­
lare, ma per l'azione; è necessario « applicare il nostro spirito al­
l'utile morale »; bisogna lavorare a distruggere da questo mondo
ILLUMINISMO TEDESCO 533

il crimine, insegnare la morale, e a questo fine porla su quel suo


solido fondamento che è l'amor proprio: « si devono... opporre
le passioni alle passioni, e dimostrando agli uomini che il loro in­
teresse è di esser virtuosi, li si renderebbe tali ». Costantemente
seguace del credo metafisico del deismo (affermazione di un Dio
che crea secondo leggi sagge volte al bene del mondo) e contrario
al materialismo del d'Holbach, Federico dubita invece della prov­
videnza, ove la si intenda come estendentesi ai singoli individui,
e della immortalità dell'anima.

Primo presidente dell'Accademia rinnovata da Federico II fu


MAUPERTUIS (per il quale dr. le pp. 422 ss.); a lui successe
nella direzione, di fatto almeno se non di diritto, il grande mate­
matico e fisico LEONHARD EuLERO 14 (1707-1783 ). Ad Eulero fa
capo la frazione anti-wolffiana nell'Accademia: non solo nelle fa­
mose Lettere ad una principessa tedesca infatti, ma anche in molte
opere di argomento prettamente scientifico egli affronta quei pro­
blemi intorno ai quali la fisica e la filosofia si trovano a doversi
fronteggiare; e, per quanto egli riconosca la differenza esistente
tra il dare la descrizione di un fenomeno e le leggi che lo reggono,
ed il pretendere di individuare la causa nascosta del fenomeno
stesso, spesso egli si trova, sulla base della scienza newtoniana, a
dover polemizzare con i « filosofi wolffiani », poiché vede i loro
principi in contrasto diretto con i principi della scienza. Così è
ad esempio della dottrina monadologica, contro la quale egli scri­
ve già nel 1646 e attorno alla quale si possono raccogliere tutte le
critiche che egli rivolge alla metafisica wolffiana. A Wolff egli rim­
provera, si potrebbe dire, di non aver ricondotto fino in fondo la
opposizione dello spirituale e del corporeo, via sulla quale in real-

14
EULElt Leonhard, Basilea 1707 - Pietroburgo 1783. La passione per la matematica,
trasmessagli dal padre Paul E., discepolo di Jakob Bernoulli, è alimentata dall'insegna­
mento di Johann Bernoulli, suo maestro a Basilea. Qui studia anche teologia e lingue
orientali. Grandissimo cultore di scienze matematiche e fisiche, è dal 1727 al 1740
a Pietroburgo, membro di quella Accademia. Quindi, a Berlino; dopo Maupertuis è
praticamente presidente dell'Accademia. Dal 1766, cieco ma ancora attivo, è di nuovo
a Pietroburgo. Tra le sue opere: Mechanica (Pietroburgo 1736), Réflexions sur l'espace
et le temps (in Mémoires de l'Académie royale des Sciences de Berlin 1748), Lettres
à une princesse d'Allemagne sur quelques su;ets de physique et de philosophie (Pietro­
burgo 1768-1772; trad. it. Torino 1958), Rettung der gottlichen Offenbarunr, gegen
die Entwurfe der Freigeister (Berlino 1747), Theoria motus corporum soltdorum...
(Rostock e Freiwald 1765).
534 FILOSOFIA MODERNA

tà Wolff si era messo, dimenticando il senso più genuino della mo­


nadologia leibniziana, col rifiuto di attribuire la perceptio alla mo­
nade in quanto tale. Wolff sostiene che gli elementi dei corpi, ed
ogni corpo in quanto tale, possiedono una forza per cui tendono
continuamente a mutare stato; il che contraddice a quel principio
fondamentale della meccanica che è il principio di inerzia. Anco­
ra: le monadi wolffiane, che per Eulero « non differiscono da una
sottilissima polvere se non perché le molecole della polvere sono
forse ancora troppo grosse» (Lettere ..., p. 310) per poter essere
paragonate con le monadi (e monadi sono gli elementi dei corpi,
le anime, e « non oso quasi dirlo», perfino Dio), dovrebbero co­
stituire il termine ultimo a cui è possibile pervenire nella divisio­
ne dei corpi; mentre invece, essendo tutti i corpi estesi, deve
appartenere ad essi quella proprietà della divisibilità infinita che
la geometria dimostra evidentissimamente competere all'estensio­
ne; e poi, quante monadi (inestese) sono mai necessarie per co­
stituire un esteso? Nel sistema delle monadi, le idee di estensione,
corpo, spazio, tempo e moto divengono idee totalmente illusorie,
che non trovano alcuna applicazione alle cose che esistono al mon­
do. Intorno ai concetti di spazio e tempo Eulero è tornato più vol­
te, in relazione ai principi primi della meccanica, che, sembra, non
sono comprensibili se non si affermano uno spazio ed un tempo
assoluti. I principi della meccanica sono confermati nella loro
validità dal « meraviglioso accordo di tutte le conclusioni che se
ne traggono mediante il calcolo, con tutti i movimenti dei corpL.»
(Réfiexions... , p. 324 ); se allora quei principi si lasciano affermare
solo supponendo nozioni di spazio e tempo come cose reali, que­
ste loro nozioni saranno vere, e non immaginarie come affermano
i metafisici. Si concluderà che, non potendo verificarsi che « un
principio di meccanica sia fondato su una idea che non sussiste
che nella nostra immaginazione ... l'idea matematica di luogo non
è immaginaria, ma che c'è qualcosa di reale nel mondo che corri­
sponde a questa idea» (ibid., p. 329). Ma questa non sembra es­
sere stata costantemente la sua opinione; nella giovanile Mecha­
nica, distinguendo i compiti della metafisica da quelli della mate­
matica, riteneva necessarie le idee di spazio e tempo assoluti per
chi volesse rappresentarsi le leggi del moto e della quiete assoluti,
senza decidere però in sede metafisica sulla natura del tempo e
dello spazio; nella Theoria motus sembra invece considerare le
ILLUMINISMO TEDESCO 535

idee di luogo e quiete relativi come più « naturali » e conformi


a ciò che i sensi ci mostrano, e sembrano enunciabili in questi
termini i principi della meccanica.
Da quella stessa denunciata insufficiente distinzione degli spi­
riti dai corpi si origina la tesi dell'armonia prestabilita con i con­
seguenti dubbi relativi alla libertà umana: nelle sostanze sem­
plici wolffiane, in cui uno stato successivo segue, da quello deter­
minato, il precedente, non c'è evidentemente possibilità di libertà.
Ora, ciò è vero per i corpi ma falso per gli spiriti, e il darsi di que­
sta libertà porta secondo Eulero al rigetto della definizione wolffia­
na del mondo come macchina, visto che in essa si danno eventi
che sono posti in essere dalla libera elezione degli spiriti.
Eulero, infine, non è alieno dal fare ricorso talora immediato
a teorie :fisiche per fondare tesi metafisiche, di psicologia o teologia
naturale, in una maniera che va ancora oltre il modo di quella dif­
fusissima :fisico-teologia, che egli pure impiega (si vedano le con­
siderazioni sulle meraviglie dell'occhio umano nelle Lettere). Ad
esempio, contro chi afferma che la materia può pensare, argomenta
dicendo che il produrre una materia pensante non sarebbe possi­
bile neanche alla onnipotenza divina, poiché l'inerzia, qualità es­
senziale della materia, contraddice a quella qualità essenziale de­
gli spiriti che è la capacità di mutare costantemente il proprio sta­
to. E, a sostegno di una tesi creazionista che neghi l'eternità del
mondo, porta nella Difesa della divina rivelazione un argomento
tratto dal constatato progressivo accorciarsi delle orbite dei pia­
neti.

Legato all'ambiente dell'Accademia è anche JoHANN GEORG


15
SuLZER (1720-1779). Nelle sue ricerche la psicologia assume
decisamente quel posto privilegiato che le si attribuisce dai pen­
satori di questa seconda fase dell'illuminismo tedesco; come pure
è presente la caratteristica forte accentuazione etica, di un'etica

15 SuLZER Johann Georg, Winterthur (cantone di Zurigo) 1720 - Berlino 1779.


Svizzero, discepolo di Bodmer e Breitinger. Vicario e poi precettore, conosce a Berlino
Maupertuis, Eulero e Gleim. Divenuto membro dell'Accademia, ne guida la classe di
filosofia dal 1775. Allgemeine Theorie der Schonen Kiinste (Lipsia 1771-1774; 2" ed.
ibid. 1792-1794; rist. Hildesheim Olms 1969-1970 a cura di G. Tonelli), Vermischte
philosophische Schrift�n (Lipsia 1773-1781).
5.36 FILOSOFIA MODERNA

che è volta in primo luogo ad indicare la via alla felicità. Tra le


questioni di cui la filosofia si occupa, la più importante è infatti
per Sulzer senz'altro quella concernente i mezzi che ci permettono
di giungere alla felicità, e la felicità, << per quanto l'uomo può rag­
giungerla, è uno stato, in cui il piacere supera il dolore » (Ver­
mischte Schriften, l, p. 1 ). Ecco allora quello che si rende neces­
sario: « conoscere. distintamente tutte le facoltà che ci rendono
atti a diversi tipi di piaceri e dolori; ... sapere il rapporto che c'è
tra ognuna di queste facoltà e l'essenza dell'anima o la sua immu­
tabile natura; ed infine il modo in cui, mediante queste facoltà,
il piacere viene procurato per mezzo di ogni genere di oggetti »
(ibid., p. 3 ). A partire dalla natura dell'anima e dall'attività sua
propria che è quella di produrre idee, si spiega l'origine delle sen­
sazioni piacevoli o spiacevoli; e la teoria generale del piacere, pre­
supposto necessario della teoria della felicità in quanto deve deter­
minare il vero valore di ogni tipo di piacere, passa a trattare e
paragonare i piaceri sensibili, i piaceri intellettuali del bello, i pia­
ceri morali. Si conclude che « i piaceri morali sono preferibili agli
altri, e principalmente da essi ci si deve aspettare la propria feli­
cità» (ibid., p. 100); il concetto di felicità è del resto legato a
quello di perfezione, nel cui perseguimento, con richiamo a Wolff,
sta la virtù. Fintantoché sentiamo di poterci ancora perfezionare,
siamo sicuri di poter essere ancora più felici; e, col grado di per­
fezione, diminuiscono i nostri dolori, aumentano i piaceri.
E, nella sua opera maggiore di estetica, la Teoria universale
delle arti belle (1771-74), che è l'opera appunto a cui è legata la
sua fama, Sulzer vede l'arte orientata alla vita morale, alla felicità;
seguendo l'esempio della natura, prima artista, che rende a noi
gradevole ciò che più è necessario alla felicità, « le arti belle ...
rappresentano nella piena attrattiva della bellezza i beni più es­
senziali, dai quali dipende immediatamente la nostra felicità, per
infonderci un invincibile amore nei loro riguardi» (ibid., II, p.
244); esse trovano quindi la loro applicazione nell'elevare lo spi­
rito ed il cuore, e il loro fine non è certo quello di dilettare sensi­
bilmente. Proprio per questa loro finalità educativa esse meritano
l'attenzione dei saggi e la cura dei politici; nel compito della edu­
cazione di un popolo esse sono seconde in importanza solo ad una
buona legislazione: sono strumenti efficaci per persuadere all'a­
dempimento del dovere anche là dove l'inerzia o le passioni vi si
ILLUMINISMO TEDESCO 537

oppongono. Si delinea in Sulzer la figura dell'uomo che si forma


alla scuola delle belle arti, che non è tutto sensibilità come l'uomo
rozzo che vive solo la sua vita animale, né l'uomo tutto o solo
ragione, conoscere e non agire, come quello che si proponevano di
formare gli stoici, ma qualcosa di medio, « la cui sensibilità con­
siste in una raffinata interna capacità di sentire, che rende l'uomo
attivo per la vita morale » (ibid., II, p. 252).

6. La << filosofia popolare ». M. Mendelssohn

Dopo aver detto dell'Accademia, conviene ricordare quello che


è un altro potente mezzo di diffusione della cultura nel 1700: la
stampa periodica. Nascono nel 1682 a Lipsia gli Acta eruditorum,
che acquistano subito un enorme prestigio, e che saranno pubbli­
cati sino al 1776; si tratta di un mensile erudito, diretto, sull'e­
sempio di analoghe pubblicazioni italiane e francesi, all'uso da
parte degli studiosi; esso contiene recensioni di nuovi libri, nelle
più diverse discipline; solo eccezionalmente, vengono ospitati bre­
vi articoli, e Leibniz e Wolff sono tra gli autori di questi ultimi.
C. Thomasius, con i suoi Monats-Gespri:iche, volti probabilmente,
nonostante egli lo neghi, a contrapporsi agli Acta eruditorum, in­
tende piegare lo strumento giornalistico a fini diversi, rendendo­
lo più combattivo e sganciandolo dalla cultura accademica che vie­
ne satireggiata; si rivolge ad un pubblico molto più vasto di quel­
lo delle Università, ed impiega, coerentemente, la lingua tedesca
al posto della latina.
Sull'esempio di queste pubblicazioni, ne compaiono molte al­
tre negli anni tra la fine del '600 e gli inizi del '700, molte anche
limitate a discipline particolari, teologia, storia, diritto, filosofia,
filologia, medicina; Lipsia e Halle sono i centri di questo giorna­
lismo erudito, come sono più in generale, in questo periodo, i
centri più vivaci di elaborazione culturale.
Lo stesso desiderio, che era di Thomasius, di operare il più
efficacemente possibile la Aufkli:irung del popolo è il motivo della
pubblicazione di quelli che vanno sotto il nome di « settimanali
morali », che compaiono nella seconda decade del secolo, ispiran-
538 FILOSOFIA MODERNA

dosi verosimilmente ad esempi inglesi 16: si discutono i temi più


vari, legati alla vita di tutti i giorni, e temi aventi attinenza alla
morale, alla religione, all'estetica, senza intenti di approfondimen­
to speculativo, ma con fini chiaramente pedagogici.
Meritano di essere ricordati, nella seconda metà del secolo,
i periodici di cui è editore Christian Friedrich Nicolai, importante
figura dell'ambiente illuministico berlinese, la Bibliothek der scho­
nen Wissenschaften (1757-58), i Briefe die neueste deutsche Li­
teratur betreffend ( 1759-69), la Allgemeine deutsche Bibliothek
(1765-92; e poi 1793-1805). È da ricordare ancora quell'impor­
tante organo di discussione e diffusione culturale che fu la Berli­
nische Monatsschrift, edita da F. Gedike e I. E. Biester a partire
dal 1783. Anche le riviste specializzate mantengono ora, come la
generale produzione filosofica del momento, un tono ed un metodo
di indagine che devono rendere possibile la comprensione anche
ai non specialisti; e c'è poi tutta una serie di pubblicazioni che
vogliono diffondere notizie di nuove scoperte, estratti di nuove
opere, traduzioni di autori stranieri.
Siamo entrati in pieno, ormai, nell'ambito di quella che è
stata chiamata la « filosofia popolare » o « divulgativa » (Popu­
larphilosophie). Non c'è rottura con la tradizione wolfE.ana, che
anzi costituisce in genere la base da cui questa generazione parte;
ma l'atteggiamento è ora fondamentalmente eclettico: alle solu­
zioni wolffiane se ne accostano altre ispirate all'illuminismo fran­
cese ed inglese : vengono studiati Shaftesbury, Burke, Diderot,
Bonnet, e discussi Berkeley, Hume e la scuola scozzese del senso
comune. Infine, e ciò è molto importante per quanto riguarda lo
sviluppo che condurrà alla filosofia romantica, ci si rifà al pensiero
leibniziano e spinoziano direttamente, al di là degli schemi ridut­
tivi che ne avevano reso improduttivo lo studio.
Conformemente a questo atteggiamento eclettico, si tende ad
abbandonare la forma sistematica: anche se non mancano manuali
che richiamano nella forma esterna quelli della scuola wolffiana,
viene preferita la forma del saggio, e quella del dialogo; del resto,

16
Ricordiamo, tra i primi in ordine cronologico Der Verniinftler di Amburgo
(1713) e poi i Discourse der Mahlern di Zurigo, editi da J. J. Bodmer e J. J. Breitinger
(1721), Der Patriot di Amburgo ( 1725) e le Verniinftige Tadlerinnen (1725) e il Bie­
dermann ( 1727) editi da Gottsched a Lipsia.
ILLUMINISMO TEDESCO 539

i dubbi intorno alla validità dell'applicazione in sede filosofica del


metodo matematico aumentano; e, anche se in generale si afferma
il convergere dei risultati del « sano intelletto comune » ( o della
« retta ragione ») da una parte, e della « speculazione » dall'al­
tra, è al primo che si fa appello costante; e costantemente viene
ricordata l'importanza del ruolo che gioca nella vita umana la co­
noscenza probabile. Può essere utile riportare le dichiarazioni con
cui J. B. Basedow (1723-1790) apre il suo Sistema teoretico della
sana ragione, (Lipsia 1765): « la dimostrazione da concetti e prin­
cipi è solo per le verità più astratte, in particolare quelle della ma­
tematica pura, le quali, senza applicazioni a verità assolutamen­
te non dimostrative, sarebbero arzigogoli inutili. Tutte le cono­
scenze umane generalmente utili traggono la loro certezza da espe­
rienze analogiche universali, dall'accumularsi delle probabilità, e
dal dovere razionale di credere ... » (p. 5).
La presunta conoscenza « filosofica » di chi rigetta come fonti
di verità l'analogia e la fede razionale, di chi vuol partire ad ogni
costo da definizioni senza riconoscere che molte delle cose a noi
più note non soffrono definizione, o, nonostante tentativi di de­
finizione, non divengono meglio comprensibili, gli si presenta co­
me un campionario di immaginazioni fantastiche; conclude quindi
con la derisione di una filosofia che vuol essere scienza delle pos­
sibilità delle cose e che non sa poi decidere se essa si estenda solo
alle chimere del possibile o ad utili realtà; la sana ragione, invece,
facilmente potrà esser condotta, con l'ausilio della fede razionale,
a riconoscere Dio e l'immortalità dell'anima. E Feder, impegnan­
dosi direttamente in una valutazione dell'abito wolffiano della
Griindlichkeit, nota come Wolfl abbia in realtà sacrificato ad una
fondatezza formale, e cioè alla semplicità del sistema, la fondatez­
za sostanziale, e questo perché egli tutto riporta a pochi concetti
e principi, votandosi così all'incompletezza, e perché deduce da
un unico fondamento ciò che sarebbe invece da ricondurre ad una
pluralità di cause. In tal modo viene offerta della realtà una rap­
presentazione troppo povera e scheletrica, incapace di renderne
la forma ed il movimento. Wolff vale allora come modello nel­
l'analisi e nell'ordinamento di concetti dati, e nella costruzione di
catene argomentative, ma non però - che è ciò che più conta -
nel ricercare mediante osservazioni molteplici nuovi concetti rea­
li, dei quali è poi da valutare la portata. Più spirito di osservazio-
540 FILOSOFIA MODERNA

ne e più attenzione ai fatti che non smania di definire e di dimo­


strare richiedono ancora Hissmann e Plattner. Ancora, diventa
intento di molti, ad esempio di Jerusalem nelle sue famose Con­
siderazioni sulle più importanti verità della religione ( 17 68 ), quel­
lo di tenere una via media tra il rigore metafisico e la pura declama­
zione oratoria; ciò che è necessario in base a preoccupazioni educati­
ve e di diffusione della cultura. Del resto, osserva Lavater, ove anche
siano possibili argomentazioni rigorose, da chi mai esse possono
essere davvero gustate nel loro valore? forse da un uomo su un
milione; la filosofia è sì sistema, ma non nel senso che si riduca
ed essere catena di argomentazioni costruite su segni arbitrari ed
arbitrarie definizioni, bensì in quanto è insieme coerente di espe­
rienze comuni ad ogni uomo; nel primo caso, è evidente come la
filosofia non possa avere alcun influsso sulle intime convinzioni e
sull'agire degli uomini.
Questo tipo di atteggiamento, che non è scevro talora da una
coloritura scettica, si accompagna ad un vigile senso di sospetto
per le sistemazioni che si propongono esaustive, e alla consape­
volezza della possibilità e necessità di un continuo impegno di inda­
gine; Plattner si gloria delle parole di Chr. G. Heyne: « Goettingae,
etiam philosophiae doctores, dubitare et nonnulla nescire ausi
sunt ». Ma, dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura
e delle Lettere sulla dottrina dello Spinoza, si avvertirà anche il
pericolo insito in quelle posizioni, che sembrano portare tenden­
zialmente alla negazione della validità universale delle conoscenze
umane, e rigettare di nuovo il mondo umano, da quel rischiara­
mento che faticosamente si persegue, nelle tenebre dell'esaltazio­
ne e del fanatismo: si possono ricordare gli attacchi di J. A. Ebe­
rhard a Kant accusato di scetticismo, e di aver negato per l'uomo
la possibilità di conoscenze universali, e la critica di Mendelssohn
al concetto di fede razionale di Basedow, e la presa di posizione
di J. A. H. Reimarus, figlio del celebre Hermann Samuel, che è
polemico con Jacobi e tiene a precisare come la sana ragione, l'in­
telletto comune, non siano una facoltà particolare, ma la ragione
stessa, la cui evidenza è l'evidenza del nesso necessario tra le ve­
rità; solo che quello sviluppo di ragioni che i filosofi seguono passo
passo nelle loro argomentazioni per rendere evidente ogni passag­
gio, viene colto dall'intelletto comune in una forma non distinta,
non articolata.
ILLUMINISMO TEDESCO 541

Ciò che comanda la VlSlone del metodo che abbiamo cercato


di delineare, è - e i passi di Basedow e di Feder ne fanno fede -,
quel tratto caratteristico della produzione :filosofi.ca di questo pe­
riodo che è da riconoscersi in un senso molto forte del legame che
esiste tra il :filosofare e la vita. Non è evidentemente concetto nuo­
vo, estraneo ai pensatori dei precedenti decenni: Wolff stesso -
come abbiamo visto - si era esplicitamente preoccupato di sta­
bilire, in apertura della Logica tedesca, che il suo rigido criterio
della fondazione rigorosa di ogni asserto era legittimato e richie­
sto proprio dal fine che la conoscenza potesse servire alla « feli­
cità della vita umana», e si richiamava poi costantemente, nel fati­
coso procedere delle sue deduzioni, all'usus vitae delle verità de­
dotte. Non concetto nuovo, dunque, ma accompagnato tuttavia
da una forte accentuazione della opportunità del rigetto di una
morta conoscenz:i speculativa, per una conoscenza vivente, che
possa farsi regola e spinta all'agire: e tale accentuazione si traduce
talora in critica delle sottigliezze sistematiche, sempre in un deciso
aggancio alla dimensione etica. Tutto ciò si riflette sulla scelta
delle discipline che vengono coltivate di preferenza: mentre dimi­
nuisce l'interesse per la trattazione (almeno esplicita) di ontologia,
cosmologia e psicologia razionale, balzano in primo piano l'etica
appunto e la psicologia empirica, alla quale si riportano ancora
l'estetica e la teoria della conoscenza (e per questa via si giunge,
di consueto, alle tematiche di psicologia razionale, intorno alla
natura metafisica dell'anima); quindi la religione, la comprensione
della storia. Quanto alla teologia razionale, si ritiene importante
stabilire, sempre in funzione etica, la verità dell'esistenza di un Dio
provvidente e remuneratore: ma, appunto, cercando di evitare inu­
tili sottigliezze sistematiche. Ma il pensiero deve poi rischiarare ogni
campo dell'essere e dell'agire umano: la vita sociale, il diritto,
l'educazione.
L'uomo, la vita umana, sono al centro degli interessi filosofi­
ci: neppur questa è evidentemente cosa nuova, ma l'accentuazione
antropocentrica è del tutto particolare e riveste punte polemiche
nei confronti della speculazione dei decenni precedenti. A Thoma­
sius però, e alla -;cuoia thomasiana, viene riconosciuto il merito « di
aver indirizzato 1a filosofia alle faccende della vita, e di aver cer­
cato di battere la via dell'osservazione» (J. G. H. FEDER, Unter­
suchungen uber den menschilichen Willen II, Lemgo 1787, Prefa-
542 FILOSOFIA MODERNA

zione); ma non bisogna poi dimenticare l'apporto degli inglesi, e


di Montesquieu, Rousseau ecc. Meiners vede realizzato nella Grecia
antica un ideale di cultura che desidererebbe rivivesse anche nei
tempi suoi: i greci non sfuggirono le speculazioni su spazio tempo
vuoto eternità infinito libertà necessità e così via, ma « essi sapeva­
no anche quale valore avessero tutte queste speculazioni, conside­
randole giochi per le menti dei pensatori, o mezzi per guardarsi dal­
la superstizione », ed erano comunque capaci di ordinare questo sa­
pere « all'etica, in cui cercavano di definire la natura e il destino
dell'uomo, e a fornire i mezzi per render più nobile quella, e per
raggiungere questo » (Vermischte philosophische Schriften III,
Lipsia 1776, p. 57). La filosofia, secondo Meiners, non ha altro og­
getto che l'uomo; essa diviene una scienza dell'uomo. E Feder,
toccando il tema della conoscenza di sé, e del rapporto di questa
con le diverse scienze, si rifà a Socrate: neppure Socrate, col suo
richiamo alla necessità dello studio dell'uomo, desiderava si tra­
scurassero le altre scienze - come si sarebbe ancora impastoiati
nella superstizione se la fisica non avesse avuto il grande sviluppo
che ha avuto! -, ma l'uomo, la sua natura e il suo destino, re­
stano il centro dell'attenzione, l'oggetto su cui ognuno è tenuto
a riflettere, lasciando agli specialisti i diversi particolari campi di
indagine: del resto, la conoscenza di sé è fondamentale « poiché
le cose al di fuori dell'uomo divengono ciò che le fa importanti
per lui, le cause del suo piacere o della sua miseria, più attraverso
lui di quanto non lo siano già in se stesse, necessariamente » (Unter­
suchungen ... , pp. 1-2).

MosEs MENDELSSOHN 17 (1729-1786) è visto generalmente co­


me il massimo rappresentante di questa « filosofia popolare ». For­
matosi dapprima alla lettura di pensatori ebraici e del Saggio di

17 MENDELSSOHN Moses, Dessau 1729 - Berlino 1786. Di famiglia ebraica, studia


nella natia Dessau sulla Scrittura, il Talmud, i maggiori commentatori e in particolare
Maimonide. Recatosi nel 1743 a Berlino, vi amplia la sua formazione, non limitandosi
alla cultura ebraica. Precettore e poi contabile dal 1750 nella casa di un fabbricante
di sete, mentre continua le sue letture (di Locke, Shaftesbury, Wolfl, Leibniz, Spinoza
e Rousseau) entra in amicizia (1754) con Lessing e Nicolai collaborando con artico­
li alle loro riviste. Soprattutto negli anni successivi al 1778, opera in favore della de­
vazione culturale e contro la discriminazione sociale dei suoi correligionari. Sono da
ricordare la sua disputa con Bonnet e quella con Jacobi intorno allo spinozismo di
Lessing, che gli amareggiò gli ultimi anni di vita. Tra le sue opere ricordiamo:
ILLUMINISMO TEDESCO 543

Locke, ed arrivato solo in un secondo tempo alla meditazione del pen­


siero leibniziano e wolffiano, si rivela poi campione della corrente
wolffiana negli scritti, occasionati da temi proposti dall'Accademia,
intorno all'ottimismo (Pope, un metafisico!) e intorno alla validità
del metodo matematico in filosofia (Trattato sull'evidenza nelle
scienze metafisiche). Ammirato per la scorrevolezza e la perfezio­
ne del suo stile, egli preferisce, secondo il costume della filoso­
fia popolare, la forma del dialogo o del saggio alla pesante e arida
forma sistematica dei manuali di derivazione wolffiana, e ricerca
un modo di esposizione che tenga conto il più possibile delle esi­
genze del lettore; e tuttavia, alla comodità del lettore il filoso­
fo deve anteporre le esigenze della scienza, alle quali il letto­
re stesso deve piegarsi. Egli ritiene bene essenziale del pensie-·
ro tedesco quella Grundlichkeit che volentieri contrappone alla su­
perficialità francese e alla mancanza di sistematicità inglese. Lo
spirito speculativo, operante con tutto il rigore scientifico della
matematica, sembra ormai fuori moda - osserva Mendelssohn,
in polemica contro chi insiste esclusivamente sul fatto, sull'evi­
denza sensibile, sull'osservazione, che conducono ai due estremi
del materialismo e dell'esaltazione fanatica -; ma quel rigore è in
realtà da perseguire, e da tenere poi in stretto contatto con quanto
indica il senso comune, perché la speculazione non si perda in vane
sottigliezze che non hanno nulla a che vedere con l'agire dell'uomo
e la sua felicità. È, invece, preoccupazione costante di Mendels­
sohn quella di scongiurare il divorzio tra la dottrina e la vita, e il
perseguimento della felicità: la filosofia insegna ad indirizzare le

Philosophische Gespriiche (Berlino 1755), Briefe iiber die Empfindungen (Berlino 1755),
Ueber die Hauptgrundsiitze der schonen Kiinste und Wissenschaften (1757), Ueber
das Erhabene und Na'ive (1758), Rhapsodie (1761), Abhandlung iiber die Evidenz in
metaphysichen Wissenschaften (Berlino 1764), Phiidon oder iiber die Unsterblichkeit der
Seele (Berlino 1767), Jerusalem oder iiber religiose Macht und Judentum (Berlino
1783), Morgenstunden oder Vorlesungen iiber das Dasein Gottes (Berlino 1785), An
die Freunde Lessings (Berlino 1786). Ricordiamo una edizione parziale degli scritti
di M. (Schriften zur Philosophie, Aesthetik und Apologetik, 2 voli. a cura di M. Brasch,
Amburgo 1881) che è stata recentemente ristampata (Hildesheim Olms 1968). Nel
1929 fu intrapresa l'edizione completa delle sue opere (Gesammelte Schriften, Jubiliiums­
ausgabe, ed. I. Elbogen, J. Guttmann, E. Mittwoch, Berlino 1929-1932), ma uscirono
solo sette volumi; l'editore Fro=ann ha recentemente ripreso l'iniziativa della pub­
blicazione, sotto la guida di A. Altmann. Su M. cfr.: E. D. BACHI, Sulla vita e sulle
opere di M. M., Torino 1872; A. PuP1, Alle soglie dell'età romantica, Milano 1962;
C. WILK, M. M., Buenos Aires 1969; A. ALTMANN, M. M.s Friihschriften zur Metaphysik,
Tubinga 1969; dr. infine H. M. Z. MEYER, M. M.s Bibliographie, (Berlino 1965).
544 FILOSOFIA MODERNA

azioni secondo i fini dell'essere perfettissimo, i pensieri secondo


i pensieri dell'onnisciente. Del resto, il « popolare» e lo « specu­
lativo» non sono contrapposti, ed il passaggio dal primo al secon­
do significa spesso null'altro che raffinamento di concetti, più che
un loro totale ribaltamento; la peculiarità della filosofia popolare
è, secondo Mendelssohn, non tanto in una sua peculiare metodo­
logia per scoprire la verità, quanto nella preoccupazione di diffon­
dere, rendere operante, attiva come movente dell'agire, la verità
già trovata.
Proprio in grazia della forte accentuazione etica che riceve la
ricerca filosofica, Mendelssohn rivolge particolare attenzione al­
la conoscenza probabile, che ha cosi grande influsso sull'agire
umano, e con ciò sulla sua felicità: ripresa di tematiche che erano
state proprie della scuola thomasiana e che sono largamente con­
divise in questa fase del pensiero illuministico tedesco. Mendels­
sohn è appunto autore di un saggio Sulla probabilità: seguendo
Wolff, si ha conoscenza probabile quando le ragioni che determina­
no il soggetto rispetto al predicato ci sono note solamente in par­
te; ove quelle ragioni ci fossero pienamente conosciute, si avreb­
be certezza ed evidenza matematica; il che è possibile in matematica
come in logica e, almeno per alcune loro parti, in metafisica e in
etica. Nel Trattato sull'evidenza delle scienze metafisiche viene ri­
vendicata per le verità metafisiche una certezza pari a quella pro­
pria delle verità geometriche, ché anche quelle si riconducono, me­
diante un corretto procedimento deduttivo, a principi ed assiomi
altrettanto innegabili quanto quelli della geometria: esse non han­
no però altrettanta immediata comprensibilità (Fasslichkeit). Og­
getto della geometria e fondamento di essa è « il concetto astratto
dell'estensione; da quest'unica fonte essa deduce tutte le sue con­
seguenze, e in modo tale che si vede distintamente come tutto ciò
che in essa è affermato è necessariamente connesso col fecondo con­
cetto di estensione mediante il principio di non contraddizione,
cosicché non c'è alcun dubbio che nel concetto di estensione deb­
bono trovarsi implicite tutte le verità geometriche, che la geome­
tria ci insegna a sviluppare» (ed. Brasch, I, p. 49). Ma proprio
per questo, nella geometria come in generale nella matematica,
si resta chiusi nel campo di rapporti puramente logici, della con­
nessione necessaria tra concetti, e non si arriva a porre nulla di
esistente. La metafisica invece, nonostante la sua affinità con la
ILLUMINISMO TEDESCO 545

matematica, se ne distingue per più aspetti, in particolare per que­


sto, che « il filosofo non è soddisfatto, come il matematico, di aver
mostrato il legame necessario tra il soggetto e il predicato; oltre
a ciò, egli deve sottrarre ad ogni dubbio l'esserci del soggetto o
il non essere del predicato, per poter concludere nel primo caso al­
l'esserci del predicato, nel secondo al non essere del soggetto; ché
noi non ci aspettiamo dal filosofo enunciazioni sulla pura possibi­
lità, se egli non sa farle reali » (ibid., p. 69). E due sono le vie che
conducono dal can1po del possibile a quello del reale, il senso in­
terno e il cogito da un lato, e la prova ontologica dall'altro: sono
inscindibilmente legate le due asserzioni « l'essere necessario è pos­
sibile », e « l'essere necessario è reale »; « se si riesce quindi a
mostrare che l'essere necessario è possibile, si è dimostrata con
ciò la sua esistenza; ed è noto che la sua possibilità si può dimo­
strare » (ibid., p. 70).
Siamo così giunti a trattare di temi metafisici, che costitui­
scono l'oggetto principale degli scritti filosofici più tardi di Men­
delssohn, ma che non sono assenti dai suoi primi scritti. Già i
Dialoghi filosofici, pur nella loro scarsa unità, sono incentrati
attorno ad una discussione dei sistemi spinoziano e leibniziano,
che porta ad una accettazione di quest'ultimo ma insieme ad un
tentativo di nuova interpretazione e di positiva valutazione di
Spinoza. Resta valida la confutazione che ne aveva dato Wolff, de­
nunciando l'errore spinoziano di credere « che si possa, da una
quantità infinita di perfezioni finite, comporre quasi una infinita
perfezione » (ibid., I, p. 17); però Spinoza resta in qualche modo
salvato da un'altra possibile interpretazione, per la quale il suo
punto debole starebbe solo nel fatto di attribuire al mondo come
insieme delle cose finite, nella sua autonoma realtà, quelle proprie­
tà che il leibnizianesimo attribuisce più correttamente al mondo
in quanto sussiste come oggetto dell'intelletto divino. L'essere
del mondo suppone non solamente l'essere di Dio, ma la sua vo­
lontà, e Mendelssohn abbraccia decisamente la tesi leibniziana del­
l'ottimismo, che nello stesso anno difende, insieme con Lessing, in
Pope, un metafisico!, risposta polemica e satirica al tema proposto
dall'Accademia per il 175 5.
Le Lettere sulle sensazioni sono invece dedicate alla tratta­
zione di problemi insieme etici ed estetici. Il metodo seguito da
Mendelssohn non è quello della pura osservazione, conformemente
546 FILOSOFIA MODERNA

a quello che è il suo giudizio su E. Burke, che pure stima altamente


come un grande osservatore della natura; eppure, quegli « accu­
mula osservazioni su osservazioni, tutte tanto profonde quanto
acute; ma non appena si tratta di interpretare queste osservazioni
a partire dalla natura della nostra anima, egli dimostra la sua debo­
lezza» (ibid., II, pp. 116-117). Appare troppo angusta la conce­
zione wolffiana dell'anima, per la quale tutte le sue facoltà si ri­
durrebbero fondamentalmente a quella rappresentativa: « noi ab­
biamo il compito di perfezionare in questa vita non solo le forze
dell'intelletto e della volontà, ma anche il sentimento, mediante
la conoscenza sensibile, e di elevare gli oscuri istinti dell'anima
mediante il piacere sensibile ad un più alto grado di perfezione »
(ibid., pp. 109-110). Trattandosi di spiegare la natura del piacere,
la ricerca si incentra sui concetti di perfezione, e di conoscenza
distinta o meno. L'ultimo fondamento delle cose si tocca quando
si è giunti alla loro essenza; ora, l'anelito originario alla perfezio­
ne è essenziale agli spiriti; ed in ciò trovano il loro fondamento
l'etica come l'estetica. L'attenzione di Mendelssohn è per ora ri­
volta preminentemente a temi estetici: la perfezione - sensi­
bile o intellettuale - di una cosa è la ragione per cui uno spirito
prova piacere alla sua rappresentazione: la sensazione della bel­
lezza richiede una rappresentazione chiara, ma non distinta, di un
tutto, e per questo gli oggetti belli debbono possedere un ordine
ed una armonia che sia facile a cogliersi sensibilmente. Alla per­
fezione che si coglie distintamente con l'intelletto non è legata
questa condizione dovuta alla limitatezza della nostra natura; il
piacere che nasce dalla bellezza ha a fondamento la nostra limi­
tatezza, ma nulla in generale provoca piacere, se non appare nel­
la forma della perfezione.
Nella Rapsodia ( 1761 ), che intende integrare le tematiche svi­
luppate nelle Lettere sulle sensazioni, Mendelssohn sviluppa la
teoria delle sensazioni miste, che si hanno quando l'oggetto è di
per sé tale da generare dispiacere, ma la sua rappresentazione è pia­
cevole; teoria questa che troverà la sua applicazione in sede esteti­
ca - anche da parte di Lessing - quando si tratterà di indagare
la natura della imitazione artistica. Questo discorso compare anche
nei Principi delle belle arti e delle belle lettere dove si dibatte
il problema - che sarà pure lessinghiano - delle differenze tra
pittura e poesia.
ILLUMINISMO TEDESCO 547

L'opera letterariamente più compiuta di Mendelssohn, il Pe­


done, si occupa di un argomento che, di centrale interesse nel­
la metafisica tradizionale, era poi stato al centro di grosse di­
spute anche nell'ambiente illuministico francese ed inglese, e per
questo e per l'immediato riflesso che ha sulla vita etica è ampia­
mente dibattuto dai « :filosofi popolari»; si tratta di una ripresa
del dialogo platonico sulla immortalità e spiritualità dell'anima.
A Socrate che ha salutato la morte come quell'avvenimento che
permette all'uomo di raggiungere la sua più vera vocazione, e cioè
la sapienza, incombe il compito di mostrare come la morte non se­
gni la fine dell'anima stessa. Un mutamento naturale, e tale è la
morte, separazione dell'anima dal corpo, consiste nell'inerire suc­
cessivo ad un soggetto di due determinazioni opposte, attraverso
un seguito continuo di mutamenti, senza salti né fratture. Ma un
passaggio dall'essere al non essere non sarebbe un mutamento di
tal genere; la natura non può trarre una esistenza dal nulla, né
operare l'annientamento di un ente. Questo vale per il corpo, le
cui parti sono in un continuo flusso e che alla morte si separano
così da non costituire più il corpo. Ma ciò vale anche per l'anima,
che, semplice, all'improvviso non può finire; né può cessare di
essere a poco a poco; l'ultimo passo sarebbe pur sempre un salto
dall'essere al nulla. Non potrebbe tuttavia essere il pensiero - la
presunta sostanza pensante - una proprietà del composto, ed ave­
re il proprio fondamento nell'armonia delle parti? La risposta è ne­
gativa. Tutto ciò « che non deriva dalle proprietà degli elementi e
parti costituenti, come ordine, simmetria, ecc., è da ricercarsi solo
ed unicamente nel modo della composizione» (ibid., I, p. 208).
Simmetria, regolarità ecc. constano proprio nella convenienza: di più
parti singole; ma cogliere insieme e in armonia le diverse parti è
forse qualcosa di diverso da una azione della facoltà di pensare?
Senza una tale facoltà « non si dà nella natura nessun tutto, che
consti di più parti l'una esterna all'altra» (ibid., p. 209 ). Quindi
l'origine della: facoltà di pensare non può esser ricercata in un tut­
to, che dovrebbe risultare da parti esternamente giustapposte. E
di qui si arriva a porre l'anima come sostanza semplice, indispensa­
bile per spiegare la identità personale. Tutto ciò che può com­
petere al composto si riduce all'estensione e al moto, ma perce­
pire, giudicare, argomentare, desiderare, volere, sentir piacere o
dispiacere richiedono altro: un unico essere semplice, che sia loro
.548 FILOSOFIA MODERNA

fondamento. Lo stesso giro di pensieri svolto in questo secondo dia­


logo viene utilizzato altrove da Mendelssohn per combattere il mate­
rialismo psicologico: Mendelssohn critica infatti anche la psicologia
meccanicistico-sensualistica alla Bonnet e alla Condillac: ne abbia­
mo visto il motivo. Di quel tipo di spiegazioni egli non nega la
utilità; ma il tradurre nel linguaggio di vista e tatto - ai concet­
ti di materia e moto cioè - gli oggetti degli altri sensi, o addirit­
tura del mondo intellettuale, rapportando grandezze inestese che
per sé non possono misurarsi a grandezze estese, può essere utile
strumento dal punto di vista euristico, ma sarebbe del tutto errato
pretendere di rendere con ciò comprensibile la natura di quei feno­
meni riconducendola ai soli principi della materia e del moto; che
è ciò appunto che la psicologia sensualistica presume di fare. Non ha
senso inoltre porsi il problema, se l'onnipotenza divina possa far
si che la materia pensi (la materia non sarebbe più materia, oppure
la facoltà di pensare le sarebbe solo illusoriamente unita); piuttosto,
ciò che si dà di fatto è che quella onnipotenza ha creato una facol­
tà di pensare e l'ha unita - nell'uomo - alla materia. Ma il rap­
porto dell'anima col suo strumento corporeo non è tale che quella
cessi con questo le sue funzioni. Siamo in questo ordine di problemi
nel terzo dialogo del Pedone, in cui il problema dello stato del-
1' anima dopo la morte viene risolto nel senso della immortalità co­
sciente e personale, fondandosi sulla tendenza innata nell'uomo ad
un continuo progressivo perfezionamento. Il tendere senza termine
alla perfezione è la natura e la vocazione degli spiriti; questo è
anche l'ultimo :fine della creazione; ed è allora assurdo pensare che
gli spiriti possano esser fermati a mezzo in questo progredire,
anzi, esser privati dei frutti dei loro sforzi.
Come nel Pedone, cosi nelle Ore mattutine Mendelssohn si mo­
stra pienamente fiducioso nell'impiego della ragion teoretica in me­
tafisica. In questi.! opera, che ha ad oggetto la teologia naturale,
è contenuta una parte introduttiva che è dedicata all'indagine del
concetto di verità, e che termina con una decisa critica del prin­
cipio del« dovere di credere» (Glaubenspf/,icht) di Basedow. Vera
è ogni conoscenza, ogni pensiero che è effetto delle forze positive
dell'anima; invece, in quanto è conseguenza dei nostri limiti e del­
la nostra incapacità, la conoscenza può soffrire mutazione, e si dà
non-verità. Possono darsi due tipi di verità, le verità di ragione
che vanno al pensabile e al non-pensabile sulla base del principio
ILLUMINISMO TEDESCO 549

di non contraddizione, e le verità di esperienza per le quali si fa


ricorso all'analogia e all'induzione. Ma ogni verità deve essere
valutata dinanzi all'areopago della ragione, soprattutto quelle con­
cernenti l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, che hanno
un cosi stretto legame con la felicità umana. È da rifiutare quindi.
il principio di Basedow, secondo il quale« se c'è una proposizione ..•
che è connessa in maniera tale con la felicità dell'uomo, che questa
non può sussistere senza la verità di quella, allora si è obbligati ad
assumere per vera quella proposizione, ed a prestarle il nostro as­
senso» (ibid., I, p. 359). Ciò significa per Mendelssohn confonde­
re le due facoltà dell'anima, e tener per vero qualcosa, perché lo si
è trovato desiderabile; in rapporto alla conoscenza, non c'è altro
dovere che quello di ricercare; e poi c'è il dovere di fare ciò che è
conforme alla nostra felicità.
Si ricercano quindi prove della esistenza di Dio che siano for­
nite, secondo le asserzioni dello scritto del 1763, di evidenza pari
a quella matematica. Si individuano tre vie che portano a Dio: in­
nanzitutto quelle che partono dall'esistenza del mondo esterno, o·
dell'io, e che arrivano a Dio come all'essere necessario senza il
quale quella esistenza non è pensabile. Il fondamento dell'attuale
esistenza del mondo, contingente, non va ricercato nell'intelletto
dell'essere necessario, ché una tale dipendenza dal necessario rende­
rebbe impensabile la sua non-esistenza, e quel contingente sarebbe
necessario; il mondo attualmente esistente dipende da Dio come og­
getto della facoltà valutativa (Billigungsvermogen) e della volontà;
il mondo esiste perché è migliore la sua esistenza che la non esi­
stenza e Dio vuole tale esistenza. Bontà e perfezione, oggetto del­
la facoltà valutativa, sono il fondamento per cui qualcosa diviene
reale, e ciò presuppone un essere, che trovi piacere nella bon­
tà e nella perfezione, e per il quale esse siano moventi dell'azione.
« Tutto ciò che esiste, è il migliore»: in primo luogo, il migliore in
senso assoluto, la perfezione assoluta, l'essere infinito; quindi, la
perfezione relativa, che consiste nell'unione di parti, il mondo
nella totalità del suo divenire nello spazio e nel tempo, per cui
Dio è creatore e conservatore del mondo migliore tra i possibili:
fondazione della tesi dell'ottimismo. La terza via è data dalla ri­
presa della prova ontologica. Si riprende anche, infine, la tesi gio­
vanile affermante la possibilità di un « purificato panteismo»>
da cui restano salve la morale e la religione e che perciò si può di-
550 FILOSOFIA MODERNA

stinguere dal teismo solo sulla base di una speculazione sottile, sen­
za effetti sulla vita pratica.
Nella Causa di Dio, o la provvidenza salvata le tematiche delle
Ore mattutine sono sviluppate nella forma di una decisa riafferma­
zione di un Dio personale: di Dio vengono indagate onnipotenza e
bontà, nell'intento di dare una teodicea che culmina nella visione di
un Dio provvidente, e del regno di Dio « esteso su tutti gli esseri
dotati di ragione e capaci di felicità» (ibid., I, p. 502); e ciò in pro­
babile analogia con il modello di Leibniz, per il quale la visione ar­
monica per cui le cause efficienti convengono mirabilmente con le
finali si accompagnava all'armonia tra il regno della natura, di cui
Dio è architetto, e quello degli spiriti, di cui è monarca.
Questa decisa presa di posizione in favore del teismo è presen­
te ancora nell'opera maggiore che Mendelssohn, ebreo, dedicò alla
emancipazione culturale sociale e politica dei suoi correligionari,
la Gerusalemme. Posto che l'uomo giunge presto alla coscienza « che
egli, al di fuori della società, è incapace di adempiere ai suoi dove­
ri, sia verso se stesso e verso l'autore del suo essere, che verso
il suo prossimo» (ibid., I, p. 272), sono svolte in una prima parte,
su fondamenti etici e di filosofia del diritto, considerazioni generali
sui rapporti tra lo stato, - che nell'opera di governo ed educazione
dell'uomo nel vivere sociale ha ad oggetto i rapporti degli uomini
tra loro, e bada all'azione più che all'intenzione che la muove -,
e la comunità religiosa ( chiesa, sinagoga o moschea), che ha ad og­
getto i rapporti tra l'uomo e Dio e guarda precipuamente all'inten­
zione. Per questa via Mendelssohn giunge ad una ferma richiesta
di libertà di coscienza, poiché la comunità religiosa non ha potere
di costringere e non può far ricorso allo stato per questo fine, e d'al­
tra parte lo stato non è giudice in materia religiosa. A meno che
però non si tratti di dottrine capaci di colpire i fondamenti stessi,
etici e sociali, su cui lo stato si regge ( e qui tornano le tesi fonda­
mentali della visione teistica di Mendelsshon): esistenza di Dio,
provvidenza e vita futura. Dottrine che, nella seconda parte del­
l'opera, contenente una apologia della fede giudaica, sono viste co­
me i principì teoretici su cui quella si basa; esse non sono però
oggetto di una rivelazione particolare, rivolta al popolo ebraico, es­
sendo verità eterne, a cui si accede mediante l'uso della ragione, e
non verità storiche, non proponibili quindi come oggetto di fede;
agli ebrei non sono state rivelate verità eterne ( di cui la natura e la
ILLUMINISMO TEDESCO 551

ragione bastano a persuaderci), ma dei precetti, una legge, aventi


al più il fine di tener lontano da antropomorfismo e superstizione
quel puro teismo senza il quale non si può essere virtuosi né felici.

7. Psicologia, logica, ontologia. Lambert e Tetens

L'etica a cui la conoscenza tutta viene orientata è un'etica


eudemonistica, la quale in varie forme connette inscindibilmente la
virtù con la felicità e vede quella come mezzo indispensabile per
il raggiungimento di questa; il movimento pedagogico del filantropi­
smo, che ha a suo fondatore Basedow, si propone la formazione di
uomini capaci di operare per la felicità propria e di tutta la socie­
tà in cui vivono. E, nella scia di C. Thomasius, si desidera costrui­
re un'etica che si preoccupi non tanto di proporsi come scienza, di
dare i propri fondamenti e le proprie articolazioni teoriche, quanto
piuttosto di fornire indicazioni sulle vie dell'applicazione dei pre­
cetti morali: ed assumerà importanza la trattazione della dottrina
dei temperamenti, la classificazione degli affetti e delle passioni,
l'indicazione insomma del modo concreto in cui è possibile realizza­
re, in diverse circostanze, la vita etica. Anche per questa via si
raggiunge la psicologia, che della filosofia come scienza dell'uomo
arriva senz'altro a costituire l'elemento preponderante. Non è cer­
tamente la psicologia razionale, la psicologia « monadologica » che
ha ora incrementi e sviluppi, ma la psicologia empirica, che segue
il metodo dell'osservazione e per la quale ci si rifà largamente ad
autori francesi ed inglesi, Condillac e Bonnet, Lamettrie, Helvétius,
Hartley, Search, Priestley, il medico J. Brown.
Quanto a dottrine particolari, ricordiamo qui solamente come,
nella teoria delle facoltà, si tenda sempre più decisamente ad oppor­
re all'unica fondamentale facoltà rappresentativa di Wolff la volon­
tà, la facoltà di desiderare, mentre tra le due viene poi ad intro­
dursene una terza, il sentimento, una facoltà estimativa che non
dice più soltanto rappresentazione, ma non ancora volizione. Tema
assai dibattuto, anche in relazione poi alla pubblicazione avvenuta
nel 1765 dei Nuovi Saggi leibniziani e di un quesito posto dalla Acca­
demia di Berlino, fu quello dei rapporti tra pensare (denken) e sen­
tire (empfinden).
Tutte le costruzioni psicologiche che vengono fornite, e che
552 FILOSOFIA MODERNA

si presentano nelle forme più varie, dal materialismo dello Hissmann


allo spiritualismo di derivazione leibniziana, non rifuggono affatto,
nonostante la conclamata adesione al metodo dell'osservazione, dal
concludere con affermazioni di contenuto metafisico; e, ricche sempre
di tematiche fisiologiche e logiche oltreché propriamente psicologi­
che, culminano spesso in digressioni intorno a natura e immortalità
dell'anima. Del resto, in Meiners, ad esempio, la psicologia si di­
lata a tal punto, da coprire l'intero campo della filosofia, che è
da intendersi - abbiamo visto - come scienza dell'uomo: in
quanto studia l'uomo che ha certe sensazioni e certe idee mediante
certi organi, la psicologia ricomprende l'estetica (dottrina delle sen­
sazioni piacevoli), la filosofia pratica (dottrina della volontà e del­
le passioni), la metafisica (che si occupa dell'origine delle idee
universali).
Vale la pena di ricordare ancora, per la risonanza che ebbero,
i Frammenti fisiognomici (1775-78) di J. C. LAVATER (1741-1801),
che vanno inquadrati anch'essi in questa comune tendenza a cogliere
con ogni possibile strumento quell'oggetto principe della conoscen-
2a filosofica che è l'uomo. L'uomo - dice Lavater - non cono­
scerebbe nulla, se ovunque nella natura ogni forza non si rivelasse
in un'esteriorità percettibile: ma ciò è vero per l'uomo stesso, e la
fisiognomica è appunto « l'arte di conoscere l'interno dell'uomo me
&ante il suo esterno, di cogliere, per mezzo di certi indizi naturali,
ciò che non colpisce immediatamente i sensi »; è anzi la scienza
che ci fa conoscere il rapporto « della materia animata e percetti ·
bile col principio non percettibile che le dà vita, dell'effetto mani­
festo con la forza nascosta che la produce », ché tutto, nella natura,
è superficie e contenuto, corpo e anima, effetto esterno e facoltà
interna, principio invisibile e termine visibile.
Infine, in diversi autori, ad esempio in Feder e in Meiners,
la consapevolezza della grande diversità di forme e condizioni in
cui si manifesta la natura dell'uomo (negli aborigeni australiani o
nei fueghini, in Leibniz e in Newton), porta ad auspicare una psico­
logia, che, più che delineare la natura umana in un uomo-tipo, tenga
conto di tali differenze, ed abbia ad oggetto il diveniente indivi­
duo umano, nel progressivo sviluppo delle sue facoltà e delle sue
capacità; e si chiamano in causa le differenze di costituzione e di
clima, ma anche di temperamenti e di inclinazioni, e di costumi e
formazione intellettuale.
ILLUMINISMO TEDESCO 553

Quanto poco invece le ricerche di logica formale, a differenza


da quelle di psicologia, si conformassero al gusto della filosofia
popolare, si può vedere dal modo in cui Th. Abbt, nelle Lettere�
concernenti la più recente letteratura, conclude l'esposizione della
Methodus calculandi in logicis di G. Ploucquet: « avete qui, con
tutta la concisione e la chiarezza che mi sono state possibili, l'arido
estratto di un aridissimo scritto su una materia straordinariamente
arida» (Sammlung ... , p. 122). Né si può dire che il Settecento tede­
sco abbia prodotto molto in questo campo. Nonostante gli immani
sforzi compiuti da Leibniz per l'elaborazione di una mathesis uni­
versalis e di una ars characteristica (ma del resto la massima parte
dei suoi scritti sull'argomento era inedita), egli non ebbe alcun vero
continuatore in questi suoi desiderata. Tali non possono considerarsi
né i fratelli Jakob e Johann Bernoulli, che si propongono solo di
mostrare il parallelismo tra l'argomentazione logica e la algebrica,
giungendo a concludere che la prima non è altro che un caso par­
ticolare e semplice della seconda, né J. H. Tonnies, né infine J. A.
Segner e G. Ploucquet, che operano per una rigorizzazione e sem­
plificazione della sillogistica tradizionale.
La logica non costituisce l'interesse originario di GoTTFRIED
PLOUCQUET 18 (1716-1790). Formato alla tradizione wolffiana ad
opera di I. G. Canz, a Tubinga, egli dedica i suoi massimi sforzi ap­
punto ad una rielaborazione, in chiave occasionalistica, della metafi­
sica wolfE.ana, rispetto alla quale sono da notare la perdita, da parte
dell'ontologia, di una posizione autonoma, e il ruolo predominante
che viene ad assu:nere la teologia. Nel 17 4 7, rispondendo al quesito
posto dall'Accademia di Berlino, Ploucquet si fa sostenitore della
tesi della monadologia, che poi nel 175 3 dichiara di abbandonare,
congiuntamente con la connessa teoria del commercio tra le sostanze
come armonia prestabilita; ma il principio della monadologia non
sembra andar perduto, se egli vede l'essenza della sostanza nella
manifestatio sui ipsius; il principio di ogni esistenza è da ricercare

" PLOUCQUET Gottfried Stoccarda 1716 - Tubinga 1790. Studia allo Stift di Tu­
binga avendo a maestro I.' G. Canz. Precettore e poi pastore, dal 1750 a_l 1782 è
professore di logica e metafisica a Tubinga. Primaria monadologiae capita (Berlino 1748),
Principia de substantiis et de phaenomenis (Francoforte e Lipsia 1752), Sammlung_ df!f
Schriften, welche den logischen Calcul des Herrn Prof. Ploucquets betreffen, (L1ps1a
1766· rist. Stoccarda-Barl Cannstatt Frommann 1970), Institutiones philosophiae theo­
retic�e (Stoccarda 1772). Su P. dr. F. BARONE, Logica simbolica nell'illuminismo tede­
sco, «Filosofia» VII (1956), 87-128.
554 FILOSOFIA MODERNA

nell'essere a se, nell'essere che si manifesta cioè assolutamente,


l'essere le cui realtà intelligibili implicano l'esistenza necessa­
ria. Ploucquet accetta cioè l'argomento ontologico per la dimostra­
zione dell'esistenza di Dio, mentre respingerà - dopo averlo sotto­
posto a discussione - quello dell'Unico argomento kantiano. Sem­
pre a quella concezione della sostanza si ricollegano il suo antimate­
rialismo, e la sua difesa della libertà: si intende per materialismo
la dottrina affermante che alla materia può competere la vis perci­
piendi; ma ogni percipiente è necessariamente uno, la materia non è
una, e non può percepire. Se l'anima percepisce, agisce da un prin­
cipio unico, anche nella scelta tra vari oggetti che l'intelletto pro­
pone; di qui si arriva a dimostrare che son sempre possibili stati suc­
cessivi diversi a partire da uno stesso antecedente, e che l'anima è
libera. Il commercio tra le sostanze si spiega per il fatto che la loro
unione, effetto della efficace rappresentazione divina, è affine a quel­
la delle rappresentazioni in Dio come loro centro. Un tale modo di
spiegare il rapporto dei finiti tra loro e l'infinito, che rimanda
a Malebranche Spinoza e Leibniz, insieme con il modo sopra indicato
di superare il materialismo, e con il motivo anti-spinoziano per cui
una collezione di finiti non può dare l'infinito, sono forti richiami
a quel motivo organicistico, destinato a divenire centrale nella fi­
losofia idealistica e che è invece del tutto opposto al motivo indi­
vidualistico e associazionistico proprio soprattutto dell'illuminismo
francese e inglese e largamente diffuso anche in Germania nella se­
conda metà del secolo. Motivo organicistico che avevamo visto ro­
bustamente presente anche in Mendelssohn.
Nel campo della logica, l'intento di Ploucquet, è quello di si­
stematizzare la sillogistica. Per lui, « il calcolo preso in senso
generalissimo è il metodo di determinare ciò che è sconosciuto a
partire da ciò che è conosciuto, per mezzo di regole costanti »
(Sammlung, p. 31 ).
Ma egli nota subito che non si può dare un calcolo universale;
il calcolo infatti non crea il suo oggetto, ma lo presuppone: « in
conformità con le differenze tra gli oggetti, si dànno calcoli diver­
si... Cosl, i calcoli variano all'infinito, o almeno, quanto variano
i generi delle cose » (ibid., p. 31 ). Cade in tal modo il sogno della
caratteristica universale; chi infatti volesse ridurre sotto un unico
calcolo i principi sommi delle varie discipline, non avrebbe altro che
un settore dell'ontologia, in cui il calcolo non sarebbe di alcuna uti-
ILLUMINISMO TEDESCO 555

lità. Altrimenti, si dovrebbe avere una previa intima conoscenza di


tutte le cose: « ogni calcolo per natura e per ordine logico è poste­
riore all'intellezione della materia a cui il calcolo viene applicato. Se
quindi si volesse immaginare un calcolo universale, si supporrebbe
una conoscenza delle cose, che non si può supporre in nessun mor­
tale» (ibid., p. 36 ). Il calcolo che Ploucquet fornisce è un calcolo
logico, che si limita agli enti logici e si serve dei soli segni di iden­
tità e diversità; esso è capace di maneggiare i sillogismi e le loro
concatenazioni senza timore di errori diversi dalla sbadataggine. Ciò
che Ploucquet si propone, nel suo investigare e dimostrare i fon­
damenti su cui poggiano le argomentazioni, è di fare in modo che
le dimostrazioni sillogistiche, mediante uso di opportuni segni, sia­
no ricondotte ad una intuizione simultanea, sicché la dimostrazione
possa risolversi uno mentis obtutu; a un tal tipo di evidenza sareb­
be cosl ricondotta la necessità propria del procedimento argomen­
tativo. E così, definito il giudizio come l'atto in cui si paragonano
due nozioni, si dice essere l'affermazione « l'intellezione dell'iden­
tità del soggetto e del predicato» (ibid., p. 48), mentre la negazione
è l'intellezione della loro diversità; non si può dare un caso diverso
da questi. Cosl << il giudizio affermativo mente conceptum non è
l'intellezione di due cose, ma di una sola; e la proposizione afferma­
tiva non è altro che l'espressione della stessa cosa mediante segni
diversi» (ibid., p. 50). Se questo può riuscire strano, è perché il
linguaggio comune può trarre in inganno, e perché non si considera
anche la quantità del predicato (l'aver iniziato la quantificazione del
predicato è ascritto a merito di Ploucquet). E non solo poi il giudi­
zio affermativo, ma anche ogni sillogismo affermativo si riduce ad
una nozione. Giudizi e argomentazioni, per Ploucquet, non si origi­
nano per effetto dell'intelletto in quanto questo si rappresenta la
verità, ma dall'uso dei segni e della lingua; la differenza tra forma
logica e linguistica torna in discussione.

Le teorie logiche di Ploucquet sono occasione di discussioni e


polemiche alle quali prende parte anche Lambert, il cui primo inte­
resse fu appunto rivolto a questioni di logica.
Matematico, fisico e astronomo, JOHANN HEINRICH LAMBERT 19

" LAMTTERT Johann Heinrich, Miihlhausen (Alsazia, allo�a in Svizz�r�) 17?8 ·. �e--
, d1_ dod1c1 anm, d1v1ene
lino 1777. Di povera famiglia, costretto a lavorare fin dall eta
556 FILOSOFIA MODERNA

(1728-1777) dedica tutto il periodo della piena maturità a studi


di carattere scientifico; le sue opere :filosofiche si collocano tutte ne­
gli anni tra il 1761 e il 1764, ma sono preparate da una serie di ri­
cerche particolari. In una serie di saggi inediti, Lambert si propo­
neva di tentare, sotto il segno dell'ideale leibniziano di una mathe­
sis universalis e di una arte caratteristica combinatoria, la più ampia
applicazione possibile del calcolo in campo logico; e sono già pre­
senti in questi scritti motivi che determineranno l'indirizzo delle
sue meditazioni future, volte a indagare le condizioni della possibi­
lità di una conoscenza scientifica che non sia ristretta nei limiti della
matematica.
Quella affinità di interessi e di problematiche tra Lambert e
Kant, intorno alla quale spesso si è dibattuto, si rivela, già prima
di arrivare alle opere maggiori, nelle sue Lettere cosmologiche del
1761, confrontate con la kantiana Storia naturale universale e con
l'Unico argomento. Ma in realtà, anche se, nella sua seconda parte,
l'opera presenta una generalizzazione della legge della gravità dalla
Terra al sistema solare alle stelle fisse e quindi a tutto l'universo.
scopo esplicito di Lambert è quello di costruire non soltanto su fon­
damenti« meccanici», ma anche - e non c'è opposizione tra le due
vie - su fondamenti « cosmologici » e « teleologici»: la perfezio­
ne del mondo è « un effetto perdurante di tutte le perfezioni divine
prese insieme » (Kosmol. Briefe, p. 48 ). E questa impostazione me­
todologica attenta alle cause finali, sulle orme di Leibniz, e, più re­
centemente, di Maupertuis, deve rivelare la sua fecondità nello stes­
so momento della inventio e della fondazione scientifica; e ciò non

precettore in case private, ciò che gli dà la possibilità di continuare a studiare, soprat­
tutto geometria, astronomia e fisica pur essendo afflitto dalla mancanza di strumenti
appropriati. Per soddisfare i suoi interessi logici e metodologici, legge le opere di Locke
e di Wolff. Dal 1756 al 1758, compie con i suoi discepoli un lungo viaggio attraverso l'Olan­
da, la Germania, la Francia e l'Italia. Trasferitosi ad Augusta e quindi a Lipsia, diviene
nel 1765 membro dell'Accademia di Berlino. Tra le sue opere: Kosmologische Briefe
uber die Einrichtung des Weltbaues (Augusta 1761), Abhandlung vom Criterio veritatis
(scritto nel 1761, ed. K. BoPP, Berlino 1915), Ueber die Methode, die Metaphysik.
Theologie und Moral richtiger zu beweisen (scritto nel 1762, ed. K. BoPP, Berlino 1918),
Neues Organon (Lipsia 1764; trad. it. parziale Semeiotica e Fenomenologia, Bari 1974 ),
Anlage zur Architektonik (Riga 1771); importante la sua corrispondenza con Kant. Ri­
stampe ed edizioni delle opere in Gesammelte pbilosophische Werke, a cura di H.
W. ARNDT, Hildesheim Olms 1965 -. Su L. dr.: M. E. EISENRING, J.H.L.,
Zurigo 1942; F. BARONE, Logica simbolica nell'illuminismo tedesco, « Filosofia»,
VII (1956), 87-128; P. BERGER, ].H.L.s Bedeutung in den Naturwissenschaften des
XVIII Jahrhunderts, « Centaurus » VI (1959), 157-254; R. CIAFARDONE, Il problema
della « mathesis universalis» in L., « Il Pensiero», XVI (1971), 171-208; Io., J. H.
Lambert e la fondazione scientifica della filosofia, Urbino Argalia 1975.
ILLUMINISMO TEDESCO 557

solo sul piano dell'organizzazione biologica, ma su quella della stes­


sa fisica celeste. L'opera è tutta percorsa da preoccupazioni metodo­
logiche: soprattutto il monito ai filosofi che « dovrebbero ricercare
più che non la semplice possibilità» (ibid., p. 5), (di questa si ac­
contentano i poeti), e l'esortazione all'esame della maggiore o mi­
nore probabilità delle varie ipotesi; quindi, proprio la distinzione
tra la rigorosa dimostrazione e un tipo di argomentazione meno
stringente, come sono quelle tratte, nell'opera, dai fini della crea­
zione, e che, pur costantemente confermate dall'esperienza, non pos-­
seggono tuttavia rigore geometrico.
E proprio in questi anni Lambert si occupa di quei problemi
metodologici che porteranno alle opere maggiori. Del 1761 è il
Trattato sul criterio di verità. Se il criterio wolffiano - l'adozione
del metodo matematico - vale per i teoremi, per le verità derivate,
per quanto riguarda i principi ( definizioni, assiomi) siamo sempre
ad un criterio di tipo cartesiano. Ma il criterio cartesiano dell'evi­
denza è insufficiente: donde conosciamo che nulla di contradditto­
rio è in un concetto? Lambert pensa ad una estensione per analogia
del metodo wolffiano: il metodo matematico wolffiano porta a ri­
durre il problema del criterio di verità alla verità dei principi, poi­
ché ogni altra verità si deduce rigorosamente da quelli; ora, la va­
lidità e verità dei principi riposa su quella dei concetti. Si applichi
ai concetti quella stessa distinzione che si è rivelata fruttuosa, se
applicata alle proposizioni, in principi, teoremi, e verità sperimen­
tali: si hanno allora concetti fondamentali, concetti derivati e con­
cetti sperimentali, e il problema si riduce a quello dei concetti fon­
damentali (Grundbegriffe), su cui poggia tutto l'edificio del sapere.
Questi concetti sono essi stessi garanzia della propria verità, « sono
quelli, la cui possibilità e giustezza appare immediatamente, quan­
do vengono rappresentati», e tali « che, se qualcuno volesse negar­
li, negandoli li concederebbe »; e quegli stessi concetti sono perciò
anche quel fondamento che fa sì che « si possa dire non solo in
maniera condizionale: si dederis, omnia danda sunt, ma, in manie­
ra categorica: danda sunt quaedam, ergo omnia» (Abhandlung . .. ,
§ 90). È possibile per questa via una fondazione assoluta del sapere,
anche metafisico: Lambert rivolge a Wolff proprio la critica di non
aver costruito una metafisica a priori, ma di essersi fondato su con­
cetti di esperienza; Wolff troppo si affida alle definizioni, trovate
astraendo da più esempi singoli dati dall'esperienza, ma senza risa-
558 FILOSOFIA MODERNA

lire ai concetti fondamentali, e dimentica cosi una cosa che Euclide


sapeva invece assai bene, e cioè che « una definizione, prima di es­
ser provata, è una vuota ipotesi» (Theorie der Parallellinien § 6;
ed. F. Engel e P. Stockel, Lipsia 1895). A queste deficienze del me­
todo sono dovute le manchevolezze della metafisica; riportandola ai
concetti fondamentali e costruendo poi su questi i concetti deri­
vati, le si darà quella immutabilità che è propria della logica, e
una geometrica necessità. « Le verità metafisiche e logiche sono
altrettanto immutabili quanto le geometriche, e debbono poter
essere derivate, in pari modo, a priori» (Abhandlung... , § 77); ed
avendo pari necessità di quelle, hanno anche pari evidenza; e si
impongono anche a chi si pretende egoista (cioè solipsista) ché i
concetti fondamentali possono esser derivati dalla semplice consi­
derazione dei proprii pensieri, da parte di tutti. E tutto ciò valga
come risposta al quesito posto dall'Accademia.
Alla correzione lambertiana del metodo di Wolff si accompagna
il rifiuto del prindpio di ragion sufficiente nella sua validità univer­
sale. Nella sua Metafisica tedesca, Wolff avrebbe potuto assumerlo,
sulla base dei concetti fondamentali introdotti, solo nel senso pura­
mente formale di esigere prove per ogni asserto; in sede di teologia
naturale alla prova cosmologica vengono quindi preferite la prova
dalle verità eterne, e la prova ontologica.
Sulla linea degli scritti 1761-62 sono le opere maggiori di Lam­
bert. Il Nuovo organo ( 1764) si propone esplicitamente il comple­
tamento dell'opera di Aristotele e di Bacone. Ma gli autori ai quali
Lambert soprattutto si richiama, anche se certo non li segue supi­
namente, sono Wolff, per la prima parte dell'opera, la Dianoiolo­
gia, e Locke, integrato da Wolff, per la seconda, la Alethiologia.
La prima contiene la teoria delle leggi che l'intelletto segue nel pen­
sare; essa determina la via da seguirsi se si vuol progredire di veri­
tà in verità. Dopo aver esaminato concetti, giudizi e ragionamenti,
Lambert determina più da vicino il necessario ruolo della esperien­
za (esperienza come osservazione, esperimento) nella conoscenza,
per giungere infine alla contrapposizione di conoscenza comune, che
è sul piano descrittivo (historisch) e conoscenza scientifica, il cui
oggetto è una totalità, una rete di verità connesse necessariamente
tra loro, l'una data con l'altra, l'una reperibile a partire dall'altra:
la conoscenza scientifica deve servire a render superflue le esperien­
ze, e di conseguenza a pre-determinare ciò che prima doveva es-
ILLUMINISMO TEDESCO 559

sere esperito. Se la Dianoiologia indicava solo la forma conosc1t1-


va, il metodo per procedere di verità in verità, la Alethiologia deve
offrire la materia stessa della conoscenza: la verità, nei suoi carat­
teri distintivi dall'errore, deve potersi dare all'intelletto, perché
questo possa conoscere, e conoscere scientificamente; ci si assicuri
di ciò da cui si prendono le mosse, e in tal modo quella via, che di
per sé potrebbe condurre di errore in errore, sarà la via della verità.
E si tratta qui naturalmente dei concetti semplici, e dei principi
e dei concetti composti da quelli derivanti. Ci si potrebbe fermare
qui, se l'intelletto non fosse costretto ad esprimere concetti per
mezzo di parole e di segni, e non dovesse distinguere la verità, come
dall'errore, così dall'apparenza: ecco allora la necessità di altre due
scienze, la Semiotica (per la quale Lambert si richiama ancora a
Wolff) e la Fenomenologia (che deve indagare il rapporto tra ciò
che le cose sembrano essere, e ciò che esse sono indipendentemente
dalla nostra percezione).
Nello stesso anno 1764 Lambert scrive la Architettonica (pub­
blicata poi a Riga nel 1772 ). Se il Nuovo Organo era da considerar­
si sulla scia dei manuali di logica, la Architettonica vale invece co­
me un manuale di metafisica, anzi di ontologia; e la sua stesura si
accompagna - afferma Lambert - ad una sua sempre più accen­
tuata insoddisfazione per il manuale di Baumgarten, che pur egli a­
veva utilizzato ed il cui massimo difetto vede ora nel fatto che que­
gli definisce vocaboli più che concetti, e tace in ogni caso il modo in
cui si perviene ai concetti stessi. Dalla Metafisica baumgarteniana è
tratto il titolo dell'opera; « architettonica » è infatti in Baumgarten
sinonimo di ontologia, « scienza dei predicati generali degli enti »;
essa rimanda in Lambert ai fondamenti primi, al materiale primo
della nostra conoscenza, a partire dal quale ci si propone di costrui­
re un tutto organico. E difatti si vogliono stabilire proprio i primi e
più semplici concetti, senza i quali i nodi della metafisica non si la­
sciano sciogliere: e vien ripreso all'inizio dell'opera il concetto di
una scienza fondamentale ( Grundlehre), di una ontologia, e dei suoi
requisiti. L'esecuzione del piano ha uno sviluppo molto più ampio
di quello dell'Alethiologia: dopo una prima parte, in cui sono dati i
concetti semplici (estensione, solidità, esistenza, moto, durata, uni­
tà, coscienza, forza, volontà ecc.), ed esaminati i loro rapporti e i
principi che ne discendono, si passa ad una seconda parte in cui
si tratta di ciò che vi è di « ideale » nella Grundlehre, che riguarda
560 FILOSOFIA MODERNA

cioè più il nostro modo di rappresentarci le cose che non le cose


stesse, anche se di questo elemento « ideale » si indaga sempre in
relazione alle cose stesse. La nostra conoscenza è infatti tale che,
senza istituire rapporti, si resterebbe ad un seguito o ammasso di
rappresentazioni isolate in cui non c'è alcun ordine e alcuna connes­
sione. Nella considerazione delle cose secondo la loro uguaglianza o
diversità si tratta dell'universale e del particolare, del mutevole e
dell'immutabile, per passare ai rapporti di esclusione, inerzia, su­
bordinazione e cosi via, sino al concetto di perfezione. Ma, affinché
non sembri che quelle rappresentazioni di rapporti siano un puro
sogno, si rende necessario ricorrere, attraverso i concetti di solido
(la materia in quanto occupa spazio, il reale qualche cosa) e di for­
za, alla fondazione di questi rapporti che è nelle cose stesse; e ciò
costituisce l'oggetto proprio della terza parte, dedicata all'elemento
« reale » di questa Grundlehre. Una quarta parte, dedicata al pen­
sabile in relazione alla grandezza, mentre fin qui si è trattato delle
qualità (Beschaffenheiten), si occupa dei concetti che sono a fonda­
mento di una mathesis universale, dell'organon quantorum. La con­
siderazione delle tematiche ruotanti attorno al concetto di verità
metafisica mostra insieme la prossimità di Lambert al Kant del
1762-64, e la sua distanza dal punto di vista critico. Egli distingue
tre sensi di « possibile »; il possibile dal punto di vista puramente
« simbolico », il dicibile ma non pensabile, si estende anche ad
oggetti impossibili, contraddittod; il possibile-pensabile, il vero
dal punto di vista logico, è ciò che è conforme al principio di non
contraddizione; positivamente possibile è il possibile che può esi­
stere. Il logicamente vero, e il possibile-pensabile coincidono; per
ché il non contraddittorio rappresenti davvero qualcosa ( verità me­
tafisica), e non solo qualcosa possibile soltanto in riferimento alle
forze dell'intelletto, deve aggiungersi il poter esistere; a ciò sono ne­
cessari il solido e la forza, fondamenti della verità metafisica. E
poiché ogni pensabile deve poter esistere, la possibilità positiva
emanante dalle forze e le forze stesse devono estendersi a tut­
to il non contraddittorio. « Con ciò queste forze vengono assun­
te come pre-esistenti a tutto ciò che esiste. Altrimenti, anche
tutto ciò che per questa via potrebbe esser portato all'attualità
resterebbe nel nulla, per quanto esso possa esser pensabile. E
in generale, se nulla esiste, nulla può esistere... » (Architettoni­
ca, § 297). La possibilità logica non è dunque nulla senza la pos
ILLUMINISMO TEDESCO 561

sibilità metafisica, se non esiste un essere che pensi attualmente


il pensabile. « Senza la verità metafisica, che è nelle cose stesse,
il regno della verità logica sarebbe un vuoto sogno, e senza un
Suppositum intelligens esistente non sarebbe neppure un sogno,
ma sarebbe assolutamente nulla» (ibid., § 299). L'affermazione poi
che le sole forze del moto non sono sufficienti a spiegare l'origi­
narsi dei mondi, e che bisogna fare appello alle forze dell'intelletto
e della volontà, ci rimanda ai principi teleologici delle Lettere co­
smologiche. Se infatti dal poter esistere si vuol passare all'esistere
effettuale, si deve far ricorso alla volontà; e sapere, potere, volere ,_
rimandano come a loro principio ad una sostanza che pensi, possa,
voglia, unica e prima fonte della verità logica, metafisica, morale,.
e del possibile, del reale e dell'effettuale.

Affine alla problematica di Lambert è quella di JoHANN Nrco­


LAUS TETENS 20 ( 1736-1807 ). Anche per lui le figure di Euclide e
di Leibniz valgono come modelli; e, se il metodo geometrico con­
siste nel fare l'inventario dei concetti fondamentali, determinarli
con precisione, passare quindi ai primi e semplici principi ed appli­
carli con il rigore proprio dei geometri, allora, secondo Tetens, in
Lambert tutto ciò è compiuto; inoltre, Lambert offre frequenti e­
sempi del modo in cui è possibile determinare contenuto ed estensio­
ne dei concetti « trascendenti». Ma, anteriori al periodo di intensa
attività filosofica negli anni 1772-76, ed alle opere maggiori, abbia­
mo una serie di brevi opere che affrontano, accanto a temi antropo­
logico-fìlosofìci, metafisici e di teologia naturale, il problema del lin­
guaggio e della sua origine; problema che viene ormai affrontato
da più autori e che costituisce l'oggetto di un concorso proposto

20 TETENS Johann Nikolaus, Tetenbiill (Schleswig) 1736 - Kopenhagen 1807.


Studiò a Rostock e Kopenhagen. Nel 1763 professore all'università di Biitzow, daI
1776 insegnò a Kiel filosofia e matematica. Nel 1786 abbandonò l'insegnamento, per
occupare alte cariche amministrative a Kopenhagen. Tra le opere: Ueber den Ursprung
der Spracben und der Scbrift (Biitzow 1772; nuova ed. in Spracbphilosophiscbe Versucbe,
Amburgo Meiner 1971), Ueber die allgemeine spekulativiscbe Pbilosopbie (Biitzow e
Weismar 1775; nuova ed. a cura di W. UEBELF:, Berlino 1913; citiamo da questa edi­
zione), Philosophiscbe Versucbe iiber die menscbliche Natur und ihre Entwicklung
(Lipsia 1776-1777; nuova ed. a cura di W. UEBELE, Berlino 1913; citiamo da questa
edizione), Ueber die Rt:alitiit unseres Begriffs von der Gottheit ( « Beitrage zur Beforde­
rung theologischer und anderer wichtiger Kenntnisse » ed. J. A. CRAMER, Kiel e Am­
burgo, 1778 pp. 137-204 e 1783 pp. 3-26). Su T. cfr.: W. UEBELE, ].N.T. nacb seiner
Gesamtentwicklung, Berlino 1912; A. SEIDEL, T.s Einfluss auf die Kritiscbe Philosophie
Kants, Wiirzburg 1932.
562 FILOSOFIA MODERNA

dall'Accademia. Le ricerche etimologiche, per le quali si riallaccia


a Leibniz ed Eccard, e quelle intorno all'origine della lingua, ricol­
legantesi a Condillac, Maupertuis e Siissmilch, confluiranno nell'o­
pera del 1772. La indagine etimologica, che si colloca sul piano
del probabile e non di ciò che si lascia dimostrare geometricamente,
richiede essa pure una logica, che le impedisca di perdersi nel pullu­
lare di connessioni arbitrarie; e tale indagine è necessaria, ché l'eti­
mologia è di uso preziosissimo non solo per la storia ( origine e pa­
rentele dei popoli, modo in cui si originarono nuove conoscenze ed
invenzioni) ma anche per la filosofia; essa costituirebbe il luogo in
cui si dibattono tutte le dispute sui nomi, liberandone in tal modo
la « :filosofia degli oggetti » che ne è travagliata, e ciò mediante una
precisa delimitazione del linguaggio comune da quello filosofico.
Lo studio dell'etimologia può portare luce sull'origine delle lin­
gue: ma - e ciò in connessione con la teoria dell'origine divina del
linguaggio - in che rapporto sta la lingua, al suo primo apparire,
con la natura razionale dell'uomo, e la società umana? La domanda
a cui bisogna rispondere - se l'uomo dotato delle sole capacità na­
turali innate possa sviluppare la sua conoscenza superiore e quindi
inventare una lingua, oppure inventare una lingua senza l'uso della
ragione, e poi giungere alla ragione stessa, o procurarsele entrambe
nello stesso momento - quella domanda richiede una indagine pre­
liminare intorno alla natura dell'uomo. Tetens nega una qualsiasi
possibile ipostatizzazione della natura umana, che mai e in nessun
luogo è stata, mai ha agito da sé, senza esser modificata dal concor­
so di circostanze diverse; rifiuta anche l'ipotesi di Helvétius, se­
condo la quale tutte le anime umane che compaiono al mondo sono
perfettamente uguali, e sono diversamente modellate dalle circo­
stanze. È vero invece che ogni uomo è un essere unico, con una
tendenza allo sviluppo che gli è propria, anche se conviene con gli
altri in una comune essenza. Si possono quindi indicare alcune sue
capacità, la cui individuazione varrà poi anche per le opere mag­
giori: non sono da considerarsi come le prime fondamentali detet•
minazioni della natura, o dell'anima umana, quanto piuttosto le
prime e universali attività: e sono gli istinti corporei meccanici,
sensibilità e irritabilità, sentimento della propria interna attività,
facoltà imitativa e immaginativa; infine, la ragione. Su questa base,
Tetens giungerà alla conclusione che l'uomo con le sue facoltà natu­
rali può certo foggiarsi una lingua, ma che non necessariamente, ab-
ILLUMINISMO TEDESCO 563

bandonato a sé, deve trovarla, quali che siano le circostanze in cui


si trova: circostanza indispensabile perché la lingua possa sorgere
è che l'uomo viva in comunità.
Le pagine che dibattono il problema del sorgere della ragione
e della lingua preludono già alle analisi dell'opera maggiore; ma,
al fine di inquadrare bene quest'ultima, è indispensabile esaminare
il saggio del 177 5, Sull'universale filosofia speculativa. Si tratta di
una presa di posizione, da parte di Tetens, su quelle che sono lo
stato e le necessità del pensiero :filosofico dell'epoca: accanto alla
:filosofia « osservatrice » britannica e alla francese :filosofia « ragio­
natrice », lo spirito della speculazione sembra essersi rifugiato pres­
so il popolo tedesco. La :filosofia del senso comune, che pure pre­
tende di occuparsi dei sommi problemi, può attingere il vero solo
per caso, e non può giustificare questo suo non sicuro possesso: ec­
co allora la necessità di una scienza fondamentale ( Grundlehre, On­
tologie, allgemeine transcendente Philosophie ). Osservazione e ra
gionamento sono sufficienti infatti là dove gli oggetti si offrono ai
sensi; ma laddove essi sfuggono all'esperienza, se si vuol ottenere
l'evidenza, si richiede la speculazione, si richiede quella scienza
fondamentale eh�, trascendendo le cose materiali come le immate­
riali, non si occupa di cose realmente esistenti, ma ha per oggetto
« ciò che è possibile o necessario in ogni specie di cose in generale »
(Ueber die allgemeine ... , p. 18).
L'esigenza di Tetens è dunque quella di una ontologia, sulla
scia della tradizione wolffiana; ma il problema grosso, il nucleo
della questione è stato lasciato del tutto da parte da Leibniz e da
Wolff, e non compiutamente trattato da Lambert: si tratta del pro­
blema della « realizzazione » dei concetti e principi fondamentali di
questa scienza, affinché si possano avere una ontologia « reale » e
una metafisica « reale », applicando un procedimento argomentati­
vo rigoroso al pari di quello matematico. Non è sufficiente cioè che
i concetti siano Jeterminati con precisione e distintamente analiz­
zati, bisogna anche assicurarsi che non siano vuote parole, che
corrisponda ad essi la cosa, fuori dell'intelletto.
Questo è il problema centrale del saggio. Certo, le cose fuori
di noi sono inattingibili, e ogni ricerca intorno ad oggetti è una
ricerca intorno alle idee chiare che ne abbiamo, mentre« soggettiva »
è l'osservazione di serie di idee viste come una scena in noi, e non
come una serie di cose fuori di noi; ma resta il problema del crite-
564 FILOSOFIA MODERNA

rio di distinzione tra le rappresentazioni reali, e quelle che son


puri fenomeni. Per questa via, si giunge ad affermare che la :filoso­
fia trascendente deve iniziare come una :filosofia osservatrice del­
l'intelletto umano e dei suoi modi di pensare, per poter distinguere
le nozioni veramente universali da quelle che sono prodotto della
nostra facoltà immaginativa, per realizzare i concetti, ed arrivare
ad essere quella universale scienza razionale degli oggetti al di fuo­
ri dell'intelletto, che si desidera avere.
Sul piano della :filosofi.a osservatrice si muovono appunto i Sag­
gi filosofici; questo metodo, che è il metodo della scienza natura­
le, è l'unico che possa portarci alla conoscenza della natura della
nostra anima, come del soggetto degli effetti osservati. Viene ri­
fiutato invece il metodo analitico (o antropologico) di materialisti
e psicologi meccanicisti, i quali, anziché partire dall'osservazione,
costruiscono su ipotesi « meta.fisiche intorno alla natura dell'ani­
ma »: e si ricordano Hartley, Priestley, Bonnet, col quale ultimo in
particolare Tetens conduce un serrato confronto in tutta l'opera. Si
devono invece « prendere le modificazioni dell'anima cosi, come so­
no conosciute con il sentimento di sé; .fissarle, accuratamente ripe­
tute e in circostanze diverse, osservare il modo del loro originarsi e
le leggi con cui agiscono le forze che le producono; quindi confron­
tare le osservazioni, analizzarle, e di qui investigare l'una accanto
all'altra le facoltà e i modi d'azione più semplici, e le relazioni
che hanno tra loro » (Phil. Versuche, p. III-IV).
Sul piano della concreta analisi dei processi conoscitivi e psi­
cologici, invece, il termine di riferimento polemico più costan­
te, per Tetens, è costituito, allo stesso tempo, da Hume e dalla
scuola scozzese del senso comune. Alla scepsi humiana non sono in­
fatti in grado di opporsi con efficacia le assunzioni della metafisica
del sano intelletto comune; a ciò si richiede la .filosofia speculati­
va. Si tratta di spiegare come il pensiero (Denkkra/t), che non si
riduce alla raccolta delle esperienze ed alla elaborazione, a partire
dalle sensazioni, delle prime idee sensibili, possa elevarsi alla
speculazione; se pure la desiderata scienza fondamentale è ancora
sub iudice, la geometria, l'ottica, l'astronomia offrono tuttavia
testimonianza sufficiente della capacità del pensiero di elevarsi a re­
gioni superiori di conoscenza.
Il pensiero è infatti attivo in ogni conoscenza, nella sensibi­
le come nella razionale: esso solo può infatti distinguere, prender
ILLUMINISMO TEDESCO 565

coscienza, collegare; ma è meno attivo nella prima, più nella secon­


da. E cioè, la differenza tra i giudizi sensibili e i razionali di­
pende innanzitutto dalla presenza, in quelli, di rappresentazioni
sensibili, e, in questi, di rappresentazioni universali; inoltre, men­
tre in quelli il pensiero opera secondo leggi a cui non è necessa­
riamente legato (le leggi della associazione delle idee), in que­
sti segue invece leggi universali: i principi della ragione non sono
giudizi universali d'esperienza. Qual è però il fondamento della nep
cessità di tali principì? Alla soluzione del problema della loro
necessità oggettiva viene premesso quello della necessità soggetti­
va dei giudizi. Ma si deve accuratamente distinguere, nell'ambito
di questa necessità soggettiva, la necessità che deriva dalle leg­
gi universali e necessarie del pensiero, da quella che deriva dalle
leggi dell'associazione. Riportiamo infatti la necessità oggettiva
a quella soggettiva di pensare secondo leggi universali dell'in­
telletto; se ci interroghiamo intorno alla oggettività o meno del­
la verità, ci domandiamo in effetti se i rapporti tra le idee sia­
no gli stessi rapporti che intercorrono tra gli oggetti; e « para­
gonare gli oggetti con le idee, significa nient'altro che parago­
nare rappresentazioni con rappresentazioni » (ibid., p. 521 ). Poi­
ché « pensare significa cogliere i rapporti tra le rappresentazioni,
e solo in questo può darsi verità o errore» (ibid. ), il problema è
se questi rapporti siano solo soggettivi. Ma porsi questo problema
equivale a chiedersi se essi sono o meno gli stessi che ogni essere
dotato di ragione trova pensando quegli oggetti. E poiché non ab­
biamo alcun concetto di un intelletto che abbia leggi diverse da
quelle del nostro intelletto, si può ben concludere che si dà un im­
mutabilmente e necessariamente soggettivo, accanto ad un mute­
volmente soggettivo: ossia che si distingue ciò che dipende da una
contingente situazione dei nostri organi da ciò che, in qualsiasi mo­
do quegli strumenti possano essere modificati, dipende da noi in
quanto esseri pensanti. Da ciò si arriva alla conclusione che le leggi
della ragione « sono verità oggettive [ cioè universali e necessarie],
e che lo siano è altrettanto certo, quanto il fatto che esse siano delle
verità» (ibid., p. 533). Sarà in tal modo fondata, con quella di
« teorie universali », la possibilità della scienza, che è data appunto
dall'applicazione di « teorie universali » alle rappresentazioni di og­
getti reali, osservati in sé e nei loro effetti. Altro è il problema, che
pure viene affrontato e risolto, se tutte le nostre conoscenze sensi-
566 FILOSOFIA MODERNA

bili non possano clare altro che una pur permanente parvenza delle
cose realmente esistenti.
I problemi fin qui esaminati formano l'oggetto del sesto, set­
timo ed ottavo saggio; i cinque precedenti, che analizzano le diver­
se facoltà conoscitive dell'uomo, ne costituiscono il necessario
presupposto. Poggiando su una concezione dell'anima come essere
spiritualmente attivo, concetto di preswnibile derivazione leibni­
ziana, e che trova pronta applicazione in una critica all'esclusivi­
smo delle dottrine psicologiche associazionistiche, Tetens esamina
successivamente l'attività rappresentativa (nelle sue specificazio­
ni della percezione, fantasia e capacità immaginativa - Dichtkraft),
il sentimento, il prender coscienza (gewahrnehmen), che introduce
già all'indagine intorno al pensiero. Pensare è « la conoscenza dei
rapporti e relazioni delle cose in generale» (ibid., p. 299); il pen­
siero, sviluppato, è intelletto e ragione. L'origine dei concetti di re­
lazione è nel pensiero: le idee distinte che ne abbiamo si originano
per astrazione operata su quegli atti del pensiero, che appunto ope­
rano la sintesi di rappresentazioni. Costituisce l'oggetto di trattazio­
ni critiche particolarmente accurate la soluzione humiana dei pro­
blemi della relazione causale e dell'esistenza del mondo esterno.
Sentimento, rappresentazione, pensiero costituiscono quindi le
tre forme semplici dell'attività conoscitiva dell'anima, attive tut­
te, seppure in forma e misura diversa, in ogni atto di conoscenza, e
dotate tutte di un alto grado di perfettibilità; che potrebbe anche
non dar luogo a sviluppi, anche se non è da concludere da ciò che
quelle facoltà non sono presenti. Dei tre principii Tetens studia
la possibile risoluzione in un'unica originaria attività (saggio no­
no); ma la psicologia di tradizione leibniziana-wolffiana, che in­
dica nella forza rappresentativa la natura dell'anima, è oggetto di
critica. La volontà non si può in alcun modo spiegare riconducendo­
la all'attività rappresentativa, ma è un'attività originaria, al pa­
ri di quella. Ricondotti il rappresentare e il pensare sotto la co­
mune denominazione di intelletto, abbiamo cosi la nota teoria delle
tre facoltà: sentimento, intelletto e volontà. Una analisi dei rap­
porti tra le tre facoltà porta a delineare per sommi capi una tipo­
logia dei caratteri; e poi, avvia alla ricerca del carattere fonda­
mentale dell'uomo, che sta nel possedere un'anima dotata di un alto
grado di modificabilità e di perfettibilità mediante una spontanea
'
. . '
att1v1ta.
ILLUMINISMO TEDESCO 567

Già nel 1775 Tetens aveva criticato Hume in riferimento al te­


ma della realizzazione dei concetti: vi ritorna più ampiamente nel
1782-83, in un contesto di teologia naturale. Egli conduce accura­
te analisi sul co,cetto di ente infinito, al fine di mostrare come
non sia un concetto immaginario; dimostrare questo, infatti, è indi­
spensabile perché sia pienamente valido l'argomento ontologico.

8. La storia, la religione. G. E. Lessing

Si viene affermando, in questo periodo, l'importanza delle di­


scipline storiche e filologiche, secondo quella che era stata del re­
sto, all'inizio del secolo, una suggestione thomasiana; esse sono
viste infatti - non ci occupiamo qui degli specifici campi di inda­
gine - come importanti discipline ausiliarie della filosofia. Si
tratta di campi - quelli della storia della filosofia, dell'esegesi,
delle ricerche linguistiche, della << storia dell'umanità» - che ven­
gono sempre più frequentati dagli studiosi. Uno dei centri maggiori
in cui sono coltivate le discipline storico-filologiche - e il loro
studio spesso si accompagna all'assunzione di posizioni vagamente
scettiche -, è l'università di Gottinga. In particolare viene colti­
vato qui, con Feder e Meiners, quel tipo di ricerca che va sotto il
nome di storia dell'umanità: « storia, biografie, descrizioni di viag­
gi e di popoli sono ancora quindi il fondamento di una solida, utile
filosofia» (J. G. H. FEDER, Untersuchungen... , p. 16), ché l'analisi di
molti e diversi casi è indispensabile per la formazione di quei giudizi
fondati su analogia e verosimiglianza, mediante i quali solamente la
filosofia può presumere di raggiungere una immagine il più possibile
esatta della natura dell'uomo. Si vede quindi come per « storia del­
l'umanità» non si intenda tanto - o non solo - lo sviluppo,
storico appunto, delle vicende umane, ma la cognizione, storica
e non filosofica, basata cioè sull'esperienza e non sulla ragione che
va al fondamento, delle varie forme in cui l'uomo foggia sé e il suo
mondo. Ed è in questa duplice direzione che si muove, ad esempio,
il Gottingisches historisches Magazin, edito da C. Meiners e L. T.
Spittler dal 1787. Se per storia e per conoscenza storica si con­
tinua ad intendere una conoscenza di fatti opposta alla conoscenza
della « ragione », in questo stesso periodo tuttavia quel concetto
dello sviluppo ordinato e progressivo, comandato da un unico prin-
568 FILOSOFIA MODERNA

cipio, che era essenziale alla concezione leibniziana della monade,


comincia ad esser ripreso, nella generale rinascita leibniziana di que­
sti anni, e ad essere applicato non più soltanto all'individuo, ma al­
la umanità intera solidalmente considerata: come si rivela chiara­
mente in Lessing.
Ma già lsAAK lsELIN (1728-1782) presenta una storia dell'uma­
nità, che la considera in uno sviluppo progressivo, :finalisticamente
ordinato, a criterio del quale viene assunta la ragione e il suo gra­
duale rischiaramento. Nelle sue Congetture filosofiche sulla storia
dell'umanità (1764) egli afferma come anche questa disciplina, indi­
spensabile per la conoscenza dell'uomo, sia necessariamente da
congiungersi con la filosofia, alla quale fornisce la base per la mora­
le e per la legislazione. Non è assente un atteggiamento polemico·
nei confronti della psicologia, poco attenta all'uomo concreto e po­
co propensa al metodo dell'osservazione: « quale profonda diffe­
renza si dà tra l'uomo del filosofo e l'uomo della storia! Come è
semplice il primo nella massima parte dei sistemi psicologici! Ed in
quali infinitamente diverse forme non si mostra invece il secondo al­
l'attento osservatore! » (Geschichte der Menschheit, Francoforte e
Lipsia 1764, Zuschrift, s.p.). Un primo dubbio intorno alla validità
universale della « natura umana » quale questa appare alla con­
sueta psicologia, può leggersi nell'affermazione che questa stu­
dia l'uomo solo come la filosofia lo trova presso i popoli civi­
lizzati. Un primo libro è appunto dedicato alla considerazione
psicologica dell'uomo, dalla quale emerge come egli abbia dal­
la natura una tendenza alla perfezione. Seguono altri libri, de­
dicati a tratteggiare la progressiva Aufklarung dell'uomo, dal­
lo stato di natura, dei semplici costumi (ma il darsi storico di
questo stato non è verificato, esso è frutto di ipotesi filosofi­
che), allo stato di rozzezza e barbarie caratterizzato dall'assen­
za delle tendenze sociali e di sentimenti elevati, dallo scarso svi­
luppo dei concetti; ed è questo stato di confusione e di sepa­
razione che è dato osservare ovunque come punto di partenza dal
quale si procede allo stato civile, in cui si diffondono nella so­
cietà l'ordine e l'amore. Iselin tratta di questo stato presso i po­
poli orientali, quindi in Grecia e poi nell'Europa contemporanea;
nella quale è dato, è vero, osservare notevoli progressi, ma i van­
taggi dello stato civile non sono affatto cosl universalmente diffusi
come ci si potrebbe ottimisticamente aspettare, non tra la gente co-
ILLUMINISMO TEDESCO 569

mune come tra i nobili i potenti i dotti. Emerge qui il tema della
incidenza e diffusione nella società della Aufklarung, che lo stato
delle scienze e l'attuale patrimonio del sapere pure renderebbe pos­
sibile. Deve essere senz'altro valutato positivamente, invece, il fat­
to che « la filosofia assume una forma più umana. Essa si lascia trar­
re di nuovo, secondo lo spirito socratico, dal cielo in terra. Da un
pantano che era, la metafisica torna ad essere di nuovo la pura sor­
gente delle più nobili verità morali ... L'uomo, anche il più umile,
riacquista con ciò nuovamente il suo valore morale ed economico,
che per tanti secoli era stato misconosciuto» (ibid., p. 288). Torna­
no qui in luce tratti caratteristici della filosofia popolare, che ormai
più volte abbiamo ricordato. È interessante notare infine come la re­
ligione, considerata e valutata prevalentemente in base al suo con­
tenuto morale ed al contributo che può portare alla purezza dei co­
stumi e alla felicità dell'uomo, sia vista poi anche come ciò che,
nella debolezza dellt costituzioni civili, è capace di dare ad un po­
polo il senso di sé e della propria identità.

Nel campo della teologia e della valutazione del fenomeno re­


ligioso, in questo periodo i contributi sono numerosi, e le dispute
vivaci; abbiamo già detto del pietismo e dei suoi rapporti col na­
scente movimento illuministico. Il pietismo, come la teologia che
si ispira a Wolff, condividono decisamente il punto di vista, già
scolastico e poi leibniziano, della armonia tra ragione e rivelazione:
questo è il saldo punto di partenza a cui sono ancorate le loro
ricerche. Si dànno delle verità ed una dimensione di vita che l'uomo
e la ragione umana, abbandonati a sé, non possono attingere. e che
sono oggetto ed opera della fede, ma che non contrastano, anzi per­
fezionano, la ragione umana e tutte le potenze dell'uomo: il pietismo
accentuerà poi maggiormente l'aspetto esistenziale e morale, il wolf­
:fismo la dimensione conoscitiva. Poiché la teologia - afferma Wolff
- trae i suoi principi dalla Sacra Scrittura, si deve mostrare in pri­
mo luogo quale sia l'uso del metodo dimostrativo nello spiegare il
senso delle espressioni della Scrittura; e poiché quel metodo esige
definizioni accurate e proposizioni determinate, per poter passare
ad esatte dimostrazioni e legare tutto con legittimo ordine, è necessa­
rio che le parole della Scrittura siano riportate a nozioni distinte
e a proposizioni ben determinate, che rendano esattamente ciò che
vollero intendere gli autori sacri e che possano costituire i principi
570 FILOSOFIA MODERNA

di una costruzione sistematica avente carattere di scienza. Inoltre,


si ricordi ancora come per Wolff un tale metodo scientifico di inter­
pretazione della Scrittura renda possibile aprire un discorso sui cri­
teri infallibili per riconoscere una rivelazione immediata; e in tal
modo si ricollega alla sua via apologetica, al suo modo di mostrare
la verità della religione cristiana. Egli fa ricorso infatti, in fun­
zione antideistica, alla prova razionale della necessità di una ri­
velazione, e in particolare di quella cristiana. I. G. Canz e G. B. Bil­
fìnger, che insegnano entrambi a Tubinga, mettono in luce la conve­
nienza della filosofia wolffiana con la teologia rivelata, e l'uso che
questa può farne per darsi un assetto scientifico. Alla matrice con­
cettuale della metafisica wolffiana si richiama anche J. L. Schmidt,
che pubblica anonima nel 17 35 una traduzione del Pentateuco, ac­
compagnata da numerose note (la famosa « Bibbia di Wertheim » ).
L'opera suscita violente reazioni per il suo atteggiamento razionali­
stico; ma, più che a Wolff, le suggestioni in questa direzione vanno
fatte risalire a Spinoza e a J. Le Clerc. Lo stesso Schmidt tradurrà
poi in tedesco l'Etica spinoziana, e Tindal.
Quello stesso presupposto dell'armonia della ragione con la
fede viene condiviso dal movimento dei cosiddetti « neologi », i
quali però, pur accogliendo il concetto di rivelazione divina e la tesi
della sua necessità, tendono tuttavia a fare della rivelazione stes­
sa un supporto della ragione, ed a risolverne pienamente il contenu­
to nelle verità a cui quella stessa ragione può giungere. Strumenti
idonei a questa operazione si rivelano la critica biblica e l'ese­
gesi (si ricordi J. D. Michaelis), come pure l'ipotesi dell'accomoda­
zione, secondo la quale negli insegnamenti di Cristo e degli apostoli
è da distinguere un momento di verità, valido sovratemporalmente,
e che esprime le eterne verità di ragione, da una forma esterna che è
dovuta soltanto alla necessità e all'intenzione di farsi intendere dagli
ascoltatori, nel particolare ambiente storico e culturale nel quale
operarono ed insegnarono. Per questa via, molte delle dottrine cen­
trali del Cristianesimo vengono poste in discussione: dalle dispute
intorno alla beatitudine dei pagani e all'eternità delle pene si passa
alla negazione del peccato originale, a mettere in dubbio il concet­
to della soddisfazione operata da Cristo, a togliere la distinzione
tra natura e grazia. La Nuova apologia di Socrate di J. A. Eberhard
è di centrale importanza in queste polemiche. Inoltre, resta aperta
la via alla posizione razionalistica, che lascia definitivamente ca-
ILLUMINJ.SMO TEDESCO 571

dere il concetto di rivelazione ed in Cristo non vede altro che un


uomo eccezionale (il paragone ed il rapporto con Socrate torna fre­
quentemente), predicatore di una religione che consiste nel richia­
mare ad un culto reso a Dio mediante una condotta di vita virtuosa,
e che è poi null'altro che la morale pura alla quale la ragione illu­
minata del XVIII secolo ha saputo elevarsi.
Si possono ricordare KARL FRIEDRICH BAHRDT (1741-1792),
che nega ogni rivelazione, e per il quale Cristo è venuto a fondare
una nuova società religiosa, nella quale dalla virtù ci si devono at­
tendere premi destinati a durare nell'eternità, dal vizio una miseria
senza fine; e JoHANN CHRISTIAN EDELMANN (1698-1767), che, pas­
sato attraverso varie esperienze religiose, approdò ad una visione di
tipo panteistico, il cui concetto centrale è quello di ragione, per il
quale si rifà al légos giovanneo, servendosi di strumenti concettua­
li forniti da Plotino e Spinoza.
Ma la personalità più nota è senz'altro HERMANN SAMUEL REI­
MARUS 21 (1694-1768). In tutte le sue opere, in particolare nei Trat­
tati sulle principali verità della religione naturale, Reimarus è de­
ciso difensore della religione naturale, la quale, mediante la natu­
rale forza della ragione, dimostra inconfutabilmente l'esistenza di
un Dio creatore del mondo mediante saggezza bontà e potenza; di­
mostra inoltre la realtà della provvidenza e la natura spirituale e l'im­
mortalità dell'anima. Dall'ondata di libelli che si riversano in Ger­
mania dalla Francia (ha in particolare di mira Lamettrie) egli vede
infatti derisi ed attaccati non solo il cristianesimo, ma quella stessa
religione naturale ed ogni moralità. Ove si prescinda dalla religione,

" REIMARUS Hermann Samuel, Amburgo 1694 - Amburgo 1768. Discepolo del
famoso erudito J. A. Fabricius, studiò a Jena e Wittemberg teologia filologia e filosofia.
Dopo un viaggio in Olanda e Inghilterra e una breve sosta a Wittemberg, fu chiamato
nel 1723 a reggere la scuola di Wismar; dal 1728 sino alla morte è professore di
lingue crientali al ginnasio di Amburgo. Tra le sue opere: Abhandlungen iiber die
vornehmsten Wahrheiten der natiirlichen Religion (Amburgo 1754), Vernunftlehre (Am­
burgo e K:iel 1756), Allgemeine Betrachtungen i.iber die Triebe der Tiere (Amburgo
1760); la Apologie oder Schutzschrift fi.ir die i:erni.inftigen Verehrer Gottes è edita
solo parzialmente da Lessing (Wolfenbi.ittler Fragmente eines Ungenannten, in Bei­
triige zur Geschichte und Literatur, 1774-1778), da C. E. Schrnidt - pseudonimo
(Uebrige noch ungedruckte Werke des Wolfenbi.ittelschen Fragmentisten, 1787) e da
W. Klose (nella Zeitschrift fiir historische Theologie, 1850-1852). Su R. dr.: W. BuET­
TNER, H.S.R. als Met,1physiker, Wiirzburg 1909; A. C. LuNDSTEEN, H.S.R. und die
Anfiinge der Leben-Jesu-Forschung, Kopenhagen 1939; P. GRAPPIN, La théologie naturelle
de R., « Études germaniques », VI (1951 ), 169-181; Autori Vari, H. S. Reimarus
(1694-1768). Ein « bekannter Unbekannter » der Aufkliirung in Hamburg, Gottin­
ga 1973.
572 FILOSOFIA MODERNA

ogni sapere può essere piacevole e magari utile, ma è incapace di ap­


pagare e dar pace allo spirito; quella sola « ci presenta il modello
di ogni perfezione, la fonte di ogni benedizione e felicità, e l'ordina­
mento di tutte le cose ad un fine supremamente grande, che con­
tiene anche il nostro bene e che ci riempie di incrollabile fiducia in
una guida benigna e saggia e di speranza nella nostra eterna felice
esistenza. Essa porta ordine e unità nei nostri desideri: ci insegna
ad usare utilmente le nostre interne facoltà, ed ogni bene esterno; ci
rende contenti di noi stessi, pieni di amore verso gli altri, benvoluti
tra gli uomini, e accetti all'essere sommo » (Abhandlungen ... , Pre­
fazione, s. p. ). A questa concezione della religione si accompagna
il rifiuto della fondazione scientifica, mathematica methodo.. della
religione naturale, a partire da concetti altamente astratti e me­
diante complicate catene deduttive: tutto si deve poter spiegare
dai fondamenti della sana ragione. Una volta dimostrato, quindi,
non senza puntate antispinoziane, che non può essere identificato
col mondo l'essere eterno, necessario, autosufficiente che deve ne­
cessariamente essere affermato sulla base della esistenza constatata
di ciò che si offre all'esperienza, viene concesso grande spazio al
tema dei fini della creazione, del fine generale (il bene dei viventi),
e dei fini particolari, con ampio ricorso a considerazioni fisico-teo­
logiche. Quindi, si passa a questioni di teodicea, per concludere
con la prova dell'immortalità dell'anima. Il punto di vista fisico­
teologico è ampiamente ripreso nelle Considerazioni generali sugli
istinti degli animali, in cui l'orma della saggezza e bontà divina è
ritrovata nell'orientamento finalistico che è dato riscontrare nel­
l'attività istintiva degli animali.
Negli anni che vanno dal 177 4 al 1778, Lessing pubblica sette
diversi frammenti tratti da un'opera del Reimarus, che questi si
era astenuto dal pubblicare non ritenendo i tempi ancora adatti a
recepirla; opera che reca il titolo di Apologia degli adoratori razio­
nali di Dio. Non è qui diverso l'atteggiamento di Reimarus nei
confronti della religione naturale; ma vi si manifesta chiaramente
il rigetto di ogni religione positiva, di ogni rivelazione. Con la pu­
ra religione razionale, che è perfetta istruzione al timore di Dio,
al dovere e alla virtù, coincide secondo Reimarus l'essenza dell'in­
segnamento di Cristo, e questa religione è una religione che può
essere universalmente accolta: « la pura dottrina di Cristo, come
usci dalle sue stesse labbra, e in quanto non si innesta in partico-
ILLUMINISMO TEDESCO 573

lare sul giudaismo, ma deve diventare universale, non contiene


nient'altro che una religione razionale pratica. Perciò, ogni uomo
che fa uso della ragione, se dovesse aver bisogno di denominarsi
secondo una confessione religiosa, potrebbe dirsi sinceramente cri­
stiano» (Lessing, ed. Lachmann, XII, p. 255). Ora invece, non
si ha tolleranza nei confronti di coloro che fondano la loro religio­
ne sui soli principi della sana ragione; e si impiega un modo di
catechesi che vuol confermare i giovani in una religione, o piutto­
sto in una setta religiosa, mediante pregiudizi e minacce, e che
istiga poi a diffidare sempre della ragione stessa. E tutto ciò in no­
me di una rivelazione, il cui concetto egli combatte tentando di
dimostrare l'impossibilità di una rivelazione alla quale tutti gli uo­
mini, in ogni tempo e in ogni luogo, dovrebbero credere in manie­
ra motivata.
Il fatto è - secondo Reimarus - che, da una parte, l'Antico
Testamento non si propone di rivelare una religione soprannatu­
rale e che sia necessaria alla beatitudine (seligmachende); ché man­
ca in esso la proposizione di verità come l'immortalità dell'anima
e lo stato dell'anima dopo la morte, senza le quali una tale religio­
ne non può sussistere. D'altra parte, neppure Cristo ebbe l'inten­
zione di rivelare una tale religione, ma predicò, come abbiam vi­
sto, una pura religione morale e si propose come il Messia atteso
dal popolo, un salvatore politico; furono gli apostoli che conia­
rono dopo la sua morte un nuovo sistema religioso, affermando la
sua divinità ed introducendo il concetto della redenzione operata
mediante la passione, della ascensione e della parusia.

Passiamo in:6.ne all'editore dell'opera di Reimarus, GoTTHOLD


EPHRAIM LESSING 22 (1729-1781). Pensatore non sistematico, egli

22 LESSING Gotthold Ephraim, Kamenz (Sassonia) 1729 - Wolfenbiittel (Brunswick)


1781. Figlio di un pastore protestante ed avviato a seguire l'esempio paterno, ebbe
modo durante gli anni di studio a Lipsia di darsi una cultura molto vasta, in partico­
lare nel campo letterario e teatrale. Dopo Lipsia, Berlino e ancora gli studi e il lavoro
giornalistico; conobbe a Berlino Mendelssohn, Nicolai e il poeta E. von Kleist. Durante
la guerra dei sei anni, fu a Breslavia, e quindi ad Amburgo; qui entra in amicizia
con Herder, Klopstock e con i figli di H. S. Reimarus, e tenta di realizzare l'idea di un
.
teatro stabile a carattere nazionale. Dal 1770, è bibliotecario del duca di Brunsw1ck,
a Wolfenbiittel. Di primo piano è il suo posto nella storia della letteratura tedesca; si
ricordano qui solamente opere di carattere filosofico e critico-estetico: Gedanken uber
die Herrnhuter (del 1750), Das Christentum der Vernunft (1753?), Ueber die Wirklich­
keit der Dinge ausser Gott (1763?), Ueber die Entstehung der geoffenbarten Religion
574 FILOSOFIA MODERNA

è tuttavia una delle maggiori personalità del Settecento tedesco, e


per molti versi è visto come anticipatore di posizioni proprie della
cultura romantica. Di Lessing, poeta letterato filologo e critico,
interessa qui ricordare i contributi nel campo dell'estetica e delle
problematiche religioso-teologiche.
Pensatore sistematico non è neppure in campo estetico, nono­
stante le due grosse e complesse opere dedicate a questo ordine
di problemi; ma dagli scritti maggiori, dalle recensioni, dagli in­
terventi critici e polemici, è possibile trarre un tutto coerente. Ciò
che lo differenzia dai teorici tipo Baumgarten è il fatto che egli
parte dall'esercizio della critica estetica, dal basso, e non da prin­
cipi universali da cui derivare analiticamente una dottrina del bel­
lo. Dello stesso Laocoonte afferma che le considerazioni ivi con­
tenute « sono sorte in maniera occasionale, cresciute più secondo
la successione delle mie letture che non attraverso un sistematico
sviluppo di principi universali... E tuttavia mi lusingo che anche
come tali non siano del tutto da disprezzare. Non è certo di libri
sistematici che noi tedeschi abbiamo mancanza » ( ed. Lachmann,
IX, p. 5). Molti concetti fondamentali derivano comunque dalla
conoscenza e meditazione del filone leibniziano e wolffiano a cui
Lessing era portato anche dalla sua amicizia col Mendelssohn ( del­
la cui teoria delle sensazioni si gioverà nella Drammaturgia di Am­
burgo). Ad esempio, nelle annotazioni all'opera di E. Burke, i
« concetti piacevoli » sono interpretati come rappresentaziom m­
distinte di una perfezione, che è unità nel molteplice; si avrà il

(1763/64?), Laokoon (Berlino 1766; trad. it. Milano 1961), Hamburgische Dramaturgie
(Amburgo 1767-1769; trad. it. Bari 1956), Ueber den Beweis des Geistes und der Kraft
(Braunschweig 1777), Das Testament ]ohannis (Braunschweig 1777), Bine Parabel (Am­
burgo 1778), Axiomata (Amburgo 1778), Anti-Goeze (Braunschweig 1778), Ernst und
Falck (Wolfenbiittel 1778-1780), Die Erziehung des Menschengeschlechts (Berlino 1780).
L'edizione delle opere che abbiamo usato è quella di K. LACHMANN, G.E.L.s Siimtliche
Schriften, 1825-28; 3• ed. a cura di F. MUNCKER, Lipsia 1886-1919. Più recente è
l'edizione di P. RILLA, Gesammelte Werke, 10 voli., Berlino 1954-1957. Su L. dr.:
C. SCHREMPF, L. als Philosoph, Stoccarda 1906; L. TONELLI, L'anima moderna da L. a
Nietzsche, Milano 1925; P. MILANO, L., Rom'! 1930; L. CITONI, Contributi di L.
all'estetica, Palermo 1936; H. GoNZENBACH, L.s Gottesbegriff in seinern Verhiiltnis zu
Leibniz und Spinoza, Lipsia 1940; P. RILLA, L. und sein Zeitalter, Berlino 1970;
N. SAITO, Lichtenberg e L., Roma 1961; M. GHIO, L'idea di progresso nell'illuminismo
francese e tedesco, Torino 1962; L. QUATTROCCHI, La poetica di L., Messina-Firenze
1963; W. RITZEL, G.E.L., Stoccarda 1966; H. E. ALLISON, L. and the Enlightenment,
Ann Arbor 1966; C. FABRO, L. e il Cristianesimo della ragione, in Studi in onore di
A. Corsano, Manduria 1970; dr. K. S. GuTHKE, Der Sta'ld der L. - Forschung (1932-1962),
Stoccarda 1965.
ILLUMINISMO TEDESCO 575

bello se in tali rappresentazioni è dominante il momento dell'uni­


tà, il sublime nel caso lo sia quello della molteplicità.
E nemmeno assente è il tema del rapporto arte-morale: col
suo secolo, Lessing vede l'arte :finalizzata al perfezionamento mo­
rale: « io non chiamo la migliore commedia quella che possiede
più verosomiglianza ed è più conforme alle regole... ma... quella
che maggiormente si accosta al suo fine... Ma quale è il fine della
commedia? Formare e pedezionare i costumi degli spettatori»
(ibid., IV, p. 191).
Già nei Frammenti poetici del 1753 tornano a p1u riprese
temi estetici; si tratta del confronto tra antichi e moderni, per i
quali ultimi l'inventare si riduce in ogni caso ad argomentare, e
si tratta del tema del genio, lo « spirito creatore», il quale è op­
posto appunto a chi pensa freddamente ragionando, ed è portato
più al dubbio che all'ingegno (Witz): la opposizione tra « siste­
ma» razionale, .filosofico, e il discorso sensibile della poesia apri­
rà nel 1755 il discorso critico contro l'Accademia che ha tentato
di unificare le posizioni del poeta Pope e del filosofo Leibniz. Al
tema del genio si accompagna quello del valore delle regole: non
è vero che queste, con la loro applicazione meccanica, possano fa­
re un artista: al vero maestro le regole sono inutili, prescriverglie­
le « significa puntellare il mondo con elefanti» (ibid., I, p. 253 );
egli è ciò che è da se stesso, va sicuro senza prescrizioni esterne.
Il principio primo di tutte le regole estetiche, l'imitazione della
natura bella, era già di Aristotele e di Orazio, ed è principio al
quale possono attenersi tutti coloro che posseggono un vero ge­
nio per le arti; ma_ per chi è alle prime armi, è troppo universale per­
ché possa tornare utile. Per Lessing, l'adesione greca alle regole, vi­
cina alla spontaneità del genio, si oppone a quella francese che è
meccanica. Di qui la polemica contro il teatro francese; è invece
il teatro inglese che si avvicina per l'essenziale a quello degli an­
tichi; ecco perché la conoscenza di Shakespeare sarebbe stata mol­
to più utile in Germania che non la dimestichezza col teatro fran­
cese. « Poiché un genio può essere infiammato solo da un genio,
e in maniera massimamente agevole da uno che paia dover tutto
alla natura, e che non risulti scostante per le macchinose perfe­
zioni della tecnica» (ibid., VIII, p. 43 ).
In Pope, un metafisico! Lessing, come abbiamo accennato,
aveva sottolineato, in riferimento polemico al quesito dell'Acca-
576 FILOSOFIA MODERNA

demia, che intendeva colpire Leibniz attraverso Pope, ciò che di­
stingue il poeta dal filosofo; un poeta che dogmatizza non è un
poeta. Ora, il problema dibattuto nel Laocoonte è quello di ope­
rare una distinzione tra le diverse arti, in base alla materia e ai
modi dell'imitazione; Lessing si ricollega, sulla scia dell'oraziano
ut pictura poesis, alla annotazione del Winckelmann intorno al ce­
lebre gruppo vaticano. Il Laocoonte della scultura, a differenza di
quello virgiliano, non grida, e ciò - spiega Winckelmann -, per­
ché il grido sarebbe indizio di animo non nobile. Lessing offre
una spiegazione diversa, non facendo ricorso al presunto ideale
stoico che l'arte antica dovrebbe incarnare, ma indagando invece i
rapporti che esistono tra la pittura e la poesia. Nella Prefazione,
egli distingue l'atteggiamento dell'amatore, che nella pittura ( =
arti figurative in genere) come nella poesia è preso dall'illusione
della presenza di cose assenti, e di essa prova piacere, da quello
del filosofo, che scopre a fondamento di quel piacere una unica
fonte, la bellezza, retta da regole universali applicantesi a forme
corporee come ad azioni e pensieri; e infine da quello del critico,
che nota come alcune regole si adattino di più alla poesia, altre
più alla pittura. Quella si distingue essenzialmente da questa per­
ché il discorso rappresenta oggetti che si susseguono nel tempo,
in primo luogo quindi azioni; la pittura invece rappresenta oggetti
l'uno accanto all'altro nello spazio, corpi. Rimane al poeta la pos­
sibilità di descrivere corpi, come al pittore quella di alludere ad
azioni; ma la bellezza della forma corporea deriva dall'armonia di
parti che si possono cogliere insieme; e questo resterà precluso
al poeta, ché la descrizione rende difficile se non impossibile co­
gliere l'oggetto come un tutto.
Lessing pregia la poesia sopra la pittura. Nella Drammaturgia
di Ambur,�o, che riflette il concreto impegno di Lessing per la
riforma del teatro tedesco, l'atteggiamento dell'autore è quello
di colui che vuole penetrare « l'essenza della poesia », ed è noto
come, in questo compito e nei risultati raggiunti, egli si sentisse
confortato dall'esempio di Aristotele che a quella essenza tentò
di arrivare mediante astrazione dai capolavori del teatro greco, e
che giunse alle stesse conclusioni di Lessing. È nota l'affermazio­
ne: « .. . non esito a riconoscere ( dovessi anche essere deriso per
questo, in questi tempi illuminati!) che io la ritenga [la Poetica
di Aristotele] un'opera altrettanto infallibile quanto lo sono gli
ILLUMINISMO TEDESCO ,11

Elementi di Euclide. I suoi principi sono altrettanto veri e certi,


anche se non altrettanto accessibili (fasslich), e perciò maggior.
mente esposti alle contestazioni, di tutti quelli, che questi conten­
gono» (ibid., X, p. 214 ). Se ciò giustifica il darsi di regole, non
le legittima però nel senso della loro applicazione meccanica, e
non mortifica il genio, che possiede in sé il criterio di tutte le
regole: « una cosa è aggiustarsi con le regole, altra cosa osser­
varle» (ibid., X, p. 377).
Nel dramma, la più alta forma di poesia, il tutto è l'azione,
i vari accadimenti le sue parti; e la perfezione del dramma starà
evidentemente, come per ogni tutto, nel modo in cui le parti con­
corrono al fine della tragedia. L'unità di azione è la prima legge,
quelle di tempo e luogo non ne sono che conseguenze. A nulla
serve affermare che si imita la realtà; ciò che accade nella realtà
ha senz'altro il suo fondamento nella eterna infinita connessione
delle cose e certo, ad esempio, quei tratti del reale che, isolati dal­
l'artista, significherebbero per sé solo pura casualità e crudeltà,
si rivelerebbero invece nello svelato piano del tutto conformi a
sapienza e bontà. Ma l'artista deve fare un tutto di quel ristretto
campo del reale che è oggetto dell'imitazione, ed all'interno di
questo tutto ogni cosa deve potersi spiegare e giustificare senza
che si diano difficoltà non solubili se non si fa ricorso a qualcosa
di estraneo all'opera stessa. Ecco quindi in che senso l'artista imi­
ta il creatore: « il tutto di questo creatore mortale dovrebbe esse­
re un profilo del tutto dell'eterno creatore, ed abituarci al pensiero
che, come in questo tutto si risolve nell'ottimo, cosi avviene anche
in quello» (ibid., X, p. 120). Per questa via si raggiunge l'effetto
della compassione e del timore, e la loro purificazione: lo scopo
morale viene quindi raggiunto non per mezzo di isolate tirate edi­
ficanti, ma per l'essenza dell'opera stessa.
Quanto alla questione della verità del teatro, Lessing dichia­
ra, richiamandosi sempre ad Aristotele, che il suo fine non è quel­
lo di « insegnare che cosa ha fatto questo o quel singolo uomo,
ma che cosa farà ogni uomo di un certo carattere in certe circostan­
ze» (ibid., IX, p. 261 ). Se quindi la verità storica non interessa,
la verità psicologica deve invece assolutamente essere rispettata;
il violarla significherebbe distruggere l'illusione estetica. Il vero
poeta non moltiplica colpi di scena e casi inverosimili, piuttosto
presenta tutto nel modo più semplice, delinea una serie di cause
578 FILOSOFIA MODERNA

ed effetti che portano naturalmente all'azione anche la più inve­


rosimile.
Ma passiamo agli scritti di carattere religioso-teologico. Nei
giovanili Pensieri sugli Herrnhuter si annunciano già molte tema­
tiche del Lessing maturo. « L'uomo fu fatto per agire, non per
sofisticare »; e « felici i tempi, in cui il più virtuoso era il più
dotto! in cui tutta la sapienza consisteva in brevi regole di vita! »
(ibid., XIV, p. 155). Quella felice unità era destinata a rompersi
ben presto; il desiderio di novità degli uomini non si accontenta
di verità che tutti possono comprendere facilmente, anche se non
altrettanto facilmente tutti sanno conformare ad esse la propria
vita. E alla· mente (Kopf), in cui vengono accumulate conoscenze,
è contrapposto il cuore (Herz), che resta vuoto. Il sapere perde
il suo orientamento alla vita, alla virtù e alla felicità. Quale la
sorte della filosofia, tale anche quella della religione; e il cristia­
nesimo da attivo (ausubend) si fa contemplante (beschauend). Ma
« a che giova credere rettamente, se rettamente non si vive? »; la
superstizione è vinta, è vero, ma proprio ciò di cui vi servite per
distruggerla, la ragione, che è cosi difficile trattenere nella sua sfe­
ra, « la ragione vi portò ad un altro errore, che era certo meno lon­
tano dalla verità, e tuttavia tanto più lontano dall'esercizio dei
doveri di un cristiano » (ibid., XIV, p. 159). È un fattore del
pervertimento del cristianesimo la sua commistione con la filoso­
fia, la commistione di verità divine e di prove umane; la concordia
tra filosofia e teologia è tale che esse si possono discernere a fatica
l'una dall'altra; e l'una indebolisce l'altra, la filosofia tentando di
strappare l'assenso di fede mediante prove, l'altra pretendendo di
sostenere le prove mediante la fede. Quello della contrapposizio­
ne tra un aspetto dogmatico e un aspetto etico nella religione, e
del maggior peso del secondo rispetto al primo, - e a ciò si ri­
collega la rivendicazione della tolleranza - è un tratto che reste­
rà anche nelle opere più tarde; ad esempio nel Nathan, con la leg­
genda dei tre anelli, e nel Testamento di Giovanni: il cristianesimo
è l'amore cristiano, compendiato nell'esortazione di Giovanni « fi­
lioli, diligite alterutrum »; potesse il testamento di Giovanni -
esclama Lessing - riuscire a riunire quello che il Vangelo di Gio­
vanni (affermante la divinità di Cristo) separa. In Ernst e Falck la
massoneria annuncia appunto coi fatti, mediante l'agire (durch Tha­
ten) e non mediante parole e manuali sistematici, c;uello che è il se-
ILLUMINISMO TEDESCO 579

greto dell'ordine, la sua essenza: sanare cioè quel male inevitabile


della società civile (pur necessaria perché l'uomo si sviluppi nella ra­
gione) che sta nel non poter essa unire, senza separare e senza crea­
re scissiom.
Troviamo un attacco all' astrattezza della « dannata sapienza
scolastica» anche nel componimento poetico Sulla religione (1750),
in cui Lessing non solo si mostra scettico intorno alla capacità del­
l'uomo di arrivare a conoscere la verità mediante la :filosofia, ma
anche intorno alla sua capacità di raggiungere la virtù. Nell'uomo
sono presenti ad un tempo una aspirazione insopprimibile alla
virtù (e alla felicità), ed una tormentosa impotenza a raggiungerla;
in lui alberga il vizio, ed anche nel saggio non la virtù è presente,
ma ancora il vizio sotto maschera di virtù. Il sapere è del tutto
impotente di fronte a ciò. Ma la conoscenza di sé, lo spettacolo
della miseria umana e il dubbio che ne nasce, sono la via più au­
tentica alla religione. Per questa via Lessing giunge alla posizione
del problema del male, e dell'ottimismo: può un unico saggio e
potente Dio aver posto insieme quella aspirazione e quella impo­
tenza? mondo e uomo sono nonostante tutto buoni? E di questi
temi Lessing non tralascia poi la indagine, con strumenti concet­
tuali desunti dalla tradizione metafisica leibniziana e wolffiana.
Già il Cristianesimo della ragione, breve componimento in 27 pa­
ragrafi che egli stese presumibilmente tra il 1751 e il 17 5 3, con­
tiene una risposta a questo tipo di interrogativi, ma in brevi aride
formule lontane dai versi dei canti sulla religione. Dio, essere per­
fettissimo per il quale rappresentare volere e creare sono lo stes­
so, contempla sin dall'eternità le sue perfezioni: « o egli pensa
tutte le sue perfezioni in una volta, e sé come la totalità di quelle;
oppure le pensa divise, l'una distinta dalle altre, e ognuna sepa­
rata da sé secondo gradi » (ibid., XIV, p. 175). La prima via con­
duce ad una spiegazione razionalistica della Trinità, ad una inter­
pretazione della generazione del Figlio e della processione dello
Spirito; la seconda, a delineare il modo in cui avviene la creazione
del mondo. Pensare « separate » le perfezioni e creare esseri finiti
è lo stesso; presi insieme, gli esseri finiti costituiscono il mondo
migliore tra i possibili, ché Dio avrebbe potuto pensare quelle
perfezioni separate nei modi più diversi, ma Egli pensa sempre
ciò che è più perfetto; ed ogni essere (Dio crea solo esseri sem­
plici; i composti risultano da questi) è « un dio limitato ». « Alle
580 FILOSOFIA MODERNA

perfezioni di Dio compete anche l'esser cosciente delle sue per­


fezioni, e il poter agire conformemente ad esse» (ibid., p. 178 );
gli esseri finiti che partecipano di questi caratteri sono esseri mo­
rali, la cui legge suona: « agisci conformemente alla tua indivi­
duale perfezione» (ibid. ). All'appello di tipo wolffiano al concet­
to di perfezione si unisce già quel forte senso della individualità
che sarà cosl caratteristicamente presente nel Lessing maturo, e
cosl legato alla sua valutazione della storia. Anche nella Difesa di
Cardano ( 1754) ragione e :filosofia vengono positivamente valu­
tate: non si debbono accettare infatti solo gli argomenti storici in
favore della religione cristiana, ma anche quello desunto dal suo
convenire - la ragione non va totalmente sacrificata alla fede -
con la morale e la filosofia naturale. Non però che tutto ciò che
quella insegna si risolva nel contenuto di ciò che è attingibile na­
turalmente. Parallelamente ad una rivalutazione della ragione pro­
cede quella della capacità morale dell'uomo, nella affermazione del­
la possibilità di una vita virtuosa da cui si è resi degni di beati­
tudine.
Due sono quindi i problemi fondamentali attorno ai quali si
affatica Lessing, o forse uno solo, considerato dal punto di vista
metafisico, o religioso-teologico: quello del rapporto tra il finito
e l'assoluto, come problema del modo dell'originarsi del mondo da
Dio, e quello della rivelazione e del miracolo, in relazione con la
ragione e la natura. Troviamo brevemente discusso il primo nel
frammento Sulla realtà delle cose fuori di Dio; si avverte qui, co­
me in generale negli scritti posteriori al 1760, l'effetto della let­
tura di Spinoza e di Leibniz, che gli offre nuovi stimoli e strumenti
concettuali in questa direzione; e le posizioni spinoziana e leibni­
ziana intorno ai rapporti tra il corporeo e lo spirituale formano
l'oggetto di scambi di opinioni epistolari tra Lessing e Mendels­
sohn. Lessing si mostra del resto ben consapevole della distanza
che separa « la limitatezza e l'insipidezza» di Wolff dalla « vista
acuta» di Leibniz (ibid., XVI, p. 300).
Per quanto riguarda l'altro aspetto, di contro alla religione
naturale (riconoscere Dio, cercar di formarsene un concetto il più
possibile degno e adeguato, e pensare ed agire conformemente a
tale concetto) la religione positiva viene decisamente svalutata, co­
me quella che è resa necessaria dal passaggio dell'uomo dallo sta­
to di libertà naturale a quello della società civile, col conseguente
ILLUMINISMO TEDESCO 581

costituirsi di una religione pubblica. Le religioni positive sorgono


cioè dalla aggiunta di integrazioni convenzionali alla religione na­
turale, per cui la migliore religione positiva è quella che vi appor­
ta il minor numero di integrazioni. Ma come in questo senso sono
tutte ugualmente false, le religioni positive sono tutte ugualmente
vere nel senso che son tutte necessarie a portare nella religione
pubblica quell'uniformità ed unità che non sussisterebbero se ogni
uomo stesse alla pura religione naturale, nella misura naturalmen­
te in cui le sue capacità gli permettono di attingerla e foggiarsela.
Religione significa in ogni caso rapporto tra creatore e creatura; la
religione naturale sta a quello che la ragione dice su questo rap­
porto, mentre la religione rivelata la concepisce in un certo modo
particolare. Scopo della religione non è quello di far l'uomo one­
sto; essa presuppone ciò, e vuole elevarlo a « vedute superiori»;
anche se, certo, essa è poi in grado di fornire nuovi moventi per
una vita morale. Da ciò si ricava che non è necessario il cristiane­
simo, e neppure una religione, perché si abbia vita morale, ché
si ha un'inclinazione naturale ad agir bene; ostacolata certo dalle
passioni; ma queste si possono vincere non necessariamente e so­
lamente con motivi dati dalla religione.

Nel 1774, Lessing inizia la pubblicazione dei frammenti della


Apologia di Reimarus (dr. pp. 572-573), ciò che dovrà coinvolgerlo
in una serrata disputa col pastore J. M. Goeze. Ma già prima,
all'atto stesso della pubblicazione, Lessing aveva espresso il suo
giudizio sulle tesi di colui che presenta come uno sconosciuto, un
anonimo, avanzando l'ipotesi che si tratti di J. L. Schmidt; con
ciò, aveva dato una sua valutazione della « nuova teologia » dei
neologi. Già nei primi scritti - abbiamo visto - Lessing denun­
ciava la indebita commistione di :filosofia e teologia; ma la stessa
colpa che era addebitata agli antichi dogmatici, all'ortodossia, è
ora imputata ai nuovi teologi, per i quali credere significa « ritener
vero in base a fondamenti naturali» (ibid., XII, p. 97); si era
giunti a porre un divisorio tra la teologia e la :filosofia, ed ora lo
si abbatte, e « col pretesto di renderci cristiani ragionevoli, ci
rendono :filosofi iltamente irragionevoli » (ibid., XVIII, p. 101).
Di contro a costoro, Leibniz rappresentava invece un modo più
corretto di vedere i rapporti tra teologia e :filosofia; non bisogna
dimostrare la religione cristiana, quanto piuttosto valutare le pre-
582 FILOSOFIA MODERNA

tese prove contro di essa. « Ma - scrive ancora Lessing al fra­


tello Karl - non dovrei io desiderare di tutto cuore, che ognuno
possa pensare razionalmente sulla religione?... [ egli guarda meno
a ciò che i nuovi teologi rifiutano, che non a ciò che vogliono por­
re al suo posto, e] ... che cos'altro è la nostra nuova teologia, di
fronte all'ortodossia, se non liquame di letamaio di fronte ad ac­
qua sporca? Siamo d'accordo, il nostro vecchio sistema di reli­
gione è falso: ma questo non potrei ripetere con te, che esso è un
centone di abborracciatori e mezza-filosofia; tale è il sistema di
religione, che ora si vuol sostituire al vecchio; e con influsso molto
maggiore sulla ragione e filosofia, di quanto non pretenda il vec­
chio» (ibid., XVIII, pp. 101-102).
Gli attacchi di Reimarus al cristianesimo portano Lessing ad
una prima riflessione, ad una prima distinzione tra la teologia, con
le sue ipotesi le sue spiegazioni e le sue prove, e la religione, il
Cristianesimo; per la quale distinzione forse il teologo potrà sen­
tirsi colpito da quegli attacchi e da quelle difficoltà, non certo il
cristiano: « per lui è ugualmente ancora presente il cristianesimo,
che egli sente così vero, in cui si sente così felice. - Se il para­
litico esperimenta le benefiche scosse della scintilla elettrica, che
cosa gli interessa se ha ragione Nollet, oppure Franklin, o magari
nessuno dei due?» (ibid. XII, p. 428). Ma alle osservazioni ed
alle critiche di Reimarus si possono opporre in realtà vari argo­
menti. Lessing infatti accompagna la pubblicazione dei frammenti
con caute osservazioni critiche (la tolleranza richiesta per i deisti,
ai quali si vuole concessa piena libertà di combattere la religione
cristiana, gli pare eccessiva; nel concetto stesso di rivelazione è
implicita una certa sottomissione ad essa della ragione); e ciò no­
nostante egli ne ritiene utile la pubblicazione, che l'autore aveva
evitata. Lessing crede infatti negli oggettivi vantaggi che dalle
dispute in materia di religione derivano a questa, sia pure accanto
a svantaggi soggettivi (smarrimento di singole persone ... ) destina­
ti ad essere riassorbiti. La disputa con Goeze si accende in parti­
colare proprio intorno al principio sul quale si incentra la fonda­
mentale critica lessinghiana a Reimarus: « la lettera non è lo spi­
rito, e la Bibbia non è la religione. Di conseguenza, obiezioni alla
lettera e alla Bibbia non sono per ciò stesso obiezioni contro la
religione e lo spirito. Ché la Bibbia contiene manifestamente più
di quel che appartenga alla religione; ed è pura ipotesi, che anche
ILLUMINISMO TEDESCO 583

in questo di più essa sia infallibile. La religione non è vera, perché


evangelisti ed apostoli la insegnarono, ma essi la insegnarono per­
ché essa è vera » (ibid., pp. 428-429). Non si possono prendere,
come fa Reimarus, per autentico e vero cristianesimo certe sue
presentazioni offerte in libri dogmatici, e si deve distinguere tra
ciò che Cristo stesso ha insegnato, tra ciò che è essenziale, e ciò
che dall'essenziale è stato derivato o ad esso è stato aggiunto; co­
me è da distinguere anche tra i diversi libri e luoghi della Scrit­
tura. Non quindi la Scrittura (il testo biblico materialmente pre­
so), o i libri dogmatici tratti da essa o i risultati del lavoro erme­
neutico sono in grado di fornire il fondamento, ma la verità inter­
na, riconosciuta come tale, delle verità del cristianesimo. Anche
se si può riconoscere che la conoscenza storica (in senso wolffiano)
di questa interna verità può originarsi dalla Bibbia stessa o dalla
tradizione orale, tuttavia la verità interna del cristianesimo, che
sta nel suo convenire con gli attributi di Dio, si dimostra. come
ogni altra verità eterna, da se stessa, senza bisogno di convalide
esterne. Ecco quindi che gli attacchi di Reimarus alla lettera della
pagina biblica restano senza effetto nei confronti della religione
cristiana.
Nel corso della polemica con Goeze, Lessing esce in quella
espressione, che è diventata famosa, intorno al modo di intendere
la verità, e la vita dedicata alla ricerca della verità. L'uomo è un
essere finito, e come tale il possesso della più sublime verità, as­
sunta come verità assoluta e magari accettata per pregiudizio, non
costituisce la sua perfezione: « non la verità che un uomo possie­
de o presume di possedere, ma lo sforzo sincero applicato nella
ricerca della verità costituisce il valore dell'uomo »; quel possesso
lo rende piuttosto « inerte, pesante, superbo » (ibid., XIII, p. 24 ).
Già nella prefazione agli scritti di K. W. Jerusalem aveva anno­
tato come « la mancata unità, che deriva da ciò solamente, che
ognuno vede la verità da un certo punto di vista, è unità quanto
all'essenziale » (ibid., XII, p. 294 ); cioè, diremmo, quanto all'at­
teggiamento di fronte al vero. Ed ora: « se Dio tenesse chiusa
nella sua destra tutta la verità, e nella sinistra l'impulso sempre
vivo alla verità, pur con l'aggiunta di errare eternamente, e mi
dicesse: scegli!, io gli cadrei con umiltà alla sinistra, e direi: Pa­
dre, dammi! la pura verità è riservata a te solo! » (ibid., p. 24 ).
E ci si potrebbe richiamare probabilmente alla Parabola, con la
584 FILOSOFIA MODERNA

condanna ivi contenuta di chi pregia la propria visione della reli­


gione, presunta assoluta e definitiva, al di sopra della religione stessa;
e forse al paragrafo 76 dell'Educazione del genere umano, che con­
cepisce il mistero non come enunciato proposizionale indimostrabile
una volta per tutte, ma come verità oscuramente accettata, che va
progressivamente approfondita e penetrata. Anche nella Difesa di
Cardano era contenuto un vigoroso richiamo a non fare della ve­
rità un possesso personale ; nelle dispute - argomentava Les­
sing -, si è portati a nascondere all'avversario le difficoltà che si
potrebbero sollevare contro il proprio punto di vista, e questo per­
ché la vittoria dell'avversario significa la propria sconfitta. « Ma
questo non ha luogo nelle dispute che hanno ad oggetto la verità.
Si disputa, certo, intorno ad essa; ma, vinca l'una parte o l'altra,
la parte vincente non vince solamente per sé. Il partito che perde,
non perde altro che errori; e può ad ogni istante partecipare alla
vittoria dell'altro. Perciò, la sincerità è la prima cosa che io pre­
tendo da un :filosofo. Egli non deve tacere nessuna proposizione
perché questa collima meno col suo che con l'altrui sistema; e
nessuna obiezione, perché non può ribattere ad essa con piena
efficacia. Se non si comporta in questo modo, allora è chiaro che
fa della verità un affare privato, e che pretende di rinchiuderla
negli angusti limiti della propria infallibilità» (ibid., V, p. 323 ).
Anche le decise affermazioni lessinghiane in favore della tolleran­
za si ricollegano a questo tipo di considerazioni, come anche, in­
sieme, alla già richiamata forte sottolineatura dell'aspetto pratico
della religione; ciò che è dato constatare nel Nathan.
Ma, soprattutto, il confronto con l'opera di Reimarus offre a
Lessing l'occasione di approfondire ulteriormente il concetto stes­
so di rivelazione: se una rivelazione deve essere, è implicito nel
suo concetto - afferma Lessing contro i neologi - un ricono­
scimento dei propri limiti da parte della ragione, che trova in essa
qualcosa che la supera. Se una rivelazione deve essere possibile,
per la ragione è piuttosto una prova della sua verità che un'obie­
zione a quella il fatto che la rivelazione contenga cose che superano
la capacità della ragione stessa. Che cos'è infatti una rivelazione
che non rivela nulla? E la religione rivelata non presuppone, ben­
sl ingloba la religione razionale, contiene tutte le verità di quella,
ma le propone come fondate mediante un altro tipo di prove, non
dimostrazioni tratte dalla natura delle cose, ma prove fondate su
ILLUMINISMO TEDESCO 585

testimonianze, e proposizioni di esperienza, verità storiche. Più


ancora, l'origine divina dei libri sacri non si dimostra per la pre­
senza in essi deJle verità della religione razionale ( ad esempio
l'immortalità dell'anima): una religione che apporti la beatitudine
(seligmachende) può ben conformarsi allo stato attuale dell'uomo,
e tacere verità ancora non pienamente comprensibili, purché la
via ad esse sia lasciata libera, mentre si allude a quelle verità ulte­
riori. Ciò su cui si fonda la beatitudine è sempre lo stesso, ma il
concetto che gli uomini ne hanno, ciò che Dio ad essi ne rivela,
può essere diverso in diversi momenti. Siamo giunti cosi all'Edu­
cazione del genere umano, culmine delle meditazioni lessinghiane
intorno alle problematiche della rivelazione e della storia. I primi
5 3 paragrafi furono infatti editi nel 1777, inseriti nel commento
che accompagna i frammenti di Reimarus; i restanti, nel 1780.
Il fine dell'educazione del genere umano - questa è la rivelazio­
ne, per analogia con ciò che è l'educazione per il singolo indivi­
duo -, è quello di sviluppare le potenzialità dell'uomo, « gli dà
ciò che è in grado di avere da sé, ma con maggiore rapidità e fa­
cilità » ( § 4 ); più avanti, però, viene anche prospettata l'ipotesi
che una religione possa insegnare, come verità storiche, verità « a_
cui la ragione umana per sé non sarebbe giunta mai e poi mai »
(§ 77). L'educazione attraversa quindi fasi diverse, commisurate
al grado di cultura del popolo: dapprima è tale da rispondere ad
uno stato come di fanciullezza, è basata sulla prospettiva di puni­
zioni e premi immediati, e cioè terreni; e domina il principio del­
l'obbedienza alla volontà divina. Tra ragione e rivelazione c'è re­
ciproco influsso e reciproco scambio, grazie al comune loro prin­
cipio; ciò si rende manifesto in occasione della purificazione del
concetto giudaico di Dio operatasi durante la cattività babilonese.
« La rivelazione aveva guidato la sua ragione, ed ora la ragione
illuminava ad un tratto la sua rivelazione » ( § 36 ); se fosse altri­
menti, del resto, l'una delle due sarebbe superflua.
Dopo quel primo stadio, il secondo grande momento. Venne
un nuovo pedagogo: Cristo. Sono ora necessari, per il grado di
cultura raggiunto, altri moventi all'azione morale che non si limi­
tino a premi e castighi terreni: e cosi, Cristo è il primo attendibile
e pratico maestro della immortalità dell'anima; e primo Egli legò
la certezza di una vita futura ad un'intima purezza del cuore e ad
una condotta di vita virtuosa. Come la dottrina dell'unicità di Dio
586 FILOSOFIA MODERNA

nell'Antico Testamento, così nel Nuovo Testamento è predicata,


rivelata la dottrina della immortalità dell'anima e della remune­
razione nella vita futura; ma, ancora come nel primo caso, anche
per questa seconda verità siamo ora in grado di fare a meno della
rivelazione, e quella che era una verità rivelata viene riplasmata e
riconosciuta verità di ragione.
Nella Prova dello spirito e della forza Lessing, partendo dalla
contrapposizione leibniziana di verità di ragione e verità di fatto,
aveva portato alla esasperazione massima la difficoltà in cui si muo­
vono gli argomenti storici della verità del cristianesimo (profezie
e miracoli innanzitutto). Del verificarsi delle profezie e dell'ac­
cadere dei miracoli noi non possediamo altro che testimonianze
umane; l'ispirazione stessa degli autori sacri è solo una verità stori­
camente certa. Io posso dunque certo accettare, come verità stori­
ca contro la quale, come tale, non ho nulla da obiettare, i miracoli
e la stessa resurrezione di Cristo; ma è ugualmente illecito costrui­
re, su verità storiche, verità necessarie di ragione (ad esempio che
Cristo è figlio di Dio, avente la sua stessa essenza), ed anche ria­
dattare ad esse tutti i miei concetti metafisici e morali: sarebbe
una fL€1'oc�oco-Lç dç &no yévoç.
Data la concezione del rapporto ragione-rivelazione propria del­
l'Educazione, i concetti di religione naturale e religione rivelata ac­
quistano un senso tutto diverso da quello che avevano nell'opuscolo
Sull'origine della verità rivelata (dr. pp. 580-581), e sembra sia for­
nita una via di soluzione al problema qui sopra prospettato. Verità
di ragione sono comunicate come verità rivelate e solo lentamente si
giunge a riconoscerle come verità di ragione; ciò dice la non contrap­
posizione assoluta tra i due modi di conoscenza, e il loro rientrare
nella linea di un unico processo di illuminazione dell'uomo sotto la
guida di Dio, principio della ragione come della rivelazione; come è
accaduto per la dottrina dell'unicità di Dio e come sta avvenendo per
quella dell'immortalità dell'anima. Forse un giorno sarà dato vede­
re più intimamente nelle verità della Trinità, del peccato originale,
della soddisfazione operata dal Figlio. Riconoscere, con la ragione,
la necessità della soddisfazione significherebbe ad esempio assumere
« che Dio ha voluto, nonostante la originaria impotenza dell'uomo,
dargli tuttavia leggi morali, e perdonargli tutte le trasgressioni,
in considerazione del suo Figlio, cioè della sussistente ricchezza
ILLUMINISMO TEDESCO 587

di tutte le sue perfezioni, rispetto a cui ed in cui ogni imperfe­


zione del singolo scompare; piuttosto che non dargliele, ed esclu­
derlo da ogni felicità morale, che è impensabile senza leggi mo­
rali» (§ 75).
Ed infine, terza tappa della educazione del genere umano, quel­
la del vangelo eterno, del regno dello spirito, sarà il raggiungimen­
to di quella maturità per cui l'uomo ricerca e opera la virtù ed il
bene per sé soli, non per una ricompensa, neppure eterna.
L'educazione del genere umano, la rivelazione, è da concepirsi
come operata da un Dio trascendente ( come suggerisce ad esempio
il par. 7), oppure immanentisticamente? Sulla interpretazione che è
da dare alla Educazione influisce la valutazione delle rivelazioni di
Jacobi intorno al presunto spinozismo di Lessing, contenute in una
lettera del 1783 indirizzata a Mendelssohn, e edita poi nelle Lette­
re intorno alla dottrina dello Spinoza (1785). Jacobi rivela come,
in un colloquio avuto con Lessing nel luglio 1780, quegli si fosse
dichiarato spinozista: « i concetti ortodossi della divinità non sono
più per me; non riesco a tollerarli. 'Ev xixl 1tiiv! Non so null'al­
tro»; ed è quindi portato da Jacobi a dichiararsi d'accordo con Spi­
noza: « se dovessi denominarmi secondo qualcuno, non saprei nes­
sun altro». Allo spinozismo-panteismo si legherebbe in Lessing la
negazione della libertà del volere, alla quale negazione si trovano già
altri accenni, ad esempio nelle note che accompagnano l'edizione dei
saggi di K. W. Jerusalem.
Pur non sollevandosi in genere dubbi intorno alla verità della
relazione jacobiana del colloquio, la vera portata delle espressioni
di Lessing è valutata in maniere molto diverse. Già Mendelssohn,
senza dubbio ferito per il fatto che egli, vecchio ed intimo amico di
Lessing, dovesse venire a conoscenza di questa sua tarda pre-rnnta
presa di posizione attraverso un estraneo, avanzava come probabile
spiegazione dell'episodio un fraintendimento di Lessing da prte di
Jacobi; non conoscendone il carattere, questi avrebbe preso come af­
fermazioni dogmatiche quel che non era altro che espressione della
passione e della spregiudicatezza con cui Lessing era uso valutare
i fondamenti e gli argomenti addotti in sostegno delle diverse posi­
zioni di pensiero, nella sua costante ricerca della verità; e Men­
delssohn sarebbe propenso ad attribuirgli un panteismo « purifica­
to», che affermando la assoluta dipendenza delle cose da Dio -
588 FILOSOFIA MODERNA

ma anche il non ridursi di Dio, dotato di intelligenza, alle cose


stesse - è compatibile col teismo. In ogni caso, la polemica tra
Mendelssohn e Jacobi e tutta la famosa disputa sul panteismo che
ne deriva, imperniata attorno alla figura di Spinoza, agisce come
stimolo fecondo nella cultura tedesca, e prepara il passaggio alla fi­
losofia del romanticismo e all'idealismo.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO

LA FILOSOFIA ITALIANA NEL SETTECENTO

G. B. VICO (1668-1744)

1. La vita e gli scritti

Giambattista Vico fu un autodidatta, nel senso che scelse da


sé gli autori da studiare, sospinto dalle occasioni e dalle circostan­
ze, e non li ricevette da una scuola, anche se fu attento conoscitore
dei contemporanei 1• Come narra egli stesso nell'Autobiografia,
fu da ragazzo alla scuola dei Gesuiti, dove studiò grammatica. Ri­
tiratosi dalla scuola per un sopruso che gli era stato fatto, stu­
diò da sé la logica sulle Summulae di Pietro Ispano e di Paolo Ve­
neto, ritornò quindi a scuola dove ascoltò le lezioni del Padre Giu­
seppe Ricci sulla metafisica, ma preferl leggere per conto suo le
Disputationes metaphysicae di Suarez. Si diede poi agli studi

* L'edizione completa delle Opere del Vico è quella curata da F. Nicolini, B. Croce,
G. Gentile, 8 voli., Bari, Laterza, 1914-1941; Opere filosofiche, a cura di N. Badaloni e
P. Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971. B. CROCE, F. N1coL1NI, Bibliografia vichiana, 2 voll.,
Napoli, 1947-48.
Sul Vico ci limiteremo a ricordare, per l'interpretazione idealistica: B. CROCE,
La filosofia di G. B. Vico, Bari, Laterza, 1911; G. GENTILE, Studi vichiani, Firenze,
Lemonnier, 1927; per l'interpretazione del Vico come filosofo cattolico R. .AMERIO,
Introduzione allo studio di G. B. Vico, Torino, S.E.I., 1946. Fra gli studi più recenti:
N. BADALONI, Introduzione a Vico, Milano, Ff'ltrinelli, 1961. Nel terzo centenario
della nascita è uscita una miscellanea Omaggzo a Vico Napoli, Morano, 1968. Dal
1971 si pubblica, per iniziativa di P. Piovani, un « Bollettino del Centro di Studi
vichiani», a cura della Facoltà di Magistero dell'Università di Salerno.
1
Una eccellente sintesi de La vita e le opere di Giambattista Vico è quella con­
tenuta nel volume di PAOLO Rossi, Le sterminate antichità. Studi vicbiani, Pisa, Ni­
stri-Lischi, 1969.
590 FILOSOFIA MODERNA

giuridici, anche in questi studiando da se 1 testi piuttosto che


ascoltando le lezioni di Francesco Verde. Degli « interpreti astrat­
ti » apprezzò la riduzione in « massime generali di giusto » dei
« particolari motivi dell'equità ch'avevano i giureconsulti ... », e si
rese conto poi che tali massime generali sono quelle ricavate dai
« filosofi dell'equità naturale » (Autobiografia, p. 8), ossia sono
i principi di giustizia enunciati dalla filosofia morale. Ma apprez­
zò pure la diligenza dei giuristi nel determinare il significato pre­
ciso delle leggi, e questo lo conciliò « agl'interpreti eruditi, che
poi avvertì ed estimò essere puri storici del diritto civile ro­
mano » (ibid. ). Così fu indirizzato per un verso allo studio dei
principi del diritto universale e per l'altro all'approfondimento
dello studio della lingua latina « particolarmente negli usi della
giurisprudenza romana » (ibid. ). Possiamo già vedere in questo
quell'esigenza di unire filosofia e filologia, ricerca del vero e ricerca
del certo, che il Vico farà valere nelle opere della maturità.
Esercitò per breve tempo l'avvocatura, ma il desiderio di con­
tinuare a studiare e la necessità di guadagnarsi il pane lo indus­
sero ad accettare il compito di precettore dei figli di Domenico
Rocca, marchese di Vatolla, nel Cilento, dove rimase per nove
anni. Oltre al « bellissimo sito » e alla « perfettissima aria » che
giovarono alla salute minacciata del Vico, egli trovò nel castello
di Vatolla la possibilità di studiare a suo agio. Ai suoi pupilli inse­
gnava il diritto; per sé, oltre al diritto civile e canonico, studiava
Dante, Petrarca, Boccaccio, i classici latini e greci. Dalla lettura
dell'Etica di Aristotele ricavò la persuasione che « la scienza del
giusto... procede da poche verità eterne, dettate in metafisica da
una giustizia ideale... » (op. cit., p. 13 ). Tornò quindi alla meta­
fisica; ma a quella di Aristotele, di cui già aveva sentito le riso­
nanze nel Suarez, preferl quella di Platone, « perché la metafisica
d'Aristotele conduce a un principio fisico, il quale è materia dalla
quale si educano le forme particolari e, sl, fa Iddio un vasellaio
che lavori le cose fuori di sé. Ma la metafisica di Platone conduce
a un principio fisico che è la idea eterna che da sé educe e crea la
materia medesima, come uno spirito seminale che esso stesso si
formi l'uovo... » (ibid. ). La metafisica di Platone può assai meglio
di quella aristotelica, fondare la morale « sopra una virtù o giu­
stizia ideale o sia architetta », che a sua volta è fondamento di una
ideale repubblica. Di qui il Vico fu portato a « meditare un diritto
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 591

ideale eterno che celebrassesi in una città universale nell'idea o di­


segno della providenza » (op. cit., p. 14).
Tornato a Napoli nel settembre del 1695, Vico trovò un am­
biente culturale permeato cli cartesianesimo. Già prima aveva letto
Lucrezio e forse aveva per un certo periodo vagheggiato una con­
cezione materialistica, dalla quale lo aveva ritratto lo studio di
Platone; non giudicò soddisfacente neppure la nuova fisica speri­
mentale, utile per la medicina, ma non per una « filosofia dell'uo­
mo»; ma specialmente ostile fu alla filosofia cartesiana. La fisica
cartesiana gli sembrò « machinata sopra un disegno simile a quella
di Epicuro» (op. cit., p. 21 ); lo indisponeva la poca stima che
Cartesio, nella prima parte del Discorso sul metodo, manifestava per
la storia, l'eloquenza, la poesia, e il far leva soltanto sulla mate­
matica. Molto più di Cartesio gli piacque Bacone 2, tanto da con­
siderarlo uno fra i suoi « tre singolari auttori », accanto a Plato­
ne e a Tacito (op. cit., p. 31 ).
Nel 1699 ottenne una cattedra di retorica all'Università e aprl
anche una scuola privata della medesima disciplina. All'Universi­
tà doveva tenere all'inizio di ogni anno una prolusione; fra que­
ste ha particolare importanza la settima, De nostri temporis stu­
diorum ratione del 1708, nella quale Vico critica vivacemente il
cartesianesimo inteso come pretesa di far valere il metodo matema­
tico come unico metodo valido del sapere. Ci sono scienze che
sfuggono a quel metodo, e sono le più importanti, perché sono le
scienze dell'uomo, le scienze morali; anzi la stessa fisica non può
raggiungere l'evidenza e la necessità della matematica: applicate
ai fenomeni naturali, le dimostrazioni matematiche perdono il lo­
ro rigore, perché in natura non ci sono perfette sfere, perfetti
piani ecc. E compare qui una prima anticipazione del famoso ve­
rum ipsum factum: « Dimostriamo le proposizioni geometriche
perché le facciamo; se potessimo dimostrare quelle di fisica, le fa.
remmo » 3• Il metodo matematico non solo è insufficiente ad esau­
rire lo scibile, ma esige un procedimento conoscitivo - il razioci­
nio - che non è il primo a svilupparsi nell'uomo. Vico ne trae
quindi una conclusione pedagogica: poiché nel giovane prevalgono

' Sui punti di contatto fra Vico e Bacone richiama l'attenzione P. Rossi nel­
l'opera citata.
' De nostri temporis studiorum ratione, p. 85 cit. da P. Rossi, op. cit., p. 29.
592 FIWSOFIA MODERNA

la memoria, la fantasia e l'ingegno, bisogna cominciare, nell'istru­


zione dei giovani, non dalla matematica, ma dallo studio delle lin­
gue, che esige memoria, dalla lettura dei poeti, degli storici e de­
gli oratori « per nutrire la fantasia e nello stesso tempo della geo­
metria per... preparare il dominio della ragione » 4•
Nel 1710 uscl il De antiquissima italorum sapientia ex linguae
latinae originibus eruenda. Come dice il titolo, Vico cercava nel­
la etimologia delle parole latine le tracce di una antica sapienza
italica e fra queste etimologie la più famosa è quella che, dalfa
equivalenza di significato delle parole verum e factum nella lingua
latina, trae la conclusione che già nell'antichità si doveva pensa­
re che si ha conoscenza vera solo di ciò che si fa (De antiquis­
sima I, 1; Opere, I, p. 131 ). Dunque solo Dio, che fa la natura, la
conosce con verità, l'uomo, invece, che non fa la natura, non può
averne scienza. Scienza imperfetta è quindi la fisica, che deve
sempre procedere con metodo analitico, dall'effetto alla causa,
dal prodotto ai suoi elementi costitutivi; più perfetta la geome­
tria, la matematica, che fa i suoi oggetti. Vico osserva che l'as­
sioma verum ipsum factum coincide con la tesi tradizionale che la
vera conoscenza è conoscenza per cause; infatti l'aritmetica e la
geometria dimostrano le loro proposizioni mediante le cause, « poi­
ché la mente umana contiene gli elementi delle verità, e può di­
sporli e comporli. Da tale disposizione e composizione nasce la
verità che essa dimostra; sl che la dimostrazione si identifica con
l'operazione, e il vero si identifica col prodotto (factum). E per­
ciò non possiamo dimostrare per cause le proposizioni della fisica:
perché gli elementi delle cose naturali sono fuori di noi » (De
antiquissima, I, cap. III; Opere, I, pp. 149-50). La matematica
tuttavia non è perfetta scienza, poiché gli oggetti che costruisce
sono astrazioni, non cose reali 5•

• F. .AMERIO, Introduzione allo studio di G. B. Vico, cit., p. 10.


' F. AMERIO, op. cit., p. 24, interpreta il verum-factum vichiano non come se
esso volesse dire che si conosce veramente solo ciò che si fa, che si costruisce; ma
in questo senso: si conosce solo ciò che si può ricostruire nella mente attraverso la
conoscenza dei suoi elementi costitutivi, ciò che si può spiegare, ciò di cui si può
rendere ragione. E l'Amerio richiama l'attenzione su quel primo capitolo del De
antiquissima dove si dice che, come il leggere è il raccogliere gli elementi della
scrittura, « ita intelligere sit colligere omnia elementa rei, ex quibus perfectis­
sima exprimatur idea». Cosl si spiega come il Vico, pur con l'assioma verum ipsum
factum, definisca la verità mentis cum rerum ordine conformatio (nel Diritto univ.
citato da Amerio, a p. 28) e attribuisca alla metafisica il carattere di vera scienza.
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 59;

Il De antiquissima portava il sottotitolo: Liber primus sive


metaphysicus: sarebbe dovuto seguire un Liber physicus, di cui il
primo libro dava la fondazione.
Il secondo libro non fu pubblicato, e quello che il Vico dice
della sua fisica nell'Autobiografia non ci fa rimpiangere questa
mancata pubblicazione. Anche per la fisica Vico si appoggiava al­
le etimologie: poiché coelum può significare bulino, e ingenium
significa anche natura, Vico riteneva che « la natura formi e sfor­
mi ogni forma col bolino dell'aria; e che formi, leggiermente in­
cavando, la materia; la sformi, profondandovi il suo bolino col
quale l'aria depreda tutto; e la mano che muova questo istrumento
sia l'etere, la cui mente fu creduta da tutti Giove » (Autobiografia,
p. 39). Nell'uomo, l'aria è principio della vita, l'etere principio
del senso. Poiché la piramide è la figura geometrica più vicina
al cuneo, che bulina la materia, « il principio operante di tut­
te le cose in natura dovrebbero essere corpicelli di figura pira­
midale; e certamente l'etere unito è fuoco » (op. cit., p. 44 ). Vi­
co ne ricava conseguenze sul magnetismo e sulle cause delle malat­
tie. A fondamento del mondo corporeo stanno « i punti di Zenone »
(op. cit., p. 42), cioè realtà inestese dalle quali traggono origine i
corpi, cosi come dal punto geometrico trae origine la linea.
Invece che alla redazione del Liber physicus Vico si dedicò
fortunatamente ad una lettura del De iure belli et pacis di Grozio
che divenne il suo « quarto auttore » accanto a Platone, Tacito e
Bacone, e tornò al campo preferito dei suoi studi: il diritto e
la storia. « Con questi studi, con queste cognizioni, con questi
quattro auttori che egli ammirava sopra tutt'altri, con desiderio
di piegargli in uso della cattolica religione, finalmente il Vico
intese non esservi ancora nel mondo delle lettere un sistema, in
cui accordasse la miglior filosofia ... con una filologia ... » ( op cit.,
p. 46 ), e si accinse ad elaborare un tale sistema, che doveva poi
essere esposto nella Scienza nuova.

2. La « Scienza nuova »

Un primo abbozzo è dato nel Diritto universale. Nel De uni­


versi iuris uno principio et fine uno del 1720 e nel De constanti«
iurisprudentis del 1721, il Vico cerca quella sintesi di filologia e
594 FILOSOFIA MODERNA

filosofia che espose nei Principi di una Scienza nuova d'intorno alla
natura delle nazioni, del 1725. Poiché il Vico rifece poi quest'ope­
ra nel 17 30 e di nuovo, fino negli ultimi anni della sua vita, per
una terza edizione che uscì pochi mesi dopo la sua morte nel 1744,
si distinguono una Scienza nuova prima (1725), seconda (17 30) e
terza (1744 ).
Il problema fondamentale della Scienza nuova è il problema
della storia; ora « la storia non ha ancora i suoi principi », come
dice il Vico nel Diritto universale; per trovarli bisogna operare
una sintesi di filosofia e filologia. Per filologia Vico intende non
solo lo studio del linguaggio, ma lo studio dei fatti, dei particolari;
per filosofia lo studio del necessario e dell'universale. Oggetto
della filologia è il certo, della filosofia il vero. La sintesi di
filologia e filosofia consiste nell'illuminare i fatti della storia, e
nell'integrarli, per quel che riguarda la preistoria, con la scienza
della natura umana in quanto tale, con una metafisica della mente,
per usare il termine vichiano. Per ricostruire « la prima da noi
lontanissima antichità » bisogna evitare sia « la boria delle nazio­
ni » che credono « d'essere stata ogniuna la prima del mondo »,
sia « la boria dei dotti » i quali credono che i primitivi sapessero
ciò che essi sanno. « Ma, in tal densa notte di tenebre ond'è co­
verta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo
lume eterno, che non tramonta, di questa verità...: che questo
:mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se
ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le
modificazioni della nostra medesima mente umana » (Scienza nuo­
va, 3 31 ) 6• La storia è scienza del vero, poiché è scienza di una
realtà fatta dall'uomo stesso: qui si applica il verum ipsum factum.
E Vico si stupisce che i filosofi abbiano cercato la verità nello stu­
dio del mondo naturale « del quale, perché Iddio egli il fece, es­
so solo ne ha scienza » e abbiano trascurato di meditare « su que­
sto mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché
l'avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza
gli uomini » (ibid.). Questa scienza deve usare un'arte critica, ma

' Le citazioni della Scienza nuova si riferiscono all'edizione curata da F. Nicolini


nella collezione « Classici della filosofia moderna » dell'Editore Laterza: La Scienza nuova
seconda giusta l'edizione del 1744, Bari', 1967. Dell'edizione del 1744 è dato il solo
testo. I numeri sono quelli dei capoversi.
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 595

una critica metafisica, cioè tracciare una « storia ideal eterna, so­
pra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni ne' lo­
ro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini» (Scienza nuova,
349). La storia ideale eterna deve cioè indicare le leggi alle quali
obbedisce il divenire storico. E non si tratta di leggi induttive,
ma di leggi conosciute a priori, ricavate dalla metafisica della
mente umana. « Cosl questa Scienza procede appunto come la
geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o 'l con­
templa, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con
tanto più di realità quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle
faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie
e figure» (Scienza nuova, 349).
A foggiare il mondo delle nazioni, come lo chiama il Vico, os­
sia la storia, contribuiscono due fattori: la Provvidenza divina
e l'attività umana; la Scienza nuova deve dunque scoprire come
opera la Provvidenza divina e come la natura umana. A proposito
di quest'ultima, Vico svolge il concetto che già aveva espresso nel
De nostri temporis studiorum ratione e nel De antiquissima: l'uo­
mo non è solo ragione, è anche senso e fantasia, e l'aspetto sensi­
tivo-fantastico, trascurato dai filosofi precedenti, specialmente da
Cartesio, è quello che più interessa il Vico. Secondo una « de­
gnità» (assioma) famosa della Scienza nuova (218), « Gli uomini
prima sentono senz'avvertire, dappoi avvertiscono con animo per­
turbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura».
A questi tre momenti fondamentali corrispondono tre età
della storia: quelle degli dèi, degli eroi e degli uomini: « l'età de­
gli dèi, nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto
divini governi, e ogni cosa essere lor comandata con gli auspici
e con gli oracoli; ... - l'età degli eroi, nella quale dappertutto
essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi
reputata differenza di superior natura a quella de' lor plebei; - e
finalmente l'età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero es­
ser uguali in natura umana, e perciò vi si celebrarono prima le re­
pubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe
sono forme di governi umani... » (Scienza nuova, 31).
Nel momento sensitivo-fantastico gli uomini si esprimono con
la poesia, che è una metafisica fatta per immagini anziché per con­
cetti. Qui sta una delle tesi più originali del Vico. « Le poetiche
596 FILOSOFIA MODERNA

del tempo, infatti, come le precedenti, osserva F. Amerio 7, consi­


deravano la poesia quale frutto di una mente evoluta e di una ci­
viltà raffinata, la consideravano un lusso e una superfluità, un
ornamento e un diletto »; il Vico afferma invece che la poesia è
una espressione naturale e quindi necessaria dello spirito umano
nel suo momento sensitivo-fantastico. Osserva infatti il Vico:
« Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile,
appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del pia­
cere, quindi si dissolvono nel lusso ... » (Scienza nuova, 241). Se,
dunque, la poesia fosse un diletto, un lusso, essa dovrebbe compa­
rire molto tardi nella storia dell'umanità; e invece la troviamo
agli albori della storia. « Adunque la sapienza poetica, che fu la
prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una meta­
fisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottri­
nati, ma sentita e immaginata quale dovett'essere di tai primi
uomini, siccome quelli ch'erano di niuno raziocinio e tutti robu­
sti sensi e vigorosissima fantasia... Questa fu la lor propria poe­
sia, la qual in essi fu una facultà lor connaturale ... Tal poesia
incominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch'essi im­
maginavano le cagioni delle cose, che sentivano ed ammiravano,
essere dèi... nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate da­
vano l'essere di sostanze dalla propria lor idea ... », creavano,
cioè, esseri fantastici (Scienza nuova, 375).
In questa scoperta, del carattere naturale e necessario della
poesia come prima forma di espressione, Vico vede « la chiave
maestra di questa scienza » (Scienza nuova, 34 ), cioè della Scienza
nuova. Essa spiega il carattere del mito, delle antiche favole, le
quali non sono false, ma sono l'espressione poetica di una verità:
cosi gli antichi Egiziani facevano dipendere i ritrovati utili al ge­
nere umano dalla rivelazione di Mercurio Trimegisto, perché que­
sta era l'espressione fantastica del « genere intelligibile di " sap­
piente civile" » (Scienza nuova, 209). Ecco perché le origini dei
popoli sono tutte leggendarie, favolose: non perché coloro
che ci hanno trasmesso queste favole volessero di proposito rac­
contare favole, ma perché questo è il modo in cui gli uomini pri­
mitivi raccontano la verità. Le religioni dei gentili, in partico­
lare il politeismo greco, sono espressione del modo fantastico di
1 Op. cit., p. 177.
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 597

vedere e sentire la religione. Ad esempio: gli uom1m prim1t1v1,


spaventati dai temporali, « si finsero il cielo esser un gran corpo
animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle
genti dette " maggiori ", che col fischio de' fulmini e col fragore
de' tuoni volesse loro dir qualche cosa ... In tal guisa i primi poe­
ti teologi si finsero la prima favola divina, la più grande di quan­
te mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uo­
mini e degli dèi, ed in atto di fulminante ... » (Scienza nuova, 377
e 3 79 ). Vico tuttavia, come osserva P. Rossi, distingue la storia
sacra e la rivelazione fatta da Dio al popolo ebraico dalla storia
profana, ossia la storia dei popoli pagani e delle loro religioni 8•

3. La Provvidenza divina
Ma la storia, e specialmente il passaggio dall'una all'altra delle
tre età, non si spiegano solo con la metafisica della mente umana:
un altro fattore interviene: la Provvidenza divina.
Vi è stata una età tutta senso, quasi bestiale, in cui non ci
sono né famiglie né stati; quindi si fondano le famiglie, e la pri­
ma società civile ha carattere familiare. Alle famiglie fondate
dai più abili e dai più forti si uniscono poi come servi i più de­
boli per cercarvi protezione. Cosl si passa all'epoca degli eroi,
caratterizzata dalla forma di governo aristocratica (Scienza nuo­
va, 248-252); di qui si passa a quella popolare e poi a quella mo­
narchica (Scienza nuova, 1006 ). Ora la considerazione di que­
sto « corso delle nazioni » dimostra l'esistenza di un Dio provvi­
dente, con più evidenza di quanto non la dimostri il corso della
natura. « Perciò questa Scienza, per uno de' suoi principali aspet­
ti, dev'essere una teologia civile ragionata della provvedenza di-

• Questi, « sono problemi centrali nella cultura del Seicento e del primo Set­
tecento e Vico ha di fronte a sé avversari ben chiaramente individuati e individuabili.
La sua critica è rivolta, in primo luogo, contro quegli studiosi che hanno pericolosa­
mente mescolato la storia del popolo ebraico a quella dei popoli pagani, o che, come
il Marsham e lo Spencer, hanno addirittura preteso che la sapienza ebraica derivasse
da quella degli Egiziani... Vico non rifiuta soltanto la tesi di una dipendenza della
storia ebraica da quella profana. Respinge con decisione anche ogni tentativo di il­
lustrare la storia sacra mediante la profana e, in questo senso, prende posizione con­
tro le opere di Johan Selden, di Daniel Huet, di Samuel Bochart. Suo scopo preciso
è l'affermazione di due paralleli sviluppi della storia umana il primo dei quali, rela­
tivo al popolo ebraico, è documentato dalla Bibbia, il secondo dei quali, relativo
alle nazioni gentili, è documentato dai poemi omerici e dalla legislazione delle dodici
tavole». P. Rossi, Le sterminate antichità, p. 50.
598 FILOSOFIA MODERNA

vina. La quale sembra aver mancato finora, perché i filosofi o


l'hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei... ; o
l'hanno considerata solamente sull'ordine delle naturali cose, on­
de ' teologia naturale ' essi chiamano la metafisica, nella quale
contemplano questo attributo di Dio, e 'l confermano con l'ordine
fisico che si osserva ne' moti de' corpi, come delle sfere, degli
elementi, e nella cagion finale sopra l'altre naturali cose minori
osservata. E pure sull'iconomia delle cose civili essi ne doveva­
no ragionare... Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazio­
ne, per cosi dire di fatto istorico della provvedenza, perché dee es­
sere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgi­
mento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomi­
ni, ha dato a questa gran città del gener umano... » (Scienza nuo­
va, 342).
È indicata qui la cosi detta legge dell'eterogenesi dei fini, che
si potrebbe sintetizzare cosi: nella storia c'è finalità, si raggiun­
gono dei fini che fanno progredire l'umanità; ma questi fini so­
no diversi da quelli che si propongono gli individui nell'operare;
e siccome dove c'è finalità c'è intelligenza, nella storia opera,
oltre all'uomo, una intelligenza diversa e superiore a quella uma­
na. Se ammiriamo la sapienza dei legislatori umani, Licurgo, Solo­
ne, i decemviri, che fondarono « le tre più luminose città », Spar­
ta, Atene e Roma, che però durarono per un tempo relativamente
breve, quanto più dobbiamo stupirci di fronte al fatto che tutto il
genere umano, « l'universo de' popoli », si conservi e duri in modo
tale che anche dai vizi degli uomini risulti talora una utilità socia­
le. « E non dobbiam dire ciò esser consiglio d'una sovrumana sa­
pienza, la quale, senza forza di leggi ..., ma facendo uso degli stes­
si costumi degli uomini, ella divinamente la regola e la conduce?
Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazio­
ni... ma eglì è questo mondo, senza dubbio uscito da una mente
spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore
ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti... Im­
perciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disper­
dere i loro parti, e ne fanno la castità de' matrimoni, onde sur­
gono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl'im­
peri paterni sopra i clienti, e gli assoggettiscono agl'imperi ci­
vili, onde surgono le città; vogliono gli ordini regnanti de' no­
bili abusare la libertà signorile sopra i plebei, e vanno in ser-
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 599

vitù delle leggi, che fanno la libertà popolare; vogliono i popoli


liberi sciogliersi dal freno delle lor leggi, e vanno nella sogge­
zione de' monarchi... vogliono le nazioni disperdere se medesime,
e vanno a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, donde, qual
fenice, nuovamente risurgono. Questo, che fece tutto ciò, fu pur
mente, perché 'l fecero gli uomini con intelligenza; non fu fato,
perché 'l fecero con elezione; non caso, perché con perpetuità,
sempre così faccenda, escono nelle medesime cose ». (Scienza nuo­
va, 1107-1108).
Le parole « le nazioni che ... qual fenice risurgono » ci ricordano
la teoria dei ricorsi, che Vico ha esposto poco prima: la storia
non è un continuo progresso: ci sono ritorni di situazioni che sem­
bravano superate. Così il medioevo è in certo senso un ritorno alla
età degli eroi, con la sua violenza e la sua barbarie, l'epoca con­
temporanea ( al Vico) rinnova certi caratteri dell'antichità greca
e romana. Ma l'abbondanza può generare la « sfrenata passione del
lusso, dell'avarizia, dell'invidia, della superbia e del fasto» che
fa ricadere nella barbarie, e in una barbarie peggiore della prima,
perché « barbarie della riflessione» (Scienza nuova, 1105-1106).
Fra i meriti principali del Vico dobbiamo sottolineare la sua
attenzione al mondo della storia, mondo fatto dagli uomini, in una
epoca nella quale l'interesse prevalente, se non esclusivo, era
rivolto alla scienza della natura. La storia comprende per il Vi­
co tutte le manifestazioni dell'uomo: non solo le attività con­
sapevoli e razionali, ma anche, anzi sopra tutto, quelle emotive
e fantastiche: di qui il suo interesse per la poesia, per il lin­
guaggio, per le componenti extra-razionali dell'attività politica:
la Scienza nuova vuol essere appunto scienza del mondo umano in
tutta la sua complessità.

L'ILLUMINISMO ITALIANO*

Dell'illuminismo si potrebbe dire quello che Aristotele dice


dell'essere, e cioè che si predica in molti modi; accanto infatti ad
alcuni caratteri comuni: culto della ragione, e in particolare del-

* Un'ampia raccolta di testi è quella dedicata agli Illuministi italiani nella col­
lezione « La Letteratura italiana. Storia e testi », Milano-Napoli, R. Ricciardi Editore;
600 FILOSOFIA MODERNA

la nuova scienza, critica del passato, speciahnente della scolastica,


atteggiamento critico - che non vuol sempre dire negatore -
di fronte alla religione e all'autorità politica - caratteri già emer­
si nei precedenti capitoli sull'illuminismo inglese, francese e te­
desco - molti altri sono diversi nei diversi autori, e anche quelli
comuni sono presenti in diverso grado.
Si parla di un pre-illuminismo in Italia, determinato sopra
tutto dalla nuova scienza, la scienza galileiana, e dalle Accade­
mie, del Cimento a Firenze, dei Lincei a Roma, degli Investigan­
ti a Napoli, nelle quali si riunivano uomini che cercavano di ap­
plicare i nuovi metodi, sopra tutto l'osservazione e la matemati­
ca, alla scienza della natura. TOMMASO CORNELIO (1614-1684)
aveva fatto conoscere a Napoli le opere degli stranieri, sopra tutto
di Cartesio, ma anche dei suoi avversari, come Gassendi, e degli
inglesi: Bacone, Newton, Boyle; si stringevano rapporti con le
Accademie straniere, specie con la Royal Society. Il sospetto del­
le autorità ecclesiastiche, che già avevano condannato Galileo, di
fronte ai cultori della nuova scienza determina spesso in co­
storo una insofferenza verso quelle: sono frequenti infatti le po­
lemiche tra i fautori della nuova scienza e delle nuove filosofie
e i difensori a oltranza della scolastica. Da una parte e dalla
altra si fanno contaminazioni di scienza e filosofia: i fautori del­
la nuova scienza sono anche seguaci delle nuove filosofie - al­
cuni sono cartesiani, altri seguaci di Locke, molti passano da un
iniziale cartesianesimo alla filosofia lockiana -; i difensori del­
la scolastica sospettano anche della nuova scienza. Lo spirito no­
vatore si fa sentire non solo nelle scienze della natura, ma anche
negli studi storici e giuridici, nei quali si sente l'influsso di Hob­
bes e dei giusnaturalisti tedeschi. Negli studi storici il rispetto
dell'esperienza vuol dire in primo luogo ricerca e rispetto del do­
cumento, quindi critica del documento stesso, come vedremo a
proposito del Muratori.

specialmente i volumi III e V curati da F. Venturi e dedicati rispettivamente ai


Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, 1958 e ai Riformatori napoletani, 1962.
Sull'illuminismo italiano in generale: G. CAPONE BRAGA, La filosofia francese e
italiana del Settecento, 3 voll., Padova, Cedam, 2• ediz. 1942; La cultura illumini­
stica in Italia, a cura di M. Fubini, Torino, Edizioni R.A.I., 1957; E. GARIN, Sto­
ria della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 1966, volume terzo; F. VENTURI, Sette­
cento riformatore, Torino, Einaudi, 1969; P. CASINI, Introduzione all'illuminismo, Bari,
Laterza, 1973 (capitoli IV e VII) con ampia bibliografia.
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 601

Fra i rappresentanti del preilluminismo Paolo Casini ritiene


figure emblematiche LORENZO MAGALOTTI (1636-1712) e MICHE­
LANGELO FARDELLA (1650-1718). Il primo fu segretario dell'Ac­
cademia del Cimento e in questa qualità pubblicò i Saggi di natu­
rali esperienze, compiute nell'Accademia stessa. Viaggiò molto e
fece conoscere in Italia molti autori inglesi: Hobbes, Charleton,
Barrow, Sydenam, Collins e Hooke. Negli anni 1683-84 compose
le Lettere familiari contro l'ateismo, che furono pubblicate postu­
me, nelle quali risponde alle obiezioni non tanto contro l'esistenza
di Dio, allora negata da pochi, almeno esplicitamente, quanto con­
tro la concezione cattolica di Dio e dell'origine del mondo. Chi ri­
tiene che illuminismo, antiscolastica, anticurialismo equivalga ad
ateismo - in singolare accordo con quello che ritenevano i cen­
sori ecclesiastici di allora, - opina che queste lettere siano sta­
te scritte solo per premunirsi dalle persecuzioni, ma anche allora
non erano pochi coloro che ritenevano che i « lumi dell'intelletto »
non fossero incompatibili con la fede religiosa.
Uno di questi sembra essere MICHELANGELO FARDELLA. Fran­
cescano prima, prete secolare poi, si interessò sopra tutto di mate­
matica e fisica. « La sua formazione si completò a Parigi, ove tra­
scorse tre anni nella cerchia di Malebranche, Arnauld, Bernard La­
my » (Casini 9, p. 283). Tornato in Italia e divenuto professore di
« astronomia e meteore » nell'Università di Padova, pubblicò nel
1691 una Universalis Mathesis Theoria e una Universalis Mathesis
Historia, e un Universae philosophiae systema « largamente ispira­
to alla Logica dei maestri di Port-Royal » nel quale rifiuta sia l'ec­
cessiva riverenza per gli antichi come l'eccessiva innovandi libido
(Casini, p. 285). P. Casini chiama « singolare resipiscenza gnoseo­
logico-metafisica » il suo Animae humanae natura ab Augustina de­
tecta, scritto tra il 1695 e il 1698, nel quale accentua il dualismo
cartesiano fra materia e spirito e afferma l'assoluto distacco del­
l'anima umana dal corpo. Ma anche Malebranche, come ricorda lo
stesso Casini, aveva visto nella metafisica agostiniana la condizione
per affermare la riduzione del mondo corporeo a pura estensione,
a idea dell'estensione; già Cartesio aveva visto nella metafisica
agostiniana delle Meditazioni « i fondamenti della sua fisica ». Al-

• Citeremo brevemente cosi il volume Introdu7.ione all'illuminismo cit.


602 FILOSOFIA MODERNA

tri del resto, come il Valletta e il Gravina (riprendendo, non 50


se consapevolmente o meno, una opinione bonaventuriana) ritene­
vano che Aristotele e « gli Arabi » fossero maestri di empietà, e la
:filosofia moderna fosse invece in accordo col cristianesimo (Ca -
sini, pp. 294-301).
A Napoli professano la filosofia « moderna », che si ispira a
Cartesio, e insieme anche a Gassendi per l'atomismo, FRANCESCO
D'ANDREA (1625-1698), GIUSEPPE VALLETTA (1636-1714), Co­
sTANTINo GRIMALDI (1667-1750), tutti e tre giuristi, avversi alle
ingerenze delle autorità ecclesiastiche nella vita civile. Il Valletta
è anche autore di una Istoria filosofica e di una Lettera in difesa
della moderna filosofia. Cartesiano fu anche GREGORIO CALOPRE­
SE (1650-1715); mentre da una adesione a Cartesio tornò al pla­
tonismo in forma tradizionale PAOLO MATTIA DoRIA (1666-1746).
Per la sua fiducia nella ragione, per l'apprezzamento del « buon
gusto », che è poi il senso critico, per l'esigenza che il sapere
abbia anche una funzione pratica e serva a migliorare gli uomi­
ni, materialmente e spiritualmente, per la sua scarsa simpatia ver­
so Aristotele e la scolastica, può essere considerato illuminista
anche LUDOVICO ANTONIO MURATORI (1672-1750) '°, pure since­
ramente religioso e profondamente fedele alla Chiesa cattolica.
Motivi ilhministici o preilluministici si riscontrano anche nel­
la sua opera di storico. G. Falco 11 cita fra « gli spunti più vivi
e fecondi degli Annali: la polemica contro la storiografia teologica
e provvidenziale, la spregiudicatezza verso l'azione temporale del
papato, la rivalutazione della barbarie e del medioevo in confronto
di Roma e di Bisanzio » e come motivi preilluministici « l'aperta
battaglia per il trionfo della " verità ", il costante riferimento del
passato ai problemi e agli ideali del presente », inoltre l'avversione
alle superstizioni, ai duelli, le preoccupazioni sociali. Il Falco ricor­
da però anche che il Muratori non è fautore della tolleranza reli­
giosa e loda la revoca dell'Editto di Nantes. Si è accennato alle sue
Rifiessioni sopra il buon gusto, dove egli scrive: « Noi per buon
gusto intendiamo il conoscere ed il poter giudicare ciò che sia di-

'° Sul Muratori si vedano le ampie Introduzioni di P. G. NoNIS a L. A. MURA­


TORI, Il trattato della carità cristiana, Roma, Edizioni Paoline, 1961; L. A. MURATORI,
La filosofia morale, ibid., 1964, che danno anche abbondanti ragguagli bibliografici.
11 L A. Muratori e il preilluminismo, ne La cultura illuministica in Italia, cit.
pp. 23-42.
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 603

fettoso o imperfetto o mediocre nelle scienze o nelle arti, per guar­


darsene, e ciò che sia il meglio o il perfetto per seguirlo a tutto
potere» (cit., da P. ZAMBELLI, La formazione filosofica di A. Ge­
novesi, p. 114 ). Contrario al buon gusto è per esempio il seguire
ciecamente la filosofia aristotelica, « l'unica strada che conduce al­
cuni a certe cattedre», ma « Aristotele in molte cose ha perduta
di vista la verità e in moltissime è vinto dalla diligenza e acu­
tezza d'altri filosofi antichi o moderni» (ibid., p. 115). Non bi­
sogna quindi seguire l'autorità di nessun uomo, ma adoperare « la
libertà dell'ingegno per andare in cerca del vero». A Cartesio il
Muratori riconosce il merito di aver demolito la parete (aristote­
lica) che chiudeva gli studiosi e di avere scoperto che quella
parete era fatta di carta. Alla logica e alla metafisica auspica
« si taglino molte penne», perché non svolazzino in questioni inu­
tili e siano invece adoperate per scoprire la verità, e specialmen­
te verità utili agli uomini. Anche la matematica è apprezzata dal
Muratori sopra tutto per le sue applicazioni « alle arti pratiche
e meccaniche. Così... il popolo stesso potrebbe sentirne gran co­
modo e vantaggio» (cit. da P. Zambelli, p. 122).
Non nega il valore della vita contemplativa, ma osserva: « Per
altro se merita encomj chi si ritira dal mondo per contemplare Dio
e vivere a Dio, più ancora è comendabile chi nello stesso tempo
sa vivere a Dio, e, senza uscire dal commercio degli uomini, sa
giovare agli altri uomini» (La filosofia morale, ed. Nonis, cit.,
pp. 175-76). « A me basta solo di dirvi, scrive in una lettera, che
il vero filosofare fuori delle materie di fede consiste nel segui­
re la scorta della Ragione, e nella Fisica ancor quella della spe­
rienza, e non già nel seguire a chiusi occhi l'autorità degli an­
tichi Maestri... Perché vogliamo noi adottare ancor gli errori al­
trui, e con poco saggio ossequio difendere più l'autorità parti­
colare, che la ragione universale? » (cit. da Nonis nell'Introdu­
zione a La filosofia morale, p. 138). La ragione umana è però
limitata, Muratori lo ripete spesso, quindi l'uomo ha bisogno, ol­
tre alla ragione, della religione. « Né già col nome di religione
intendo io lo studio della teologia, o dogmatica o scolastica o mo­
rale, dietro a cui saggiamente impiegano non pochi tante fati­
che ... Per religione intendo il credere, adorare, amare ed ubbidir
Dio nella forma che a noi fu prescritta da Cristo salvator nostro...»
(La filosofia morale, pp. 17-18). Di questa religione, la religione
604 FILOSOFIA MODERNA

cristiana, il comandamento fondamentale è la carità, alla quale


il Muratori dedicò un trattato del quale il Nonis ha messo in ri­
lievo il valore. Né si limitò solo a predicarla, ma la praticò
operosamente istituendo a Modena una Compagnia della carità,
per aiutare i poveri, retta con criteri equilibrati e aderenti al­
le situazioni concrete. Quanto ritenesse necessario richiamare a
questo fondamentale precetto cristiano è attestato da molti passi
dei suoi scritti; ne citeremo uno: « Così da che una persona si
trova rigid� nella custodia della sua purità ed inflessibile a tutti
gli assalti della propria o dell'altrui concupiscenza, digiuna, fre­
quenta i templi e le divozioni, e s'accosta anche due volte la set­
timana alla sacra mensa: forse a lei parrà di essere un vaso di
virtù. Perdona, chieggo io ancora, a' suoi nemici? Paga ella i
suoi debiti? Strapazza ella alteramente la sua servitù? » (La filo­
sofia morale, p. 231). E poco prima aveva osservato: « Alcuni si
fanno scrupolo di sputare in Chiesa, che poi svaligiano l'altare ».
Non era dunque necessario arrivare all'esasperazione di un Carlan­
tonio Pilati 12 per reagire alle storture della coscienza religiosa del
tempo. Con profondo rispetto per l'autorità ecclesiastica, ma con
tenacia e coraggio, senza temere di perdere anche amicizie preziose,
il Muratori combatté queste storture: certe esagerazioni nel culto
dei santi, il moltiplicarsi delle feste in loro onore, che moltiplicava
anche i giorni di astensione dal lavoro, unico mezzo di sostentamen­
to per tanti uomini. È giusto che la devozione verso i santi « sia tal­
mente temperata, che per cagione del loro onore non patiscano,
non istentino maggiormente e non crescano i poverelli nel mondo »
(Della regolata devozione dei cristiani, p. 205) 13•
Il più filosofo degli illuministi italiani è ANTONIO GENOVES r 13 bis
(1713-1769), che per molti anni professò l'insegnamento della :6.­
losofìa nell'Università di Napoli e in una sua scuola privata. Le
sue opere sono in massima parte il frutto delle sue lezioni: dagli
Elementa Metaphysicae (1743; le ultime due parti uscirono nel
1751-1752) agli Elementa artis lof!,ico-criticae (1745), alla Logi­
ca per li giovanetti (1766), Metafisica per li giovanetti (1766),
Diceosina (1766). Ricordiamo inoltre le Lettere filosofiche (17 59)
12
Si vedano i testi e l'introduzione di F. Venturi nel III volume degli Illuministi
italiani, cit. pp. 563-643.
13 Cito dall'edizione curata da G. PISTONI, Roma, Edizioni Paoline, 1957.
13 •;• P. ZAMBELLI, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Napoli, Morano, 1972.
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 605

e le Lettere accademiche (1764). Nel 1748 concorse alla cattedra


di teologia nell'Università (era sacerdote), ma il manoscritto che
egli presentò non fu giudicato ortodosso dai censori ecclesia­
stici, e il Genovesi non ebbe la cattedra di teologia né gli fu per­
messo di pubblicare il testo presentato, che uscl postumo, nel 1771,
col titolo Universae theologiae christianae elementa. Già prima
del 1748, del resto, si erano levate accuse di eterodossia contro il
Genovesi; ma egli era sempre riuscito a sventarle. Gli si rim­
proverava una eccessiva dimestichezza con autori eretici (prote­
stanti), che egli avrebbe troppo citato e troppo poco confutato,
e una « libertà di filosofare» che non si addiceva a un cattolico.
Il Genovesi ebbe però all'Università la cattedra di etica, e già que­
sto insegnamento lo portò sempre più agli studi di problemi so­
ciali. Stimolato anche da Bartolomeo Intieri, « singolare figura di
scienziato e di grande amministratore di feudi, di inventore e di or­
ganizzatore» 14, si dedicò a studi di economia, lesse le opere dei
neomercantilisti spagnoli Urtariz e Ulloa, dei francesi, degli in­
glesi Joshua Gee, John Cary, i Saggi di Hume e nel 1754 ebbe la
cattedra di « Commercio e meccanica» - la prima cattedra di eco­
nomia - nell'Università di Napoli.
Il Venturi riconosce che « L'esigenza metafisica, sistematica,
era profonda e radicata in lui. Quando scriveva gli Elementa
[ metaphysicae] del 1743 egli era giunto ad una prima tappa di una
strada che era partita dai platonici di Cambridge, i quali profon­
da impressione avevano fatto su di lui, e che da Cudworth... da
Tillotson giungeva alla cultura anglo-olandese che possiamo chia­
mare post-lockiana e post-newtoniana: Le Clerc, Muschenbroek,
Clarke. Una concezione cioè della natura ed una visione ammirata
del cosmo che si dischiudeva di fronte allo scienziato moderno »
(Venturi, loc. cit., p. 8). P. Zambelli, che ha dedicato al Genove­
si la migliore e più ampia opera, indaga ad uno ad uno i canali at­
traverso i quali gli giunsero queste conoscenze e conclude che
quello del Genovesi fu un « eclettismo programmatico». Essere
eclettico per lui voleva dire usare senso critico, quel iudicium
che gli italiani chiamano buon gusto e i francesi bon sens (Zam­
belli, op. cit., p. 323); « libertà nel filosofare», voleva dire

14 F. VENTURI, Nota introduttiva ai testi del Genovesi in Illuministi italiani, cit.,


tomo V, p. 15.
606 FILOSOFIA MODERNA

libertà da ogni autorità umana, e rationabile obsequium all'auto­


rità divina. Il settarismo che egli avversa in primo luogo è quel­
lo aristotelico, e si capisce, poiché era quello che più si era im­
posto nelle scuole, ma il suo anti-aristotelismo non lo volge ver­
so Platone, al quale rimprovera di aver generato molte eresie,
e che, sopra tutto, è lontano dalla sua convinzione che ogni teo­
ria debba essere saldamente ancorata all'esperienza. Si capisce
che anche a lui, come al Muratori, piaccia quella « teologia fìsi­
ca » inaugurata dai newtoniani, che cercava nelle nuove teorie
scientifiche lo spunto per dimostrare l'esistenza di Dio e la Prov­
videnza. Ma quello che la Zambelli ha messo in luce è che il Ge­
novesi si occupò di teologia non solo per concorrere alla catte­
dra, ma per un interesse personale. Certo non gli piaceva la teo­
logia scolastica, dava gran peso alla teologia naturale o raziona­
le; per la teologia fondata su dottrine rivelate cercava quello che
c'era di comune fra le diverse concezioni cristiane; oggi si di­
rebbe era fautore dell'ecumenismo, il che allora era assai peri­
coloso, ma il suo interesse per la teologia era autentico, come
provano le diverse redazioni del suo trattato scoperte dalla Zam­
belli, e anche quando si dedicò allo studio e all'insegnamento del­
l'economia - disciplina che rispondeva al suo ideale di un sa­
pere utile all'umanità - la vide sempre inquadrata in una conce­
zione della vita la cui ultima giustificazione è data dalla fìlosofìa
e dalla religione. Nella Logica per li giovanetti, che è della piena
maturità, il Genovesi scrive: « Sentir la voce di Dio, sentirla
colla sua propria grandezza e unzione; spiegarla con la semplici­
tà de' primi savi cristiani; annunziare semplicemente la voce del­
la Chiesa universale, senza dispute, parmi la più bella e la sola
utile teologia. Perché quando la teologia non tende a far gli uo­
mini più giusti, più moderati, più umani, meno confidenti nella
presente vita, più nell'altra e vera; quando non tende ad unire né
per forza, né per amore, tutto il genere umano, è o inutile o noce­
vole » (cit. da P. Zambelli, p. 778).

Fra coloro che sentirono l'influsso del Genovesi si può distin­


guere una sinistra e una destra, o piuttosto, come dice F. Ventu­
ri: « da una parte una corrente più utopistica e feconda insieme,
composta da Francescantonio Grimaldi, Gaetano Filangieri, France­
sco Mario Pagano », dall'altra un'ala « più provinciale, più legata
LA FILOSOFIA ITALIANA NEL '700 607

a problemi concreti e immediati » (Illuministi italiani, tomo V,


pp. XV-XVI), rappresentata specialmente da Giuseppe Maria Ga­
lanti, Giuseppe Palmieri e Melchiorre Delfìco. Il fratello maggiore
di Francescantonio GRIMALDI, DOMENICO si occupò sopra tutto di
migliorare l'agricoltura introducendo nuove tecniche che aveva vi­
sto all'opera in Liguria, in Provenza e in Piemonte; FRANCESCAN­
TONIO (1741-1784) cominciò come giurista, e dal diritto passò a
concezioni più generali sull'uomo. In una Vita di Diogene cinico af­
fermò che la radice della libertà sta non in questa o quella forma po­
litica, ma nella riduzione dei bisogni al minimo. La soddisfazione
dei bisogni porta fatalmente all'ineguaglianza e quindi alla sogge­
zione di alcuni e al predominio di altri. La società, che è lo stato
naturale dell'uomo, implica l'ineguaglianza. « Non si poteva volere
insieme la virtù del primitivo, l'indipendenza del selvaggio, e la
cultura » 15• Il problema è quello di conciliare l'aspirazione all'ugua­
glianza con la vita civile, e non sembra che tale problema si possa
risolvere per il Grimaldi.
Fiducioso nelle riforme per migliorare le condizioni umane è
invece GAETANO FILANGIERI (1753-1788), la cui opera maggiore
è la Scienza della legislazione. La filosofia deve fornire i principi
generali della legislazione, perché le leggi devono rispondere al­
le esigenze della ragione, e la ragione è contraria alle preroga­
tive feudali, sopra tutto al diritto alla giurisdizione nel proprio
feudo. I magistrati debbono essere indipendenti dai feudatari,
non ci deve essere una magistratura ereditaria. Per quanto ri­
guarda le leggi penali, il Filangieri è vicino alle idee del Becca­
ria, anche se, dice il Venturi, non ne ha la « consequenziarietà
contrattualista e utilitarista » (Nota introduttiva, p. 633). Egli am­
mette infatti la pena di morte, ma vuole che la si riservi solo ai
più gravi reati. Per formare in tutti una coscienza civile egli pro­
pone una educazione pubblica, cioè una scuola di stato, per tutti
i cittadini; per ciò che riguarda i provvedimenti economici auspica
la più ampia distribuzione della proprietà.
Idee simili professa MELCHIORRE DELFICO (1744-1835) per
ciò che riguarda l'abolizione dei privilegi feudali. Anche per lui
« un aspetto almeno del feudalismo doveva essere intaccato subito,

15 F. VENTURI, in Illuministi italiani, tomo V, p. 519.


608 FILOSOFIA MODERNA

quello che riguardava non la proprietà o i privilegi economici,


ma la giurisdizione esercitata sulle loro terre dai baroni. Del­
fico fu cosl uno di coloro che contribuirono, in quegli anni, a
dare alla polemica contro i feudi una forma e un contenuto legale
prima ancora che sociale ed economico» 16• Le sue idee sociali e
morali (è autore tra l'altro di Indizi di morale) poggiavano su
una concezione filosofica ispirata a Locke e a Condillac, tenden­
zialmente materialistica e irreligiosa: « La religione è sempre
stata la sapienza degli ignoranti, scrive egli» (cit. da F. VENTU­
RI, loc. cit., p. 1166).
Di FRANCESCO MARIO PAGANO (1748-1799) che morl giustiziato
per aver fatto parte del governo della Repubblica partenopea e aver
partecipato alla resistenza armata in difesa della repubblica, ri­
cordiamo i Saggi politici, nei quali interpreta la concezione vi­
chiana della storia alla luce delle teorie di N. A. Boulanger e di
Ferguson. « In realtà quel che Vico gli aveva insegnato, al di là
di ogni critica e riserva di dettaglio, era a guardare alla perma­
nenza, al ripresentarsi nella storia di alcune situazioni fondamen­
tali, ad osservare soprattutto le profonde somiglianze tra la prima
e la seconda barbarie, tra il mondo arcaico e quello feudale»
(Venturi, loc. cit., p. 802). Nelle Considerazioni sul processo
criminale (aveva la cattedra di giurisprudenza criminale nell'Uni­
versità di Napoli) e nel suo corso, pubblicato postumo, sulla
Ragion criminale combatte la tortura e « gli aspetti più atroci
dell'antica procedura» (Venturi, loc. cit., p. 821).
Ma l'opera più famosa per la riforma del diritto penale è Dei
delitti e delle pene di CESARE BECCARIA (1738-1794). Il Beccaria
fa parte di quel gruppo di riformatori lombardi che si riunirono
intorno alla rivista « Il Caffè» e costituirono l'Accademia dei Pu­
gni; ne fecero parte Pietro e Alessandro Verri, Alfonso Longo,
G. B. Biffi, Giuseppe Gorani. In una lettera al traduttore francese
della sua opera più famosa, il Morellet, C. Beccaria parla di una
sua conversione alla filosofia, intorno al 1760. Era la filosofia de­
gli enciclopedisti, tendenzialmente materialistica, utilitaristica in
morale, contrattualistica nella concezione del diritto. Il fine di ogni
legislazione dovrebbe essere la massima feticità divisa nel maggior

16 F. VENTURI, ibid., p. 1173.


LA FILOSOFIA 1TALIANA NEL '700 609

numero, e invece le leggi sono spesso espressione solo di volontà di


potenza e l'applicazione delle pene ai loro trasgressori si esercita in
forme crudeli. Entrando in società, gli uomini hanno ceduto solo
quel tanto di libertà che era necessario cedere per essere difesi;
il diritto, in particolare il diritto di punire, deriva solo dall'« ag­
gregato » delle porzioni di libertà cedute dagli individui; la giustizia
è « il vincolo necessario per tenere uniti gl'interessi particolari,
che senz'esso si scioglierebbero nell'antico stato d'insociabilità »
(Dei delitti e delle pene, par. II). Delitti sono le azioni che distrug­
gono la società o direttamente o indirettamente, danneggiandone
i membri. Il fine delle pene è quello d'« impedire il reo dal far
nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne
uguali » (par. XII). Ora a questo fine non risponde la tortura né
la pena di morte. « Non vi è libertà ogni qual volta le leggi per­
mettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di esser persona e di­
venti cosa » (par. XX). Questa affermazione, forse, più delle pre­
messe esplicite, utilitaristiche e contrattualistiche, guida il di­
scorso del Beccaria, e può stupire oggi, se non si pensi alla situa­
zione storica, ai pregiudizi anticristiani coi quali era associata
spesso la professione di ortodossia cattolica, che l'opera del Bec­
caria fosse violentemente criticata in nome dell'ortodossia dal mo­
naco vallombrosano Ferdinando Facchinei, in un libro uscito nel
1765, un anno dopo la pubblicazione dell'opera del Beccaria. Né
quella del Facchinei fu la sola critica. D'altra parte l'opera, apprez­
zata da D'Alembert e da Voltaire, spiacque, come troppo mode­
rata, a Diderot e a Mably (Casini, p. 523 ). Alcuni ammiratori del
Beccaria si aspettavano da lui un compiuto trattato di diritto pe­
nale, che applicasse le idee espresse nel Dei delitti e delle pene,
ma il Beccaria vi rinunciò, e declinò pure un invito di Caterina II
di Russia a Pietroburgo, dove avrebbe dovuto consigliare la Com­
missione per la riforma legislativa. Scrisse invece Ricerche intorno
alla natura dello stile, ed ebbe poi dall'amministrazione austriaca
in Lombardia la cattedra di « scienze camerali », ossia di econo­
mia politica.
Tra le questioni filosofiche discusse dagli illuministi, non solo
lombardi, ci fu quella, nata da una disputa fra La Mettrie e
Maupertuis, se nella vita umana prevalessero i piaceri o i dolo­
ri. Ottimista ed epicureo era La Mettrie, pessimista Maupertuis
il quale concludeva che lo scopo della società è quello di diminui-
610 FILOSOFIA MODERNA

re la somma dei mali. PIETRO VERRI (1728-1797) nel Discorso


sull'indole del piacere e del dolore aderisce alla tesi del Mau­
pertuis: il piacere non è che cessazione del dolore, mentre il do­
lore è qualcosa di positivo. Il dolore è però lo stimolo all'azione,
la quale non può avere per fine il piacere, ma deve portar­
ci a costruire una cultura e una civiltà. Nella disputa avevano
preso già posizione FRANCESCO MARIA ZANOTTI (1692-1777) il
quale negava, contro Maupertuis, che si potesse fare un calcolo
dei piaceri e dei dolori, arrivava a conclusioni stoiche e vedeva
nello stoicismo una dottrina precorritrice del cristianesimo. Ri­
tenne invece impossibile la conciliazione fra stoicismo e cristia­
nesimo il P. CASTO INNOCENTE ANsALDI (1710-1780). Alla tesi di
Maupertuis ritorna G1AMMARIA 0RTES (1713-1790) 17•

17 Sulla disputa si veda F. VENTt.ntI, Settecento riformatore, cit., cap. V.


CAPITOLO VENTESIMO

I. KANT
( 1724-1804)

l. Vita e opere

Figlio di gente modesta e laboriosa, Kant fu ançh'egli un tena­


ce lavoratore e non ebbe certo una facile carriera: diventò professo­
re ordinario solo a quarantasei anni, nel 1770, dopò quindici annfdi

* Le opere di Kant sono citate nell'edizione dell'Accademia di Berlino: KANT's


Gesammelte Schri/ten hrsg. von der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Ber­
lin, Reimer (poi W. de Gruyter), 1902... Abbreviato: G.S., seguito dal numero del
volume e della pagina.
Mi sono servita delle seguenti traduzioni italiane, modificandole quando mi pareva
opportuno, senza avvertirne' il lettore�
Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, nuova edizione, Bari, Laterza, 1953:
Critica della ragione pura (abbrev.: Ragion · pura), trad. Gentile-Lombardo ·Radice,
riveduta da .V. Mathieu, Bari, Laterza, 1963. Poiché la· traduzione di G. Colli, To­
rino,. Einaudi, 1957, porta in margine l'indicazione del numero della pagina dell'edi­
zione dell'Accademia .di Berlino, il lettore potrà trovare facilmente il passo citato anche
in questa traduzione. Avveno che la prima edizione della Critica della ·ragione pura
si trova in G.S., IV; .la seconda in G.S., III.
Critica della ragione pratica (abbrev.: Ragion pratica), trad. di F;. Capra, Bari, ·La­
terza (cito dalla sesta edizione del 1947).
Critica del Giudizio, trad. di A. Gargiulo,. Bar.i, Laterza {cito -dalla ristampa del 1938).
Prolegomeni .ad ogni futura metafisica,· trad. di P. Martinetti,· Torino, ,Paravia· (cito
dalla ristampa del 1958). Altra traduzione di P. Carabellese, Bari, Laterza, 1925.
Primi principi metafisici della scienza della -natura, - trad. di L. Galvani, introd. di
L. Geymonat, Bologna, Cappelli, 1959. (abbrev.: . Metafisica della natura).
-, Fondazione della metafisica dei costumi, .trad; di G.- Vidari, a cura. di V. Mathieu,
Torino, Paravia (cito dalla ristampa del 1965. Anche questa edizione porta in -margine
i numeri.delle pagine òi GS; IV).
Metafisica dei costumi, trad. di G. Vidari, Torino, Paravia, s.d. (cito .la Do#rina
del diritto nell'edizione degli Scritti politicL indicata qui sotto),
Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto tradotti da G. Solari e G. Vi-
612 FILOSOFIA MODERNA

insegnamento come libero docente, i cui proventi erano dati solo


dalle quote di iscrizione degli studenti; era cosi obbligato a tenere
molte ore di lezione per vivere. Della sua famiglia scrisse: « I miei
genitori (di condizione artigiani) modelli di probità, di onestà, di
ordine, senza lasciare un patrimonio (ma nemmeno debiti tuttavia),
mi hanno dato una educazione che, dal punto di vista morale, non
avrebbe potuto essere migliore... » 1• La madre, Anna Regina Reuter,
era profondamente religiosa e frequentava le riunioni pietistiche,
i collegia pietatis, dove conobbe il pastore F. A. Schulz, che era ret­
tore del Collegium Fridericianum, di ispirazione pietistica: in que­
sta scuola severa, orientata alla formazione morale e religiosa, rigi­
da nella serietà degli studi, Kant fece il ginnasio-liceo. Venti ore

dari. Edizione postuma a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino, U.T.E.T.,


1956 (abbreviato: Scritti politici).
La religione nei limiti della semplice ragione, trad. di G. Durante, Torino, Chian­
tore, 1945.
Per la biografia: L. E. BoROWSKI, R. B. }ACHMANN, A. CH. WASIANSKI, La vita di
Immanuel Kant na"ata da tre contemporanei, trad. di E. Pocar, pref. di E. Garin,
Bari, Laterza, 1969. La più ampia biografia recente è quella di K. VoRLANDER, Im­
fnanuel Kant. Der Mann und das Werk, Leipzig, Meiner, 1924, 2 voll.
Per una esposizione complessiva del pensiero di Kant, oltre ai due volumi (4° e 5°)
di K. FrsCHER, Geschichte de, neuern Philosophie, cit., ricordiamo la prima esposi­
zione italiana di largo respiro e con carattere scientifico: C. CANTONI, E. Kant, Milano
1879-1884, 3 voll. (i primi due editi da Brigola, il 3° da Hoepli; 2• ed. del 1° volume
Milano, Bocca, 1907). Fra le opere italiane recenti mi limito a ricordare P. MARTINETTI,
Kant, nuova edizione, a cura di M. Dal Pra, Milano, Feltrinelli, 1968.
Per conoscere le varie interpretazioni della filosofia kantiana fino alla fine dell'Otto­
cento è utilissimo il volume di M. CAMPO, Schizzo storico della esegesi e critica kan­
tiana, Varese, Editrice Magenta, 1959.
Sul pensiero precritico di Kant (fino al 1769): M. CAMPO, La genesi del criticismo
kantiano, Varese, Editrice Magenta, 1953.
Sulla Critica della ragione pura (solo però fino a tutta l'Estetica trascendentale): H.
VAIHINGER, Kommentar z;u Kants Kritik de, reinen Vernunft, 2• ed., Stuttgart-Berlin­
Leipzig, Union Deutsche Verlagsgesellschaft, 1922 (1" ed. 1881-1892) che vuol essere
opera di filologia kantiana, cioè cerca di ricostruire il testo attraverso le varie fasi
della sua preparazione. Segue questa linea, estendendola a tutta l'opera, N. K. SMITH,
A Commentary to Kant's Critique of Pure Reason, :Z- ed., London, Macmillan, 1930. Af­
ferma invece l'unità e la coerenza dell'opera H. J. PATON, Kant's Metaphysic of Expe­
rience, London, Allen and Unwin, 1936, 2 voll. (limitato all'Estetica e all'Analitica).
Fra le opere dedicate ad argomenti specifici mi limito a ricordare, per l'impor­
tanza fondamentale dell'argomento, H. J. DE VLEESCHAUWER, La déduction transcen­
dentale dans l'oeuvre de Kant, Anvers-Paris-S'Gravenhage, 1934-1937, 3 voll. e P.
Cmon1, La deduzione nell'opera di Kant, Torino, Taylor, 1961.
Sull'etica ritengo ancora utilissimo V. DELBOS, La philosophie pratique de Kant,
Paris, Alcan, 1905 (varie ristampe). Ottimo commento alla Fondazione è H. J. PATON,
The Categorica/ Imperative, London, Hutchinson, 1946.
Sull'estetica V. BAsCH, Essai critique su, l'esthétique de Kant,· 2• ed. Paris, Vrin,
1927 (1• ed. 1897).
1
Citato da K. VoRLANDER, Immanuel Kant, cit.. I, p. 18.
KANT 613

settimanali di latino, ma dirette sopra tutto all'apprendimento del­


la tecnica dello scrivere latino; greco, ma limitato quasi esclusi­
vamente al Nuovo Testamento, senza letture di Platone e dei tragici.
All'Università, dove studiò filosofia, Martin Knutzen, che era pro­
fessore di Logica e Metafisica, gli fece conoscere la « filosofia na­
turale » di Newton, oltre alla filosofia di Wolff e dei wolffiani.
Terminati gli studi universitari, si guadagnò da vivere facendo il
precettore dal 1747 o 48 al 1754; nel 1755 si abilitò all'insegna­
mento universitario con la dissertazione Principiorum primorum co­
gnitionis metaphysicae nova dilucidatio e iniziò l'insegnamento come
libero docente. Nel 1758 pose la sua candidatura alla cattedra di
Logica e Metafisica, ma non la ottenne, benché avesse già pubblicato,
oltre la dissertazione sopra citata e altri scritti minori, la Monadolo­
gia physica e la Storia naturale universale e teoria del cielo.
Dice Borowski: « Kant, il quale si affidava facilmente alla sorte;
il quale cercava cosi poco i mecenati da non conoscere allora neanche
il nome del curatore superiore delle Università prussiane; il quale
non era in corrispondenza con Berlino, né dedicava esemplari delle
sue opere a eventuali protettori; il quale insomma considerava inde­
gna di sé ogni mossa traversa con la quale avrebbe potuto eliminare
un concorrente, rimase tranquillamente sulle sue posizioni e continuò
a tenere lezioni e a scrivere » 2•
Diventò professore ordinario nel 1770 e per ottenere l'ordinaria­
to pubblicò la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis
forma et principiis. La sua vita si svolse tutta nell'attività di ri­
cerca e di insegnamento. Gli anni dal 1770 al 1781 furono quelli di
più intensa meditazione: nel 1781 usci la prima edizione della Criti­
ca della ragione pura; le altre opere seguirono con una certa rapidi­
ta: nel 1783 i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa pre­
sentarsi come scienza, nel 1785 la Fondazione della metafisica dei co­
stumi, nel 1786 i Principi metafisici della scienza della natura, nel
1787 la seconda edizione della Critica della ragione pura, nel 1788
la Critica della ragione pratica, nel 1790 la Critica del Giudizio,
nel 1793 La religione nei limiti della sola ragione, nel 1797 la Me­
tafisica dei costumi. Negli ultimi anni lavorò poi ad un'opera che
doveva trattare del passaggio dalla metafisica alla fisica, ma ce ne

2 La vita di I. Kant, cit., p. 17.


614 FILOSOFIA MODERNA

restano solo frammenti, pubblicati, insieme ad altri, col titolo Opus


postumum, anche perché le sue forze non solo fisiche, ma anche intel­
lettuali declinavano. Gli ultimi anni della sua vita (morl nel 1804)
furono molto penosi, come risulta dalla biografia di Wasianski, che
gli fu vicino in questi anni.

LA FILOSOFIA TEORETICA

2. La preparazione alla Critica. I primi scritti

L'opera più nota di Kant è la Critica della ragione pura. Kant


la scrisse nel 1781 a cinquantasette anni, o piuttosto, come egli
stesso dice in una lettera a Mendelssohn del 16 agosto 178 3, · la por­
tò a termine in quattro o cinque mesi, dopo averla meditata almeno
per dodici anni 3• Quei dodici anni fanno risalire l'idea dell'ope­
ra al 1768-69, ma l'edificio è il frutto di un lavorio iniziato. molto
prima. Kant stesso infatti ha descritto come sia sorto il suo si­
stema di filosofia. « Il docente universitario ha, rispetto al libero
studioso, questo vantaggio nell'elaborazione della scienza: poiché de­
ve prepararsi ad ogni corso della sua materia, e.ad ogni lezione (co­
me è giusto che debba sempre fare), gli si aprono, in parte durante
la preparazione, in parte - e ciò avviene spesso - durante la lezio­
ne, sempre nuove vedute e nuovi orizzonti, che gli servono via via a
giustificare e ad ampliare ciò che egli aveva prima pensato. Ora, anche
il lavoro personale non può procedere diversamente. Molto prima del­
la pubblicazione di un sistema, alcune proposizioni, insieme con le
nuove osservazioni ad esse dedicate, afferrate dalla penna dell'udi­
tore che prende appunti, quando piacciono perla loro novità o fecon­
dità, circolano in varie copie, poiché il maestro si limita ancora ad
inserire qua e. là proposi�ioni fra le righe del suo manuale 4, non ha

3
G.S., X, p. 345 « ... po�tai a termine (batte ich... zu Stande Gebracht) quasi
di volata in quattro o cinque mesi il risultato della meditazione di dodici anni almeno... ».
' Le autorità scolastiche prescrivevano al professore di adottare un testo già pub­
blicato, e Kant adottò quasi sempre, per la metafisica e l'etica,, i manuali · di A. G.
Baumgarten. ' · •· '' · ·.
KANT 615

ancora maturato il suo sistema, e solo più tardi osa presentarne uno
nuovo » 5• E ancora, in una lettera a M. Herz del 7 giugno 1771:
« Quando non si è presi dalla smania di fare un sistema, le ricerche
che si compiono su un medesimo principio fondamentale, applican­
dolo nel modo più ampio, si verificano reciprocamente» 6•
Il « sistema » kantiano nacque dunque da una lunga elaborazio­
ne, dal comporsi quasi spontaneo di pensieri sorti nello studio dei vari
problemi, e non da un progetto, dalla volontà di fare un sistema. È
quindi utile vedere il sorgere della Critica della ragione pura da
quello che delle meditazioni kantiane ci rivelano gli scritti anterio­
ri, comunemente detti appunto precritici.
Kant parti dallo studio della filosofia che era allora insegna­
ta nelle scuole: quella di Wolff e dei wolffiani 7, alla quale gli
autod cercavano di dare un rigore matematico nella esposizione. Ma
sotto l'apparenza di deduzioni rigorose molti punti restavano discu­
tibili, molti concetti non chiariti. D'altra parte c'era la nuova
scienza, la fisica galileiano-newtoniana, che riusciva davvero a pre­
vedere i fenomeni, che formulava leggi verificate dall'esperienza.
Non è strano che, al confronto, la nuova fisica sembrasse a Kant rea­
lizzare l'ideale scientifico molto meglio della metafisica tradiziona­
le. Questo stato d'animo si manifesta specialmente negli scritti
degli anni fra il 1762 e il 1764; in quelli anteriori c'è piuttosto
la preoccupazione di conciliare metafisica e scienza. Anche nel pri­
mo scritto di Kant, i Pensieri sulla vera misura delle forze vive,
del 1747, dove il problema è se la forza risulti dal prodotto m v, se­
condo la formula cartesiana, o m v2 secondo la formula leibniziana,
la posizione cartesiana rappresenta per Kant la matematica, quella
leibniziana la metafisica. Da un punto di vista matematico hanno
ragione i cartesiani, perché la forza viva non si scopre matematica­
mente; il concetto di forza viva può però giustificarsi metafisica­
mente 8• Il mondo è costituito di monadi inestese, lo spazio risul­
ta solo dalla relazione fra le monadi, sicché se Dio avesse creato

' Citato da K. VoRLANDER, Immanuel Kant, vol. Il, p. 59.


' G.S., X, p. · 122.
7
Cfr. sopra, pp. 513 ss.
« Chi chiuse, dal punto di vista scientifico, la controversia fu il D'Alembert, che
nel Traité de Dynamique .(del 1743, qualche anno dunque prima del lavoro di Kant;
il quale non ne ebbe conoscenza)... sfrondata la controversia di tutto ciò che non
era scientifico, mostrava là .legittimità e .la compossibilità delle due misure»: M. CAMPO,
La genesi del criticismo kantiano, p. 23.
616 FILOSOFIA MODERNA

altre sostanze, dotate di forze diverse, lo spazio avrebbe avuto pro­


prietà e dimensioni diverse da quelle che ha lo spazio attuale. « Una
scienza di tutti i possibili tipi di spazio sarebbe indubbiamente la
più alta geometria che un intelletto finito potesse elaborare» (G.5.,
I, p. 24 ). Questa concezione, che ci sembra cosl moderna, sarà inve­
ce abbandonata da Kant quando si avvicinerà alla teoria di Newton.

3. Metafisica e fisica negli scritti del 1755-56

Nella Monadologia fisica, scritta in latino, del 1756 9, Kant


si propone di conciliare le teorie di Leibniz e di Newton sul proble­
ma della divisibilità dell'esteso. Il titolo dell'opera è Utilità del­
l'unione di metafisica e geometria nella filosofia della natura. Pri­
mo saggio: Monadologia fisica (Metaphysicae cum geometria iunctae
usus in philosophia naturali, cuius specimen primum continet Mona­
dologiam physicam). Kant ritiene dunque ancora valida la metafisica
(e il rappresentante per eccellenza della metafisica è Leibniz), ma ri­
tiene che essa vada unita alla geometria per costituire una solida fi­
losofia della natura. Nella prefazione afferma che alla geometria va
aggiunta la verificazione dell'esperienza: 10 è chiaro quindi che si
riferisce a Newton. Ora la metafisica, chiamata anche Philosophia
transcendentalis, (G.5., I, p. 475) afferma che i corpi non sono infi­
nitamente divisibili, perché nella divisione si arriva a elementi sem­
plici, quindi indivisibili, che sono le monadi; la geometria invece af­
ferma che lo spazio è infinitamente divisibile; la metafisica nega
che esista uno spazio vuoto, la geometria dice che esso è necessario
perché ci siano movimenti liberi; la geometria dice che la gravita­
zione universale deriva da forze insite nei corpi che agiscono a di­
stanza, la metafisica relega tali azioni a distanza fra i prodotti della

• Era una delle tre dissertazioni necessarie - secondo le prescrizioni governative


- perché un libero docente potesse ottenere una cattedra di professore straordinario,
come ricorda K. Lasswitz nelle note alla sua edizione dell'opera nelle G.S., I, p. 579.
Kant aveva già presentato l'anno prima lo scritto De igne per ottenere il titolo di
magister e la Nova delucidatio per essere ricevuto (pro receptione) nella Facoltà filo­
sofica di Konigsberg. Con la Monadologia fisica aveva dunque completato il numero
di tre dissertazioni. Ma ottenne la cattedra solo nel 1770 con la dissertazione di cui
si parlerà.
0
' Bisogna badare « ne quicquam absque experientiae suffragio et sine geometria
interprete in casswn tentetur » (G.S., I, p. 475).
KANT 617

immaginazione. Come conciliarle? Kant propone questa soluzione:


i corpi sono costituiti di monadi indivisibili; ogni monade tuttavia,
con la sua attività, definisce uno spazietto (spatiolum) della sua
presenza che allontana da sé le altre monadi (Prop. VI); cosi si spie­
ga l'estensione e l'impenetrabilità dei corpi (Prop. VIII). La solu­
zione kantiana non ha molto interesse: quello che importa notare è
l'intento di conciliare la metafisica con la fisica newtoniana.
Alla metafisica è invece interamente dedicata la dissertazione
sui primi principi: Principiorum primorum cognitionis metaphysicae
nova dilucidatio, del 1755. Il primo principio della metafisica è
quello di identità, che però non è unico, ma ne contiene in sé due:
uno a fondamento di tutte le proposizioni positive - ciò che è,
è -, l'altro a fondamento di tutte le proposizioni negative - ciò
che non è, non è-. Secondo principio è quello di ragion determi­
nante, volgarmente detto di ragion sufficiente, che si formula cosi:
« nulla è vero senza una ragion determinante » (Prop. V). Nel pre­
ferire il termine ' ragion determinante ' a quello di ' ragion suffi­
ciente ' Kant segue Crusius; non lo segue invece nella concezione
della libertà, nella quale resta fedele a Leibniz. Anche gli atti liberi
sono determinati: non sono determinati da ragioni esterne al sog­
getto, ma dai motivi, in quanto l'uomo segue spontaneamente (lu­
benter) l'attrazione verso ciò che si rappresenta. La differenza fra le
azioni moralmente libere e le azioni fisiche non sta nel fatto che le
prime non siano necessariamente determinate, ma nel fatto che so­
no motivate, cioè nel fatto che il soggetto sa quello che vuole e per­
ché lo vuole, mentre nei bruti le azioni sono determinate da impul­
si fisico-meccanici (G.S., I, p. 400). Più tardi Kant ripudierà questa
concezione della libertà.
Possiamo invece vedere una anticipazione di tesi che verranno
dopo nella proposizione (la VI), che una cosa non può avere in sé la
ragione della propria esistenza (anche ciò che esiste necessariamente
esiste, e basta) e nel conseguente rifiuto della prova ontologica del­
l'esistenza di Dio, di quella prova, cioè che deduce l'esistenza di
Dio dall'idea di Dio. La proposizione VII anticipa l'argomento che
Kant svolgerà ne L'unico argomento possibile per una dimostrazione
della esistenza di Dio, quello che conclude l'esistenza di un ente as­
solutamente necessario come fondamento della possibilità delle cose,
argomento già presentato da Leibniz nel paragrafo 44 della Mona­
dologia. Nell'esaminare poi alcuni corollari illegittimi del principio
618 FILOSOFIA MODERNA

di ragion determinante Kant pone fra questi il principio leibniziano


dell'identità degli indiscernibili, cioè l'affermazione che non possono
esistere due cose assolutamente identiche perché se fossero identiche
sarebbero una cosa sola. Kant obietta che basta la diversità di luogo
per distinguere due cose, anche se sono intrinsecamente identiche.
Ho rilevato questa tesi kantiana perché la ritroveremo - sia pure
diversamente inquadrata - nella « Anfibolia dei concetti della ri­
flessione » della Critica della ragion pura. Ho voluto indicare, sia
pure solo con qualche esempio, come l'esame di certi problemi par­
ticolari abbia dato luogo alla formazione del « sistema », secondo
quello che Kant stesso ha detto nel passo citato sopra. Credo infatti
che la Critica della ragion pura si capisca molto meglio se la si vede
nascere a poco a poco nello svolgimento del pensiero kantiano.
Ricorderemo poi che Kant, nella Nova dilucidatio, aggiunge ai
principì di identità e di ragion determinante altri due principì: di
successione e di coesistenza. Il primo dice che nessun mutamento
può avvenire in una sostanza se questa non è connessa con altre; se
infatti una sostanza fosse isolata, non ci sarebbe ragione del suo mu­
tare. Ha torto quindi Wolff quando ritiene che una sostanza sem­
plice possa mutare in virtù del solo principio interno della sua at­
tività. E poiché senza mutamento non vi è successione, senza la con­
nessione fra le sostanze non vi sarebbe né successione né tempo.
Anche questo principio anticipa la seconda delle « Analogie del-
1 'esperienza », nella Critica della ragion pura, nella quale si afferma
che la successione implica la causalità. Il principio di coesistenza di­
ce che non potrebbero esserci relazioni fra sostanze se queste non
dipendessero tutte da un principio comune della loro esistenza, os­
sia dall'intelletto divino.
In quest'opera Kant resta sostanzialmente leibniziano, ma la sot­
tigliezza nell'interpretazione dei primi principì, e le discussioni
alle quali dava luogo fra i metafisici (Wolff, Crusius e altri) la
pretesa di dedurre verità sulle cose da principì che si supponevano
innati, doveva soddisfarlo meno di quei principì della meccanica che
egli trovava così chiaramente formulati in Newton, così suffragati
dall'esperienza, per usare una sua espressione 11• D'altra parte Kant
scrisse in una delle sue opere più severe verso la metafisica, i So-

11
Cfr. nota precedente.
KANT 619

gni di un visionario, « la metafisica, della quale io ho in sorte di es­


sere innamorato ... » u e, sempre, anche nella Critica della ragion pu­
ra, affermò che la scienza non basta a risolvere tutti i problemi
dell'uomo. Questo intrecciarsi di metafisica e scienza come momenti
necessari per una concezione della realtà ci fa capire come mai nel
1755, nello stesso anno in cui scrisse la Nova dilucidatio, Kant scri­
vesse un'opera di tutt'altro tipo, la Storia naturale universale e
teoria del cielo, che espone una cosmologia interamente ispirata a
Newton, come avverte già il sottotitolo 13• L'ispirazione newtoniana
consiste nello spiegare la formazione del mondo dalla nebulosa primi­
tiva con leggi puramente meccaniche. Ora, si chiede Kant nella Pre­
fazione, una tale spiegazione non esclude forse l'esistenza di Dio?
Se l'ordine e la bellezza dell'universo sono il risultato di forze
meccaniche che bisogno c'è di ricorrere a Dio per spiegarli? Non si
rinnovano forse le teorie di Democrito e di Lucrezio? Kant risponde
che la differenza sta nel concepire la formazione dell'universo come
il risultato di leggi necessarie, anziché del caso, come ritenevano
Democrito ed Epicuro. Ora la necessità è sempre stata per Kant il se­
gno della razionalità, dell'intelligenza. Inoltre queste leggi neces­
sarie dànno luogo ad un cosmo ordinato.« È possibile che tante cose,
ognuna delle quali ha una natura indipendente dalle altre, debbano
determinarsi reciprocamente da sé in modo tale che ne risulti una to­
talità ordinata? E se fanno questo, non dànno forse una prova innega­
bile della loro origine comune da una suprema Intelligenza che a tut­
to provvede (allgenugsam), nella quale le nature delle cose sono sta­
te progettate secondo scopi fra loro compatibili? (G.S., I, pp.
227-28).
Lungi dall'escludere Dio, l'ipotesi kantiana prova che « vi è un
Dio proprio perché la Natura, anche nel caos, non può procedere se
non regolarmente e ordinatamente» (ibid., p. 228). Dio non va dun-

12
G.S., II, p. 367; Scritti precritici, pp. 420-421.
" Il sottotitolo è: Saggio sulla costituzione e sull'origine meccanica di tutto l'uni­
verso secondo i principi newtoniani. Occupa le pp. 215-368 delle G.S., I. L'opera
fu pubblicata anonima nel 1755, ma era già indicata come opera di Kant nel 1756
in un setti.manale di Konigsberg. Sennonché l'editore falll e l'opera kantiana sparl dalla
circolazione, sl che quando, nel 1796, Laplace nella sua Exposition du système du
monde formulò la stessa ipotesi di Kant sulla evoluzione del cosmo da una nebu­
losa primitiva, ignorò di essere stato preceduto da Kant. Solo nel 1842 Arago si ac­
corse che la teoria di Laplace era già stata sostenuta da Kant. Comunemente la si indica
come teoria di Kant-Laplace. Desumo queste notizie dalle note di J. RAHTS all'opera
di Kant, G.S., I, pp. 545-46.
620 FILOSOFIA MODERNA

que cercato nello straordinario, nel miracoloso, come Kant ribadirà


anche ne L'unico argomento, ma a fondamento della natura stessa
delle cose.

4. La critica alla metafisica negli scritti del 1762-66

Gli scritti degli anni 1762-66 mostrano una chiara diffidenza di


Kant verso la metafisica. Ricordando una sua famosa frase nei Prole­
gomeni: « ... il ricordo di David Hume fu quello che molti anni fa
mi svegliò per la prima volta dal sonno dogmatico ...» (G.S., IV,
p. 260) 14, si attribuisce la svolta antidogmatica del pensiero kantia­
no alla lettura di Hume, che Kant avrebbe compiuta intorno al
1762 15• Certo le critiche alla metafisica diventano più esplicite ne­
gli scritti posteriori al 1762. Nel Saggio per introdurre in metafisica
il concetto delle grandezze negative Kant critica il tentativo di ap­
plicare il metodo matematico in filosofia, critica cioè il tentativo di
dedurre tutte le dottrine filosofiche da alcuni principi - al vertice
dei quali sta il principio di non-contraddizione - come la geometria
deduce tutti i suoi teoremi da pochi assiomi. È questo il metodo
usato da Wolff e dai wolffìani; ma non approda a risultati sicuri. La
metafisica cosi concepita si chiude « in oscure astrazioni, difficil­
mente controllabili» (G.S., II, p. 168) e rifiuta dall'alto della sua
presunzione i risultati della geometria sui quali si può davvero fare
affidamento. Se la filosofia non può imitare il metodo della mate­
matica, può invece, e dovrebbe, desumere da essa alcuni concetti e
alcune verità. E qui sentiamo che Kant, a differenza di quello che
scriveva nella Monadologia fisica, ha optato decisamente per New-

'' Il dogmatismo della metafisica consiste nel « fidarsi universalmente dei suoi
[ della meta.fisica] principi senza far precedere una critica della facoltà razionale .... »
dice Kant nello scritto del 1790 contro il leibniziano Eberhard (Ueber eine Entdeckung
nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine altere entbehrlich gemacht
werden roll) G.S., VIII, p. 226.
15 Cosi H. VAnUNGER, Kommentar zu Kants Kritik reinen Vernunft, seguito da
N. K. SMITII, Commentary, pp. XXV-XXVI. Secondo questi due autori Kant avrebbe poi
rimeditato Hume nel 1772 quando lesse le critiche che a Hume muoveva Beattie. At­
traverso Beattie Kant avrebbe conosciuto non solo la Ricerca sull'intelletto umano -
che aveva letta direttamente dieci anni prima circa nella traduzione di Sulzer - ma
anche il Trattato sulla natura umana. Secondo Vaihinger e Smith i problemi posti da
Hume sulla causalità nella Ricerca e nel Trattato sarebbero diversi. Per una critica a
queste deduzioni si veda K. FISCHER, Geschichte der neuern Philosophie, voi. 4°, 6'
ed., pp. 353 ss.
KANT 621

ton: lo spazio è infinitamente divisibile e non consta di parti sempli­


ci (ibid.). Uno dei concetti che la filosofia dovrebbe desumere dalla
matematica è quello di grandezze negative. Non mi sembra si possa
dire che l'applicazione fatta da Kant di questo concetto sia molto
felice e feconda; quello che interessa, di questo scritto, è invece
il tono: l'ammirazione per la nuova scienza e quasi un certo fasti­
dio per la metafisica di tipo wolffiano ( che del resto è l'unica co­
nosciuta bene da Kant). Notevole è pure la« Osservazione generale »
che chiude lo scritto e che rivela con molta probabilità la lettura
di Hume. Dopo una frase ironica sui profondi filosofi che sanno
tutto, Kant confessa i suoi dubbi intorno al problema del rapporto
causale. « Capisco molto bene come sia posta una conseguenza in
forza di una premessa (Grund) secondo la regola dell'identità.
poiché essa può esser trovata come contenuta nella premessa me­
diante l'analisi dei concetti. Cosl, la necessità è la ragione (Grund)
della immutabilità... ecc. Ma come una cosa derivi da un'altra, non
secondo la regola dell'identità, è qualcosa che vorrei proprio mi
fosse spiegato. Chiamo fondamento logico il primo tipo di ragione
(Grund) poiché il suo rapporto con la conseguenza può esser visto
logicamente, cioè secondo la regola dell'identità; chiamo fonda­
mento reale il secondo tipo di ragione (Grund), poiché questo rap­
porto appartiene sf ai miei veri concetti, ma la natura di questo
rapporto non può essere giudicata in nessun modo» (G.S., II,
p. 202 ). Chiedendosi come è possibile la connessione necessaria
del diverso, come si possa dire che, se una cosa c'è, un'altra deve
esserci, Kant formula già il problema della Critica della ragion
pura: « come sono possibili giudizi sintetici a priori? ».
Nella Ricerca sul!'evidenza dei principi della teologia naturale
e della morale scritta negli ultimi mesi del 1762, Kant spiega per­
ché la filosofia non possa procedere con metodo matematico: per­
ché la matematica costruisce i suoi oggetti, e quindi può partire
dalle definizioni di essi (li ha fatti lei, quindi sa come son fatti),
può passare agli assiomi e di qui dedurre i teoremi; la metafisica
invece deve indagare che cosa è la realtà esistente, deve ricavare
faticosamente i propri concetti dall'esame della realtà, deve passare
gradatamente dai concetti confusi dell'esperienza comune a un
concetto filosofico; e qui Kant cita come esempio l'indagine di
S. Agostino sul tempo, e la frase di lui: « Che cosa è il tempo?
Se nessuno me lo chiede, lo so, ma se voglio spiegarlo a chi me lo
622 FILOSOFIA MODERNA

chiede non lo so»16• E anche quando la ricerca mette in luce acu­


tamente aspetti reali di una cosa, non arriva però mai ad una de­
finizione essenziale come quelle della geometria. La :filosofia non
deve quindi mai cominciare con definizioni (come invece faceva
Wol:ff) perché altrimenti rischia di lavorare solo su definizioni no­
minali (per esempio: necessario è ciò il cui opposto è impossibile)
illudendosi di avere in mano definizioni reali. Al problema, quindi,
posto dall'Accademia delle Scienze di Berlino, per un concorso a
premio, al quale Kant partecipò 17, se cioè la metafisica e la morale
possano raggiungere la medesima evidenza delle proposizioni geo­
metriche, Kant rispose negativamente: « la metafisica può avere
una certezza sufficiente a dare una persuasione » (Ueberzeugung) »
(G.S., II, p. 292), non a dare la certezza matematica.
Quanto alla morale, dopo aver rilevato che i suoi fondamenti,
nella formulazione che hanno attualmente, non hanno ancora tutta
la evidenza richiesta, Kant scrive: « Si è cominciato solo ai nostri
giorni a capire che la facoltà di rappresentarsi il vero è la cono­
scenza, ma quella di sentire (empfinden) il bene è il sentimento
(Gefuhl), e non bisogna confondere l'una con l'altra» (G.S., II,
p. 299: Scritti precritici, p. 299). E poco dopo è citato Hutcheson
come autore di questa tesi.
Lo scritto forse più significativo di questo periodo - perché
riassume le vedute fondamentali di Kant e, per la parte critica, an­
ticipa il capitolo su « L'ideale della ragion pura» della Dialettica
trascendentale - è L'unico argomento possibile per una dimostra­
zione dell'esistenza di Dio del 1763. Significativa è la Prefazione, che
comincia così: « Della utilità di una fatica qual è la presente io
non ho un'opinione cosi alta come se, senza l'aiuto di profonde
indagini metafisiche, vacillasse e fosse in pericolo la più importante
di tutte le nostre conoscenze: Vi è un Dio. La Provvidenza non ha
voluto che cognizioni sommamente necessarie per la felicità pog­
giassero sulla sottigliezza di fini ragionamenti, ma le ha natural­
mente trasmesse alla naturale intelligenza comune, che, se non è
imbrogliata da falsa arte, non manca di condurci al vero e all'utile...

" « Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare
velirn, nescio » (Conf. XI, 14, 1.). La citazione di Kant, non completa (il che farebbe
pensare ad una conoscenza indiretta), è in G.S., II, p. 283.
17 E non vinse. Fu classificato secondo, dopo M. Mendelssohn. Cfr. le note al­
l'edizione dello scritto di Kant in G.S., II, pp. 493-95.
KANT 623

Perciò l'uso della sana ragione, anche entro i limiti delle cognizioni
comuni, offre argomenti sufficientemente persuasivi dell'esistenza
e degli attributi di questo Ente, sebbene il sottile indagatore rilevi
ovunque la mancanza di una vera e propria dimostrazione e del ri­
gore di concetti esattamente determinati o di argomentazioni razio­
nali condotte a :fil di logica (regelmassig verknupfter Vernuft­
schlusse ). E tuttavia non si può smettere di cercare una tale dimo­
strazione, per vedere se essa una volta o l'altra non ci si offra...
Ma a raggiungere questo scopo, bisogna avventurarsi entro l'abis­
so senza fondo che è la metafisica» (G.S., II, pp. 65-66; Scritti
precritici, pp. 1O3-104 ). E, al termine dell'opera, dopo aver detto
che quello da lui esposto è l'unico argomento, aggiunge: « Qui cer­
cate la prova, e, se credete di non trovarla, ritiratevi da questo im­
praticabile sentiero sulla grande via maestra della umana ragione.
È in tutto e per tutto necessario che ci si persuada dell'esistenza di
Dio, ma non è proprio cosl necessario che lo si dimostri » (G.S., II,
p. 163; Scritti precritici, p. 211 ).

L'unico argomento possibile si divide in tre parti dedicate rispet­


tivamente ad esporre l'argomento, a mostrarne l'utilità e a dimostrare
che esso è l'unico valido.
E poiché si tratta di dimostrare l'esistenza di Dio, Kant chiari­
sce preliminarmente il concetto di esistenza. « L'esistenza non è un
predicato o determinazione di una cosa» perché, quando ben si è
determinata la natura di una cosa in tutti i suoi caratteri, quando
ben si è descritta, per esempio, la figura di Giulio Cesare, l'ascolta­
tore della nostra descrizione può ancora chiedere: " Giulio Cesare
è esistito o no? ". L'esistenza di una cosa può esserci attestata solo
dall'esperienza o della cosa stessa o, come nel caso di Giulio Cesare,
di documenti dai quali poter inferire che è esistito un uomo rispon­
dente alla descrizione di Giulio Cesare. Sicché, per essere esatti,
non si dovrebbe dire: " la tal cosa è esistente ", perché una tale
formulazione può far pensare che l'esistenza sia un predicato, co­
me il colore, la figura o una qualsiasi qualità; ma si dovrebbe dire:
" una cosa che ho sperimentata esistente ha i tali e tali caratteri ".
E questo deve applicarsi anche all'affermazione dell'esistenza di
Dio. « Quando dico: Dio è una cosa esistente, pare che io esprima
la relazione di un predicato con un soggetto. Ma vi è una inesattezza
in questa espressione. Per parlare correttamente si dovrebbe dire:
624 FILOSOFIA MODERNA

una cosa esistente è Dio; cioè ad una cosa esistente spettano quei
predicati il cui insieme designiamo con l'espressione Dio ►► (G.S., II,
p. 74; Scritti precritici, p. 110).
L'esistenza non si trova dunque sul piano della possibilità, non
è il compimento della possibilità, come riteneva Wolff; è altro dal­
la possibilità: è la « posizione assoluta di una cosa» (G.S., II, p.
75; Scritti precritici, p. 112).
Dopo aver analizzato la nozione di esistenza, Kant analizza quel­
la di possibilità. La non contraddittorietà è certo condizione neces­
saria della possibilità, ma non sufficiente. Infatti, affinché un ente sia
possibile occorre non solo che esso sia non-contraddittorio, ma oc­
corre altresì che siano dati gli elementi che non si contraddicono
fra loro, che sono compatibili. Un triangolo con un angolo retto è
possibile non solo perché fra triangolo e avente un angolo retto non
c'è contraddizione, ma anche perché sono possibili, singolarmente
presi, il triangolo e l'angolo retto. La non-contraddizione, dice
Kant, è il formale della possibilità, i dati fra loro compatibili sono il
materiale della possibilità.
Ultimo preliminare dell'argomentazione vera e propria è l'ana­
lisi del concetto di necessità. Necessario è ciò il cui opposto è impos­
sibile. Ma, come risulta dall'analisi del concetto di possibile, im­
possibile non è solo il contraddittorio, ossia ciò che toglie il forma­
le della possibilità: è anche ciò che toglie il materiale della possi­
bilità. Ora, se nulla esistesse, nulla sarebbe possibile, poiché se
nulla esistesse sarebbe tolto il materiale della possibilità.
Di qui parte l'argomento kantiano: « ciò la cui soppressione o
negazione toglie ogni possibilità è assolutamente necessario ►>, ossia:
è impossibile che nulla sia possibile; ma se nulla esistesse, nulla sa­
rebbe possibile, « dunque esiste qualcosa in modo assolutamente
necessario » ( G.S., II, p. 83; Scritti precritici, p. 124 ). Kant dedu­
ce poi che l'ente necessario è unico, è semplice, è immutabile ed
eterno, è l'ens realissimum, ossia la sintesi di ogni possibile realtà,
di ogni positività; è spirituale; quindi conclude che un tale ente
è Dio.
L'unico argomento kantiano arriva dunque a Dio come a fonda­
mento della possibilità delle cose, ed è uno sviluppo di quello già
enunciato nella prop. VII della Nova dilucidatio.
L'utilità dell'argomento kantiano, alla quale è dedicata la se­
conda parte, consiste essenzialmente nella considerazione di Dio
KANT 625

come fondamento della possibilità, ossia delle essenze, delle nature


delle cose. Dio non si rivela nel miracoloso, nello straordinario, ma
nelle stesse leggi della natura: è la concezione già presente nella
Storia naturale universale. L'unicità dell'argomento è dimostrata�
nella terza parte, dalla confutazione di tutte le altre prove. La confu­
tazione si inizia veramente già nella seconda parte, quando Kant af­
ferma che l'ordine della natura è necessario e dipende dalla natura
delle cose, non da un intervento divino estrinseco, e critica la« usua­
le» fisico-teologia, la quale suppone che tale ordine sia contingente
(zufallig). Tale critica corrisponde non solo nel concetto, ma talora
anche ad verbum, alla critica della prova fisico-teologica nella
Critica della ragion pura, così come vi corrispondono, nella terza
parte, la confutazione della prova ontologica e della prova che nella
Critica della ragion pura sarà chiamata cosmologica ( qui si dice che
è famosa e apprezzata specialmente dai wolffiani G.S., II, p. 157).

La metafisica tradizionale sta alla scienza come il sogno sta al­


la veglia, dice Kant nei Sogni di un visionario spiegati coi sogni
della metafisica 18, poiché nel sogno ognuno ha il suo mondo, e così
ogni filosofo ha la sua metafisica, mentre il mondo della veglia, come
quello della scienza, è comune a tutti. Eppure, proprio nei Sogni di
un visionario troviamo la frase: « La metafisica, della quale ho il
destino di essere innamorato ...» (G.S., II, p. 367; Scritti precritici�
p. 420-21). Non si tratta però della metafisica tradizionale, ma di
una metafisica che risponda al problema: « cosa posso io sapere? »­
e sia « scienza dei limiti della ragione umana» (G.S., II, p. 368).

5. La Dissertazione del 1770.


Sensibilità e intelletto, tempo e spazio

La dissertazione del 1770, De mundi sensibilis atque intelligibi­


lis forma et principiis, ci offre uno spaccato, per dir così, dell'evo­
luzione del pensiero kantiano mentre il filosofo elabora quella scien-

" II visionario era Emanuele Swedenborg (1688-1772) il quale, nell'opera Arcana


coelestia, sosteneva di essere in comunione con le anime dei defunti e di avere da
esse notizie sul mondo ultraterreno. Kant definisce pazzie, intuizioni fanatiche, deliri,
i discorsi di Swedenborg, ma osserva che essi non sono se non una escrescenza mo­
struosa nata dal terreno della metafisica.
626 FILOSOFIA MODERNA

za dei limiti della ragione umana alla quale accenna la conclusione


dei Sogni di un visionario. Kant, infatti, dové redigere quella dis­
sertazione per ottenere la cattedra di Logica e metafisica divenuta
vacante nel 1770, mentre quella che suol chiamarsi la « :filosofia cri­
tica » era in piena elaborazione, sl che nella Dissertazione del '70
si trovano dottrine nuove e dottrine tradizionali.
Una tesi platonica, ma che rimarrà anche nel Kant critico, è la
distinzione specifica (non solo di grado) fra sensibilità e intelletto:
la sensibilità è « recettività », è la facoltà di ricevere impressioni dal­
le cose, impressioni che attestano la nostra modificazione e non la na­
tura della cosa che ci impressiona, è quindi eminentemente sogget­
tiva; l'intelletto è la facoltà di conoscere ciò che non ci modifica sen­
sibilmente B. Ho detto che questa è una tesi platonica perché Kant
stesso accenna a una nobilissima teoria dell'antichità sulla distinzio­
ne fra oggetti sensibili (fenomeni) e intelligibili (noumeni), distin­
zione che sarebbe stata abolita da Wolff. Platonica, e non « tradizio­
nale » nel senso che abbiamo dato fin qui a questo aggettivo (cioè
accettato nelle scuole che seguono la filosofia wolffiana), perché
Wolff, che su questo punto segue Leibniz, ammette solo una di­
stinzione di grado fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale:
sensibile è ciò che è conosciuto confusamente, intelligibile è ciò che
è conosciuto distintamente. Tradizionale è la tesi che l'intelletto co­
nosca le cose in sé, mediante concetti a priori, non attinti dalla sen­
sibilità: la sensibilità ci fa conoscere le cose come appaiono (uti ap­
parent), l'intelletto ci fa conoscere le cose come sono (sicuti sunt).
Totalmente nuova invece è la dottrina sullo spazio e sul tempo come
forme a priori della conoscenza sensibile o intuizioni pure. Tale
dottrina è riportata senza modificazioni nella Critica della ragion
pura, dove costituisce la prima parte della Dottrina degli elementi:
l'Estetica trascendentale.
Ma nella Dissertazione è più evidente la genesi della dottri-

" « Sensualitas est receptzvttas subiecti, per quam possibile est, ut status ipsius
repraesentativus obiecti alicuius praesentia certo modo afficiatur. Intelligentia (ratio­
nalitas) est facultas subiecti, per quam, quae in sensus ipsius per qualitatem suam in­
currere non possunt, repraesentare valet. [ ..... ] Cum itaque, quodcumque in cognitione
est sensitivi, pendeat a speciali indole subiecti, quatenus a praesentia obiectorum huius
ve! alius modificationis capax est, quae, pro varietate subiectorum, in diversis potest
esse diversa..., patet sensitive cogitata esse rerum repraesentationes uti apparent... »
(De mundi sensibilis, par. 3 e 4; G.S., II, p. 392).
KANT 62.7

na dalla meditazione delle teorie di Newton e di Leibniz :lll' il che


la rende più comprensibile. La teoria di Newton 21 infatti spiega
meglio i principi della meccanica. Come aveva detto Eulero nella
sua Mechanica del 1736, per rappresentarsi un moto assoluto e
una quiete assoluta, cioè un moto reale, bisogna fare riferimento
ad uno spazio unico e ad un unico tempo; ma cosa sono questo
spazio e questo tempo? Non sono sostanze, ossia cose esistenti, come
gli alberi, gli uomini o le montagne, e d'altra parte debbono contene­
re tutti i corpi. Come concepirli? Appartengono a un mondo fanta­
stico, dice Kant (Dissertazione, § 15; G.S., II, p. 404). La teoria di
Leibniz, però, cade in un errore di gran lunga peggiore (ibid. ), per­
ché non va solo incontro a difficoltà metafìsiche, come quella di
Newton, ma, per ciò che riguarda lo spazio, i leibniziani « vanno
contro gli stessi fenomeni e contro la fedelissima interprete di tutti
i fenomeni: la geometria. Infatti... abbassano la geometria dal verti­
ce della certezza al livello di quelle scienze i cui principi sono
empirici. Invero, se tutte le proprietà dello spazio sono ricavate
con l'esperienza dalle relazioni esterne, agli assiomi della geometria
compete solo quell'universalità che si può ottenere per induzione
paragonando oggetti diversi... sicché si potrebbe sperare, come av­
viene nelle scienze empiriche, di scoprire una volta o l'altra uno
spazio dotato di proprietà primitive diverse, magari uno spazio a due
o una dimensione » (ibid. ).
Per capire questa obiezione kantiana, teniamo presente che Kant
condivide il concetto empiristico di astrazione: astrarre per lui
vuol dire isolare un elemento nel complesso del dato, poniamo il co­
lore dalle altre qualità di un corpo. Ora un dato hic et nunc non
diventa universale per il fatto di essere isolato dal contesto (il
rosso di una mela non diventa universale per il fatto di essere iso­
lato dalle altre qualità della mela); quindi su un dato astratto nor1
si possono formulare proposizioni universali; si potranno solo accu­
mulare esperienze, constatare che in tanti casi quel dato si è pre­
sentato cosi, e generalizzare questa constatazione. Se lo spazio è
un aspetto astratto dall'esperienza, la scienza dello spazio, la geo-

2() La posizione della teoria dello spazio e del tempo rispetto a quelle di Newton
e di Leibniz si trova anche nella Critica della ragion pura, par. 7. (G.S., II, p. 63;
Ragion pura, p. 82).
21
Cfr. sopra, p. 258.
628 FILOSOFIA MODERNA

metria sarà dunque una scienza fatta di generalizzazioni empiriche.


Ora non c'è niente di cui Kant sia più convinto che della rigorosa
universalità e necessità delle proposizioni geometriche 22• Di qui la
sua condanna della teoria leibniziana.
Un'altra obiezione che egli fa a questa teoria è che le nozioni
di esterno e di successivo presuppongono quelle di spazio e tempo,
quindi non si può dire che lo spazio è l'insieme delle relazioni
esterne e il tempo è la relazione fra successivi se non cadendo in
un circolo vizioso. Agli inconvenienti della teoria newtoniana
Kant pone rimedio affermando che spazic unico e tempo unico
non sono realtà indipendenti dallo spirito umano, ma sono i mo­
di nei quali l'uomo percepisce necessariamente gli oggetti sensi­
bili: questo vuol dire l'affermazione kantiana che spazio e tempo
sono intuizioni pure. Intuizioni, perché sono condizioni della co­
noscenza sensibile - e Kant usa come sinonimi intuizione e cono­
scenza sensibile -; pure, perché sono a priori, cioè non sono rica­
vate dall'esperienza, ma sono modi nei quali lo spirito umano coglie
necessariamente gli oggetti sensibili.
La tesi che la conoscenza sensibile sia fenomenica, sia cioè del­
le cose come appaiono, e non delle cose in sé, non dipende da questa
teoria sullo spazio e sul tempo; tant'è vero che l'affermazione che
gli oggetti sensibili sono fenomeni compare nella seconda sezione
della Dissertazione, prima che si parli di spazio e tempo; ma dipende
da una dottrina ormai invalsa: da Galileo e da Cartesio in qua tutti
sono d'accordo nel ritenere che i dati sensibili siano soggettivi.
La teoria dello spazio e del tempo come intuizioni pure, come forme
a priori, spiega caso mai il carattere di universalità e necessità di
certe scienze, come la geometria, l'aritmetica, la meccanica raziona­
le (Dissertazione, § 12; G.S., II, p. 397).

La meccanica adopera anche il concetto di forza, come causa di


certi fenomeni ( causa di accelerazione), adopera il concetto di massa
o quantità di materia, e questi concetti non sono dati nell'intuizione
sensibile come la spazialità e la temporalità: sono pensati, sono
escogitati, se è lecito dir così, per spiegare certi fenomeni; ma il

22
Anche Leibniz ne era altrettanto convinto, ma aveva un diverso concetto del­
l'astrazione.
KANT 629

discorso su questi concetti non rientra nella Dissertazione del '70


e il problema del loro carattere occuperà ancora per molti anni Kant.
Il risultato più notevole della Dissertazione del '70 è che si
può avere una scienza universalmente valida anche del mondo feno­
menico: accanto a questa è lasciato un posto alla metafisica (nella se­
zione quarta), ma è un posto molto limitato: la metafisica si limita
a dire che l'unità del mondo sensibile, data dallo spazio e dal tem­
po, è fondata sull'unità del mondo intelligibile, data dalla dipen­
denza di tutte le cose da un'unica causa. Anzi, andando oltre quello
che può essere dimostrato (par. 22, Scolio) si potrebbe affermare
che spazio e tempo sono in noi un riflesso dell'unità della Causa rhe
sostiene l'universo - tesi che si avvicinerebbe a quella di Malebran­
che, secondo la quale noi vediamo tutte le cose in Dio.

6. La lettera a M. Herz e il problema della


« Critica della ragione pura »

Il passo ulteriore della Critica della ragione pura 23 rispetto al­


la Dissertazione del '70 è l'affermazione che solo del mondo fenome­
nico si può avere scienza rigorosa e universalmente valida. I con­
cetti dell'intelletto non ci fanno conoscere le cose in sé, ma dànno
solo unità - una unità ulteriore a quella dello spazio e del tempo
- alle intuizioni sensibili.

" La Critica della ragion pura si divide in Dottrina degli elementi e Dottrina del
metodo. La prima si suddivide in: Estetica trascendentale e Logica trascendentale.
L'estetica trascendentale è la dottrina della sensibilità, e tratta dello spazio e del tem­
po come intuizioni pure. La logica trascendentale è la dottrina dell'intelletto e si sud­
divide in Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale. All'inizio della logica
trascendentale Kant spiega che cosa intenda per analitica e dialettica. Nella logica for­
male ( quella che studia la pura forma del pensiero prescindendo da qualsiasi conte­
nuto, vuoi puro vuoi empirico) l'analitica è l'esposizione delle leggi del pensiero con­
siderato nella sua pura forma, la dialettica sorge quando si usano queste forme vuote
come se ci potessero, da sole, dire qualcosa sulla realtà. Si ha una dialettica quando
si pretende di spiegare la struttura o il carattere di un ente reale adoperando solo
principi logici, come il principio di identità. Un esempio di dialettica nell'ambito della
logica formale potrebbe essere quello della satira molièriana: « l'oppio fa dormire per­
ché ha la virtus dormitiva », frase in cui si pretende di spiegare una qualità dell'oppio
adoperando solo il principio di identità. Nella logica trascendentale ( quella che pre­
scinde solo dai contenuti empirici, ma non dai concetti puri) l'analitica è l'esposizione
dei concetti puri nel loro uso legittimo; la dialettica sorge quando si usano quei con­
cetti, che sono concetti vuoti, per conoscere realtà che non cedono sotto l'esperienza
realtà delle quali ci manca il contenuto. In genere si può dire che " dialettica " per Kant'
vuol dire logica della conoscenza illusoria.
630 FILOSOFIA MODERNA

Come si è detto, il problema dei concetti dell'intelletto occupò


per molti anni la mente di Kant. In una famosa lettera del 21 feb­
braio 1772 a Marcus Herz, che era stato il respondens della Disser­
tazione del 70 24, Kant presenta cosi il suo problema:
« Su cosa si fonda il rapporto fra ciò che in noi si chiama rappre­
sentazione e l'oggetto? Se la rappresentazione contiene solo il mo­
do nel quale il soggetto è affetto dall'oggetto, è facile vedere co­
me essa debba essere conforme all'oggetto come effetto a causa, e
come questa determinazione del nostro animo possa rappresentare
qualche cosa, ossia avere un oggetto. Le rappresentazioni passive
e sensitive hanno dunque un comprensibile rapporto con l'oggetto,
e i principi che vengono desunti dalla natura dell'anima nostra
hanno una comprensibile validità per le cose in quanto queste deb­
bono essere oggetto dei sensi. Parimenti: se ciò che in noi si chia­
ma rappresentazion� fosse attivo rispetto all'oggetto, cioè se dal­
la rappresentazione fosse prodotto l'oggetto, cosi come si concepi­
scono le conoscenze divine, come modelli archetipi (Urbilder) delle
cose, la conformità delle rappresentazioni con l'oggetto potreb­
be pure esser capita. È dunque comprensibile sia la possibilità di
un intellectus archetypus, sull'intuizione del quale si fondano le co­
se stesse, sia la possibilità di un intellectus ectypus, che attinga i da­
ti delle sue operazioni logiche dall'intuizione sensibile delle cose.
Ma né il nostro intelletto è la causa dell'oggetto (fuorché nella mo­
rale, dove è causa del fine buono) né l'oggetto è causa delle rappre­
sentazioni intellettuali (in sensu reali). I concetti puri dell'intel­
letto non debbono dunque essere astratti dalle impressioni dei sen­
si né debbono esprimere la recettività delle rappresentazioni otte­
nute mediante i sensi. ..
« Nella Dissertazione mi contentai di determinare solo negati­
vamente la natura delle rappresentazioni intellettuali, dicendo che
esse non sono modificazioni dell'anima prodotte dall'oggetto. Ma
passai sotto silenzio il problema del come diamine sia possibile
una rappresentazione che si riferisca ad un oggetto senza essere in
qualche modo affetta da esso. Là dicevo: le rappresentazioni sensi-

" Le dissertazioni accademiche avevano ancora la forma della disputa/io medievale,


nella quale alle obiezioni poste dagli opponentes, rispondeva un respondens a nome
del maestro, il quale poi difendeva la propria soluzione (tuebitur, si dice nel titolo
della Dissertazione; nel medioevo la soluzione del maestro era detta determina/io).
KANT 631

bili rappresentano le cose come ci appaiono, le intellettuali ce le rap­


presentano come sono. Ma come ci vengono date queste cose se il
loro esser date non è un afficere nos? e se tali rappresentazioni intel­
lettuali si fondano sulla nostra attività interiore, donde viene la
conformità che esse debbono avere con oggetti che non sono tutta­
via da esse prodotti? E gli assiomi della ragion pura su questi og­
getti perché sono conformi con questi, senza che tale conformità sia
stata attinta con l'aiuto dell'esperienza? Nella matematica le cose
vanno; poiché gli oggetti che ci stanno dinnanzi sono grandezze
e sono rappresentati come grandezze solo perché possiamo produr­
re la loro rappresentazione prendendo più volte l'unità. Perciò i
concetti di grandezza sono fatti da noi e i loro principi possono es­
sere costituiti a priori. Ma per ciò che riguarda le qualità, come può
il mio intelletto formarsi concetti delle cose del tutto a priori, con­
cetti coi quali le cose debbono accordarsi necessariamente? Come
può pronunciare principi reali sulla loro possibilità, principi coi
quali deve fedelmente accordarsi l'esperienza, e che pur sono indi­
pendenti da essa? Questo problema lascia sempre dietro di sé una
oscurità riguardo alla nostra facoltà intellettiva: donde le venga
questò accordo con le cose» (G.S., X, pp. 130-131).
Per renderci ben conto del problema kantiano dobbiamo tener
presenti i presupposti di Kant, che sono i seguenti: 1) Il soggetto
può « ricevere» dall'oggetto solo mediante la sensibilità; dunque so­
lo mediante la sensibilità un oggetto è dato; dunque l'intuizione può
essere soltanto sensibile. 2) Con l'intuizione sensibile si coglie solo
il singolare, il puro dato di fatto, dunque ogni concetto astratto dai
dati dell'intuizione sensibile è un concetto empirico, incapace di ge­
nerare scienza rigorosa. 3) Un concetto puro è, per definizione, in­
dipendente dai ' dati ' della sensibilità; dunque è nel nostro spirito
indipendentemente da ogni influsso degli oggetti. Dati questi presup­
posti, come può un concetto puro rappresentare un oggetto? In virtù
di una armonia prestabilita, per cui ogni monade rifletta in sé l'uni­
verso intero? In virtù di una visione delle cose in Dio, alla Male­
branche? Questi voli metafisici non persuadono Kant: manca loro
ogni giustificazione. Se possedessimo un concetto delle cose senza ri­
cevere un influsso dalle cose stesse, la nostra conoscenza intellet­
tuale parteciperebbe dei caratteri che la tradizione attribuisce alla
conoscenza divina; avremmo delle cose un« intuito originario», una
632 FILOSOFIA MODERNA

intmz1one creatrice, che sarebbe all'origine delle cose stesse. Ora


è una convinzione radicata in Kant che l'intelletto umano è un
intelletto finito, limitato.

7. I giudizi sintetici a priori

In questa lettera del 1772 si parla di concetti e di assiomi, col­


legando i due problemi, e la soluzione del primo porterà a risol­
vere anche il secondo. Ricordiamo infatti che già nello scritto del
1763 sulle Grandezze negative Kant si era chiesto come fosse possi­
bile collegare necessariamente due concetti diversi; se lo era chie­
sto a proposito del nesso di causa ed effetto, probabilmente sotto
l'influsso di Hume; ora il problema si allarga a tutti i giudizi 25
che connettono necessariamente concetti diversi. Tali giudizi sono
chiamati da Kant giudizi sintetici a priori; sintetici perché il pre­
dicato aggiunge una nozione nuova a quella del soggetto, a priori
perché sono necessari e universali. Che tali giudizi ci siano, fac­
ciano parte della scienza, è ammesso da Kant come un fatto. Egli è
convinto infatti che esistano scienze con valore: ne sono esempi le
matematiche e la :fisica newtoniana; ora una scienza deve contenere
giudizi sintetici a priori, poiché non bastano a costituire una scien­
za né solo giudizi analitici, né solo giudizi sintetici a posteriori.
Giudizi analitici sono quelli nei quali il predicato esprime un ca­
rattere già compreso nel concetto del soggetto {l'esempio kantia­
no è « tutti i corpi sono estesi »), sono giudizi che non possono es­
sere negati senza contraddizione; ora giudizi di questo tipo sono si'.
necessari e universali, sono conosciuti in virtù di una semplice ri­
flessione sul concetto che fa da soggetto senza bisogno di consultare
l'esperienza (e in questo senso sono a priori), poiché non c'è bisogno
di verifiche sperimentali per sapere che una cosa è se stessa; ma
sono tautologici, non arricchiscono la nostra conoscenza. I giudizi
sintetici a posteriori aumentano sf la nostra conoscenza, ma connet­
tono soggetto e predicato in base ad una constatazione di fatto
(l'esempio kantiano è « tutti i corpi sono pesanti ») 26, quindi non

25
Più esattamente si dovrebbe dire proposizioni, ma, poiché Kant usa sempre H
termine giudizio, seguiremo la sua terminologia.
"' Non sempre infatti si è saputo che tutti i corpi seno pesanti: gli antichi cre­
devano che l'aria e il fuoco fossero per loro natura leggeri.
KANT 633

sono rigorosamente necessari e universali, perché la constatazione


di un fatto, anche molte volte ripetuta, non mi assicura che le cose
andranno sempre in quel modo: domani si potrebbe scoprire un
corpo non soggetto alla legge di gravità.
Devono dunque esserci giudizi sintetici a priori; ma come sono
possibili? Questo, dichiara Kant nella Introduzione alla Critica del­
la ragione pura è, non un problema, ma il problema della Critica
della ragione pura (G.S., III, p. 39; R. pura, p. 51 ).

8. La deduzione trascendentale delle categorie


e la soluzione del problema

Ora la soluzione del problema è data proprio in base alla nuova


teoria dei concetti puri; nuova rispetto alla Dissertazione del '70.
Nella Critica della ragion pura i concetti dell'intelletto non sono
più intesi come nozioni capaci di esprimere le cose in sé, ma come
forme unificatrici dei dati della sensibilità. Infatti la soluzione del
problema « come sono possibili giudizi sintetici a priori? » viene
enunciata nel« principio supremo dei giudizi sintetici a priori », do­
po la deduzione dei concetti puri dell'intelletto o categorie zt. Il
principio dei giudizi sintetici a priori - quello che sta ai giudizi
sintetici a priori come il principio di non-contraddizione sta ai giu­
dizi analitici - è formulato cosi: « le condizioni della possibilità
dell'esperienza in generale sono ad un tempo condizioni della possi­
bilità degli oggetti dell'esperienza» (G.S., III, p. 145; R. pura,
p. 181 ).
Per chiarire questo principio teniamo presente che « oggetto di
esperienza » 28 è ciò di cui si parla, ma specialmente ciò di cui si

" Ci sono due « deduzioni » dei concetti puri o categorie, nella Critica della ra­
gion pura: quella che Kant stesso chiama nel par. 26 deduzione metafisica (G.S., III,
p. 124; R. Pura, p. 156) e la deduzione trascendentale: la prima ricava le categorie
dalle forme del giudizio, in base alla tesi che pensare è giudicare; della seconda, che
è di gran lunga la più importante, parleremo nel testo.
21
"Esperienza" è termine polisenso in Kant; talora significa la materia della
conoscenza, i dati della sensibilità; talora invece il risultato della sintesi fra i dati
della sensibilità e le forme a priori che uni.6.L.mo quei dati e costituiscono un og­
getto. Un corpo, p. es., non è semplicemente un caos di dati sentiti, ma è l'unificazione
di questi dati nello spazio, nel tempo e nelle categorie di quantità, di sostanza. Il ter­
mine « oggetto di esperienza » ha sempre questo secondo significato - per quanto
mi consta.
634 FILOSOFIA MODERNA

parla quando si fa scienza (p. es. il corpo soggetto alle leggi della
meccanica); ora la deduzione trascendentale delle categorie intende
dimostrare che senza concetti puri, senza categorie, non ci sono og­
getti di esperienza; che le categorie entrano necessariamente a co­
stituire gli oggetti di esperienza. Vi entrano come forme unifica­
trici dei dati sensibili. Si capisce quindi che le condizioni della
possibilità dell'esperienza, che sono la sensibilità e l'intelletto, le
intuizioni e i concetti, siano le stesse condizioni della possibilità
degli oggetti dell'esperienza, poiché l'oggetto di esperienza è co­
stituito dalle intuizioni e dalle categorie.
La deduzione trascendentale delle categorie 29 è una delle parti
più tormentate della Critica della ragione pura, e fu rifusa com­
pletamente dalla prima alla seconda edizione. Kant stesso dice,
nella Prefazione alla prima edizione, che essa è una delle parti
più importanti dell'opera e distingue in essa un lato (Seite) sogget­
tivo ed uno oggettivo: il primo parte dalle facoltà dello spirito uma­
no (sensibilità, immaginazione, intelletto) per mostrare come esse
contribuiscano a costituire l'oggetto di esperienza; il secondo parte
dall'oggetto per mostrare come entrino a costituirlo e i dati della sen­
sibilità e i concetti dell'intelletto. Sia nell'uno come nell'altro
aspetto, o lato, la deduzione trascendentale vuol essere la dimo­
strazione che le categorie sono necessarie per costituire l'oggetto.
Nella seconda edizione prevale l'aspetto oggettivo della dedu­
zione o, come si dice impropriamente, la deduzione oggettiva, e noi,
per semplificare, ci limiteremo a questa, soffermandoci un momento

" Anche " trascendentale" è un termine che ha molti significati in Kant: A.


GIDEON Der Begrilf Transcendental in Kants Kritik der reinen Vernunft ne ha distinti
tredici solo nella R. pura. Noi vorremmo distinguerne almeno due. Filosofia trascen­
dentale è chiamata da Kant la metafisica negli scritti precritici e nella dissertazione
del '70, e la metafisica tratta dei concetti puri dell'intelletto (Dissert., par. 8; G.S., II,
p. 395), di quei concetti cioè che sono le condizioni della pensabilità di un oggetto.
Quando Kant, nella Critica della ragion pura, concepisce l'oggetto conosciuto non più
come cosa in sé, ma come fenomeno, quei concetti sono intesi come le condizioni del­
la pensabilità del fenomeno, come condizioni dell'apparire a noi di un oggetto; e ,11-
lora la filosofia trascendentale diventa dottrina che tratta delle condizioni alle qu1li
può apparire a noi un oggetto, e Kant dirà: « Chiamo trascendentale ogni. conoscenza
che ha a che fare non con oggetti, ma col nostro modo di conoscere gli oggetti in
quanto deve essere possibile a priori» (G.S., III, p. 43; R. pura, p. 58). E questo è
il significato «critico» o nuovo del termine "trascendentale". Ma poiché la . Critica
della ragion pura rivela la stratificazione di scritti appartenenti a periodi diversi, ta­
lora il termine " trascendentale " ha il significato precritico di « riferentesi alfa cosa
in sé, al . noumeno», e questo specialmente nella Dialettica, .che è certo la pllfte più
antica della Critica (poiché si trova in buona parte anticipata negli scritti precritidl.
KANT 635

su un capoverso che ne esprime, ci sembra, il nocciolo: « L'intel­


letto è, per parlare in generale, la facoltà delle conoscenze. Queste
consistono nel rapporto determinato di date rappresentazioni con un
oggetto. Ma l'oggetto è ciò nel cui concetto il molteplice di una data
intuizione è unificato. Se non che ogni unificazione delle rappresen­
tazioni richiede l'unità della coscienza nella sintesi di esse. Dun­
que l'unità della coscienza è ciò che costituisce il rapporto delle
rappresentazioni con un oggetto, e quindi la loro validità oggettiva,
ossia ciò che le fa conoscenze ... » (G.S., III, p. 111; R. pura, p. 140).
Il che vuol dire: l'oggetto della conoscenza 30 non è un caos di
impressioni, è una unità (« ciò in cui il molteplice è unificato >>);
ora l'unità non può venire dai dati della sensibilità: questi sono il
puro caos delle impressioni; dunque l'unità viene dall'intelletto,
dall'unità della coscienza, dall'Io penso 31, come Kant dice mezzs
pagina dopo. Si noti poi che l'unità dell'oggetto è quell'unità che
tiene strette, per dir così, le varie proprietà dell'oggetto, è ciò
che ne costituisce il legame (Verbindung), e questo legame si espri­
me nel giudizio. Ciò che lega il rosso e la pesantezza del cinabro
(l'esempio è di Kant) 32 è ciò che mi permette di formulare il giudi­
zio: « il cinabro (visto come rosso) è pesante». Ora il giudizio non
esprime per Kant un legame soggettivo; non vuol dire soltanto ( co­
me avrebbe pensato Hume): alla mia percezione di rosso si associa
l'immagine della pesantezza; ma vuol dire: c'è un legame necessario
fra le due proprietà - e la necessità non può venire dai dati della
sensibilità.
Così dunque è « dedotta », ossia giustificata, dimostrata, la pre­
senza unificatrice dell'intelletto per costituire l'oggetto, e così
è risolto il problema del come siano possibili giudizi sintetici a
priori. Se infatti l'oggetto è costituito tale dalla attività unificatrice
dell'intelletto, si capisce come mai le leggi della natura, ossia de­
gli oggetti, siano conosciute a priori e non per generalizzazione
dall'esperienza: è perché le leggi della natura sono le leggi imposte

'
0
E qui " conoscenza " è preso nel senso di conoscenza valida, conoscenza scientifica.
"· L'Io penso è chiamato anche « unità trascendentale dell'appercezione'> (G.S., III,
p. 113, R. pura, p. 142); dove si vede che il predicato "trascendentale" è trasferii.o
anche dalla indagine a ciò su cui l'indagine verte: trascendentale è non solo la dedu­
zione delle categorie, ma anche ciò che essa mette in luce: l'Io penso come condi­
zione della conoscibilità dell'oggetto.
32
Nella prima edizione, G.S., IV, p. 78; R. pura, p. 665.
636 FILOSOFIA MODERNA

dall'intelletto stesso, perché l'intelletto con le sue categorie entra


a costituire l'oggetto dell'esperienza, è autore, non spettatore di
esso. « Le categorie sono concetti che prescrivono a priori leggi ai
fenomeni, cioè alla natura come complesso di tutti i fenomeni (natu­
ra materialiter spectata); ed ora, poiché esse non sono derivate dal­
la natura e non si regolano su questa come modello ( ché altrimenti
sarebbero puramente empiriche), ci si domanda come sia concepi­
bile che la natura si regoli su esse, ossia come le categorie possano
determinare a priori la connessione del molteplice della natura, sen­
za ricavarla [per esperienza] da questa. Qui vi è la soluzione di que­
sto enigma. Non è infatti per nulla più strano che le leggi dei feno­
meni della natura debbano accordarsi con l'intelletto ... di quel che
i fenomeni stessi debbano accordarsi con la forma a priori dell'in­
tuizione sensibile. Poiché le leggi non esistono nei fenomeni, ma so­
lo relativamente al soggetto a cui i fenomeni ineriscono, in quanto
soggetto intellettivo, cosl come i fenomeni non esistono in sé, ma
solo relativamente al medesimo soggetto in quanto sensitivo» (G.S.,
III, pp. 126-127; R. pura, pp. 58-59).

9. I principi della ragion pura

Una volta dimostrato l'intervento dell'intelletto nella costitu­


zione dell'oggetto, resta da esaminare come l'attività dell'intellet­
to si specifichi nelle varie categorie, ossia quali e quante siano le
categorie e come entrino in funzione nei principi della conoscenza,
cioè nelle proposizioni universalissime che stanno a fondamento del
sapere. Al primo problema ( quali e quante sono le categorie) Kant
aveva già risposto in una « deduzione », che egli chiama « metafisi­
ca», delle categorie e che consiste nel far corrispondere le categorie
ai tipi di giudizio. Kant infatti riconosce ad Aristotele il merito
di aver cercato quali siano i supremi concetti del nostro intelletto,
ma gli rimprovera di averli enumerati disordinatamente ( « rapsodi­
sticamente » ), senza un « filo conduttore ». Il filo conduttore è dato
per Kant dal giudizio. Il giudizio infatti è l'attività nella quale si
manifesta la caratteristica dell'intelletto, che è la « spontaneità»,
mentre la sensibilità è passività, « recettività ». L'intelletto è la
facoltà di giudicare; i supremi concetti potranno dunque facilmente
essere dedotti dalle « funzioni dell'unità nei giudizi » (G.S., III,
KANT 637

p. 86; R. pura, p. 111). Assumendo quindi dai manuali di logica del


suo tempo una tabella dei tipi di giudizio, Kant le fa corrispondere
una tabella delle categorie 13•
Al secondo problema ( come le categorie entrino in funzione riei
principi dell'intelletto) è dedicata la seconda parte dell'analitica
trascendentale, l'analitica dei principi. Ci limiteremo qui a ricor­
dare come Kant dimostri la necessità delle categorie della relazione
- sostanza, causa, azione reciproca - che sono le categorie centrali

TABELLA DEI GIUDIZI


1
Quantità dei giudizi
Universali
Particolari
Singolari
2 3
Qualità Relazione
Affermativi Categorici
Negativi Ipotetici
Infiniti Disgiuntivi
4
Modalità
Problematici
Assertori
Apodittici

TABELLA DELLE CATEGORIE


1
Della quantità
Unità
Pluralità
Totalità
2 3
Della qualità Della relazione
Realtà dell'inerenza e sussistenza
( sostanza e accidente)
Negazione della causalità e dipendenza
(causa ed effetto)
Limitazione delle comunanza (azione reciproca
fra agente e paziente)
4
Della modalità
Possibilità - impossibilità
Esistenza - inesistenza
Necessità - contingenza
638 FILOSOFIA MODERNA

nel sistema kantiano. L'applicazione di tali categorie dà luogo a


quei principi che Kant chiama analogie dell'esperienza 34•
Che le analogie dell'esperienza siano le leggi fondamentali è
dimostrato dall'enunciazione del loro principio generale: « L'espe­
rienza è possibile soltanto mediante la rappresentazione di una con­
nessione necessaria delle percezioni» (G.S., III, p. 158; R. pura,
p. 195), proposizione che è il risultato della deduzione trascenden­
tale.
La prima analogia è il « principio della permanenza della sostan­
za», ed è formulata cosi: « In ogni mutamento dei fenomeni la so­
stanza permane, e la quantità di essa nella natura non aumenta né di­
minuisce» (G.S., III, p. 162; R. pura, p. 200). Questo principio è
una condizione necessaria per concepire il mutamento. Infatti il mu­
tamento suppone qualche cosa che permane sotto l'apparire e lo scom­
parire dei fenomeni, poiché se non ci fosse un substrato che resta
identico, non si potrebbe parlare di mutamento, ma solo di asso­
luta molteplicità. Se, ad esempio, un oggetto scompare totalmen­
te e un altro appare al suo posto, non possiamo dire che il primo
sia mutato; diciamo che è mutato solo se qualche cosa di esso
è rimasto identico, ad esempio se è rimasta la quantità, mentre
le sue qualità sono scomparse per dar luogo ad altre, oppure se
sono rimaste le qualità, mentre è scomparsa la forma, e cosi via.
Ma poniamo che un oggetto sia totalmente scomparso ed un al­
tro si trovi al suo posto, che, ad esempio, io trovi nel mio studio,
al posto del tavolino, un letto: avrei ugualmente la percezione di
un cambiamento. Questo però avverrebbe perché osserverei che lo
spazio prima occupato dal tavolino, ora è occupato dal letto. Dob­
biamo dunque presupporre un tempo unico, rispetto al quale si
possa fissare. un prima e un poi; ora il tempo unico ·non può essere
il tempo vuoto, poiché come tale esso non è percettibile: « Dun­
que si deve poter trovare negli oggetti della percezione, ossia nei
fenomeni, il substrato che rappresenta il tempo in generale» (G.S,
p. 162; R. pura, p. 200), e questo substrato, rispetto al quale è
osservato ogni· mutamento, è la sostanza.

" Oltre le analogie dell'esperienza i principi sono: assiomi dell'intuizione (corri­


spondenti alle categorie della quantità),' anticipazioni della percezione (corrispondenti al­
le categorie della qualità), postulati del pensiero empirico (corrispondenti alle cate­
gorie della modalità).
KANT 639

Kant parla di quantità della sostanza, il che ci fa capire che


egli non ha in mente né l' oùcrlix aristotelica né la monade leibnizia­
na, ma piuttosto la quantità di materia, la massa della fisica newto­
niana. Nei Principi metafisici della fisica egli fa del resto corri­
spondere alla prima analogia dell'esperienza la proposizione: « In
tutti i mutamenti della natura corporea la quantità di materia resta
identica, non aumenta né diminuisce» (G.S., IV, p. 541; trad. it.,
p. 121). Per Kant questa legge della meccanica newtoniana era non
già una ipotesi induttiva, ma l'applicazione di un principio necessa­
rio dell'intelletto umano.
Altrettanto si dica della seconda analogia, la legge di causali­
tà: « Tutti i mutamenti avvengono secondo la legge del nesso di cau­
sa ed effetto» (G.S., III, p. 166; R. pura, p. 206). Causa è l'antece­
dente necessario, effetto il conseguente necessario. Il concetto di
causa aggiunge dunque a quello di antecedente nel tempo la nozio­
ne di antecedente necessario - come già aveva detto Hume -.
Ma Hume aveva spiegato questa necessità come un bisogno sogget­
tivo, Kant invece la spiega come una categoria dell'intelletto, e ri­
cordiamo che è l'intelletto quello che dà oggettività, ossia validità
universale, all'oggetto. La dimostrazione della seconda analogia è
lunga, e contiene ripetizioni. E. Adickes, seguito da altri studiosi di
Kant, distinse in questa dimostrazione sei argomenti, che probabil­
mente riflettono redazioni successive, conservate tutte da Kant, per
rendere più convincente il discorso. Il nocciolo dei vari argomenti
mi sembra il seguente: il mutamento implica la successione; ora in
certi casi la successione ci si presenta irreversibile, e quindi la attri­
buiamo all'oggetto, in altri casi possiamo invertire l'ordine della
successione, e allora la attribuiamo al nostro modo di percepire, ri­
teniamo che essa sia soltanto nelle nostre rappresentazioni e non
nell'oggetto. Ma oggettivo equivale a necessario; quando dunque
attribuiamo la successione all'oggetto, il prima e il poi ci appaiono
connessi necessariamente, e tale necessità non può venire che dal­
l'intelletto: è una categoria.
Un esempio di Kant chiarisce il discorso: le successive posizioni
di una barca che scende il corso di un fiume ci si presentano come
appartenenti alla barca, tali che non possiamo a nostro arbitrio in­
vertirne l'ordine e far precedere la posizione più a valle rispetto a
quella più a monte; invece le successive rappresentazioni delle parti
di una casa che percorriamo con lo sguardo dal pianterreno al tetto
640 FILOSOFIA MODERNA

non ci si presentano legate in un ordine irreversibile: possiamo far


precedere la rappresentazione del tetto a quella del pianterreno; di­
ciamo quindi che nella casa non c'è successione: la successione è
soltanto soggettiva. E si badi (lo dice Kant stesso), che in entram­
bi i casi abbiamo a che fare solo con le nostre rappresentazioni,
quindi sarebbe vano cercare un criterio di oggettività fuori di esse.
Alla seconda analogia dell'esperienza corrisponde, nei Principi
metafisici della fisica, la seconda legge della meccanica: « Ogni mu­
tamento della materia ha una causa esterna», e Kant stesso iden­
tifica questa proposizione col principio di inerzia (G.S., IV, p. 543;
trad. it., p. 123 ). D'altra parte la « legge di causalità» è identifica­
ta col principio di ragion sufficiente 35; si vede dunque che a pro­
posito della causalità c'è una contaminazione di fisica e metafisica.
La terza analogia dell'esperienza dice: « Tutte le sostanze, in
quanto possono essere percepite nello spazio come contemporanee,
sono in continua azione reciproca» (G.S., p. 180; R. pura, p. 222).
È facile vedere la corrispondenza fra questo principio e la terza
legge della meccanica newtoniana.

10. Lo schematismo

Nella formulazione delle analogie dell'esperienza abbiamo sem­


pre trovato un riferimento al tempo. Il tempo ha quindi non solo la
funzione di condizione della conoscenza sensibile, ma anche quella
di intermediario fra il concetto puro e i dati della sensibilità. Fin
dalla Dissertazione del '70, nel Corollario alla terza sezione, Kant
aveva avvicinato il tempo ai concetti e aveva affermato che esso è la
condizione per mezzo della quale « la mente può comparare le sue
conoscenze secondo le leggi della ragione »; nella Critica della ragion
pura fa del tempo la condizione universale di applicabilità delle ca­
tegorie alle intuizioni: come tale il tempo è lo schema dei concetti
puri.

" « Ma questa regola per determinare qualcosa nella successione cronologica, è,


che in ciò che precede ha da trovarsi la condizione sotto la quale segue sempre (ne­
cessariamente) l'evento. Dunque il principio di ragione sufficiente è il fondamento di
una possibile esperienza, cioè della conoscenza oggettiva dei fenomeni...» (G.S., III,
p. 174; R. pura, p. 215). Kant identifica dunque la proposizione « di ogni fatto vi è
una ragione» (principio di ragion sufficiente) con la proposizione « di ogni fatto deve
trovarsi la ragione in ciò che lo precede nel tempo».
KANT 641

Il capitolo sullo schematismo dei concetti puri è assai difficile,


forse anche perché in esso convergono due motivi: uno è quello
dichiarato da Kant stesso: i concetti puri dell'intelletto sono « affat­
to eterogenei » alle intuizioni sensibili e, d'altra parte, devono ap­
plicarsi ad esse per costituire l'oggetto; occorre dunque un medio
fra la categoria e le intuizioni, e questo è lo schema. E poiché nella
deduzione trascendentale Kant ha presentato l'immaginazione co­
me facoltà intermedia tra l'intelletto e la sensibilità, lo schema è in­
teso come un prodotto dell'immaginazione. Non è l'immagine sen­
sibile e singolare, ma l'immagine vista come esempio di un con­
cetto. Quando, p. es., si pensa un numero, il concetto di quantità
deve incarnarsi in una immagine sensibile; poniamo che sia l'im­
magine di cinque punti, cosl: ..... Tale immagine non è ancora sche­
ma: diventa schema quando la considero come un esempio del nu­
mero, quando dico a me stesso: la quantità è ciò che è numerabile
come questi cinque punti (G.S., III, p. 135; R. pura, p. 169). Ora
il numerare esige il tempo.
Il motivo non dichiarato dello schematismo e dell'affermazione
che il tempo è lo schema di tutte le categorie è, secondo H. Cohen 36,
che la nozione di tempo è implicita nell'applicazione dei concetti di
materia, forza, azione alla spiegazione dei fenomeni. Nella Disserta­
zione del '70 Kant aveva detto che le intuizioni pure di spazio e tem­
po sono le condizioni della possibilità della matematica pura, la qua­
le comprende geometria, aritmetica e meccanica pura o teoria del
moto (De mundi sensibilis, §12). Ora la meccanica comprende la
descrizione del movimento e delle sue leggi, indipendentemente
dalle cause che lo producono (cinematica), e lo studio del movi­
mento in rapporto alle cause che lo producono (dinamica). Per la ci­
nematica bastano le nozioni di spazio e tempo, per la dinamica occor­
rono anche quelle di materia, di forza, di azione, le quali non sono
date nell'intuizione, ma sono pensate come condizione dei fenomeni,
ossia sono, in termini kantiani, concetti puri (materia, forza, azione
corrispondono alle tre fondamentali categorie kantiane, quelle della
relazione). Il tempo è non solo la forma di tutti gli oggetti sensibili,
ma anche la condizione di applicabilità di quei concetti alla spiega­
zione dei fenomeni. La materia è intesa come il permanente, e la

36
Kants Theorie der Erfahrung, 3• ed., Berlin, Bruno Cassirer, 1918, pp. 246, 786.
Chi scrive aderisce a questa interpretazione.
642 FILOSOFIA MODERNA

permanenza implica il tempo; la forza è concepita come causa di ac­


celerazione, e l'accelerazione implica la nozione di tempo; l'azione
reciproca implica la contemporaneità. La funzione del tempo nel­
l'applicazione di queste tre categorie fondamentali è poi stata gene­
ralizzata anche alle altre categorie.

11. La dialettica trascendentale

La deduzione trascendentale ha dimostrato l'intervento dell'in­


telletto nella costituzione dell'oggetto, ma l'ha dimostrato solo come
attività unificatrice. Il che vuol dire che l'intelletto solo non ba­
sta a rappresentare un oggetto, che ha bisogno di un materiale da uni­
ficare, e questo materiale gli è offerto dalla sensibilità. Questa
tesi è espressa dalla famosa frase: « I pensieri senza contenuto sono
vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche» (G. S., III, p. 75;
R. pura, p. 96 ). Questo è il punto di arrivo di quella parte della Cri­
tica della ragion pura che si intitola « Analitica trascendentale» e
che, insieme con l'« Estetica trascendentale», costituisce la parte po­
sitiva della teoria kantiana della conoscenza. C'è poi una parte ne­
gativa che è una conseguenza di ciò che si è detto fin qui.
Le categorie, infatti, e i principì che su esse si fondano, pur
essendo dell'intelletto puro, quindi applicabili per loro natura a
qualsiasi realtà, non possono essere applicate a ciò che non è speri­
mentabile perché, senza il contributo della sensibilità, non sono ca­
paci di rappresentare un oggetto. E questo spiega perché la metafi­
sica sia fallita, perché non ci sia accordo sulle proposizioni della
metafisica, mentre c'è accordo sulle proposizioni scientifiche. « Se
una metafisica esistesse ( una metafisica che possa affermarsi come
scienza), se si potesse dire: ecco la metafisica; non avete che da
impararla, ed essa vi convincerà incontrastabilmente e immutabil­
mente della sua verità, allora questa domanda [ se la metafisica sia
possibile] sarebbe superflua... Ma in questo caso la ragione umana
non è stata cosl fortunata. Non si può indicare un solo libro, così co­
me si presenta un Euclide, e dire: questa è la metafisica, qui trovate
lo scopo più alto di questa scienza, la conoscenza di un Ente supremo
e di un mondo avvenire, dimostrata con principì della pura ragione»
(Prolegomeni,§ 4; G.S., IV, p. 271).
KANT 643

Nella Critica della ragion pura Kant spiega il motivo del falli­
mento della metafisica, e, come si è detto parlando degli scritti
precritici, sono state le difficoltà della metafisica che egli trova­
va nel suo ambiente culturale quelle che lo hanno spinto ad elaborare
la teoria esposta nell'Analitica trascendentale, che è la parte più
nuova della Critica della ragion pura. La Dialettica trascendentale,
che contiene la critica della metafisica tradizionale, si presenta come
la conferma della teoria esposta nell'Analitica, ma, storicamente, ne è
stata il movente, ed è la parte più antica della Critica della ragion
pura; tant'è vero che molte sue parti sono anticipate negli scritti
precritici.
La metafisica è il risultato dell'uso dialettico dei concetti del­
l'intelletto. Per uso dialettico Kant intende l'uso di concetti o di
leggi puramente formali per determinare che cosa sia ciò a cui tali
concetti si applicano. C'è una dialettica nella logica trascendentale
quando usiamo i concetti puri, le categorie, per conoscere le cose
in sé. I concetti dell'intelletto, infatti, sono forme vuote, fatte
per unificare dati sensibili; quando li usiamo per conoscere realtà
in sé, delle quali nulla ci è dato nella sensibilità, quando li usiamo
per andare oltre il mondo di una possibile esperienza, cadiamo in
una conoscenza illusoria. La metafisica nasce da un'esigenza legitti­
ma dell'intelligenza umana: quella di non fermarsi mai nella ri­
cerca delle ragioni, delle condizioni di ciò che è dato; il suo erro­
re è l'illusione di aver trovato la condizione ultima, l'incondizio­
nato. Kant chiama ragione la facoltà che ricerca l'incondizionato.
L'incondizionato che sta a fondamento dei fenomeni psichici è
l'anima; l'incondizionato che sta a fondamento dei fenomeni fisici
è il cosmo; l'incondizionato che sta a fondamento di ogni realtà è
Dio. Queste sono le tre idee della ragione, che hanno un uso rego­
lativo, ma non costitutivo. U che vuol dire: ci indicano una direzio­
ne, un punto di convergenza al quale tendono i nostri ragionamenti,
ma un punto di convergenza ipotetico, problematico, non ci rappre­
sentano un oggetto, non costituiscono un oggetto, come lo costi­
tuiscono, invece, i concetti dell'intelletto quando siano applicati
a dati sensibili.
644 FILOSOFIA MODERNA

12. I paralogismi

La prima idea criticata è quella di anima, oggetto della psicolo­


gia razionale. Una psicologia razionale, per essere veramente « ra­
zionale», cioè costituita di proposizioni necessarie e universali, de­
ve avere un oggetto indipendente da ogni esperienza. Ora di me, in­
dipendentemente da ogni esperienza, mi è dato solo l'io penso. « Se
il minimo aspetto empirico del mio pensiero, una qualunque perce­
zione particolare del mio stato interno, fosse mescolata ai fonda­
menti di questa scienza, essa non sarebbe più psicologia razionale,
ma empirica» (G.S., III, p. 263; R. pura, p. 325). Ma l'io penso
non basta a darmi un concetto dell'anima, poiché la « vuota rap­
presentazione: io» non è un concetto, « ma solo una coscienza che
accompagna ogni concetto». L'io della appercezione trascendenta­
le è un x « che è conosciuto solo mediante i pensieri che sono suoi
predicati TI, e del quale noi non possiamo mai avere il minimo con­
cetto, se ]o separiamo da questi predicati» (G.S., III, p. 265; R.
pura, p. 328). Per avere dunque un concetto dell'io, dobbiamo unir­
lo a questi predicati, dobbiamo pensarlo come una sostanza perma­
nente nel tempo; ma, pensandolo così, abbiamo già contaminato
la sua purezza, non lo concepiamo più come una cosa in sé, ma co­
me fenomeno.
La psicologia razionale si fonda su un paralogismo 38, un erro­
re di logica, sullo scambio dell'io come « soggetto logico del pen­
siero» col soggetto inteso come anima-sostanza. Il paralogismo
consisterebbe qui in una quaternio terminorum, un sillogismo
con quattro termini, anziché tre; un sillogismo la cui premessa
maggiore dice: tutto ciò che può essere soltanto soggetto (e non
predicato o determinazione di altro) è sostanza; la minore

37 Qui si potrebbe osservare che il termine "pensieri" (Gedanken) è ambiguo.


Se, infatti, vuol dire pensati, i pensati non sono affatto predicati dell'io, poiché io
non sono un triangolo se penso un triangolo; se, invece, vuol dire atti di pensiero,
questi sono si predicati dell'io (io sono pensante il triangolo), ma allora il pensato
non entra a costituire l'io, e se è un oggetto empiricamente dato, non toglie nulla
alla « purezza � dell'io.
" Nella prima edizione della Critica i paralogismi sono quattro. L'ultimo riguarda
piuttosto la gnoseologia che la psicologia, perché critica l'idealismo empirico berkeleyano,
secondo il quale l'unica realtà immediatamente evidente sarebbe il soggetto pensante;
gli altri tre contengono lo stesso tipo di errore del primo, nel quale infatti è riassunto
il discorso nella seconda edizione.
KANT 645

dice: l'io è soltanto soggetto; dunque l'io è una sostanza. Ora il


termine ' soggetto ' è preso in due significati diversi nella maggiore
e nella minore (quindi i termini sono quattro), poiché nella mag­
giore si intende per soggetto ciò che permane sotto le diverse deter­
minazioni (predicati), mentre nella minore il soggetto è la pura at­
tività unificatrice delle molteplici intuizioni.

13. Le antinomie

Se la psicologia razionale è fondata su paralogismi, le afferma­


zioni della cosmologia tradizionale danno luogo ad antinomie, cioè a
proposizioni contraddittorie (tesi e antitesi) che possono essere en­
trambe dimostrate. Lo scandalo, per dir cosl, delle antinomie, non
è che si diano soluzioni contraddittorie su vari problemi: è che la
contraddizione non si possa risolvere, che non si possa dire quale
è vera e quale è falsa, poiché si danno dimostrazioni dell'una e del­
l'altra.
Le antinomie esaminate da Kant sono quattro. La prima verte
sulla finitezza o infinità del mondo nel tempo e nello spazio. Dice
la tesi: « Il mondo ha un inizio nel tempo ed è limitato nello spa­
zio», l'antitesi ribatte: « Il mondo non ha inizio nel tempo e non
è limitato nello spazio». La tesi si dimostra (per assurdo) cosl: se
il mondo non avesse avuto un inizio, in ogni momento del tempo sa­
rebbe già trascorsa una serie infinita di eventi. Ora una serie infini­
ta « non può mai essere compiuta mediante una sintesi successiva»
(infinita non est transire, come dicevano i medievali); dunque il
mondo ha avuto un inizio. E siccome per percorrere con la rappre­
sentazione un'estensione infinita ci vorrebbe un tempo infinito, il
mondo deve essere limitato anche nello spazio. L'antitesi però in­
calza: se il mondo avesse avuto un inizio, prima del mondo ci sa­
rebbe stato un tempo vuoto. « Ora in un tempo vuoto non è possi­
bile il sorgere di una cosa qualsiasi, perché nessuna parte di un ta­
le tempo ha in sé una condizione dell'esistenza piuttosto che della
non-esistenza che la distingue da un'altra». Analogamente: un mon­
do limitato nello spazio dovrebbe essere limitato da uno spazio
vuoto, e d'altra parte questo vuoto (in cui non c'è nulla) dovrebbe
essere in rapporto col mondo; ora un non-ente non può essere in
rapporto con qualcosa.
646 FILOSOFIA MODERNA

La seconda antinomia riguarda la divisibilità dell'esteso. La te­


si afferma che l'esteso non è infinitamente divisibile, ma consta
di parti semplici ( è la tesi leibniziana); l'antitesi ribatte che par­
ti semplici, cioè inestese, non possono dar luogo ad un esteso,
quindi le parti dell'esteso sono sempre estese, e perciò l'esteso è
infinitamente divisibile.
La prima e la seconda antinomia riguardano problemi pura­
mente cosmologici; la terza e la quarta invece interessano problemi
più strettamente metafisici che stanno più a cuore a Kant, special­
mente quello della terza antinomia: la libertà. La tesi della terza
antinomia afferma che non ogni causa è determinata ad agire da
un'altra causa, ma che a fondamento di tutti i fenomeni deve esserci
una causalità libera, cioè una prima causa che non è determinata da
altro ad agire, ma opera per una assoluta spontaneità. Se, infatti,
tutte le azioni fossero determinate da un'altra azione antecedente
non si troverebbe mai una prima causa, e quindi non si troverebbe
mai la ragion d'essere, la spiegazione delle azioni che si compiono.
Ma l'antitesi ribatte che se ogni avvenimento non si collegasse ne­
cessariamente con: lo stato precedente del mondo, sarebbe falsa la
legge di causalità già dimostrata nella seconda analogia dell'espe­
rienza. In altre parole: se ogni avvenimento non avesse un antece­
dente necessario, verrebbe meno la scienza della natura che consiste
proprio nèlla ricerca degli antecedenti necessari dei fenomeni.
La tesi della quarta antinomia afferma: « Il mondo implica
qualche cosa che, o come sua parte o come sua causa, è un ente as­
solutamente necessario» (G.S., III, p. 214; R. pura, p. 382). In­
fatti, nel mondo c'è il mutamento, e il mutamento è condizionato da
una causa che lo precede nel tempo. Ora ogni condizionato presup­
pone tutta la serie delle sue condizioni, fino alla prima condizione
incondizionata. Ma incondizionato equivale a necessario, dunque
esiste l'ente necessario. Questo ente necessario, osserva poi Kant,
dovrebbe essere concepito come facente parte della serie di condi­
zionati, ossia come immanente al mondo, poiché, siccome per dimo­
strarne l'esistenza si adopera il principio di causalità, ossia un prin­
cipio valido solo per il mondo empirico, non si può poi fare un
salto, e passare dalla serie empirica, cioè sensibile, ad un principio
soprasensibile.
L'antitesi nega l'esistenza di un ente necessario, sia immanen­
te sia trascendente il mondo. Infatti, argomenta la dimostrazione,
KANT 647

0 l'ente necessario sta all'inizio della serie dei fenomeni, e allora


questo inizio non è condizionato da nessun antecedente, il che va
contro il principio di causalità; oppure la serie dei fenomeni è ab
aeterno, ed è essa stessa necessaria, e allora si ha l'assurdo di un
ente necessario (la serie indefinita) costituito di tutti elementi
contingenti (i singoli membri della serie); dunque il necessario non
esiste.
Kant fa poi osservare come, in ognuna delle quattro antinomie,.
la tesi rappresenti il dogmatismo (noi diremmo: il razionalismo) e
l'antitesi l'empirismo, a fa alcune riflessioni sui rispettivi vantaggi
di queste due posizioni. «Vantaggi», dice Kant, poiché dal punto
di vista teoretico né l'una né l'altra riescono a provare il loro
assunto, visto che la dimostrazione dell'una è neutralizzata da quella
dell'altra.
Il razionalismo ha un vantaggio pratico, poiché le sue tesi of­
frono una base alla morale ed alla religione; ha un vantaggio teore­
tico in quanto permette di . dedurre i fenomeni dai primi principì
dell'essere; ha il privilegio della popolarità, perché teorizza certe
convinzioni comuni dell'umanità.
Ma l'empirismo ha vantaggi molto maggiori, che si possono rias­
sumere in questo: di rappresentare l'atteggiamento scientifico, che
non esce mai dal campo dell'esperienza possibile, che non ritiene
mai di avere esaurito il suo compito, di aver terminato la ricerca; è
anzi, potremmo dire, l'atteggiamento della ricerca, opposto a quello
del tranquillo possesso, della beata soddisfazione del proprio sa­
pere. Ora, per un intelletto limitato, come quello umano, l'unico
vero atteggiamento scientifico è quello della ricerca, non quello che
si illude di avere un pieno possesso della verità. L'empirismo è il
vero atteggiamento scientifico dell'uomo, purché non si eriga esso
stesso a dogmatismo.

14. La soluzione delle antinomie. La terza antinomia.

Le antinomie nascono dal fatto che si considerano i fenomeni


come cose in sé, e si applica ad essi il principio che il condizionato
esige la totalità incondizionata delle sue condizioni. Ora l'incondi­
zionato non si può trovare nel mondo fenomenico, poiché il feno­
meno è per definizione un condizionato (è infatti condizionato dalle
648 FILOSOFIA MODERNA

forme dell'intuizione); e, d'altra parte, di c10 che è oltre il feno­


meno noi non abbiamo nessun concetto; perciò, quando tentiamo
di concepire l'incondizionato, la ragione ultima dei fenomeni, con
ciò stesso la fenomenizziamo. Di qui le antinomie, la cui tesi dice:
il mondo fenomenico non può star da sé, è condizionato, e l'antitesi
ribatte: ma l'altro, l'incondizionato, è inconcepibile.
Ma le antinomie si risolvono se si distinguono i fenomeni dalle
cose in sé. Potrebbe darsi infatti che un membro dell'antinomia
valesse per le cose in sé e l'altro valesse per i fenomeni. E questo,
almeno come possibilità, si avvera per la terza antinomia che ha
una particolare importanza, perché riguarda un problema che sta
particolarmente a cuore a Kant: la libertà.
Si può parlare di libertà trascendentale 39, ossia si può ammette­
re la possibilità della libertà nel mondo intelligibile, nel mondo del­
le cose in sé, proprio perché il determinismo è una legge della na­
tura, e il mondo della natura è un mondo fenomenico, che non ci
dice nulla sulle cose in sé. « Se i fenomeni fossero cose in sé, dice
Kant, non sarebbe possibile salvare la libertà », poiché per i feno­
meni vige il determinismo 40• « Se invece i fenomeni non sono ri­
tenuti più di quello che sono, cioè non cose in sé, ma semplici rap­
presentazioni connesse fra loro da leggi empiriche, essi stessi debbo­
no avere cause che non sono fenomeni » (G.S., III, p. 365; R. pura,
p. 439-40). E queste cause non fenomeniche possono essere cause
libere.

" La libertà uascendentale è conuapposta alla libertà considerata da un punto


di vista «fisiologico» (G.S., III, p. 364; R. pura, p. 438), alla libertà psicologica,
come sarà detto nella Critica della ragion pratica (p. 112; G.S., IV, p. 94). La libertà
psicologica è la libertà considerata come proprietà della natura di un soggetto, ed è
la capacità di essere determinato solo da motivi, non cosuetto da agenti esterni. Una
tale libertà è per Kant ancora una specie di determinismo. La libertà uascendentale è
invece il potere di optare, indipendentemente dalle leggi della natura ( del mondo feno­
menico) e può essere solo dell'uomo considerato come cosa in sé, come appartenente
al mondo intelligibile. Qui il termine " trascendentale " ha ancora il significato pre­
critico, di « appartenente alla cosa in sé ».
'° Questo è il significato della famosa frase dell:i Prefazione alla seconda edizione
della Critica della ragion pura: « Dovetti togliere il sapere per far posto alla fede »
(G.S., III, p. 19; R. pura, p. 29). Se infatti la scienza fosse sapere delle cose in sé,
poiché la scienza suppone il determinismo (secondo Kant), non sarebbe possibile la
libertà, e senza libertà non si potrebbe fondare la morale né si potrebbero ammettere
gli altri due postulati della ragion pratica: esistenza di Dio e immortalità dell'anima.
« lo dunque non posso neppure ammettere Dio, la libertà e l'immortalità per l'uso
pratico necessario della mia ragione se non tolgo insieme alla ragione speculativa la
pretesa a vedute trascendenti» (ibid., p. 18; R. pura, p. 28).
KANT 649

Possono, abbiamo detto. Non è infatti la filosofia teoretica quel­


la che dimostra l'esistenza della libertà: essa può solo dimostrare
che, se mai la libertà si rivelerà reale per un'altra via, essa non è in
contraddizione col determinismo della natura. Ma Kant è persuaso
che l'uomo sia libero; è persuaso che senza libertà non vi è moralità,
e si preoccupa quindi anche di far vedere, fin da ora, come sia pos­
sibile la conciliazione di libertà trascendentale e determinismo fisico.
« Chiamo intelligibile, dice Kant, ciò che non è fenomeno, pur ap­
partenendo ad un oggetto sensibile. Perciò, se quello che nel mondo
sensibile deve essere considerato come fenomeno ha in sé anche
una facoltà che non è oggetto di intuizione sensibile, ma per la
quale può essere causa di fenomeni, la causalità di questo ente si
può considerare da due lati: come intelligibile in quanto azione di
una cosa in sé, e come sensibile secondo gli effetti di essa in quan­
to fenomeno nel mondo sensibile» (G.S., III, p. 366; R. pura, pp.
440-41). Intelligibile è dunque l'aspetto non sensibile del sensibile.
Chiamo carattere, continua Kant, la legge dell'azione di un soggetto.
Se vi è dunque un soggetto che abbia un aspetto intelligibile e un
aspetto sensibile, potremo distinguere in lui un carattere intelligi­
bile e un carattere empirico: questo non è che il fenomeno di
quello. Ora tale è l'uomo. E l'uomo ha (o meglio potrebbe avere, a
questo punto) come carattere intelligibile la libertà e come carattere
empirico il determinismo. « Ora, questo soggetto agente, per il suo
carattere intelligibile non sarebbe soggetto a nessuna condizione di
tempo, poiché il tempo è soltanto la condizione dei fenomeni, non
delle cose in sé. In lui nessuna azione avrebbe inizio o fine, e per­
ciò egli non sarebbe soggetto alla legge di ogni determinazione tem­
porale, di ogni mutevole: che tutto ciò che avviene abbia la sua cau­
sa nei fenomeni (dello stato antecedente). In una parola: la sua cau­
salità, in quanto è intellettuale, non farebbe parte della serie delle
condizioni empiriche che rendono necessario ciò che è dato nel mon­
do sensibile» (G.S., III, p. 367; R. pura, pp. 441-42). Nel riflesso
che ha, per dir così, nel mondo fenomenico, l'attività di quel sog­
getto ci apparirebbe determinata dai suoi antecedenti - e costitui­
rebbe il suo carattere empirico -; in sé essa sarebbe libera.
Così Kant ritiene di aver conciliato libertà e determinismo, nel­
l'ipotesi che si possa affermare la libertà.
650 FILOSOFIA MODERNA

15. L'ideale della ragion pura

L'ideale della ragion pura è l'idea di Dio come essere perfettis­


simo (ens realissimum ), come ente che esaurisce la pienezza della
realtà, la totalità del reale (omnitudo realitatis). Ci formiamo que­
sta idea adunando insieme tutti i predicati che esprimono una real­
tà positiva, una perfezione rispetto al loro contraddittorio. Per
esempio nella coppia di contraddittorii " intelligente - non intelli­
gente ", il primo esprime una perfezione, una realtà positiva, e co­
sì si dica della coppia " buono - non buono " e altre. L'ideale della
ragion pura è l'idea di un individuo che abbia tutti i predicati po­
sitivi 41• Ma Kant osserva che, lungi dall'aver con ciò dimostrato
l'esistenza dell'ideale, non siamo neppur sicuri che esso sia possibi­
le, poiché per affermare che un oggetto è possibile non basta sta­
bilire che esso è non-contraddittorio, ma bisogna stabilire che esso
è oggetto di possibile esperienza, che è, se mi si permette il termine,
dabile nell'esperienza, come afferma il primo postulato del pensiero
empirico che definisce possibile « ciò che risponde alle condizioni
formali dell'esperienza (secondo l'intuizione e i concetti)» (G.5.,
III, p. 185; R. pura, p. 228).
Vediamo ora come la metafisica prekantiana abbia cercato di
dimostrare l'esistenza di Dio. La critica a queste prove aggiunge ben
poco a quello che Kant aveva detto nella terza parte de L'unico ar­
gomento: là aveva distinto quattro prove dell'esistenza di Dio: due
che partono dal possibile (una di queste è « l'unico argomento») e
due che partono dall'esistente; nella Critica della ragion pura non
parla più dell'« unico argomento», sicché le prove restano tre,
denominate rispettivamente prova ontologica, prova cosmologica,
prova fisico-teologica. « Non ce n'è, e neanche ce ne può essere
altra» (G.5., III, p. 396; R. pura, p. 476).
La prova ontologica argomenta che il concetto dell'ente realissi­
mo (ossia perfettissimo) implica l'esistenza perché l'esistenza è una
realtà (ossia una perfezione, una positività). La critica alla prova

" Nella coppia « bianco - non bianco », il primo predicato non esprime una per­
fezione rispetto al secondo, poiché il non-bianco potrebbe essere un rosso e il bianco
non è più reale del rosso. Quindi non attribuiamo a Dio l'esser bianco. Anzi, siccome
l'esser bianco suppone l'estensione, la divisibilità, e l'essere indivisibile è una per­
fezione rispetto all'esser divisibile (che è una negazione, è la possibilità di essere spez­
zato), diremo che Dio è non-bianco.
KANT 651

ontologica è la stessa già presente nella Nova dilucidatio e ne L'uni­


co argomento e si potrebbe riassumere nella frase: « L'esistenza
non è un predicato », ossia non esprime il contenuto di un concet­
to, non esprime una proprietà dell'oggetto pensato, ma pone sem­
plicemente un oggetto; non può dunque essere ricavata da un con­
cetto, dall'idea di Dio come essere perfettissimo (ens realissimum)
allo stesso modo in cui dal concetto di cento talleri non può essere
ricavata la loro esistenza 42•
La prova cosmologica non parte da un'idea ma da un'esistenza,
un'esistenza qualunque, e argomenta così: « Se qualcosa esiste, de­
ve esistere anche un ente assolutamente necessario. Ma io stesso,
almeno, esisto, dunque esiste un ente assolutamente necessario »
(G.S., III, p. 404; R. pura, p. 485).
Kant obietta che il partire dall'esperienza è, nella prova cosmo­
logica, illusorio, poiché quando si tratta poi di vedere quali pro­
prietà abbia l'ente necessario, la ragione « prende congedo » dal­
l'esperienza e si affida a meri concetti; si affida cioè alla prova on­
tologica. Questa infatti dice: all'ente perfettissimo deve apparte­
nere l'esistenza necessaria; la prova cosmologica dice: l'esistenza
necessaria non può appartenere che all'essere perfettissimo; per il
suo secondo passo ( determinazione delle proprietà dell'ente necessa­
rio), dunque, la prova cosmologica non è altro che la prova ontologi­
ca rovesciata. Ma secondo Kant ( e questa è la parte nuova della
Critica rispetto a quella de L'unico argomento) non è valido neppu­
re il passaggio da un'esistenza qualunque all'esistenza necessaria.
La prova cosmologica è « un nido di pretese dialettiche» (G.S ..
III, p. 407; R. Pura, p. 488), e Kant ne indica quattro: 1) la pre­
tesa di passare da un'esistenza contingente a un'esistenza necessaria
come sua causa. Ora, dice Kant, si può inferire da un contingente
una causa solo nell'ambito del mondo sensibile, non .per andare ol­
tre il mondo sensibile; e invece l'ente necessario di cui si vorrebbe
dimostrare l'esistenza non fa parte del mondo sensibile, ossia non
è una realtà sperimentabile. 2) « Il principio di concludere dalla
impossibilità di una serie infinita di cause date una di seguito all'al-

42
Il paragone con i cento talleri non è molto felice, poiché la prova ontologica,
se vale, vale solo per il concetto dell'Essere perfettissimo, e non per altri concetti,
cosi come non è felice il paragone fatto da Gaunilone, in polemica con S. Anselmo,
dell'isola fortunata. Malauguratamente isola fortunata e cento talleri sono le cose più
spesso ricordate a proposito di questo argomento.
652 FILOSOFIA MODERNA

tra nel mondo sensibile a una causa prima ...». Ora, osserva Kant,
richiamandosi a quello che aveva detto a proposito delle antino­
mie 43, non è affatto impossibile che nel mondo fenomenico si ri­
salga all'infinito nella serie delle cause, poiché un fenomeno si dà,
ossia c'è, quando è conoscjuto, e il risalire all'infinito non è che il
proseguire indefinitamente la ricerca. Tanto meno poi è lecito
compiere un salto oltre il mondo dell'esperienza. 3) « La falsa sod­
disfazione di sé della ragione rispetto al completamento di questa
serie, poiché finalmente si toglie di mezzo ogni condizione (condi­
zione senza la quale tuttavia non c'è neppure il concetto di necessi­
tà) e, poiché non si può concepire nulla di ulteriore, si crede cosl
di aver completato la serie» (G.S., III, p. 407; R. pura, p. 489).
Anche qui il richiamo è alle antinomie: si crede cioè di sbarazzarsi
dalla fatica di cercare indefinitamente le cause dei fenomeni asse­
gnando ad essi una causa prima incondizionata, che spiegherebbe
tutto. Come si vede, il difetto di queste « pretese dialettiche» è·
quello di applicare oltre l'esperienza un principio - quello di
risalire dagli effetti alle cause - che vale solo per il mondo fenome­
nico. 4) La quarta « pretesa dialettica» riguarda piuttosto il modo
in cui ci formiamo il concetto di Dio e lo scambio fra la possibilità
logica (assenza di contraddizione) con la possibilità reale.

Kant non ritiene valida neppure la prova fisico-teologica, seb­


bene dica che essa « merita d'esser sempre menzionata con rispetto.
Essa è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione
umana» (G.S., III, p. 415; R. pura, p. 498). La prova parte dalla
considerazione dell'ordine del mondo: « Il mondo presente ci apre
un cosl immenso teatro di molteplicità, ordine, finalità e bellezza ...
che, anche dopo le conoscenze che il nostro debole intelletto ne ha
potuto acquistare, ogni lingua è priva di forza, ogni numero di ca­
pacità di misura, i nostri stessi pensieri sono senza capacità di deli­
mitazione di fronte a tante e immensamente grandi meraviglie; sì
che il nostro giudizio sul tutto deve risolversi in un muto, ma ap­
punto perciò tanto più eloquente stupore» (G.S., III, p. 414;
R. pura, p. 497). La prova procede dunque cosl: « 1) Nel mondo vi
sono dappertutto segni evidenti di un ordinamento secondo uno sco-

43
Nella sezione settima, G.S., III, pp. 342 si;; R pura, pp. 413 ss.
KANT 653

po determinato... 2) Alle cose del mondo questo ordinamento fi­


nale è affatto estraneo e aderisce ad esse solo accidentalmente
(zufiillig) », cioè non dipende dalla natura delle cose ordinate
( che per tutta la fisico-teologia post-newtoniana è puramente mec­
canica) ma dall'idea di un ordinatore che ha combinato in un certo
modo le parti dell'universo. « 3) Esiste dunque una causa subli­
me e saggia ( o più cause) che deve esser causa del mondo non co­
me una cieca onnipotente natura feconda, ma come una intelligen­
za che agisce liberamente ». 4) Dall'unità dell'ordine universale
si può desumere l'unità di questa causa (G.S., III, p. 416; R. pura,
pp. 499-500).
Kant obietta a questa prova che essa potrebbe al più conclu­
dere ad « un architetto del mondo », ossia ad un ordinatore, non
ad un creatore; per dimostrare che l'ordinatore è anche creatore
la fisico-teologia ricorre alla prova cosmologica, già confutata.
Kant fa inoltre delle riserve sull'argomento per analogia, sulla con­
siderazione cioè che l'ordine della natura è analogo a quello del­
l'opera d'arte; infine osserva che non è così sicura l'affermazione
che l'ordine è estrinseco alla materia ordinata. Quest'ultima ri­
serva è più esplicita nella Critica del Giudizio dove Kant dice:
« È assolutamente certo che noi non possiamo imparare a cono­
scere sufficientemente e tanto meno spiegare gli esseri organizzati
e la loro possibilità interna secondo i principi puramente mecca­
nici della natura... ma giudicheremmo troppo temerariamente se
dicessimo che, anche potendo penetrare fino al fondo della natura
nella specificazione delle sue leggi generali... non si potesse trova­
re in essa un principio recondito sufficiente a spiegare la possibi­
lità degli esseri organizzati senza ammettere un disegno nella lo­
ro produzione... ». (G.S., V, p. 400; Critica del Giudizio, p. 263 ).

16. Uso costitutivo e uso regolativo delle idee

Dopo le conclusioni negative della Dialettica trascendentale si


potrebbe essere indotti a pensare che le idee della ragione: anima,
mondo, Dio, fossero semplicemente enti immaginari, pure finzioni;
ma Kant, in una lunga Appendice alla Dialettica trascendentale, si
preoccupa di fugare una simile interpretazione distinguendo uso
costitutivo da uso regolativo delle idee. Le idee non hanno un uso
654 FILOSOFIA MODERNA

costitutivo, non costituiscono oggetti - a differenza delle catego­


rie - cioè non garantiscono la realtà degli oggetti ai quali si rife­
riscono; ma hanno un uso regolativo, perché indicano all'intelletto
una direzione di ricerca. Indicano, innanzi tutto, che l'intelletto
deve sempre proseguire la ricerca, perché nessuna conclusione rag­
giunta dall'intelletto (ossia dalla scienza) può mai essere definitiva
ed esauriente; indicano che il campo della razionalità è più ampio
di quello che l'intelletto umano riesce a .raggiungere, ed esprimono
con ciò stesso la certezza (quella che più avanti Kant chiamerà
Ueberzeugung) che tutto il reale è intelligibile, anche se l'intelletto
umano non riesce a coglierne tutta l'intelligibilità. Nella deduzione
trascendentale delle categorie si dimostra che senza concetti del­
l'intelletto non si costituiscono gli oggetti di esperienza; in questo
modo non si possono « dedurre» le idee della ragione, ma « una
deduzione di esse deve esser possibile» (G.S., III, p. 442; R. pu­
ra, p. 531). Tale deduzione consiste nell'indicare lo schema che es­
se proiettano sull'intelletto. Ricordiamo che lo schema delle ca­
tegorie è l'intelligibilità che la categoria proietta sull'intuizione; ora
lo schema che l'idea proietta sull'intelletto è l'aspetto per cui con­
cetti e principi dell'intelletto si presentano come esempi di una uni­
versale intelligibilità del reale.
Citiamo un passo di Kant: « Il concetto di una Intelligenza
suprema è una semplice idea, cioè la sua realtà oggettiva non deve
consistere nel suo riferirsi direttamente a un oggetto, ... ma esso
è soltanto uno schema, ordinato secondo le condizioni della mas­
sima unità razionale, del concetto di una cosa in generale; uno
schema che serve soltanto a mantenere la massima unità sistematica
nell'uso empirico della nostra ragione. [ ... ] Perciò vuol dire: le
cose del mondo devono essere considerate come se avessero l'essere
da una suprema Intelligenza. In tal modo l'idea è solo un concetto
euristico, non ostensivo e indica non come è costituito un oggetto,
ma come, sotto la sua guida, dobbiamo ricercare la struttura e la
connessione degli oggetti dell'esperienza in generale. Se dunque si
può far vedere che sebbene le tre idee trascendentali (psicologica,
cosmologica e teologica), non si riferiscano direttamente a nessun
oggetto loro corrispondente e alla sua struttura, tuttavia tutte le
regole dell'uso empirico della ragione, se si presuppone un tale og­
getto nell'idea, portano ad una unità sistematica ed allargano sem­
pre la conoscenza sperimentale, diventa una massima necessaria del-
KANT 655

la ragione il procedere secondo tali idee. E questa è la deduzione


trascendentale delle idee della ragione speculativa... » (G.S., III,
p. 443; R. pura, pp. 531-32).

1 7. 1 « Prolegomeni »

La Critica della ragion pura, risultò difficile, e Kant, come at­


testano alcune sue lettere, pensò subito di. esporne la dottrina in
una forma più accessibile 44• Mentre egli lavorava a quest'opera chia­
rificatrice e, relativamente, divulgatrice 45 comparve nelle « Got­
tingische Gelehrte Anzeigen » del 19 gennaio 1782 una recensione
anonima della Critica, che era il risultato di tagli e modifiche com­
piuti dal direttore del periodico, Feder, su una lunga recensione re­
datta da Chr. Garve. La recensione risultò sfavorevole: non solo si
rimproverava a Kant l'astrusità del linguaggio, ma si negava a Kant
ogni originalità dicendo che la sua filosofia non era altro che l'idea­
lismo di Berkeley. In una Appendice ai Prolegomeni Kant polemizza
vivacemente contro questa recensione e nel corso dell'opera chiarisce
punti mal compresi e prende posizione contro le critiche. Ricordia­
mo una nota dell'appendice: il recensore aveva detto che la Critica
« è un sistema di idealismo superiore o, come l'autore lo denomina,
trascendentale»; Kant ribatte: « Niente affatto superiore. Le alte
torri e i grandi metafisici simili ad esse, intorno ai quali c'è per solito
molto vento, non sono fatti per me. Il mio posto è la fertile bassura
dell'esperienza, e la parola ' trascendentale ', il cui significato tan­
te volte spiegato da me non è stato mai capito dal recensore... non
significa ciò che è oltre ogni esperienza, ma ciò che la precede ( a
priori) pur non essendo destinato ad altro che a render possibile la
conoscenza per esperienza» (G.S., IV, p. 373; trad. it. p. 221).
44
Le lettere, degli anni fra il 1781 e il 1783, sono in G.S. X. B. Erdmann ne
cita i passi più significativi nell'introduzionl! alla sua edizione dei Prolegomeni in G.S.,
IV, pp. 600-604.
'' Scrive infatti Kant nella Prefazione: « Questi Prolegomeni sono scritti non per
i novizi, ma per i futuri maestri, ed anche a questi devono servire non per ordinare
l'esposizione di una scienza già esistente, ma a ritrovare di nuovo da sé questa scienza »
(G.S., IV, p. 255; trad. Martinetti, p. 3) e aggiunge al termine della Prefazione stessa
(p. 263): « Chi poi trovasse ancora oscuro questo disegno, pensi che non è neces­
sario che tutti studiino metafisica, che vi sono ingegni i quali possono riuscire benis­
simo in scienze serie, anche profonde, ma più vicine all'intuizione, e pure non riescono
nelle ricerche fondate su puri concetti, e che in questo caso si deve applicare il
proprio ingegno in altro campo... ».
656 FILOSOFIA MODERNA

La dottrina esposta nei Prolegomeni è la stessa della Critica;


solo il metodo è diverso: analitico nei Prolegomeni, sintetico nella
Critica. I termini ' analitico ' e ' sintetico ' applicati al metodo han­
no un significato totalmente diverso da quello in cui sono appli­
cati ai giudizi; metodo analitico è quello che parte dal condizionato
per risalire alle condizioni, metodo sintetico è quello che parte dalle
condizioni per spiegare il condizionato. Qui il condizionato è la
scienza, le scienze che si sono dimostrate valide, come la matematica
e la fisica; le condizioni sono la ragione, i suoi elementi (i concet­
ti) e le sue leggi (G.S., IV, p. 274; trad. it., p. 43). La differenza di
metodo è forse meno grande di quanto non sembri poiché anche la
Critica non si poneva il problema se siano possibili giudizi sintetici
a priori, ma come essi siano possibili; presupponeva quindi già, co­
me i Prolegomeni, la loro validità; il presupposto che ci sono scien­
ze con valore, scienze la cui sicurezza contrasta con l'incertezza del­
la metafisica, è tuttavia più accentuato nei Prolegomeni 45 bis. In
luogo dell'apoditticità regna in metafisica l'incertezza e quindi la
divergenza delle opinioni. Per rispondere al problema se la metafi­
sica sia possibile bisogna quindi domandarsi come siano possibili la
matematica e la fisica.
La matematica (geometria e aritmetica) è possibile perché gli og­
getti sensibili debbono adeguarsi alle intuizioni pure di spazio e tem­
po; la fisica è possibile perché la natura è « l'esistenza delle cose
in quanto determinate da leggi universali»(§ 14; G.S., IV, p. 294;
trad. it., p. 90), ossia perché le leggi che costituiscono la natura,
che ne sono la forma, sono leggi del nostro intelletto. Se ci limi­
tiamo a constatare fatti, a dire, per esempio, il sole splende e la
pietra si scalda (giudizio percettivo) non abbiamo ancora scienza; la
scienza c'è quando colleghiamo i fatti, quando diciamo: il sole scal­
da la pietra (giudizio di esperienza). Ora la connessione necessaria,
il concetto di causa, è un concetto puro, una forma che il nostro in­
telletto dà alle percezioni. Ma i concetti puri « contengono soltanto
le condizioni di una possibile esperienza » ( § 26; G.S., IV, p. 308;
trad. it., p. 119); non possono quindi valere per ciò che è oltre l'espe­
rienza.
La metafisica in generale è poSiibile come tendenza insopprimibi-

""'' Cfr. il passo citato a p. 642.


KANT 657

le della ragione umana proprio perché la scienza, restando nel campo


dell'esperienza possibile, nel mondo fenomenico, non trova mai la
spiegazione ultima delle cose. « L'uso nell'esperienza, al quale la
ragione limita l'intelletto, non esaurisce il suo compito. Ogni singola
esperienza è solo una parte della sfera totale del campo della ragio­
ne; ma la totalità assoluta di ogni possibile esperienza non è essa
stessa oggetto di esperienza, e tuttavia è un problema necessario del­
la ragione, la quale, anche solo per rappresentarselo, ha bisogno di
tutt'altri concetti dai concetti puri dell'intelletto, il cui uso è sol­
tanto immanente, cioè vale per l'esperienza in quanto può esser data >
mentre i concetti della ragione si riferiscono alla totalità, all'uni­
tà collettiva di ogni esperienza possibile, e perciò vanno oltre ogni
esperienza data, e diventano trascendenti»(§ 40; G.S., IV, pp. 327-
28; trad. it., p. 149). Il che vuol dire: la ragione umana è sospinta ol­
tre il mondo di ciò che può essere sperimentato, oltre il mondo feno­
menico, ma per conoscere ciò che trascende l'esperienza non ha lo
strumento, poiché i suoi concetti, quelli validi, quelli il cui uso è si­
curo, sono soltanto forme che debbono essere riempite da una ma­
teria sensibile. Di qui il fallimento della metafisica, contro la quale >
nelle sue tre parti di psicologia razionale, cosmologia, teologia ra­
zionale, Kant riprende gli argomenti già svolti nella Critica. « La me­
tafisica come tendenza naturale della ragione è una realtà, ma è an­
che, per sé sola... dialettica illusoria» (G.S., IV, p. 365; trad. it.r
p. 210).
La metafisica come scienza deve presupporre la critica della ra­
gione e non potrà essere che una analisi dell'attività della ragione
stessa nell'applicazione dei suoi principi. Kant ha scritto poi una me­
tafisica dei costumi, che è la filosofia morale e un'opera che dovreb­
be contenere i principi a priori della fisica (Principz metafisici della
fisica); al « passaggio» dalla metafisica della natura alla fisica Kant
ha dedicato molti appunti dei suoi ultimi anni (Opus postumum,
G.S., XXI-XXII). Il meno che si possa dire è che Kant non è riuscito­
a compiere il passaggio: la sua opera è la Critica; la metafisica co­
me scienza, in senso kantiano, ossia come analisi della ragione che
costituisce il mondo della natura, fu quella elaborata da Fichte e da
Schelling; ma essa andò ben oltre i limiti segnati da Kant, come si
vedrà più avanti. La metafisica dei costumi, invece, ossia la parte
« pura », a priori, dell'etica è una parte fondamentale della :filosofia
di Kant.
658 FILOSOFIA MODERNA

MORALE, DIRITTO, RELIGIONE

18. L'etica negli scritti precritici

La prima opera di Kant che presenta elementi originali della sua


filosofia morale è la Ricerca sull'evidenza dei principi della teolo­
gia naturale e della morale, la quale ci mostra un Kant insoddisfatto
dell'etica che ha studiato come è insoddisfatto della metafisica. « I
primi principi della morale, nella formulazione che hanno attual­
mente non hanno ancora tutta l'evidenza richiesta» (G.S., II, p.
298; Scritti precritici, p. 250 ).
E qui Kant, invece di giustificare in astratto questa sua tesi, vie­
ne subito ad un esempio: il concetto di obbligazione (Verbindli­
chkeit). L'obbligazione è espressa dalla formula, Si deve far questo
e non fare quest'altro. Cosa vuol dire quel dovere? Può voler dire
due cose: necessità di un'azione come mezzo per raggiungere uno
scopo, o necessità di fare un'azione per se stessa, immediatamente.
Si potrebbe chiamare la prima necessitas problematica, dice Kant,
e la seconda necessitas legalis. La prima non esprime una obbliga­
zione, un dovere in senso proprio, ma solo la prescrizione (Vor­
schrift) di un procedimento per raggiungere uno scopo. « Chi
prescrive ad un altro quali sono le azioni che egli deve fare
o non fare se vuol favorire la propria felicità, potrebbe bensì in­
cludere nei suoi precetti tutte le dottrine della morale, ma allora
queste non sarebbero più obbligatorie, se non nel senso in cui è ob­
bligatorio fare due archi che si incrocino quando voglio tagliare una
retta in due parti uguali; e cioè non si tratta affatto di doveri, ma
soltanto di consigli (Anweisungen) per un'abile condotta, se si vuo­
le ottenere un dato scopo. Ora poiché l'uso dei mezzi non ha altra
necessità che quella che compete al fine, tutte le azioni che la mo­
rale prescrive come condizioni per conseguire certi fini sono con­
tingenti (Zufallig), e non possono esser dette obbligatorie finché
non siano subordinate ad un fine necessario per sé. Per esempio:
io devo tendere (befordern) alla massima perfezione; oppure: de­
vo agire in conformità al volere di Dio. Quale che sia tra queste
due proposizioni quella alla quale debba essere subordinata tutta la
filosofia pratica, bisognerà che questa proposizione, se deve essere
regola e fondamento dell'obbligazione, comandi l'atto (di tendere
KANT 659

alla perfezione o di conformarsi al volere divino) come immedia­


tamente necessario e non come condizione per raggiungere un cer­
to scopo. E qui vediamo che una tale suprema regola immediata di
ogni obbligazione deve essere assolutamente indimostrabile» (G.S.,
Il, p. 298-99; Scritti precr., pp. 250-51).
Dimostrarla infatti non si potrebbe se non riconducendola ad
uno scopo, ma allora questo ulteriore scopo diventerebbe il fonda­
mento del supremo principio, e se questo a sua volta fosse dimostra­
bile si andrebbe all'infinito e non ci sarebbe nessun principio primo
della morale.
Una prima critica alla morale wolffiana è dunque quella di non
distinguere ciò che si deve fare per raggiungere un fine da ciò che si
deve fare perché è bene in se stesso; più tardi Kant dirà: l'impe­
rativo ipotetico dall'imperativo categorico. Ma Kant muove un'altra
critica all'etica wolffiana: quella di aver indicato solo il principio
formale e non il principio materiale della moralità. Di aver indi­
cato cioè un principio necessario sì, ma non sufficiente; un princi­
pio che sta alla morale come i principi di identità e di contraddi­
zione stanno alla metafisica. Ora, aveva detto prima Kant, non ba­
stano questi due principi per dedurre da essi la metafisica; bisogna
applicarli ad una materia, e questa può esser data solo dall'espe­
rienza, come ci ha insegnato Newton per la fisica. Così ora dice:
non basta il principio della perfezione per elaborare un'etica: biso­
gna vedere che cosa conduca l'uomo alla perfezione.
Questa seconda critica anticipa quella che troveremo nella Pre­
fazione alla Fondazione della metafisica dei costumi, dove Kant di­
ce che la sua etica ( quella che egli chiama « metafisica dei costumi»)
sta alla Philosophia practica universalis di Wolff come la logica tra­
scendentale sta alla logica generale. Ricordiamo che la logica gene­
rale o formale è per Kant quella che tratta della pura forma del pen­
siero, qualunque sia il contenuto di esso; tratta delle leggi del pen­
siero in generale; la logica trascendentale tratta del pensiero puro,
ossia del pensiero che ha si un contenuto, ma un contenuto a priori,
un contenuto indipendente dai dati di sensazione. Analogamente
( e lo vedremo meglio quando parleremo delle opere morali del pe­
riodo critico) la « metafisica dei costumi» tratta delle azioni umane
in quanto sono sottoposte a una legge a priori, indipendentemen­
te dall'esperienza, mentre - secondo Kant - la filosofia pra­
tica universale di Wolff tratta delle azioni umane in generale, sen-
660 FILOSOFIA MODERNA

za badare se esse siano guidate da un principio puro pratico o da


moventi che vengano dalla sensibilità. Quindi, in sostanza, come la
logica formale non ci dà un criterio per riconoscere la verità di una
proposizione, cosi la filosofia morale di Wolff non ci dà un criterio
per valutare la moralità di una azione. Ecco in che senso l'etica di
Wolff dà solo un principio formale.
Il principio materiale, quello capace di indicarci che cosa dob­
biamo fare, che cosa conduce l'uomo alla perfezione, non viene
dalla ragione, ma dal sentimento. « Si è cominciato solo ai nostri
giorni a capire che la facoltà di rappresentarci il vero è la cono­
scenza, ma quella di sentire il bene è il sentimento, e non bisogna
confondere l'una con l'altra » (G.S., II, p. 299; Scritti precritici,
p. 251). Kant allude ai filosofi del mora! sense, in particolare a
Hutcheson, che nomina poco dopo, e sappiamo 46 che per Hutcheson
e Shaftesbury il senso morale è concepito per analogia col senso este­
tico; non ci stupiremo quindi di trovare svolta da Kant la teoria che
fonda la morale sul sentimento in uno scritto intitolato Osservazioni
sul sentimento del bello e del sublime, del 1764. Come dice il tito­
lo, si tratta di osservazioni, di descrizioni di stati d'animo più che
di teorizzazioni rigorose. Dopo aver descritto i sentimenti del bel­
lo e del sublime Kant applica queste nozioni agli atteggiamenti uma­
ni e afferma: « Fra le qualità morali, solo la vera virtù è sublime »
(G.S., II, p. 215; Scritti precritici, p. 315). La vera virtù si fonda su
principz, che però non sono regole speculative, ma sono la coscienza
di un sentimento; il « sentimento della bellezza e della dignità della
natura umana» (G.S., II, p. 217; Scritti precritici, p. 317). In
quanto sentimento della bellezza della natura umana è fondamento
della benevolenza universale, in quanto sentimento della dignità
della natura umana è fondamento dell'universale rispetto.
Nelle Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento etc., che Kant
aveva scritto per una nuova edizione dell'opera ( e che non furono
poi adoperate) Kant cita spesso Rousseau, ricavandone una impres­
sione mista di consenso e di disorientamento. Ma riconosce di esse­
re debitore a Rousseau per aver capito che l'uomo non è solo in­
telligenza e che il valore essenziale dell'uomo non sta nella cul­
tura. Confessa di aver prima pensato che solo il sapere costituisse

46 Cfr. sopra, pp. 291 ss.


KANT 661

la gloria dell'umanità e di aver disprezzato la plebe ignorante.


« Rousseau mi ha portato sulla buona strada... imparo a onorare
gli uomini, e mi giudicherei più inutile dell'umile lavoratore se non
credessi che questa considerazione può dare a tutte le altre un va­
lore: restaurare i diritti dell'umanità» (G.S., XX, p. 44).
Ma negli appunti degli anni fra il 1765 e il 1770 affiorano cri­
tiche all'etica del moral sense: un sentimento non può giustificare
una legge universale come è la legge morale.« Il principio di Hutche­
son non è filosofico... perché cerca principi oggettivi nelle leggi
della sensibilità» (G.S., XIX, p. 120, n. 6634). « Il sentimento
morale non è un sentimento originario. Esso si basa su una legge
originaria interiore... (che comanda) di metterci quasi nella persona
della ragione, dove ci si sente in universale e si considera la propria
individualità come qualcosa di contingente, come un accidens del­
l'universale» (G.S., XIX, p. 103, n. 6598).
Bisogna dunque tornare alla ragione, ma non alla ragione come
l'aveva intesa Wolff; bisogna che la legge della ragione, pur essendo
puramente formale, sappia esprimere da sé i criteri del retto com­
portamento umano.

19. L'etica della maturità

Kant ha esposto la sua etica generale (che cosa è il bene morale)


nella Fondazione della metafisica dei costumi del 1785 e nella Criti­
ca della ragion pratica del 1788, e la sua etica speciale (quali sono
le azioni buone) nella seconda parte (Dottrina della virtù) della Me­
tafisica dei costumi, del 1797. Prima di dire qualcosa delle due pri­
me opere riassumiamo brevemente le tesi fondamentali dell'etica
kantiana.
1. Il fondamento dell'etica è dato da questa affermazione: c'è
una legge morale con valore universale. Che questa affermazione sia
ritenuta da Kant immediatamente evidente (egli la chiama « un
fatto della ragione ») è ciò che è rimasto nel Kant maturo dell'etica
del moral sense.
2. La legge morale non può essere ricavata dall'esperienza, per­
ché è universale. Non può quindi essere fondata sull'antropologia o
662 FILOSOFIA MODERNA

sulla psicologia, intese come scienze empiriche 47; deve essere a


priori.
3. La legge inorale deve essere razionale, non solo nel senso di
essere conosciuta dalla ragione, ma anche nel senso di valere per
l'uomo in quanto essere ragionevole, non per l'uomo in quanto
animale di una determinata specie zoologica. Dell'uomo infatti co­
me animale di una determinata specie si può avere solo una co­
noscenza empirica, mentre della ragione si ha una conoscenza ab
intrinseco, si ha immediata coscienza. Per questo motivo Kant in­
siste tanto nell'affermazione che la legge morale deve valere per
ogni essere ragionevole.
4. La legge morale non esprime esigenze che l'uomo segue per
necessità di natura, perché altrimenti non sarebbe più una norma,
un precetto, un comando (Dio non è soggetto a leggi morali, appun­
to perché è necessariamente buono); deve invece supporre la possi­
bilità di una resistenza, ossia deve essere un imperativo.
5. Ma ci sono due tipi di imperativi: quello ipotetico, che su­
bordina il comando dell'azione da compiere al conseguimento di uno
scopo (fa' questo se vuoi ottenere quest'altro, per es. risparmia da
giovane se vuoi avere una vecchiaia tranquilla), e quello categorico,
che comanda l'azione in se stessa, assolutamente (non mentire, non
per essere stimato dagli uomini o per qualsiasi altro scopo, ma
perché la menzogna è in sé condannabile). La norma morale deve
essere un imperativo categorico, perché altrimenti non avrebbe
più valore in se stessa, ma dipenderebbe dalla tendenza al tale o
al tal altro scopo. E siccome la tendenza ad un fine, se non è coman­
data dalla legge morale, non può essere determinata se non da un im­
pulso sensibile, il far dipendere la legge morale dalla tendenza
ad un fine equivarrebbe a renderla dipendente da un impulso sen­
sibile, dalla tendenza al piacere; equivarrebbe dunque, all'edonismo
o all'utilitarismo, contro il quale si dirige con ogni forza la mo­
rale di Kant.
6. Se la legge morale è un imperativo categorico, il suo valore
non dipende dall'oggetto a cui si riferisce, dal suo contenuto, dalla

47 Ossi-a costituite di giudizi sintetici a posteriori.


KANT 663

materia; dipenderà dunque dalla sua forma di legge, e la sua forma


di legge è l'universalità. Di qui la prima formula dell'imperativo ca­
tegorico: « Agisci in modo che la massim2 della tua azione possa
diventare legge universale ». In questo consiste il formalismo della
morale kantiana. Il principio supremo della morale secondo Kant
non può essere: "persegui il tale fine ", "tendi al tale oggetto "
ma deve essere: " agisci secondo una legge universale ". Le norme
morali mi comanderanno sì di fare questo o quest'altro, ma non
perché sia questo o quest'altro, sibbene perché è legge.
7. Quindi il concetto stesso di bene non è presupposto alla leg­
ge morale, ma dedotto da questa. La legge morale non dice: "fa'
il bene"; che cosa potrebbe essere infatti il bene prescindendo dal­
la legge morale? Potrebbe essere solo uno scopo determinato, e al­
lora la legge morale diventerebbe un imperativo ipotetico. Bene è
invece ciò che è comandato dalla legge morale. "Fa' il bene" si­
gnifica: "segui la legge morale ".
8. La legge morale deve avere valore per se stessa, e siccome
la legge morale è la legge della volontà razionale, la volontà è auto­
noma, ossia dà a sé la sua legge. La legge infatti, come abbiamo
visto, non potrebbe venirle da un oggetto, da una materia, da un
fine, sotto pena di decadere da imperativo categorico a imperativo
ipotetico. Non può neppure venirle da un padrone, da un legisla­
tore che non sia la stessa volontà ragionevole, perché anche in que­
sto caso l'azione morale non avrebbe più valore in se stessa, ma
lo avrebbe per l'arbitrio del legislatore.
9. Il fine dell'azione morale può essere dunque soltanto la stes­
sa natura ragionevole dell'uomo. Di qui la seconda formula del­
l'imperativo categorico: « Agisci in modo da trattare l'uomo tan­
to nella tua persona come nella persona di ogni altro sempre come
fine e mai unicamente come un mezzo ».
10. Se la volontà ragionevole dà a sé la sua legge, vuol dire che
non la riceve da altri, ossia che è libera. Se fosse necessariamente
determinata da altro ( dall'impulso, dalla tendenza sensibile, da un
padrone) non potrebbe essere volontà morale, ora deve essere vo­
lontà morale, dunque è libera. Puoi perché devi.
664 FILOSOFIA MODERNA

11. La libertà è il primo postulato della ragione pratica (ossia


la prima verità che si deve affermare come una esigenza della vita
morale). Altri postulati della ragion pratica sono l'esistenza di Dio
e l'immortalità dell'anima.

La dottrina morale esposta nella Fondazione della metafisica


dei costumi è sostanzialmente la stessa della Critica della ragion
pratica (salvo che per la giustificazione della libertà, come dire­
mo); ma diverso è il metodo: analitico nella Fondazione (G.S., IV,
p. 392; trad. it., p. 11), sintetico nella Critica della ragion pratica.
Si è detto, parlando dei Prolegomeni, che per metodo analitico Kant
intende quello che parte dal condizionato per risalire alle condizio­
ni; ora per la filosofia teoretica il condizionato è la scienza, per
la filosofia morale il condizionato non è la condotta degli uomini,
ma è « la conoscenza comune », ossia quelle che Kant ritiene le co­
muni persuasioni morali; di qui egli risale a una morale filosofica
(prima parte); da una « filosofi.a morale popolare » alla metafisica
dei costumi (seconda parte) e dalla metafisica dei costumi alla critica
della ragion pura pratica (terza parte).
La persuasione comune dalla quale Kant prende l'avvio è que­
sta: non c'è nulla di incondizionatamente buono all'infuori della
buona volontà. Altri beni, come la forza e l'ingegno, pur essendo
beni, possono talora dar luogo al male (per esempio la forza e l'in-­
gegno di un bandito), la buona volontà mai. Ora la buona volontà
non è buona per i risultati che raggiunge, non è buona perché ci
faccia raggiungere la felicità, anzi talora ci procura sofferenze ( co­
me mezzo per il raggiungimento della felicità, del benessere, l'istin­
to sarebbe stato uno strumento molto migliore); la buona volontà
è dunque buona per se stessa, è « il bene supremo ».
Ora è buona la volontà che segue il dovere per il dovere. Non
basta infatti che la volontà sia conforme al dovere; se essa infatti
segue il dovere per un impulso egoistico o per vanità, o anche per
simpatia, per una benevolenza verso il prossimo che sia un puro
sentimento, una inclinazione, essa non è moralmente buona; ve­
nuto meno infatti quel sentimento la volontà non seguirebbe più il
dovere. Il principio ispiratore che guida la volontà deve essere dun­
que solo il rispetto per la legge (G.S., IV, p. 400; trad. it., p. 29).
E qui si presenta già il formalismo dell'etica kantiana, che sarà più
KANT 665

accentuato nella Critica della ragion pratica, e che vuol clire: c10
che rende obbligante la legge non è ciò a cui la legge ci indirizza (lo
scopo, la « materia »), ma il suo carattere di legge: devi perché de­
vi. E il carattere della legge, la sua forma di legge, è l'universali­
tà. Perciò « io debbo sempre comportarmi in modo che io possa an­
che volere che la mia massima divenga una legge universale» (G.S.,
IV, p. 402; trad. it., p. 32). Questa frase annuncia la prima formula
dell'imperativo categorico. Alla dottrina degli imperativi è dedicata
la maggior parte della seconda sezione dell'opera.
Kant definisce la volontà come facoltà di agire secondo la cono­
icenza delle leggi, e poiché la conoscenza delle leggi presuppone la
ragione, Kant identifica volontà e ragion pratica (G.S., IV, p. 412;
trad. it., p. 54). Ora la nostra volontà non segue necessariamente la
legge morale, può anche non seguirla; ad essa quindi la legge mo­
rale si presenta sotto forma di comando, di imperativo. Ma gli im­
perativi sono di due tipi, come abbiamo detto: ipotetici e catego­
rici 48• Gl'imperativi ipotetici sono possibili in virtù di un giudizio
analitico, poiché esprimono solo la connessione necessaria di un
mezzo con un fine: se vuoi il fine, vuoi anche i mezzi per conseguir­
lo. Ma come è possibile l'imperativo categorico? Qui non c'è già
la volontà di uno scopo, dalla quale poter dedurre, analiticamente,
la volontà dei mezzi; dunque la connessione fra la volontà e la leg­
ge morale è sintetica, il che vuol dire che la volontà di obbedire al­
la legge perché è legge non è già implicita nel concetto di volontà in
genere. E non è una connessione sintetica a posteriori perché espri­
me un dovere; l'imperativo categorico è quindi « una proposizione

" Kant suddivide ulteriormente gl'imperativi ipotetici in problematici e assertorii.


I primi prescrivono un procedimento (una tecnica) per conseguire uno scopo possibile,
ossia uno scopo che è in mio arbitrio propormi o no; Kant li chiama regole dell'abilità.
Le regole dell'abilità sono precise, ma «problematiche», dipendono cioè, nella loro
imperatività, dalla scelta arbitraria di uno scopo che si può anche non perseguire. Per
disegnare una figura, per es., si debbono seguire certi procedimenti, ma nessuno è ob­
bligato a disegnare figure. L'imperativo ipotetico assertorio, invece, è quello che co­
manda i mezzi per ottenere uno scopo che di fatto tutti vogliono: la felicità. Gli irn­
perativi ipotetici assertorii sono detti da Kant consigli della prudenza. Il termi­
ne • prudenza ' non ha per Kant il significato, che ha nella scolastica, di virtù
morale: non è altro che la tecnica per il raggiungimento della felicità. Kant chiama
consigli gli imperativi ipotetici assertorii perché essi non possono mai essere rigorosi,
precisi, determinati, (G.S., IV, pp. 416-418).
666 FILOSOFIA MODERNA

pratica sintetica a priori» (G.S., IV, p. 420; trad. it., p. 68) e bi­
sogna determinarne la possibilità. Si vede quindi la analogia fra il
problema morale e quello della Critica della ragion pura, analogia
che presenta però anche una differenza, come vedremo.
Nella Fondazione Kant formula in tre modi l'imperativo cate­
gorico. La prima: Agisci solo secondo quella massima 49 in forza
della quale tu possa volere che essa diventi una legge universale
(G.S., IV, p. 421; trad. it., p. 70). La formula si specifica poi an­
cora cosl: Agisci come se la massima della tua azione dovesse di­
ventare, per tuo volere, legge universale della natura. Kant fa quat­
tro esempi per dimostrare che questa regola serve effettivamente
a farci capire se un modo di comportarsi è morale o no. Citeremo
qui il primo e ricorderemo soltanto gli altri. « Un uomo, per una
serie di mali che hanno finito col ridurlo alla disperazione, risente
un gran disgusto della vita; è però ancora di tanto in possesso della
sua ragione da poter domandarsi se non sarebbe una violazione del
dovere verso se stesso il togliersi la vita. Egli prova allora a vedere
se la massima della sua azione potrebbe diventare una legge uni­
versale della natura. La sua massima sarebbe questa: ' per amore
di me stesso io stabilisco il principio di potere abbreviarmi la vita,
poiché a prolungarla ho più da temerne mali che da sperarne soddi­
sfazioni '. Si tratta ora di sapere se questo principio dell'amor di
sé potrebbe diventare una legge universale della natura. Si vede
però subito che una natura la cui legge sarebbe quella di distrug­
gere la vita stessa, in forza di quello stesso sentimento fatto per po­
tenziare la vita, sarebbe in contraddizione con se stessa e non po­
trebbe sussistere come natura, e perciò è in pieno contrasto col
supremo principio del dovere» (G.S., IV, pp. 421-22; trad. it.,
p. 71). Un secondo esempio è quello dell'uomo che chiede un pre­
stito e promette di restituirlo pur sapendo di non poterlo restituire;
un terzo è il caso di colui che, dotato di ingegno, preferisce poltrire
e non far nulla, il quarto esempio è quello dell'uomo che non si sco­
moda per aiutare altri che vede in difficoltà. La massima qui è sem­
pre l'egoismo (Selbstliebe, amor di sé) e Kant cerca di dimostrare
che essa non è universalizzabile.

" Massima è il prmc1p10 soggettivo dell'azione, ossia è il criterio ispiratore che


guida una determinata condotta.
KANT 667

La seconda formula dell'imperativo categorico è la seguente:


Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona come nella
persona di ogni altro, sempre come fine e mai soltanto come mezzo
(G.S., IV, p. 429; trad. it., p. 84). La terza è: Agire in modo« che
la volontà possa, in forza della sua massima, considerare se stessa
come istituente una legislazione universale» (G.S., IV, p. 434;
trad. it., p. 93). L'autonomia della volontà, sottolineata da questa
terza formula, non vuol dire affatto che la volontà decreti arbitra­
riamente la legge, ma vuol dire che la legge morale esprime la na­
tura stessa della volontà, e non le è data dal di fuori, né da un im­
pulso sensibile né da un padrone.
Nella terza parte della Fondazione Kant risponde al problema
della possibilità di un imperativo categorico. E qui il problema non
è solo come sia possibile un imperativo categorico, ma anche se es­
so sia possibile; tutti i discorsi precedenti infatti erano ancorati
a questa ipotesi: se un imperativo categorico è possibile, esso deve
avere i tali e tali caratteri. « Ma che vi siano proposizioni prati­
che che comandino categoricamente, non poté essere per sé dimo­
strato, e in generale ciò non potrà esser fatto in questa sezione »
(G.S., IV, p. 431; trad. it., p. 88), cioè nella seconda parte. La con­
dizione perché sia possibile un imperativo categorico è che la vo­
lontà sia libera, e la libertà è dimostrata nella terza parte della Fon­
dazione. Questo è il punto in cui la Fondazione differisce dalla Cri­
tica della ragion pratica: mentre in questa la libertà è solo postulata
a partire dalla legge morale, come si vedrà, nella Fondazione Kant
tenta di dimostrare che l'uomo, anzi che ogni essere ragionevole, è
libero, senza presupporre l'affermazione che c'è un imperativo cate­
gorico (la cui possibilità deve proprio esser fondata sulla libertà).
La dimostrazione - lasciata completamente cadere nella Critica
della ragion pratica - è la seguente: l'uomo si coglie come essere
ragionevole indipendentemente dalla sensibilità, indipendentemente
dal senso interno.« L'uomo trova in sé realmente una facoltà per la
quale si distingue da tutte le altre cose, anzi si distingue anche da sé
in quanto affetto da oggetti [ ossia passivo rispetto agli oggetti], e
questa è la ragione. Questa, come pura attività (Selbstthiitigkeit)
è superiore anche all'intelletto... » (G.S., IV, p. 452; trad. it., p.
125). Ora in quanto dotato di ragione l'uomo appartiene al mondo
intelligibile, e perciò è sottratto al determinismo che è la legge del
mondo fenomenico: è libero.
668 FILOSOFIA MODERNA

Analogamente, nella soluzione della terza antinomia della Cri­


tica della ragione pura Kant aveva detto: « Ma l'uomo, che cono­
sce tutta quanta la natura solo mediante i sensi, conosce se stesso
anche con la pura appercezione, in attività e determinazioni inte­
riori che egli non può annoverare fra le impressioni sensibili, ed è
a se stesso per un verso fenomeno, ma per l'altro (cioè riguardo a
certe facoltà) oggetto puramente intelligibile, perché le azioni di
questo suo aspetto non possono essere messe in conto alla recetti­
vità delle impressioni. Chiamiamo queste facoltà intelletto e ra­
gione» (G.S., III, p. 371; Ragion pura, p. 446).

20. La « Critica della ragione pratica »

Nella Critica della ragion pratica, si diceva, questa dimostra­


zione della libertà non si trova più, e si capisce: poiché essa sup­
pone una certa intuizione di sé come noumeno, una specie di intui­
zione intellettuale, che Kant non ammette.
Scopo della Critica della ragion pratica è dimostrare « che vi
è una ragion pura pratica» (G.S., V, p. 3; R. pratica, trad. Capra,
p. 1), « che la ragion pura può essere pratica» (G.S., V, p. 15;
R. pratica, p. 16); il che vuol dire: dimostrare che la ragione sola,
senza influsso di impulsi sensibili, può dirigere la volontà, e che
solo quando la volontà è determinata dalla pura ragione, essa è
volontà buona. C'è dunque una differenza fondamentale fra la ra­
gione teoretica e la ragione pratica: la prima non può conoscere
validamente senza l'ausilio della sensibilità (i concetti puri devono
unificare intuizioni sensibili per dar luogo alla conoscenza di og­
getti), la seconda invece può dirigere la volontà senza l'ausilio della
sensibilità; anzi solo quando si realizza questa condizione si ha un
comportamento morale. Ecco perché non occorre fare una critica del­
la ragion pura pratica, ma solo della ragion pratica: per dimostrare
appunto che la ragione può essere pratica in quanto pura ragione. La
ragion pura non è per se stessa teoretica, e perciò ha bisogno di cri­
tica, mentre la ragion pura è per se stessa pratica, quindi come tale
(come ragion pura pratica) non ha bisogno di critica.
Si dimostra che la ragione può dirigere la volontà in quanto
pura ragione perché c'è una legge morale con valore universale:
KANT 669

questo è un « fatto della ragione » 50 non ulteriormente giustifica­


bile. Ora una legge universalmente valida deve valere solo per la
sua forma di legge, ossia perché è legge, non per quello che (mate­
ria) mi comanda di fare. Dice infatti il Teorema I: « Tutti i principi
pratici che presuppongono un oggetto (materia) della tendenza come
motivo determinante della volontà sono empirici e non possono for­
nire leggi pratiche ». Non ci sono infatti che due motivi possibili
per volere un oggetto: o perché si deve volerlo, perché la legge lo
comanda, o perché l'oggetto piace. Ma il piacere è soggettivo, può
variare da individuo a individuo, quindi non può fondare una leg­
ge universale. A chi gli aveva obiettato che avrebbe dovuto premet­
tere la nozione di bene a quella di legge Kant risponde quindi che
non si può definire cosa sia il bene morale indipendentemente dal
concetto di legge, poiché bene morale è ciò che la legge comanda.
In questo consiste il formalismo della morale kantiana.
La libertà è postulata dal carattere formale della legge: infat­
ti una volontà che deve (sol!) seguire la legge perché è legge non
può essere necessariamente determinata da motivi o impulsi sensi­
bili; non ha infatti senso un « devi » rivolto ad un soggetto già
determinato ad agire in un modo piuttosto che in un altro. Chi ha
il dovere di fare una cosa deve poterla fare: puoi, perché devi. A
chi gli aveva obiettato (recensendo la Fondazione) che vi era un
circolo vizioso poiché la libertà era dimostrata dall'esistenza della
legge morale, e la possibilità dell'imperativo categorico era dimo­
strata in base alla libertà, Kant risponde che la libertà è condizione
perché ci sia la legge morale, ma la legge morale è la condizione
perché la libertà sia conosciuta, o, per usare i termini di Kant: la
legge morale è la ratio cognoscendi della libertà, ma la libertà è la
ratio essendi della legge morale (G.S., V., p. 4, nota; R. pratica,
p. 2).
La libertà è « la chiave di volta di tutto l'edificio di un siste­
ma della ragion pura, anche di quella speculativa », perché è l'uni­
ca via d'accesso, per dir cosi, al mondo intelligibile. Solo attra­
verso la libertà si potrà infatti dimostrare che i concetti di Dio
e dell'immortalità non sono soltanto idee senza sostegno, ma, anco­
rati alla libertà, ricevono da questa « consistenza e realtà oggetti-

50
G.S., V, pp. 31, 42, 43, 47, 55; R. pratica, pp. 38, 50, 51, 56, 66.
670 FILOSOFIA MODERNA

va, cioè la loro possibilità è dimostrata dal fatto che la libertà


è reale» (G.S., V, pp. 3-4; R. pratica, p. 2). Un'altra differenza fra
la libertà e gli altri due postulati della ragion pratica è che la libertà
è condizione della legge morale, mentre l'esistenza di Dio e l'im­
mortalità dell'anima sono soltanto condizioni dell'oggetto della
volontà, ossia del sommo bene, come si vedrà più avanti.
Ma a proposito della libertà si presenta una obiezione: la liber­
tà è una specie di causalità, è l'efficacia della ragione sulla vo­
lontà; ora la causalità è una categoria, quindi non dovrebbe poter
essere applicata al mondo intelligibile, al mondo delle cose in sé.
La risposta di Kant (G.S., V, pp. 50 ss.; R. pratica, pp. 60 ss.) meri­
ta attenzione, poiché in essa Kant rifà la storia ideale dei suoi rap­
porti con Hume, sottolinea la sua divergenza da lui e mette in lu­
ce l'importanza che ha quel « fatto della ragione» che è l'evidenza
della legge morale. La sveglia dal sonno dogmatico che Kant ricono­
sce di dovere a Hume nei Prolegomeni (G.S., IV, p. 260; trad. it.,
p. 1 O) consiste nella negazione che il rapporto causale sia analitico,
tale cioè da non poter essere negato senza contraddizione; ma, mentre
Hume riduceva la persuasione che esistano rapporti causali a frutto
di una abitudine, Kant afferma che essa è frutto di un giudizio sin­
tetico a priori, perché la causalità è un concetto puro, una categoria
(quindi un costitutivo essenziale dell'oggetto). Essendo un concetto
puro, la causalità potrebbe essere applicata a qualsiasi oggetto, anche
noumenico, purché fosse dato nell'intuizione; ma poiché l'intuizio­
ne per l'uomo è solo sensibile, la causalità può essere applicata
solo al mondo sensibile, cioè fenomenico. Sennonché nella vita mora­
le c'è un fatto che tiene quasi luogo di una intuizione intellettua­
le: « La realtà oggettiva di una volontà pura, o, che è lo stesso, di
una ragion pura pratica è data a priori nella legge morale quasi co­
me un fatto; cosl invero si può chiamare una determinazione della
volontà, che è inevitabile, benché non si fondi su principì empirici»
(G.S., V, p. 55; R. pratica, p. 66). Si può quindi, solo nella vita mo­
rale, applicare la categoria di causa anche al mondo intelligibile e
affermare che l'uomo come noumeno, come appartenente al mondo
intelligibile; è causa delle proprie volizioni.
Bene morale, si è detto, è ciò 'che la legge comanda; ma come si
può riconoscere il bene nel mondo fenomenico, visto che la moralità
appartiene al mondo noumenico? O, che è lo stesso, che cosa dobbia­
mo fare per obbedire alle legge? Kant risponde riprendendo con po-
KANT 671

che varianti la formula dell'imperativo categorico (la prima della


Fondazione, l'unica che sia rimasta nella Critica della ragion pra­
tica, dato il maggior rigore col quale è affermato il formalismo):
« Domanda a te stesso se l'azione che hai in mente la potresti riguar­
dare come possibile mediante la tua volontà, quando essa dovesse ac­
cadere secondo una legge della natura della quale tu stesso fossi
una parte» (G.S., V, p. 69; R. pratica, p. 83 ). Ma quello che merita
attenzione, in questo paragrafo della Ragion pratica, che Kant inti­
tola « Tipica del giudizio pratico » e vede come il parallelo dello
schematismo della Ragion pura, è che la possibilità di universalizza­
re la massima è vista non come l'essenza della moralità, per dir co­
sì, ma come il suo typos, cioè la sua impronta, il suo riflesso nel
mondo fenomenico. Il che vuol dire - ed è stato accentuato da alcuni
interpreti di Kant, come P. Martinetti 51 - che la forma della legge
morale è solo il riflesso accessibile a noi di una « materia », di un
ideale umano che non possiamo determinare concettualmente perché
appartiene al mondo intelligibile.
Se l'universalità della legge è il riflesso oggettivo della mora­
lità, un riflesso soggettivo della legge morale, nella nostra sensibilità,
è il sentimento di rispetto che essa ci incute. Nell'etica di Hut­
cheson il sentimento era il criterio per valutare moralmente, nella
etica della maturità di Kant esso è solo l'effetto prodotto sulfo
nostra sensibilità da una legge conosciuta con la ragione.
Anche nella Critica della ragion pratica c'è una dialettica che
si manifesta in una antinomia a proposito del concetto di sommo
bene. Sommo bene, infatti, nel senso di bene supremo è la virtù, ma
la virtù non appaga tutti i desideri dell'uomo. non è il bene completo,
poiché l'uomo ha anche bisogno di felicità e non basta la virtù a ren­
derlo felice. Kant non è stoico, non crede che il saggio, l'uomo vir­
tuoso, sia felice anche in mezzo ai tormenti, eppure ritiene che
l'uomo debba perseguire la virtù senza badare alla propria felicità,
anche a rischio della propria felicità. Nessuno è più degno di fe­
licità dell'uomo virtuoso, eppure l'uomo moralmente buono non è
necessariamente felice. Ecco l'antinomia.
Kant la risolve col postulato dell'esistenza di Dio, cioè d1 un
sommo bene originario, causa intelligente della natura, capace quin-

51
Nel saggio Sul formalismo della morale kantiana, in Saggi e Discorsi, Torino, Para­
via, 1926, pp. 97-126.
672 FILOSOFIA MODERNA

di di dare la gioia, il bene soggettivo, a chi persegue il bene mora­


le. Tale sintesi di virtù e felicità potrà tuttavia realizzarsi solo
in una vita ultraterrena, vita che occorre postulare come esigenza
della perfezione morale. L'ideale della perfezione morale, la san­
tità, non è infatti raggiungibile nella vita presente (e l'uomo che
credesse di averlo raggiunto sarebbe il più farisaicamente lontano
non solo dalla perfezione, ma anche dall'onestà), eppure la perfe­
zione è « richiesta come praticamente necessaria», cioè non vi è au­
tentica vita morale senza tensione verso un ideale. Ci deve essere
dunque un progresso all'infinito, e quindi un'esistenza che continui
all'infìnito per realizzarla.

21. Morale e diritto

L'etica speciale di Kant è svolta nella seconda parte della Meta­


fisica dei costumi, la Dottrina della virtù, ma non è una parte mol­
to originale. Ci limiteremo quindi a osservare che quando tratta dei
doveri specifici Kant ricorre non tanto alla prima formula dell'im­
perativo categorico quanto alla seconda, quella che comanda di con­
siderare sempre l'umanità come fine e non unicamente come mezzo.
L'attività umana deve avere come fine la propria perfezione e la fe­
licità altrui; l'uomo deve cioè coltivare le sue capacità, specie le più
alte, intelletto e volontà, e deve assumere come proprio scopo quel­
la felicità alla quale gli altri legittimamente tendono.
La distinzione fra legalità (conformità al dovere) e moralità
(conformità al dovere per il dovere) fornisce uno degli elementi per
la distinzione fra diritto e morale. Infatti le leggi morali in sen­
so ampio ( in quanto sono seguite liberamente e non per necessità
di natura, come le leggi :fisiche) si distinguono in giuridiche ed eti­
che secondo che riguardino « soltanto le azioni esterne e la loro con­
formità alla legge» o considerino anche il motivo delle azioni (G.S.,
VI, p. 214 ); Metafisica dei costumi, in Scritti politici, p. 359).
Un primo carattere del diritto è dunque quello di prescindere
dall'intenzione del soggetto operante - che è invece essenziale al­
la moralità di un'azione -. Prescindendo dall'intenzione, dal mo­
tivo di chi agisce, il diritto ammette anche che il motivo dell'azione
possa essere un impulso sensibile: il timore della pena. Altro ca­
rattere delle leggi giuridiche è che il loro contenuto (ciò che esse
KANT 673

prescrivono) non sempre può essere giustificato dalla ragione, seb­


bene la ragione faccia conoscere come doverosa l'obbedienza alle
leggi giuridiche. Quando ciò che è imposto da una legge esterna
(giuridica) può essere conosciuto come doveroso anche con la sola
ragione (come avviene p. es. per le leggi che vietano l'omicidio o il
furto), la legge si chiama naturale; le leggi invece che « senza una
reale legislazione esterna non obbligano per nulla, e che in con­
seguenza senza questa legislazione non sarebbero leggi, si chiamano
leggi positive» (G.5., VI, p. 224; Scritti politici, p. 400).
C'è dunque nel diritto una parte costituita da leggi naturali:
c'è un diritto naturale. Scienza del diritto, nel senso di conoscenza
di ciò che è necessario e universale nel diritto (noi diremmo: filoso­
fia del diritto) è « la conoscenza sistematica della dottrina del diritto
naturale (ius naturae) in quanto il giurisperito versato in quest'ul­
tima scienza deve fornire i principì immutabili per ogni legislazione
positiva» (G.S., VI, p. 229; Scritti politici, p. 405).
Quali sono questi principì?
Kant osserva che quando si domanda: - Che cosa è il diritto?
-, si può intendere la domanda in due significati: quid sit iuris e
quid sit iustum, cioè: che cosa sia conforme ad una certa legislazio­
ne positiva e che cosa sia giusto, ossia quali principì universali deb­
bano presiedere ad una legislazione positiva perché questa sia con­
forme alla legge morale. Ora Kant ha detto che il diritto riguarda
le azioni esterne, e precisamente le relazioni di una persona verso
l'altra; più precisamente ancora: le relazioni dell'arbitrio di una
persona con quello di un'altra. Qui arbitrio è contrapposto a desi­
derio ed indica il potere di agire. Di qui la definizione kantiana:
« Il diritto è dunque l'insieme delle condizioni per mezzo delle qua­
li l'arbitrio dell'uno può accordarsi con l'arbitrio di un altro secon­
do una legge universale della libertà» (G.5., VI, p. 230; Scritti po­
litici, p. 407).
Kant vuole escludere dal concetto del diritto ( che, non dimenti­
chiamolo, rientra nella metafisica dei costumi, ossia nell'etica) ogni
riferimento alla felicità. La società politica con le sue leggi non si
costituisce perché gli uomini possano vivere felici, ma perché pos­
sano vivere liberi. In un articolo del 1793 Kant afferma recisamen­
te: « Il concetto di un diritto esterno in generale deriva interamente
dal concetto della libertà nei. rapporti esterni degli uomini fra loro
e non ha nulla a che fare con il fine che tutti gli uomini hanno natu-
674 FILOSOFIA MODERNA

ralmente (la ricerca della felicità)... » (G.S., VIII, p. 289; Scritti


politici, p. 254 ). La società politica si costituisce perché ognuno pos­
sa fare ciò che gli sembra giusto e buono e non dipendere in ciò
dall'opinione degli altri. « Non si può quindi dire, osserva Kant,
che l'uomo nello stato abbia sacrificato ad un certo scopo una parte
della libertà esterna innata in lui, bensl che egli ha completamente
abbandonata la libertà selvaggia e sfrenata per ritrovare nuovamen­
te, non diminuita, la sua libertà in generale in una dipendenza le­
gale, ossia in uno stato giuridico, perché questa dipendenza scaturi­
sce dalla sua propria volontà legislatrice» (G.S., VI, p. 316; Scrit­
ti politici, p. 502).
L'atto costitutivo della società civile è chiamato da Kant anche
contratto o patto originario; egli avverte però subito che questo pat­
to non è un fatto storico, ma un'esigenza morale insita nella natura
razionale dell'uomo, un'idea della ragione, la cui realtà « consiste
nell'obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse dovessero
derivare dalla volontà comune di tutto un popolo» (G.S., VIII,
p. 297; Scritti politici, p. 262).
Lo stato ideale, lo stato « come deve essere secondo principi
puri di diritto », deve essere la guida, la norma per la costituzione
di ogni stato reale. Tali principi sono i seguenti: 1) la libertà
di ogni membro della società in quanto uomo; 2) l'uguaglianza di
esso con ogni altro, in quanto suddito; 3) l'indipendenza di ogni
membro della comunità, in quanto cittadino.
La libertà dell'individuo in quanto uomo esige che gli sia la­
sciato l'arbitrio di cercare la sua felicità per la via che gli sembra
buona, « purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di ten­
dere allo stesso scopo». Va contro questo principio un governo
paternalistico, in cui l'autorità politica si proponga di determinare
in qual modo i sudditi debbano essere felici. Questo è secondo
Kant il peggior dispotismo che si possa immaginare, perché tratta
i sudditi come figli minorenni che non sanno quale sia il loro ve­
ro bene 52

52
G. Solari, nella sua Introduzione agli Scritti politici di Kant (p. 26), ossena
che, in questo, Kant si oppone sia al dispotismo illuminato sia al « dispotismo etico ... ,>
nella forma razionale e democratica di Rousseau. Lo Stato che vuole attuare con mezzi
coattivi la felicità individuale e la morale collettiva, non raggiunge lo scopo e diventa
oppressore.
KANT 675

L'uguaglianza degli individui in quanto sudditi è l'uguaglianza


davanti alla legge. Kant ne esprime così la formula: « Ogni mem­
bro dello Stato ha verso gli altri diritti coattivi, dai quali solo il so­
vrano è escluso, perché egli non è membro dello Stato, ma lo crea
o lo conserva ». Tale uguaglianza non esclude per Kant « la massi­
ma disuguaglianza nella quantità e nel grado del loro possesso »;
ma dalla uguaglianza deriva che « ogni membro dello Stato deve
poter pervenire in esso a quel grado di posizione sociale (accessi­
bile a un suddito) al quale possono elevarlo le sue capacità, la sua
operosità e la sua fortuna, senza trovar ostacolo negli altri sudditi
che invochino prerogative ereditarie ». Non debbono, cioè, essere
ereditarie le cariche pubbliche, né limitate ad una categoria di cit­
tadini qualificati dalla nascita (i nobili). Kant ammette però che
si possano trasmettere in eredità le cose, ossia ciò che « non riguar­
da la personalità ».
L'indipendenza del cittadino è la sua possibilità di partecipare
al potere legislativo. Non tutti però possono e debbono essere cit­
tadini attivi, ossia con diritto di voto. « La qualità che a ciò è ri­
chiesta, oltre quella naturale (che il soggetto non sia un bambino o
una donna) è solo questa: che egli sia padrone di sé (sui iuris) e
perciò abbia una qualsiasi proprietà (nel concetto della quale può
esser compresa ogni attività manuale, professionale, artistica o
scientifica) che gli procuri i mezzi per vivere» (G.S., VIII, p. 295;
Scritti politici, p. 260 ). In queste affermazioni particolari si vede
come Kant, al pari di ogni uomo, sia condizionato dalle opinioni e
dalle condizioni sociali del suo tempo. Kant ritiene per esempio
sui iuris, e quindi cittadino con pieni diritti, l'artigiano, ma non il
suo garzone o un domestico, e distingue colui al quale si dà da
spaccare la legna dal sarto al quale si dà la stoffa per fare un ve­
stito, distingue il parrucchiere dal fabbricante di parrucche, e nella
Dottrina del diritto, § 46, distingue il precettore privato dal mae­
stro di scuola, il bracciante dal fittavolo.
Affinché si realizzino la libertà, l'uguaglianza e l'indipendenza
del cittadino, Kant ritiene necessaria la divisione dei tre poteri, le­
gislativo, esecutivo, giudiziario, che sono i tre aspetti della volontà
generale, costitutiva dello Stato. « Il potere legislativo può spettare
soltanto alla volontà collettiva (vereinigt) del popolo. Infatti, poi­
ché da questo potere deve procedere ogni diritto, esso non deve
poter recare ingiustizia a nessuno con le sue leggi » (Dottrina del
676 FILOSOFIA MODERNA

diritto, § 46; G.S., VI, p. 313; Scritti politici, p. 500); ora se il


potere legislativo emana dalla volontà di tutti non ci può essere
ingiustizia perché volenti non fit iniuria.
Queste affermazioni non significano tuttavia per Kant che la
sola costituzione giusta sia quella democratica, né, tanto meno, che
lo Stato ideale sia quello dove vige la democrazia diretta. Lo Stato
ideale è quello « in cui la legge è sovrana, in cui la volontà del po­
polo si identifica con la legge e si concreta in un sistema rappre­
sentativo », dice il Solari. Tale costituzione è da Kant chiamata re­
pubblicana.
Kant non ammette il diritto di resistenza dei sudditi né la rivo­
luzione. Quando si trovò di fronte ad un avvenimento, la Rivolu­
zione francese, che rispondeva ai suoi ideali politici, cercò di giusti­
ficarla giuridicamente affermando che Luigi XVI, sia pure senza
rendersi conto della portata del suo atto, aveva rimesso il potere
legislativo agli Stati generali (G.S., VI, p. 341; Scritti politici,
pp. 332-33 ).
Il problema della conciliazione fra il libero esercizio della ra­
gione e l'obbedienza necessaria a conservare la compagine statale
si era posto a Kant anche nell'articolo del 1784 Che cosa è l'illumi­
nismo? (G.S., VIII, pp. 33-42; Scritti politici, pp. 141-49). « L'il­
luminismo (Aufklarung) - dice Kant - è l'uscita dell'uomo dallo
stato di minorità ». E lo stato di minorità è quello in cui l'uomo è
guidato da un altro nel suo pensiero e nella sua azione. Uscire di
minorità significa dunque giudicare con la propria ragione, agire
secondo il giudizio della propria ragione, ed è, questo, un atto emi­
nentemente morale, perché significa scuotere la pigrizia, accettare
delle responsabilità. Una delle condizioni dell'illuminismo è dun­
que intrinseca all'individuo, è un atto di coraggio: sapere aude,
abbi il coraggio di servirti del tuo pensiero! Ma un'altra condizione
. è estrinseca all'individuo, ed è che lo Stato lasci la libertà di pen­
sare con la propria testa. E invece si sente dire da ogni parte: non
ragionare! L'ufficiale, l'agente delle tasse, il sacerdote, mi dicono:
non ragionare! Sembra dunque che ci sia incompatibilità fra l'illu­
minismo, l'uso della propria ragione, e l'autorità necessaria alla con­
servazione dello Stato. Kant crede di superare la difficoltà distin­
guendo uso privato e uso pubblico della ragione, e ricorda una
frase di Federico II: « Ragionate fin che volete, ma ubbidite». Il
che vuol dire: mentre esercitate le vostre funzioni come membri
KANT 677

della società, seguite le leggi e gli ordini dell'autorità, anche se vi


sembrano difettosi, ma, quando avete fatto il vostro dovere, avete
il diritto, come uomini, di esporre pubblicamente le vostre opi­
nioni. Kant, in questo articolo, sembra non prendere in considera­
zione il caso, toccato a lui stesso qualche anno dopo, di un go­
verno che vieti anche l'espressione di opinioni non conformi alle
sue; sappiamo però che, quando il caso gli occorse, ritenne suo do­
vere di suddito il tacere.

22. La storia come progressiva affermazione della ragione

Attualmente non esiste ancora un vero e proprio diritto dei po­


poli: i popoli sono nei rapporti fra loro ancora nello stato di natu­
ra, ossia in rapporti basati sulla forza, in uno stato latente o espli­
cito di guerra; ma bisogna fare ogni sforzo per arrivare ad una
condizione in cui anche i rapporti fra gli Stati siano regolati dal di­
ritto; e ad una tale condizione si può arrivare solo mediante una
confederazione di Stati. L'ultima parte della Dottrina del diritto
(terza sezione della seconda parte) è infatti dedicata da Kant al
diritto cosmopolitico. La storia stessa, secondo Kant, ha in sé una
finalità che la dirige verso la pace: questa tesi era stata svolta da
Kant già parecchi anni prima della pubblicazione della Dottrina del
diritto, nel saggio Idea di una storia universale da un punto di vi­
sta cosmopolitico, uscito nella « Berlinische Monatschrift » nel 1784
(G.5., VIII, pp. 17-31; Scritti politici, pp. 123-139). « Tutte le
guerre sono (non nell'intenzione degli uomini, ma in quelle della
natura) tentativi per raggiungere nuovi rapporti fra gli Stati e per
formare, attraverso la distruzione o almeno la divisione di tutti,
nuovi corpi politici », i quali si distruggeranno ancora fra loro, fin­
ché una buona volta, in parte col migliore ordinamento interno, in
parte mediante un accordo o una legislazione superiore ai singoli
Stati, si raggiunga una condizione di cose che possa mantenersi da
sé, senza ricorrere a guerre.
C'è dunque anche negli avvenimenti storici una « intenzione
della natura » che è superiore alle intenzioni degli uomini; c'è una
finalità nella storia e Kant si propone di determinarne le grandi
linee.
Pagine molto belle e molto attuali sulla pace si trovano nel
678 FILOSOFIA MODERNA

saggio Per la pace perpetua (G.S., VIII, pp. 341-386; Scritti poli­
tici, pp. 283-335) del 1795. Kant non si nasconde le difficoltà del
:fine da raggiungere: la pace perpetua, poiché non si tratta di un
:fine al quale l'uomo tenda per impulso. O piuttosto: l'uomo ha un
profondo desiderio di pace, ma se segue soltanto i suoi impulsi non
pone i mezzi necessari per conseguirla: « lo stato di pace dev'essere
istituito » e molto importa al raggiungimento della pace la costitu­
zione dei singoli Stati. Infatti Kant indica come « primo articolo
definitivo per la pace perpetua » che la costituzione di ogni Stato
sia repubblicana. Abbiamo già detto che cosa intenda Kant per co­
stituzione repubblicana: ora poiché in tale costituzione « è richie­
sto l'assenso di tutti i cittadini per decidere se la guerra debba o
non debba essere fatta», essi rifletteranno a lungo prima di fare
la guerra, che porta gravi danni a tutti. Il « secondo articolo» o
seconda condizione per la pace perpetua è una federazione di li­
beri Stati; il terzo, dicendo che « il diritto cosmopolitico deve es­
sere limitato alle condizioni di una universale ospitalità », propu­
gna per un verso la libera circolazione degli uomini da uno Stato
all'altro, ma esclude ogni forma di colonizzazione.

23. La religione

La religione è per Kant un fatto esclusivamente morale. « La


religione è (soggettivamente considerata) la conoscenza di tutti i
nostri doveri come comandamenti divini» (G.S., VI, p. 153). E
si capisce questa concezione kantiana se si tiene presente qual è
secondo Kant l'origine della religione. La religione nasce da una
esigenza morale: gli uomini infatti tendono ad unirsi, ad associarsi:
si uniscono a costituire lo Stato per proteggere esteriormente la lo­
ro libertà; ma tendono anche a costituire una società fondata
sull'identità di intenti, una società puramente morale, con vincoli
puramente interiori, la società di tutti gli uomini che osservano la
legge morale, affinché nell'unione con gli altri uomini ognuno si
senta confortato nella lotta contro il male e stimolato al bene.
Questa società di spiriti, a differenza degli Stati, dev'essere una
sola per tutti gli uomini, poiché una sola è la legge morale, ed è la
Chiesa nel senso più genuino, la Chiesa invisibile, come società di
tutti gli uomini di buona volontà.
KANT 67')

Ma l'uomo, che è anche un essere sensibile, sente il bisogno di


attuare in modo tangibile, esteriore, questa unità, e così sorge la.
Chiesa visibile: « La vera Chiesa (visibile) è quella che rappre­
senta il regno (morale) di Dio sulla terra, per quanto è possibile
all'uomo attuare questo regno» (G.S., VI, p. 101).
Ma siccome gli uomini difficilmente si elevano a concetti sopra­
sensibili, puramente morali, per persuaderli che è loro dovere agi­
re moralmente bisogna presentar loro la moralità come un servi­
zio da rendere a Dio, e bisogna metter loro davanti la volontà di
Dio in una manifestazione sensibile, storica, in una Scrittura. Così
la religione diventa, da pura religione razionale o naturale, religio­
ne storica, o statutaria. (In luogo di statutaria, Kant adopera anchè
i termini rivelata o positiva). « La religione nella quale io debbo
saper prima che una cosa è comandata da Dio per riconoscerla co­
me mio dovere è la religione rivelata; invece quella in cui io deb­
bo prima sapere che una cosa è mio dovere per riconoscerla poi
come comandamento di Dio è la religione naturale» (G.S., VI ,.
p. 153 ).
Data questa concezione kantiana sulla natura e l'origine della,
religione rivelata, si capisce che per lui l'aspetto teoretico della re­
ligione rivelata non conti nulla: esso non è che un apparato neces­
sario per inculcare nell'animo della moltitudine princip1 morali.
Il Cristianesimo è la sola religione positiva che possa essere ri­
dotta a pura religione naturale. Come si disinteressa del contenuto·
teoretico del Cristianesimo, cosi Kant si disinteressa anche delle·
sue origini storiche (autenticità dei Vangeli, ecc.), perché il valore
delle dottrine cristiane è dato dal loro contenuto morale, non dal
fatto che siano o meno rivelate. E in quattro paginette scarse Kant
riassume, dal Vangelo (sempre di S. Matteo, eccetto un passo) il
contenuto morale del Cristianesimo. Storicamente, però, anche il
Cristianesimo è diventato una religione dotta,. una religione cioè
che presuppone la conoscenza di documenti, di libri sacri. Anche in
esso sono prevalsi gli elementi « statutari», positivi, e anch'esso
è diventato superstizione e clericalume (Pfaffentum).
680 FILOSOFIA MODERNA

LA FINALITA NELL'ARTE E NELLA NATURA

24. It problema della « Critica del Giudizio »

La Critica della ragione pura ha concluso che quella natura che


dominiamo con la scienza è soltanto fenomenica, è la realtà come ap­
pare allo spirito umano; il mondo noumenico, il mondo delle cose
in sé è quello al quale apparteniamo come soggetti morali, ha con­
cluso la Critica della ragion pratica, ma di questo non abbiamo cono­
scenza; fra i due mondi c'è un « abisso immenso ». Ora la Critica
del Giudizio si domanda se non ci siano vie per superare questo
abisso, questa spaccatura. Superare l'abisso vorrebbe dire cogliere
un riflesso di intelligibilità nella natura anche là dove non arriva
l'intelligibilità portata dalle nostre categorie, cogliere una intelli­
gibilità anche in ciò che negli oggetti deriva dalla materia della
conoscenza. Per la scienza, i dati grezzi delle sensazioni sono un
caos inintelligibile, un caos al quale portano ordine e unità solo
le categorie che sono però concetti generalissimi. Si tratta ora di
vedere se anche i particolari attestati dalle intuizioni empiriche
non portino in sé una traccia di intelligibilità. Se così fosse, sa­
remmo autorizzati a pensare che le ignote cose in sé, dalle quali ci
vengono le impressioni sensibili, hanno una struttura razionale; che
a fondamento della natura sta quella medesima Ragione che sta a
fondamento della legge morale.
Le vie per arrivare a questa persuasione non sono evidenze
scientifiche - già escluse dalla Critica della ragion pura -: sono
la bellezza e l'ordine della natura, oggetto di studio della Critica
del Giudizio. Facoltà di giudicare (Urteilskraft) o Giudizio (con la
maiuscola) è infatti la facoltà di sussumere un particolare sotto un
universale, come dire: di cogliere un particolare come esempio di
un concetto, ossia di cogliere una intelligibilità nel dato particolare.
Ora ci sono due tipi di giudizio: il giudizio determinante e il giu­
dizio rifiettente: il primo è quello in cui l'universale è già dato,
è già posseduto dall'intelletto che lo applica al molteplice delle
intuizioni: è il giudizio scientifico, quello di cui parla la Criti­
ca della ragion pura; il secondo è quello in cui l'universale non
è già dato, ma va trovato. Kant chiama Giudizio la facoltà del giu­
dizio riflettente, e di questa si occupa nella Critica del Giudizio.
KANT 681

Ci si chiederà perché si debba andare alla ricerca di un universale


col giudizio riflettente se già si possiedono concetti per formulare
giudizi determinanti; il motivo è che i concetti puri sono estrema­
mente generici, e il problema della Critica del Giudizio è proprio
quello di vedere se non sia intelligibile anche quella miriade di
particolari che sfugge alle maglie troppo larghe dei concetti a prio­
ri. E poiché dire che una realtà è intelligibile equivale a dire
che ha un significato, uno scopo, il giudizio riflettente è quello
che trova una finalità nella natura (G.S., V, p. 180; Cr. del Giudizio,
p. 18).

25. Il giudizio estetico

Ci sono due modi per scoprire la finalità della natura: la con­


templazione della bellezza e la riflessione sull'ordine della natura:
di qui le due parti della Critica del Giudizio: critica del Giudi­
zio estetico 53 e critica del Giudizio teleologico.
Il punto di partenza della Critica del Giudizio estetico è ana­
logo a quello delle altre due Critiche: come sono possibili giudizi
estetici con valore universale?
E, come nella Critica della ragion pura, Kant cerca una media­
zione fre empirismo e razionalismo. Per il razionalismo di tipo
leibniziano, quale era quello di A. G. Baumgarten, non c'è diffe­
renza specifica fra la conoscenza sensibile e la conoscenza intellet­
tuale, poiché la prima è ridotta alla seconda. Fra le percezioni c'è
differenza solo nel grado di distinzione: quella che noi chiamia­
mo conoscenza sensibile è una conoscenza confusa rispetto alla co­
noscenza intellettuale. Ora la conoscenza del bello, che appartiene
alla sfera sensibile, non è altro che una conoscenza confusa della
perfezione degli oggetti, un concetto confuso della perfezione. Si
capisce allora come per il Baumgarten sia giustificata l'universalità
dei giudizi estetici: essa ha un fondamento oggettivo, cioè la per­
fezione dell'oggetto confusamente conce9ita. A fondamento del-

'3 Il termine " estetico " è preso qui nel senso che gli diamo oggi comunemente
significato datogli per la prima volta da A. G. Baumgarten nella sua Aesthetica, nor
nel senso che ha nella Critica della ragione pura quando Kant espone l'estetica tra•
scendentale.
682 FILOSOFIA MODERNA

l'intuizione del bello deve stare quindi un concetto, sia pur con­
fuso, dell'oggetto giudicato bello. Baumgarten afferma altresì che
la conoscenza estetica ha rapporto col sentimento, ma il sentimen­
to è anch'esso determinato da una qualità oggettiva: dalla perfe­
zione dell'oggetto confusamente conosciuta.
L'empirismo nega pure ogni dilferenza specifica fra conoscenza
sensibile e conoscenza intellettiva, ma a beneficio della sensibilità,
e riduce tutto a conoscenza sensibile. A pura sensibilità doveva
quindi essere ridotta anche l'intuizione de] bello. E infatti il giu­
dizio estetico, il giudizio col quale affermo " questa cosa è bella ",
-è fondato, secondo gli empiristi, esclusivamente sull'impressione
soggettiva, sull'impressione fisiologica prodotta dalla cosa bella.
Kant rifiuta la tesi empiristica perché essa non spiega come
mai il giudizio estetico possa essere condiviso da tutti. Il giudizio
estetico ha una pretesa di universalità, di oggettività. Non è lo
stesso dire: " la tal cosa è bella " e dire " la tal cosa mi piace ";
-ora la tesi empiristica non spiega questa differenza. Dalla consta­
tata insufficienza della tesi empiristica nasce la prima asserzione
kantiana sul giudizio estetico: il bello è l'oggetto di un piacere di­
sinteressato.
Dal carattere disinteressato del piacere estetico segue il secon­
,do carattere: bello è ciò che piace universalmente, e Kant aggiun­
.ge: senza concetto (G.S., V, p. 219; Critica del Giudizio, p. 59).
Questa aggiunta, giustificata dall'insistenza sul piacere che muove
il giudizio estetico, piacere e non concetto, apre la via al terzo ca­
rattere: la bellezza è la forma della finalità di un oggetto in quanto
vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo (G.S., V,
p. 236; Critica del Giudizio, p. 77). Il quarto carattere del giudizio
-estetico è la necessità, già implicita nell'universalità.
Fermiamoci un momento sul secondo e sul terzo carattere. Uni­
versalità senza concetto, finalità senza scopo sono espressioni apparen­
temente contraddittorie, nelle quali sta invece l'aspetto più originale
,dell'estetica kantiana, o, come egli dice, « la chiave della critica del
gusto» (G.S., V, p. 216; Critica del Giudizio, p. 56). Il giudizio este­
tico è determinato da un sentimento, non dal concetto confuso della
-cosa, dal concetto dello scopo della cosa bella - in questo Kant è
-d'accordo con gli empiristi-; ma il sentimento, il piacere estetico è
determinato da una conoscenza, è il piacere di una conoscenza, è il
.senso dell'armonia tra l'immagine sensibile dell'oggetto e il nostro
KANT 683

intelletto in generale. II piacere estetico è sl l'apprensione dell'intel­


ligibilità dell'oggetto, ma tale apprensione avviene attraverso la con­
sapevolezza dell'armonia delle nostre facoltà: dell'immaginazione
con l'intelletto. Si capisce quindi l'espressione « finalità senza
scopo », poiché percepire una finalità senza scopo vuol dire percepi­
re che una cosa ha un senso, una intelligibilità, senza sapere pre­
cisamente a quale idea essa risponda. Il senso, la :finalità è per­
cepita attraverso il sentimento dell'armonia fra le nostre facoltà.
Di qui il sentimento di pienezza, di agio (Behaglichkeit) che caratte­
rizza l'apprensione del bello: poiché tutte le nostre facoltà entrano
in gioco.
Poiché la bellezza è il modo in cui è sentita dall'uomo la fina­
lità del reale, si capisce che per Kant abbia molta importanza la
bellezza della natura: il cielo stellato gli rivelava l'intelligibi­
lità del reale non meno della legge morale. Minor sensibilità, forse,
sebbene egli parli anche di questa, ha Kant per la bellezza artistica.
Nell'estetica del Settecento si parlava molto, oltre che del bel­
lo, anche del sublime; già Kant aveva associato i due concetti nelle
Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, e ne riparla
nella Critica del Giudizio. Sublime è « ciò che è assolutamente gran­
de», ossia« ciò che è grande al di là di ogni comparazione» (G.S ..
V, p. 248; Critica del Giudizio, p. 91 ). Assolutamente grande è ciò
rispetto al quale ogni altra cosa è piccola, e tale può essere solo
l'infinito; ora l'infinito non può essere oggetto di conoscenza, per­
ché non può esser dato nell'esperienza: è in certo modo presentito
dal Giudizio di fronte a certi spettacoli naturali che superano ogni
potere della nostra immaginazione (alte montagne, l'Oceano in tem­
pesta) perché proiettiamo su di essi quella grandezza assoluta che è
propria solo del soprasensibile, e che è in noi in quanto persone
morali, appartenenti al mondo intelligibile.

26. Il Giudizio teleologico

Kant è sempre stato persuaso della finalità della natura, anche


se nella Critica della ragion pura ha negato la possibilità di dimo­
strarla scientificamente. E nella Critica del Giudizio resta fedele
a questa negazione: non accetta infatti il « realismo della finalità »
(G.S., V, pp. 394-95; Critica del Giudizio, pp. 256-57), ma afferma
684 FILOSOFIA MODERNA

che la finalità è un princ1p10 regolativo. « È molto diverso dire:


la produzione delle cose naturali, o anche di tutta la natura, è pos­
sibile soltanto in virtù di una causa che si determini ad agire
intenzionalmente, e dire: per la particolare struttura della mia
facoltà conoscitiva io non posso giudicare della possibilità di quel­
le cose e della loro produzione se non pensando ad una causa che agi­
sce intenzionalmente [ ... ]. Nel primo caso voglio affermare qual­
cosa dell'oggetto, e sono tenuto a dimostrare la realtà oggettiva del
concetto che ho assunto; nel secondo caso la ragione determina solo
l'uso delle mie facoltà conoscitive [ ... ]. Perciò il primo principio
è una tesi oggettiva per il Giudizio determinante, il secondo è una
tesi soggettiva per il Giudizio riflettente ... » (G.S., V, pp. 397-98;
Critica del Giudizio, p. 260).
Ora Kant accetta il secondo principio. Osserva poi che non
sarebbe affatto impossibile che un'attività noumenica finalistica si
manifestasse nel mondo fenomenico attraverso leggi meccaniche;
in altre parole: che una Intelligenza creatrice si servisse di leggi mec­
caniche per realizzare il suo ordine, come già aveva osservato nella
Storia naturale universale del 1755.
Cosl il postulato della Critica della ragion pratica per risolvere
l'antinomia del sommo bene, il postulato cioè che a fondamento
della natura stia quella stessa ragione che è a fondamento della
legge morale, è non già dimostrato, ma in qualche modo presen­
tito attraverso l'intuizione della bellezza e l'osservazione dell'ordi­
ne della natura. L'intelligenza umana che foggia la natura con le
sue leggi, senza però esaurire tutti i particolari, sarebbe un rifles­
so della intelligenza che ha creato la natura.
CAPITOLO VENTUNESIMO

DA KANT A FICHTE
[ ANGELO PuPI]

I nomi di Kant e di Fichte designano abitualmente gli estremi


del « decennio » 1785-1794 della storia della filosofia in Germa­
nia: dalla Fondazione della metafisica dei costumi alla Fondazione
della Dottrina della scienza. Sulla base di una tipizzazione disin­
volta la discussione sulla « cosa in sé » porterebbe a prospettare

* Ci limitiamo a parziali accenni di alcune prospettive sul periodo in esame, che


-0ra tentano un'interpretazione complessiva, ora da temi singoli aprono sguardi pene•
tranti nell'insieme.
STXUDLIN C. F., Geschichte und Geist des Skepticismus vori:.uglich in Rucksicht auf
Mora! und Religion, Lipsia, 1794; EBERSTEIN W. L. G. v., Versuch einer Geschichte
der Logik und Metaphysik bey den Deutschen von Leibnitz bis auf gegenwiirtige Zeit,
Halle, 1799; HAYM R., Die romantiscbe Schule, Berlino, 1870 (1961), traduz. ital. a
cura di E. Pocar, Napoli, 1965; l!AYM R., Herder nach seinem Leben und seinem Werken,
Berlino, 1877-85, rist. Berlino, 1945; 0.ssIRER E., Das Erkenntnissproblem in der Philoso­
phie und Wissenschaft der neueren Zeit, voi. III, Berlino, 1920, traduz. ital. a cura di
E. Arnaud col titolo: Storia della filosofia moderna, Torino, 1955; VoRLANDER K., Kant,
Schiller, Goethe, Lipsia, II ed. 1922; KRONER R., Von Kant bis Hegel, Tiibingen, 1921-
1924; DILTHEY W., Das Leben Schleiermachers, Berlino e Lipsia, 1922; UNGER R.,
Hamann und die Aufkliirung, Jena, 1911, II ed. 1925 (1963); LEON X., Fichte et son
temps, Parigi, 1922-1927; l!ARTMANN N., Die Philosophie des deutschen Idealismus,
Berlino, 1923-1929, (Il ed. 1960); KoRFF H. A., Geist de, Goethezeit, Lipsia, 1923-
1940; ERDMANN J. E., Versuch einer Wissenschaftlichen Darstellung der Geschichte
der neuern Philosophie, ed. a cura di H. Glockner, Die Entwicklung der deutschen
Spekulation seit Kant, voi. 1 della III sezione, Stuttgart, 1931; BINSWAGER P., W. V.
Humboldt, Lipsia 1937; LERoux R., Guillaume de Humboldt. La formation de sa
pensée ;usqu' en 1794, Parigi, 1932; NADLER J., J. G. Hamann, Der Zeuge des Corpus
Mysticum, Salisburgo, 1949; AccOLTI G1L VITALE N., La giovinezza di Hamann, Va­
rese, 1956; F. BLANKE, K. GRUNDER, L. SOIREINER, Die Hamann-Forschung, Giitersloh,
1956; VERRA V., Dopo Kant. Il criticismo nell'età preromantica, Torino, 1957; VERRA V.,
F. H. Jacobi. Dall'illuminismo all'idealismo, Torino, 1963; VERRA V., Mito, rivelazione
e filosofia in J. G. H. Herder e nel suo tempo, Milano, 1966; A. PuPI, La formazione della
filosofia di K. L. Reinhold, Milano, 1966.
686 FILOSOFIA MODERNA

un « passaggio » dal riconoscimento che « non c'è cosa che si pos­


sa pensare assolutamente buona al di fuori della buona volontà »
alla proclamazione superba secondo cui l'Io puro contrappone in
se stesso originariamente un non-io parziale ad un io-parziale, dal­
la reminescenza dell'annunzio di una pace in terra agli uomini di
buona volontà a completamento della gloria di Dio in cui culmina il
creato all'autoglorificazione umana. La cifra simbolica e parados­
sale suona sgradita all'orecchio che cerca le linee di un ordinato
sviluppo programmatico: ma non a caso nella crescente lontanan­
za del tempo la coscienza storica fissò proprio in quella sigla gli
anni in cui la rivoluzione di Francia aveva segnato il trionfo del­
l'età moderna.
Neì 1785 il mondo fìlosofìco di Germania cominciò a presen­
tire il senso dell'oscura ricerca nelle profondità dello spirito di
cui Kant aveva espresso i primi risultati nel linguaggio tecnico
e frammentario della Critica della ragione pura. Ma in quell'anno
l'attenzione del pubblico dotto si concentrò piuttosto su un episo­
dio che a livello più popolare e melodrammatico imponeva un pub­
blico esame di coscienza ai maestri e ai primi attori della cultura
del momento: lo Spinozastreit.

l. La crisi della Aufkliirung

Attorno al '50 Cristiano Wolff aveva aperto al mondo moder­


no le. porte dell'Università tedesca ed una· Weltweisheit, forte dei
trionfi della nuova scienza della natura e sollecita del benessere
terreno dell'uomo, aveva sostituito nell'orda studiorum la sapien­
za teologica espressa. nel dotto latino degli aristotelici. Qualche
anno più tardi Federico II aveva fatto di Sans-Souci il s,alotto deI­
l'ésprit voltairiano e deil'Akademie der Wissenschaften di Berli­
no il centro di irradiazione di una cultura mondana destinata a
sostenere uno Stato nuovo potente e tecnicamente· strutturato sul
piano amministrativo.
Moses Mendelssohn e il Nicolai, sospinti dallo spirito irre­
quieto di Lessing, avevano svegliato la letteratura tedesca da una
quiete provinciale con i Briefe die neueste Literatur betreffend
(1759). Il « Merkur » del Wieland da Weimar, il Biester da
Berlino portarono innanzi poi per decenni la causa del mondo
DA KANT A FICHTE 687

nuovo con le armi della facezia, dell'allegoria e della divulgazio­


ne scientifica pour les dames.
Il probo Mendelssohn era stato la vivente testimonianza di
uno spirito cosmopolitico che, pur insofferente di tradizioni reli.
giose annose, si confortava di saldi principii morali a sostegno
di una vita umanamente autosufficiente nel rispetto naturale dei
valori teologici. Una sobria metafisica razionalistica affiancava il
buon senso dei « galantuomini » nel garantire una religione natu­
rale, di cui la tradizione cristiana pareva essere stata uno dei molti
adombramenti storici a fianco di altre correnti religiose che il ri­
tuale massonico unificava in una moderna gnosi.
L'Aufklarung conquistava di anno in anno,le coscienze allon­
tanando senza scosse la tradizione luterana e preparando il ter­
reno ad una nuova strutturazione politica conforme agli intenti del
dispotismo illuminato.
Attorno al '75 però lo spirito folletto di LESSING aveva ri­
schiato di compromettere quella paziente avanzata pubblicando
frammenti di un inedito saggio di critica biblica del defunto Rei­
marus, che crudamente aggrediva i dogmi fondamentali della cri­
stologia. Lessing, suscitata la pericolosa polemica, si ritrasse am­
bigu o e l'opinione pubblica fu unanime nella volontà di scordare
l'increscioso e imbarazzante episodio.
Morto Lessing (nel 1781) molti si fecero innanzi a rivendicar­
ne l'eredità spirituale, tra essi F. H. Jacobi, che fece circolare il
resoconto di un colloquio avuto con Lessing, che alla soglia della
eternità gli avrebbe confidato la sua fede nel €v xocl. 1t&v spinoziano.
Il risorgere dell'ombra di colui che un secolo innanzi aveva
demolito ogni fede positiva e tradizione religiosa per svelare l'im­
magine di un mondo di cartesiana perfezione che pareva pren­
dere il posto del Dio biblico e cristiano, dell'ateo, il cui nome
fu taciuto e l'opera pubblicamente ignorata, scosse le coscienze.
L'ateismo si celava dunque dietro lo !etrano comportamento di
Lessing e l'ombra di esso si allungava sugli amici novatori di
Berlino e su Mendelssohn principalmente che di Lessing figu­
rava quasi figlio spirituale. L'opèra degli Aufklarer, portata in­
nanzi con tanta pazienza in sordina, veniva smascherata come
un attacco ai principii della religione stessa e perfino della mo­
rale, giacché Jacobi aveva molto sottolineato la radice fatalistica
dello spinozismo.
688 FILOSOFIA MODERNA

Tanto più sgradita risultò ai Berlinesi l'accusa di Jacobi, in


quanto da qualche anno andava conquistando sempre più la sce­
na di Germania il movimento illuminista che veniva dalla Vien­
na di Giuseppe II, che destava generale stupore con una serie
di riforme, che facevano temere addirittura che la cattolica Au­
stria divenisse il centro spirituale del mondo germanico ( e qual­
cuno giungeva a prospettare il pericolo di azioni politiche ai dan­
ni della libertà luterana ordite dietro il manto di riforme illumi­
nate).
]ACOBI e MENDELSSOHN furono i protagonisti della discussio­
ne: lo scontro centrale si ebbe su due obiettivi apparentemente di­
versi, che con la loro diversità testimoniano appunto quale fosse iJ
vero centro focale della contesa, che si preferl lasciare velato: la
sostanza della Aufklarung berlinese.
Due scritti apparvero a breve distanza di tempo nell' '85: i
Briefe iiber die Lehre des Spinoza in cui Jacobi insistendo sullo spi­
nozismo di Lessing mirava a svelare il carattere ateo e fatalistico di
questa filosofia e le Morgenstunden con cui il Mendelssohn cercava
di rassicurare il pubblico del carattere teistico e morale della pro­
pria filosofia in una serie di dissertazioni metafisiche attorno ai pro­
blemi fondamentali. Seguirono una replica del Mendelssohn ed una
duplica di Jacobi.
Nell'86 Mendelssohn moriva ed i Berlinesi trascinarono la po­
lemica ad un livello personale, contrattaccando nel contempo con
una serie di accuse secondo le quali Jacobi avrebbe preparato il ter­
reno ad una offensiva della superstizione cattolica, che dietro men­
tite spoglie sarebbe venuta da Vienna. Questo strascico sul terreno
dello scandalo politico colpl soprattutto J. K. Lavater, candido pre­
dicatore di una vaga fraternità cristiana: è noto con il nome di Ka­
tholizismusstreit e si addensò attorno all'88.
Nella discussione spinoziana dell' '85-86 furono coinvolti altri
nomi illustri a cominciare dallo Herder, che tentò una conciliazione·
tra spinozismo e cristianesimo nel nome di un religioso senso pa­
nico, consegnando la sua tesi ad un dialogo Gott apparso nell' '87.
Goethe, tirato in campo da Jacobi, sfuggl alla mischia, pur professan­
do la sua simpatia per uno spinozismo che mettesse in primo piano­
l'infinito potere generativo della natura e si astenesse da ogni ag­
gancio a tematiche religiose.
Consigliere solerte di Jacobi fu Hamann, che per tutta la vita
DA KANT A FICHTE 689

aveva condotto una sottile lotta contro l'illuminismo, ma a cui la


morte ( 1788) non consenti un intervento diretto nella battaglia a
lungo vagheggiato e differito.
A dirimere la contesa i Berlinesi invocarono l'intervento di Kant >
che con sobrietà indicò in Was heisst sich im Denken orientieren
( 1786) una via d'uscita sul piano critico.
Lo Spinozastreit svelò un complesso campo di tensioni dentro
e attorno alla Aufkliirung che d'altro canto dava segni di stanchezza
avviata ormai all'esaurimento che non le permise di superare la
prova dei fatti nella crisi francese dell' '89.
J. E. ERDMANN raccolse sotto il nome generico di Filosofia della
fede l'ala che in opposizione all'Illuminismo rifiutò di ridurre la vi­
ta spirituale all'opera di un sapere di impronta dimostrativa:
Hamann, Jacobi, Herder sono le figure di maggiore rilievo.
JoHANN GEORG HAMANN 1 non fu :filosofo: la sua radice è la fe­
de cristiana depositata nella Bibbia e nella tradizione animata dal
Dio vivente. « Dio fa lo scrittore!. .. Ciò che ispira questo libro è un
abbassarsi ed una misericordia di Dio grande quanto la creazione
operata dal Padre e il farsi uomo del Figlio. L'umiltà del cuore è per-

1 JoHANN GEORG HAMANN (1730-1788) nella nativa Konigsberg godette di una


buona formazione umanistica, ma mosso soprattutto da una esagerata avidità di let­
ture non portò a termine nessun curriculum accademico. Dopo un paio di tentativi in
qualità di pedagogo privato in Livonia, pieno di interessi per la nascente scienza delle
finanze parti per Londra in qualità di inviato commerciale della ditta Berens di Riga.
Giunto a Londra nell'aprile del '57 dopo un peregrinare di mesi attraverso Danzica,
Berlino, Amburgo ed Amsterdam sospinto da varie curiosità culturali, incapace di con­
durre a termine la missione affidatagli si smarrl ir, perditempi. Nello sconclusionato pe­
riodo londinese fu segnato però il suo destino: una appassionata meditazione della
Bibbia lo radicò definitivamente nella fede cristiana e gli fece apparire vano gioco il
sogno illuministico. Tornato a Konigsberg visse in solitudine approfondendo il pensiero
cristiano e classico. Un impiego di traduttore presso il tribunale e in seguito una ca­
rica presso l'amministrazione doganale gli assicurarono una vita modesta apparente­
mente circoscritta in piccolo mondo. Di fatto egli - sempre lettore insaziabile ed osser­
vatore attento - spaziò sull'intera vita culturale tedesca ed europea, seguendo con
acribia ogni episodio e badando ad ogni voce, confortato da un carteggio che si ampliò
e gli procurò amicizie, notizie, scambio di idee. Familiare di Kant, di Hippel, coltivò
una conversazione di anni con Herder e poi con Jacobi. La sua produzione letteraria
è fatta di scritti di occasione, brevi, redatti in uno stile denso allusivo simbolico alla
maniera degli scritti profetici, sl che bene gli si attagliò il titolo di Mago del Nord
assegnatogli dal Moser. Impegnatosi nella discussione spinoziana suscitata da Jacobi in
cui vedeva confluire la campagna condotta da lui per decenni contro l'illuminismo ber­
linese, progettò un viaggio che lo portasse a conoscere di persona Jacobi e gli amici
del fronte anti-illuminista. Dimesso invece improvvisamente dall'impiego presso l'am­
ministrazione prussiana, grazie alla beneficenza del Bucholz e all'assistenza degli amici
migrò a Miinster, dove la casa ospitale della principessa von Gallitzin invano gli si
aprlva perché là giunto moriva il 21 giugno 1788.
690 FILOSOFIA MODERNA

tanto l'unico atteggiamento spirituale adatto alla lettura della Bib­


bia e l'indispensabile preparazione alla medesima.. Il Creatore è sta­
to negato, il Redentore crocifisso e lo Spirito della sapienza bestem­
miato. La parola di questo Spirito è un'opera grande non meno che
la creazione, un mistero altrettanto grande che la redenzione degli
uomini, anzi la parola è la chiave alle opere dell'una e ai misteri del­
l'altra. Il culmine dell'ateismo e il massimo incantesimo dell'in­
credulità è la cecità del non riconoscere Iddio nella Rivelazione e
l'empietà dello sdegnare questo mezzo di grazia. Un animale non è
in grado di leggere le favole di un Esopo, di un Fedro, di un La
Fontaine, ma se fosse capace di leggerle non sarebbe tuttavia in
grado di tracciare giudizi sul signifìcato delle narrazioni e sulla lo­
ro validità bestiali quanto ciò che l'uomo ha detto del libro di Dio
criticando e :6.losofeggiando » 2•
Hamann sdegnò il concetto astratto: la realtà è esperienza e
storia. « Sensi e passioni non parlano ed intendono che immagini.
Di immagini è fatto l'intero tesoro dell'umana conoscenza e feli­
cità. Il primo erompere della Creazione e la prima impressione del
suo Cronista! ... la prima manifestazione e il primo godimento del­
la natura si riuniscono nella parola: la luce fu! da qui ha inizio il
senso della presenza delle cose. Infine Iddio coronò la rivelazione
sensibile della sua gloria con il capolavoro dell'uomo. Creò l'uomo
in forma divina... a immagine di Dio lo creò. Questo decreto del
Creatore scioglie gli intricati nodi della natura umana e della sua
destinazione. Ciechi pagani hanno riconosciuto l'invisibilità; che
l'uomo ha in comune con Dio. La velata figura del corpo, il volto
del capo e l'estremità delle braccia sono lo schema visibile in cui
noi rientriamo: eppure non è propriamente che un accenno del­
l'uomo nascosto in noi: Exemplum Dei quisquis est in imagine
parva » 3•
Più innanzi ancora, nell'Aesthetica in nuce, il tema della parola si
impone: « Le opinioni dei :filosofi sono modi di leggere la Natura e
i precetti dei teologi modi di leggere la Scrittura. L'Autore è il
migliore interprete delle sue parole: Egli può parlare per mezzo di
creature, di avvenimenti o per mezzo di sangue e fuoco e vapore di

2
JoHANN GEORG HAMANN, Siimtliche Werke (historisch-kritische Ausgabe von
J. Nadler, Wien, 1949-57) voi. I, p. 5.
1
J. G. HAMANN, ed. cit., voi. II, pp. 197-198.
DA KANT A FICHTE 691

fumo, nel che consiste il linguaggio del Santuario. Il libro della


Creazione contiene esempi di concetti universali che Iddio ha vo­
luto rivelare alla creatura attraverso la creatura; i libri dell'Allean­
za contengono esempi di articoli segreti che Iddio ha voluto rivela­
re all'uomo attraverso gli uomini. L'unità del Creatore si rispec­
chia nel dialetto delle sue opere in tutto un tono di incommensura­
bile altezza e profondità! Una prova della maestà più gloriosa e
della donazione più esaustiva! Un miracolo di tale infinito silenzio,
che rende Iddio simile al nulla, al punto che si è costretti o a ne­
garne in coscienza l'esistenza o ad essere un animale; nello stesso
tempo però di una tale infinita forza che tutto ricolma in tutti al
punto che non ci si sa salvare dalla sua più intima insistenza! » 4•
Alla speculazione astratta contrapponeva l'esperienza storica
concreta alla luce della fede; lo spirito gli si rivelava più parola e vi­
ta che sistema. Non si ritrasse nel silenzio contemplativo, ma si im­
merse attraverso una lettura avventurosa nelle vicende del mondo,
cercando gli uomini e spregiando le teorie fino alla ricerca del pette­
golezzo. La via per comprenderlo è la paziente lettura del ricco epi­
stolario che accompagna la sua vita, lungo i mille sentieri della cro­
naca di conversazioni e di letture. I suoi scritti non sono separabili
dall'occasione che li ha stimolati e per allusioni addensano fatti su
fatti fino all'incomprensibilità di quello « stile a salsiccia » che lo
seduceva e scoraggiava ad un tempo. Rimase un libro chiuso anche
ai contemporanei, che tuttavia indovinavano in quei geroglifici una
verità potente e pregnante. Il Nadler portò a compimento un'edizio­
ne critica completa ed ordinata dei suoi <;critti fornendo una prima
indispensabile chiave di lettura; l'epistolario è ora disponibile al
completo, nell'edizione curata da W. Ziesemer e A. Henkel; tutta­
via solo un apparato estremamente minuzioso quale quello del com­
mento progettato dall'edizione hamanniana iniziata nel 1956 a
Giitersloh da F. Blanke e L. Schreiner potrà aprire una via nella
densa selva.
Tra gli scritti puhblkati dall'autore incontrarono una certa riso­
nanza le Sokrtitische Denkwurdigkeiten fur die tange Weile des
Publicums del 1759, e Golgotha und Scheblimini del 1784 in po­
lemica con il Mendelssohn. Acutamente giudicò la teoria herderia-

' Ib., p. 204.


692 FILOSOFIA MODERNA

na del linguaggio e il tentativo criticista di Kant. Il Fliegender Brief,


testamento spirituale del suo anti-illuminismo, rimase incompiuto.
Mentre sottolineiamo la centralità del momento religioso cristia­
no nell'orientamento del nostro, ci pare bella l'impressione, pure
esteriore, che dell'opera hamanniana ci lasciò G. Goethe nell'XI
libro della terza parte di Dichtung und Wahrheit, che riportiamo.
« Il principio a cui sono riconducibili tutte le espressioni di
Hamann - scriveva Goethe nel 1812-13 - è questo: "Tutto ciò
che l'uomo si propone di attuare vuoi con l'azione vuoi con la paro­
la vuoi in altro modo, deve scaturire dalla sintesi di tutte le sue
forze ad un tempo, l'elemento staccato è da ripudiare ". Una bella
massima, difficile tuttavia da seguire! Può valere per la vita e l'ar­
te, in ogni comunicazione per via di parola che non sia senz'altro
poetica, però incontra una difficoltà grande, perché la parola deve
necessariamente disciogliersi, singolarizzarsi per dire e significare
qualcosa. Quando parla, l'uomo deve momentaneamente parzializ­
zarsi in un punto di vista, senza divisione non si dà comunicazione o
dottrina. Hamann però, poiché si rifiutò una volta per tutte a questa
divisione e volle parlare in quell'unità indivisa in cui sentiva, imma­
ginava, pensava e pretese la stessa cosa dagli altri, si mise in con­
trasto con il suo proprio stile e con tutto ciò che gli altri potevano
esprimere. Per realizzare l'impossibile egli dà mano a tutti gli
elementi: alle intuizioni più profonde e segrete in cui natura
e spirito si incontrano, agli illuminanti lampi d'intellezione che
guizzano da tali incontri, alle immagini gravide di significato che
aleggiano in quelle regioni, a pressanti sentenze di scrittori sa­
cri e profani e ciò ancora che umoristicamente si può dire di più:
tutto ciò costituisce la mirabile interezza del suo stile, delle sue
comunicazioni. Se non si è in grado di accompagnarsi a lui nel pro­
fondo, di migrare con lui nell'eccelso, di afferrare le forme che gli
aleggiano innanzi, di cogliere il senso preciso di un passo appena
accennato traendolo fuori da una letteratura infinitamente vasta,
tutto ci si fa torbido ed oscuro quanto più lo studiamo e questa
tenebra crescerà con gli anni, giacché le sue allusioni erano preva­
lentemente rivolte a determinati fatti singoli che nella vita e nella
letteratura hanno avuto la fortuna di un istante ».
Preponderante nei testi hamanniani è la citazione del testo bi­
blico, che contrappunta con il richiamo all'immutabile presenza di­
vina l'effimero frammentarsi della vicenda di cronaca.
DA KANT A FICHTE 693

5
JoHANN GoTTFRIED l-IERDER si caratterizza prevalentemente
come filosofo della storia ed è ricordato per il suo contributo alla
questione circa la natura e l'origine del linguaggio. La sua maniera
di esporre è vivace, sovrabbondante: pullula di intuizioni e di
immagini, la materia storiografica è disposta su impianti di dimen­
sioni grandiose. Difetta spesso il senso critico, la dimostrazio­
ne è approssimativa: è più una partecipazione del sentire che
una dottrina costruita con sicurezza metodica. Occorre quindi
fruire dei suggerimenti e degli spunti che largamente dispensa,
piuttosto che cercare le giustificazioni e gli sviluppi rigorosi. Pro­
babilmente si diluirono in lui fermentando in grande copia di
materiale sfogante in molta eloquenza alcuni pregnanti temi haman­
niani. Hamann non approvò tuttavia la sua teoria del linguaggio e
Kant redargul il metodo delle Ideen. Non condivise i programmi po­
litici dell'Illuminismo e rifuggì dalla ragione sistematica astrat­
ta, portò tuttavia con sé un vago deismo colorato di toni panteisti­
cheggianti particolarmente sensibile nel Gott. Il culto delle ori­
gini dell'umanità sapienti ed ingenue fa pensare a Rousseau: tutto
viene ammantato da un conclamato culto della Bibbia, documento
per eccellenza della nascita dell'umano.
La storia dell'uomo è prospettata nelle Ideen nella cornice subli­
me della genesi del mondo terrestre nel cosmo e dell'evolversi della
vita: culture e civiltà si susseguono nel grande teatro della storia
presieduto da una provvidenza teologica. Herder è affascinato dalle

5 JoHANN GoTTFRIED HERDER (1744-1803): dalla natia Mohrungen trasferitosi a


Konigsberg godette dell'insegnamento di Kant e dell'amicizia di Hamann nella cui cer­
chia rimase durante il soggiorno a Riga dal '64 al '69 e con cui intrattenne un car­
teggio continuo nel decennio '65-'75. I Kritische Wiilder del '69 testimoniano un in­
treccio di interessi letterari, storici ed estetici. Un biennio di viaggi segul il soggiorno
di Riga: a Parigi conobbe Diderot e D'Alembert, a Amburgo Lessing e Claudius, .1
Strasburgo ebbe luogo il decisivo incontro con Goethe all'insegna della poesia popo­
lare, mentre una trattazione sull'origine del linguaggio veniva coronata dal premio del­
l'Accademia berlinese. Dal '71 al '76 si estende il soggiorno a Bi.ickeburg dove le
cure pastorali non ostacolarono una ricca attività di studio testimoniata da significa­
tive pubblicazioni, tra le quali Auch eine Philosophie der Geschichte (1774) e la
Aelteste Urkunde des Menschengeschlechts (1774-76) in cui si impone la temati­
ca herderiana centrale: tradizione religiosa, poesia, linguaggio, storia, cultura. Nel '76
si trasfed definitivamente a Weimar ricoprendo un'alta carica ecclesiastica: alterno e
profondo visse il dialogo con Goethe. Della generosa produzione letteraria del periodo
weimarano si impongono oltre alle raccolte di Volkslieder (1778 e '79), i Briefe das
Studium der Theologie betre/Jend (1780-81), le Ideen zur Philosophie der Geschichte
(1784-91), Gott (1787), i Briefe zur Beforderung der Humanitiit (1793-97), le Christliche
Schri/ten (1794-98). Con la Metakritik (1799) � Kalligone (1800) tentò di arginare i1
dilagante kantismo. Adrastea (1801-3) segna il tramonto dell'opera herderiana.
694 FILOSOFIA MODERNA

manifestazioni della vita nella sua inesausta morfologia e storia di


specie e di epoche: egli tenta di afferrarla nel suo insieme attraverso
un inquadramento di periodizzazione ed aspira a spingere lo sguardo
nelle scaturigini profonde cosmiche e umane.
Il linguaggio e la poesia sono i dati in cui la vita aprentesi ai
livelli superiori dello spirito si dona in operante spontaneità. « Sol­
tanto il linguaggio ha reso umano l'uomo, racchiudendo con una
diga il flutto smisurato dei suoi affetti e dandogli con le parole
un segno razionale per ricordarlo. Non è stata la lira di Anfìone
a costruire le città, né una bacchetta magica ha trasformato i de­
serti in giardini, ma l'ha fatto il linguaggio, il grande principio
associativo degli uomini. Attraverso il linguaggio gli uomini si
sono uniti gioiosamente e hanno stretto il vincolo dell'amore.
Il linguaggio ha fondato le leggi e ha legato le stirpi: soltanto at­
traverso il linguaggio è divenuta possibile una storia dell'umani­
tà in forme ereditarie del cuore e dell'anima. Ancora adesso vedo
gli eroi di Omero e sento i lamenti di Ossian, anche se le ombre
dei vati e dei loro eroi da lungo tempo sono scomparse dalla terra.
Un soffio della bocca li ha resi immortali e riporta davanti a me le
loro figure; la voce degli scomparsi risuona nelle mie orecchie:
io ascolto i loro pensieri da tanto tempo ammutoliti. Tutto quello
che lo spirito dell'uomo ha mai inventato, tutto quello che hanno
pensato i saggi della remota antichità arriva a me soltanto attra­
verso il linguaggio, se la Provvidenza me lo ha consentito. Attra­
verso il linguaggio la mia anima e il mio pensiero sono collegati al­
l'anima e al pensiero del primo e forse anche dell'ultimo uomo
pensante: in breve il linguaggio è il carattere distintivo della no­
stra ragione, mediante il quale soltanto essa assume figura e si
propaga » 6• .
Il migrare dell'umanità nello spazio e nel tempo nel corso del
suo misterioso sviluppo storico, l'immenso cosmo in cui « stella tra
le stelle » si perde la terra, il balenare dell'eternità nella perfezio­
ne a cui tende la vita e la parola danno a Herder un presentimen­
to sensibile della totalità.
Eloquente è il finale di Auch eine Philosophie der Geschichte

• Ck J. G. HERDER, Idee per la filosofiu della Storia dell'Umanità, a cura di


V. Verra, Bologna, 1971, pp. 221-222. (11 passo riportato nella traduzione italiana di
V. Verra appartiene al cap. II del libro IX delb seconda parte delle Ideen del 1785).
lJA KANT A FICHTE 695

( 177 4 ). « Ben grande deve essere quella totalità dove già in ogni
singolo elemento ritroviamo la totalità stessa; e dove, in ogni
dettaglio, si vede sempre una tale unità indeterminata, pregna di
totalità! Dove i più piccoli legami hanno già, di per se stessi, w1
grandissimo significato; eppure i secoli non vi rappresentano che
sillabe, le nazioni soltanto lettere o forse interpunzioni che nul­
la di per sé significano, ma moltissimo per un più facile intendi­
mento del tutto. Che sei tu mai, uomo singolo, con le tue pas­
sioni, capacità e contributi? E vorresti forse che la totalità della
perfezione si esaurisse in te? Il breve tratto di terra in cui mi
trovo, i miei occhi abbacinati, gli insuccessi da me provati nel
giungere al fine mio, l'enimma delle mie inclinazioni e passioni,
la sconfitta delle mie forze che son fatte per quella totalità che è
un giorno, un anno, una nazione, un secolo, tutto questo attesta
che nulla son io, che tutto è la totalità... Miseramente piccola do­
vrebbe essere la totalità delle cose perché io, piccolo moscerino,
potessi arrivare ad abbracciarla con lo sguardo. E quanto sarebbe
scarsa la sua saggezza e molteplicità, se un essere che va girova­
gando qua e là per la terra e che pure trova tanta difficoltà a te­
ner saldo in mente un sol pensiero, non vi trovasse mai tanta com­
plessità! In una spanna che è nulla, ma dove vivono pure mille pen­
sieri e germi, anche in due sole battute musicali, nelle quali il suono
più acuto si risolve nel più dolce... che son io mai che giudico, men­
tre non ho fatto se non attraversare la grande sala e guardare un
istante un angolo della gran pittura nascosta? Quel che Socrate disse
degli scritti d'un uomo che come lui limitato, scriveva con una for­
za simile alla sua: che dovrei dire io allora del gran libro di Dio
che comprende mondi ed età, del quale io non sono che una lettera,
e ne scorgo appena tre lettere intorno a me ... Infinitamente piccolo
per l'orgoglio che tutto vuole essere, sapere, operare, creare, infi­
nitamente grande per la pusillanimità che crede di non essere pro­
prio nulla: e ambedue non sono che strumenti nei disegni di un'in­
commensurabile Provvidenza » 7•
Complessivamente l'opera di Herder è un grande abbozzo che
arricchisce la fantasia e può stimolare la ricerca dell'intelletto.

7
J. G. HERDER, Ancora una filosofia della storia per l'educa1.ione dellVmanità.
Jntroduzione e traduzione di Franco Venturi, Torino, 1971, p. 123-125.
696 FILOSOFIA MODERNA

FRIEDRICH HEINRICH JACOBI 8 riunì con la conversazione ora­


le e scritta in un tessuto diversi importanti fili della cultura tedesca
dell'ultimo ventennio del suo secolo, svelò la presenza di punti no­
dali del pensiero contemporaneo ed operò con passione alla purifi­
cazione dell'animus filosofico al cospetto dei misteri della vita;
una rara signorilità lo guidò nel generoso rapporto con gli amici.
Pur rifuggendo dalla forma sistematica ed essendo l'esposizione le­
gata all'occasione, il pensiero di Jacobi mantenne unità e coerenza
nel suo orientamento di principio tanto che nella prefazione al se­
condo volume delle sue Sammtliche Schriften egli poté scrivere nel
1815: « Finisco dove comincio ».
Jacobi diffida della speculazione astratta e preferisce poggiare
sull'evidenza dell'immediatezza, che designa con il nome di fede
(Glauben) o di Offenbarung, senza che questi termini abbiano
primariamente il significato religioso-cristiano che gli avversari
vollero attribuire loro. In questo fondarsi sulla certezza immediata
si comprende il richiamo a Hume e l'anteposizione dell'immedia­
tezza delle esigenze della vita personale (cuore) ai risultati di dub­
bie serie apodittiche, che lo indusse a dichiarare la sua scelta per un
« salto mortale » al di fuori della logica raziocinante, quando que-

' FRIEDRICH IIEINRICH }ACOBI ( 1743-1819) avviato al commercio, si famigliarizzò


con il mondo letterario francese nel corso di un soggiorno a Ginevra dove era pre­
sente l'influsso di Rousseau e di Voltaire e dove studiò con cura gli scritti del Bonnet.
Dal 1764 fece della villa di Pempelfort (presso Diisseldorf) la sede di una vivace con­
versazione culturale con le personalità del mondo filosofico tedesco. Lesse Kant e Spi­
noza attorno al problema teologico: i suoi primi prodotti letterari ebbero tuttavia fa
forma e l'andamento del romanzo filosofico mosso più dal cuore che dal raziocinio:
Allwill's Briefsammlung (1775-6) e Woldemar (1777). Nel 1780, in occasione di un
viaggio a Amburgo che lo mise in contatto con personaggi del momento, ebbe il col­
loquio con Lessing, dalla cui pubblicazione postuma derivò lo scontro con Mendelssohn
e gli Illuministi del circolo di Berlino. I Briefe ueber die Lehre des Spinoza (1785) ci
raccontano la serie degli scambi relativi. La polemica spinoziana intensificò i rapporti
con Weimar (Goethe e Herder), inaugurò l'amicizia con Hamann, occasionò un rap­
porto con Kant. Mentre tra l' '86 e l' '88 la polemica con i Berlinesi assumeva addi­
rittura timbri personali, Jacobi sostenne la sua diffidenza verso la ragione speculativa,
incapace di soddisfare le richieste della vita personale e gravitante verso prospettive
deterministiche, in un impegnato dialogo David Hume, uber den Glauben oder Idea­
lismus und Realismus (1787), mentre nel 1789 una seconda edizione dei Briefe spinoziani si
allargava in molte aggiunte fino ad evocare il panteismo bruniano. L'invasione napoleonica
lo indusse a ritirarsi nel 1794 nello Holstein dove &oggiomò un decennio stabilendo nuovi
contatti culturali e coltivando amicizie ricche di contenuto di pensiero. Nel 1799 con
una lettera aperta a Fichte prese posizione nell'Atheismusstreit e nel 1801 mosse con­
tro Kant Ueber das Unternehmen des Kriticismus die Vernunft 1.u Verstand zu bringen.
Nel 1804 fu chiamato a Monaco dove divenne presidente della locale Accademia. Un
saggio del 1811 che toccava il tema dell'idealismo e dello spinozismo: Von den got­
tlichen Dingen und ihrer Offenbarung, fu energicamente controbattuto da Schelling.
DA KANT A FICHTE 697

sta, come nel caso dello Spinoza, tenti di negare un dato immediato
della vita umana come la libertà personale e un senso ultimo del­
l'umano agire compatibile con i genuini impulsi che lo generano.
L'esistenza di Dio, della libertà, dell'in sé delle cose, dei nessi cau­
sali è garantita immediatamente da una spontanea universale cer­
tezza che è indicata humeanamente con il nome di credenza.
Il principio di identità esprimentesi anche nella figura del
principio di contraddizione o di ragione sufficiente presuppone in­
trinsecamente una necessità che deve garantire il nesso delle par­
ti per la riscoperta del tutto: la dimostrazione concettuale an­
zi che riguadagnare la totalità - che è presente di per sé alla
coscienza come spontaneo suo orizzonte - dà luogo ad una falsa
visione meccanicistica, fatalistica che esclude la vita della persona
nella sua essenza intrinseca e che ha come corollario l'ateismo.
All'ingannevole sistema della scienza dimostrativa Jacobi oppone
il Sinn, che esprime l'autentica propensione umana che lo deve
guidare nel mondo delle cose.
Al di qua delle prese di posizione nella discussione accademica,
ci pare di scorgere l'anima di Jacobi nelle confessioni del Woldemar.
« La virtù non si può in alcun modo escogitare con elucubrazioni
cerebrali ed i sentimenti buoni ed elevati possono scaturire sol­
tanto da impulsi buoni ed elevati. Può anche esser vero che la no­
stra anima, proprio come il nostro volto, non sia in grado di con­
templare se stessa, ma abbia coscienza del proprio essere soltanto at­
traverso l'urto con altri esseri e di fronte alla loro reazione. Tutta­
via essa giunge a tale consapevolezza e alla contemplazione di se
stessa in un sentimento inesprimibile. L'anima, il suo essere inte­
riore, il suo meraviglioso io, è e sarà in ogni uomo oggetto di os­
servazione e di giudizio, e in questo giudizio di gioia e dolore, di
piacere e dispiacere, è e sarà certamente il suo oggetto più vicino,
immediato, reale, fecondo e interessante. E siccome giudichiamo il
valore delle cose esterne a seconda dei loro effetti su di noi, la
nostra natura interiore, riguardandoci immediatamente, deve esse­
re per noi infinitamente più importante di ogni altra cosa. I rimor­
si della coscienza e della vergogna più nascosta, le gioie della vir­
tù e la forza dell'onore traggono origini da quella natura e ne of­
frono mille prove nelle loro meravigliose manifestazioni. Certo,
la nostra coscienza deve essere risvegliata da un'azione esterna;
ma può sussistere e durare soltanto in se stessa, mediante la cono-
698 FILOSOFIA MODERNA

scenza distinta, che dà all'uomo personalità, libertà, intima consa­


pevolezza dell'anima, vita autentica » 9•
Nel battagliero volumetto dedicato a Spinoza, oltre la scherma­
glia argomentativa, il sentimento dell'onore è testimone immediato
della libertà della persona: « Fino a quando vive ancora nell'uomo
una scintilla di questo sentimento c'è in lui una testimonianza incon­
trovertibile della libertà, una fede invincibile nell'intima onnipoten­
za del volere... Chi vorrà mai essere giudicato uomo da non resi­
stere a tutte le tentazioni di un'azione vergognosa, anzi da aver
bisogno, per questo, di prendere in considerazione vantaggi e svan­
taggi, di pensare al grado o alla grandezza, o anche ad un imperativo
categorico, ad una legge? E lo stesso giudizio vale pure nei ri­
guardi degli altri. Se vediamo qualcuno preferire il piacevole al­
l'utile, scegliere mezzi perversi per i suoi scopi, contraddirsi nei
suoi desideri e nelle sue aspirazioni, pensiamo che agisca in modo
irragionevole, stolto. E se qualcuno trascura i suoi doveri, anzi si
macchia di colpa, se è ingiusto, prepotente, possiamo odiarlo, di­
sprezzarlo, ma non respingerlo del tutto; se, invece, nega decisamen­
te il sentimento dell'onore, mostra di sopportare l'intima vergogna
e di non essere più in grado di sentire il disprezzo di sé stesso, al­
lora lo respingiamo senza misericordia, come il fango che calpestia­
mo ... Donde scaturiscono questi giudizi incondizionati, queste prete­
se ed esigenze smisurate, che non si limitano ai principi e alla lo­
ro osservanza, ma si rivolgono al sentimento e ne richiedono apodit­
ticamente l'esistenza? » 10•
La testimonianza immediata della coscienza a livello di persona
decide per le verità fondamentali dell'esistenza. Cosl nel saggio
Van den gottlichen Dingen und ihrer Offenbarung è detto che:
« Ci devono essere verità originarie, semplici, immediatamente cer­
te, assolutamente positive, che si mostrano valide senza prove de­
sunte da altre conoscenze, senza testimonianze di altra specie. Su
queste verità soltanto si fonda quella fiducia che nobilita il cuore e lo
spirito e che non potrebbe esistere se la sua luce fosse solo un
riflesso, se la sua forza fosse solo derivata. Una tale verità im­
mediata, positiva si rivela a noi con il sentimento di un impul­
so che si innalza al di sopra di ogni interesse sensibile, mutevole

9
Da ]ACOBI, Scritti e testimonianze, a cura di V. Verra, Torino, 1966, p. 16.
IO
Cfr. ib., pp. 49-50.
DA KANT A FICHTE 699

e contingente, un impulso che si manifesta irresistibilmente come


impulso fondamentale della natura umana. Da sempre gli uomini
hanno chiamato, in generale, cose divine ciò a cui tende questo im­
pulso e hanno chiamato i suoi effetti: sentimenti, inclinazioni ed azio­
ni virtuose. Perciò quel sentimento, a volte, si chiama anche senti­
mento morale, sentimento della verità » 11•
Ancora in Ueber eine Weissagung Lichtenbergs Jacobi dichiara
la radice immediata della convinzione teologica: « La fede in Dio è
un istinto, un istinto naturale per l'uomo come la sua posizione
eretta. Non avere questa fede è contro natura, come è contro na­
tura per l'uomo la posizione curva, volta soltanto alla terra e
propria dell'animale, che non ha volto e non guarda al cielo.
Questa fede può inaridirsi, ma di solito c'è e, dove non c'è, di­
pende da una deformazione della facoltà conoscitiva » 12•
Sul primato della vita personale si struttura in analogia meta­
fisica la rivendicazione di un Dio personale alla radice dell'es­
sere. « Un'azione involontaria, senza proposito, è un'azione cieca,
sia essa accompagnata dalla coscienza o meno. E, pertanto, rispetto
all'universo la nostra domanda suona cosl: l'universo sussiste in
virtù di un meccanismo interno, concluso in sé stesso ed autosuffi­
ciente, senza avere fuori di sé causa o scopo, oppure esiste per il
bene e per il bello, è opera di una provvidenza, creazione di Dio?
Quest'ultima è la risposta della ragione sana, ancora interamente
fiduciosa in sé stessa. Perciò questa convinzione è la più antica
e il teismo, come fede, precedette il naturalismo, come filosofia » IJ.
A Kant Jacobi si sentì vicino fino dalla giovanile lettura del­
l'Unico argomento; Io accostava vieppiù la riduzione kantiana del­
le pretese della ragione conoscitiva e la critica della dialettica
speculativa; fu urtato però da certe intolleranze del programma
criticista - la cui responsabilità risaliva piuttosto ai sedicenti
discepoli di Kant - e prese posizione ostile in Idealismus und
Realismus appigliandosi all'equivocità della funzione sistematica
delle cose in sé nell'impianto del discorso critico. L'esito idea-

11
Cfr. ib., p. 60.
" Cfr. ib., p. 61.
13 Cfr. ib., p. 64; il passo è tratto da Von den gottlichen Dingen und ihrer
Offenbarung.
700 FILOSOFIA MODERNA

listico :fichtiano gli parve la conclusione logica e paradossale del-


1'avvio trascendentale.
Ancora una volta il pensiero apodittico gli sembrava finire in
contraddizione con la credenza naturale dell'uomo. È facile com­
prendere il giudizio di condanna nei confronti della :filosofia schel­
linghiana in cui spinozismo e idealismo confluivano in maniera tan­
to palese.
« Il sistema kantiano porta al nichilismo - scriveva nella prefa­
zione al David Hume - e vi porta con una tale forza devastatrice
che nessun espediente, successivamente escogitato per porvi rimedio,
può far riacquistare quanto si è perduto una volta per tutte. Ogni
:filosofia che nega all'uomo una facoltà superiore di percezione non
condizionata dall'intuizione sensibile, e si propone di innalzarsi
dal sensibile al soprasensibile, dal finito all'infinito, soltanto con
un'incessante opera di riflessione su ciò che è dato all'intuizione
sensibile e sulle leggi del suo inserimento mediante l'immagina­
zione nell'intelletto, ogni :filosofia di questo genere deve necessa­
riamente concludersi in un puro e completo annientamento della
coscienza » 14•
La :filosofia che non muova dall'ammissione del primato ontolo­
gico della persona finisce nel dichiarare l'originarietà del cieco fatto;
cosi il materialismo è il volto vero dell'immanentismo idealistico
e viceversa, già prefigurato in Spinoza e impostosi con Fichte e
con Schelling.
« ... Si può dire che è identico lo scopo delle due vie principali
della :filosofia speculativa: il materialismo e l'idealismo; il ten­
tativo di spiegare tutto, muovendo soltanto da una materia che
determina se stessa, oppure soltanto da un'intelligenza che deter­
mina se stessa; il loro opposto indirizzo non è per nulla diver­
gente, ma tende a poco a poco ad approssimarsi, fino a giungere ad
un contatto ed a una compenetrazione finale. Il materialismo spe­
culativo, metafisicamente formulato, deve infine, per la sua stessa
natura, trasfigurarsi in idealismo; perché, al di fuori del dualismo,
per un pensiero che vada veramente a fondo, c'è soltanto egoismo
come inizio e fine. Poco mancò che una tale completa trasfigura­
zione del materialismo si realizzasse già con Spinoza. La sua so-

" Cfr. ib., p. 97.


DA KANT A FICHTE 701

stanza che sta alla base tanto del pensiero che dell'estensione e
li connette entrambe inscindibilmente, non è altro che l'identità
assoluta del soggetto e dell'oggetto, attinta non con l'intuizione
ma con il ragionamento, identità su cui è fondato il sistema della
nuova filosofia, della filosofia autonoma dell'intelligenza » 15•
La scalata speculativa di Schelling si risolse in una caduta nel
naturalismo mitologico: « Il nuovissimo sistema della unitotalità
o dell'identità assoluta, non senza fondamento si gloria di tornare
alla più antica filosofia... I sistemi speculativi più antichi per noi
sono stati certamente sistemi naturalistici: fisica speculativa di
questa o quella forma, poemi sulla creazione del mondo che antici­
pavano lo studio della natura e oltrepassavano ogni esperienza:
cosmogonie-mitologie. L'intelletto umano, ponendosi a filosofare,
non poteva fare a meno di imboccare questa strada, non poteva svi­
lupparsi né giungere a se stesso in alcun altro modo: la sua nascita
era la nascita di un mondo. Soltanto gradualmente dal caos di sen­
sazioni e di rappresentazioni oscure e confuse, affiora nell'uomo che
volge per ogni dove lo sguardo della riflessione, una distinzione tra
esterno ed interno, come oggetti reciprocamente dipendenti, tra io e
non-io come elementi inseparabili. Ma, anche a parte il carattere in­
separabile di interno ed esterno nella coscienza umana, i due siste­
mi apparentemente cosi opposti tra loro, cioè il materialismo e
l'idealismo, nascono come gemelli nell'intelletto umano » 16•
L'anima dell'uomo è per Jacobi il luogo dove per eccellenza Dio
è presente: la presenza però non è traducibile in contenuti né
concettuali né storici, sì che la fede in Dio non può concretarsi
in dogmi né razionalistici, né positivi. Nel saggio Von den gottli­
chen Dingen und ihrer Offenbarung (1811) Jacobi sottolineò il
senso della sua fede come purezza di ascolto al Dio vivente e inac­
cessibile, prendendo lo spunto da un vecchio scritto di Claudius e
avendo di mira le accentuazioni teosofi.che schellinghiane.

" Cfr. ib., p. 83-84: a Fichte.


16
Cfr. ib., p. 91; da Von den gottlichen Dingen.
702 FILOSOFIA MODERNA

2. Il momento criticista
La Critica della ragione pura risultò di difficile comprensione
al pubblico dotto non soltanto. nelle sue argomentazioni ma nei
suoi intendimenti e nel suo metodo, né riusci più fortunato il ten­
tativo espositivo dei Prolegomeni fatto due anni più tardi. Solo
nel 1784 le Erlauterung uber des Herrn Prof. Kant Critik der
reinen Vernunft del pastore Johann Schultz indicavano l'intento
capitale dell'impresa criticista e i raccordi essenziali del discorso
kantiano. L'anno seguente la Fondazione della metafisica dei costu­
mi toccando temi di immediato e universale interesse, riaprl il dia-·
logo con il pubblico, mentre fino dal suo primo sorgere la nuova
« Allgemeine Literatur-Zeitung » si schierava per la linea kantiana
di cui indovinava l'originalità.
17
KARL LEONHARD REINHOLD fu il vero apostolo del kantismo:
la sua esposizione del problema critico fornl il testo alla cre­
scente folla di ripetitori e di seguaci, che fecero del nome di

17 KARL LEONHARD REINHOLD ( 1758-1823 ), monaco barnabita, partecipò all'Auf­


kliirung della Vienna giuseppina, fino al punto di abbandonare lo stato religioso riparando
nell' '83 a Lipsia. L'anno seguente si stabiliva a Weimar presso il Wieland cli cui divenne
genero e attivo collaboratore nella redazione del « Deutscher Merkur », sulle cui pa­
gine pubblicò una serie di articoli di professione illuministica. Scoperta nel kantiano
primato della ragione pratica la soluzione dei contrasti suoi e del tempo tra il sapere
e la fede, espose con slancio le conclusioni della Critica kantiana in una serie di otto
Briefe iiber die Kantische Philosophie sul « Merkur » tra l'agosto dell'86 e il settembre del-
1' '87. Ottenuto un incarico presso l'Università cli Jena, vi insegnò con grande successo la
filosofia kantiana, a cui doveva servire cli introduzione il Versuch einer neuen Theorie
des Vorstellungsvermiigens (1789), mentre il I vol. di Beitrage zur Berichtigung bishe­
riger Missverstiindnisse der Philosophen ( 1790) apriva la prospettiva di una presenta­
zione sistematica del pensiero criticista lungo una via diversa da quella seguita da
Kant: la Elementarphilosophie. Entusiasmi e polemiche crebbero violenti attorno al
kantismo reinholdiano. Nel 1794 Reinhold si ritrasse dalla discussione trasferendosi d
Kiel, mentre Fichte, succeduto sulla cattedra di Jena, assumeva il comando del drap­
pello più animoso del disordinato fronte dei « kantiani », dai quali Kant stesso si
era dissociato. Dopo avere riconosciuto gli sviluppi che dalla Elementarphilosophie con­
ducevano alla Wissenschaftslehre, non potendo condividere gli esiti di quest'ultima,
Reinhold preferì rinunciare all'intera sua teoria della rappresentazione. A contatto con
il mondo culturale dello Holstein reso fiorente dalla presenza di profughi di diverse
regioni tedesche, Reinhold sviluppò un nuovo pensiero che, al di là del primo tenta­
tivo sistematico accademico di Jena, doveva meglio esprimere il suo atteggiamento in­
teriore e che contribui a formare un movimento spiritualista che, pur operante, non
godette del primo piano della scena della filosofia occupata dall'idealismo hegeliano.
La frattura con la corrente idealistica si prospetta già nel 1799 con Ueber die Paradoxien
der neuesten Phisolophie. Alla ricerca di un ancoraggio realistico, Reinhold si accostò
l'anno seguente al Bardili e trovò comprensione in F. H. Jacobi. Tra gli scritti del­
l'ultimo periodo ricordiamo Menschliches Erkenntnissvermogen aus dem Geschichtspunkte
des durch Wortsprache vermittelten Zusammenhang zwischen der Sinnlichkeit und dem
Denkwermiigen (1816).
DA KANT A FICHTE 703

Kant l'insegna di una rivoluzione nel mondo della filosofia acca­


demica.
Grazie al vissuto travaglio della ricerca di una conciliazione
tra la nuova scienza dei lumi e la tradizione teologica cristiana,
Reinhold scoprì il profondo motivo che aveva spinto Kant ad
esplorare i li.miti della conoscenza ed a cercare una fondazione
autonoma della morale, che garantisse l'area della libertà perso­
nale ed aprisse alla speranza religiosa. Ciò che, non senza banalità,
era stato discusso nella recente polemica spinoziana, venne risco­
perto da Reinhold nel segreto della propria esperienza personale.
Il primato della ragione pura pratica risultò a Reinhold la soluzione
metodica dei problemi essenziali del suo tempo e della sua vita.
« Presentii - egli racconta - cercai e trovai in esso la medicina
che consideravo ormai pressoché impossibile, che mi liberasse dal­
la disgraziata alternativa tra superstizione e incredulità. Io ho
conosciuto entrambi questi malanni in grado eccezionale per per­
sonale esperienza e credo che del secondo, da cui mi ha guarito
la Critica della ragione pura, ho sofferto tanto dolorosamente
quanto del primo che ho succhiato con il latte materno e che si
era manifestato con insolita violenza in una serra cattolica per
l'allevamento della Schwarmerey, in cui ero stato trapiantato a
quattordici anni. La mia gioia per la radicale guarigione ed il desi­
derio di contribuire per quello che potevo alla diffusione di un
rimedio da me trovato cosi sicuro e tuttavia ancora tanto ignora­
to hanno occasionato le Lettere sulla filosofia kantiana ... » 18•
Nella terza Lettera sulla filosofia kantiana del gennaio 1787
attorno al rapporto tra religione e morale Reinhold precisa che
« ... la critica della ragione ha adempiuto le condizioni indispen­
sabili affinché la nostra filosofia potesse abolire le prove me­
tafisiche circa l'esistenza di Dio a vantaggio della fondazione mo­
rale di tale cognizione, consistente nel basare la religione nella
sua verità essenziale sulla morale, compiendo in tale maniera per
via di ragione la riunificazione di entrambe, il che è appunto
lo scopo del Cristianesimo che il suo sublime fondatore realizzò
per la via del cuore » 19•
18 Cosi Reinhold nella prefazione al Versuch einer neuen Theorie des Vorstellun­
gsvermogens, Jena, 1789.
" K. L. REINHOLD, Briefe uber die Kantische Philosophie, in (< Deutscher Merkur »,
I, 1787, pp. 20-21.
704 FILOSOFIA MODERNA

Ad un pubblico incerto tra i sogni illuminati e la nostalgia di


una fede religiosa annunciò il punto di vista nuovo conquistato
da Kant: il primato della ragione pratica. L'uomo non risulta in
questa prospettiva come ente primariamente conoscitivo ma piutto­
sto come creatura per cui la ragione è luce sul piano dell'agire
morale. Mentre la scienza si ferma nella fenomenicità dell'esperien­
za e il cielo metafisico risulta inaccessibile a chi voglia affron­
tarlo lungo i cammini della dimostrazione di tipo fisico-matematico,
l'imperativo categorico impegna la volontà e con la sua indubitabi­
le natura razionale autorizza i postulati morali e religiosi. Il to­
no di sincero convincimento e la limpidezza del discorso esposi­
tivo conquistarono gli animi e dalla cattedra di Jena Reinhold si
senti impegnato a garantire sul piano dottrinale le tesi che aveva
enunciato con tanto consenso sul piano dell'applicazione pratica.
Possiamo schematizzare cosi il passaggio di Reinhold all'inter­
pretazione della ricerca critica di Kant: se le conclusioni del ra­
gionamento kantiano soddisfano il cuore e la mente, sono vere e
procedono presumibilmente da una ricerca vera; tuttavia la Criti­
ca kantiana non gode di quell'immediata universale evidenza che
caratterizza la verità.
Reinhold ritiene che Kant, alla guisa di ogni grande scopritore,
sia giunto alla sua meta lungo un cammino disordinato, avventuro­
samente e forse senza avere completa coscienza del peso della sua
conquista: da qui la tortuosità e l'oscurità della sua linea di indagi­
ne. Certo della verità dei risultati kantiani, si propone pertanto di
trovare una via accessibile ad ognuno che, partendo da verità di per
sé universalmente note, attraverso una serie di collegamenti logi­
camente inevitabili arrivi a quelle conclusioni che già la pratica
ha approvato. Risulta evidente al lettore che la Critica della ra­
gione pura inizia ricercando le strutture a priori della conoscenza
senza avere premesso prima un concetto di conoscenza. Tale con­
cetto non è di evidenza prima e la prova ne è l'esistenza di con­
cezioni assai diverse del conoscere. Solo chi sarà partito da un
concetto vero della conoscenza potrà seguire la ricerca trascenden­
tale kantiana. Reinhold ritiene necessario fornire questa indispen­
sabile esplicita gnoseologia: essendo però la nozione di conoscenza
un concetto complesso e pertanto equivoco, occorrerà trovare prima
la concordanza inevitabile di tutti su un concetto semplice di im­
mediata evidenza.
DA KANT A FICHTE 705

Considerando che la conoscenza è comunemente intesa come


quel tipo di rappresentazione, o maniera di coscienza, che corri­
sponde alla realtà, Reinhold pensa che il punto di partenza stia
nella determinazione della nozione generalissima di rappresenta­
zione (Vorstellung) o di coscienza (Bewusstsein). « La coscienza è
l'autentica base ultima, il Fundament su cui è edificata la Teoria
della facoltà rappresentativa - dichiarava nel '90 -: la distin­
zione e il riferimento della rappresentazione nei confronti di sog­
getto e oggetto accolta come un fatto che io considero di valore
universale, è la base del mio sistema » 20•
La teoria della Vorstellung sarà quindi il punto di partenza per
una nozione universalmente valida di conoscenza (Erkenntniss) che
aprirà alla ricerca relativa ai limiti della facoltà conoscitiva uma­
na: una dottrina del Vorstellungsvermogen sarà la necessaria pro­
pedeutica alla Critica della facoltà conoscitiva umana. La nozione
di rappresentazione (o coscienza) è semplice, quindi per sé uni­
versalmente nota, non oggetto di definizione in senso proprio, ma
piuttosto dato immediato acquisibile attraverso una riflessione ope­
rata fenomenologicamente dalla coscienza in se stessa. La nozio­
ne di Vorstellung si impone cosi di per sé come un principio, la
definizione di rappresentazione diventa il principio della coscienza
(Satz des Bewusstseins) su cui si fonda l'intero sistema della cri­
tica del sapere e che costituisce pertanto l'autentica philosophia pri­
ma, l'Elementarphilosophie. « La rappresentazione viene nella co­
scienza distinta dal rappresentante e dal rappresentato e riferita ad
entrambi » è la proposizione base di tutto il sapere ( e non è diffi­
cile leggere già in essa la tesi iniziale della Dottrina della Scienza,
quando io e non io prendano il posto di rappresentante e rappre­
sentato).
Reinhold indugerà a lungo a costruire nel Versu-ch dell' '89 una
catena di teoremi e di corollari ricavati con pedanteria dall'analisi
dei termini posti nella definizione iniziale di rappresentazione. Ri­
sultò tuttavia tosto chiaro che per giungere ad affermare la limita­
zione della conoscenza all'ambito della coscienza senza tentare l'ag­
gancio a ciò che è in sé oltre la coscienza non era neppure neces­
sario giungere all'elaborazione di una gnoseologia e ad una Critica

,. Cfr. « Beitrlige », I, 1790, pp. 279-280.


706 FILOSOFIA MODERNA

del conoscere: dalla stessa definizione di rappresentazione l'ogget­


to e il soggetto risultavano costitutivi inseparabili della coscien­
za, impensabili staccati dalla medesima.
Ignorando le complesse problematiche che sostenevano l'Analiti­
ca trascendentale, Reinhold si richiudeva nel fenomenismo corrente
che accomunava, senza ricorrere a Kant, empiristi e razionalisti della
filosofia corrente e preparava - senza prevederla - la semplifica­
zione idealistica. « La Critica della ragione pura non solo non ha
posto il fondamento primo dell'intera filosofia, né il fondamento
della scienza della facoltà rappresentativa, ma neppure ha posto un
fondamento per la teoria della facoltà conoscitiva in generale, né
per le teorie particolari delle facoltà conoscitive particolari, né per
la teoria della sensibilità, né dell'intelletto, né della ragione » 21•
Kant riconobbe nella teoria della facoltà rappresentativa una
strada che portava lontano dalla sua ricerca e preferì serbare il silen­
zio, riducendo la difesa del suo pensiero ad uno scambio contro
Eberhard nella Entdeckung.
Un contemporaneo, in un articolo del '91, ricorda l'euforia con
cui Reinhold in quei giorni credette di aver aperto una via nuova
al filosofare: « Per stabilire la portata della conoscenza metafi­
sica Kant dovette indagare sul conoscere in generale come opera
della sensibilità e dell'intelletto... L'indagine di Reinhold abbrac­
cia un punto di vista ancora più ampio. Egli non chiede semplice­
mente: come è possibile la metafisica? Come è possibile in gene­
rale la filosofia? Kant non ha stabilito - né doveva stabilire -
alcun principio primo di per sé certo, indiscutibile e indiscusso
della sua ricerca: egli non intese infatti fornire una scienza del­
la facoltà conoscitiva, bensl un'indagine su essa, non una teoria,
bensì una propedeutica alla teoria. Reinhold invece cerca di stabi­
lire un principio su cui si possa fondare non solo la critica kan­
tiana bensl ogni possibile autentica filosofia teoretica e pratica;
un principio che in forza della sua propria · certezza evidenza e
solidità partecipi tali caratteri alla scienza che deve fondare; che
non sia preceduto dalla filosofia o da una parte di essa, che non
abbisogni di alcun ragionamento filosofico per essere trovato ve­
ro; che quindi esprima un fatto che non consista in un'esperienza

21
Cfr. ib., p. 273.
DA KANT A FICHTE 707

né esterna né interna e che ,non sia perciò individuale; che risie­


da in noi stessi e possa accompagnare tutte le nostre esperienze e
i nostri pensieri. Tutte queste proprietà noi troviamo nel Satz. des
Bewusstseins da lui stabilito... » 22•
Le prese di posizione a favore o contro il kantismo si moltiplica­
rono a cominciare dall' '86 e sarebbe non lieve impegno cercare di
ritrovare le fila intrecciate della discussione, spesso poco intona­
ta alla tematica dell'autore principale.
Fra i fautori di Kant della prima generazione basti ricordare
C. CH. ERHARD ScHMID, autore di un fortunato compendio: Kritik
der reinen Vernunft im Grundriss nebst einem Worterbuch zum
leichtern Gebrauch der Kantischen Schriften (1786); L. H. }AKOB
che rivendicò i diritti della critica kantiana nella questione spinozia­
na con una Prufung der Mendelssohnschen Morgenstunden (1786);
FR. GoTTLOB BoRN, traduttore latino delle Critiche.
Tra i primi oppositori J. C. H. FEDER suscitò discussione con un
saggio Ueber Raum und Causalitat 1.ur Prufung der Kantischen
Philosophie (1787); gli si affiancò A. WEISHAUPT: Ueber die
Griinde und Gewissheit der menschlichen Erkenntniss (1788). I
nomi si moltiplicano: Tittel, Tiedemann, Flatt, Stattler ... Caratte­
re sistematico di vera campagna culturale assunse l'opposizione di
J. A. EBERHARD che impegnò contro Kant il« Philosophisches Ma­
gazin•» ( 1788-92) e poi il« Philosophisches Archiv » (1792-95) 22 bi',
avendo come valido collaboratore, specialmente contro Reinhold,
J. CH. SCHWAB, i cui saggi vennero ripetutamente premiati dall'Ac­
cademia berlinese.
Mentre l'ala reinholdiana tendeva ad imporre in maniera inte­
grale un modo nuovo di impostare la ricerca e la sistematica :filoso­
fica, l'ambiente accademico, nonostante l'azione di Eberhard, pro­
pendeva ad una soluzione di compromesso disposta ad affiancare il
punto di vista kantiano ai correnti atteggiamenti leibniziani o lockia­
ni sempre largamente eclettici e non esenti da un certo scetticismo
di fondo: il « sano intelletto » e il « buon senso comune » non era-

" F. Kurz.e,Vergleichung der Kritik der reinen Vernunft und der Theorie des Vorstel­
lungs-Vermogens nach. ihren Hauptmomenten, nei « Beitrage zur Geschichte der Philoso­
phie » del Fiilleborn, voi. I. 1791 (nella II ed. del 1796. Cfr. pp. 130-131 ).
22 ••• Cfr. M. PAOUNELLI, I motivi della polemica antikantiana di J. A. Eberhard Ù1
Contributi . dell'Istituto di Filosofia, J, Università Cattolica del S. Cuç,re, Milano, 1969,
pp. 35-80.
10a FILOSOFIA MODERNA

no troppo turbati dai capricci della ragione né dai suoi slanci vuoi
speculativi vuoi critici. E. PLATNER non vedeva difficoltà ad aggiun­
gere un pizzico di sale critico ai suoi Aphorismen e il NrcoLAI
guidava il lettore della « Allgemeine Deutsche Bibliothek » con la
consumata prudenza di chi da decenni assisteva al moto della ma­
rea culturale tedesca.

3. La spinta scettica

Ma non fu il distaccato scett1c1smo degli eclettici, bensl uno


scetticismo tagliente e perfino paradossale a dare un colpo pesan­
te alla teoria reinholdiana che si ripercosse per tutto il campo
kantiano favorendo la disastrosa ritirata di molti sulla improv­
visata linea fichtiana.
Estrosa, spettacolare ma senza esito storico immediato tangibile
fu la protesta scettica di S. Maimon 23, decisiva l'azione dell'Aenesi­
demus di G. Schulze.
Scrivendo a Kant il 7 aprile 1789, SALOMONE MAIMON tracciava
un'immagine del suo Versuch uber die Transcendentalphilosophie:
la chiave di volta della problematica kantiana sarebbe la distin­
zione dei giudizi in analitici e sintetici e il contributo originale
la deduzione trascendentale: egli chiedeva pertanto una giusti­
ficazione dell'applicabilità dei concetti a priori non soltanto al­
le intuizioni empiriche, bensì alle stesse intuizioni pure; pro­
poneva di aggiungere alla domanda « quid juris? » la domanda

11
SALOMONE MAIMON (1754-1800) nato in Lituania, cresciuto tra il Talmud e
la Cabbala, dallo studio di Maimonide si gettò nella cultura occidentale assimilando
da autodidatta notizie di matematica, medicina, scienze naturali, filosofia. Giunto av­
venturosamente a Berlino, dopo varie vicende, trovò sostegno presso la comunità ebrai­
ca illuminata attorno a M. Mendelssohn. Lesse la Critica della Ragione pura e cercò
a suo modo di connetterla con le precedenti letture di Wolff, Locke, Hume, Leibniz e
Spinoza. Un suo Versuch uber die Transcendentalphilosophic (1790) fu sottoposto mJ­
noscritto al giudizio di K,ant. Nell'articolo Baco und Kant (1790) ed in una serie di
articoli pubblicati tra il '90 e il '92 sul « Teutscher Merkur » fece professione di
kantismo avanzando eterodosse proposte di sviluppi. Nelle Streifereien im Gebiete der
Philosophie (1793) attaccò Reinhold tentando di dimostrare che l'esito del pensiero cri­
tico è lo scetticismo assoluto. Presentò le sue opinioni più caratteristiche nel '94 in
un Versuch einer neuen Theorie des Denkens. Nebst angehangten Briefen des Phila­
letes an Aenesidemus.: nell'appendice tenta di agganciarsi alle critiche scettiche di G.
Schulze. La Lebensgeschichte (1792) dà un'immagine autobiografica dello sconcertante
personaggio che brillò brevemente nella cultura berlinese.
DA KANT A FICHTE 709

« quid facti? » e di affiancare alle idee della ragione dominanti


la totalità formale, nuove idee dell'intelletto destinate a unifi­
care la totalità materiale. In proposito Kant scriveva a M. Herz
il 26 maggio '89: « La teoria del Sig. Maimon è in fondo l'affer­
mazione di un intelletto (e invero di quello umano) non soltan­
to come facoltà di pensare, quale è appunto il nostro e probabil­
mente ogni intelletto creato, bensl addirittura come facoltà di in­
tuire, in cui il pensare sarebbe solo una maniera, per portare il
molteplice dell'intuizione (che a cagione dei nostri limiti è sol­
tanto oscuro) a chiara coscienza,... ».
In un saggio dello stesso anno sul « Journal der Aufklarung »
- Ueber die Welt-Seele, Entelecheia Universi - Maimon, sen­
za troppi scrupoli critici, allarga il suo intelletto archetipo ad ani­
ma del mondo, arieggiando intonazioni herderiane. Nello stesso
tempo, cedendo a suggerimenti empiristici, cominciava a discioglie­
re il criticismo nello scetticismo humiano.
Non avendo trovato in Kant una adeguata occasione per espri­
mere le proprie trovate filosofiche, Maimon tentò un aggancio - pa­
rimenti infelice - con Reinhold, che tentò di trascinare infine in una
pubblica discussione. Nell'opporsi alla teoria reinholdiana della rap­
presentazione, Maimon si trovò a ridurre la coscienza alle sole strut­
ture a priori abolendo ogni riferimento a una realtà extra coscienzia­
le e arroccandosi in un soggettivismo idealistico non diverso nelle
sue conseguenze da uno scetticismo radicale. Cosi dichiarava il
20 settembre 1791 a Kant: « Nego senz'altro che in ogni coscienza
(anche in quella di un'intuizione e di una sensazione come sostiene
il sig. Reinhold) la rappresentazione venga per opera del soggetto
distinta dal soggetto e dall'oggetto e riferita ad entrambi. Un'in­
tuizione a mio parere non viene riferita a nulla al di fuori di sé
stessa e solo per il fatto che viene posta in unità sintetica con
altre intuizioni essa diventa rappresentazione e si riferisce a que­
sta come parte costitutiva di una sintesi, ossia si riferisce al suo
oggetto. La sintesi determinata a cui la rappresentazione viene ri­
ferita è l'oggetto rappresentato; ogni sintesi indeterminata, a cui la
rappresentazione può essere riferita, è il concetto di un oggetto in
generale. Come può dunque il signor Reinhold spacciare il Satz
des Bewusstseins per un principio di valore universale? Esso -
come ho mostrato - può valere soltanto per la coscienza di una
710 FILOSOFIA MODERNA

rappresentazione, ossia per un'intuizione riferita ad una sintesi


come sua parte costitutiva ... ». Un anno più tardi (30 novembre
1792) Maimon importunava un'altra volta Kant per suggerirgli una
correzione dell'estetica trascendentale, che avrebbe portato ad un
palese esito psicologistico.
Probabilmente Maimon non mancava né di acume né di inven­
tiva, certo difettò di equilibrio, di consapevolezza riflessa e legò
la sua notorietà più alla battuta paradossale e alla stroncatura che
ad _una seria costruzione di pensiero: la coscienza turbata degli
anni immediatamente a lui seguenti si compiacque di creare un
personaggio tipicamente romantico.

Aenesidemus oder uber die Fundamente der van dem Herrn


Professor Reinhold in ]ena gelieferten Elementarphilosophie. Nebst
einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmassungen
der Vernunftkritik apparve anonimo nel 1792: autore un trenten­
ne professore dell'Università di Helmestadt, GoTTLOB ERNST
24
ScHULZE • Il saggio si articola in cinque lettere tra Hermias,
reinholdiano, e lo scettico Aenesidemus; un breve preludio in­
troduce una lunga e minuta analisi delle 36 propozioni della Fun­
damentallehre a cui Reinhold aveva affidato l'esposizione della
Elementarphilosophie nel voi. I dei « Beitrage » ( 1790 ).
Schulze si basa nella discussione su due punti fermi: l'esisten­
za di rappresentazioni, l'incontrovertibilità della logica. Appog-

24 G. E. ScHULZE, Enesidemo, o dei fondamenti della filosofia elementare pre­


sentata dal professor Reinhold... con una difesa dello scetticismo contro le pretese
della Critica della ragione, a cura di A. PUPI, Bari, Laterza, 1971. Cfr. anche
A. PuPr, Le obiezioni all'Enesidemo, Milano, Vita e pensiero, 1972. ERNST
GoTTLOB ScHULZE (1761-1833 ), Magister a Wittemberg fino al 1788 poi ordina­
rio di filosofia a Helmstadt. Allievo di Reinhard aveva composto dissertazioni
sulla filosofia greca ( sugli Stoici e Platone) e aveva coronato la sua preparazione acca­
-cl.emica con un ampio manuale: Grundriss der phJosophischen Wissenschaften (1788-90).
Una lezione del 1789 Ueber den hochsten Zweck des Studiums der Philosophie, palesa
una tendenza scettica fondata sulla constatazione dell'insuccesso storico della ricerca
speculativa che sembra avere una ragione d'essere più per l'incremento dello sforzo
spirituale di ricerca che per il conseguimento di un sistema concluso del sapere. La
sua fama è legata alla critica a Reinhold contenuta nell'anonimo Aenesidemus del '92
Interessante la discussione della Moraltheologie kantiana ripresa in Einige Bemerkungen
iiber Kant's philosophische Religionslehre (1795;. Nel 1801 presentò due volumi di
Kritik der theoretischen Philosophie. Nel 1810 si trasferl. al'Università di Gottinga. Ri­
petute edizioni ebbero i Grundsiitze der allgemeinen Logik (1810). Ricordiamo dei suoi
scritti nii:, tardi la Psychische Anthropologie del '26 e Ueber die menschliche Erkennt­
niss del '32.
DA KANT A FICHTE 711

giandosi a Hume l'autore nega che la causalità sia più che un dato
abituale di esperienza, nega quindi la possibilità di stabilire un rap­
porto scientificamente garantito tra le nostre rappresentazioni e pre­
sunte cose in sé, e oltrepassando la linea criticista rifiuta l'esistenza
di un a priori che sarebbe indotto, non diversamente dalle cose
in sé, in forza di un abuso del nesso di causalità. Caduta la struttu­
ra trascendentale, la scienza rimane humeanamente confinata nella
fenomenicità empirica. L'attacco si sviluppa puntigliosamente con­
tro la teoria reinholdiana della facoltà rappresentativa: nei con­
fronti di Kant, Schulze mostra interesse e rispetto soprattutto ri­
guardo alla Moraltheologie, di cui ammira l'alta intenzione spi­
rituale ma non può tuttavia condividerne la fondatezza.
La riduzione del difficile discorso criticista alle familiari fi­
gure dello scetticismo humeano tranquillizzò l'opinione filosofica
corrente e segnò uno svuotamento pernicioso della crociata rein­
holdiana per la riforma del sapere. Le difese di Reinhold e di
qualche suo seguace furono deboli e poco convinte. MAIMON si
fece innanzi ancora una volta .tentando di accaparrarsi un ruolo
sulla scena dotta, sostenendo uno scetticismo diverso da quello
di Aenesidemus e derivante da un coerente sviluppo della teo­
ria trascendentale kantiana. « [ Aenesidemus] - scrive Maimon
nelle Lettera a Filalete - estende [ lo scetticismo] non solo alle
cose in sé bensì anche ai limiti della conoscenza umana, mentre
io (d'accordo con Kant) ammetto una conoscenza sintetica a priori
e ne deduco i limiti della spiegazione della sua possibilità; re­
stringo tuttavia questi limiti più ancora di Kant in quanto non
ammetto l'uso nell'esperienza di questa pura conoscenza a priori
e cerco di mostrarne la portata reale unicamente mediante la co­
noscenza matematica. Considero pertanto lo scetticismo di Aene­
sidemus assolutamente irragionevole e infondato ».
Maimon tenta di sottrarre a Reinhold e a Schulze l'eredità kan­
tiana e il monopolio dello scetticismo: ammette le strutture a prio­
ri del pensare ma esclude ogni contenuto conoscitivo, decapita
inoltre il pensiero puro delle idee assolute della ragione. Nel Ver­
such del '94 Maimon sembra approdare ad un totale idealismo tra­
scendentale, in quanto la molteplicità empirica anzi che procedere
da una fonte a posteriori sembra piuttosto l'estrema articolazione
e suddivisione del pensiero procedente da un unico principio a
712 FILOSOFIA MODERNA

priori. Probabilmente a questa sua più o meno intuitiva anticipa­


zione Maimon deve la simpatia di cui fu gratificato in seguito dalla
storiografia idealistica.
Il rovesciamento dell'idealismo era tuttavia ormai incombente
e fu facile giungere a questa conclusione a FICHTE con una dura
recensione sulla « Allgemeine Literatur-Zeitung » del febbraio del
'94 in cui confutando le critiche di Aenesidemus, sostitul alla Ele­
mentarphilosophie reinholdiana i concetti della Dottrina della
Scienza.
Scrivendo a H. Tieftrunk nell'ottobre del '97 Kant riuniva
sotto l'appellativo comune di « meine hyperkritische Freunde »
Fichte e Reinhold: l'immensa distanza spirituale che separa Kant
da Fichte e li dimostra membri di mondi diversi risulta a chi sol­
tanto consideri la tematica e l'atteggiamento della kantiana Reli­
gion coeva alla stesura della Wissenschaftslehre: Reinhold, che sul
piano dell'esposizione dottrinale favori la prospettiva teoretica fich­
tiana, rimane lontano dallo spirito di Fichte e dell'età che questi
inaugura sotto l'insegna dell'azione militare napoleonica che compi
la tragedia dell'illuminismo in Francia. Reinhold infatti si ritrasse
e sconfessò. Il senso dell'opera kantiana rimase nascosto ai contem­
poranei e serbato ad un più ampio destino.

4. Epigoni

Tra coloro che mantennero un'onesta fedeltà a Kant anche se


non giunsero oltre la lettera del discorso critico, è doveroso ricor­
dare JACOB SIGISMUND BECK (1761-1840), il cui Erlautender
Auszug aus den kritischen Schriften des Hrn. Prof. Kant (3 voli.,
Riga 1793-96) si impose come esposizione ortodossa delle tre Cri­
tiche in esplicita distinzione dalle elaborazioni reinholdiane. Altri
autori verso il passaggio del secolo ebbero parziale influsso ed as­
sunsero posizioni dai contorni abbastanza delineati grazie ad una
certa unità di sintesi di materie culturali raccolte ai margini dei tor­
renti storici maggiori.
Gli echi della discussione spinozistica. critica, scettica, ideali­
stica e i preannunci romantici schellinghiani percorrono il tentativo
iniziale di sintesi fatto nel 1799 da FRIEDRICH BouTERWEK ( 1766-
DA KANT A FICHTE 713

1828) nei due volumi della sua Idee einer Apodiktik: einer Beitrag
z.ur menschlichen Selbstverstandigung und zur Entscheidung des
Streites uber Metaphysik, kritische Philosophie und Skepticismus.
Movendo da Kant e Jacobi il Bouterwek aspirò ad una fondazione
del sistema della teoria e della pratica. Il suo nome è legato piutto­
sto ad una grande Geschichte der neuern Poesie und beredsamkeit
(in 12 voll., 1801-1819) e all'Aesthetik (1806).
Un'analoga convergenza di interessi per Kant e Spinoza con una
attenzione estetica che dispone al romanticismo riscontriamo in
KARL HEINRICH HEYDENREICH (1764-1801) di cui è da ricordare
il Saggio Natur und Gott nach Spinoza (1788), le Betrachtungen
uber die Philosophie der naturlichen Religion (2 voll., 1790-91) e
un System der Aesthetik (1790).
Alla svolta del secolo appaiono i primi saggi di autori che opera­
rono in minore evidenza nel trentennio della dominazione idealisti­
ca, tentando di tenere i contatti con la tradizione settecentesca, ora
solitari ora oggetto di condanna. WILHELM TRAUGOTT KRUG (1770-
1842) è ricordato quale successore di Kant a Konigsberg, per gli
scontri con Fichte, Schelling e Hegel e per un ponderoso Allge­
meiner Handworterbuch der philosophischer, Wissenschaften (1827-
34, in 5 voll.). Era stato allievo di Reinhard a Wittenberg e aveva
ascoltato Reinhold a Jena, stendendo ivi alcune Briefe uber die Per­
fectibilitat der geoffenbarten Religion (1795). Del 1803 è il suo
tentativo di un'autonoma Fundamentalphilosophie oder urwissen­
schaftliche Grundlehre, cui fece seguito il System der theoretischen
Philosophie (1806-10, 3 voll.). Nel riflusso delle idee e delle po­
lemiche della fine del secolo si formarono i temi più caratteristici di
JACOB FRIEDRICH FRrns (1773-1843) e di CHRISTIAN Wmss
(1774-1853), la cui presenza nell'età idealistica non fu trascura­
bile: da qui trae alimento lo spiritualismo che accennò una fioritura
alla morte di Hegel.

5. Il fermento romantico

Più che uno slancio di vitalità nuova sembra una venustà di


decadenza. Echi del mondo del pensiero percorrono la coscien­
za estetica e rifluiscono coloriti e torbidi. Sotto il segno della
spontaneità, della genialità qualche filosofo abbandona le severe
714 FILOSOFIA MODERNA

armi della riflessione metodica e dialoga con la fantasia dell'arti­


sta; un colloquio che si smarrisce nel silenzio o si perde nella
finzione.
Cosi è abitudine inserire a questo punto - quasi ad ornare
gradevolmente l'ingresso del poco accogliente castello trascenden­
tale - nomi di letterati e poeti: Goethe, Schiller, gli Schlegel,
Novalis, Tieck, Holderlin, Jean Paul ...
J. W. GoETHE (1749-1832) si rifiutò sempre di affidarsi alle vie
dell'astrazione speculativa ed aderì alla carne del sentire, della terra,
della fantasia di cui celebrò la miracolosa presenza della vita. La poe­
sia è una parola detta con un tono, un timbro un, modo che rendono
presente, facendolo sentire e presentire, un mondo che non si ri­
troverebbe nei significati delle singole espressioni prese nella astrat­
tezza logica: una frase detta con un atteggiamento del volto, del
gesto che può investirla di significati opposti, parimenti compati­
bili con la lettera ma situati oltre la medesima. Non è quindi le­
cito assumere citazioni di passi del poeta quasi fossero dichiara­
zioni formali destinate a depositarsi per intero in un documento
compiuto in sé stesso; non si può pretendere di ricavare una Welt­
anschauung goethiana dai suoi testi trattandoli come dati feno­
menologici. La parola del poeta sarà il frutto della nostra conver­
sazione con lui. La storiografia filosofica dovrebbe rilevare piutto­
sto la presenza dei poeti dagli effetti prodotti nei filosofi con cui
hanno conversato. Non ci pare invece opportuno né prendere le lo­
ro espressioni come professioni filosofiche, né pretendere di proporre
come filosofia latente in loro l'effetto suscitato in noi dalla loro fre­
quentazione. Goethe sostenne ad esempio che il suo Prometheus
viveva nella sua fantasia e non era una cifra filosofica. Quasi -
commenteremmo noi - si volesse attribuire a Shakespeare in
persona la passione ambiziosa ed omicida di Macbeth. Il pensiero
astratto, proprio perché tale, non trovò mai posto nella fantasia
goethiana, che si alimentava di esperienza di cose e di storia. L'epi­
stolario ci testimonia le occasioni e i tentativi di Goethe nei con­
fronti del pensare filosofico: Herder, Jacobi, Schiller lo sosten­
nero, la questione spinoziana, la morale e la dottrina estetica e
teologica di Kant impegnarono il suo interesse: sempre però ab­
bandonò la presa là dove il sentire si faceva rarefatto.
Dietro le immagini del panteismo bruniano ed herderiano ten-
DA KANT A FICHTE 715

tò di afferrare l'Assoluto razionale di Spinoza, come dietro il dram­


matico impegno del teatro e dell'aspirazione pedagogica schilleriana
cercò i principii kantiani. Il Vorlander (Kant, Schiller, Goethe, II
ed. 1923, Lipsia) ci ha dato una viva immagine di quelle fatiche
verso la filosofia.
Cosi non ci pare di dover leggere in chiave filosofica i saggi de­
dicati all'anatomia comparata, alla fisiognomica, all'evoluzione mor­
fologica, alle piante, ai colori: anche qui l'attenzione non va oltre
l'ampliamento fantastico del dato in ipotesi che non cercano una
convalida in un principio primo. « Questa non è esperienza, è
idea! » fu l'obiezione con cui Schiller impegnò nel primo colloquio
del '94 Goethe in una conversazione che fu vitale amicizia. Spiaceva
a Goethe la frattura fra pensiero e sentire che aveva fatto Schiller
sensibile alla ricerca kantiana proprio nel momento della concilia­
zione delle due dimensioni nella Critica del Giudizio. « La filosofia
kantiana - scrive Goethe ricordando quel primo incontro - che
eleva tanto in alto il soggetto proprio quando sembra restringerlo
era stata accolta e incorporata da Schiller con gioia: essa dava svi­
luppo all'elemento straordinario che la Natura aveva posto nel
suo essere ed egli preso dal sentimento sommo della libertà e
dell'autodeterminazione era ingrato verso la grande madre, che
non lo trattava certo da matrigna. Anzi che considerarla autonoma,
vivente, generativa dalle profondità più nascoste fino al più alto
cielo, egli la prendeva dal lato di certe naturalità umane empiri­
che ». Schiller mediò tuttavia la dimensione naturale e quella
spirituale nell'armonia dell'anima bella, fatta meta del divenire
storico umano, tanto che Goethe nell'ultimo incontro con F. H. Ja­
cobi, non giungendo in quella pura ansia spirituale che muoveva
l'amico, rimpiangeva non fosse presente, tramite d'un'intesa, pro-
prio Schiller.
JoHANN CHRISTOPH FRIEDRICH SCHILLER (1759-1805) si nutrì
fino dalla giovinezza di studi storici e di riflessioni filosofiche: testi­
monianza di quest'ultima attività sono una Philosophie der Physiolo­
gie (1779), il saggio Ueber den Zusammenhang der tierischen Natur
des Menschen mit seiner Geistigen (1780) ed i Philosophische Briefe
(1786-89), in cui sono riconoscibili i temi della filosofia del tempo
riuniti da un personale problema che sembra avere come centro la
drammatica unità dell'uomo. La Critica del Giudizio fu per Schiller
716 FILOSOFIA MODERNA

un orientamento decisivo e un nucleo vitale, attorno al quale egli


sviluppò le sue convinte meditazioni, distaccate dai giochi della
politica culturale e mosse da esigenze di vita e di arte operante.
I diversi mondi della passione che affonda le sue ancestrali radi­
ci nella natura cosmica e della ragione, luce della perfezione eter­
na, accostandosi scatenano la folgore del sublime e unendosi la
nobilitante Bildung che ha nella trasparente pace della bellezza
il suo compimento. Dalla meditazione sul senso tragico il pen­
siero schilleriano acquista linee costanti in Anmut und Wiirde
(179 3 ), nei Briefe iiber die i:isthetische Erziehung des Menseben
(1795) e nel saggio Ueber naive und sentimentalische Dichtung
(1796 ). Superati i travagli dello Sturm und Drang l'anima classica
riconquistata da Goethe in Italia assunse in Schiller un'espressio­
ne dottrinale che esprime l'elemento più nobile raggiunto dallo spi­
rito tedesco oltre il compimento dell'età dei lumi. Kant traluce at­
traverso l'animo commosso dell'artista.
La generazione del '7O fornl le persone che diedero luogo al fe­
nomeno dell'Idealismo trascendentale e della Romantik. I coetanei
di Hegel vissero l'esperienza universitaria e l'inizio della loro
milizia culturale tra gli slogans della rivoluzione di Francia, i rac­
conti delle stragi, le immagini della prepotenza napoleonica: nel­
la convinzione che il passato fosse crollato in una ventata di li­
bertà, di angoscia, di sgomento travolti da una fantasia eccitata,
incapaci di un orientamento e di una presa di posizione costrut­
tiva dentro una situazione troppo provvisoria e instabile. La Ro­
mantik è la squallida ripercussione del crollo pratico di una
Aufkliirung spiritualmente angusta.
È penoso percorrere la pagine confuse, enfatiche, sentimentali­
sticamente impudiche di quella produzione acerba e disperatamente
giovanile fino ad una sgomentante infantilità che rischia di scon­
finare spesso nello squilibrio mentale. Goethe non si occupò pa­
ternamente di quei giovani e non fu certo buon educatore Fichte
né nel parlare enigmatico degli scritti dottrinali né nella retori­
ca predicazione moralistica. Le povere esistenze di Holderlin, di
Novalis, di Jean Paul Richter, le timidezze di Wackenroder, il
.favoleggiare di Tieck non possono essere se non documenti del­
l'assenza di un pensiero adeguatamente riflesso e maturo, utili
DA KANT A FICHTE 717

ad uno storico della cultura nel suo insieme, ricchi forse di inte­
resse sul piano estetico, non certo contributi al filosofare.
A differenza dei suoi coetanei, forse perché meno disposto alla
comunicazione poetica, cercò la via dell'espressione teorica e sto­
rica FRIEDRICH ScHLEGEL (1772-1829), senza che la sua produzione
abbia mai fruito del rigore del metodo e della critica.
È difficile fissare un punto prospettico stabile per abbracciare
l'opera dello Schlegel, mobile quanto la sua maniera di vivere. Tra
il '94 e il '96 si addensa un gruppo di saggi che hanno per oggetto
lo spirito greco di cui si può trovare la sostanza in Ueber das
Studium des griechischen Poesie ('95-'96). Segue la conoscenza con
Fichte e Schleiermacher, mentre il suo favore è per le idee poli­
tiche novatrici. Tra il '98 e 1'800 culmina la Romantik di Jena:
l'incontro con Dorothea Veit celebrata nell'infelice abbozzo di
romanzo (Lucinde, 1799); una Geschichte der Poesie der Griechen
und der Romer (1798) e la pubblicazione di « Athaeneum » (1798-
1800): i Fragmente di questo periodo esprimono il fermentare di
istruzioni storico-estetiche, intessute di ambizioni trascendentali. Al­
lo spontaneo equilibrio della bellezza greca risponde il tendere in­
finito dell'anima moderna, ansiosa di un centro religioso e attuan­
tesi in questa tensione appunto. Schlegel tenta di confondere poe­
sia e filosofia, quasi in un· crepuscolo che unisca il presentimento
con il sapere. L'ironia come proiezione del reale sull'infinito oriz­
zonte dell'ideale viene assunta a tema di una concezione dell'uomo
che echeggia in chiave estetica Fichte.
La raccolta di Charakteristikes und Kritiken (l 801) testimo­
nia la smania dell'autore di partecipare di ogni fenomeno dell'ani­
ma contemporanea. La tensione romantica segul la gravitazione
storica e Schlegel finl via via tra le file della restaurazione diventan­
do per di più ufficialmente cattolico (1808). Tra il 1803 e il 1805
diede vita ad una nuova rivista « Europa ». Nel periodo seguente
si diede allo studio delle lingue e del mondo orientale (Ueber die
Sprache und die Weisheit der Inder, 1808). Nella Philosophie des
Lebens (1828) e nella Philosophie der Geschichte (2 voli., 1829)
tentò di dare unità alle sue nuove esperienze estetiche, culturali e
politico-religiose.
Federico Schlegel, se non può dire molto come pensatore siste­
matico né molto suggerire per l'instabilità delle sue osservazioni.
718 FILOSOFIA MODERNA

è valido specchio di una complessa e poco chiara svolta della cultura


europea. La sua attività si intreccia con l'opera più ponderata
del fratello WILHELM (1767-1845) che ebbe meriti nel campo del­
la storia letteraria e come traduttore di Shakespeare ed ebbe contat­
ti con Madame de Stael.
Personalità di rilievo nella riorganizzazione della cultura in Ger­
mania, fu KARL WILHELM voN HuMBOLDT (1767-1835). Egli
godette di una esperienza privilegiata, legata alla sua appartenen­
za al mondo della diplomazia e della pubblica amministrazione,
che gli permise una viva conoscenza delle persone e delle idee della
cultura illuministica e romantica. Il saggio dell' '87 Sokrates und
Plato uber die Gottheit, uber die Vorsehung und die Unsterbli­
chkeit testimonia l'influsso della Berlino illuministica, completato
d'altro canto dall'amicizia con Jacobi, seguita dall'esperienza di
Francoforte e di Gottinga. Un soggiorno a Jena offrì la feconda fre­
quentazione di Schiller e di Goethe, di cui è felice testimonianza il
saggio estetico sullo Hermann und Dorothea (1799), volto all'in­
dividuazione della dimensione artistica come trasparenza dell'ideale
attraverso il sentimento. Il carteggio con Korner e con Schiller
offre elementi ulteriori per la posizione dell'estetica humboldtiana.
Il soggiorno in Spagna seguito dal soggiorno a Roma (1800-1802)
gli diede occasione di unire considerazioni sulla vita dei popoli
con la riflessione sulla cultura classica favorendo l'interesse per
la storia dello spirito che fu seguita soprattutto attraverso lo stu­
dio del linguaggio. In questo campo Humboldt è considerato una
figura decisiva; ricorderemo tra gli scritti linguistici: Ueber das
vergleichende Sprachstudium im Bezug auf die Verschiedenen Epo­
chen der Sprachentwicklung (1820), Ueber die Entstehung der
grammaticalischen Formen und deren Einfiuss auf die Ideen ( 1822)
e l'incompiuta opera postuma Ueber die Kawisprache auf der Insel
]ava.
Alla sua attività in campo politico si accompagnò un'espres­
sione teorica: le Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der
Wirksamkeit des Staates zu bestimmen (1792) propongono una
concezione liberale dello stato; la Denkschrift uber Preussens
Standische Verfassung (1818) è una proposta per la riorganizza­
zione della Germania.
DA KANT A FICHTE 719

Trentenne, ScHLEIERMACHER 25 lasciò una forte impronta nel­


la Berlino romantica con le Reden uber die Religion (1799) e i Mo­
nologen (1800). A questi due lavori e alla traduzione di Platone
(1804-1810) è legata la sua fama, anche se voluminosa è l'opera de­
dicata all'esposizione sistematica dell'etica e alla riflessione sulla re­
ligione connessa con il ventennio di attività accademica svolto a
Berlino a cominciare dal 181O.
Alla radice della sua Weltanschauung, sta un'esperienza di pra­
tica religiosa turbata da una crisi alla soglia della giovinezza e con­
nessa con l'ufficio di pastore intrecciatosi con la preparazione
all'attività accademica. Negli anni degli studi universitari a Balle
assistette alla culminazione e crisi dell'illuminismo e all'esplosione
del criticismo: la sua attenzione fu simpateticamente attratta verso
il panteismo emerso attorno al nome di Spinoza e a lungo tentò di
commisurarsi con il pensiero kantiano. La frequentazione del cir­
colo romantico berlinese fu l'elemento catalizzatore e lo stimolo per
la sua sintesi culturale.
I cinque Discorsi sulla religione rivolti ai dotti tra coloro che
la disprezzano dichiarano già dall'Apologia iniziale il bisogno
che l'Autore sente di intonarsi con l'alterigia del mondo dotto al­
la passionalità dei giovani romantici che coloravano la cultura
della Berlino del passaggio di secolo affermando una sua originalità,

" FRIEDRICH DANIEL ERNST ScHLEIERMACHER (1768-1834) nato a Breslavia, fu edu­


cato alla spiritualità dai Fratelli Moravi. Dopo avere studiato a Niesky e a Barby, tu
nel 1786 per un anno all'Università di Halle. Preparatosi all'ufficio di predicatore, dopo
alcuni anni di instabile sistemazione approdò a Berlino. I vi visse dal 1796 al 1802,
in intimità con il gruppo dei Romantici, pubblicando i Discorsi sulla religione (99) -e
I Monologhi (1800), collaborando ad « Athaeneum » e concordando con Federico Schlegel
la traduzione completa di Platone. Le inopportune Lettere confidenziali sulla Lucinda
di Federico Schlegel furono occasione del suo allontanamento da Berlino. Nell'esilio di
Stolp compose le Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre (1803), Nei cin­
que anni di soggiorno a Halle vide la luce la celebre Weinachtsfeier (1806) e si svi­
luppò la traduzione di Platone, compiuta senza la collaborazione prevista di Federico
Schlegel. Di questo periodo si ricorda la Tugendiehre (1804-5) e il Brouillon zur Ethik
(1805-6). Ritornato a Berlino nel 1809, insegnò all'Università dal 1810 in qualità di
ordinario divenendo insieme membro attivo e segretario dell'Accademia delle scienze.
Qui tentò la costruzione di un sistema elaborando una dialettica diversa dalla domi­
nante dialettica hegeliana e dilungandosi specialmente in trattazioni di etica e di filo­
sofia della religione, in corrispondenza ai corsi accademici. Ricordiamo il Versuch iiber
die wissenschaftliche Behandlung des Tugendbegrilfs (1819), Der Christliche Glaube
nach den Grundsiitzen der evangelischen Kirche in Zusammenhang dargestellt (1821-22),
Ueber den Begrilf des hochsten Gutes (1830), Traduzione italiana dei Discorsi sulla re­
ligione e Monologhi a cura di G. DuRANTE, Fire;:ize, Sansoni, 1947, Su Schl.: G. VAT­
TIM0, Schleiermacher filosofo dell'interpretazione, Milano, Mursia, 1968 (con bibliogràfia).
720 FILOSOFIA MODERNA

che per educazione e stato doveva necessariamente ricavare dalla


religione. Tolti i caratteri storici positivi condannati dalla Auf­
kliirung la religione deve adattarsi anche all'indefinito amore pani­
co della Romantik, riducendosi ad un atteggiamento assai generico
dell'animo che oltre le meschinità dell'egoismo apriva a una impre­
cisata assolutezza nell'ambito dell'esteticità: sentimento religioso.
La religione non è un sapere, non è un agire: si situa piuttosto
nelle vicinanze dell'arte e dell'esperienza sentimentalmente vissuta.
Le emozioni suscitate dalla passione amorosa e dal godimento più
o meno contemplativo della natura paiono gli stadi più prossimi al­
la religione tanto che talora i confini tra queste aree del sentire non
paiono, per la natura stessa del mezzo in cui si sostengono, gran
fatto definiti. Alla teoria e alla prassi si affianca la forma del senti­
mento, che consentanea ma autonoma rispetto a ciascuna delle altre
forme, sembra avere nella religiosità la sua attuazione compiuta.
La vita spirituale - non diversamente dalla Natura inconsape­
vole - è retta da una legge trascendentale, che la fa scaturire dalla
tensione tra due polarità opposte: l'impulso alla concentrazione
nell'individuo parziale e l'impulso alla dilatazione nella totalità
dell'essere. Da questo secondo impulso, che non è separabile co­
munque dal primo, viene lo slancio metafisico alla conoscenza del­
l'ordine del Tutto, lo sforzo morale verso la libertà dell'universale
e il gusto dell'Infinito in cui consiste la religione.
« ... la Divinità si è costretta secondo una legge immutabile a
dividere in due all'infinito la sua grande opera, a fare nascere
ogni essere determinato unicamente dalla fusione di due forze op­
poste e di realizzare ciascuno dei suoi pensieri eterni in due for­
me gemelle tra loro contrastanti ma inseparabili e sussistenti in
reciproca relazione... Ogni vita non è che il risultato di un con­
tinuo assimilare e rifiutare, ogni cosa è quella che è solo in quanto
riunisce e tiene insieme in una maniera peculiare le due forze di
fondo della Natura, l'assetato attrarre a sé e il desto e vivace pro­
pagarsi... Ogni anima umana non è che un prodotto di due
impulsi: uno è il tendere ad attrarre a sé tutto ciò che la circonda,
a coinvolgerlo nella propria vita, a risucchiarlo, se possibile, nella
propria intima essenza; l'altro è aspirazione a diffondere sempre
più all'esterno fino dall'intimo il proprio essere individuale a per­
meare ogni cosa, a farne tutti partecipi senza tuttavia esaurirsi. Il
DA KANT A FICHTE 721

primo è volto al piacere, brama le singole cose che gli si offrono�


si acquieta quando giunge ad afferrarne una ed opera solo meccani­
camente sempre su ciò che è più vicino. Il secondo sdegna il go­
dimento e si volge solo ad un'attività in costante crescita ed eleva­
zione; trascura le cose singole e le apparenze proprio in quanto le
permea e trova solo forze ed essenze; vuole tutto pervadere, tutto
colmare di ragione e di libertà e ha perciò un moto infinito e cerca
e produce dovunque libertà e unità, potenza e legge, ordine e armo­
nia... ogni anima partecipa delle due funzioni originarie della na­
tura spirituale... » 26•
La vita è tanto più perfetta quanto maggiore è la tensione tra
la polarità :finita e la polarità infinita da cui emerge tanto più ori­
ginale l'individuo che si rivela in forma di eroe, di legislatore, di
scopritore, di dominatore della natura, di buon demone, autenti­
co inviato di Dio e dispensatore di felicità. La meta.fisica e la morale
rischiano di perdere fecondità attenuando uno dei due poli della
vita spirituale: la religione nella sua peculiare dimensione di intui­
zione e sentimento individuale dell'Infinito garantisce sempre la
vita. « Essa non brama a determinare e definire la natura dell'Uni­
verso come la metafisica; non brama come la morale a plasmare e
perfezionare l'uomo sulla base della sua libertà e del suo divino ar­
bitrio. La sua essenza non è né pensiero né azione bensl intuizione
e sentimento. Vuole intuire l'Universo, vuole devotamente presta­
re ascolto alle sue proprie manifestazioni ed operazioni, vuole con
infantile passività lasciarsi prendere e ricolmare dalle sue immediate
influenze » n_ Alla gravitazione verso il finito propria della cono­
scenza si oppone l'aspirazione alla assoluta affermazione di sé nella
libertà perseguita dalla morale: l'umile abbandono alla contempla­
zione del Tutto è il contrappeso equilibratore della religione.
« La meta.fisica procede dalla natura finita dell'uomo e vuole
determinare consapevolmente in base al concetto più semplice di
cui dispone nell'ambito delle sue forze ciò che l'universo può es­
sere per l'uomo e come deve necessariamente essere considerato
da lui. Anche la religione vive l'intera sua vita nella natura ma
nella natura infinita del Tutto, dell'Uno e del Ciascuno; in quie-

" Reden an die Gebildeten unter ihren Veriichtern. Ueber die Religion, Berlino,
1799, pp. 5-7.
21 Ib., p. 50.
722 FILOSOFIA MODERNA

to abbandono vuole caso per caso · intuire e pr�sentire ciò che


conta in essa ogni singolo essere compreso l'uomo, e dove deve
stare e operare in questa eterna fermentazione di forme e di enti.
La morale procede dalla coscienza della libertà, di cui vuole dila­
tare all'infinito il dominio e a cui vuole assoggettare ogni cosa;
la religione spira là dove la libertà è da sé già ridiventata Natu­
ra, comprende l'uomo al di là del gioco delle sue forze particolari
e della sua personalità e lo vede dal punto di vista per cui egli
deve essere ciò che è, voglia o non voglia...
Pretendere di avere una speculazione ed una prassi senza re­
ligione è temeraria arroganza, è impudente inimicizia nei confron­
ti degli Dei, è l'empio atteggiamento di Prometeo che vilmente ru­
bò ciò che in tranquilla sicurezza avrebbe potuto chiedere e at­
tendere. Di rubato l'uomo ha soltanto il sentimento della sua infi­
nità e simiglianza con la Divinità, e questo possesso ingiusto non
gli può giovare, se non si rende consapevole altresl della sua limi­
tatezza, della contingenza della sua intera natura, dello scomparire
senza traccia di tutto il suo esistere nell'Immenso » 28•
Schleiermacher rampogna la filosofia contemporanea che hebria­
ta dalla speculazione metafisica rischia di nullificarsi nell'idealismo
e invoca Spinoza come colui che alle costruzioni della escogitazio­
ne dialettica oppone la contemplazione della realtà che si impone
dell'Universo-Tutto.
« Ogni essere finito sussiste unicamente grazie alla determina­
zione dei suoi confini, che devono essere comunque ritagliati sul­
la base dell'infinito. Solo così, entro questi limiti, può a sua
volta essere infinitamente ed avere una forma propria: altrimenti
tutto si perde per voi nell'uniformità di un concetto generale.
Perché per tanto tempo la speculazione vi ha dato anzi che un si­
stema un abbaglio e in luogo di pensieri parole? Perché non è
stato che un vuoto gioco di formule che davano risultati sem­
pre diversi e alle quali non corrispondeva mai nulla? Perché man­
cava di religione, perché non l'animava il sentimento dell'Infinito,
perché l'aspirazione ad esso, la reverenza nei suoi confronti non
costrinsero i suoi pensieri aerei e leggeri ad assumere una più
salda consistenza per salvarsi da questa violenta pressione. Dal-

" lb., pp. 51-52


DA KANT A FICHTE 723

l'intuizione deve tutto partire e colui a cui manchi la brama di


intuire l'Infinito non ha punto di riferimento -·- e davvero non
ne ha bisogno! - per sapere se ha pensato qualcosa di valido.
E che sarà del trionfo della speculazione, del perfetto e ben tor­
nito Idealismo se la religione non gli farà da contrappeso e gli
faccia presentire un realismo superiore a quello che esso con tan­
to ardimento e pieno diritto calpesta? Nullificherà l'Universo,
proprio nel momento in cui gli parrà di forgiarlo, lo abbasserà
a mera allegoria, ad un'immagine umbratile da nulla della nostra
propria limitatezza. Sacrificate con me con reverenza un ricciolo ai
Mani del santo ripudiato Spinoza! Lui penetrò l'alto spirito del Tut­
to! L'infinito fu per lui principio e fine, l'Universo il suo amore
unico ed eterno; in santa innocenza e profonda umiltà egli si spec­
chiò nel Tutto eterno e si accorse di quanto egli a sua volta ne fos­
se lo specchio più onesto: Era pieno di religione e di Spirito Santo
e per questo anche sta unico e inarrivato maestro nella sua arte,
eccelso al di sopra della corporazione profana, senza discepoli e
senza diritti di cittadinanza! » 29•
La religione è intuizione e sentimento dell'Universo: propria
dell'atteggiamento del sentire è la passività e la particolarità, men­
tre il termine Universo (Welt), Infinità, Tutto favorisce almeno
una equivocazione in senso panteistico: se si hanno alcuni caratteri
dell'atteggiamento religioso a parte subjecti, l'indeterminatezza del­
l'oggetto della pietà fa si che quest'ultima si intorbidi di emozioni
profane, seguendo la china romantica.
« Intuire l'Universo - familiarizzatevi per favore con questo
concetto - è l'angolatura dell'intero mio discorso, è la formula
universalissima e suprema della religione, in base alla quale po­
trete ritrovare ogni luogo di essa, in base a cui si può definirne nel­
la maniera più esatta la natura ed i limiti... L'Universo è in in­
cessante attività e si manifesta a noi in ogni istante. Ogni for­
ma che esso produce, ogni essere a cui dona secondo la pienezza
della vita un'esistenza separata, ogni accadimento che esso libera
dal suo ricco grembo sempre fecondo è un suo agire su di noi: ac­
cogliere ogni singolo essere come una parte del Tutto, accogliere
ogni ente finito come rappresentante dell'infinito è dunque religio-

29
Ib., pp. 53-55.
724 FILOSOFIA MODERNA

ne. Ciò invece che vuole andare oltre e penetrare più a fondo nel­
la natura e sostanza del Tutto non è più religione e se lo si vorrà
considerare ancora tale, si degraderà inevitabilmente a vuota mito­
logia » 30•
Pesanti conseguenze comporta il rifiuto di ogni struttura con­
cettuale e unità logica atta a garantire consistenza e universalità
alla religione che si risolve così in un'ipotetica esperienza pura.
« L'intuizione è e rimane sempre qualcosa di singolo, di stacca­
to: una percezione immediata e nulla più; operare collegamenti
e farne un tutto unitario non è già compito del senso bensì del
pensare astratto. Così la religione: si ferma alle esperienze imme­
diate dell'esistenza e dell'attività dell'Universo, alle singole intui­
zioni e ai singoli sentimenti; ogni esperienza è un'opera a sé stante
senza connessione con altre né dipendenza; nulla sa di deduzione
e collegamento: sono cose che tra tutte ripugnano alla sua na­
tura » J1.
La molteplicità intuita si amalgama nella coscienza nel mezzo
del sentimento.
« Non si pensi però che intuizioni e sentimenti religiosi possa­
no essere separati sia pure nell'attività primigenia dell'animo...
L'intuizione senza sentimento è nulla e non può avere né la giu­
sta origine né la giusta forza, parimenti nulla è il sentimento
senza l'intuizione: entrambi sono qualcosa solo e in quanto so­
no originariamente una cosa sola e indivisa. Il primo misterioso
istante che c'è in ogni percezione sensibile, anteriormente alla se­
parazione stessa di intuizione e di sentimento, in cui senso e og­
getto si sono confusi l'uno nell'altro in unità, prima che ciascuno
sia ritornato al suo luogo d'origine - so come sia indescrivibile
e con che rapidità passi, vorrei però che poteste afferrarlo e rico­
noscerlo anche nell'attività più alta religiosa e divina dello Spi­
rito. Fossi capace e mi fosse consentito esprimerlo, almeno indi­
carlo senza spezzarlo! È fugace e trasparente come il primo alito
con cui la rugiada anima i fiori che si risvegliano, pudico e tenero
come un bacio di fanciulla, santo e fecondo come un abbraccio co­
niugale; anzi non è solo simile ma è proprio la stessa cosa.

"' Ib., pp. 55-56.


31
Ib., p. 58.
DA KANT A FICHTE 725

« Rapida e incantevole si svolge un'apparizione, il darsi in im­


magine dell'Universo. Come si forma l'amata e mai sempre cercata
immagine, l'anima mia le corre incontro, l'abbraccio non come om­
bra ma come il santo Essere stesso. Giaccio sul petto del mondo in­
finito: ne sono in quest'istante l'anima, perché ne sento tutte le
forze e l'infinita vita come vita mia propria; è in quel momento
la mia carne perché ne penetro i muscoli e le membra come miei
propri e i suoi nervi più nascosti si muovono secondo il mio sen­
tire e presentire come miei. Il minimo urto e si dissolve il San­
to abbraccio e solo ora l'intuizione mi sta innanzi come una forma
staccata: la misuro ed essa si specchia nell'anima aperta come l'im­
magine dell'amata che s'invola nell'occhio sbarrato del giovine e
solo ora si fa strada dal profondo il sentimento e il rossore del­
la vergogna e del piacere si diffonde sulla sua guancia. Questo
momento è il fiore più alto della religione. Se potessi procurar­
velo sarei un dio: il santo Destino mi perdoni per aver dovuto
svelare più che i misteri d'Eleusi. È il momento della nascita di
ogni vivente alla religione » 32•
In questi istanti di intenso sentire sembra altresl bruciarsi
l'ansia umana di immortalità dal punto di vista religioso. I dogmi
sono gli effetti sclerotizzati della riflessione su esperienze religiose
ormai trascorse e non sono elemento vivo della religione, la quale
si articola in una molteplicità di comunità, ciascuna delle quali ma­
nifesta una diversa maniera di sentire il Tutto. Pietà, umiltà, amore,
affetto sono modi propri del sentimento dell'Infinito: la religione
pone l'individuo in comunione oltre che con l'Universo con gli al­
tri e lo rende partecipe della storia dell'umanità nel suo incessante
progredire. Schleiermacher profila tre epoche nella storia della reli­
gione corrispondenti alla diversa concezione del Tutto, sublto dap­
prima come informe, poi come dialettica di valori parziali (poli­
teismo) e colto infine come autentica unità nel monoteismo e nel
panteismo. La religione non deve fissarsi in forme o pratiche, deve
piuttosto essere una musica di fondo che accompagna senza posa la
vita dell'uomo in ogni sua manifestazione, riconducendo nel sen­
timento la molteplicità dell'esperienza all'invalicabile onnipresenza
del Tutto.

" Ib., pp. 74-76.


726 FILOSOFIA MODERNA

Nei Monologen si enfatizza l'individualismo romantico: « di­


ventare sempre più ciò che sono è l'unico mio volere »; l'imperativo
morale è destinato ad essere assorbito nell'organismo vigoroso
e prepotente dell'io, che trova nell'arte la prima geniale espres­
sione di sé. Le lettere sulla Lucinda portarono a dissonante e al­
larmante tensione la fusione di autoaffermazione dell'io, di pas­
sione amorosa e di senso panico. Negli scritti più maturi lo slancio
appassionato regredendo svela un sottofondo deterministico, sulla
base del quale l'originale vita individuale non è che l'inevitabile
sviluppo di un germe preesistente e il Sollen morale la tensione
derivante dall'incapacità che un ente ha di seguire il suo destino
naturale: la volontà del singolo si perde nel concerto cosmico.
La Dialettica fu il tentativo di Schleiermacher di tradurre in
sistema le sue ii.flessioni parziali sotto lo stimolo della metodica
hegeliana. Egli rifiuta di sciogliere l'essere nel pensiero e difende
l'individualità molteplice dei pensanti; la trascendenza di Dio e
della persona umana non paiono tuttavia sufficientemente staccarsi
dall'Universo mondano e storico. Dio non è pensato positivamente
in sé e i suoi attributi sono relazioni con il finito.
CAPITOLO VENTIDUESIMO

J. G. FICHTE
(1762-1814)

1. Vita e opere

Per un filosofo che scrisse: « La filosofia che uno sceglte di­


pende da che uomo uno è» 1 non è privo di interesse conosce-

* L'edizione completa delle opere di Fichte è quella curata dal figlio: J. G.


FICHTE's, Siimtliche Werke hrsg. von J. H. Fichte, Berlin, 1845-46, 8 voll. (opere pub­
blicate dallo stesso F.); Nachgelassene Werke, Bonn, 1834-35, 3 voll. Gli 11 volumi
sono ristampati a Lipsia, Mayer e Miiller, s.d. È in corso una edizione critica delle
opere: J. G. FICHTE, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften,
Stuttgart-Bann Connstat, 1964... Una abbondante scelta delle opere è quella curata da F.
Medicus, della quale mi servo: FICHTES, Werke hrsg. von F. Medicus, Leipzig, Meiner,
1908-1912, 6 voll.
Traduzioni italiane: J. G. FICHTE, Sulla Rivoluzione francese, sulla libertà di pen­
siero, a cura di V. E. Alfieri, Bari, Laterza, 1966; Dottrina della scienza (comprende Sul
concetto della dottrina della scienza e i Fondamenti della d.s. del 1794) a cura di
A. Tilgher, Bari, Laterza, 1925; La seconda dottrina della scienza (1801) a cura di A.
Tilgher, Padova, Cedarn, 1939; La missione del dotto, a cura di C. Mazzantini, Torino.
S.E.1., 1956; Prima introduzione alla dottrina della scienza, a cura di L. Pareyson, in
« Rivista di Filosofia», 1946; La seconda dottrina della scienza (1798), a cura di L.
Pareyson, in « Rivista di Filosofia», 1950; Sistema della dottrina morale, a cura di
R. Cantoni, Firenze, Sansoni, 1958; La missione dell'uomo, a cura di R. Cantoni, 2• ed.,
Bari, Laterza, 1970; Filosofia della storia, a cura di A. Cantoni, Milano-Messina, Prin­
cipato, 1956; Guida alla vita beatiJ, a cura di A. Cantoni, Milano-Messina, Principato,
1950; Discorsi alla nazione tedesca, a cura di B. Allason, Torino, U.T.E.T., 1965. Su
Fichte: X. LfoN, La philosophie de Fichte, Paris, Alcan, 1902; Io., Fichte et son temps,
Paris, A. Colin, 1922-1927, 3 voll.; M. GuÉROULT, L'évolution et la structure de la
Doctrine de la science chez Fichte, Paris, Les Belles Lettres, 1930, 2 voll.; L. PAREYSON,
Fichte, Torino, Edizioni di «Filosofia», 1950, 2' ed. Milano, Mursia, 1976. A. RAVÀ,
Studi su Spinoza e Fichte, a cura di E. Opocher, Milano, Giuffrè, 1958.
' « Was fiir eine Philosophie man wahle, hangt davon ab, was man fiir ein Mensch
ist »: Erste Einleitung in die W. L., J. G. FICHTE Werke, hrsg. von F. Medicus, Bd.
III, p. 18. Da qui in avanti citerò le opere di Fichte in questa edizione indicando
,solo il numero (romano) del volume.
728 FILOSOFIA MODERNA

re qualcosa della vita 2• Nato a Rammenau, in Sassonia, nel 1762,


primo di otto fratelli, da gente di modesta condizione economica ( il
padre di origine contadina, fece poi il merciaio, egli stesso fece da
ragazzo il guardiano di oche), fu sempre fiero della sua origine po­
polana. F. Medicus nella sua Vita di Fichte porta testimonianze si­
gnificative di questo stato d'animo di Fichte nelle lettere e negli
scritti. I motivi di questo stato d'animo sono vari; giacobinismo
alla francese nei primi scritti, nazionalismo negli ultimi, ma c'è
sempre l'esaltazione del popolo di fronte alle classi elevate. Aveva
nove anni quando il barone von Militz, colpito dalla memoria dimo­
strata dal ragazzo, lo fece studiare. Affidato prima al pastore Krebel.
poi, nel 1774, entra nel ginnasio di Pforta, dove riesce bene negli
studi, ma soffre della sua povertà che non gli permette certe picco­
le spese voluttuarie in uso. Nell'autunno del 1780 si iscrive all'Uni­
versità di Jena, come studente di teologia, poi a quella di Lipsia,
ma gli aiuti della famiglia von Militz erano scarsi, e la povertà lo
costringeva a dare lezioni private, il che gli impedì di laurearsi.
I sussidi dei von Militz cessarono del tutto; Fichte non riusd ad ot­
tenere una borsa di studio e iniziò la vita di precettore, partico­
larmente difficile per un carattere duro e orgoglioso come il suo.
Presso la famiglia Ott, di Zurigo, dove rimase due anni, dal 1788
al 1790, rimproverava costantemente ai genitori i loro errori peda­
gogici nell'educazione dei due bambini (un maschio di 10 anni e una
bimba di 7) che gli erano affidati. Li giudicava viziati, e probabil­
mente aveva ragione, ma non doveva essere piacevole per i genitori
ricevere ogni settimana un quaderno nel quale erano segnati tutti
i loro errori pedagogici. A Zurigo Fichte conobbe Giovanna Rahn
con la quale si fidanzò, ma dovette aspettare a sposarsi per le sue
precarie condizioni economiche. Tutte le sue speranze di ottenere un
impiego presso qualcuna delle numerose corti tedesche andarono
deluse ed egli dovette ripiegare sulle lezioni private.
Ma nel 1790 ebbe luogo un avvenimento di fondamentale
importanza nella vita di Fichte: uno studente gli chiese lezioni
sulla filosofia di Kant. Fino ad allora, dice Medicus, Fichte ave­
va saputo di Kant solo che aveva scritto un paio di libri che
nessuno capiva. Aveva letto, oltre ai classici greci e latini, Les-

2
Desumo le notizie biografiche dalla Vita di Fichte (Fichtes Leben) di F. Medicus,
nel I volume delle opere, e da X. LÉON, Fichte et son temps, cit.
FICHTE 72.9

sing, forse Spinoza e Leibniz, Rousseau, Montesquieu, e aveva


una concezione deterministica della realtà: tutto procede necessa­
riamente da un Ente necessario, anche le azioni dell'uomo, come atte­
stano gli Aforismi sulla religione e il deismo, del 1790. Costretto
a studiare Kant per dare lezioni al suo scolaro, Fichte si buttò a ca­
pofitto nella lettura delle opere del filosofo e fu colpito specialmen­
te dall'affermazione della libertà. In una lettera ad Achelis della fine
del 1790 scrive: « Debbo confessarle che ora credo pienamente nel­
la libertà dell'uomo, e vedo chiaramente che solo presupponendo la
libertà è possibile il dovere, la virtù e, in genere, una morale » ( cit.
da Medicus, I, p. 23 ). La convinzione della libertà gli dà anche un
senso di sollievo, di gioia. « Furono quelli i giorni più felici della mia
vita. Benché avessi difficoltà a procurarmi il pane quotidiano ero
forse uno degli uomini più felici del mondo » (ibid., p. 22). Fu dun­
que la filosofia morale di Kant quella che più colpl Fichte, ma egli
stesso dice che è: impossibile capire la Critica della ragion pratica
senza aver letto la Critica della ragion pura e cercò nella Critica del
Giudizio, di cui fece un estratto, i principi chiarificatori del si­
stema.
Dopo un nuovo tentativo, andato a vuoto, di fare il precettore
in una famiglia patrizia di Varsavia, Fichte si recò a Konigsberg per
conoscere Kant di persona. Nella ,;;ua prima visita a Kant fu ricevuto,
dice egli stesso, senza una particolare distinzione. Dalle lezioni di
Kant fu deluso, lo trovò soporifero (schlafrig); certo Kant non era
un oratore come Fichte: era un professore che faceva lezione; tutta­
via Fichte si trattenne ancora a Konigsberg e, per riuscire a far
breccia nella riservatezza kantiana, si propose di presentargli un
suo scritto. Si mise dunque a scrivere il Saggio di una critica di
ogni rivelazione, che redasse in brevissimo tempo, e il 18 agosto del
1791 lo presentò a Kant. Sembra che Kant leggesse solo in minima
parte il Saggio di Fichte; ne fu tuttavia favorevolmente colpito, poi­
ché, incontrando Borowski (che lo riferisce nella sua Vita di Kant,
p. 57 ), gli disse: « Lei mi deve aiutare, aiutare subito, a procurare
nome, e anche denaro, a un giovane senza pane; occorre ottenere la
buona disposizione di Suo cognato (il libraio Hartung): veda, quan­
do avrà letto il manoscritto che Le mando oggi stesso, di convincerlo
a pubblicare ». Hartung pubblicò il Saggio nel 1792 e diede a
Fichte il denaro che gli bastò per le necessità immediate. Lo pubbli-
730 FILOSOFIA MODERNA

cò senza il nome dell'autore e l'opera fu ritenuta di Kant. Il che fu


una fortuna per Fichte, poiché il Saggio fu letto e discusso molto più
che se fosse uscito con un nome ancora sconosciuto. Quando poi
Kant nella « Allgemeine Literaturzeitung » di Jena, dichiarò che
l'opera era di Fichte, ed ebbe parole di lode per l'autore, la fama di
Fichte ne ebbe vantaggio.
II Saggio in un primo tempo non aveva avuto il permesso di pub­
blicazione dalla censura prussiana, e questo suscitò l'indignazione
di Fichte che scrisse il Discorso sulla Rivendicazione della libertà di
pensiero etc. ( 1793) 3• La libertà di pensiero è un diritto inaliena­
bile dell'uomo, perché è condizione per l'osservanza della legge mo­
rale. All'obiezione che la libertà di pensiero porta a disordini e a
gravi mali sociali, Fichte risponde che altrettanti mali, se non peg­
giori, ha portato il dispotismo, e che il dovere dei principi non è
quello di procurare la felicità dei sudditi (la felicità può darla solo
Dio), ma di rispettare i loro diritti.
Nella primavera del 1793 Fichte tornò a Zurigo per sposare Gio­
vanna Rahn, ma dovette attendere alcuni mesi per ottenere i docu­
menti necessari e in questo periodo scrisse i Contributi per rettifi­
care i giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese, nei quali di­
fende il diritto che un popolo ha di mutare la propria costituzione,
quando tale mutamento sia giusto e saggio. Ora i principi per sta­
bilire la giustizia di un'azione non si possono ricavare dall'esperien­
za e dalla storia, poiché l'esperienza non può dirci come deve essere
una costituzione, e il problema della giustizia riguarda il dover es­
sere. Si vede qui l'applicazione dell'etica kantiana e una netta presa
di posizione antistoricistica: non la storia giudica la ragione, ma la
ragione con le sue eterne leggi giudica la storia.
Fichte si proponeva di scrivere ancora di filosofia politica guan-

3
Cosa curiosa: alla fine del 1791 Fichte aveva scritto in difesa dell'« editto sulla
religione» del ministro di Federico Guglielmo III, Wollner, lo stesso che vieterà in
Prussia la pubblicazione dell'articolo di Kant Sull2 lotta del principio buono e di quello
cattivo per il dominio sull'uomo, che andò poi a costit1,1ire la seconda parte de La re­
ligione nei limiti della sola ragione. I frammenti di Fichte sull'editto di religione sono
pubblicati da X. LÉON, Fichte et son temps, cit., voi. I, pp. 159-165. Ma forse l'atteg­
giamento di Fichte in difesa dell'editto cli religione ci sembrerà meno strano se pen­
siamo che nella conclusione della Critica di ogni rivelazione, dopo aver detto che solo
le dottrine religiose e morali suscitano un profondo interesse, non lasciano indifferenti,
aggiunge: « saremmo molto perplessi a decidere se una suprema tolleranza in un animo
nel quale non sia fondata su una lunga e costante riflessione sia un aspetto molto ap­
prezzabile » (I, p. 121), perché denoterebbe un certo disinteresse per i valori religiosi.
FICHTE 731

do la lettura dell'Enesidemo di Schulze gli fece sentire il bisogno


di andare ai fondamenti delle sue convinzioni morali, e già nella
recensione dell'Enesidemo (1793) comincia a delinearsi la sua fi­
losofia, esposta poi nei Fondamenti della Dottrina della scienza del
1794. Mentre egli, a Zurigo, era intento all'elaborazione della Dot­
trina della scienza, venne la chiamata all'Università di Jena, alla
cattedra che era stata di Reinhold, e come programma delle lezioni
Fichte redasse Sul concetto della dottrina della scienza o della così
detta filosofia. A Jena Fichte fu accolto bene ed ebbe subito grande
successo: teneva lezione nel corso « privato », ossia per gli speciali­
sti, sulla Dottrina della scienza, nel corso pubblico su La missione
del dotto. La Dottrina della scienza fu l'opera di tutta la sua vita:
oltre alle Introduzioni, delle quali parleremo, Fichte ne scrisse
molte altre redazioni, alcune pubblicate ( 1801) altre inedite. Gli
anni di Jena furono straordinariamente fecondi: oltre a scritti mino­
ri Fichte scrisse i Fondamenti del diritto naturale ( 1796 ), il Sistema
della dottrina morale ( 1798). La sua forte personalità, il fascino
esercitato dal suo genio, che eclissava i colleghi, gli procurarono
noie; altre noie gli vennero dalle corporazioni studentesche, che egli
avversava; ma la controversia più grave, che determinò il suo allon­
tanamento da Jena, fu quella sull'ateismo.
L'occasione che fece esplodere l'opposizione a Fichte fu la pub­
blicazione nella sua rivista, il Philosophisches Journal, di un arti­
colo di Forberg, già discepolo di Reinhold, poi ascoltatore entusia­
sta di Fichte e docente nell'Università, su Lo svolgimento del con­
cetto di religione. La religione era ridotta a fede in un ordine morale
del mondo. Il concetto di Dio è estraneo alla religione o almeno non
ha in esso nessuna importanza: ci può essere vera religione anche
col politeismo, purché si creda al governo morale del mondo. Né
l'esperienza né la speculazione possono dar origine alla religione, ma
solo il desiderio che il bene morale trionfi. Alla domanda: « esiste
Dio? » si deve rispondere: « non si sa »: questo è un problema di
curiosità teorica, non di religione. Un ateo può essere religioso. L'ar­
ticolo di Forberg fu pubblicato, pare a malincuore, da Fichte, che,
nello stesso numero della rivista pubblicò in risposta a quello di
Forberg un articolo Sul fondamento della nostra fede nella Divina
Provvidenza. In questo articolo Dio è identificato con l'ordine mo­
rale stesso. Fichte si oppone quindi a Forberg perché afferma che
732 FILOSOFIA MODERNA

non è possibile dubitare della esistenza di Dio; certo Dio non è una
cosa, una sostanza, la religione non aggiunge alla moralità se non
una fiducia, una speranza che il bene trionfi. Nello stesso anno usci
uno scritto anonimo intitolato Lettera di un padre a suo figlio stu­
dente sull'ateismo di Forberg e di Fichte in cui, come dice il titolo,
si accusavano Forberg e Fichte di ateismo. La lettera provocò un
decreto del sovrano, il Principe-elettore di Sassonia, che ordinava
la confisca del fascicolo in cui erano pubblicati i due scritti, e chie­
deva alle autorità accademiche di punire gli autori. Fichte rispose
con un Appello al pubblico contro l'accusa di ateismo pubblicato
sul « Philosophisches ]ournal » del 1799, trovò numerosi difensori,
fra i quali Reinhold e Federico Schlegel, e mandò al sovrano una
giustificazione giuridica.
Il carattere di Fichte non era il più adatto ad appianare le cose;
anche Goethe, che gli era amico e aveva cercato di aiutarlo, a un
certo momento se la vide persa e Fichte dové lasciare l'Università
di Jena.
Dietro consiglio di Federico Schlegel andò a Berlino, dove ten­
ne lezioni in forma privata e scrisse La Missione dell'uomo e Lo
Stato commerciale chiuso (1800). Nel 1801 e nel 1804 espose nel­
le sue lezioni (pubblicate postume) la Dottrina della scienza in una
forma nuova che rivela una particolare attenzione ai fondamenti
metafisico-religiosi della sua filosofia. Alla dottrina della religione
è dedicata l'Introduzione alla vita beata (1806); alla filosofia della
storia i Lineamenti dell'epoca presente (1806). Nel 1805 Fichte
fu chiamato all'Università di Erlangen, ma vi rimase poco tempo,
perché con la pace di Tilsit Erlangen fu tolta alla Prussia, e ritornò
a Berlino, che abbandonò temporaneamente quando fu occupata dai
Francesi. La sconfitta subita dalla Prussia suscita in lui un acceso na­
zionalismo: egli aveva sempre sottolineato la comunità (Gemein­
schaft) fra gli uomini, fondata sulla ragione, ma ora questa comu­
nità è intesa come comunità nazionale per conservare la quale tutto
è lecito: Fichte apprezza e loda Machiavelli. al quale dedica un sag­
gio. Sono di questi anni i Discorsi alla nazione tedesca (1808) e un
progetto di università, considerata come il seminario di una nuova
patria rinnovata, nella quale gli studenti avrebbero dovuto fare
un'austera vita comune. L'Università di Berlino fu fondata nell'au­
tunno del 1810, su un progetto più realistico di quello di Fichte,
FICHTE 733

il quale però fu nominato dal Re, professore e decano (preside) del­


la Facoltà di Filosofia ed eletto poi Rettore. Durante la guerra
contro Napoleone Fichte fece una energica propaganda patriottica;
la moglie era infermiera volontaria negli ospedali militari e fu col­
pita dal colera, ma guarl; il filosofo invece ne fu pure colpito e ne
mori il 29 gennaio 1814.

2. Le « Introduzioni » alla « Dottrina della scienza »

Le opere filosofiche di Fichte non sono di facile comprensione,


e la difficoltà fu sentita anche dai contemporanei, per venire incon­
tro ai quali il filosofo cercò di esporre il suo pensiero in alcuni scrit­
ti dedicati anche ai non specialisti. Uno di questi è la Prima intro­
duzione alla dottrina della scienza del 1797, dalla quale prendere­
mo le mosse. L'esortazione iniziale accenna un motivo sul quale
Fichte ritorna spesso: « Osserva te stesso; distogli lo sguardo da
tutto quanto ti circonda e rivolgilo al tuo intimo: questa è la pri­
ma cosa che la filosofia esige da chi prende a coltivarla. Non di
qualcosa fuori di te si tratta, ma unicamente di te stesso » (III, p.
6; trad. Pareyson, p. 180).
In noi stessi troviamo diverse rappresentazioni: alcune dipendo­
no dalla nostra volontà, di fronte ad altre invece ci sentiamo passi­
vi: si tratta di indagare da che cosa dipendano queste ultime, che
costituiscono ciò che è comunemente chiamato esperienza. La filoso­
fia deve render ragione dell'esperienza. Ora ci sono due tipi fonda­
mentali di filosofi.a: quello che spiega l'esperienza con la cosa e
quello che la spiega con l'intelligenza; il primo è il dogmatismo, il
secondo l'idealismo. L'idealismo ha un primo vantaggio sul dogma­
tismo, ed è che il principio che esso assume per spiegare l'espe­
rienza è una realtà di cui si ha immediata coscienza: l'io in sé « si
presenta effettivamente nella coscienza come qualcosa di reale »
(III, p. 11; trad. Pareyson, p. 185), la cosa in sé invece « è una
mera invenzione e non ha realtà alcuna » (ibid). E Fichte sottolinea
che l'io in sé, di cui si ha coscienza, è l'io in quanto agisce libera­
mente. Questo però è solo un vantaggio dell'idealismo, non una di­
mostrazione, poiché il dogmatismo, che pur deve ammettere il fatto
della coscienza, spiega questa, « compresa la presunzione di essere
liberi », come un prodotto della cosa. Il dogmatico coerente è quin-
734 FILOSOFIA MODERNA

di fatalista (determinista) e materialista. Idealismo e dogmatismo


non si possono quindi confutare a vicenda perché la loro opposi­
zione è sul primo principio della filosofia e l'assunzione dell'uno o
dell'altro principio è di carattere pratico, è il frutto di una scelta,
che corrisponde al grado di umanità, di autenticità umana. « Ora
vi sono due gradi di umanità; e finché il secondo non sarà stato,
nel progresso del genere umano, universalmente raggiunto, vi so­
no due tipi principali di uomini. Alcuni, non essendosi ancora
elevati al pieno senso della propria libertà e assoluta autonomia,
trovano se stessi solo nel rappresentare le cose ... », si concepi­
scono come un prodotto delle cose stesse. « Ma chi diventa con­
sapevole della propria autonomia e indipendenza... non ha bisogno
delle cose a sostegno del proprio io... L'io, che egli possiede e che
lo interessa, toglie quella fede nelle cose; egli crede per impulso
alla propria autonomia, la afferma con affetto. La sua fede in sé
è immediata» (III, pp. 17-18; trad. Pareyson, p. 190). L'uomo
che si crede libero, che afferma la libertà, deve conseguentemente
affermare che le cose, la natura, sono poste dall'Io, e non vice­
versa. Fichte aggiunge poi altri argomenti per giustificare l'afferma­
zione di idealismo: insiste sopra tutto sulla « immediata congiunzio­
ne » che, nella coscienza di sé, c'è fra essere e vedere, e chiama es­
ser per sé il modo di essere dell'autocoscienza.
La Prima introduzione ci sembra importante perché illustra le
origini etiche dell'idealismo di Fichte, perché ci indica le illazioni
che egli ha tratto da quella affermazione della libertà che aveva tro­
vato in Kant e che lo aveva tanto colpito. Ma per trarre quelle illa­
zioni occorreva uno svolgimento, e di questo svolgimento fu occa­
sione la lettura dell'Enesidemo 4. In una lettera del dicembre 1793
Fichte scrive che la lettura dell'Enesidemo lo ha disorientato: « ha
messo in crisi il mio sistema dalle fondamenta. E non si può vivere
a cielo aperto: bisogna che io lo ricostruisca. Il che sto facendo as­
siduamente da sei settimane, E Lei si rallegri del risultato: ho sco­
perto un nuovo fondamento dal quale si può agevolmente dedurre
tutta la filosofia. Kant ha la vera :filosofia, ma solo nei suoi risultati,
non nei fondamenti. Questo pensatore unico diventa sempre più
ammirevole ai miei occhi; credo che abbia un genio che gli rivela la

' Cfr. sopra, pp. 710 ss.


FICHTE 735

verità senza mostrargliene i fondamenti. Insomma, fra un paio d'an­


ni avremo, credo, una filosofia che sarà pari alla geometria per evi­
denza» (cit. da Medicus, I, p. L). Occorse anche meno di un paio
d'anni per avere i Fondamenti della dottrina della scienza, ma pri­
ma vediamone l'annuncio nella recensione all'Enesidemo. Fkhte è
d'accordo con Schulze nel ritenere che il primo principio della fi­
losofia non può essere un fatto, il « fatto della coscienza » di cui
parlava Reinhold; può però, anzi deve essere un atto (Thathandlung),
una attività. Se si concepisce cosl il principio della :filosofi.a è pos­
sibile un sapere assoluto; il sapere assoluto infatti non è possibile
se l'assoluto è concepito come una cosa, un in sé, ma è possibile
se l'assoluto è inteso come un io: dell'io sono, sono simpliciter per­
ché sono, si dà intuizione intellettuale (I, p. 16).
Su questo concetto di intuizione intellettuale Fichte ritorna
nella Seconda introduzione alla dottrina della scienza del 1797. La
prima era rivolta a lettori ancora ignari di :filosofia; la seconda è ri­
volta « a quei lettori che hanno già un sistema :filosofico » ed è in
buona parte una risposta alle obiezioni che erano state mosse ai
Fondamenti della dottrina della scienza, ma svolge anche efficace­
mente la sua funzione introduttiva al sistema. Il problema è lo stes­
so di quello posto nella Prima introduzione: donde ha origine i1
mondo dell'esperienza? come è possibile un essere per noi? Si cerca
dunque un fondamento, una ragione (Grund) dell'essere che ci si
presenta, e questo fondamento deve essere diverso da ciò che è
fondato: è l'Io come azione. L'Io non è una cosa che sia soggetto
di attività: è attività. « In virtù di questo atto ... , in virtù di un
agire per l'agire... l'Io si costituisce originariamente per sé (wird
das Ich ursprunglich /iir sich selbst)» (III, p. 43 ). La :filosofia co­
mincia dal prender coscienza dell'Io come attività, e questo pren­
der coscienza è una intuizione intellettuale. « L'intuizione intellet­
tuale è l'immediata coscienza che io agisco e di quello che faccio:
è quella in cui so qualche cosa perché la faccio » (III, p. 47). L'in­
tuizione intellettuale va poi chiarita mediante il concetto, e il pri­
mo concetto che chiarisce l'intuizione intellettuale è il concetto di
azione, come opposta ad essere. Il più chiaro esempio di intuizione
intellettuale è la coscienza che abbiamo della legge morale.
Ma non ha Kant negato la possibilità di una intuizione intellet­
tuale? A questa obiezione Fichte risponde che l'intuizione intellet-
736 FILOSOFIA MODERNA

tuale negata da Kant è l'intuizione della cosa in sé, intesa come


« una creazione della cosa mediante il concetto», e in questo Fichte
è d'accordo con Kant, ma va oltre Kant quando conclude: la cosa
in sé non esiste. L'intuizione intellettuale affermata da Fichte è
l'intuizione di un agire, e non di un essere o di una cosa, e questa
non è mai stata negata da Kant; anzi è stata ammessa da Kant, an­
che se sotto altro nome, come appercezione trascendentale e
come coscienza dell'imperativo categorico. La coscienza dell'impe­
rativo categorico è « qualcosa di immediato e tuttavia non sensibile;
dunque è proprio quello che io chiamo ìntuizione intellettuale»
(III, p. 56 ). E Fichte si preoccupa di dimostrare ai kantiani che la
sua filosofia è la vera interpretazione del pensiero di Kant. « In ge­
nerale, qual è in due parole il contenuto della dottrina della scien­
za? Questo: la ragione è assolutamente autonoma; è solo per sé,
e solo essa è per sé. Quindi tutto ciò che essa è deve avere in lei e
solo da lei la sua ragion d'essere; e non deve essere spiegato con
qualcosa che sia fuori di lei, e che essa non potrebbe attingere sen­
za rinunciare a se stessa. In breve: la dottrina della scienza è idea­
lismo trascendentale» (III, p. 58), ed è la vera interpretazione del­
la filosofia kantiana, secondo Fichte, purché in Kant si distingua lo
spirito dalla lettera. Le cose in sé, di cui parla Kant, sono le cose
che l'Io finito si trova dinanzi; oggetti che l'Io pone quando si li­
mita e diventa io finito: qutsto è il realismo empirico di cui parla
Kant.

3. La « Dottrina della scienza» del 1794

Abbiamo cercato di presentare l'idealismo fichtiano attraverso


queste introduzioni per indicare i motivi profondi che stanno dietro
le astratte 5 deduzioni della Dottrina della scienza, la quale mira,
come abbiamo sentito, ad una evidenza pari a quella della geometria.
L'evidenza è infatti il carattere fondamentale della scienza, e la
filosofia deve essere scienza. Due sono i caratteri della scienza:
certezza e sistematicità, ma il primo è quello fondamentale, poiché
la sistematicità nasce dall'esigenza della certezza. Sistematicità

' Avverto però che, per chi scrive, "astratto" non ha affatto un significato di
valore negativo.
FICHTE 737

infatti vuol dire connessione, agganciamento di una proposizione ad


un'altra, e si aggancia una proposizione ad un'altra quando la prima
non è certa per sé, per far vedere che, se si nega la prima, si deve
negare anche l'altra con la quale essa è necessariamente legata. Deve
dunque esistere una proposizione certa per se stessa che fonda la
certezza delle altre legate con lei, delle altre con le quali « fa
sistema ». Tale proposizione è il principio fondamentale (Grund­
satz). Ogni scienza deve avere un principio fondamentale, altrimen­
ti le mancherebbe la certezza, e deve averne uno solo perché se ce
ne fossero molti non ci sarebbe bisogno di collegarli fra loro e quindi
mancherebbe la sistematicità. Ora si pongono due problemi: « Co­
me si può fondare la certezza del principio fondamentale in sé; co­
me si può fondare la pretesa di dedurre in un modo determinato la
certezza di altre proposizioni? » (Concetto della dottrina della
scienza, trad. Tilgher, p. 8). Ai due problemi deve rispondere la
dottrina della scienza e solo la dottrina della scienza può dare ca­
rattere scientifico alla filosofia. Se fosse 1ecito usare termini non
fichtiani, ma che mi sembrano adatti ad esprimere il pensiero di
Fichte su questo punto, direi: solo la dottrina della scienza può
essere filosofia come scienza rigorosa. La dottrina della scienza pe­
rò non fa che dare forma sistematica all'umano sapere in generale
(Concetto della dottrina della se., pp. 36-37); il che vuol dire: la
filosofia non è la scoperta di verità mai prima sapute, ma il chiari­
mento, l'approfondimento e la sistemazione di verità che l'uomo
già conosce oscuramente prima di far filosofia.
Il principio fondamentale della dottrina della scienza deve es­
sere non solo certo in se stesso, e quindi dare la forma della cer­
tezza alle altre proposizioni, ma deve anche contenere in sé ogni pos­
sibile contenuto della dottrina della scienza; e questo indica la
differenza fra dottrina della scienza e logica formale. Tale princi­
pio non può essere il principio di identità; poiché questo è solo ipo­
tetico: afferma cioè che se A esiste, A è A, ma non dice che esista
qualcosa. Ciò che nel principio di identità è assolutamente certo è
il rapporto di identità; e il rapporto è posto dall'Io giudicante. Ora
se non ci fosse A, non ci sarebbe neppure il rapporto; dunque se il
rapporto è posto dall'Io, anche A sarà posto dall'Io. Dunque il
principio fondamentale della dottrina della scienza è Io sono; e poi­
ché l'Io si coglie mentre giudica, ossia mentre agisce, l'Io si rivela
738 FILOSOFIA MODERNA

come azione. L'Io è dunque la realtà originaria; anche quando si


pensa una realtà in cui non ci fosse l'Io « si pensa, senza accorger­
sene, il soggetto assoluto come intuente quel sostrato [la pretesa
realtà] ; si pensa quindi, senza accorgersene, precisamente ciò da
cui si pretendeva di aver fatto astrazione, e ci si contraddice» (D.S. 6,
p. 57). L'Io di cui si parla non è l'io empirico, « la nostra cara per­
sona» che gli avversari avevano rimproverato a Fichte di mettere
al centro della realtà (III, p. 85), ma è ?'egoità, il soggetto asso­
luto. Il primo principio della dottrina della scienza è dunque: « Io
sono assolutamente, perché· sono », ossia « L'Io originariamente
pone il suo proprio essere» (D.S., p. 58).
E poiché non c'è coscienza dell'Io, autocoscienza, senza coscien­
za di un oggetto (ob-iectum) opposto all'Io, dal primo principio
scaturisce il secondo: l'Io si oppone al Non-io. Il secondo principio
ha qualcosa di nuovo rispetto al primo: la forma negativa, la quale
nasce dall'atto dell'opporre. « Perciò, tra gli atti dell'Io, si presen­
ta un atto di opporre - con la stessa certezza con cui, tra i fatti
della coscienza empirica, si presenta la proposizione: " non-A non
è uguale ad A " » (D.S., p. 62). Ma la stessa possibilità di opporre
presuppone l'identità della coscienza; c'è dunque un fondamento
comune al porre e all'opporre, perciò l'opposto, il Non-Io, è posto
dall'Io.
Ora se l'opposizione fra Io e Non-Io si attuasse interamente,
Io e Non-Io si annullerebbero e non ci sarebbe coscienza affatto;
d'altra parte, se essi continuano a sussistere, si dovrebbe conclude­
re che possono coesistere, che non si oppongono, e che il secondo
principio è falso. Per conservare gli opposti senza che si distruggano
bisogna ammettere che si limitino, e il limite implica la quantità.
Di qui nasce il terzo principio: « Io oppongo nell'Io all'Io divisi­
bile un Non-Io divisibile» (D.S., p. 70). C'è dunque un Io assoluto
che limita se stesso e, in quanto limitato (divisibile), ha di fronte a
sé un Non-Io.
R. Kroner 7 dice che nel terzo principio Fichte esprime i rappor­
ti fra Dio (Io assoluto), io (coscienza umana limitata) e mondo:
Dio si autolimita per diventare una coscienza :finita, che ha un og-

• Indicherò con D.S. i Principi fondamentali di tutta la Dottrina della scienza del
1794 (Grundlage der gesamte Wiss.tnschaftlehre), trar!. Tilgher, cit.
' Von Kant bis Hegel, I, p. 431.
FICHTE 739

getto (mondo) di fronte a sé. Nella seconda e terza parte della


Grundlage Fichte cerca di dimostrare come e perché i rapporti fra
Io assoluto, io umano e mondo si pongano proprio in questo modo.
Nella prima parte Fichte ha affermato che all'origine del reale sta
l'Io con la sua attività - ricordando che alla base dell'idealismo
sta quell'opzione della quale abbiamo parlato riferendoci alla Prima
introduzione (D.S., pp. 79 e 81) -; nella seconda parte si doman­
da come si concili con questo principio il fatto che l'oggetto mi
appaia come dato; come si spieghi la rappresentazione. E prima di
procedere alla soluzione del problema indica il metodo che se­
guirà.
Ciò che egli dice di questo metodo - metodo sintetico - è in­
teressante perché ci mostra quale profondo mutamento abbia su­
bito il concetto kantiano di sintesi a priori e perché è un preludio al­
la dialettica hegeliana. Fichte chiama antitetico (ma afferma che or­
dinariamente è chiamato analitico) l'atto col quale si cerca la nota,
l'aspetto, per cui le cose si oppongono; sintetico l'atto con cui si
cerca l'aspetto per cui gli opposti si identificano; il primo è all'ori­
gine dei giudizi negativi, il secondo dei giudizi affermativi. Ma nel­
l'esposizione del terzo principio si è visto, dice Fichte, che la sin­
tesi degli opposti non è possibile senza l'atto dell'opporre, e che
questo non è possibile senza l'atto del congiungere. « Nessuna anti­
tesi è possibile senza una sintesi » perché per trovare un carattere
in cui le cose si oppongono bisogna averle- colte sotto un aspetto
comune (non fosse altro come cose); e per trovare un aspetto co­
mune a più cose, bisogna averle colte come molteplici, e quindi di­
stinte, e per distinguerle bisogna che almeno in un aspetto esse sia­
no opposte. Cosi il terzo principio, dice Fichte, risolve il problema
kantiano di come siano possibili giudizi sintetici a priori. Si vede
dunque che il problema kantiano, che era un problema logico-gno­
seologico, trova in Fichte una soluzione metafisica, cioè una solu­
zione fondata su un determinato concetto della realtà.
Ma, come si diceva, il concetto fìchtiano di metodo sintetico
prelude anche alla dialettica hegeliana. Procedere sinteticamente
vuol dire infatti mostrare gli opposti che debbono essere conciliati
e cercarne la conciliazione; ma l'antitesi e la sintesi « non sono pos­
sibili senza tesi, senza un atto di porre assoluto », mediante il qua­
le l'Io è posto assolutamente (D.S., p. 75). Cercare la conciliazione
740 FILOSOFIA MODERNA

degli opposti vuol dire cercare l'assoluta unità, cercare di ricostrui­


re quell'assoluta unità che è all'origine del molteplice. Senonché
l'assoluta unità non si ricostruisce con l'attività umana, ci si ap­
prossima soltanto ad essa all'infinito. Il significato di questa affer­
mazione si capirà meglio quando si parlerà della :filosofia pratica.
Nell'atteggiamento teoretico l'Io pone se stesso come limitato
dal Non-io; cioè l'Io trova dinanzi a sé un mondo di cose, di ogget­
ti, dai quali è modificato, è affetto (Fichte usa questo termine kan­
tiano per indicare la sensibilità). Ma come può essere affetto, modi­
ficato, un lo che è nella sua essenza attività? Fichte risponde: in
quanto l'Io non è la totalità dell'agire, in quanto è una attività
determinata. Bisogna escludere che questa determinazione venga
da una realtà indipendente dall'Io, qualitativamente diversa dall'Io,
bisogna escludere, cioè, il « realismo qualitativo ». Bisogna esclu­
dere però anche un « idealismo qualitativo o dogmatico » cioè un
idealismo che faccia derivare il Non-io da un lo qualitativamente
diverso, inteso come causa reale del Non-io (inteso cioè come un
Dio creatore). Il vero idealismo è l'idealismo quantitativo, quello
che concepisce un unico lo che si autolimita, che pone in parte la
passività in sé. La passività « non può essere pensata come qualco­
sa di qualitativo », ossia come altro dall'Io, « ma solo come qual­
cosa di quantitativo, come una pura diminuzione di attività » (D.S.,
p. 115). E questa pura diminuzione di attività è come un dimenti­
carsi, un diventare inconsapevoli della propria attività. Fichte chia­
ma immaginazione produttiva questa attività inconsapevole.
Cosl è spiegato come sorga il Non-io. Resta da vedere perché
l'Io si ponga come limitato dal Non-io, ed a questo perché risponde
la parte pratica della Dottrina della scienza. Nella conoscenza l'Io
si pone come determinato dal Non-io, nell'attività pratica invece
l'Io si pone come determinante il Non-io; ora, affinché l'Io possa
determinare il Non-io bisogna che questo sia reale: il Non-io è
l'urto (Anstoss) necessario perché si desti la coscienza e sorga lo
sforzo (Streben) dell'Io a superarlo. Il Non-io è posto dall'Io asso­
luto perché l'Io finito possa prenderne coscienza come di un oggetto,
ossia di un ostacolo da superare, e si attui cosl come attività morale.
Se l'infinito fosse già in atto, l'oggetto, l'ostacolo, il limite scom­
parirebbero, e invece ci sono; bisogna dunque concepire l'Io come
infinito sforzo, come sforzo di essere infinito. Questa idea « è com-
FICHTE 741

presa nel più intimo del nostro essere », oerché il dovere di oltre­
passare ogni scopo finito raggiunto, di tendere sempre a qualcosa di
ulteriore « è l'impronta della nostra destinazione per l'eternità »
(D.S., p. 224).
Cosl Fichte ritiene di aver dato la piena giustificazione dell'eti­
ca kantiana: c'è un imperativo categorico perché c'è un Io assoluto
che deve realizzarsi (D.S., p. 214, nota).
Potrebbe a prima vista sembrare strano che questa filosofia su­
scitasse tanto entusiasmo non solo fra gli studenti di filosofia, ma
anche tra letterati e poeti. Ma, oltre al fascino esercitato dalla
persona di Fichte, dalla sua dirittura morale, dalla sua foga di apo­
stolo, dobbiamo tener presenti alcuni punti. Ce li indica X. Léon
per spiegare l'influsso di Fichte sul primo romanticismo e in parti­
colare su Federico Schlegel. Fichte afferma che non esiste la cosa
in sé come realtà indipendente dall'io: l'Io non ha da assoggettarsi
a nulla che gli sia estraneo. Ora questa visione della realtà offriva
una base speculativa alla concezione romantica del genio creatore.
L'attività dell'Io non ha limiti: se li pone per superarli, ma in sé
è infinita. Ora « render possibile questo trionfo della libertà è, per
il romanticismo, la funzione dell'arte. L'arte affranca lo spirito
umano dalla schiavitù del mondo sensibile e dalla costrizione so­
ciale; assicura il dominio del soggetto sul mondo esteriore; per­
mette quell'attuazione dell'ideale che è un'esigenza della ragione,
ma che la filosofia non ci fa raggiungere ». (Fichte et son temps, I,
p. 446 ). Piace ai romantici la tesi fichtiana secondo la quale il Non­
io è posto dall'immaginazione produttiva. Piace il concetto dell'uo­
mo come uno sforzo di farsi Dio, della presenza di Dio nella ten­
sione umana verso l'infinito. Echi fichtiani sente il Léon anche nel
legame che F. Schlegel vede tra poesia e filosofia. « Se la caratte­
ristica del genio artistico è il senso dell'universale, se è suo compito
di attuare l'assoluto, di svegliare il dio che è in fondo all'animo no­
stro, l'arte per il romanticismo... è strettamente legata alla filosofia,
alla religione, alla moralità » (ibid., p. 448 ). La religione è intesa
infatti come il senso dell'infinito, l'intuizione del divino; la filosofia
cerca di tradurre razionalmente il rapporto fra l'uomo e Dio: « la
poesia - sono parole di Schlegel riportate da X. Léon - nella sua
aspirazione all'infinito, nel suo disprezzo per l'utilità, ha lo stesso
scopo e le medesime avversioni della religione ». « La morale sta
·742 FILOSOFIA MODERNA

alla religione come la poesia sta alla filosofia »: applica alla con­
dotta umana il senso del divino. (ibid., p. 448). Infine X. Léon tro­
va in Fichte anche la fonte del concetto romantico di ironia. Egli
cita due definizioni dell'ironia di F. Schlegel: « una successione
continua di autocreazione e di autodistruzione », « una sintesi asso­
luta di antitesi assolute, il mutamento continuo e autoproducentesi
di due pensieri in lotta» (ibid., p. 449). Ancora: « l'ironia è la
più libera di tutt� le licenze, perché con essa ci si pone al di sopra
di se stessi; e tuttavia è la più obbediente a leggi, perché è assolu­
tamente necessaria ». « Nell'intimo è lo stato d'animo (Stimmung)
che guarda tutto dall'alto e si eleva infinitamente al di sopra di ogni
condizionato, anche al di sopra della propria arte, virtù, o geniali­
tà... » (F. Schlegel, citato da R. HAYM, Die romantische Schule,
4• ed., p. 296).
Due sono le caratteristiche dell'ironia cosl intesa: il presuppo­
sto di una contraddizione, di un contrasto fra il dato e l'aspirazio­
ne, e 2) l'assoluta libertà del soggetto che sovrasta. Ora questi
concetti sono presenti anche in Fichte. Ma la differenza fondamenta­
le fra Fichte e i romantici è che questi intendono la soggettività co­
me soggettività individuale: di qui una interpretazione radicalmen­
te diversa della moralità, che per i romantici sarà la 'genialità mo­
rale ' (è bene ciò che risponde alle aspirazioni dell'individuo genia­
le), mentre per Fichte resterà sempre l'obbedienza a una legge uni­
versale. Altri punti di divergenza rilevati da X. Léon sono la ten­
denza a concepire l'assoluto come l'universo - da parte dei ro­
mantici - anziché come il soggetto: di qui un panteismo naturali­
stico anziché un idealismo, come è quello di Fichte; e la valuta­
zione dell'arte come superiore alla filosofia, e quindi dell'intuizione
extra-teoretica come superiore alla ragione.

4. La missione del dotto

La Dottrina della scienza del 1 794 riflette le lezioni tenute


agli studenti di :filosofia; quelle per un pubblico più vasto ( o alme­
no le prime cinque) andarono a costituire una delle opere più note
di Fichte: La missione del dotto 8• Il dotto è quello che noi chia-

' Nel gergo che usa oggi si tradurrebbe: il ruolo dell'intellettuale.


FICHTE 74j

miamo l'intellettuale; Fichte vuol delinearne la funzione, il com�


pito nella società, e per questo cerca di delineare la missione del.:.
l'uomo. L'uomo in qùanto uomo è ragione, e in quanto tale è un fi­
ne in se stesso; << non esiste perché qualcos'altro deve essere,
ma perché egli deve essere» (I, p. 223 ). In quanto uomo determi­
nato è sensibilità e deve attuare la sua umanità nelle condizioni del­
la vita empirica; ma lo scopo è sempre quello di realizzarsi come
ragione, come lo, sicché la legge morale si può formulare cosl:
« Agisci in modo da poter pensare la massima del tuo volere come
legge eterna per te stesso» (I, p. 225). Per realizzare la propria.
umanità nelle condizioni empiriche bisogna imparare a modificare,
a plasmare se stessi, in quanto sensibili, e le cose: l'arte di modi­
ficare la propria sensibilità e le cose è la cultura (Kultur ), la quale è
vista quindi in funzione della moralità. La modificazione delle cose
esteriori perché corrispondano alla nostra volontà razionale è la
ricerca della felicità; la modificazione di noi stessi per raggiungere
la coerenza interiore è la ricerca della perfezione morale, alla quale
è subordinata la felicità. « Assoggettarsi tutta la natura irragione­
vole, dominarla liberamente e secondo la propria legge è il fine ul­
timo dell'uomo; fine ultimo irraggiungibile e che resterà eternamen­
te irraggiungibile, a meno che l'uomo non smetta di essere uomo
e non diventi Dio. Appartiene al concetto dell'uomo che il suo fine
ultimo sia irraggiungibile_ e il cammino verso di esso sia infinito.
La missione dell'uomo non è quella di raggiungere questo fine. Ma
egli può e deve avvicinarsi sempre più a questo fine; e perciò la
vera missione dell'uomo in quanto uomo. cioè in quanto essere
razionale, ma finito, sensibile, ma libero, è quella di avvicinarsi al­
l'infinito a questo fine»; non è la perfezione, ma il tendere infinita­
mente alla perfezione (I, p 228).
Per determinare poi la missione dell'uomo nella società, poiché
la società è la relazione fra esseri ragionevoli, Fichte si domanda
come sappiamo che esistano altri esseri ragionevoli, visto che cono­
sciamo immediatamente solo le nostre rappresentazioni. È il proble­
ma dell'intersoggettività. Fichte afferma che la soluzione può esser
data solo dalla filosofia della pratica: la tendenza fondamentale·
dell'uomo ad agire lo porta a riconoscere l'esistenza di altri esseri ra­
gionevoli e liber,i poiché l'uomo ha bisogno di instaurare con l'altro
una « azione reciproca per concetti» (oggi diremmo: un dialogo) e
un dialogo non si stabilisce se non fra uomini. Nei Fondamenti del
744 FILOSOFIA MODERNA

diritto naturale ( 1796) Fichte dice: « L'uomo diventa uomo solo


fra uomini; e poiché egli non può essere altro che uomo - e non
esisterebbe affatto se non fosse uomo - se ci debbono (sollen) es­
sere uomini è necessario che (mussen) vi siano più uomini» (II, p.
43 ). Ma l'umanità è un ideale: si deve essere uomini, e ognuno di
noi si sforza non solo di attuare in sé tale ideale, ma di condurvi
anche gli altri, e poiché non tutti si rappresentano nel medesimo
modo l'ideale umano, sorge una certa nobile lotta fra gli spiriti nella
quale vince sempre chi è moralmente migliore, anche quando ap­
parentemente il migliore soccombe. Fichte afferma qui la superiori­
tà della morale sulla storia, diversamente da Hegel, come vedremo,
per il quale nella lotta fra la virtù e il corso del mondo, è quest'ul­
timo quello che vince. La missione deJl'uomo nella società è quella
di instaurare una comunità di uomini liberi, cioè di trattare gli al­
tri come fini e non come mezzi. Non c'è società umana se gli altri
sono trattati come mezzi, se si cerca di dominare gli altri e di far­
ne i proprii schiavi; bisogna quindi concludere che ancora non c'è
una autentica società umana. « Non è ancora maturato in noi il sen­
timento della nostra libertà e autonomia: se lo avessimo dovrem ·
mo voler vedere intorno a noi esseri simili a noi, cioè liberi » (I,
p. 237); se vogliamo attorno a noi degli schiavi, vuol dire che sia­
mo schiavi noi stessi. E non si deve neppur cercare di rendere gli
altri virtuosi o felici contro la loro volontà. Il fine ultimo dell'uomo
nella società è il pieno e libero accordo di tutti nel perseguimento
dell'ideale; fine irraggiungibile come è irraggiungibile la perfezione;
la missione dell'uomo nella società è quella di tendere verso l'unità
di tutti, e questo tendere, questo avvicinarsi, costituisce non l'uni­
tà, ma l'unione fra gli uomini.
Si tratta di unione fra individui diversi, poiché la natura ha
fatto gli uomini diversi, mentre la ragione li fa uguali. La soluzio­
ne di questa antinomia fra natura e ragione si ha nella società quan­
do ognuno mette le proprie attitudini naturali al servizio della so­
cietà cercando di restituirle, con l'esercizio di una professione per
la quale ha attitudine, ciò che riceve dalla società stessa, dal la­
voro degli altri. È questa l'origine e la legittimazione delle diver­
se classi sociali (Stlinde). Ora anche quella dell'intellettuale è una
professione, anche gli intellettuali sono una classe: la loro missio­
ne nella società è quella di conoscere l'uomo e la società per miglio­
rarli; l'intellettuale deve essere un maestro e un educatore del ge-
FICHTE 745

nere umano, ma non potrebbe esser tale se non si dedicasse con im­
pegno alla scienza, se non si sforzasse di far progredire la disciplina
che ha scelto come particolare campo di studio: se spetta ad ogni
uomo impegnarsi nella professione che ha scelto, questo vale a mag­
gior ragione per l'intellettuale. E non potrebbe essere educatore del
genere umano se non fosse « l'uomo moralmente migliore della sua
epoca » (I, p. 261 ). L'intellettuale è quindi l'uomo che ha anche
come compito della sua particolare professione, come propria mis­
sione, quella che è la missione dell'uomo in quanto tale.
L'ultima lezione de La missione del dotto è in polemica con
Rousseau, con la sua concezione della società come corruttrice della
natura umana.

5. La filosofia del diritto

Dopo aver esposto, con la Dottrina della scienza, i fondamenti


della sua concezione morale e sociale, Fichte ne espone le applica­
zioni nella :filosofia del diritto e nell'etica.
Erano uscite in quegli anni molte opere sul diritto naturale, di
ispirazione più o meno kantiana, alcune delle quali cercavano di de­
durre il concetto di diritto da quello della moralità; Fichte invece
nei Fondamenti del diritto naturale, del 1796, intende giustificare il
concetto di diritto indipendentemente dalla morale. La legge mo­
rale è soltanto formale, quindi vuota: non si può perciò dedurre da
essa il diritto naturale, che deve avere un contenuto; si può invece
dedurre il concetto di diritto da quello di società umana. Concepito
il diritto come l'insieme dei rapporti fra soggetti liberi, Fichte si
propone di mostrare come dall'Io originario sorga una comunità di
esseri liberi.
Sappiamo già dalla Dottrina della scienza come l'Io si autolimiti
e si ponga come finito; ora il primo teorema del Diritto naturale
dice: un ente razionale finito prende originariamente coscienza di
sé come volontà libera. Non può trovarsi, infatti, nelle rappresenta­
zioni, che sono molteplici, né come il legame delle rappresentazioni,
poiché da rappresentazioni che già non contenessero l'Io, questo non
potrebbe mai esserne ricàvato. Nel porre la sua libera attività l'es­
sere razionale pone un mondo sensibile fuori di sé: come prassi pone
sé, come conoscente pone degli oggetti. A questo proposito Fìchte
7-16 FILOSOFIA MODERNA

o sserva che il filosofo non nega la constatazione del senso comune


.- c'è un mondo-, ma ha solo da spiegarla, da spiegare l'origine
di quel mondo che.il senso comune constata. Il conflitto tra la filoso­
fia (idealistica) e il senso comune nasce solo quando il senso comune
pretende di essere la giustificazione ultima della realtà, quando pre­
tende che il mondo sia l'assoluto, o quand0 la filosofia pretende di
sostituire il senso comune, di negare le sue constatazioni; ma se
ognuno dei due sta nel proprio ambito non c'è conflitto.
Il secondo teorema del Diritto naturale dice che « L'essere ra­
zionale finito non può attribuirsi una attività libera nel mondo sensi­
bile senza attribuirla anche ad altri, ossia senza ammettere l'esisten­
za di altri enti ragionevoli finiti » (II, p. 34). La dimostrazione di
questo teorema è abbastanza complicata, ma il motivo profondo è
quello che abbiamo già ricordato parlando della Missione del dotto:
l'uomo non diventa uomo se non fra uomini.
Il terzo teorema dice che l'essere ragionevole finito deve stare
con gli altri in un determinato rapporto che è il rapporto di diritto
(II, p. 45) e la formula che definisce tale rapporto è: « Io devo
(muss) in ogni caso riconoscere l'essere libero fuori di me come ta­
le; ossia limitare la mia libertà mediante il concetto della possi­
bilità della sua libertà» (II, p. 56). Così Fichte ritiene di aver de­
dotto il concetto di diritto indipendentemente da quello della mo­
ralità; in realtà il suo concetto dei rapporti fra gli uomini è tutto im­
perniato su una visione morale, fondata sul concetto dell'uomo co­
me soggetto libero, autore del suo mondo, fine e non mezzo.
Il diritto originario (Urrecht) è il diritto che ognuno ha alla
propria libertà - nei limiti in cui questa non viola la libertà al­
trui -; da questo deriva il diritto alla coazione (Zwangsrecht),
cioè il diritto di impedire con la forza ciò che viola la mia libèrtà, e
dalla necessità di regolare la coazione nasce la necessità dello Sta­
to, poiché il giudizio sul caso in cui occorra usare la coazione e
sulla durata della coazione stessa non può essere affidato alle parti
in causa, ma deve essere affidato ad un terzo, il quale non dovrà giu­
dicare a suo arbitrio, ma in base a leggi positive. Ma le leggi posi­
tive non avrebbero nessuna efficacia se non fossero accompagnate
da una forza capace di farle rispettare, e affinché abbiano con sé la
forza è necessario che ci sia lo Stato, il quale infligge la pena a
chi viola le leggi. La pena è una difesa dello Stato (Fichte prescin­
de da ogni aspetto morale) e un mezzo per migliorare il delinquente,
FICHTE 747

ossia per ricondurlo al rispetto della legge. Fichte ritiene poi di


poter dedurre dal diritto originario - che implica il diritto alla li­
bera disposizione del proprio corpo e il diritto di proprietà - il
modo in cui deve essere costituito lo Stato, e traccia una specie di
repubblica ideale, nella quale l'attività esteriore dell'individuo è
regolata piuttosto minuziosamente. Può essere degno di nota il fatto
che questo moralista, che mette al vertice di tutti i valori la digni­
tà e la libertà della persona; che vede, insomma, lo Stato in funzione
della persona, sottopone a un rigido controllo dello Stato l'attività
esteriore dell'individuo: non solo l'attività economica, ma anche,
per esempio, la scelta della professione, mentre Hegel, che ritiene,
come vedremo, la moralità un gradino inferiore della vita sociale
e sottopone alle esigenze dello Stato i valori morali, è poi molto più
liberale nelle applicazioni politiche.
Non descriveremo qui la costituzione ideale secondo Fichte e ri­
leveremo solo come alcune sue teorie sociali siano connesse con la
sua concezione morale. Il diritto di proprietà è connesso col dirit­
to al lavoro; l'individuo deve poter usare le cose (e quindi posse­
derle) per vivere: « ognuno deve poter vivere del suo lavoro » (II,
p. 216). Se uno non può vivere del suo lavoro perché è inabile, lo
Stato deve provvedere alla sua sussistenza, ma deve anche vigilare
a che non vi sia nessuno che viva senza lavorare: in uno Stato con­
forme a ragione non ci debbono essere né poveri né oziosi (II, p.
218). Per realizzare questa condizione lo Stato deve regolamentare
produzione, prezzi, esercizio delle professioni: solo l'attività scien­
tifica resta libera. Ne Lo Stato commerciale chiuso, del 1800, pro­
seguendo la strada iniziata nel Diritto naturale, Fichte sostiene an­
che che lo Stato deve provvedere entro i suoi confini a tutti i biso­
gni economici dei cittadini, quando le condizioni naturali lo per­
mettano o, quando si debba far ricorso a prodotti stranieri, il com­
mercio estero deve essere gestito dallo Stato.

6. La dottrina morale

L'Io trova se stesso come volontà, ha detto Fichte nel Diritto


naturale, e la volontà è assoluto tendere, « assoluta tendenza all'As­
soluto », tendenza ad autodeterminarsi, senza esservi spinta da qual­
cosa di esterno, aggiunge nel Sistema della dottrina morale del 1798
748 FILOSOFIA MODERNA

(II, p. 422). Ma non è una tendenza qualunque, come può esser


quella di una molla: è una tendenza consapevole, penetrata di in­
telligenza, e per questo la volontà è libertà. È infatti caratteristica
del soggetto, dell'intelligenza, in contrapposizione all'essere ogget­
tivo, quella di non essere già tutta data, già fatta, ma di essere un
attuarsi; una tendenza consapevole è dunque una tendenza che si
fa, si autodetermina, e in questo consiste la libertà. « L'essere ra­
zionale considerato come tale è ... il fondamento di se stesso. Ori­
ginariamente, ossia senza la sua attività, è assolutamente nulla:
deve farsi da sé, con la sua attività, ciò che deve diventare» (II,
p. 444). L'imperativo categorico - devi perché devi - esprime
quindi l'essenza dell'Io come libertà. In questo modo è dedotto
l'imperativo categorico, che in Kant si presenta un po' come una
qualitas occulta e può dar luogo ad interpretazioni fantastiche (per
esempio esser concepito come una legge ispirata dalla divinità). La
libertà è dunque immediatamente intuita, per Fichte, non postulata
dalla legge morale, come per Kant. « Io sono realmente libero è il
primo articolo di fede che ci apre la via a un mondo intelligibile e ci
offre in esso un saldo terreno» (II, p. 448). Sono libero, in un cer­
to senso, ma debbo diventare libero, in un altro senso: « Debbo
agire liberamente per diventare libero» (II, p. 547). La libertà che
debbo conquistare è un valore, la libertà nel primo senso, o libertà
formale, è la condizione di questo valore. Solo della libertà come
valore possiamo dire che si identifica con la legge morale.
Si tratta ora di vedere come la libertà possa attuarsi, quale
sia l'applicabilità della legge morale. Questa parte della Dottrina
morale è un lungo sforzo per superare il formalismo della morale
kantiana, come osserva G. Gurwitsch 9, sforzo che si capisce e può
riuscire a Fichte, poiché secondo lui non c'è fra mondo sensibile e
mondo intelligibile quell'« abisso immenso» che c'era per Kant,
visto che il mondo sensibile è creato dall'Io: l'Io può quindi ritro­
varsi ed attuarsi in questo mondo. « La nostra esistenza nel mon­
do intelligibile è la legge morale, la nostra esistenza nel mondo sen­
sibile è l'azione reale, il punto di unione di entrambe è la libert�
come facoltà assoluta di determinare la seconda mediante la prima >:
(II, p. 485). L'azione reale non è possibile senza un ostacolo da su-

' Fichtes System der konkreten Ethik, Tiibingen, Mohr, 1924, pp. 231 55.
FJCHTE 749

perare (questo, come abbiamo visto, è il motivo per cui l'Io oppone
a sé il Non-io) e nel superare l'ostacolo l'attività dell'io diventa sen­
sibile e temporale (ibid. ). Ma nel descrivere l'azione reale Fichte
rivaluta, rispetto a Kant, l'impulso sensibile e il sentimento, che è la
coscienza di sé come limitato. Il sentimento di una tendenza è il
desiderio (Sehnen), cioè l'indeterminato senso di un bisogno, quin­
di di una limitazione; e poiché il limite dell'Io è il Non-io, la na­
tura, ne segue che, in quanto sono impulso, io sono natura. L'im­
pulso, per realizzarsi, si foggia un organismo, e mediante questo
si attua e modifica la natura circostante; la brama si fa appetito (Be­
gehren) di un oggetto determinato. Ma non è l'oggetto a determina­
re l'appetito, è l'appetito che suscita l'oggetto: « Non ho fame per­
ché ci sia il cibo, ma vi è del cibo per me, perché ho fame (Il,
p. 518).
Poiché mi pongo come organismo, l'impulso naturale è essenzial­
mente tendenza a tener unito l'organismo nelle sue parti, ossia è
istinto di conservazione; poiché l'appetito tende all'oggetto, ma per
appropriarselo, per trasformare in me la cosa appetita, l'appetito
mira alla soddisfazione del soggetto, e la soddisfazione genera il
piacere. La tendenza sensibile è dunque tendenza al piacere.
Ma la soddisfazione degli impulsi, nell'uomo, dipende dalla liber­
tà: che vi sia in me un impulso, che io lo senta, non dipende da me,
ma dipende da me il soddisfarlo o no (II, p. 520); ora la moralità
consiste nel regolare la soddisfazione dell'impulso sensibile in modo
conforme alla natura spirituale dell'uomo. L'impulso sensibile ten­
de a qualcosa di materiale (ossia a un oggetto) soltanto per la ma­
teria; tende al godimento per il godimento; l'impulso puro (reiner
Trieb - che è poi l'impulso derivante dall'Io in quanto lo) tende
all'assoluta indipendenza del soggetto agente dall'impulso sensibile;
alla libertà per la libertà » (Il, p. 541 ). Sembra dunque che la mo­
ralità abbia solo un effetto negativo sull'impulso sensibile, e cosl
sarebbe, dice Fichte, se si trattasse la morale solo formaliter: la mo­
ralità sarebbe concepita solo come rinnegamento di sé, ma se si
considerano meglio le cose si vede che la moralità implica una va­
lorizzazione dell'impulso sensibile.
La moralità consiste infatti nel dare all'impulso naturale un
orientamento razionale. La piena coincidenza fra impulso puro e im­
pulso naturale sarebbe la perfezione, ci farebbe diventare Dio:
compito (missione) dell'uomo può essere solo quello di approssi-
750 FILOSOFIA MODERNA

marsi continuamente alla perfezione. E la natura offre lo spunto


alla moralità, perché « in ogni momento vi è qualcosa che è con­
forme alla nostra missione morale; e questo qualcosa è richiesto
anche dall'impulso naturale (se una fantasia corrotta non lo ha re­
so artificioso)» (Il, p. 545). Il che non vuol dire che l'impulso na­
turale sia sempre conforme alla legge morale, ma che offre la ma­
teria a cui l'impulso puro dà la forma. L'impulso puro è quello che
corrisponde all'Io assoluto, è la tendenza all'autonomia, alla liber­
tà. Per giudicare quando una determinata materia è in armonia
con l'impulso puro non occorrono complicati ragionamenti: abbia­
mo un sentimento che ci porta ad approvare o disapprovare un'azio­
ne, un sentimento che Fichte stesso paragona al sentimento esteti­
co, osservando però che mentre il sentimento estetico è un piacere,
il sentimento morale è « una fredda approvazione» (Il, p. 561 ).
Poiché l'impulso puro è la tendenza ad agire, il massimo vizio
è l'inerzia, il seguire passivamente l'istinto senza volere elevarsi
dalla sensibilità alla ragione: di qui derivano la viltà e la falsi­
tà. Dall'azione morale, che è affermazione della propria libertà ed
educazione degli altri alla libertà, Fichte distingue tuttavia l'agire
eroico (Il, p. 584), quello che esprime l'impulso vitale, l'audacia,
quello che domina nella storia e fra i grandi uomini storici; atteg­
giamento superiore a quello edonistico, ID'.! che non ha valore mo­
rale.

7. La filosofia della religione

Nel giovanile Saggio di una critica di ogni Rivelazione Fichte


si muove entro una concezione kantiana della religione. La religione
naturale si fonda sui postulati della ragion pratica: Dio è conce­
pito come la Ragione che sta a fondamentc e della legge morale e
della natura, sl che può piegare la natura alle esigenze della mo­
ralità, quindi può rivelarsi attraverso la natura, attraverso fatti na­
turali. La rivelazione di Dio attraverso fatti naturali straordinari
giova a risvegliare la coscienza morale in coloro che l'hanno asso­
pita. Per costoro bisogna che in certo modo la legge naturale di­
venti sensibile, e a questo provvede l'immaginazione, colpita da
fatti naturali. Non è necessario che questi deroghino alle leggi na­
turali per servire alla rivelazione: basta che siano creduti miraco-
FICHTE 751

losi, o che, pur essendo preordinati ab aeterno, si prestino, per le


circostanze in cui si avverano, a rivelare una verità morale.
Quando scriveva la Critica di ogni Rivelazione, Fichte non aveva
ancora elaborato il suo sistema filosofico: dopo aver esposto la Dot­
trina della scienza tornò a parlare di religione dal suo nuovo punto
di vista. Ne La Missione dell'uomo del 1800, dopo aver descritto il
passaggio, attraverso il dubbio, da una concezione deterministica al
sapere, cioè ad una concezione idealistica, Fichte afferma che il sa­
pere non svela ancora la missione dell'uomo, poiché non dà la realtà,
ma chiude l'uomo nel mondo delle sue rappresentazioni. La realtà è
solo oggetto di fede, e senza fede nella realtà, in una realtà da do­
minare e da trasformare, non c'è azione. Questa fede ha il carattere
di fede morale, ma proprio il suo carattere di fede morale, cioè di
fede nel valore dell'azione morale per se stessa, e non per i fini parti­
colari che essa può raggiungere, postula l'esistenza di un mondo in­
telligibile, un mondo in cui « la ragione infinita esiste in sé, la
ragione finita esiste in lei [ ragione infinita] e in virtù di lei » (III,
p. 399). Solo nel nostro spirito Dio, la ragione infinita, crea il
mondo perché possiamo foggiarlo secondo il richiamo del dovere. La
missione dell'uomo è appunto quella di seguire la voce del dovere,
sentita come la voce di Dio in noi, accettando come disposizione di­
vina tutto quello che può accadere, tutti gli avvenimenti della no­
stra vita.
Tono più specificamente religioso ha la Dottrina della scienza
del 1804, postuma, e l'Introduzione alla vita beata, del 1806, nelle
quali Fichte si ispira al Vangelo di S. Giovanni, dandone una inter­
pretazione filosofica. La vita beata o beatitudine, è la pienezza della
vita, e la vita è amore. L'amore è la sintesi che ricostituisce sul piano
della consapevolezza quell'unità della vita che è stata scissa dal­
la coscienza. Affinché sorga la coscienza bisogna infatti che l'Io
opponga sé a sé, si faccia oggetto, quindi si scinda in certo modo;
ora l'amore riunisce a sé l'Io che si è opposto a sé nella coscienza,
e in questa sintesi consiste la vita. Ma la vita, che è amore, si
identifica con l'Essere, poiché non c'è essere che non sia vita. L'Es­
sere è uno e semplice: vi è un Essere solo; immutabile (V, p. 116).
L'immutabile è Dio ed ogni autentica vita umana è vita in Dio e amo­
re di Dio. Il mutevole e il molteplice è solo apparenza, perciò « ogni
vita che rivolga il suo amore al contingente e cerchi soddisfazione
(Genuss) in un oggetto che non sia l'Eterno e l'Immutabile... è nulla
752 FILOSOFIA MODERNA

(nichtig), misera e infelice» (V, p. 118). 11 rapporto con l'Eterno,


però, non può esserci se non mediante il pensiero: « Vivere vera­
mente significa pensare veramente e conoscere la verità» (V, p. 122).
E, ripete Fichte, quando si pensa l'essere, si deve pensarlo ingenera­
bile e incorruttibile, « poiché ciò che nasce presuppone un altro in
virtù del quale viene all'essere» (V, p. 150) e se questo altro a sua
volta fosse nato, ne presupporrebbe un altro all'infinito. A fonda­
mento del reale sta dunque l'Essere ingenerabile, immutabile, uno. Di
questo Essere, che dobbiamo affermare col pensiero, non abbiamo pe­
rò esperienza; è nascosto, dice Fichte; la sua manifestazione è il
Dasein 10, l'esserci. L'esserci dell'Essere è la coscienza o la rappre­
sentazione dell'Essere, pura immagine dell'Essere, e nulla in se stes­
so (V, p. 153 ). « All'infuori di Dio ... non esiste che il sapere, e
questo sapere è lo stesso esserci di Dio... : e in quanto noi siamo
il sapere, noi stessi siamo nella nostra più profonda radice, l'esser­
ci di Dio» (V, p. 160). Il molteplice ha origine da un modo di ve­
dere della coscienza finita, dal concetto, dalla rifiessione, la quale
astrae e distingue. « Nella coscienza la vita divina si trasforma irre­
versibilmente in un mondo statico: ma ogni coscienza reale è un
atto di riflessione, e l'atto di riflessione scinde irreversibilmente
l'unico mondo in infinite forme, la cui comprensione non può mai
essere esaurita, sicché solo una serie finita di esse entra nella co­
scienza (V, p. 169).
L'atteggiamento religioso non consiste nel rinnegare questo
mondo molteplice, nato dallo sfaccettarsi nella coscienza dell'Es­
sere divino, ma nel considerarlo appunto per quello che è: appa­
renza e manifestazione dell'Essere divino che in sé è nascosto. Ci
sono dunque diversi modi di considerare il mondo: il primo, più
rozzo, è quello che lo considera come vera realtà; H secondo, più
alto, lo considera come legge dell'ordine e dell'uguale diritto (è la
concezione morale, anche quella esposta nella mia dottrina del dirit­
to e della morale, dice Fichte); il terzo connette la morale con la re­
ligione, perché vede la legge morale non solo come ordinatrice, ma
come creatrice, e fa consistere la missione dell'uomo nel manife-

10 Poiché Dasein è la manifestazione dell'Essere, . l'abbiamo tradotto con esserci,


per indicare la sua presenza: c'è, infatti, dò che è presente. Mi è sembrato che il tra­
durlo con esistenza potesse far pensare ad analogie, che non vedo,. · con l'esistenza in
senso kierkegaardiano. Per Hegel Dasein è _l'essere determinato, ma anche questo non
mi sembrava rispondere al significato che Fichte dà al Dasein.
FJCHTE 753-

stare, con l'obbedienza alla legge morale, fa vita divina. La quarta


è la concezione specificamente religiosa, che è quella dei mistici.
Ma il grado più alto, il quinto, nella considerazione del mondo è
quello della :filosofia 11, la quale è in grado di giustificare razional­
mente la visione religiosa della realtà.
Le ultime lezioni della Introduzione alla vita beata sono dedi­
cate a dimostrare che la concezione fin qui proposta coincide con
quella del cristianesimo, e specialmente col quarto Vangelo.

8. La filosofia della storia

Anche lo sbocco della storia ha un carattere religioso. Il :fine


della storia, della vita dell'uomo sulla Terra, come dice Fichte, è
che l'umanità diriga ogni suo comportamento secondo ragione, con
libertà; ma nelle tappe di questo cammino, il cristianesimo ha una
importanza fondamentale. Cinque sono infatti le epoche della sto­
ria dell'umanità: nella prima la ragione domina, ma attraverso
l'istinto, senza una precisa consapevolezza: è la condizione di in­
nocenza dell'umanità; nella seconda la ragione domina imponen­
dosi attraverso una autorità esteriore che esige obbedienza cieca;
nella terza l'umanità si libera dell'autorità, ma solo in modo nega­
tivo, per cadere nell'anarchia e nell'indifferenza di fronte alla verità
e alla legge: è la condizione di peccaminosità; nella quarta la verità
è riconquistata con la ragione e messa al vertice dei valori; nella
quinta la verità è anche ispiratrice di ogni attività: è l'epoca della
piena giustificazione e santificazione. Come si vede si tratta di epo­
che ideali, dedotte a priori e non ricavate da uno studio della sto­
ria reale dell'umanità. Fichte cerca poi, nel corso dell'opera, di far
corrispondere momenti effettivi della storia umana a queste epoche
ideali. Poiché si tratta tuttavia di epoche ideali, è possibile che
in un medesimo tempo storico ci siano individui appartenenti a epo­
che ideali diverse. Il tempo presente, dice Fichte, appartiene alla
terza epoca, ci si è liberati dall'autorità, ma la libertà è intesa in
senso puramente negativo, individualistico ed egoistico. Per non
correre il rischio di ricadere in epoche oscure, gli individui devono

11 Della scienza, dice Fichte, ma intende per scienza (Wissenschaft) la filosofia.


754 FILOSOFIA MODERNA

invece vivere per il genere umano, che è quanto dire: debbono vi­
vere per l'idea.
Lo strumento per dirigere le volontà individuali a vivere per
l'idea è lo Stato, inteso come Stato etico, che ordina con leggi po­
sitive quelli che sono i doveri dell'uomo, e quindi, pur subordinan�
do a sé gl'individui, realizza la loro vera libertà. Per questo lo Sta­
to deve assumere direttamente il compito clell'istruzione e dell'edu­
cazione dei cittadini, afferma Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca,
del 1808, di una educazione che miri a sviluppare nell'uomo la pu­
rezza della volontà attraverso la chiarezza dell'intelligenza. Solo
sulla base di una tale educazione ( che Fichte vede realizzata da Pe­
stalozzi, anche se da lui non filosoficamente giustificata) la Germania
potrà risorgere e adempiere la missione, che Fichte le attribuisce,
di essere esempio a tutta l'umanità.

L'idealismo fichtiano è detto comunemente idealismo etico, e


si capisce perché: la sua origine e la sua ispirazione sono di ca­
rattere morale. Sebbene Fichte abbia sempre riconosciuto il valore
dell'etica kantiana, la fondazione che egli le ha dato si allontana
notevolmente dalla filosofia kantiana: Fichte ammette una intuizio­
ne intellettuale, capace di scoprire l'essenza ultima della realtà; non
ammette quindi il carattere finito della conoscenza umana e costrui­
sce una metafisica che darà poi l'avvio ai sistemi di Schelling e di
Hegel.
CAPITOLO VENTITREESIMO

F. W. SCHELLING
(1775-1854)
[ADRIANO BAUSOLA]

1. Vita e opere
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling nacque il 27 gennaio del
1775 a Leonberg, nel Wiirttemberg; suo padre, pastore protestan­
te, lo avviò assai presto agli studi classici ed orientalistici (in
particolare, biblici); a temi legati alla Bibbia, da una parte, alla
questione del significato dei miti, dall'altra, furono dedicati i pri­
mi scritti di Schelling (Antiquissimi de prima malorum humanorum

'' L'Opera omnia di Schelling è stata pubblicata dal figlio del filosofo, Karl F.
August, nel 1856-61 (Stoccarda). Nel nostro secolo, abbiamo l'edizione a cura di Man­
fred Schri:iter (Monaco, Beck e Oldenburg ed., 1927 ss.).
Principali traduzioni italiane: Lettere filosofiche sul dogmatismo e il criticismo (tr.
G. Semerari, Sansoni ed., Firenze 1958); Sistema dell'idealismo trascendentale (tr. M.
Losacco, rev. G. Semerari, Laterza ed., Bari 19652); Esposizione del mio sistema filoso­
fico (tr. E. De Ferri, Laterza ed., Bari 1923); Bruno (tr. A. Valori, Bocca ed., Milano
1906); Quattordici lezioni sul metodo dello studio accademico (tr. L. Visconti, Milano
1914 ); Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana (tr. M. Losacco, Carabba, Lan­
ciano 1910 - ora con intr. di A. Negri, sempre Carabba 1974 -, e S. Drago Del Boca,
Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947); Per la storia della filosofia moderna (Lezioni
Monachesi - tr. G. Durante, Sansoni ed., Firenze 1950); Esposizione dell'empirismo filo­
sofico, Lezioni di Stoccarda (e altri saggi di filosofia della natura - tr. G. Preti. La Nuova
Italia ed., Firenze 1967); Filosofia della rivelazione (tr. A. Bausola, Zanichelli ed., Bolo­
gna 1972).
In un volume a cura di L. Pareyson (Mursia, Milano 1974) sono ora raccolte le
Ricerche filosofiche nella trad. Del Boca, Filosofia e religione, tr. di V. Verra, le Lezioni
di Stoccarda e le Conferenze di Erlangen, tr. di L. Pareyson.
Studi su Schelling: K. F1sCHER, Schellings Leben, Werke und Lehre (Geschichte
der neuern Philosophie, voi. VII), Winter ed., Heidelberg 1923'; C. ERTEL, Schellings
positive Philosophie, Pallottiner ed., Limburg-Lahn 1933; S. DRAGO DEL BocA, La filo­
sofia di Schelling, Sansoni ed., Firenze 1943; A. MASSOLO, Il primo Schelling, Sansoni
ed., Firenze 1953; H. FUHRMANS, Schellings Philosophie der Weltalter, Schwann ed.,
Diisseldorf, 1954; H. ZELTNER, Schelling, Frommans, Stoccarda 1954; K. }ASPERS,
756 FILOSOFIA MODERNA

origine philosophematis Genes. III expiicandi tentamen criticum


et philosophicum, 1792; Sui miti, le saghe storiche ed i filosofemi
del mondo più antico, 1793 ).
Schelling studiò, dal 1790 al 1795, nella scuola teologica di
Tuhinga, ove ebbe come compagni Hegel ed Holderlin; come que­
sti, si entusiasmò per la Rivoluzione francese (in seguito, il suo
entusiasmo - velocemente e decisamente - si raffreddò, fino allo
spegnimento). I primi scritti di carattere nettamente :filosofico ri­
salgono a questo periodo di Tubinga; in essi l'adesione al pensiero
fichtiano risulta chiara, anche se, già ora, non incondizionata (Sulla
possibilità di una forma della filosofia in generale, 1794; Sull'Io co­
me principio della filosofia, 1795).
Al termine del periodo di Tubinga appartengono le Lettere
filosofiche sul dommatismo e il criticismo, ove alla polemica con i
teologi che si appoggiavano alla filosofia pratica di Kant si accom­
pagna una teoria dell'Assoluto che lascia intravvedere futuri svi­
luppi oltre Fichte.
Dal 1796 al 1798 Schelling studiò scienze naturali, a Lipsia
e a Dresda; questi studi lo portarono ad approfondire la rifles­
sione in direzione della comprensione :filosofica della natura. Pri­
me testimonianze di questa direzione di ricerca furono, nel 1797,
le Idee per una filosofia della natura, e nel 1798 l'Anima del mondo.
Nel 1798 Schelling fu nominato professore all'Università di Jena;
appartengono al periodo jenense molti suoi scritti significativi, dal
Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura, cui si affian­
cò una Introduzione (1799), al Sistema dell'idealismo trascenden­
tale (1800 ), agli scritti del periodo detto « dell'identità »: Esposi­
zione del mio sistema filosofico (1801), il dialogo Bruno, o sul prin­
cipio divino e naturale delle cose (1802) e le Ulteriori esposizioni
del sistema di filosofia (1802).
Nel 1802-1803 Schelling tenne le Quattordici lezioni sul me­
todo dello studio accademico, contenenti un esame (ed una espo­
sizione) delle diverse branche del sapere secondo i principi del-

Schellings Grosse und Verhiingnis, Monaco 1955; G. SEMERARI, Interpretazione di


Schelling, Libreria scientifica editrice, Napoli 1958; G. SEMERARI, Introduzione a Schel­
ling, Laterza ed., Bari 1971; C. CEsA, La filosofia politica di Schelling, Laterza ed.,
Bari 1969; X. TILLIETTE, Schelling, Une philosophie en devenir, 2 voli., Vrin ed., Pa­
rigi 1970. Per la storia della fortuna di Schelling: A. BAUSOLA, Fr. W. J. Schelling, La
Nuova Italia, Firenze, 1975.
SCHELLING 757

la filosofia dell'identità. Del 1802-1803 va ricordata anche la


Filosofia dell'arte. A Jena Schelling entrò in amicizia con Goethe
e con gli Schlegel; questa amicizia ebbe notevole peso per l'ap­
profondirsi dell'interesse del nostro filosofo per l'arte e per le
scienze della natura (coltivate, a suo modo, anche da Goethe);
ma con l'andare del tempo i rapporti con i circoli romantici si fe­
cero tesi, così come quelli con Fichte (contro il sistema del quale,
e in favore di quello di Schelling, nel 1801 si era schierato Hegel}.
Nel 1803 Schelling sposò Caroline Michaelis, che aveva lasciato il
primo marito, Friedrich Schlegel.
Ormai l'aria di Jena non si confaceva molto a Schelling, il
quale nell'autunno del 1803 si trasferì a Wiirzburg, per insegnare
nella locale Università. A Wiirzburg Schelling continuò ad occu­
parsi di filosofia della natura (è di questo periodo, fra l'altro, il
Sistema dell'intera filosofia), ma insieme incominciò ad approfon­
dire il problema religioso: primo frutto di questo approfondimento
è lo scritto del 1804 Filosofia e religione. Con il 1806 Schelling si
trasferì a Monaco di Baviera, ove prima fu segretario dell'Accade­
mia delle scienze, e poi, dal 1827, professore nell'Università.
Gli orientamenti della riflessione schellinghiana vennero, in
questo periodo, sempre più mutando: prevalse l'attenzione per
la religione, e per la teosofia (a Monaco il nostro :filosofo entrò
in amicizia con Franz von Baader, professore nell'Università, il
quale lo spinse ad interessarsi delle opere del teosofo Jakob
Bohme). Schelling iniziò in questo periodo quelle ampie ricer­
che sul rapporto tra la mitologia, il Cristianesimo e la filosofia
idealistico-realistica da lui elaborata in precedenza, che si sarebbero
concluse con la distinzione tra filosofia negativa e :filosofia positiva,
e con la filosofia della mitologia e della rivelazione.
Alla prima fase di questo nuovo periodo di ricerca apparten­
gono le Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana (1809),
e Le età del mondo (1811 e 1813) oltre alle Lezioni private di
Stoccarda.
Nel 1809 gli morì la moglie Caroline. Questo fatto doloroso
contribui a spingere Schelling alla meditazione sul destino perso­
nale dell'anima dopo la morte, ed a ricercare una mediazione tra
il Cristianesimo e la sua precedente :filosofia. Un contributo in que­
sto senso fu dato anche dalle discussioni (1812) con Jacobi; ma non
va trascurato neppure il dissidio con Hegel (nel 1807): la Prefa-
758 FILOSOFIA MODERNA

zione alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, nella quale que­


st'ultimo criticava la dottrina schellinghiana dell'Assoluto, aveva
raffreddato l'amicizia tra i due filosofi, fino, praticamente, ad una
rottura di rapporti che in passato erano stati ottimi (nel 1802
Schelling e Hegel avevano diretto insieme il « Giornale critico di
filosofia »). Come si è detto, dal 1827 Schelling insegnò all'Univer­
sità di Monaco (dopo un periodo di insegnamento ad Erlangen,
tra il 1820 e il 1827); tra le lezioni di Monaco sono importanti
quelle sulla storia della filosofi.a moderna.
Dopo il 1809 - l'anno di pubblicazione delle Ricerche filoso­
fiche - Schelling continuò intensamente a studiare, ma, a parte
una prefazione ad alcuni scritti di V. Cousin, non pubblicò più
nulla. Nel 1841 fu chiamato all'Università di Berlino, alla cattedra
che era stata, :fino alla morte, quella di Hegel. Nel 1835 D. F.
Strauss aveva pubblicato la Vita di Gesù, dura requisitoria contro
il Cristianesimo storico e positivo; ad essa erano seguite l'Essenza
del Cristianesimo di L. Feuerbach, e la critica dei Sinottici di B.
Bauer; tutti costoro avevano presentato le loro dottrine come
sviluppi della dottrina hegeliana; questo aveva prodotto, come
reazione, un progressivo accostamento a Schelling (o almeno, un
diminuire del sentimento di distanza) da parte del gruppo hegeliano
opposto a quello di sinistra. Schelling, con la sua nuova filosofia,
i cui echi andavano diffondendosi in tutta la Germania, veniva
infatti in quegli anni mostrando come la filosofi.a hegeliana fosse
uno svolgimento deformato ed abnorme della filosofi.a « negativa »,
il quale, assolutizzando il razionalismo che è proprio di quest'ulti­
ma, portava a conseguenze eversive nel campo religioso. Questo
spiega l'attenzione che fu rivolta, in Germania e fuori, dagli uo­
mini di religione del tempo all'ultimo pensiero schellinghiano, e
la chiamata, come si è detto, alla cattedra di Berlino del nostro
autore.
Le lezioni berlinesi (sulla filosofi.a della mitologia e della ri­
velazione) non furono pubblicate dal nostro filosofo (vi provvide,
dopo la morte del padre, il :figlio Karl F. August). Ascoltarono
Schelling a Berlino, tra gli altri, Savigny, Lichtenstein, Steffens,
Rosenkranz, Bakunin, Kierkegaard, Burckhardt; ma l'interesse per
l'insegnamento berlinese di Schelling, in inizio assai vivo, venne
via via scemando; il filosofo nel 1847 smise praticamente di far
lezione. Il 20 agosto 1854, a Bad Ragaz, in Svizzera, egli morl.
SCHELLING 759

2. Tra Kant e Fichte

L'inizio della riflessione schellinghiana, in campo strettamente


filosofico (a parte, cioè, gli studi sui miti, e sul peccato originale,
di cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente), avviene in
stretto contatto con i problemi che la prospettiva kantiana aveva
sollevato (aporie concernenti la « cosa in sé », rapporto tra vo­
lontà libera e mondo fenomenico sottoposto al determinismo, Io
trascendentale, ecc.), e con gli sviluppi che la discussione sul kan­
tismo aveva assunto (in particolare, con Reinhold e con Beck, per
quanto riguarda Schelling); ma soprattutto rilevante è l'impegno
di ripensamento della proposta che, a partire dal 1794, Fichte
veniva svolgendo in direzione idealistica. A questa prima direzione
di indagine se ne è però presto aggiunta, in Schelling, un'altra.
L'interesse per le scienze della natura sviluppatosi, come ab­
biamo detto, a partire dal periodo di Lipsia, ha infatti presto por­
tato Schelling a cercare di individuare le condizioni di possibilità
di un sapere, relativamente alla natura, che non risolvesse quest'ul­
tima in un semplice prodotto della riflessione dell'Io, ma che, in­
sieme, non riportasse la natura nel campo della kantiana « cosa
in sé », inconoscibile. Questa ricerca si è accompagnata a quella
volta a stabilire i principi generali che permettessero di compren­
dere la natura oltre i termini del rigido meccanicismo. Schelling
raccoglieva qui le indicazioni dell'indirizzo fisico dinamista il qua­
le, in opposizione all'atomismo meccanicistico, vedeva nella natura
il prodotto dell'azione di forze opposte agenti su elementi inestesi.
Anche Goethe aveva elaborato alcune idee di tale tipo; ma non
debbono essere trascurate le ricerche - per restare tra autori vi­
cini a Schelling - di K. F. Kyelmeyer e J. W. Ritter (vedremo più
avanti in che modo Schelling si sia collegato a questo tipo di in­
dagini).
Nei primi scritti filosofici schellinghiani - Sulla possibilità di
una forma della filosofia in generale e Sull'Io come principio della
filosofia - l'influsso fichtiano è evidente. Ma questo influsso è de­
stinato a scolorarsi ben presto: lo si può già rilevare in un saggio
del 1797, che, come dice lo stesso titolo, è destinato peraltro pro­
prio alla meditazione della dottrina fichtiana: le Dissertazioni per
la chiarificazione dell'idealismo della Dottrina della scienza.
760 FILOSOFIA MODERNA

L'individuazione del primo princ1p10 del sapere, dal quale


ogni scienza possa essere dedotta, costituisce uno dei motivi di
fondo dell'indagine del primo Schelling (particolarmente in Sulla
possibilità): ma questo sarà, poi, un motivo che accompagnerà
sempre il :filosofo, sempre persuaso che non si abbia vero sapere
se ci si ferma all'accertamento di singoli fatti, senza vedere per­
ché tali fatti si producano, e perciò impegnato nella ricerca di
quel principio che contenga in sé, insieme, il fondamento di ogni
sapere e di ogni essere (Schelling è tra gli ultimi pensatori che ab­
biano concepito il disegno immane di dedurre tutto il sistema del
reale - almeno nelle sue linee di fondo - da un unico principio,
con un procedimento aprioristico, sdegnoso delle prudenze empi­
ristiche).
Nel giovanissimo Schelling, questo impegno intorno al primo
principio di ogni scienza si lega essenzialmente con quello intorno
al problema della accettabilità, o meno, della cosa in sé kantiana.
Il nesso tra i due problemi è ben chiaro, ad es., in Sull'Io,
nel quale la critica netta del dualismo kantiano tra fenomeno e
noumeno (essere ed apparire) è svolta prendendo a bersaglio la
dottrina kantiana per la quale la forma del conoscere viene pro­
dotta a prescindere dal suo contenuto. Kant sosteneva il dualismo
tra la sensibilità, che ha come fonte il noumeno, principio in­
conoscibile di conoscenza, e la coscienza pura, l'Appercezione
pura, che svilupperebbe di per sé sola le proprie forme. Con que­
sta dottrina, osserva Schelling, noi avremmo a che fare con due
fonti del sapere che rinviano quest'ultimo ad un fondamento non
saputo; il che risulta aporetico. Ma, aggiunge il nostro autore, con
la dottrina kantiana diverrebbe impossibile spiegare perché le
leggi della coscienza valgano per qualcosa che non ha nessun rap­
porto diretto con la coscienza stessa. Se il sapere fosse costituito
nel modo descritto da Kant, si avrebbe la contraddizione che il sa­
pere verrebbe ad essere condizionato, non assoluto: esso rinvie­
rebbe infatti ad un principio ad esso esterno, cercando in un non
sapere il proprio fondamento. Ma questo è assurdo: è vero, con­
cede Schelling, che le varie scienze hanno contenuti distinti, e, per­
ciò, anche il loro principio primo è formalmente diverso da quello
delle altre (perché la relazione all'oggetto è diversa, e, quindi, anche
il modo di rapporto del sapere all'oggetto si atteggerà diversamen­
te); ma questo non implica che possano esserci due (o più) scienze
SCHELLING 761

assolute separate (ad es.: la logica astratta e una scienza empirica


pura, sensistica). Ciò, perché le due scienze assolute ipotizzate do­
vrebbero pur essere pensate, e ricomprese in un unico pensiero che
entrambe le pensasse, e le pensasse come sono, nel loro (preteso)
rinviare - nel caso delle due scienze kantiane - al fondamento
non saputo.
Se ogni scienza - osserva Schelling - è unità di un tutto
sotto un principio, sotto una forma che leghi ad un principio,
allora dovrà pur esserci una scienza della scienza, o un sapere del
sapere primo (e non solo le scienze come sapere dei saperi deter­
minati), in cui i vari saperi si riportino ad unum fundamentum.
Ci deve essere un sapere primo, incondizionato, il quale valen­
do di per se stesso, non lasci fuori di sé nulla, ma contenga in sé
ogni altro sapere. In esso la forma e il contenuto - è questo il
secondo motivo antikantiano - debbono essere entrambi assoluti,
non debbono cioè essere fondati da altri contenuti, o da altre forme.
Un principio primo non può essere solo formale, perché la
forma senza il contenuto è vuota, né solo materiale, perché il pri­
mo principio esprime la struttura originaria del sapere, e come ta­
le non può dare solo gli ingredienti di esso, ma anche il modo
strutturale del loro rapporto (se si ha a che fare non cop. il prin­
cipio A o B, ma con il principio essenziale); in esso la forma e il
contenuto debbono condizionarsi vicendevolmente, atteso che si
tratta dell'unità di ogni sapere, della struttura necessaria di ogni
scienza, e che, perciò, in essa il contenuto o dà a se stesso la sua
forma, e la forma a se stessa il suo contenuto, oppure sarebbe
un altro a darla: ma questo è assurdo, perché « un altro » non è
pensabile.
Il primo principio è tale che in esso il contenuto pone se stesso,
ponendo la propria forma. Ora, questo non può appartenere che
all'Io, e il primo principio diventa questo: Ich ist Ich. L'idealismo
è qui raggiunto pareggiando « incondizionato » ed « autoponen­
tesi », e riconoscendo all'Io carattere di autocreatività.
L'esigenza che guida questo discorso è, come si vede, :fichtia­
na; ma si può già qui rilevare una diversità, per quanto riguarda
il punto di partenza nella deduzione dell'idealismo: Fichte, nel­
la Dottrina della scienza del 1 794, parte dal principio di iden­
tità come ratio cognoscendi del primo principio, per arrivare al-
762 FILOSOFIA MODERNA

l'Io come ratio essendi dello stesso principio di identità. Fichte,


cioè, segue questo modulo: dal primo principio formale, condizione
di ogni sapere determinato della coscienza empirica, alla condizione
materiale, al contenuto, che pone in se stesso, e a se stesso, la forma
dell'identità, e cioè all'Io. Il principio di identità - secondo
Fichte - è assolutamente posto, non dipende da alcun sapere em­
pirico; ma esso è posto dall'Io nell'Io, è saputo nell'Io puro:
quindi è forma che l'Io puro dà a se stesso. Il principio di iden­
tità implica un contenuto (un A), quindi anche questo contenuto
deve essere posto nel e con l'Io: è l'assoluto ponente di forma e
contenuto.
Viceversa, già qui Schelling preferisce partire, nella sua rie­
sposizione del discorso fichtiano, anche dal segno (Merkmal) del­
l'incondizionatezza, dell'assolutezza, e di qui ricavare che se il
Grundsatz dev'essere incondizionato, deve autoporsi, esso deve
essere Io, perché solo l'Io pone, come soggetto, se stesso come
oggetto: si parte dalla considerazione dell'Assoluto, di ciò che
è incondizionato, nella sua pienezza di contenuto (si badi: dal­
l'Io come Inhalt alla identità come Form), per arrivare alla forma
astratta. Già nel seno di un discorso di tipo fichtiano sulla scienza
della scienza, l'accento è posto sull'assolutezza, prima che sulla
forma del conoscere.
La polemica contro il dualismo tra cosa in sé e fenomeno è
svolta con la maggiore efficacia nelle Dissertazioni per la chiarifi­
cazione dell'idealismo; noi non possiamo qui esporre tale acutissima
polemica; ricorderemo solo la conclusione che Schelling trae dalla
sua critica alla cosa in sé, perché molto significativa: il vero rea­
lismo, osserva Schelling, è l'idealismo, il quale riporta il conoscere
in immediato contatto con l'essere, eliminando il diaframma tra
il sapere, e l'essere rappresentato dal fenomeno.
Nella Introduzione alle Idee per una filosofia della natura,
del 1797, Schelling mette avanti una critica al dualismo noumeno­
fenomeno, che merita di venire ricordata, perché colpisce, insieme,
quell'empirismo che, anche per altro aspetto, come abbiamo visto,
costituisce una prospettiva decisamente rifiutata da Schelling.
L'argomento di fondo della Introduzione è il seguente: il
conoscere non è subire impressioni dall'esterno, essere modifi­
cati fisicamente. Se c'è azione dell'oggetto su di me, osserva
infatti Schelling, io sono oggetto; se io subisco un'azione, co-
SCHELLING 763

me vogliono i dualisti, nel senso che mi determino ad essere in


funzione dell'azione dell'oggetto esterno, devo essere omogeneo
a quest'ultimo, epperciò devo essere passivo, recettivo. Ma io
mi so come libero agente, sono un essere per me stesso, non
sono oggetto, cosa (se mi so, se sono in quanto mi ponga), ep­
perciò non posso subire un'azione dall'esterno. Se io fossi il
prodotto delle azioni di agenti esterni, io sarei modificato, ma
le modificazioni non sarebbero per me: io, cioè, non saprei, come
invece so, le modificazioni. Non ci si deve abbassare al livello
di un cristallo che rifrange la luce: il cristallo è solo modificato,
e non conosce! Gli empiristi credono nella passività dell'io, perché
per loro l'io, in fondo, non è neanche tale, è solo cosa tra cose,
oggetto e non vero soggetto.
Come si vede, qui Schelling svolge fa sua critica alla cosa in
sé in funzione di una considerazione che serve al contempo a
battere in breccia anche l'empirismo: una conoscenza puramente
passiva non sarebbe neppure possibile, perché escluderebbe quel
carattere specifico della conoscenza che è il riferimento dell'og­
getto, da parte della conoscenza, a se stessa come conoscenza; cono­
scere un oggetto vuol dire sapere l'oggetto come qualcosa che è
dato al sapere: il perenne ripiegarsi sopra di sé del soggetto è es­
senziale al sapere.
Queste considerazioni schellinghiane servono tanto a confutare
il dualismo, che implica un conoscere passivo (se per il dualismo
l'oggetto agisce sul soggetto, e non è presenza al soggetto), quanto
l'empirismo, per il quale l'io è esso stesso un fenomeno, un dato tra
i dati, un « patire » ( un esser dato) e non ne sporge come il soggetto
che pensa se stesso come pensante i dati, ponendosi in uno status
specialissimo di dato che si sa come dato, e perciò è agire.

3. La fondazione dell'idealismo

L'eliminazione del dualismo kantiano non è fine a se stessa,


in Schelling; essa si accompagna strettamente alla fondazione del­
l'idealismo. Schelling non si accontenta di portare una ragione sol­
tanto per l'affermazione dell'idealismo; i suoi scritti tra il 1794 ed
il 1800 adducono più tentativi di fondazione, non tutti esenti, pa­
radossalmente, da tracce (o residuati) di quel dualismo tra essere
764 FILOSOFIA MODERNA

ed apparire, che abbiamo appena detto avversato nettamente dal


nostro filosofo.
Una delle vie di fondazione dell'idealismo ricorda da vicino
Fichte: il conoscere, dice Schelling (nelle Dissertazioni per la chia­
rificazione), è reale e ideale insieme, e nulla gli è esterno ( come già
si è acquisito). Ora, se il conoscere deve essere spiegato, uno dei
due fattori di esso deve produrre l'altro. Quale? Schelling risponde:
quello tra di essi che è attivo; e tale è l'intuire, il quale, dunque,
sarà produttivo dell'oggetto.
Come si vede, il criterio per assegnare priorità all'intuire è
quello per il quale è produttivo il fattore che è attivo. Questo cri­
terio funziona, in quanto si presupponga che quello dei due ele­
menti che non sia produttivo, sia prodotto; che, cioè, l'uno dei due
elementi produca l'altro. Ma questo a sua volta si può presupporre,
in quanto già si ponga che il conoscere, se non è prodotto dall'ester­
no (che è quanto è stato già escluso) debba essere prodotto lo stesso
(epperciò, se non dall'altro da sé, allora da sé).
Il critico potrebbe qui osservare che questo è gratuito. Ma qui
conta soprattutto sottolineare che se, come facilmente si può con­
statare, il discorso di Schelling è in questo punto vicino a quello
del Fichte della Prima introduzione alla dottrina della scienza dello
stesso 1797, il criterio solutorio è però diverso, in Schelling, ed
originale. Per Fichte, infatti, il principio produttore, nel conosce­
re, era quello che conteneva in sé anche l'opposto; per Schelling,
è quel fattore che, nel conoscere, risulti attivo. Armonia, dunque,
ma anche variazione rispetto a Fichte.
Un altro modulo di accostamento all'idealismo inaugura un
tipo di fondazione, che gli scritti della filosofia della natura ri­
prenderanno ampiamente: Schelling dà, infatti, una riprova del­
la necessità di ammettere una originaria attività spirituale au­
tolimitantesi, rilevando che la finalità constatata nella natura non
sarebbe esplicata se la natura fosse cosa in sé senza relazione al­
cuna con lo spirito. Invero, egli osserva, l'organico implica che
materia e forma, concetto e intuizione si compenetrino originaria­
mente; ora questo può accadere solo nello spirito, ove con la
forma del pensiero è posto il pensare, e idee e contenuto coin­
cidono.
Un'altra giustificazione dell'idealismo è proposta nel Sistema
dell'idealismo trascendentale. In questo scritto Schelling affronta,
SCHELLING 765

come problema-base, quello della deduzione del principio dell'idea­


lismo trascendentale. Per risolverlo, egli vuol stabilire quale sia il
sapere incondizionato; la sua risposta è che l'unico sapere incondi­
zionato è quello in cui il sapere è a immediato contatto con se stesso:
« incondizionatamente io conosco solo ciò la cui nozione è con­
dizionata unicamente dal subbiettivo, non dall'obbiettivo ». Incon­
dizionata è dunque la conoscenza che si esprime in proposizioni
identiche: « Infatti nel giudizio A = A si prescinde totalmente
dal contenuto del subbietto A. Alla nostra conoscenza è del tut­
to indifferente che A possegga o no una realtà in generale. Se
dunque si prescinde affatto dalla realtà del subbietto, vuol dire
che A è considerato solo in quanto è posto in noi e da noi rap­
presentato; né si chiede punto se a questa rappresentazione cor­
risponda o no qualcosa al di fuori di noi. La proposizione è evi­
dente e certa, a prescindere dal fatto che A sia realmente esistente,
o immaginario, o perfino impossibile. Poiché la proposizione dice
solamente questo: nel pensare A, io non penso altra cosa che A ».
Ogni altra proposizione, in cui si afferma la realtà di un da­
to contenuto di coscienza, non sarà analitica, ma sintetica: « Or
se tutte le proposizioni, in cui soggetto e predicato sono uniti.
non solamente dall'identità del pensiero, ma anche da qualche
cosa di estraneo al pensiero e da esso differente, si chiamano sin­
tetiche, tutto il nostro sapere consisterà in proposizioni sinte­
tiche, e solo in queste vi sarà una conoscenza reale, cioè tale da
avere il suo obbietto fuori di sé »; tali proposizioni non sono
incondizionate, ma condizionate, e, perciò. possibili mediatamente.
Le proposizioni sintetiche dovranno essere ricondotte alle iden­
tiche; il che comporterebbe contraddizione, osserva Schelling, se
non si desse un sapere in cui identico e sintetico sono uno; e que­
sto accade nell'autocoscienza: « Quell'identità immediata di sub­
bietto ed obbietto lì solo può esistere, dove il rappresentato è an­
che in pari tempo il rappresentante, l'intufto è anche l'intuente.
Ma una identità siffatta del rappresentato e del rappresentante
esiste solo nell'autocoscienza; ecco perciò trovato nell'autocoscien­
za il punto richiesto ». Nell'autocoscienza, infatti, il pensiero che
si pone in identità con se stesso non può mettere in forse se stesso
come essere, pena la distruzione del pensare stesso: dunque, iden­
tico e sintetico nell'autocoscienza coincidono. Tutte le proposizio­
ni sintetiche dovranno dunque essere ricondotte all'autocoscienza.
766 FILOSOFIA MODERNA

Come si vede, Schelling non ritiene il pensiero, nelle rappresen­


tazioni, ad immediato contatto con l'essere: per lui, qui, il pen­
siero può incondizionatamente affermare solo la fedeltà a se stes­
so, l'esser posto della rappresentazione come rappresentazione.
Quest'ultima non presenta, qua talis, l'essere, che peraltro le sfug­
ge, e può essere affermato solo mediatamente. È ben vero che poi
Schelling respinge nettamente il dualismo, affermando che la con­
sistenza ontologica del contenuto delle rappresentazioni è garantita
dalla ontologicità del pensiero, ed è riducibile a quest'ultima ( così
come la convinzione di indipendenza delle cose dal pensare ver­
rà dedotta come illusione necessaria dell'Io); è vero, dunque, che
Schelling poi toglie via il dualismo per il quale l'essere è assoluta­
mente estraneo al pensiero. È però vero che tale eliminazione viene
effettuata incominciando con il dire che il pensiero è solo a con­
tatto con se stesso, e che perciò ogni proposizione con pretesa di
riferimento all'essere deve essere ricondotta all'autocoscienza, ove
soltanto c'è unione immediata di essere e pensiero, ed ove soltanto,
perciò, sta il fondamento di ogni altro essere e di ogni altro sa­
pere.
Schelling rimane dunque legato alla prospettiva per la quale
l'essere o è assolutamente fuori del pensiero, inconoscibile, o è
quello del pensiero stesso; riconosciuta l'intrascendibilità del pen­
siero, non gli resta che porre il contenuto rappresentato come reale
perché partecipante l'essere dal pensare.
La restituzione dell'ontologicità delle rappresentazioni avvie­
ne mediatamente, attraverso l'essere dell'Io; l'essere del rappre­
sentato è l'essere del rappresentante. Ciò che viene scartato sen­
za discussione è che il pensiero possa stare immediatamente a
contatto con un essere ad esso immanente ma con esso non coin­
cidente. « Il pregiudizio fondamentale a cui si riducono tutti gli
altri, è che esistano cose al di fuori di noi: credenza che [... ]
non è fondata su ragioni e dimostrazioni (non essendoci in favor
suo alcun argomento probativo) [. .. ] [essa] si riferisce a qual­
cosa di estraneo anzi di opposto a noi, che non si scorge affatto
come entri nella coscienza immediata ».
L'esclusione della esternità della cosa alla coscienza, operata
qui con brevità ma con decisione, trapassa però subito nell'afferma­
zione che l'unica vera conoscenza immediata è quella rigu ardante
l'Io sono: « Ora anche per l'uso comune della ragione non c'è
SCHELLING 767

àltra cosa che possegga una certezza immediata àll'infuori della


proposizione: io sono. La proposizione: esistono cose àl di fuori
di noi, avrà dunque per il filosofo trascendentàle una certezza so­
lo per la sua identità colla proposizione: Io sono; e la sua cer­
tezza sarà anche uguale alla certezza della proposizione da cui essa
deriva la propria ».
Con il che, Schelling mostra chiaramente di trattare l'Io an­
cora come esso doveva venire trattato nell'ambito del dualismo;
come pensiero chiuso in se stesso sequestrato da ogni essere che
non sia quello del pensiero stesso. Schelling, dall'osservazione che
l'essere fuori del pensare è contraddittorio, non sa trarre la con­
seguenza che il contenuto della coscienza, se si distingue dall'atto
della coscienza stessa, è anch'esso reàle, ed è perciò esso l'essere.

Già da quanto abbiamo esposto risulta come la riflessione


gnoseologica si traduca, in Schelling, immediatamente, in una ri­
flessione metafisica: metafisica che matura lentamente, che subi­
sce sviluppi, assestamenti, e, nello ScheJling della maturità, an­
che svolte decise, ma che trova, nel problema dell'identità tra
finito ed infinito, e, insieme, della loro differenziazione, il suo mo­
tivo costante.
Nel momento dell'idealismo trascendentale, al problema ci
si accosta esaminando le due vie essenziali che si darebbero, per
approdare all'idealismo stesso. Una di tali vie si potrebbe qua­
lificare come a priori-a posteriori: so - si dice - che solo l'Io
è immediato, ma trovo il mediato, devo dunque ricondurre il
mediato àll'immediato; l'altra via sembra puramente a priori:
parto dalla pura autocoscienza, e deduco che deve esserci l'og­
getto, il quàle è finito, pieno, statico, e via.
La Dottrina della scienza di Fichte si fermerebbe alla pri­
ma considerazione, che tiene conto, nel punto di partenza, anche
del senso comune; l'idealismo trascendentale deve completare tale
prospettiva, o meglio porsi da un punto di vista autonomo rispetto
alla Dottrina della scienza, nel quale si deduca a priori la necessità
per l'Io di autolimitarsi.
Per comprendere quanto dice Schelling ricordiamo che, in
Fichte, l'Io era tale che esso, per sapersi, e perciò per essere,
doveva limitarsi; ma che il limite ci fosse non dipendeva dal­
l'Io ste�so, il quale di per sé solo avrebbe dovuto essere solo lo, sen-
768 FILOSOFIA MODERNA

za negatività in se stesso. In Fichte, insomma, si aveva una si­


tuazione per la quale l'Io è reale solo se è limitato, ma essendo
vero che tale limitazione dipende dall'agire di una X assolutamente
opposta all'Io; quest'ultimo, quindi, si trovava nella singolare si­
tuazione di dipendere, per esistere, da qualcosa che, essendo asso­
lutamente opposto all'Io stesso, non era per altro verso possibile
nell'Io.
Schelling elimina ogni dualismo, e vede perciò il limite nell'Io;
vede cioè che siccome all'Io - come ora meglio si specificherà -
è essenziale il limite, il limite deve derivare dalla struttura dell'Io
stesso.
L'Io - egli dice - è originariamente attività illimitata; ma
esso è Io e in quanto tale deve intuirsi; ora, per intuirsi e farsi
oggetto a se stesso deve limitarsi, perché ogni oggetto è limitato;
dunque l'Io deve porre in sé il limite. È a questo punto che Schel­
ling osserva: « la negazione di un positivo non è possibile con la
semplice privazione, ma solo con la reale opposizione; per es.,
I + O = I; I - I = O ».«L'Io non può limitare il suo produrre,
senza opporre a sé qualcosa ». È qui possibile riconoscere operante
il principio per il quale il nulla non può limitare l'essere, il limi­
tante deve essere reale, deve essere un positivo.
L'affermazione (implicita) di questo principio è inserita nel
quadro idealistico già introdotto: il limite deve avere la sua radice
nell'Io stesso, questo deve essere illimitato e limitante al contem­
po (e, in quanto sia quest'ultimo, deve essere infinitamente ne­
gante se stesso come illimitato), perché non è pensabile alcunché
fuori dell'Io. Con il che Schelling, se evita di affermare un limite
assolutamente esterno all'Io (affermazione contraddittoria, per lui),
finisce per ripiombare a sua volta in una contraddizione, quella
consistente nel porre il non essere come cooriginario all'essere. È
infatti chiaro che se lo stesso Io deve originariamente essere asso­
lutamente positivo e deve infinitamente negare se stesso come po­
sitivo, esso deve avere in sé anche l'infinita ragione di quella ne­
gazione: deve, insomma, essere anche assoluta negazione. Con il
che, l'Assoluto originario viene ad essere affermato come essere e
non essere al contempo. Da questa contraddizione Schelling ri­
terrà di potere evadere attraverso il concetto - anch'esso
di origine fìchtiana - di limitazione reciproca, di divisione (o
determinazione) che dividerebbe l'essere dal non essere, delimi-
SCHELLING 769

tando le zone in cui l'una attività è posta e l'altra è tolta, e vice­


versa.
Non si discute qui la riuscita di tale toglimento della con­
traddizione. Qui si dovrà solo sottolineare che l'affermazione del­
l'Originario come dualità di forze opposte, positiva e negativa,
permette a Schelling di non ritenere più scandalosa, almeno per un
aspetto, la presenza dell'oggetto, del non Io rispetto all'Io: poiché
il non lo può ora venire inteso come espressione d'una realtà ori­
ginaria che è, si, sapere, ma è anche originariamente negazione di
tale sapere, e perciò essere che non intuisce e non si intuisce; o es­
sere che è anche negato come puro essere per essere posto, in iden­
tità, come sapere. Dato questo, il non lo viene ritenuto deducibile
dall'Io, sicuramente spiegabile. Con questo, il nostro filosofo supera
le incertezze - o le neutralità - di indole metafisica che ancora
operavano in alcuni scritti precedenti, incertezze riguardanti l'ap­
partenenza necessaria, o no, del non lo all'Io.
In Sulla possibilità Schelling parla del non Io come di un
possibile contenuto del secondo principio fondamentale, e non
come di un contenuto che scaturisca necessariamente dal primo.
E, in generale, tutto il discorso viene svolto senza che si affermi
in alcun modo che all'Io deve opporsi un non lo: Schelling si li­
mita ad affermare tale opposizione, dicendo che il non lo, essendo,
è solo come opposto all'Io e ad esso relazionato; ma la ragione
del non Io non è detta. Con il che viene evitato da Schelling il
punto travagliato della Dottrina della Scienza del 1794, quello
che vedeva Fichte nella situazione di comprendere la intenibilità
del noumeno, senza però essere capace di farne a meno, e produceva
l'idealità dell'Assoluto.
Era però una situazione provvisoria, che richiedeva una so­
luzione più chiara. Neanche il saggio Sull'Io, però, veniva incontro
adeguatamente a quell'esigenza. Esso escludeva, si, nettamente la
cosa in sé, ma non sapeva poi decidersi a dire perché il non Io
limiti l'Io, se esso sia strutturale all'Io o accidentale. Certo, con
Sull'Io è ormai assodato che il non Io è dall'Io; ma esso è con­
tingentemente dall'Io, o necessariamente? La domanda pone un
problema essenziale, perché dalla sua risposta dipende la posi­
zione dell'Assoluto ancora come unità trascendente rispetto al
molteplice, oppure come principio radicalmente immanente. Per
ora, Schelling oscilla. Egli, infatti, da una parte afferma la non
770 FILOSOFIA MODERNA

deducibilità dalla ragione della posizione del non Io da parte


dell'Io, ma dall'altra discorre come se tale posizione fosse ne­
cessaria.
L'oscillazione è rilevabile anche nella parte di Sul tlo dedicata
alla ragion pratica, là ove si affronta il problema morale: in quel­
la sede, Schelling pone l'imperativo etico ora come comandante
il recupero dell'assoluta unità dell'Io in esclusione del molteplice,
dell'oggetto (epperciò, mostra di ritenere possibile tale recupero,
e non strutturale all'Io il non Io), ora, viceversa, il contrario. La
legge morale oscilla infatti in Sull'Io tra l'indicazione di una so­
luzione mistica, unitaristica, e di una attivistica.
Cosl, Schelling dice, da una parte, che bisogna restaurare
il puro Io, con la distruzione di ogni non Io, di ogni mondo;
al contempo, ancora, egli, quando deduce le forme della legge
morale dalle forme subordinate alla forma originaria dell'Iden­
tità, parla in genere del trascendimento del negativo, della pas­
sività, dell'esistenza nel tempo, come se si potesse uscire dal di­
venire (se si può arrivare alla pura identità). D'altra parte, nello
stesso contesto, parlando del trascendimento della molteplicità,
il nostro Autore lo dice realizzabile attraverso l'adeguazione della
totalità, una categoria cioè che implica l'antinomia, componendola
ma non eliminandola. Si aggiunga che Schelling parla di un eter­
no durare, o di immortalità dell'Io finito, per garantire l'infinito
progresso dell'Io finito, che può solo avvicinarsi infinitamente al­
la meta.
In Sull'Io Schelling, arrivato alla intrinsecità del non lo,
quoad se totum, all'Io, oscilla poi tra una prospettiva per la
quale il limite è nella struttura originaria dell'Io, ed una che
pone tale limite come di fatto posto dall'Io in sé; con la conse•
guenza di una duplice direttrice etica: il limite è trascendibile, il
limite non è mai trascendibile.
Questa seconda posizione diverrà unica e pacifica nel Sistema,
ma già essa compare nelle Dissertazioni per la chiarificazione, ove
viene tematizzata anche nelle sue implicazioni etiche, senza la pro­
duzione di quella situazione, se cosl si può dire, di coscienza in­
felice che caratterizzava l'analoga tesi in Fichte: da questo mo­
mento infatti, l'Assoluto viene visto esso stesso come identità­
dualità, e, quindi, l'infinità deve essere restaurata nella finalità, se
SCHELLING 771

tale è il parametro ongmario (non cosi, se il limite era esterno


all'Originario, all'Io infinito, come in Fichte).
Nel Sistema dell'idealismo trascendentale, invece (e, già l'an­
no prima - 1799 - nel Primo abbozzo di un sistema di filoso­
fia della natura), Schelling, ponendo l'Io come realtà origina­
riamente dualizzata in due attività infinite infinitamente opposte
(epperciò risalendo, oltre l'Io soggetto-oggetto finito alle con­
dizioni non obbiettive - non sapute - dell'Io stesso), approda
al punto di vista suo più originale: la possibilità di una filosofia
della natura, come complementare ed avente pari dignità della filo­
sofia trascendentale (con la duplice serie delle deduzioni), riposa, in­
fatti, sulla affermazione di una originaria identità-dualità di sog­
getto-oggetto, ideale-reale, secondo la infinità dei due termini.

4. L'Assoluto ideal-reale. Storia, scienza, arte

Solo a partire dal 1799 Schelling propone un procedimen­


to il quale parte dall'Infinito produrre assunto nel suo lato reale
(come essere e non come idealità), e visto come limitarsi e progres­
sivo aggiungere a sé la consapevolezza: solo nel 1799, cioè, egli
espone anche il lato reale dell'Assoluto, e deduce la natura dalla
bipolarità originaria per dedurre il riguadagnarsi della autoconsa­
pevolezza dell'Io.
Con la struttura concettuale che abbiamo ricostruito nelle
sue linee essenziali, Schelling va, a più riprese, incontro alle scien­
ze della natura, per inquadrare i dati di tali scienze entro lo sche­
ma bipolarista dell'Assoluto da lui costruito. Sarebbe dal gioco
di limitazione reciproca delle due attività originarie, da un rie­
mergere dell'infinità dalla limitazione e da nuove limitazioni dell'in­
finità, e successive ricomparse dell'infinità, secondo gradi di com­
plessità crescente, che sorgerebbero i vari fenomeni naturali.
Schelling modificò più volte, nei particolari, la sua deduzione
concreta della natura dell'Assoluto; egli mantenne però immutato lo
schema di fondo, per il quale un primo grado di limitazione delle
forze originarie stava nell'attrazione e nelJa repulsione (con la gra­
vità), un secondo grado si realizzava nell'elettricità, nel magnetismo,
nel chimismo, ed un terzo grado si attuava negli organismi, e nella
sensibilità. Tutta la natura - fino ai viventi - veniva cosi vista in
772 FILOSOFIA MODERNA

unità,· tutta internamente collegata da vincoli sempre più stretti,


e tutta finalizzata, perché dappertutto conscio ed inconscio erano
presenti, in diversa misura e con diverso equilibrio. La << fisica
speculativa » batteva cosl in breccia, secondo Schelling, l'atomismo
meccanicistico, e stabiliva una continuità evolutiva profonda tra
tutti gli enti.
Questa dottrina schellinghiana ebbe, per un momento, qualche
risonanza (C. J. Windischmann, C. G. Carus, G. R. Treviranus,
A. Roschlaub, A. F. Marcus), ma essa non riusci certo - da ulti­
mo - ad avere la meglio sulla fisica galileiano-newtoniana: la for­
zatura con la quale i fenomeni descritti dalla scienza empirica ve­
nivano a tutti i costi ricondotti alle complicate successive auto­
limitazioni dell'Assoluto era, fra l'altro, troppo marcata, perché
non ci si accorgesse ben presto di essa.

L'approfondimento delle componenti originarie dell'Assoluto


ha anche un peso per la concezione schellinghiana della storia. Nel
Sistema, allargandosi l'ampiezza dei problemi schellinghiani, si po­
ne il problema sulla possibilità della conoscenza della pluralità dei
soggetti e quello della loro convivenza nella libertà, e perciò si ri­
conosce l'esigenza degli Stati, e del progresso verso un organismo
soprannazionale 1• Ora, vedendosi tutti questi momenti come neces­
sari all'autodeterminazione dell'Io, e non affidabili al caso, alla
sola possibile buona volontà degli uomini, viene a risultare neces­
sario anche il movimento di autorealizzazione dell'Io attraverso
la storia, e perciò appare anche necessario riconoscere che la storia
sia guidata verso la sua meta dall'Assoluto.
Ma è chiaro che se il Sistema può svolgere questa tesi, questo
avviene perché in esso l'Assoluto viene visto come attività inconsa­
pevole anche nella consapevolezza, originariamente, e si può quindi
poi ammettere che la attività libera sia al contempo guidata in­
consapevolmente dall'Assoluto che in essa si esprime con entrambe
le sue originarie attività.
È doveroso peraltro sottolineare che se il Sistema offre già un

1
Da segnalare, in rapporto alla dottrina schellinghiana dello Stato sviluppata nel
Sistema, la tesi della « costituzione cosmopolitica », difesa con una motivazione origi­
nale: un'organizzazione soprannazionale degli Stati, per Schelling, non deve tanto ga,
rantire la pace, quanto, attraverso reciproci controlli, il rispetto dlela libertà degli indi­
vidui da parte dei singoli Stati stessi.
·SCHELLING 773

certo equilibrio metafisico (il limite non è più visto come incom­
prensibile, perché il negativo appartiene alla struttura dell'Io), è an­
che vero che in questo scritto tale equilibrio non è ancora del tutto
acquisito. Sarà soltanto dopo il Sistema che Schelling tematizzerà
formalmente ed in modo non incoerente od oscillante il punto di
vista della :filosofia della natura. Nel Sistema, Schelling pone una
tesi - l'Assoluto si manifesta solo col finito - la quale trova la
propria giustificazione in una concezione dell'Originario che ver­
rà proposta esplicitamente solo dopo il Sistema, nel periodo della
:filosofia dell'identità.
La tesi del Sistema è la seguente: l'Io è infinito solo in unio­
ne col finito, come infinita posizione ed infinito sorpassamento
del limite; esso non è mai infinito come identità delle due atti­
vità originarie, che sono reali solo nella reciproca limitazione. L'Io
raggiunge l'infinità come infinità che si nega e si riafferma, come
infinito, cioè, che si fa infinito e risorge da esso; l'infinito è perciò
infìnito come finito e infinito, come loro identità. In quanto tale,
l'infinito è l'infinita serie degli atti di limitazione e di sorpassamento
della limitazione. L'Io non potrà mai essere infinito di una pura
infinità. Atteso ciò, quando Schelling afferma la necessità per l'Io
di intuirsi come infinito produrre ed infinito sapere (l'Assoluto
deve manifestarsi qua tale), può solo affermare un'autointuizione
che non sopprime il mondo, il finito, ma, soltanto, si oppone, come
sapere dell'infinito produrre, al prodotto, sapendolo come prodotto.
Ed in effetti, la legge morale, che comanda all'Io di affermarsi pra­
ticamente come infinita posizione di sé, esprime sl l'esigenza di au­
toposizione contro il mondo, ma solo nel senso che non ci si deve
lasciare determinare ab extrinseco da parte degli oggetti, che gli
oggetti devono essere voluti perché attraverso di essi emerga l'au­
toaffermazione dell'Io (e non per la loro attraenza sensibile, perché
sono piacevoli, e via); non si tratta però, in ogni caso, di un'auto�
posizione che annichili il mondo.
Nel Sistema nessun atto dell'Assoluto è posto come puramen­
te infinito, ma neanche si dice, in esso, che un qualche atto deb 0

ba cercare un'assoluta infinità. La differenza tra i vari atti ri�


guarderà la maggiore o minore consapevolezza dell'infinità nella
finità, della soggettività e oggettività identiche dell'Io. Tale dif­
ferenza si esprime nei diversi tipi di atti, che è ora il momento di
ricordare.
774 FILOSOFIA MODERNA

Due prime serie di atti sono costituite da quella in cui l'Io si sa


come Io infinito di fronte al finito, visto come proprio prodotto, e
da quella in cui l'Io si pone come volere incondizionato contro gli
oggetti finiti: il permanere di tali oggetti non è un ostacolo alla infi­
nità dell'Io, che qui si realizza ponendosi come incondizionato vo­
lere, perché l'Io si pone come infinito volere solo in quanto lotta
contro gli ostacoli, i quali sono essenziali affinché l'infinito sia come
deve essere: come infinito e finito, e infinito nel finito. Soltanto se
l'infinito fosse solo tale, allora il permanere degli oggetti impedi­
rebbe all'Io l'infinità.
Nell'arte, poi, l'Io si sa non solo come volere-sapere infinito
che ha l'oggetto di fronte, ma come sapere infinito che opera in­
consapevolmente e come sapere inconsapevole che si sa, come og­
getto e come soggetto identici (infinito e finito identici), eppure
opposti, e identici nell'opposizione (come lo e come natura, sog­
getto-oggetto e oggetto-soggetto, che sono identici nell'opposizio­
ne). È. opportuno fermarsi un momento - prima di riprendere
l'esame del movimento del pensiero schellinghiano - su questo te­
ma dell'arte.
L'arte è per Schelling (nel Sistema) la forma più alta di at­
tività, perché è in essa che l'Assoluto si manifesta nel modo più
compiuto: l'atto artistico è infatti un atto che consiste in un
produrre con coscienza (liberamente, idealizzando gli oggetti), il
quale è insieme inconscio; ma esso è, anche in questo essere incon­
scio, pur inconsapevolmente intelligente. Nell'atto dell'artista si
manifesta quindi l'Assoluto come unità di conscio e di inconscio;
in esso l'Assoluto si sa come conscio-inconscio (l'attività consa­
pevolmente progettante dell'artista) e come inconscio-conscio (l'ispi­
razione che trascina l'artista, lo guida oltre la progettazione sua
consapevole verso mete non previste, e nella quale vive l'Assoluto
nel suo lato reale-ideale); la fenomenologia dell'arte conferma, per
Schelling, questa funzione rivelatrice dell'Assoluto propria dell'in­
tuizione estetica. Il nostro autore conclude la sua riflessione sull'ar­
te, osservando che essa è superiore al sapere filosofico, ancora par­
ziale, e che « l'organo universale della filosofi.a » è la filosofia del­
l'arte: solo nell'arte infatti l'Assoluto si manifesta insieme in tutti
i suoi aspetti.
Con questa dottrina dell'arte Schelling si collega strettamente
con gli indirizzi estetici romantici prevalenti nel suo tempo; le sue
SCHELLING 775

prospettive sull'arte ebbero una notevole fortuna, molto maggiore


di quella di cui beneficiarono le sue idee sulla filosofia della natura 2•

Riprendendo l'esposizione dello svolgimento del pensiero


schellinghiano, dal punto di vista della meditazione sulla strut­
tura dell'Assoluto nelle sue componenti originarie, rileveremo co­
me siano le opere del periodo della « filosofia dell'identità» quel­
le nelle quali l'identità originaria del finito e dell'infinito è posta
esplicitamente, e non solo di fatto, in itinere. È in questo momento
che si riconosce che l'Assoluto è identità, che esso è « insieme ma­
teria e forma di se stesso, soggetto e oggetto di sé, senza smettere
di essere ciò che è sia nel soggettivo che nell'oggettivo» (ove l'og­
gettività è assunta come legata essenzialmente alla finitezza). L'ac­
cettazione piena del finito, pur nel mantenimento della esigenza di
affermazione dell'infinità, è possibile solo in questo momento, che
trova nella Esposizione del mio sistema filosofico la sua espres-­
sione più chiara, e che si protrarrà - almeno - pur con interni
sviluppi che verranno studiati più avanti, fino al 1806.
L'enunciazione più limpida è forse quella della Esposizione
del mio sistema filosofico; un saggio del 1806, Sul rapporto del­
l'ideale e del reale nella natura, riprende e ribadisce, alla fine del
periodo della filosofia dell'identità, l'impossibilità dell'infinito di
farsi finito, di trapassare in esso. Tra finito ed infinito ci deve esse­
re originaria identità; ma Schelling si preoccupa di sottolineare
che se si deve affermare una copula originaria infinita, se è vero che
si deve porre il finito come pervaso e dominato dall'infinito, è pur

' In seguito, nella Filosofia dell'arte, Schelling modificò in parte la sua prospettiva
estetica. Ritornato acuto, con il Bruno, il problema della origine del finito e della dif­
ferenza, e riconosciuta la difficoltà di risolvere il problema in sede strettamente filo­
sofica, Schelling tentò, per un momento, nella Filosofia dell'arte, di far fronte al pro­
blema sul terreno dell'estetica. « Non la ragione - riassume l'Assunto - ma la im­
maginazione può renderci conto del finito e del diverso in quanto non è negazione
dell'infinita identità, ma è il manifestarsi reale di questa infinita identità. L'immagi­
nazione, dunque, questa meravigliosa facoltà ( ...) garantisce di fronte al pensiero la
realtà in quanto finita e differente, e in tanto la garantisce in quanto la finitezza e le
differenza del reale, proprio per merito della immaginazione, mostrano la propria iden­
tità diversa rispetto all'Infinito Identico: identità che consiste nelle forme del finito e
del differente come infinità e identità delle realtà finite e differenti; quelle forme ap­
punto che sono le idee realizzate dalla immaginazione come dèi, gli dèi che· l'arte mo­
stra come proprie forme che sono anche l'inseità infinita e identica del molteplice di­
verso» (R. ASSUNTO, Estetica dell'identità. Lettura della « Filosofia dell'arte» di Schel­
ling, Urbino 1962, pp. 16.5-166).
776 FILOSOFIA MODERNA

vero che il finito deve anche essere come finito, e bisogna quindi
porre anche una forma della finitudine nella infinità. Con questo,
Schelling ribadisce la sua preoccupazione di « salvare » il finito
anche nell'identità originaria. La difficoltà interna di una posi­
zione di questo genere (struttura contraddittoria dell'Originario)
non è certo di poco conto, ma Schelling accetta qui tale struttura,
e può, trascurandone le implicazioni aporetiche, produrre poi un
sistema che, nella sua espansione determinata, non soffre più delle
difficoltà e degli sqùilibri che son stati riconosciuti appartenere
ai momenti precedenti della sua posizione.

5. Filosofia e religione

La filosofia dell'identità segna certo un momento di « pacifi­


cazione » sistematica, in Schelling: lo abbiamo visto. Dobbiamo
però rilevare che la « pacificazione », se fu effettivamente tale
rispetto alle difficoltà sollevate dallo sforzo di conciliare fìchtismo
e filosofia della natura, non si rivelò poi definitiva. Alcuni aspetti
del finito - divenire, male, morte - non risultavano facilmente
conciliabili con il sistema dell'identità; nuovi interessi religiosi era­
no inoltre venuti emergendo in Schelling (nel primo paragrafo ab­
biamo già ricordato, sia pur brevemente, alcuni episodi rilevanti
della vita di Schelling che concorsero a favorire l'accentuarsi dei
nuovi interessi).
Accadde così che proprio nel pieno del periodo della « filo­
sofia dell'identità », Schelling incominciasse a pubblicare scritti i
quali rivelano l'emergere di nuovi problemi, e l'affiorare di nuovi
orientamenti, in direzione religiosa. Lo scritto più comunemente
considerato come espressione iniziale della svolta in senso religioso
di Schelling è il saggio del 1804 Filosofia e religione; ma va ag­
giunto che, in realtà, già il Bruno, del 1802, è interessante, in pro­
posito; fra poco avremo modo di vederlo.
Fino a quando Schelling pone l'Assoluto come una realtà ori­
ginaria, infinita e priva di singole determinazioni, che si svolge pro­
gressivamente nel molteplice, che si attua in un processo, in un di­
venire in cui i singoli enti si realizzano, il problema del finito co­
me realtà diveniente non sorge. Ma sticcessivarriente Schelling po­
ne l'Assoluto come unità di tutte le determinazioni assunte come
SCHELLING 7TJ

compresenti, come posizione originaria del molteplice unificato ap­


punto in un'unità necessaria, come unità tutta in atto del moltepli­
ce, già realizzata ab aeterno, al di fuori del divenire; a questo pun�
to il problema del finito diveniente si fa acuto, e Schelling è spin­
to a tentare di risolverlo ponendo una reduplicazione dell'Assoluto,
un essere dell'Assoluto fuori della forma dell'assolutezza, che do­
vrebbe permettere di dar conto anche del finito diveniente.
Già il Bruno - che per la prima volta contiene un accenno
alla possibilità che le Idee (le forme, cioè, in cui si esprime l'As­
soluto) , si stacchino per un atto volontario proprio delle Idee
stesse - contrappone all'Assoluto, in cui ogni reale è posto eter­
namente, fuori del tempo, il finito, come ciò che è nel tempo:
ciò che permette la successione temporale (il divenire) è il non es­
sere assoluto di ciò che diviene, il suo andare nel nulla. Il legame
con il nulla, che viene individuato come componente essenziale di
:finitezza e temporalità, è ribadito in Filosofia e Religione; in questo
scritto ci si riferisce ad un nulla autentico, non a quel semplice re­
lativo non essere per il quale anche nell'Assoluto una determina­
zione, pur avendo il medesimo essere delle altre, pur non potendo
non essere con le altre, non è un'altra determinazione: questo sa­
rebbe un non essere che vuol dire essere un altro essere, come già
aveva visto Platone, quel Platone ben presente allo Schelling
sia del Bruno che di Filosofia e Religione, e non il vero non
essere proprio del divenire come andare nel nulla. Ora, è ap­
punto il riconoscimento del legame essenziale del finito con il
nulla quello che produce il tentativo di. porre il finito fuori
dell'Assoluto: il finito deve essere il frutto di un distacco dal­
l'Assoluto, esso deve essere fuori dell'Assoluto, separato da esso;
ma cosa significa. qui, parlare di separazione?
La metafisica teistica aveva risolto il problema dell'assolu­
tezza o meno del finito ponendo quest'ultimo in dipendenza crea­
tiva da Dio. Schelling, viceversa, non riesce ad ammettere nep­
pure qui una distinzione ontologica tra finito ed infinito: que­
sto risulta dalla tesi per la quale l'Assoluto vedrebbe il distac­
co da sé delle Idee (costituenti l'Assoluto obiettivato), senza,
con ciò, perdere se stesso. Il · finito, cioè, nasce dal distacco
che l'Idea compie dall'Assoluto; è l'Idea (forma dell'Assoluto)
che si pone come particolare, diveniente; ma ciò che diviene
è proprio l'Idea che eternamente risiede in Dio, è, cioè, ancora
778 FILOSOFIA MODERNA

l'Assoluto in un'altra forma del suo essere. Ora, questo ci mostra


appunto uno Schelling che non pone un finito che sia radical­
mente distinto, quanto all'essere, da Dio: dato che è il medesimo
essere dell'Assoluto (come Idea) che si realizza nel finito.
Un documento del nuovo corso della riflessione schellinghiana
è in genere ravvisato anche nelle Ricerche filosofiche sull'essenza
della libertà umana, del 1809, le quali segnerebbero una tappa es­
senziale nel movimento schellinghiano verso una prospettiva che
si sottragga al puro razionalismo, e si volga in direzione positi­
va, religiosa, valorizzando insieme in modo autentico la libertà.
In effetti, in quest'opera Schelling definisce Dio come vita, co­
me amore; egli intende difendere decisamente la libertà in ftm­
zione di tale concezione di Dio, e, ancora, cerca di comprendere
il male al di fuori della sua semplice riduzione ad imperfezione,
a limitazione metafisica (come sarebbe da intendere restando sul­
la linea dello Spinoza); né si deve trascurare la manifesta influenza
dei teosofi (Jakob Bohme ed i suoi seguaci moderni, Friedrich Chri­
stoph Oetinger e Franz von Baader); tutti questi elementi fareb­
bero di quest'opera un documento piuttosto notevole del nuovo
orientamento schellinghiano.
Non è qui possibile sviluppare l'esame delle Ricerche filosofiche;
è però opportuno notare che questo scritto non sembra costituire
una vera svolta dello Schelling verso quella che sarà la fi.loso­
-6.a positiva. Le Ricerche filosofiche presentano indubbiamente una
determinazione del concetto di male che è estranea alle dottrine
di tipo spinoziano, e che potrebbe orientare diversamente (in sen­
so, ad esempio, consono alla dottrina cristiana) lo Schelling; di
fatto, però, il quadro generale rimane idealistico; le novità presenti
nell'opera sono secondarie, e tra esse non ha certo rilievo sostan­
ziale quella relativa alla definizione di Dio come volontà di unifi­
cazione, amore e spirito unificante; tali termini, infatti, non han­
no alle spalle una modificazione reale delle prospettive idealisti­
che antecedenti al Bruno. Le Ricerche ripresentano, in fondo, pur
nella novità del linguaggio (attraversato dalla influenza bohmiana),
la dottrina, che era stata abbandonata a partire dal Bruno, dell'As­
soluto come attuazione successiva di una unità-dualità origina­
ria infinita ed indeterminata, che trova la propria perfetta realiz­
zazione attraverso un divenire necessario. Cosl, dal sacrificio del
divenire, compiuto nel periodo 1802-1806 (a parte gli sforzi am-
SCHELLING 779

bigui prima ricordati), s1 ritorna al sacrificio della pura positività


dell'Originario. La stessa dottrina della libertà, centro dell'opera,
deve tener conto del fatto che solo con l'idealismo si ha l'esatto
concetto di essa.
Schelling, certo, accentua particolarmente ciò che meglio espri­
me l'autonomia del finito: la libertà, l'individualità, il male, la
storicità del reale; e questo ci rivela appunto che egli ha abban­
donato l'immobilismo meta.fisico proprio del periodo del 1802-1806;
ma tali fattori ed elementi della finitezza vengono di fatto mante­
nuti nell'ambito di una prospettiva immanentistico-idealistica.
L'influenza della teosofia, sottolineata da molti studiosi, a pro­
posito di questo scritto, non deve essere sopravvalutata: ciò, sia
perché gli aspetti irrazionalistici in esso impliciti sono in sostanza
respinti dallo Schelling, sia perché anche il teosofismo era in fon­
do immanentista, e l'immanentismo Schelling lo era venuto svol­
gendo già per proprio conto 3•
È indubbiamente anche dal teosofismo, va peraltro ricono­
sciuto, che Schelling deriva un incentivo ad intendere la storia
come processo di restaurazione di un ordine divino presente in
origine nell'uomo eppoi spezzatosi; ma non si può dimenticare
che già Filosofia e Religione poneva la caduta all'origine del fi­
nito e della storia, intesa quest'ultima come processo di restaura­
zione dell'unità divina. È con il 1804 che il compatto ottimismo
schellinghiano, trovante espressione nella dottrina sulla intuizione
estetica dell'armonia dell'essere, si spezza, e viene in primo piano
il nuovo interesse etico-storico di Schelling. È da quel momento
che la storia acquista agli occhi di Schelling quella drammaticità,
che non verrà più negata, e che spingerà a guardare in essa con
un interesse che in precedenza non avrebbe trovato una vera giu­
stificazione: non per nulla, il filosofo dirà che è dopo Jena (dopo
il 1803, cioè, e, perciò, in occasione della critica di Eschenmayer,

3
Schelling derivò sicuramente dal Bohme, attraverso le mediazioni ora indicate,
il concetto del Wille des Ungrundes, del volere inteso come fondo cieco da cui affiora
la natura, che è il corpo di Dio; e, ancora, l'insistenza nell'intendere Dio come vita
è certo dovuta all'influsso bohmiano. È però da Oetinger, e soprattutto da Baader, di­
rettamente, che lo Schelliog riceve la spinta alla considerazione del male non più come
semplice imperfezione metafisica, ma come rottura dell'armonia delle forze, trasformate
in strumenti per fini parziali, egoistici, sostenuta nelle Ricerche.
780 FILOSOFIA MODERNA

che è appunto del 1803 4), che egli ha compreso l'importanza cen­
trale della religione per risollevare la massa inerte degli uomini.
Ma tutti i motivi di novità che si sono venuti elencando non
superano ancora il fondamentale schema idealistico ed immanenti­
stico di base. Per arrivare veramente allo sforzo più deciso di
Schelling in senso trascendentistico e realistico, occorsero ancora
molti anni: furono soprattutto gli attacchi di Eschenmayer e di
Jacobi, insieme con la meditazione attenta su quanto il raziona­
lismo idealistico, esplicitato e codificato nella sua logica dallo
Hegel, potesse e non potesse dare, a produrre il più deciso pas­
so in direzione cristiana di Schelling. Lo sviluppo ampio e sistema­
tico da parte dello Hegel di quei concetti che avevano costituito
il nucleo della stessa « prima » :filosofia di Schelling, costituì il
catalizzatore del più approfondito esame di coscienza filosofico
compiuto dal Nostro.
Il frutto più maturo, e più ampio, delle riflessioni schellin­
ghiane nella nuova direzione, è rappresentato dalle opere monu­
mentali - pubblicate postume - Filosofia della Mitologia e
Filosofia della Rivelazione - alle quali bisognerà ora, soprattutto,
rivolgere l'attenzione.

6. La filosofia positiva

Il cardine dell'ultima speculazione schellinghiana è rappresen­


tato dalla distinzione tra filosofia negativa, che riprende l'antico
idealismo ridotto a dottrina dell'ordine possibile dell'essere, e fi­
losofia positiva, che integra tale idealismo sul piano dell'essere
attuale e della storia.
La tesi di Schelling ruota sul rilievo fondamentale che la
ragione è la facoltà conoscitiva la quale coglie il possibile, l'es­
senza, la natura degli enti, ma non il loro essere attuale, la loro
esistenza: l'esistenza ci è data solo attraverso l'esperienza. La
ragione, infatti, che è facoltà deduttiva, può dimostrare, a partire
da un'essenza, che tale essenza, costituita da determinati elementi,
implica certi rapporti, si connette strutturalmente ad altri ele-

' Il medico e filosofo A. K. A. Eschenmayer obbiettò fra l'altro a Schelling: come


possono derivare le differenze da una indifferenza, da una originaria infinità vuota?
SCHELLING 781

menti che vengono scoperti nella deduzione. La ragione deduce da


un'essenza solo attributi essenziali: ora, tra questi attributi es­
senziali l'esistenza non è compresa. La deduzione, quindi, riguar­
derà il « che cosa », il quid, ma non il « che », il quod degli es­
seri. Con questo, Schelling non intende affermare che la ragione
non abbia a proprio contenuto gli enti che l'esperienza ci dice
esistenti: al contrario, la ragione comprende a priori l'esistente,
conosce, cioè, a priori ciò che può essere, e perciò non esclude l'esi­
stente (ché, anzi, si pone proprio come sua comprensione); solo, es­
sa lo considera come possibile. È l'esperienza, poi, che ci dice se
tale possibile è anche attuale. Schelling aggiunge che la ragione
scopre in sé il contenuto originario di ogni essere, il quale si ar­
ticola in un ordine necessario: dato questo, sarà possibile alla
ragione, quando si sia accertato attraverso l'esperienza che un
dato essere è, dedurre anche gli esseri che lo seguiranno; si tratterà,
solo, di riconoscere in quell'essere i caratteri ad esso propri che
rientrano nel processo di attuazione progressiva del contenuto
originario della ragione. Come si perviene a tale contenuto ori­
ginario? Per astrazione dall'esperienza dell'essere attuale, o altri­
menti? Bisogna, risponde Schelling, partire dal contenuto originario
della ragione indagato indipendentemente dall'esperienza, visto,
cioè, come contenuto di una ragione possibile: si tratta di sapere
che cosa una ragione deve essere, se si dà una ragione. Compiendo
tale indagine, si scopre che tale contenuto è un'infinita potenza di
essere, che costituisce il contenuto primo, anch'esso possibile,
di ogni ente.
Questo è quanto Schelling dice esplicitamente. In realtà, però,
se noi esaminiamo da vicino il suo discorso, dobbiamo constatare,
che se egli apertis verbis afferma che la ragione scopre la propria
essenza senza ricavarla per astrazione dalla sua attualità, di fatto
procede poi diversamente: e questo, si badi, senza che effettivamen­
te il :filosofo smentisca la tesi per la quale la ragione ha a che fare
solo con l'essenza. Schelling, infatti, procede effettivamente in que­
sto modo: la ragione, egli dice (questo ]o dice apertamente), per
poter essere sapere di questo o quello, prima di poter assumere
determinate forme, deve essere ragione qua talis, ragione assoluta,
incondizionata, infinita potenza di conoscere. La ragione, insomma,
rivolgendosi a se stessa, pensandosi hon come ragione in atto, ma
come pura ragione, si sa come infinita potenza. Ora, già questo ci
782 FILOSOFIA MODERNA

permette di rilevare che Schelling, di fatto, risale dalla ragione in


atto alla sua condizione, alla potenza del conoscere, e determina la
struttura di quest'ultima. Altrimenti, come saprebbe egli che la
ragione ha un'apertura infinita? E, prima, che essa è potenza? Si
badi che Schelling non dice: la ragione pone (convenzionalmente)
come suo contenuto questo e quello, ma parla in termini di scoperta,
parla di un trovare. Egli, quindi, non procede da una struttura po­
sta per convenzione alla verifica della sua eventuale realtà.
Schelling prosegue il suo discorso enunciando una tesi basilare:
all'infinita potenza di conoscere dovrà corrispondere la infinita
potenza di essere, l'essere potenziale. Il ponte per passare a que­
sta affermazione è dato in verità molto brevemente: « Poiché ad
ogni conoscere corrisponde un essere, al conoscere effettivo cor­
risponde un essere effettivo, di conseguenza alla infinita potenza
del conoscere non può corrispondere null'altro che l'infinita po­
tenza dell'essere, e questo è il contenuto innato e connaturato alla
conoscenza ».
Questa è l'istituzione del concetto dell'infinita potenza di es­
sere; ora, Schelling aggiunge a tale concetto una determinazione
fondamentale: la potenza di essere di per sé tende ad attuarsi, a
negarsi come potenza. Non c'è nulla, infatti, che la trattenga dal­
l'attuarsi, o, per dir meglio: restando nella pura filosofia negativa
si deve riconoscere il necessario trapasso nell'essere attuale della
potenza; in seguito, l'indagine speculativa riconoscerà che ci deve
essere qualcosa che mantenga la potenza in se stessa come pura
potenza. Ma la filosofia negativa immediatamente non può vederlo;
solo quando si porrà, con la filosofia positiva, l'Ente necessario, si
vedrà che la potenza di essere trapassa nell'essere se non ha l'esse­
re in sé come potenza, e che, dunque, il passaggio all'essere è solo
relativamente necessario; per ora questa relatività non appare, ed è
naturale svolgere il discorso che segue.
Se la potenza di essere trapassa di per sé nell'essere (o, in
ogni caso: essendo ciò che è ordinato, anche se non automatica­
mente, a trapassarvi), essa non è l'ente, l'essere senza non essere,
non è cioè il vero ente, che esclude da sé il suo contraddittorio. Essa,
infatti, è ente in quanto è potenza, ma esce fuori da questo suo ca­
rattere in quanto si attua. La ragione perviene dunque in ultimo
al concetto (possibile) di una potenza di essere che stia in sé, senza
SCHELLING 783

trapassare in atto, di un ente che sia potenza di essere, senza es­


sere in sé negatività.
Questa è la conclusione ultima, negativa, della scienza della
ragione. Quest'ultima dimostra, cioè, che nessun prodotto della
potenza d'essere, in quanto attuazione della potenza di essere po­
sta fuori di sé, è il vero ente. La scienza della ragione non conosce
positivamente l'ente; se lo conoscesse come tale, lo vedrebbe ne­
cessariamente esistente. La scienza della ragione studia la potenza
d'essere come potenza d'essere ed arriva via exclusionis all'ente ve­
ro: la ragione vede nella potenza d'essere ciò che vi è implicito,
se quest'ultima è, epperciò vede anche l'ente in modo parziale;
per conoscere l'ente vero positivamente la ragione non dovrebbe
riflettere sul proprio originario contenuto, ma mettersi da un altro
punto di vista.
Siamo giunti, con questo, ad uno dei nodi più delicati del di­
scorso di Schelling: quello relativo al passaggio dalla filosofia
negativa alla filosofia positiva, o, anche, dal piano dell'essere pos­
sibile a quello dell'essere attuale. Come si può affermare l'Ente
vero? Come si può porre un Ente nel quale l'esistere sia il prius,
e la potenza il posterius? Tale è l'Ente che la :filosofia negativa
consegna, come sua ultima idea, alla filosofia positiva, ponendola
come fonte di problema: un Ente che è necessariamente, perché
è al di qua della potenzialità. La filosofia negativa perviene, come
a suo ultimo risultato, al riconoscimento che Dio è l'Ente che,
se esiste, è necessariamente il necessariamente esistente. La filoso­
fia razionale pone il concetto dell'Ente vero, ma essa non può tra­
passare alla affermazione della sua esistenza: l'errore dei propu­
gnatori dell'argomento ontologico è consistito, appunto, nella pre­
tesa di compiere tale trapasso.
Un aspetto dell'argomento ontologico avrebbe potuto essere
salvato, dice però Schelling: esso deve essere respinto, infatti, in
quanto pretenda di partire dalla natura di Dio; ma esso avrebbe
avuto valore se si fosse abbandonato tale punto di partenza essen­
zialistico, e si fosse preso come base semplicemente il concetto di
necessariamente esistente. È discutendo Leibniz che Schelling svol­
ge - nella Filosofia della rivelazione (lez. VIII) - la sua originale
prospettiva: « Se, però, si intende sotto ex cuius essentia sequitur
existentia appunto il necessariamente esistente stesso, in quanto
cioè esso è ciò di cui non si pensa altre- che questo, che esso
784 FILOSOFIA MODERNA

appunto è l'esistente, allora non occorre alcuna prova per la sua


esistenza; sarebbe insensato voler provare, di ciò che appunto
soltanto è pensato come l'esistente in senso verbale, che esso è.
Ma questo, che non è null'altro, che non ha alcun concetto se
non quello di essere l'esistente (e con questo essere precedente
al suo concetto incomincia la :filosofi.a positiva), questo non è an­
cora in alcun modo Dio». Si tratta di abbandonare il discorso
sull'essenza di Dio, per pensare solo all'essere tutto essere, senza
negativo, ad un puro esistere. Relativamente ad esso, avanzare dub­
bi sarebbe assurdo: il dubbio può aver luogo solo dove « si danno
due casi, due possibilità; ciò che è in sé dubbio è, appunto perciò,
la potenza, che può essere e non essere. Dubbio, precario, è anche
l'essere di tutte le cose che sono scaturite dalla potenza, e che cer­
to ora sono, come noi diciamo, ma in modo meramente casuale;
esse dunque non cessano di potere anche essere nulla e restano
sospese nel costante pericolo di non essere. Dall'esistente, però,
dal quale è esclusa ogni potenza, che è l'esclusivo fondamento di
ogni dubbio, è appunto perciò escluso ogni dubbio, esso è !'indu­
bitabilmente esistente».
Come si vede, Schelling non avanza più, relativamente al pen­
siero del necessariamente esistente, l'obiezione: si tratta di un
discorso sull'essenza. Per lui, infatti, l'esistenza è estranea (anche
se non contraddittoria) all'essenza, non è un contenuto tra conte­
nuti, e, quindi, ciò che si sa di essa non appartiene al piano del pos­
sibile.
Schelling vuole poi provare che l'Esistente vero è Dio. An­
che qui, come spesso nei passaggi decisivi del suo pensiero, Schel­
ling è molto conciso: « se il necessariamente esistente è Dio. al­
lora si dà questa e quella conseguenza - allora a, b, c, ecc., vo­
gliamo dire, diventano possibili; ma a, b, c, ecc., esistono real­
mente in base alla nostra esperienza; dunque - conclusione neces­
saria - il necessariamente esistente è realmente Dio ». Queste
affermazioni, connesse con tutto il contesto, non possono che
avere questo significato: se l'esistente necessario è Dio, esso
è infinita potenza d'essere che può, se vuole, produrre un mondo;
tale mondo non può non avere certi caratteri, dedotti a priori
appunto a partire dall'infinita potenza d'essere che Dio attua; ma
tale mondo esiste (ce lo dice l'esperienza); dunque Dio (Dio, e
non solo l'esistente necessario) esiste.
SCHELLING 785

Per determinare il rapporto tra Dio e il mondo, il rapporto


creativo, cioè, bisogna determinare bene, in primo luogo, il con­
cetto dell'Ente vero, che è il soggetto della creazione. A questo
scopo, va preso in esame anzitutto un ulteriore motivo della dot­
trina schellinghiana: quello relativo alla definizione dell'essere co­
me volontà, che attirò l'attenzione di Eduardo van Hartmann, e,
dietro di lui, di altri studiosi. Esponiamo brevemente la tesi schel­
linghiana in proposito.
Schelling stabilisce l'equazione: essere = volontà. La potenza
d'essere è volere, e, in genere, « ogni potere è soltanto volontà
in quiete, cosl come ogni volere è soltanto potere divenuto at­
tivo »; volere è anche l'esistente necessario che è l'actus della po­
tenza d'essere. La potenza d'essere è la volontà che di per sé
passerebbe immediatamente nell'atto, ma che nell'Ente vero (nel­
lo Spirito, cioè) è trattenuta in sé, posta come volontà non volente;
l'esistente necessario è volontà infinitamente, puramente volente,
nel senso che non vuole se stessa come volontà, ma vuole la po­
tenza d'essere come potenza d'essere.
L'esistente necessario è dunque essere che ha per carattere
quello di volere la potenza d'essere posta in quanto tale. Tra
i due termini, avverte Schelling, c'è identità sostanziale, nel sen­
so più stretto: non si tratta di due forme unite, sl, ma esterne
l'una all'altra; potenza d'essere e necessariamente esistente sono
identici, pur essendo opposti.
La vera realtà originaria, però, l'essere che è compos sui, che
propriamente deve essere, che non cerca al di fuori di sé il pro­
prio completamento, non è nessuno di questi due fattori nella loro
unilateralità, né il vincolo unificante tra i due (la terza Potenza),
ma l'Unità inscindibile dei tre fattori. L'Uno non è né pura po­
tenza d'essere né puro esistente: l'Uno infatti, in quanto potenza
d'essere, « è piuttosto posto espressamente come ciò che non è
esistente per sé o per amore di sé poiché esso è posto come sog­
getto del puramente esistente. In quanto è questo ultimo, però,
esso non è neanche posto come ciò che è per amore di sé, ma esso
è posto solo per mantenere il primo come soggetto, nella soggetti­
vità o soggezione ». L'Ente che « deve » essere, deve essere per
amore di sé: esso starà dunque nel mezzo tra le due opposte
unilateralità, ma sarà libero da entrambe, perché è entrambe, e,
dunque, sarà libero da entrambe come un terzo. Esso sarà « ciò in
786 FILOSOFIA MODERNA

cui l'atto non esclude la potenza e la potenza non esclude l'atto »,


o « ciò che anzitutto è realmente libero di essere e di non essere,
perché esso nell'agire o nel volere non cessa di permanere come
fonte dell'agire, come volontà, e non ha perciò necessità, per es­
sere potenza o volontà, di essere puro non-volere». Abbiamo così
conquistato il concetto dell'Ente vero come Spirito, e come Spirito
perfetto: in esso, infatti, la parte è proprio il tutto e il tutto non
è più di ciò che è anche ogni parte.
Lo Spirito, essendo volontà che non può venire meno come
che esso si ponga, è veramente libero; se esso è libero da ognu­
na delle tre forme in particolare, esso è anche libero, eventual­
mente, di porsi partitamente in ciascuna di esse: esso sa, infatti,
che da questo suo spezzarsi e potenzializzarsi non deriverebbe
una sua distruzione. Allo Spirito è indifferente essere in tensione
o in unità; e questa indifferenza relativamente al modo in cui
si è, è una caratteristica essenziale della libertà. L'apparizione
della possibilità di porre se stesso fuori di sé, con la creazione.
è condizione, per lo Spirito, del suo prendere coscienza di sé co­
me volontà, come Spirito che può volere. Noi non seguiremo lo
Schelling nelle sue considerazioni, pur assai interessanti, sul con­
cetto di libertà; in questa sede ci limiteremo a fare un rilievo:
come si può vedere, Schelling dà già per scontato che la creazione,
se avviene, avviene per attuazione della potenza d'essere che è
nell'Uno, che è l'Uno.

Poiché, però, il processo della creazione è per Schelling pro­


cesso teogonico, in cui si realizza la Trinità divina, diventa ne­
cessario, per affrontare il tema della creazione, affrontare anche
la dottrina trinitaria dello Schelling. Per il nostro filosofo Dio,
nell'unità originaria delle sue Potenze, è la personalità assoluta
creatrice, il Padre, ed egli lo è in senso preciso: perché creando
compie proprio ciò che è specifico della generazione: la produzione
di un essere omogeneo a sé per specie, che però deve svilupparsi
ed arrivare a tale uguaglianza attraverso uno sviluppo necessario a
partire da uno stato potenziale. Ora, Dio pone, attraverso la po­
tenza d'essere attuata per se stessa (la quale può essere definita
la potenza generatrice del Padre), l'esistente necessario fuori dal
suo essere originario, e, dunque, in potenza, ma come un essere
che deve restaurare l'unità e ritornare al suo stato originario di
SCHELLING 787

actus purissimus, vincendo l'opposta potenza d'essere. L'esistente


necessario posto fuori dell'unità, in tensione, è il Figlio diveniente,
già generato ma non ancora compiutamente attuato; il vero e pro­
prio Figlio si ha solo alla fine del processo, là dove l'esistente ne­
cessario è rientrato nell'unità; in questa unità egli è rientrato come
un essere che è nato da una tensione superata e, dunque, ora pos­
siede una personalità autonoma, è identico al Padre, ha la medesima
sostanzialità, ma con una sua propria personalità.
Si può dunque rilevare che la seconda persona della Trinità
è condizionata dall'esserci della creatura ( cosl sarà anche della
terza Persona, e in certo senso della prima, in quanto essa è
Padre in quanto crea ed in quanto le potenze sono restaurate in
unità). Il Figlio, certo, non è detto da Schelling creato, ma ge­
nerato: egli, infatti, essendo omogeneo al Padre, essendo coeterno
al Padre come realtà possibile, e ritornando alla perfetta ugua­
glianza col Padre, non può essere detto diverso dal Padre per tut­
to il suo essere come lo è una creatura, ma solo generato ( si de­
ve desumere, da questa tesi schellinghiana, che creatura è per
Schelling ogni momento del processo reale fuori di Dio prima del
ritorno dell'esistente necessario posto in statum potentiae al suo
stato originario; ogni momento, cioè, dell'essere fuori di Dio
che non esprima un'uguaglianza con Dio). La creazione, però,
è pur detta da Schelling condizione essenziale del Figlio: senza
di essa, infatti, non sarebbe possibile neppure la tensione delle
potenze, il ritorno all'unità, l'instaurazione del Figlio come Fi­
glio, come persona autonoma. Alla fine del processo è lo stesso
Dio che è reale nelle tre personalità, e l'uomo è l'essere in cui
si attua tale realizzazione-restaurazione di Dio.
Ora, il processo nel quale si realizza la Trinità è il proces­
so nel quale si sviluppa e si realizza il mondo, il quale dunque,
come si era detto, è posto da Schelling come divino. Il proces­
so, infatti, attraverso il quale si pone la Trinità, e, prima, il mon­
do concreto, è sl processo creaturale ( e, per la Trinità, genera­
tivo insieme); ma esso non accade extra Deum_: in esso, infatti,
come si è visto, Dio nella sua unità è pur sempre presente in
ogni momento della tensione. È Dio stesso che entra nel processo,
uscendo da sé: non vi è dunque in esso alcun essere extradivino,
tutto è ancora chiuso in Dio. Questo non significa, certo, che
Schelling non intenda poi affermare un mondo veramente fuori
788 FILOSOFIA MODERNA

di Dio. Solo, egli affermerà un tale mondo come conseguenza del­


la caduta dell'uomo originario, dell'uomo cioè nel quale si è rea­
lizzata la Trinità, con una dottrina che ci si rivelerà incapace
di fondare veramente un mondo extra Deum. Cerchiamo anzitutto
di fissare con esattezza la portata di questa dottrina.
L'uomo originario, dice Schellirig, l'Urmensch, è l'unità re­
staurata delle forme-potenze divine. Se l'intera forza della pri­
ma causa (la potenza d'essere posta fuori di sé) è ritornata al
suo puro essere in se stessa, e così pure la forza della secon­
da causa (l'esistente puro potenzializzato ), allora l'essere in cui
tale annullamento avviene sarà ciò che Dio è originariamente,
sarà il Dio divenuto: ecco la massima creatura, l'uomo origina­
rio, che per questo motivo la narrazione biblica pone nel Pa­
radiso.
Ma questo Urmensch, se è come Dio, sarà libero come Dio,
« poiché non dipende unilateralmente da nessuna delle due cause
operanti nel processo ». Questa libertà è ciò, però, che costitui­
sce anche la possibilità del naufragio dell'uomo: questi, infatti,
è simile a Dio, è proprio come Dio, con l'unica ma decisiva dif­
ferenza dell'essere divenuto: « Ma questa differenza egli non la
avverte. In quanto, infatti, egli è libero dalle tre cause non le
avverte come condizioni, presupposti del suo essere ». Dato que­
sto, egli, riconoscendo la propria libertà, e vedendo in sé la stes­
sa possibilità di un altro essere vista da Dio, si volge alle po­
tenze come si volgeva ad esse Dio, per essere egli stesso come Dio.
Il significato della tesi schellinghian3 non può essere che
questo: l'uomo è un Dio divenuto, egli non è necessario per es­
senza, ma solo in conseguenza di un processo. Se egli, di conse­
guenza, rompe l'equilibrio delle cause che era stato in lui rag­
giunto, l'unità non si riconquista più attraverso un processo
necessario, perché Dio non è più presente, come Unità, in essa.
È dunque l'uomo (originario) il vero artefice del mondo fuori
di Dio in senso rigoroso. L'attuale mondo, dominio della morte,
della dispersione, della disorganicità, non è quello originario del­
la creazione divina: quest'ultimo era ancora in Dio, e attraver­
so l'uomo acquistava unità ed eternità. Con la caduta, certo, la
coscienza dell'uomo non scompare, perché la Provvidenza evi­
dentemente non lo ha voluto; essa, però, cade preda della potenza
d'essere nuovamente scatenata, che ora, non più mantenuta nel-
SCHELLING 789

l'unità di Dio, diventa il princ1p10 della morte, il nemico della


creatura ( ogni creatura nasce infatti dal soggiogamento di tale
potenza).

7. Filosofia, mitologia, rivelazione

Siamo, ora, all'ultimo fondamentale tema dell'ultimo Schel­


ling: quello relativo al rapporto tra filosofia e rivelazione. Il
punto della dottrina schellinghiana, in proposito, che deve essere
messo in vista per primo, riguarda il modo in cui l'uomo conosce
il fatto della caduta.
La caduta - dice Schelling, seguendo la dottrina tradizio­
nale in proposito - non può essere dedotta dalla ragione, essa è
appresa a partire semplicemente dall'esperienza. La filosofia può
solo dedurre che essa è possibile, può arrivare solo fino all'uo­
mo originario come essere capace della caduta ( essa può dun­
que rendere intelligibile la caduta se essa c'è stata, e se altri­
menti la si accerti); ma che la caduta ci sia stata non può es­
sere dedotto a priori, perché essa dipende dalla libertà. Biso­
gnerà guardare alla natura e alla storia, aposterioristicamente:
la natura ci si presenta priva di un punto di unificazione, la co­
scienza è come una tabula rasa, ma aspira ad un sapere assoluto,
né natura né coscienza sono come esse dovevano essere in virtù
della creazione originaria. Questo ci porta a concludere che la
caduta è indispensabile per spiegare la scomparsa della condizione
originaria.
Con questo, come si vede, Schelling dichiara non deducibile
razionalisticamente uno dei cardini della rivelazione vetero-testa­
mentaria; è anche vero, però, che esso è dichiarato riconoscibile
anche indipendentemente dalla rivelazione, semplicemente sulla
base dell'incontro dell'esperienza storica con quanto la ragione
ha dedotto; il che prefigura già il tipico modo schellinghiano
di accostamento ai dati della rivelazione, che dovrà venire ora
approfondito. Possiamo prendere l'avvio esaminando quanto il no­
stro filosofo dice sui caratteri di ciò che si produce in conseguenza
della caduta dell'uomo.
Dalla caduta si origina, per Schelling, una nuova tensione,
un nuovo processo; ma questa volta il processo si produce in quan-
790 FILOSOFIA MODERNA

to l'uomo si è messo al posto del Padre, fa quello che è legittimo


solo per il Padre; e questo fa si che le Potenze siano ora poste
realmente l'una fuori dell'altra: « il processo che inizia nella co­
scienza con la posizione della tensione è teogonico - poiché le
potenze che operano in esso sono in sé teogoniche - ma insieme
anche pienamente extra-divino, ancora solo naturale, nel quale
ancora le potenze si comportano solo come potenze naturali: è il
processo che noi conosciamo già come processo del paganesimo o
della mitologia».
Le tre potenze avranno nel processo mitologico, restauratore
dell'unità, una funzione analoga a quella che esse avevano nel­
l'originario processo creativo: il compito di attore del ritorno
sarà anche adesso attribuito alla seconda potenza, che dovrà ri­
portare nel suo in sé la prima, e che sarà dunque quella mediatri­
ce. Con la caduta scompare il dominio dell'uomo sul mondo, e la
perfetta conoscenza del mondo. Le tre cause, di conseguenza, si
scindono nella coscienza, esse sono ora viste dall'uomo come po­
tenze cosmiche in lotta tra di loro. Nella. creazione, prima erano
posti i prodotti obbiettivi di tale lotta, e poi sorgeva la coscien­
za; dopo la caduta, la coscienza già c'è, e, di conseguenza, ciò che
si scinde sono le potenze viste come potenze: ciò che si spezza,
cioè, è la loro rappresentazione. Il processo mitologico è dunque
una successione di rappresentazioni attraverso le quali progressi­
vamente ma necessariamente l'umanità perviene alla restaurazionè
della coscienza dell'unità originaria; i vari popoli realizzano pro­
gressivamente, con le loro figurazioni mitologiche, le varie tappe di
tale processo di ritorno alla coscienza originaria.
Come si vede, il momento mitologico è un momento necessa­
rio della coscienza: in quanto tale, esso possiede, per Schelling,
una sua positività. Il discorrere di necessità del processo mito­
logico non deve far pensare che esso sia assolutamente necessario,
che, cioè, esso sia deducibile dalla ragione indipendentemente
dal fatto che l'esperienza ci fornisca un qualche avvenimento ca­
pace di mettere in moto tale movimento. Che esso sorga, infatti,
non può, per Schelling, essere dedotto dalla ragione, dal momento
che esso ha origine in un atto di libertà. La filosofia della mi­
tologia, quindi, non può dedurre il sorgere della mitologia, ma
solo quale ne sia il contenuto, posto che esso sia; che la mito­
logia sia ce lo può dire solo l'esperienza storica.
SCHELLING 791

La mitologia è un processo in cui si ritorna, sl, in ultimo,


ad un unitario soggetto-oggetto, all'affermazione del Figlio come
dominatore dell'essere; ma tale ritorno non restituisce l'unità
essenziale delle potenze, perché esso avviene pur sempre in un
essere posto fuori di Dio; l'unità resta sempre extradivina, per­
ché Dio si è ritirato da tale essere. Con il processo mitologico
il principio extradivino non dovente essere uscito fuori dell'unità
attraverso la caduta è sl vinto dalla potenza mediatrice (il Fi­
glio), ma in modo puramente naturale, in quanto cioè la potenza
mediatrice, se è mantenuta, non può non limitare l'opposto, per­
ché ciò appartiene alla sua natura. Ma anche la potenza mediatri­
ce, operando necessariamente, non esce fuori dell'extradivinità:
perché essa opera in quanto posta in condizione (e necessariamen­
te) di operare dalla volontà dell'uomo, che non è la volontà del
Padre: quindi, il suo operare riconduce sì nel suo in sé il prin�
cipio negativo, ma non lo fa per sua (interna) volontà, come vo­
lontà divina, cioè, in cui operi Dio stesso. Il principio nega­
tivo è dunque sl risospinto indietro, ma solo esternamente. Dio,
dunque, può volere la restaurazione attraverso il processo mito­
logico come oggetto del suo sdegno, della sua ira, ma non con la
sua volontà.
Se dunque Dio - come l'esperienza ci dice - ha voluto la con­
servazione dell'essere che è attuazione della potenza d'essere,
non può aver voluto questo essere come :fine ultimo: il fine ultimo
deve essere oggetto della volontà, non della non volontà di Dio.
Qual è la superiore volontà di Dio che passa oltre la mitologia,
rispetto alla quale la mitologia è solo mediale? La risposta non
la può fornire la mitologia, la quale ci dà il processo necessario
di ritorno della potenza d'essere nel suo in sé per opera del Fi­
glio operante naturalmente.
La spiegazione potrà dunque darla - se la dà - una rivela­
zione di Dio. E tale rivelazione dovrà riguardare un atto libero,
non necessario e naturale, perché atti di quest'ultimo tipo non
possono bastare, come si è or ora detto. È qui che avviene l'in­
contro tra la mitologia e la rivelazione: quest'ultima comprende
in sé la mitologia come suo presupposto, e la :filosofia della mi­
tologia viene ad essere ricompresa nella filosofia della rivelazio­
ne. La ragione di per sé sola non può - dice Schelling - dedurre
la risposta alla domanda posta: non può dedurre la natura dell'atto
792 FILOSOFIA MODERNA

libero che si ricerca. Quest'ultimo, infatti, è il motivo per il


quale Dio ha mantenuto la coscienza dopo la caduta. Ora, come
tale mantenimento è libero (e imprevedibile dall'uomo), così è
libero e imprevedibile dall'uomo anche l'atto che dà ragione di
quel mantenimento.
Il Figlio è sl stato posto nuovamente in tensione con la ca­
duta, e fuori di Dio; ma egli vi è entrato non per sua volontà,
non per sua colpa, ma per colpa dell'uomo. Egli, perciò, non
avendo voluto perdere il suo rapporto con Dio (la sua volontà in­
ternamente è ancora quella del Padre) rimane pur sempre divino.
Quando, alla fine del processo mitologico, l'unità è ricomposta,
il Figlio è posto signore dell'essere extradivino con una signo­
ria che gli deriva dalle mani dell'uomo, ed alla quale egli può
restare attaccato, o fare rinuncia per ritornare a Dio, rinunciando
alla volontà propria: è la libertà di Cristo.
A questo punto, Schelling dichiara che la determinazione di
quale delle due possibilità presenti al Figlio si attui, può es­
sere deciso solo extrarazionalmente, attraverso l'esperienza sto­
rica (che comprende la rivelazione). È quest'ultima che ci dice
che Cristo ha rinunciato a tenere per sé solo la signoria dell'es­
sere extradivino, ed ha voluto la ridivinizzazione dell'extradi­
vino.
Schelling parla della deduzione filosofica della rivelazione, pur
escludendo la riduzione della rivelazione stessa a pura religione
razionale; egli si sbriga degli argomenti tradizionali per dimo­
strare la divinità di Cristo definendoli avvocateschi. Non c'è bi­
sogno di questi mezzi esterni, sostiene Schelling, per stabilire la
divinità del Cristianesimo: basta riconoscere che questo grandioso
fenomeno storico ha restituito alla coscienza il valido senso del
rapporto dell'uomo con Dio, e che esso e:;pone una certa dottrina,
la quale implica proprio un certo modo di essere del suo fon­
datore. Ora, questa dottrina e questa vita non sarebbero spie­
gabili con la coscienza immersa nel semplice processo mitologico,
perché esse presentano una nuova dimensione dell'esistenza, la
quale deve avere una fonte diversa da quella della mitologia e del
semplice sapere naturale. Se noi constatiamo - come effettiva­
mente è possibile - che il loro contenuto è quello già dedotto
a priori come necessario se si siano verificati la caduta, il manteni­
mento della coscienza ecc., noi dobbiamo concludere che, dunque,
SCHELLING 793

Cristo è veramente il Figlio dell'uomo e l'universale redentore


(Schelling riconosce, è vero, che per la comprensione del Cristia­
nesimo occorrono filologia ed erudizione; ma aggiunge che la loro
funzione è solo quella di accertare il fatto del Cristianesimo nella
sua autenticità, nei precisi caratteri con 1 quali esso si è storica­
mente presentato).
Si tratta, come si vede, di una prospettiva che vuole me­
diare l'esigenza, propria del razionalismo religioso, di rendere ra­
zionalmente necessario il contenuto della Rivelazione, con l'oppo­
sta esigenza di salvaguardare la peculiarità storica di quest'ultima
(Schelling ci tiene a distinguersi, ad es., dal razionalismo reli­
gioso di un Tindal). La validità del tentativo dipende, ovviamente,
dall'impianto generale della filosofia positiva; ma, in ogni caso, non
si può negare che si tratti di una prospettiva originale degna di
attenzione.
Lo sforzo di Schelling risulta chiaramente orientato, nel com­
plesso, ad una sintesi tra le esigenze religiose che il tardo roman­
ticismo era venuto accentuando, ed il precedente atteggiamento
idealistico, ritenuto pur sempre dal filosofo quello capace di ga­
rantire la più autentica comprensione del mondo, e di guidare
lo sviluppo delle stesse scienze positive. Si tratta, in fondo,
di un nuovo tentativo di mediare ragione e libertà, finalità e ne­
cessità, il quale, però, gioca su di una distinzione di piani co­
noscitivi che non si traduce, come in Kant, in un dualismo anche
di tipi di realtà distinti in funzione del loro rapporto alla co­
noscenza (noumeno e fenomeno); i due tipi di conoscenza, in
Schelling, forniscono due diversi aspetti di una realtà che è
scandita su un alternarsi di momenti liberi e di momenti necessari.
Che questo grandioso tentativo di mediazione tra le esigenze
religiose dell'uomo e i risultati del sapere più progredito del
momento - quello idealistico - sia riuscito, è certo discutibile;
ma la complessità degli argomenti e la serietà dello sforzo di
Schelling non permettono certo di dire, come taluno ha voluto,
che l'ultimo pensiero schellinghiano nasca da un meschino risen­
timento nei confronti di Hegel o dal tentativo di far passare una
religione resa strumento della politica semifeudale del re di Prus­
sia, mantenendo almeno in apparenza in piedi anche quel sapere
dialettico-scientifico che - sia pure entro i limiti dell'idealismo -
794 FILOSOFIA MODERNA

avrebbe dovuto garantire un sapere progressivo antireazionario (è


la tesi di Marx).
Il pensiero dell'ultimo Schelling - è stato detto (Pareyson) -
rappresenta « un esempio di dissoluzione interna dell'idealismo
razionalistico »; esso può essere anche riguardato come la « disso­
luzione - esistenzialistica - di una filosofia razionalistica. Que­
sto aspetto « esistenzialistico » della filosofia positiva va ricono­
sciuto, ma con delle limitazioni; non fu un caso, va peraltro ri­
cordato, che il motivo dell'esistenza non deducibile dall'essenza
avesse richiamato subito l'attenzione di Kierkegaard; di fatto,
inoltre, l'interesse per l'ultimo Schelling è riemerso vivo tra gli
esistenzialisti del nostro secolo (cosi come, d'altro canto, ha atti­
rato l'attenzione dei metafisici la via schellinghiana all'Esistente
puro, nella quale certo riaffiora potentemente la tradizione meta­
fisica classica).
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

G. W. F. HEGEL
( 1770-1831)

l. Vita e opere

Hegel nacque il 27 agosto del 1770 a Stoccarda da una famiglia


originaria della Carinzia, esulata di U e stabilitasi nel Wi.irttem­
berg nel secolo XVI per motivi religiosi. Era infatti una fami-

* Delle opere di Hegel ricordiamo: l'edizione curata subito dopo la sua morte da un
gruppo di scolari: HEGELS Werke, Berlino 1832-1845; tale edizione è stata sostanzial­
mente riprodotta in quella curata di H. Glockner: G. W. F. HEGEL, Siimtliche Werke,
Stuttgart, Frommann, 1927-1940. Quasi tutte le opere (mancano o sono incompleti
alcuni corsi di lezioni) sono state pubblicate in edizione critica a cura di G. Lasson e
J. Hoffmeister presso l'Editore Meiner di Lipsia (poi Amburgo). È in corso una edi­
zione critica: G. W. F. HEGEL, Gesammelte Werke, Hamburg, Meiner, 1968....
Gli scritti giovanili studiati per primo da Dilthey, e non contenuti nelle edizioni
sopra citate, furono editi da H. Nohl col titolo: Hegels Theologische Jugendschriften,
Tiibingen, Mohr, 1907 (ristampa anastatica Frankfurt, Minerva, 1966). Altri inediti
furono pubblicati da J. Hoffmeister col titolo Dokumente zu Hegels Entwicklung,
Stuttgart, Frommann, 1936. G. Lasson e J. Hoffmeister pubblicarono i manoscritti del­
le lezioni di Jena: Jenenser Logik, Metaphysik und Naturalphilosophie hrsg. von G.
Lasson, Lipsia, Meiner, 1923; Jenenser Realphilosophie I e II, hrsg. von J. Hoffmeister,
Lipsia, Meiner, 1930-1931 (il '1:' voi. è ristampato col titolo Jenaer Realphilosophie,
Hamburg, Meiner, 1969).
Fra le recenti traduzioni italiane ricordiamo: Scritti teologici giovanili a cura di
E. Mirri, Napoli, Guida, 1972; Scritti politici (1798-1806), trad. A. Plebe, Bari, La­
terza, 1961; Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), trad. A. Negri, Bari, Laterza,
1962; I principi di Hegel, trad. di Enrico De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 1949
(estratti dagli scritti giovanili, da scritti di Jena); Rapporto dello scetticismo con la
filosofia, trad. N. Merker, Bari, Laterza, 1970; Fenomenologia dello spirito, trad. E.
De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 1933 (2" ed. 1960); Scienza della logica, trad. A.
Moni, Bari, Laterza, 1925 (2• ed. riveduta da C. Cesa, 1968); Propedeutica filosofica,
trad. Radetti, Firenze, Sansoni, 1957; Enciclopedia delle scienze filosofiche in com­
pendio, trad. B. Croce, Bari, Laterza, 1907 (5• ed. 1967); Lineamenti di filosofia del
796 FILOSOFIA MODERNA

glia protestante, mentre in Carinzia dominava la restaurazione


cattolica. Il padre era impiegato dello Stato, la famiglia bene
ordinata ed agiata, sl che la fanciullezza di Hegel trascorse se­
rena e tranquilla, senza avvenimenti notevoli. Ebbe una ottima
istruzione umanistica nel Ginnasio di Stoccarda: latino e gre­
co costituivano il principale insegnamento, che Hegel si appro­
priò con solerzia e con passione. Lesse l'Iliade, Euripide, Tuci­
dide, l'Etica di Aristotele, Tirteo, le lettere di Cicerone e l'Agri­
cola di Tacito e probabilmente altri autori latini, poiché Rosen­
kranz 1 dice (pp. 32-33) che, siccome gli piaceva più il greco
del latino, si esercitava di più in quest'ultima lingua per non ri­
manere indietro. Per un certo tempo redasse perfino il suo diario

diritto, trad. F. Messineo, Bari, Laterza, 1913 (3" ed. 1965); Lezioni sulla filosofia della
storia, trad. Calogero e Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1941 (4• ed. 1963); Estetica,
trad. N. Merker e V. Vaccaro, Milano, Feltrinelli, 1963 (Torino, Einaudi); Lezioni sulla
filosofia della religione, a cura di E. Oberti e G. Borruso, 1° volume, Bologna, Za­
nichelli, 1974.
STUDI su liEGEL: mi limito ad indicare alcune, poche opere: K. RosENKRANZ,
Vita di Hegel, trad. it. di R. Bodei, Firenze, Vallecchi, 1966 (l'opera è del 1844, ma
ancora preziosa); K. FrsCHER, Hegels Leben, Werke und Lehre (è il voi. 8° in due
tomi della Geschichte der neuern Philosophie), 2" edizione, Heidelberg, Winter, 1911;
R. KRoNER, Von Kant bis Hegel, 2 voll., Tiibingen, Mohr, 1921-1924 (2" ed. 1961);
N. HARTMANN, Die Philosophie des deutschen IdealiJmus, 2 voll. (il 2° è tutto dedi­
cato a Hegel), Berlin, De Gruyter, 1923-1929 (trad. it. Milano, Mursia, 1972); H.
GLOCKNER, Hegel, 2 voll., Stuttgart, Fro=ann, 1929-1940; E. DE NEGRI, Interpreta­
zione di Hegel, Firenze, Sansoni, 1940, 2• ed. 1969; J. N. FINDLAY, Hegel, A Re-exa­
mination, Londra, Allen e Unwin, 1958 (trad. it. col titolo: Hegel oggi, Milano, I. L. I.,
1972); MARIO Rossi, Hegel e lo Stato, Roma, Editori Riuniti, 1960 (è il primo volume
dell'opera Marx e la dialettica hegeliana); HANS KtiNG, Menschwerdung Gottes, Frei­
burg, Herder, 1970 (trad. it., Brescia, Queriniana, 1972); Incidenza di Hegel, Studi rac­
colti nel secondo centenario della nascita del filosofo, Napoli, Morano Editore, 1970
(il volume contiene anche una bibliografia delle traduzioni e degli scritti su Hegel in
Italia); L'opera e l'eredità di Hegel, Bari, Laterza, 1972 (con una bibliografia degli
studi usciti per il secondo centenario della nascita di Hegel); L. LuGARINI, Hegel dal
mondo storico alla filosofia, Roma, Armando, 1973; dal 1961 si pubblicano a cura di
F. NrcOLIN e O. POGGELER, Hegel-Studien, presso l'Editore Bouvier di Bonn, che
contengono scritti di notevole valore.
Per gli scritti J.(iovanili: W. DrLTI-IEY, Die Iugendgeschichte Hegels, in Gesammelte
Schriften, voi. IV. Stuttgart - Gottingen, Teubner - Vandenhoeck e Ruprecht, 1959 (l'o�ra
è del 1905); L. TH. HAERING, Hegel. Sein Wollen und sein Werk, 2 voll. Leipzig - Berlin,
Teubner 1929-1938; C. LACORTE, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni, 1959; L. LuKACS, Il
giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Torino, Einaudi, 1960 (l'opera ori­
ginale è del 1948).
Per il periodo di Jena: N. MERKER, Le origini della logica hegeliana, Milano, Fel­
trinelli, 1961.
Per la Fenomenologia dello spirito mi limito a citare: J. HYPPOLITE, Genèse et
structure de la Phénoménologie de l'esprit de Hegel, Parigi, Aubier, 1946 (trad. it.
Firenze, La Nuova Italia, 1973).
' Vita di Hegel, eit. Citeremo quest'opera indicando solo il nome dell'Autore.
HEGEL 797

in latino, per esercitarsi. E il diario lo rivela come un ragazzo


estremamente equilibrato, saldamente inserito nella vita sociale
del suo tempo, senza sogni né desideri di evasione.
Per parecchi anni, a quanto dice Rost::nkranz, continuò la let­
tura di Sofocle e lo tradusse in tedesco. Quanto sia rimasto vivo
il ricordo di questa lettura si può vedere dalle opere di Hegel,
e specialmente dalle prime, fino alla Fenomenologia. Trovava tem­
po anche per letture extra-scolastiche, specie di carattere sto­
rico, e, diligentissimo, faceva riassunti ed estratti di tutto quello
che leggeva.
Nel 1788 Hegel si immatricolò nell'Università di Tubinga.
« Godette del particolare privilegio di poter vivere del tutto li­
bero da preoccupazioni finanziarie come borsista ducale e di usu­
fruire come seminarista di una guida esemplare e accurata nei
suoi studi » (Rosenkranz, p. 46 ). Cioè alloggiò nello Stift, nel se­
minario o collegio per i teologi, e studiò due anni filosofia e tre
anni teologia. Rosenkranz aveva ancora presenti gli appunti dei
corsi universitari seguiti da Hegel, ma non ce ne dice molto. Hegel
segui i corsi di esegesi biblica di Schnurrer, di teologia dogma­
tica di Storr, i corsi di filosofia di Flatt.
Lo stesso Rosenkranz, che aveva sott'occhio i sermoni che
Hegel doveva a turno tenere in refettorio, come gli altri seminari­
sti, afferma: « Domina in essi la più arida interpretazione del cri­
stianesimo, e l'esattezza con cui vengono analizzati i concetti
di dovere non riesce a compensare l'enorme e continua insulsaggi­
ne che si perde un po' solo all'inizio e alla fine» (p. 48).
Certo Hegel non ebbe grande stima dell'insegnamento ricevuto
a Tubinga e non ne ebbe sollecitazioni alla formazione del pro­
prio pensiero. A Natale del 1794, poco dopo aver lasciato Tubin­
ga, scrive infatti a Schelling: « Come vanno le cose a Tubinga?
Prima che un tipo di uomo come Reinho]d o Fichte non vi abbia
una cattedra, non ne verrà fuori nulla di sodo (reell). In nessun
luogo come in quello il vecchio sistema è così fedelmente propa­
gato; e anche se questo non ha alcun influsso su alcune buone te­
ste, tuttavia tale fedeltà alla tradizione si afferma nella mag­
gioranza, nei cervelli meccanici... » (Briefe, I, p. 12) 2•

2
Citerò cosi i Briefe von und an Hegel, Hamburg, Meiner, 1952-54.
798 FILOSOFIA MODERNA

Possiamo capire queste parole se pensiamo che i teologi di


Tubinga, specialmente Storr, si valevano della teoria kantiana
secondo la quale la conoscenza teoretica non può dir nulla su ciò
che trascende l'esperienza per difendere la possibilità di una ri­
velazione divina come fondamento della religione: la dottrina
di Storr era denominata soprannaturalismo. Si capiscono quindi
queste altre parole di Schelling in risposta alla lettera sopra ci­
tata di Hegel: [I kantiani di Tubinga] « hanno isolato alcuni in­
gredienti del sistema kantiano (della superficie, si capisce) coi
quali ammanniscono, tamquam ex machina, filosofici brodi ristretti
intorno a qualsiasi locus theologicus, in modo tale che la teolo­
gia, che cominciava già a intisichire, ora torna rapidamente più
sana e forte che mai. Tutti i dogmi possibili sono dichiarati po­
stulati della ragion pratica, e, dove non arriverebbero mai pro­
ve storico-teoretiche. la ragion pratica (tubingizzata) taglia il no­
do » (Briefe, I, p. 14 ). Dilthey, nella ]ugendgeschichte Hegels aveva
già osservato: «Quanto diversa da quella degli anni di Stoccarda
l'atmosfera spirituale nella quale Hegel si trovò immerso come stu­
dente di teologia nel seminario di Tubinga! Il discepolo dei Greci si
trovò immerso in concetti teologici. La cultura intellettuale del-
1'epoca era penetrata, sl, anche nel seminario, e dominava i suoi filo­
sofi e teologi; ma in quell'antica sede dell'ortodossia luterana si cer­
cava di trovare un compromesso fra questa e i diritti dell'intel-
i.1genza » 3
Ma a Tubinga Hegel non ascoltava solo lezioni: leggeva giorna­
li politici, faceva parte di un club politico costituitosi fra gli
studenti, club nel quale si ammirava la Rivoluzione francese; di­
scuteva coi suoi compagni, specie con quelli che gli erano più vi­
cini: Holderlin e, dal 1790, Schelling. Sull'atteggiamento di Hegel
rispetto alla Rivoluzione francese si è molto discusso fra gli inter­
preti. Certo a Tubinga egli se ne entusiasmò, ma poi si ricredet­
te o no? Rosenkranz sta per la seconda alternativa ed è seguito
da Lukacs e da C. Lacorte; Haym sta per la prima 4•
Benché i compagni lo chiamassero « il vecchio », sapeva diver­
tirsi, era gioviale e buon amico. Da notare questa osservazione di
Rosenkranz: « Nessuno [dei suoi compagni] vedeva in lui alcunché

3
Die ]ugendgeschichte Hegels, cit., p. 9.
Si veda J. RITTER, Hegel e la Rivoluzione francese, trad. it. Napoli, Morano, 1970.
HEGEL 799

di geniale. I suoi coetanei svevi rimasero sbalorditi quando egli


più tardi li colpl con la sua fama » (p. 51 ). A differenza di Schel­
ling, di cinque anni più giovane di lui, entrato all'Università a
quindici anni, autore di opere filosofiche a vent'anni, geniale,
Hegel matura lentamente. Nella vita quotidiana seguiva il costu­
me, ci dice Rosenkranz; non assumeva nessun atteggiamento ori­
ginale, non era esigente nelle amicizie: frequentava la gente che
le occasioni gli affidavano.
Terminata l'Università, Hegel accettò il posto di precettore
nella famiglia Steiger von Tschugg, a Berna e vi rimase dall'au­
tunno del 1793 all'autunno del 1796. Il suo ufficio di precetto­
re non gli lasciava molto tempo libero e il regime politico della
piccola repubblica non gli piaceva.
Dopo aver trascorso qualche tempo a Stoccarda, nell'autunno
del 1796 dovette quindi accogliere volentieri la proposta di an­
dare a Francoforte come precettore nella famiglia del commercian­
te Gogel. A Francoforte ritrovò Holderlin, ebbe più tempo libero
e poté intensificare le sue letture; ne aveva già fatte di storia
anche a Berna, a Francoforte si interessò oltre che di storia po­
litica, di economia. Hegel fece una traduzione e un commento
dello scritto di J. J. Cart, Lettere confidenziali sul diritto pubblico
del paese di Vaud in rapporto alla città di Berna e scrisse Sulla re­
cente situazione interna del W urttemberg 5, scritti nei quali si espti­
me ancora una concezione politica illuministica, ispirata a Rousseau
e a Montesquieu, fondata sul diritto naturale, una concezione
che dà valore all'individuo di fronte allo Stato. Ma l'opera più no­
tevole del periodo di Francoforte è Lo spirito del Cristianesimo
e il suo destino.
Nel 1799 mori il padre di Hegel e il filosofo si trovò in

' Vertrauliche Briefe iiber das vormalige Staatsrechtiche Verhiiltnis des Wadtlandes
(pays de Vaud) zur Stadt Bern aus dem franzosischen... iibersetzt und mit Anmerkungen
vershen. L'opera fu pubblicata anonima a Francoforte nel 1798, ritrovata e identificata
da H. Falkenheim in un articolo dei « Preussiche Jahrbiicher » del 1909, pp. 194-210
e ripubblicata solo in parte (solo le note) da J. Hoffmeister nei Dokumente zu Hegels
Entwicklung. Se ne possono trovare notizie in F. RosENZWEIG, Hegel und der Staat,
Miinchen, Oldemburg, 1920 (ristampa anastatica, Aalen, Scientia Verlag, 1962), pp.
47-54 e in M. Rossr, Hegel e lo Stato, cit., pp. 203 ss.
Lo scritto sulle condizioni interne del Wiirttemberg rimase manoscritto ed è an­
dato perduto: le poche pagine rimaste sono pubblicate nelle Schriften zur Politik und
Rechtsphilosophie hrsg. von A. Lasson, Leipzig, Meiner, 1923 e tradotte da Plebe
nel volume G. G. F. HEGEL, Scritti politici, Bari, Laterza, 1961.
800 FILOSOFIA MODERNA

possesso di un piccolo patrimonio: decise quindi di lasciare il


lavoro di precettore e prepararsi alla carriera accademica. Dopo
qualche esitazione, dietro consiglio di Schelling si trasferl a Je­
na, che ribolliva allora di fervore filosofico. Vi avevano inse­
gnato Reinhold e Fichte, Schiller e gli Schlegel 6• Nel 1800 Fichte
se ne era andato, dopo la controversia sull'ateismo, e l'« Athe­
naeum », la rivista dei fratelli Schlegel, aveva cessato le pubbli­
cazioni, ma Schelling vi era professore, e numerosi altri giovani
insegnavano come liberi docenti. Hegel collaborò con Schelling
al « Kritisches Journal der Philosophie », pubblicò qui la prima
volta i suoi scritti e si « abilitò » all'insegnamento universitario con
una tesi De orbitis planetarum, in cui esalta Keplero, combatte
Newton, al quale rimprovera di aver matematizzato la fisica, di
aver dato carattere fisico a grandezze puramente matematiche.
Alla dissertazione si accompagnavano anche tesi da difendere
(dodici) e in queste tesi si può vedere già in nuce il sistema he­
geliano.
Dal 1801 al 1806 Hegel tenne lezione come libero docente di
logica e metafisica, di filosofia della natura, di filosofia dello
spirito e anche di matematica pura. Nell'autunno del 1806 terminò
di scrivere la Fenomenologia dello spirito, mentre infuriava la
battaglia di Jena.
Ma Jena gli sembrava ormai un mondo chiuso e Hegel accettò
volentieri la proposta di dirigere un giornale a Bamberga: il suo
vivo interesse per la politica non doveva rendergli sgradevole
tale attività. Naturalmente si doveva essere francofili, filonapo­
leonici, ma già da Jena, dopo la battaglia, Hegel aveva scritto
al suo amico Niethammer il 13 ottobre: « Ho visto l'Imperatore,
quest'anima del mondo, uscire dalla città a cavallo per andare in
ricognizione. È davvero una sensazione meravigliosa (wunderbar)
vedere un individuo che qui, concentrato in un punto, su un caval­
lo, stende il suo potere sul mondo e lo domina » (Briefe, I, p. 120).
Hegel mantenne la direzione del giornale solo per un anno, fi­
no all'autunno del 1808, quando, su proposta di Niethammer, che
era stato chiamato a Monaco come Oberstudienrath (mi par che
equivalga a ministro della pubblica istruzione) per riorganizzare e

• Sul romanticismo è sempre prèzioso il libro di R. I-!AYM, Vie roma11tische Schule,


del 1870, tradotto in italiano nel 1963. da E. Pocar, Milano-Napoli, Ricciardi Editore.
HEGEL 801

riformare le scuole, ebbe il posto di rettore del Liceo di Norim­


berga, col compito di insegnarvi filosofia e religione. Hegel ac­
cettò volentieri e svolse egregiamente il suo compito. Le sue
lezioni a Norimberga furono pubblicate postume da Rosenkranz
col titolo Propedeutica filosofica.
A Norimberga, nel 1811, Hegel si sposò; aveva una concezione
molto seria del matrimonio e il suo fu un matrimonio felice.
Indubbiamente gli anni di Norimberga furono sereni e fruttuo­
si: qui scrisse dal 1812 al 1816, la sua grande Scienza della lo­
gica.
Ma si capisce anche che provasse il desiderio di esporre il
suo pensiero a un pubblico più adulto e si guardasse attorno per
ottenere una cattedra universitaria. Ebbe l'offerta della cattedra
di filosofia a Heidelberg dove giunse nell'autunno del 1816 e
si trovò bene. Insegnava enciclopedia delle scienze filosofiche e
storia della filosofia. Per il suo corso pubblicò, nel 1817, l'Enci­
clopedia delle scienze filosofiche in compendio e fu redattore,
per la parte filosofica e letteraria, degli « Heidelberger Jahrbiicher ».
Nel 1818 fu chiamato a Berlino alla cattedra che era stata di
Fichte. Il periodo berlinese segna il più grande successo di He­
gel. Durante questo periodo egli pubblicò solo i Lineamenti di fi­
losofia del diritto (1821) e la seconda edizione dell'Enciclopedia
(1827) con le Anmerkungen, che non c'erano nella prima edizione,
oltre ad articoli vari, ma dedicò ogni cura alla preparazione del­
le lezioni: lezioni su la Filosofia della storia, lezioni di Este­
tica, lezioni sulla Filosofia della religione, lezioni sulla Storia
della filosofia.
A Berlino Hegel era diventato anche una potenza, almeno nel
campo universitario: sulle cattedre andavano i suoi discepoli. Egli
d'altra parte si considerava il filosofo dello Stato prussiano e non
ammetteva che ci si ribellasse all'autorità dello Stato.
Mori di colera, mentre era ancora in piena attività, il 14 no­
vembre del 1831.
802 FILOSOFIA MODERNA

SCRITTI GIOVANILI (1793-1800)

Un interesse non puramente erudito presentano gli Scritti


teologici giovanili, pubblicati nel 1907 dal Nohl, che sono degli
anni 1793-1800 (ultimo anno di Tubinga, anni di Berna e di Fran­
coforte). Chi studiò per primo questi scritti, che si trovano ma­
noscritti nella Biblioteca di Berlino, fu W. Dilthey nella sua
]ugendgeschichte Hegels, del 1905.
Nohl divise cosl gli scritti giovanili: 1) Religione nazionale e cri­
stianesimo, cinque frammenti; 2) La vita di Gesù, datata da Hegel
stesso: 9 maggio-24 luglio 1795; 3) La positività della religione
cristiana, I 8 red. fra l'autunno del 1795 e la primavera del 1796;
4) Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, autunno 1798; 5)
Frammento di sistema, 1800.
Il 24 settembre 1800 Hegel iniziò una nuova redazione de La
positività della religione cristiana, che è rimasta incompiuta.

2. Religione nazionale e cristianesimo

Per capire gli scritti giovanili di Hegel giova tener presente


la concezione kantiana della religione, che Hegel aveva conosciuta
a Tubinga.
Kant definisce la religione come « la conoscenza di tutti i
nostri doveri come comandamenti divini » 7; le riconosce quindi so­
lo un aspetto morale, e distingue religione naturale da religione
rivelata. La prima è quella in cui « io debbo prima sapere che una
cosa è mio dovere per riconoscerla poi come comando divino » -
e questa è la vera religione, quella che rientra nei limiti della
pura ragione, poiché per conoscere che cosa è mio dovere mi
basta la ragione -; la religione rivelata « è quella in cui io
debbo prima sapere che una cosa è comandata da Dio per ricono­
scerla come mio dovere ». Il cristianesimo, per la sua origine, per
il modo in cui è stato annunciato, è una religione rivelata, ma per
il suo contenuto (per le dottrine che professa) è religione naturale.

' Cfr. sopra, p. 678


HEGEL 803

Il che vuol dire che il cristianesimo si può giustificare con la so­


la ragione. Ora Gesù ha predicato una religione naturale.
Se leggiamo il primo frammento di Religione nazionale e cri­
stianesimo di Hegel (Nohl, pp. 3-29) 8, troviamo già una notevole
opposizione alle idee di Kant sulla religione. Hegel è d'accor­
do con Kant nella svalutazione della religione positiva, ma quel­
la che lo interessa è non tanto una religione naturale fondata
sulla pura ragione, ma una religione nazionale (Volksreligion ),
capace cioè di avere efficacia nella vita di un popolo. Ora una re­
ligione nazionale non può fondarsi sulla semplice (blosse) ragio­
ne. Hegel insiste sull'importanza del cuore e della fantasia in una
religione nazionale, e questo è un modo di vedere molto diverso,
- direi opposto - a quello kantiano. Altro punto di divergenza
da Kant è l'affermazione dello stretto legame fra religione e poli­
tica: ed è uno dei motivi che fanno apprezzare a Hegel la reli­
gione greca molto più della religione cristiana. Un altro motivo
è che la religione greca è lieta, mentre quella cristiana è triste.
Il primo frammento di Religione nazionale e cristianesimo ter­
mina con una specie di inno alla Grecia. del quale già Dilthey
aveva rilevato la bellezza.
Questo primo frammento, anche se utilizza concetti di altri
autori (quello di cuore in Rousseau, quello di Volksgeist in Her­
der, l'esigenza che la religione sia razionale, pur adoperando l'im­
maginazione al servizio della ragione, in Fichte 9), tuttavia li sin­
tetizza in modo originale. La tesi che una religione autentica­
mente umana possa formarsi solo nella vita di un autentico popo-•
lo è già tipicamente hegeliana, come osserva L. Th. Haering 10•
E, aggiungerei, è già tipicamente hegeliano il concetto della re­
ligione come una forma dello spirito che presenta in veste fanta­
stica ed emotiva (cuore e fantasia) - ossia in forma non razional­
mente depurata - le verità razionali (ossia le verità filosofiche).
Gli altri quattro frammenti raggruppati dal Nohl sotto il ti­
tolo Religione nazionale e cristianesimo sono datati da G. Schiiler

' Citeremo cosl le Theologische Jugendschriften; la traduzione è di chi scrive. Poi­


ché il numero delle pagine del testo tedesco è riportato in margine alle pagine della
traduzione italiana, il lettore potrà ritrovare facilmente il passo nella traduzione italiana.
' Nella Critica di ogni rivelazione.
1
• Hegel, Sein Wollen und sein Werk, cit., voi. I, p. 69.
804 FILOSOFIA MODERNA

al 1794. In essi si accentua l'opposizione al cristianesimo: si enu­


merano spesso le malefatte compiute in nome del cristianesimo
(crociate, condotta verso gli indigeni d'America ecc.) e, all'obie­
zione che quello che ha ispirato tali azioni non è il vero cristia­
nesimo, Hegel risponde: ma qual é il vero cristianesimo? (Nohl,
p. 60 ). Ma, sopra tutto, Hegel afferma che le dottrine morali di
Gesù possono ispirare la condotta di singoli uomini, non la vita
di un popolo (Nohl, p. 41 ). E come esempio di tali dottrine cita
l'esortazione a vendere tutti i propri beni e darli ai poveri. La
religione cristiana è originariamente una religione privata (Nohl,
p. 49 ), che mal si adatta a diventare religione di un popolo e
che, per diventar tale, si è snaturata. E, continuamente, al cri­
stianesimo è contrapposta la grecità. A Gesù è contràpposto So­
crate, nel frammento 2 e nel frammento 4: Cristo ebbe dodici apo­
stoli - un numero determinato - i quali dovevano abbandonare
ogni legame con la famiglia e con lo Stato, e legarsi esclusivamente
a lui; Socrate invece ebbe discepoli di ogni tipo, non in numero
fisso e li lasciò alla loro famiglia, al loro lavoro: « ognuno di
essi rimaneva ciò che era », come del resto anche Socrate rimase
marito e padre. Perciò vi furono socratici, ma non ci fu una corpo­
razione, una massoneria socratica; ognuno restava padrone di sé,
e fra i discepoli di Socrate ci furono generali, uomini politici,
eroi di ogni specie; « non eroi del martirio e nella sofferenza,
ma nell'azione e nella vita » (Nohl, p. 33 ). Socrate mori da greco:
offrì un gallo a Esculapio. Prima di morire parlò dell'immortali­
tà « come un greco parla alla ragione e alla fantasia » (Nohl, p. 34 ),
con tono convincente, si da infondere nei suoi discepoli la speran­
za dell'immortalità - poiché l'uomo non può averne la certezza. I
discepoli di Gesù invece avevano bisogno di questa certezza, ga­
rantita dalla resurrezione di Gesù, perché gli uomini nei quali
non è viva l'idea della virtù e del sommo bene, hanno anche una
debole speranza di immortalità (ibid).
Il contrasto, in Religione nazionale e cristianesimo, non è.
come in Kant, quello fra religione naturale e religione rivelata
o positiva, ma quello fra religione nazionale e religione privata.
HEGEL 805

3. La vita di Gesù e la positività della religione cristiana


Dopo aver conosciuto l'originalità di Hegel, il suo prender
posizione rispetto a Kant, siamo piuttosto stupiti quando leggia­
mo La vita di Gesù, scritta a Berna dal 9 maggio al 24 luglio del
1795. La vita di Gesù non è infatti altro che una applicazione ed
estensione a tutto il Vangelo dei criteri di Kant nel paragrafo
su << La religione cristiana come religione naturale ». Gesù ci è
presentato come un puro predicatore di morale e tutto il Vangelo
è tradotto in termini di morale kantiana. Non è l'eliminazione
d'ogni elemento soprannaturale dal Vangelo quella che colpisce
- sappiamo già che Hegel non crede all'elemento soprannaturale
- ma la riduzione pedantesca della predicazione di Gesù alla mo-
rale kantiana 11•
Ne La vita di Gesù Hegel ci ha presentato la dottrina di Ge­
sù come « religione naturale » nel senso kantiano; si capisce quindi
che gli si ponesse il problema: come ha potuto una simile religio•
ne diventare poi, nella storia, « religione positiva » sempre ne]
deteriore senso kantiano? È questo il problema de La positività
della religione cristiana, scritto in gran parte subito dopo La
vita di Gesù e cioè prima del 2 novembre 1795 - concluso il 29
aprile 1796.
Mentre La vita di Gesù segue pedissequamente la concezione
kantiana, nella Positività, che pure è ancora ispirata ad un il­
luministico e kantiano disprezzo per il cristianesimo « positivo »,
ossia per il cristianesimo cosi come si presenta nella storia, c'è
un aspetto nuovo, che è appunto l'interesse per il cristianesimo
storico. Per Kant tutto quello che nel cristianesimo non è riduci­
bile a morale, a « religione naturale » è pura superstizione (After­
dienst), clericalume (Pfaffentum) e non lo interessa affatto: per
Hegel il processo di « positivizzazione » del cristianesimo, pur
11
Ne ho dato qualche saggio nell'articolo Osservai-.ioni sulla r:ronologia dei primi
scritti di Hegel, in « Il Pensiero», V (1960), pp. 157-175. La differenza fra il primo
frammento di Religione nazionale e cristianesimo e La vita di Gesù mi aveva fatto
pensare che quel frammento fosse posteriore a La vita di Gesù, ma le ricerche cli Gi­
sela Schiller sulla cronologia degli scritti giovanili, basate su criteri calligrafici, più raf­
finati di quelli del Nohl, la portano a datare quel primo frammento agli anni 1792-93.
(Cfr. GISELA ScHULER, Zur Chronologie von Hegels Jugendschriften in Hegel-Studien,
2, Bonn, Bouvier, 1963, pp. 111-159). Bisogna quindi pensare che una ripresa di let­
ture kantiane, come dice H. Glockner (Hegel, c1t., vol. II, p. 27) Io avesse indotto a
presentare il Vangelo come esempio di religione r:aturale nel senso kantiano.
806 FILOSOFIA MODERNA

essendo deplorevole, è pur sempre un fatto storico, che, come tale,


merita di essere studiato. In altre parole: si manifesta l'impor­
tanza che ha per Hegel la storia.
La risposta di Hegel al problema si può brevemente sinte­
tizzare cosi: il motivo del « positivizzarsi » della religione cri­
stiana fu l'ottusità del popolo ebraico, la sua incapacità a capi­
re e ad accettare una religione puramente razionale. Il popolo
ebraico era « oppresso da un peso di leggi statutarie [ ossia im­
poste dal di fuori, non conosciute dalla ragione come leggi mo­
rali] che prescrivevano in modo pedante una regola ad ogni
qualsiasi azione della vita quotidiana» (Nohl, p. 153 ); si glo­
riava di una obbedienza da schiavo a « leggi che non si era dato
da sé» (ibid. ). Questo stato d'animo era aggravato dalla soggezio­
ne politica degli Ebrei ad uno stato straniero. Gesù, che non par­
tecipava di questo stato d'animo da schiavo, « intraprese ad eleva­
re la religione e la virtù a moralità [ ... ] ; richiamò alla memoria
del suo popolo i principi morali che erano contenuti nei libri sa­
cri» (Nohl, p. 154). Ma il suo intento di elevare a pura moralità
la religione del suo popolo falll totalmente. Allora, per farsi ca•
pire dai suoi uditori, i quali credevano di avere ricevuto leggi
religiose da Dio (non dalla ragione, dal loro intimo), e ne erano
fieri, Gesù fu costretto a presentarsi come il Messia, l'inviato
di Dio, colui che deve rivelare la volontà di Dio; fu costretto
cioè a presentare la sua dottrina come fondata sull'autorità divi­
na, anziché sulla ragione (Nohl, pp. 158-59). Per provare il suo
carattere di Messia, Gesù compi azioni che i suoi discepoli ri­
tennero miracolose, e nulla più della fede nei miracoli ha contri­
buito a « positivizzare la religione cristiana, poiché il motivo
dell'adesione alla dottrina di Gesù diventò non il contenuto del­
la dottrina stessa, il suo valore morale, fondato sulla pura ra­
gione, ma l'autorità, la potenza del Maestro » (Nohl, p. 160).
E qui torna il confronto fra Socrate e Gesù (Nohl, p. 163 ), a tutto
scapito di Gesù.
Se già all'inizio, nell'ambiente che ricevette la predicazione
di Gesù, Hegel vede i germi del « positivizzarsi » del cristianesi­
mo, più il tempo passa e peggio vanno le cose. Già in Religione na­
zionale e cristianesimo Hegel aveva osservato che la religione cri­
stiana può adattarsi solo alla vita di un piccolo gruppo; lo ripete qui
e aggiunge che, con l'isolarsi del gruppo (p. es. il ritenere pec-
HEGEL 807

caminosa l'adesione anche esteriore alla religione pubblica, al pa­


ganesimo) essa diventa una « setta », e quando la « setta » si este­
se vennero meno certi suoi pregi, per esempio la fraternità fra i
cristiani (Nohl, p. 166). La comunità dei beni diventò irrealiz­
zabile (p. 167) e fu sostituita con la raccomandazione di far
doni alla comunità, che voleva poi dire al clero, commenta He­
gel. « Altra caratteristica di una setta positiva è lo zelo di dif­
fondersi, di far proseliti per la sua fede e per il cielo » (Nohl,
p. 169). E in questo proselitismo si dà importanza non a ciò che
è comune a tutti gli uomini, alla ragione, ma alle particolari
dottrine della setta. All'atteggiamento del frate nel Nathan di
Lessing che dice all'ebreo: « tu sei un vero cristiano » e l'ebreo
gli risponde: « ciò che fa di me un cristiano ai tuoi occhi fa di
te ai miei un ebreo » - perché ebrei e cristiani comunicano nella
universaie ragione umana - si contrappone l'intolleranza del cri­
stianesimo storico, l'Inquisizione. Intolleranza che si valse di mez­
zi coercitivi quando il cristianesimo diventò religione dello Stato
(pp. 183-84 ). E qui viene una requisitoria di tipo nettamente il­
luministico contro il cristianesimo storico.
La positività è uno scritto di schietta intonazione illumini­
stica: per la insistenza sulla unità della ragione umana, per la
contrapposizione fra ragione universale e religione storica, per
la concezione dello Stato inteso come mezzo per rispettare i di­
ritti degli individui. Ora quando Hegel, il 24 settembre del 1800,
riprese in mano La positività per farne una seconda redazione, co­
minciò con una palinodia, con una ritrattazione di questo spirito il­
luministico. Il concetto di natura umana è un concetto astratto, e
parimente astratto è il concetto di religione naturale, cioè di una re­
ligione corrispondente a questa mai esistita natura umana in gene­
rale. Hegel si esprime con manifesta ironia: « Doveva essere tra­
scorso un progresso culturale durato per secoli finché potesse giun­
gere un'epoca nella quale i concetti diventassero così astratti da
generare la convinzione di poter abbracciare nell'unità di alcuni con­
cetti generali la molteplicità delle manifestazioni ( Erscheinungen)
della natura umana. Questi semplici concetti, per la loro generali­
tà, diventano concetti necessari e caratteri distintivi dell'uma­
nità; ogni altra molteplicità di costumi, abitudini, opinioni dei
popoli e degli individui diventa, poiché sono stati fissati quei
caratteri, accidentalità, pregiudizio, errore, e una religione che
808 FILOSOFIA MODERNA

si adatti a questa molteplicità diventa per ciò stesso positiva [ ... ].


Ma il concetto universale di natura umana ammette infinite modifi­
cazioni, e non è un ripiego l'appellarsi alla esperienza che le mo­
dificazioni sono necessarie, che la natura umana non è mai esi­
stita nella sua purezza, ma è una verità che si può dimostrare ri­
gorosamente ...» (Nohl, p. 140). Che cosa è infatti questa natura
umana? Un concetto generale. «Ma la natura vivente è eternamente
diversa dal concetto di essa, e quello che per il concetto era
pura modificazione, accidentalità, un che di aggiunto, diventa ciò
che è necessario, vivente, anzi ciò solo che è naturale e bel­
lo [ ... ] . Anche il tremare davanti a una realtà ignota, rinunciare
alla propria volontà nel modo di agire e assoggettarsi comple­
tamente a determinate regole, come macchine... - anche tutto que­
sto può essere naturale» e una religione che lo comandasse non sa­
rebbe positiva, ma naturale « perché corrisponderebbe alla natura
della sua epoca» (Nohl, p. 141).
Siamo dunque ben lontani dalla concezione dominante nella
prima redazione.

4. Lo spirito del cristianesimo

Ma, fra la prima e la seconda redazione de La positività c'è


il passaggio da Berna a Francoforte, un:i maggiore possibilità di
studio indipendente, lo studio di Fichte e delle prime opere di
Schelling, il rinnovato incontro con Holderlin e ... last but not
least la maturazione ab intrinseco del pensiero hegeliano.
Degli anni di Francoforte, e precisamente dell'estate-autunno
1798 secondo la Schiller, è Lo spirito del cristianesimo e il suo
destino, nel quale è già evidente la nuova prospettiva. Ora bi­
sogna riconoscere che, se Religione nazionale e cristianesimo è
del 1792-93, come ci dicono H. Nohl e G. Schiller, il cambiamento
di prospettiva da La positività (179 5-96) a Lo spirito del cri­
stianesimo e il suo destino è veramente brusco, come dice Lukacs 12.
Di comune fra i due scritti resta l'atteggiamento antigiudaico:
il giudaismo {l'ebraismo, l'Antico Testamento) è il mondo della
scissione. In un abbozzo del 1798 Hegel scrive: « La radice del giu,-
12 Il giovane Hegel, cit., trad. it., p. 149.
HEGEL 8Ò9

daismo è l'oggettivo, ossia la servitù, la schiavitù di fronte ad


un estraneo (Fremd). Gesù attaccò tutto questo» (Nohl, p. 386 ).
« Oggettivo» qui è preso nel senso :6.chtiano: oggettivo è il non-io,
quindi l'estraneo, l'opposto all'io. Ma l'io qui è considerato non
come un puro atto conoscitivo, ma come l'uomo concreto: il giu­
daismo rappresenta dunque agli occhi del giovane Hegel la schia­
vitù dell'uomo di fronte all'altro. Abramo, Mosè sono tipici esempi
di questo atteggiamento. Mosè liberò gli ebrei dalla schiavitù del­
l'Egitto, ma li sottopose ad un'altra schiavitù: quella della legge. La
legge mosaica è « l'oggetto infinito, l'insieme di ogni verità » e di
ogni valore. Lo chiamo oggetto, dice Hegel, perché sta di fronte al­
l'uomo, che è il vero soggetto; ma nella concezione ebraica è Dio
l'infinito soggetto, è l'unica sintesi fra le due antitesi che so­
no il popolo ebraico e il resto dell'umanità (i Gentili), il mon­
do. E queste due antitesi sono i veri « oggetti », cioè cose morte,
che traggono ogni loro realtà da Dio (Nohl, p. 250).
Contro questa radicale scissione insorge Gesù. Ora è interes­
sante osservare che ne Lo spirito del cristianesimo la dottrina
di Gesù non è più presentata come una morale di tipo kantiano
(come era ne La vita di Gesù), anzi Hegel polemizza contro la mora­
le kantiana rimproverandole una certa positività. Anche la legge
morale kantianamente intesa è « oggettiva», perché sta contro
una parte dell'uomo, contro i suoi impulsi, e quindi non esprime
il soggetto nella sua pienezza. Dopo aver descritto infatti l' « ogget­
tività » della legge ebraica Hegel prosegue: « In questo modo
ci si potrebbe aspettare che Gesù si fosse dato da fare con­
tro la positività dei comandamenti morali, contro la pura lega­
lità; che egli avesse dimostrato che la legge è universale, e che
la sua obbligatorietà consiste tutta nella sua universalità, poi­
ché per un verso ogni dovere, ogni comandamento si manifesta
come qualcosa di estraneo (Fremdes), per altro verso invece, come
concetto (universalità) è qualcosa di soggettivo, è prodotto di
una forza umana, della facoltà dell'universale, della ragione, e
così perde la sua oggettività, la sua positività, la sua eterono­
mia, e il comandamento si mostra fondato in una autonomia della
volontà umana». Così avrebbe parlato il Gesù de La vita di Gesù 13;

13 Si noti l'equivalenza stabilita qui tra positività e oggettività. " Oggettività " è
il nuovo termine che viene da Schelling.
810 FILOSOFIA MODERNA

ma Hegel ora parla - e fa parlare Gesù - in tutt'altro modo, e


continua: « Per questa via la positività è tolta solo in parte ». Infat­
ti, spiega una nota di Hegel, il comando del dovere (Pflichtgebot)
è una universalità che resta opposta al particolare, e questo è re­
presso (Unterdruckte) se quella domina (Nohl, p. 265). Dunque
la morale kantiana lascia sussistere l'opposizione, che è poi scissio­
ne dentro l'uomo stesso. Kant aveva detto ne La religione nei limi­
ti della semplice ragione che fra la religione di uno schaman dei
tungusi e di un Vogul tutto rozzo e quella di un prelato cattolico
o di un puritano c'è solo una differenza di maniere, ma non una
differenza essenziale, perché sia il rozzo seguace di una religione
primitiva come il cattolico e il puritano seguono una religione po­
sitiva; differenza essenziale c'è invece fra religione positiva e natu·
raie. Hegel osserva che neppure fra il primitivo, il prelato catto­
lico da una parte e il seguace della religione naturale dall'altra c'è
una differenza essenziale, una differenza tale che renda servi i pri­
mi e libero il secondo, ma vi è solo questa: « che i primi hanno un
padrone fuori di loro e il secondo porta il padrone dentro di sé, ma
è sempre il suo servo. Per il particolare, l'impulso, le inclinazioni,
l'amore passionale, la sensibilità, o come altro si voglia chiamarli,
l'universale è sempre e necessariamente qualcosa di estraneo, di
oggettivo; resta sempre un indistruttibile residuo di positività
che viene a galla specialmente perché il contenuto del comanda­
mento universale. il dovere determinato, porta in sé la contraddi­
zione di essere insieme limitato e universale, e, poiché ha la forma
della universalità, avanza le più dure pretese per la sua univer­
salità » (Nohl, p. 266 ).
Qui c'è una critica severissima della morale kantiana, che
Hegel non vede affatto come una traduzione della morale di Gesù.
Gesù ha detto qualcosa di molto più vero: « Uno che voleva ri­
portare l'uomo nella sua integrità (Ganzheit) non poteva battere
una strada [ quella della religione naturale in senso kantiano] che
associa alla lacerazione dell'uomo una ostinata alterigia. Operare
nello spirito della legge non poteva significare per lui operare
per il dovere contraddicendo le inclinazioni, poiché entrambe que­
ste parti dello spirito (in questo stato di lacerazione dell'animo
non si può parlare diversamente) non sarebbero già più per questo
nello spirito, ma contro lo spirito della legge: l'una [la ragio-
HEGEL 811

ne] perché sarebbe esclusiva, ossia limitata da se stessa, l'altra


perché sarebbe repressa» (Nohl, p. 266 ).
Il superamento della « positività» si raggiunge solo nella con­
ciliazione degli opposti, e in una conciliazione che si avveri nel­
l'essere, nella realtà, non nel dover essere. Questa conciliazione
è indicata nel concetto cristiano di amore. Nell'amore la legge
smette di essere puro dover essere e diventa essere; nell'amo­
re la legge, l'universale, si incarna nel particolare, e il parti­
colare non si oppone più all'universale, non è più semplice impul­
so egoistico. « Immediatamente rivolto contro la legge si mostra
questo spirito di Gesù, superiore alla moralità nel discorso della
montagna che è un tentativo (Versuch ) ... di togliere alle leggi la le­
galità, la forma di legge; che non predica il rispetto per le leggi,
ma indica ciò che le adempie (erfullt), le toglie (aufhebt) come
leggi, ed è quindi qualcosa di più alto dell'obbedienza alla leg­
ge e rende questa superflua» (Nohl. p. 266 ). E insiste ancora sul­
la scissione portata dal dover essere, mentre la perfezione si de­
ve realizzare, deve essere « una modificazione della vita ».
Sull'amore come conciliazione di opposti c'è anche un famoso
frammento che la Schiller data intorno al novembre del 1797. Men­
tre il rapporto con le cose, con la materia, lascia sussistere l'oppo­
sizione, fra viventi ci può essere unione. « Una vera unione (Ve­
reinigung), un autentico amore ha luogo solo fra viventi che siano
uguali fra loro per la potenza, che siano in tutto e per tutto vi­
venti uno per l'altro, e per nessun aspetto siano di fronte all'al­
tro qualcosa di morto. Questa unione esclude ogni opposizione; non
è intelletto, poiché i rapporti dell'intelletto lasciano sempre il
molteplice nella sua molteplicità, e costituiscono una unità che
è solo unità di opposizioni; non è ragione, poiché la ragione op­
pone assolutamente il suo determinare al determinato; non è qual­
cosa che limita, non è nulla di limitato, di finito: è un senti­
mento (Gefuhl), ma non un sentimento particolare... » (Nohl,
p. 379). « ... Nell'amore questa totalità non è contenuta nella somma
di molti particolari, separati fra loro; nell'amore si trova la vita
stessa come una duplicazione di se stesso e una unificazione di
questo stesso. La vita ha percorso, mediante la cultura (Bildung),
il circolo: da una unità non sviluppata [indifferenziata] a una
unità compiuta» (Nohl, p. 379). L'unità compiuta è quella che ha
sofferto la separazione e l'opposizione, come spiega Hegel in una
812 FILOSOFIA MODERNA

nota e nelle righe che seguono: « ... di fronte all'unità indiffe­


renziata stava la possibilità della separazione, stava il mondo;
nello svilupparsi la riflessione produceva sempre nuove opposizioni
che ci conciliavano nell'impulso appagato, :finché essa opponeva
la totalità dell'uomo a se stesso, :finché l'amore supera (aufhebt)
la riflessione togliendo ogni oggettività e porta via agli opposti
ogni carattere di estraneità e la vita trova se stessa senza altra
mancanza» (Nohl, p. 379).
Dice giustamente M. Rossi 14 che troviamo in queste righe la
prima formulazione della dialettica hegeliana. Nel frammento sul-
1'amore essa è applicata all'individuo umano (pp. 379-382): l'e­
sempio è quello dell'eros il che, a mio sommesso avviso, non indica
le radici sessuali della dialettica hegeliana, ma piuttosto la con­
cezione della sessualità come un fatto tipicamente umano, cioè un
fatto che ha non soltanto un significato biologico, ma ar:iche un
significato spirituale (questa concezione è una costante del pen­
siero hegeliano).
Ne Lo spirito del cristianesimo la dialettica è vista nella sto­
ria. Non c'è più il rimpianto per la felicità, la bellezza del mondo
greco, come in Religione nazionale e cristianesimo: qui la Grecia
antica potrebbe essere paragonata a quella unità non sviluppata (o
indifferenziata) che deve attraversare e soffrire opposizioni prima di
arrivare alla riconciliazione, all'unità riconquistata che, qui, ne
Lo spirito del cristianesimo, è rappresentata dal cristianesimo come
riconciliazione di legge e impulso. L'Antico Testamento, la legge è
l'antitesi, l'opposizione, ma una opposizione necessaria: senza di es­
sa non si arriverebbe a quella sintesi che è il cristianesimo.
Hegel ha visto nell'amore la sintesi fra universale e partico­
lare, fra legge morale e inclinazione sensibile. Il moralista spe­
culativo, dice Hegel (Nohl, p. 276, nota b) può lasciarsi trascina­
re a considerazioni commosse (warm) sulla virtù e il vizio, ma co­
lui che deve guidare un popolo e migliorare gli uomini, colui che
si trova di fronte alla realtà come è, e non come deve essere, si
trova di fronte a quella radicale rottura dell'unità che è il de­
litto. L'amore è vita, singolarità, e come tale si oppone alla
legge, che è universale, ma le si oppone solo per la forma: il con-

" Hegel e lo Stato, I volume di Marx e la dialettica hegèlian11, p. 195.


HEGEL 813

tenuto è il medesimo; cioè l'amore spinge a fare la medesime cose


comandate dalla legge (solo che la legge comanda, mentre l'amore
vive il contenuto della legge); il delitto invece si oppone alla
legge e per la forma e per il contenuto. L'inclinazione sensibile
può essere « superata» nell'amore, il delitto no. Eppure anche il
delitto �a da rientrare nella vita: non c'è contrasto che non pos­
sa essere superato.
Qui non bastano più a Hegel le categorie del Vangelo, ed egli
ricorre ancora una volta alla cultura greca, e precisamente alla
tragedia greca e al concetto del destino. AI delitto si oppone la pe­
na; ma se la pena è comminata dalla legge essa resta qualcosa di
esteriore al delitto; la pena non toglie la coscienza del male com­
piuto, dalla pena il colpevole non è riconciliato con la legge (Nohl,
p. 279 ). La pena riconcilia con la legge solo quando si incarna nel
destino. La pena come destino diventa qualcosa di individuale, non
è l'applicazione di una legge astratta, ma è un dover essere che si
realizza, un universale che si fa particolare (Nohl, p. 280 ). « Il colpe­
vole [ che ha ucciso un uomo] credeva di aver a che fare con una
vita estranea, e invece ha distrutto la sua vita, poiché una vita non
è diversa dall'altra, poiché la vita è nell'unica divinità» (ibid. ). La
pena diventata destino è una forza vitale « e la vita può guarire le
sue ferite, può far tornare in sé quella vita separata e nemica, e su­
perare (aufheben) il malfatto di un delitto, la legge e la pena»
(Nohl, p. 281 ). « Nel destino l'uomo riconosce la sua propria vita,
e la sua implorazione al destino non è l'implorazione a un padrone,
ma un ritornare e un avvicinarsi a sé» (Nohl, p. 282).
Si potrebbe obiettare che il destino colpisce colpevoli e non
colpevoli, giusti e ingiusti; ma ricordiamo che il destino è per
Hegel qualcosa di superiore alla giustizia, alla legge morale:
« è inesorabile (unbestechlich 15) e infinito come la vita; non co­
nosce [ ... ] nessun dominio della virtù; dove la vita è stata vul­
nerata, anche se a buon diritto e con tranquilla coscienza, il de­
stino interviene, e perciò si può dire che mai l'innocenza (Un­
schuld) ha sofferto e che ogni sofferenza è dovuta (Schuld)» Nohl,
pp. 283-84 ). C'è, potremmo dire, una necessità storica (o vitale)
che è superiore al dovere morale.

" Letteralmente: incorruttibile.


814 FILOSOFIA MODERNA

La figura che aduna in sé l'ardire di colui che lotta contro


il destino e la mitezza di chi accetta passivamente il dolore è
l'anima bella. « L'anima bella, dice E. De Negri in una nota alla
sua traduzione della Fenomenologia dello spirito (vol. II, p. 198),
è una figura tra religiosa ed estetizzante che ebbe grande importan­
za nel preromanticismo e nel romanticismo; Goethe le dedicò quel
VI libro delle Esperienze di Wilhelm Meister che s'intitola Le con­
fessioni di un'anima bella e che reca sulla fine le parole: " Io non
mi ricordo di nessun comando; niente mi appare in figura di legge,
è un impulso che mi conduce e mi guida sempre giusto; io seguo li­
beramente le mie inclinazioni e so cosl poco di limitazione come
di pentimento ". Dell'anima bella si erano già occupati con un si­
gnificato analogo Jacobi nel Woldemar e Schiller in Ueber Anmut
und Wurde ». Ritroveremo questa figura dell'anima bella nella Feno­
menologia, e giudicata molto più severamente. Qui Hegel sembra ve­
dere in Gesù un esempio di anima bella, e riprende il suo discorso
sul cristianesimo che in questo scritto è visto come sintesi, come
conciliazione fra il mondo della legge (giudaismo) e il mondo della
sensibilità, degli impulsi, della spontaneità (idealizzato nella gre­
cità).
Oltre alla prima formulazione della dialettica, c'è ne Lo spi­
rito del cristianesimo un altro preludio alla Fenomenologia: è la
elevazione a categorie, a momenti dello spirito simpliciter, di real­
tà storiche: la Grecia antica è l'unità non ancora sviluppata,
una unità felice, ma che non può continuare perché non ha sof­
ferto il « travaglio del negativo »; il giudaismo è la scissione, la
antitesi; il cristianesimo è il momento della sintesi, la concilia­
zione nell'amore. Ne Lo spirito del cristianesimo e negli abbozzi
(Entwurfe) degli anni di Francoforte, si afferma sl la conciliazione
degli opposti, ma si afferma pure la necessità dell'opposizione: è que­
sto il punto fondamentale della concezione dialettica: un progresso,
un superamento che non si può raggiungere senza opposizione, sen­
za lotta. E in questa affermazione che il contrasto è necessario,
possiamo già vedere un superamento di Schelling.

Di questo sguardo molto sommario agli scritti del giovane He­


gel (1793-1800) vorrei sottolineare alcuni punti:
1) Hegel più tardi ha esposto un sistema di :filosofia che com­
prende: logica, filosofia della natura, filosofi.a dello spirito. Ora
HEGEL 815

di queste tre parti quella che ha suscitato i suoi prmu mteres­


si è la filosofia dello spirito. Tutti gli argomenti dei quali trat­
tano i primi scritti di Hegel appartengono infatti a quel cam­
po che Hegel maturo chiamerà filosofia dello spirito. Più precisa­
mente: appartengono alla filosofia dello spirito oggettivo, ossia
delle produzioni dello spirito, e ancora più precisamente delle
produzioni sociali dello spirito: della civiltà, della cultura in
senso ampio. Potremmo anche dire: la filosofi.a di Hegel comincia
come filosofia della storia; anche la religione è vista nella vita dei
popoli.
2) La dialettica (che è una concezione della realtà, prima an­
cora che una concezione della conoscenza) nasce da una meditazione
sulla storia. Cronologicamente (voglio dire nello svolgimento sto­
rico del pensiero hegeliano) la prima triade della dialettica he­
geliana non è quella di essere - non essere - divenire, ma quella di
grecità - ebraismo dell'Antico Testamento - cristianesimo.
3) Nella concezione dialettica, la conciliazione tra gli oppo­
sti non solo deve essere, non è solo il compito infinito dello
sforzo umano, come per Fichte, ma si avvera, è nella storia.

GLI SCRITTI DI JENA


ANTERIORI ALLA « FENOMENOLOGIA »

5. La Costituzione della Germania

E veniamo agli scritti del periodo di Jena, che si possono di­


stinguere in due gruppi: scritti etico-politici e scritti teoretici.
Fra i primi ricordiamo La Costituzione della Germania 16 (non
pubblicata da Hegel) scritta fra il 1801 e il 1803, in varie ri­
prese. Non è uno scritto unitario, ma un complesso di frammenti,
che rivela tuttavia una concezione dello Stato assai diversa da
quella del periodo di Berna. L'idea dello Stato come forza, poten-

1
• Traduzione italiana in Scritti politici 1798-1806, cit.
816 FILOSOFIA MODERNA

za (Gewalt) è qui dominante. Ma bisogna tener presente anche la


situazione storica: La Costituzione della Germania è stata scritta
dopo la pace di Lunéville, dopo la disfatta della Germania e la vit­
toria di Napoleone. Lo scritto comincia infatti con queste paro­
le: «La Germania non è più uno Stato», e Hegel vuol cercare di
capire perché e come ciò sia avvenuto: « I pensieri che questo scrit­
to contiene non possono avere, con la loro pubblicazione, alcun altro
scopo o effetto che il comprendere ciò che è, e con ciò trasmettere
una più quieta opinione, cosl come una moderata sopportazione nei
contatti reali [nel modo di comportarsi] e nelle parole. Poiché non
ciò che è ci rende impetuosi e sofferenti, bensl il fatto che non
sia come deve essere; se però riconosciamo che esso è come è neces­
sario che sia (wie es sein muss), cioè non per arbitrio o per caso,
con ciò riconosciamo anche che deve essere cosl (dass es so sein
sol!)» (Scritti politici, cit., p. 13 ). Sentiamo dunque la polemica
contro il dover essere, già iniziata a Francoforte, e l'affermazione che
essere e dover essere coincidono: è bene (deve essere) ciò che di
fatto è, ciò che si avvera nella storia.
Altra affermazione da rilevare, sempre nella Introduzione a
questo scritto, è che, nella vita degli stati, la guerra ha una fun­
zione fondamentale, è un momento necessario: «La salute di uno
Stato si manifesta in generale non tanto nel riposo della pace
quanto nel movimento della guerra» (p. 12).
A questa valutazione positiva della necessità storica e della
guerra fa riscontro la svalutazione della libertà dell'individuo.
La causa dello sgretolamento della Germania come Stato è si, infat­
ti, la divisione della Germania in vari Stati, ma alla radice di
questa c'è «l'impulso alla libertà» dei tedeschi, il quale non per­
mise che essi diventassero «un popolo che si sottomette ad
una comune forza statale» e che «le singole parti sacrificassero
le loro particolarità alla società, si riunissero tutte in un uni­
versale e trovassero la libertà nella comune libera sottomissione
sotto una forza statale suprema» (p. 16). Le «parti» di cui parla
Hegel possono essere sia gli individui come i singoli stati che co­
stituiscono il Reich tedesco. «Solo i filantropi e i moralisti chè
diffamano la politica come uno sforzo e un'arte di cercare il proprio
utile a spese del diritto ... e una moltitudine priva di interesse e di
patria, il cui ideale di virtù è la quiete della taverna, accusa la po­
litica di instabilità nella fedeltà e di incostanza priva di diritto ... »
HEGEL 817

(p. 144-45). In realtà l'utile dello Stato è il supremo diritto, e


questo diritto viene sancito dalla guerra (p. 145).
Si capisce quindi l'esaltazione del Principe del Machiavelli, di
cui Hegel cita passi dell'ultimo capitolo. Hanno torto coloro che
biasimano il Machiavelli come fautore della tirannia, e gli rim­
proverano di giustificare i mezzi più « esecrabili » per raggiun­
gere quel fine che è la salvezza dello Stato: « e qui la morale ha
un'ampia possibilità di tirar fuori le sue trivialità, che il fi­
ne non giustifica i mezzi ecc. ecc. Qui però non si può parlare
di alcuna scelta dei mezzi: le membra cancrenose non possono esse­
re curate con acqua di lavanda. Una situazione in cui veleno e
assassinio sono divenute ormai consuete, non sopporta nessun blan­
do antidoto. Una vita vicina alla putrefazione può essere riorga­
nizzata soltanto attraverso il comportamento più energico» (p. 160).
Non c'è dunque una legge morale o un diritto naturale che stia
al di sopra del diritto di uno Stato. E il diritto dello Stato si
commisura alla sua forza.

6. Il « Sistema dell'eticità»

Due altri scritti anteriori alla Fenomenologia interessano i


problemi etico-sociali: il Sistema dell'eticità, rimasto inedito fi­
no al 1893 17, e Le diverse maniere di trattare il diritto natura­
le 18, pubblicato da Hegel nel « Kritisches Journal der Philoso­
phie», 1802-1803.
II Sistema dell'eticità è uno scritto estremamente difficile,
ma interessante, oltre che per altri motivi, perché anticipa il pro­
cedimento della Fenomenologia dello spirito, accentuando una ma­
niera che abbiamo già rilevata ne Lo spirito del cristianesimo,
e cioè eleva a categoria, a momento dello spirito simpliciter, even­
ti o momenti storici determinati. Da rilevare anche, in questo scrit-

17 Anno in cui G. Mollat ne diede un'edizione parziale. Edizione completa a cura


di G. Lasson, in llEGEL, Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, Leipzig, Meiner,
1923; trad. it. di A. Negri in l-IEGEL, Scritti di filosofia del diritto (1802-1803) cit.•
pp. 129-256.
1
• In Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie cit. (ora anche in G. W. F.
HEGEL, Gesammelte Werke cit., Bd. 4: Jenaer kritische Schriften hrsg. von H. Buchner
und O. Pèiggeler, pp. 417-485), trad. it. in Scritti di filosofia del diritto,, cit., pp. 1-125.
818 FILOSOFIA MODERNA

to, l'interesse per l'economia, interesse che manifesta lo studio che


Hegel ha fatto degli economisti inglesi. Questo aspetto è stato mes­
so in rilievo specialmente - e giustamente - da Lukacs. Per
Hegel, dice Lukacs, l'economia « è la manifestazione più immedia­
ta, primitiva e tangibile dell'attività sociale dell'uomo » (Il giovane
Hegel, p. 450). Mentre negli scritti giovanili Hegel ha considerato,
nella società antica, solo il mondo dei liberi, degli uomini politici che
non lavorano, a Jena « perviene alla conoscenza che la via maestra
dell'evoluzione dell'umanità, il diventar uomo dell'uomo, la socia­
lizzazione dello Stato di natura, passa solo attraverso il lavoro,
attraverso quel rapporto alle cose in cui si esprime la loro indi­
pendenza e legalità propria, in cui le cose costringono l'uomo,
sotto pena di morte, a conoscerle ... » (op. cit., p. 458).
Il Sistema del!'eticità ci presenta il sorgere della vita spi­
rituale, della vita specificamente umana, dai bisogni e dagli im­
pulsi della vita animale. La terminologia risente dell'influsso schel­
linghiano: si parla di « potenze », si adopera per la conoscenza del­
l'universale il termine intuizione e per la conoscenza del partico­
lare il termine concetto, in senso opposto a quello che hanno nelle
opere della maturità, il che disorienta.
Oltre che disorientare per la terminologia, questo scritto è,
oserei dire, esasperante per la sua sistematicità, ossia per l'in­
trico di divisioni, suddivisioni, deduzioni. Ci limiteremo a dar­
ne solo qualche cenno. Hegel descrive il sorgere della coscienza
dalla natura, analogamente a come farà all'inizio della sezione
« Autocoscienza » nella Fenomenologia. Nella natura come realtà
indifferenziata; unità indifferente, sentimento senza oggetto deter­
minato, si manifesta una scissione, una separazione: il bisogno;
il bisogno cerca soddisfazione (godimento) e lo trova mediante
il lavoro, che è trasformazione di un oggetto esterno. Hegel de­
scrive poi i vari tipi di lavoro, i rapporti economici, quindi il
loro interiorizzarsi, che dà luogo a rapporti morali, come av­
viene nella famiglia. La famiglia è la « somma totalità di cui la
natura sia capace » (Scritti di filosofia del diritto, p. 177), ma non
è la forma più alta di eticità: la forma più alta di eticità è la vita
di un popolo, la vita di ognuno « nella patria e per il popolo » (p.
207). « In maniera eterna esiste quindi l'individuo nell'eticità; il
suo essere empirico ed il suo agire sono senz'altro universali: non
è infatti l'individuale che agisce bensl l'universale spirito assolu-
HEGEL 819

to che è in lui. La visione del mondo e della necessità che è propria


della filosofia, secondo la quale tutte le cose sono in Dio, e non esi­
ste alcuna singolarità, è completamente realizzata ... in ciò che
quella singolarità dell'agire o del pensare o dell'essere ha la sua
essenza e significato solo nell'intero... Ma l'intuizione di que­
sta idea dell'eticità è il popolo ... Nel momento in cui il popo­
lo è la vivente indifferenza, si annulla ogni differenza natura­
le... ; e perciò appunto questa identità di tutti non è astratta,
non è l'uguaglianza del cittadino come bourgeois (Gleicheit der
Burgerlichkeit), ma un'identità assoluta ...» (pp. 201-202).

7. Differenza fra il sistema fichtiano


e il sistema schellinghiano

Ma a Jena Hegel non si interessa solo di problemi etico-poli­


tici: sente il bisogno di inquadrarli in un sistema, come osserva
N. Merker 19• Schelling pubblicava nel 1801 il Sistema dell'idea­
lismo trascendentale; Hegel sente il bisogno di elaborarne uno,
ma procede molto più lentamente e cautamente di Schelling: le
sue lezioni di logica e metafisica degli anni di Jena saranno pubbli­
cate solo postume (nel 1915, la prima volta, da Ehrenberg, poi da
Lasson e da Hoffmeister). È caratteristico di Hegel il cominciare,
nel primo scritto pubblicato da lui, la Differenza tra il sistema
fichtiano e il sistema schellinghiano ( 1801), con una presa di posi­
zione rispetto ad altre filosofie: « già lo Hegel di Jena è tanto sto­
rico quanto logico», dice N. Merker (op. cit., p. 28). Per Hegel la
storia della filosofia ha un'importanza teoretica: non si può filoso­
fare se non in continuità - ed eventualmente in opposizione -
con quanto è già stato pensato.
La Differenza etc. 20 consta di quattro parti: la prima, in­
titolata « Sulle varie forme dell'attuale filosofare», è sistemati­
ca, poi viene l'esposizione del sistema di Fichte, quindi il para­
gone tra Schelling e Fichte e in quarto luogo la polemica con
Reinhold.

" Le origini della logica hegeliana (Hegel a ]ena), Milano, Feltrinelli, 1961, p. 22.
0
'Differenz des Fichteschen und Schellingschen System der Philosopbie, in HEGEL,
Erste Druckschriften (abbreviato E.D.) hrsg. von. G. Lasson, Leipzig, Meiner, 1928,
pp. 1-113.
820 FILOSOFIA MODERNA

Abbiamo detto prima che per Hegel la storia della filosofia ha


un valore teoretico, non puramente erudito; ma bisogna aggiunge­
re che Hegel fa la storia sempre da teoretico: non lo interessa la
ricostruzione di quello che fu una filosofia passata ( disprezza
la storia della filosofia come galleria di quadri, anzi come colle­
zione di mummie, dice - E.D., p. 9), ma la verità espressa da ogni
filosofia. « Lo spirito vivente, che risiede in una filosofia, esi­
ge per disvelarsi, di essere ricreato da uno spirito affine ». Nel­
la prefazione, Hegel comincia col distinguere lo spirito della fi­
losofia kantiana dalla lettera: lo spirito è « il puro principio
speculativo » (E.D., p. 3 ), « l'autentico principio della specula­
zione arditamente espresso » (E.D., p. 5), cioè l'identità di soggetto
e oggetto. In Kant questo schietto principio speculativo, che si
esprime specialmente nella deduzione trascendentale delle catego­
rie, è soffocato da molte teorie, è mutilato dalla limitazione del­
la identità soggetto-oggetto alle dodici categorie, fuori delle qua­
li resta il materiale empirico. Ossia: per Kant non tutto, del­
l'oggetto, è identico al soggetto; l'identità è limitata alla for­
ma dell'oggetto. La teoria dell'intelletto che, nella deduzione
trascendentale delle categorie, era stata « tenuta a battesimo dal­
la ragione » diventa poi essa stessa legislatrice della ragione:
« la ragione è trattata con l'intelletto » (E.D., p. 4), Per capire que­
ste espressioni teniamo presente che l'intelletto è la facoltà che tien
fermi gli opposti nella loro opposizione, è la facoltà che astrae
( = separa, distingue, per Hegel), è la facoltà che coglie il fini­
to come per se stante; ragione è la facoltà che coglie l'unità de­
gli opposti, che vede il finito in relazione con l'assoluto. Quindi
affermare, come afferma Kant, che l'oggetto è costituito oggetto
dall'intelletto vuol dire affermare l'unità di soggetto e oggetto,
tenere a battesimo con la ragione la dottrina dell'intelletto. Ma
proseguire poi dicendo che questa unità di soggetto e oggetto è
limitata al fenomeno e non vale per le cose in sé, opporre quindi
al fenomeno la cosa in sé, vuol dire ritornare nell'opposizione e
« trattare la ragione con l'intelletto ». Fichte ha avuto il merito di
affermare che l'identità di soggetto-oggetto non è limitata al feno­
meno, ma vale per tutto il reale, ma, quando poi svolge il suo si­
stema, dimentica il genuino principio speculativo e anch'egli « ab­
bandona la ragione all'intelletto » (E.D., p. 5), ossia al mondo delle
opposizioni. Il rimprovero che Hegel muove a Fichte ( e che gli
HEGEL 821

muoverà anche nelle opere della maturità) è di non arrivare a con­


ciliare gli opposti: l'unità degli opposti, di Io e non-Io, resta sempre
per Fichte un dover essere, un compito infinito.
La filosofia nasce infatti come esigenza di ritrovare un'armo­
nia perduta: « La scissione (Entzweiung) è l'origine del bisogno
della filosofia» (E.D., p. 12). E poco dopo: « Quando la forza che
unifica (Macht der Vereinigung) scompare dalla vita dell'uomo, quan­
do gli opposti hanno perduto il loro vivente rapporto e azione reci­
proca e sono diventati cose a se stanti, allora sorge il bisogno
della filosofia» (E.D., p. 14 ).
In questo scritto Hegel ritiene che la filosofia di Schelling
soddisfi l'esigenza di ricomporre l'unità degli opposti; in real­
tà, come osserva Haering, Hegel presenta la filosofia di Schelling
interpretandola a suo modo, poiché l'identità schellinghiana è pre­
sentata come una identità che si attua in ogni finito, che lo con­
serva in sé, mentre quella identità che Hegel combatterà più tar­
di, nella prefazione alla Fenomenologia, è una identità in cui sva­
niscono tutte le differenze, una identità come indeterminazione.

8. Fede e sapere

Altro scritto notevole, del 1802, è Fede e sapere 21•


Nell'introduzione c'è una forte polemica anti-illuministica: He­
gel parla di Dogmatismus der Aufklarerei (E.D., p. 227), perché
la negazione della conoscenza dell'assoluto ha attribuito al sape­
re solo un oggetto « finito ed empirico» (E.D., p. 224 ); non ha as­
segnato all'uomo altro fine oltre la felicità. affermando un eudemo­
nismo che è criticabile non in quanto eudemonismo, ma in quanto
concepisce la felicità come « il godimento sensibile, non l'eterna in­
tuizione e beatitudine» (E.D., p. 227). Avendo assolutizzato la real­
tà empirica e finita, l'illuminismo ha concepito l'infinito come un al
di là inconoscibile, che sta oltre i confini della ragione (E.D.,
p. 228 ). Che rapporti ha questo illuminismo eudemonistico, che ha
abbassato « la bella soggettività del protestantesimo ... nella pro­
sa della soddisfazione nel finito », con le filosofie di Kant, di

21
In Erste Druckschriften, cit., pp. 223-346.
82?. FILOSOFIA MODERNA

Jacobi e di Fichte? Apparentemente esse lo negano, in realtà


lo portano a compimento, perché resta in esse « l'essere assolu­
to della realtà empirica e finita e la assoluta opposizione dell'in­
finito e del finito» (E.D., p. 229), e l'assoluta opposizione non è
superata con la ragione, ma scavalcata dalla fede. La filosofia kantia­
na mette innanzi l'aspetto oggettivo di questa opposizione: la leg­
ge morale che è « la più alta oggettività nel finito» (E.D., p. 230);
la filosofia di Jacobi sottolinea l'aspetto soggettivo: la soggettività
del sentimento; la filosofia dj Fichte è la sintesi di entrambe: « essa
esige la forma dell'oggettività e dei principi come Kant, ma pone
il contrasto di questa pura oggettività con la soggettività come una
aspirazione (Sehnen) e una identità soggettiva» (E.D., p. 230).
Tutte e tre queste filosofie restano quindi nel finito.
La critica che Hegel muove alla filosofia kantiana in questo
scritto è quella che rimarrà anche nelle opere della maturità: in
particolare nella « Seconda posizione del pensiero rispetto all'og­
gettività» nell'Enciclopedia. Il pensiero resta per Kant solo una
componente dell'oggetto; oltre al pensiero c'è il molteplice della
sensibilità: non c'è quindi piena identità di soggetto-oggetto, e
il pensiero valido (l'intelletto) è confinato nella sfera del finito,
dell'esperienza. La ragione è solo critica, non speculativa. Certo,
ci sono momenti della filosofia kantiana nei quali sembra che
il pensiero spezzi questa sua soggettività: lo stesso concetto di
giudizio sintetico a priori che esprime l'identità - a priori os­
sia necessaria - del particolare con l'universale; il concetto
di immaginazione produttiva, che fa da cerniera fra l'intelletto
e le intuizioni (e quindi implica una loro profonda identità), il
giudizio riflettente nella Critica del Giudizio; ma la soggettivi­
ta non è mai superata pienamente, poiché « un intelletto che cono­
sce soltanto fenomeni è un nulla in sé, è esso stesso fenomeno e non
è nulla in sé» (E.D., p. 245). Dal fenomeno Kant esce con la fede
razionale. Ma che cosa è la fede razionale?: « Se togliamo alla fede
pratica di cui parla la filosofi.a kantiana ( ossia alla fede in Dio ... )
qualcosa del rivestimento non-filosofico e popolare di cui è ri­
coperta, vediamo che in essa non è espressa se non l'idea che
la ragione ha insieme assoluta realtà, che in questa idea è supe­
rata ogni opposizione di libertà e necessità, che l'infinito pensiero
è insieme assoluta Realtà, ossia l'assoluta identità del pensiero
e dell'essere. Ora questa idea non è altro che quella che la pro-
HEGEL 823

va ontologica ed ogni vera :filosofia riconosce come prima ed uni­


ca, come la sola e vera filosofica» (E.D., p. 260).
La fede in Dio resta fede solo finché la ragione opera nel fini­
to e la natura è sentita nel finito: è l'espressione di chi è im­
merso nell'empiria. « Se la ragione pervenisse all'intuizione e al
sapere che la ragione e la natura armonizzano assolutamente ... sa­
rebbe oggetto di sapere, e non solo di fede anche l'esistenza di
quell'Assoluto che sta a fondamento della ragione e della natura,
di quell'Assoluto che è insieme fonte di moralità e di felicità».
A Jacobi Hegel rimprovera di ammettere che le cose esterne, fi­
nite, abbiano una vera realtà; rimprovera di parlare di fede nella
esistenza delle cose finite, quasi mettendo sullo stesso piano que­
ste e l'Assoluto. Rimprovera la soggettività della morale, cioè
l'affidare il giudizio morale a un sentimento individuale. Per Ja­
cobi, come per Kant, il vero Assoluto è un al di là, postulato dal­
la fede, non conosciuto dalla ragione.
A Fichte, Hegel muove il rimprovero che già conosciamo dalla
Differenza e che gli muoverà sempre: la unità di Io e non-Io non è
mai raggiunta, resta sempre un dover essere. L'intelletto porta
all'ateismo, aveva detto Jacobi, è la negazione dell'Assoluto: a
Dio si arriva solo con la fede. Hegel ribatte: bisogna passare per
la negazione per trovare l'Assoluto. Il pensiero negando « l'ogget­
to o il finito» si avvicina all'Assoluto. « Ma il puro concetto o
l'infinità come abisso del nulla, in cui ogni essere sprofonda,
<leve significare (bezeichnen) l'infinito dolore. . il sentimento che
Dio stesso è morto ... solo come momento, ma non più che come
momento della più alta idea..., e cosl reintegrare nella filoso­
fia l'idea dell'assoluta libertà, e con ciò l'assoluta sofferenza 0
il significato speculativo del Venerdl Santo, che era altrimenti
-solo un fatto storico. Deve restaurarlo nella piena verità e du­
rezza della sua empietà (Gottlosigkeit). Solo da questa durezza
può e deve risorgere la più alta totalità nella sua piena serie­
tà e nel suo più profondo motivo - poiché deve scomparire la leti­
·zia (das Heitre ), l'infondatezza e la particolarità delle filoso­
-:6.e dogmatiche e delle religioni naturali - e la totalità che tut­
to comprende può e deve risorgere nella più lieta (heiterste) li­
bertà della sua forma » (E. D., p. 346 ). Con queste parole termina
Glauben und Wissen.
824 FILOSOFIA MODERNA

LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

9. Che cos'è la « Fenomenologia dello spirito »

Mi sono fermata a lungo sugli scritti giovanili perché mi


sembra che essi preparino meglio a capire lo Hegel maturo e dia­
no un'idea della ricchezza di motivi che sta sotto certe formule
e certi schemi nell'esposizione sistematica delle opere della ma­
turità. La Fenomenologia dello spirito, veramente, partecipa anco­
ra di quel carattere degli scritti giovanili e forse per questo
ha talora imbarazzato gli hegeliani, che si sono chiesti quale po­
sto occupi nel sistema hegeliano.
L'opera fu concepita come introduzione al sistema, ma, come
ha dimostrato Th. Haering, fu scritta rapidamente, anche se
con materiale già pronto e, a poco a poco, divenne, da introduzio­
ne, opera a se stante. Alcuni studiosi di Hegel hanno visto nel­
le conclusioni di Haering, che sono fondate su base filologica,
quasi un delitto di lesa maestà per la grandezza di Hegel (Lukacs
ci ha visto addirittura un reato del « fascista Haering ») dimen­
ticando che altre opere filosofi.che, che non sembrano proprio da
buttar via, e certo valgono molto più dei trattati minuziosamen­
te programmati e puntualmente eseguiti, come la Metafisica di
Aristotele e la Critica della ragion pura sono la prima una rac­
colta di corsi di lezioni, la seconda un'opera scritta rapida­
mente, in cinque mesi, utilizzando scritti di periodi diversi. Cer­
to le conclusioni di Haering potevano essere e sono state corret­
te, modificate, ampliate, precisate nei particolari 22, ma resta il
fatto che la Fenomenologia non è stata progettata cosl come poi
è risultata: la stessa sproporzione nella lunghezza dei capitoli
ne è testimonianza. Essa resta tuttavia l'opera più viva di Hegel,
il quale, dice Rosenkranz, « non ha in seguito elaborato più
nulla con tanta plasticità, con tanta bellezza, con tanta compiu­
tezza... » (Vita di Hegel, p. 223 ).

'" Per esempio, fino a chepunto la Fenomenologia può essere considerata come
introduzione e dove il discorso
prende la mano a Hegel e diventa opera a se stante?
O. POGGELER in due ottimi studi: Zur Deutung der
Questo e altri problemi tratta
Phiinomenologie des Geistes, in
Hegel-Studien I, Bonn, Bouvier, 1961, pp. 255-294, e
Die Komposition der Phiinomenologie des Geistes, in Hegel-Studien, Beiheft 3 (1966),
pp. 27-74.
HEGEL 825

La Fenomenologia dello spirito descrive « il cammino della co­


scienza naturale che urge verso il vero sapere, o il cammino del­
l'anima che percorre la serie delle sue figure (Gestalten), quasi
tappe (Stationen) prescrittele dalla sua natura, per purificarsi e
diventare spirito, mentre, attraverso la compiuta esperienza di
se stessa, arriva alla conoscenza di ciò che essa è in sé » (Fen.,
I,71) 23 •
Per capire questa definizione che Hegel stesso dà della Feno­
menologia nell'Introduzione, ricordiamo che l'opera era stata con­
cepita come una introduzione alla filosofia, che è per Hegel sape­
re assoluto. Ma il sapere assoluto non è dato di colpo, « con un
colpo di pistola », dirà Hegel polemizzando con Schelling nella
Prefazione 24; è una conquista, ed esige un lungo cammino, dalla
forma più povera di sapere, la sensazione, e via via attraverso
forme o figure sempre più perfette di coscienza. Queste forme o
figure 25 non sono però tutte « sapere » in senso stretto; non sono
cioè tutte figure della coscienza teoretica; sono sapere le figure
della « Coscienza »: certezza sensibile, percezione, intelletto; ma
appena si varca la soglia dell'« Autocoscienza » ci si imbatte in
atteggiamenti pratici, in concezioni della vita che vanno oltre la
pura conoscenza. Inoltre non si tratta di figure della coscienza
in generale, così come si realizza in ogni individuo, ma della co­
scienza dell'umanità, così come si svolge nella storia; infatti tut­
te o quasi tutte le figure della Fenomenologia hanno un corrispon­
dente nella storia. E allora, se la Fenomenologia, nel tracciare il
cammino della coscienza, si riferisce non solo alla coscienza del
singolo, ma a quella dell'umanità, non solo alla coscienza teoretica,
ma anche a quella pratica, si capisce che essa finisca con l'abbrac­
ciare gran parte della filosofia. In realtà essa contiene la filosofia
dello spirito, non esposta nella forma sistematica dell'Enciclopedia,
ma seguendo in certo modo a spirale (ossia con ritorni) la storia

23 Cito cosl la Fenomenologia dello spirito nella traduzione di Enrico De Negri;


il numero romano indica il volume, il numero arabo la pagina. Talora modifico un
poco la traduzione.
,. La Prefazione alla Fenomenologia è stata scritta alla fine dell'opera, anche se è
collocata all'inizio, e segna la rottura fra Hegel e Schelling.
25 Adoprerò da qui in avanti il termine " figure ", usato da Hegel stesso, per in­
dicare gli atteggiamenti della coscienza che sono le tappe del cammino verso il sa­
pere assoluto.
826 FILOSOFIA MODERNA

dell'umanità, e (nella sezione « La ragione che osserva») anche la


filosofi.a della natura.
Dobbiamo ora spiegare il significato che Hegel dà al termine
' fenomenologia'. All'inizio dell'Introduzione, in polemica con
Kant 26 Hegel esclude che la filosofi.a debba cominciare con una
critica della conoscenza, come per saggiare il valore dello stru­
mento col quale si filosofa; il conoscere non è infatti uno stru­
mento che si applichi ad una materia estranea, ma è presenza del-
1'oggetto, è identità di soggetto e oggetto, e non può essere
studiato a parte dal conosciuto. Pretendere di conoscere il co­
noscere prima di conoscere l'oggetto, dirà Hegel nel paragrafo
10 dell'Enciclopedia, sarebbe come pretendere di imparare a nuo­
tare prima di arrischiarsi nell'acqua. Ma, se il conoscere è sem­
pre un conoscere la realtà, un vero sapere, non ogni sapere è sa­
pere assoluto: a questo si arriva con un lungo processo. Le tappe
di questo processo, ossia i gradi, le forme del sapere imperfetto,
sono chiamati da Hegel « sapere apparente»; e ' fenomenologia '
vuol dire scienza del sapere apparente.« La scienza nel momento del
suo sorgere (darin dass sie auftritt) è essa stessa un'apparenza.
Il suo sorgere (Auftritt) non è ancora la scienza compiuta ed
estesa in tutta la sua verità... Ora la scienza deve liberarsi da
questa parvenza; e può farlo solo volgendosi contro la parvenza ...
Per questa ragione si deve qui cominciare con la presentazione del
sapere apparente» (Fen., I, p. 70). La critica del sapere apparente,
se mai si può parlare di critica, la fa il sapere stesso mentre si
sviluppa, e si sviluppa dialetticamente, « volgendosi contro l'ap­
parenza», cioè negando via via le forme raggiunte e passando a
un momento più perfetto.

1 O. Coscienza e autocoscienza
La prima parte della Fenomenologia è dedicata alla « coscien­
za». « Coscienza», in questo senso preciso (non nel senso am­
pio nel quale indica il soggetto della Fenomenologia in tutte le sue
figure) è quel momento in cui si crede che l'oggetto del sapere stia
di fronte al sapere, indipendentemente da esso: così nella certezza

" O piuttosto con l'interpretazione che egli dà della « filosofia critica », termine
col quale egli indica la filosofia kantiana.
HEGEL 827

sensibile, nella percezione, nell'intelletto (i prmu tre capitoli).


Ma nessuno di questi tipi di sapere basta a se stesso: anche
l'intelletto che cerca l'essenza del reale nella forza, nella leg­
ge (allusione alla fisica newtoniana) si ,:ontraddice: l'oggetto non
è qualcosa di estraneo alla coscienza: è la coscienza stessa. « La
coscienza dell'altro, di un oggetto in generale, è necessariamente
autocoscienza ». L'autocoscienza è la scoperta che l'in sé dell'og­
getto è la coscienza stessa, che « la coscienza è la stessa verità »
(Fen., I, p. 152).
L'autocoscienza, come del resto ogni forma di realtà, non sor­
ge subito come autocoscienza chiara: si manifesta prima come vita,
e la prima manifestazione della vita è l'appetito, nel senso ampio
di tendenza ad autoconservarsi ed affermarsi. L'appetito si affer­
ma contro l'altro, tende a sopprimere l'altro, ma non deve di­
struggerlo, altrimenti si toglierebbe come appetito; lotta contro
l'altro e per lottare deve sdoppiarsi come autocoscienza, deve
avere di fronte a sé non solo una cosa, ma un altro ( non si lot­
ta contro un albero o un sasso, si lotta contro un altro uomo).
La lotta non è solo lotta per la vita, per sopravvivere; è lotta
per il riconoscimento, dice Hegel; è volontà di potenza, potrem­
mo tradurre.
Il giuoco delle due autocoscienze è descritto prima in ter­
mini generali, poi con la famosa dialettica del padrone e dello
schiavo. Due autocoscienze si trovano di fronte: ognuna vuol
affermare solo se stessa e vuole esser riconosciuta dall'altra; ma
se, nella lotta, entrambe, o anche una sola morisse, non sarebbe
raggiunto il riconoscimento; bisogna dunque che una delle due
autocoscienze sia sottomessa, ma non muoia. Sia sottomessa vuol
dire: diventi schiava dell'altra. Lo schiavo è colui che ha avuto
paura della morte, e per aver salva la vita ha accettato la sotto­
missione, il padrone è colui che ha accettato il rischio della mor­
te. Il dominio del padrone si esercita attraverso le cose che
sono oggetto dell'appetito: il padrone gode, fruisce dei beni sen­
za lavorare, lo schiavo lavora, cioè trasforma le cose a beneficio
del suo signore. Ma nel lavoro lo schiavo riscatta la propria in­
dipendenza: dà forma, foggia la cosa, e in questo senso ne di­
venta padrone, mentre il padrone dipende dallo schiavo per poter
fruire delle cose. Non solo: nel lavoro lo schiavo prende co­
scienza di sé, delle sue capacità, del suo valore. Ma lo schiavo non
828 FILOSOFIA MODERNA

ha subito coscienza dell'identità fra il suo lavoro e il suo esse­


re come coscienza, ossia del fatto che il suo lavoro e il prodotto
del suo lavoro sono il suo stesso essere, che è lui che fa essere
le cose prodotte.
Si capisce che queste pagine abbiano influito su Marx e sia­
no state spesso commentate dai marxisti, ma c'è una differenza
fondamentale fra Hegel e Marx su questo punto: per Marx lo
schiavo esce dalla schiavitù con un processo economico: ricon­
quistando il prodotto del suo lavoro; per Hegel ne esce col pen­
siero: lo schiavo si rende conto che quello che vale nel suo la­
voro e in tutta la sua vita è di essere pensante, di essere « auto­
coscienza libera». Hegel ha qui in mente Epitteto, lo schiavo-fi­
losofo; si capisce quindi il passaggio alla figura dello stoicismo.
È indifferente allo stoico essere schiavo, come Epitteto, o su un
trono, come Marco Aurelio: tutti gli uomini sono uguali, perché
la loro dignità sta nel pensiero. Ma Hegel, pur riconoscendo
aspetti positivi nell'atteggiamento stoico, osserva che ad esso man­
ca « la pienezza della vita» (Fen., I, p. 168). Ora il pensiero che
distrae dal mondo, che si apparta dal mondo, diventa pensiero che
nega il mondo: lo stoicismo trapassa nello scetticismo. Lo scetti­
cismo fa penetrare la negazione in tutte le conoscenze: è un « orien­
tamento polemico contro la molteplice indipendenza delle cose»
(Fen., I, p. 180). Nello scetticismo, però, le cose non sono ridotte
a pensiero (come è secondo verità), ma a ciò che appare ad ogni
singola coscienza; di qui lo smarrimento e la confusione.
Ne nasce quindi una scissione nell'autocoscienza stessa: scis­
sione fra un aspetto permanente, immutabile (poiché in tutta
quella confusione resta pur sempre la coscienza) e un aspetto che
si contraddice continuamente: è questa la figura della coscienza in­
felice, infelice appunto perché scissa. La coscienza infelice è l'at­
teggiamento che trova rispondenza nel cristianesimo, specie nel
cristianesimo medievale, per il quale l'Assoluto è l'intrasmutabile,
Dio, di fronte al quale la coscienza si annulla. Alla figura della co­
scienza infelice Hegel dedica parecchie pagine, nelle quali si tro­
vano osservazioni molto acute sulla coscienza religiosa cristiana,
ma bisogna tener presente che per Hegel questo è pur sempre un
atteggiamento da superare: l'autocoscienza deve, non isolarsi co­
me nell'atteggiamento stoico, né annullarsi come nella coscienza
infelice, ma riconciliarsi con la realtà e diventare ragione.
HEGEL 829

11. La ragione
« La ragione è la certezza che la coscienza ha di essere ogni
realtà» (Fen., I, p. 194). Questa definizione della ragione è ripe­
tuta più volte nella Fenomenologia, nella quale si aggiunge che
nella certezza della coscienza di essere ogni realtà consiste l'ideali­
smo. L'idealismo è infatti l'affermazione che tutto è coscienza
(troveremo nella Logica un'altra definizione dell'idealismo). Ma
c'è idealismo e idealismo: c'è l'idealismo come lo intende Hegel,
secondo il quale la coscienza arriva a quella certezza, e vi arri­
va dialetticamente, passando per varie negazioni, e c'è l'ideali­
smo che comincia con quella certezza, l'idealismo di Fichte, al
quale Hegel rivolge la critica fondamentale che già conosciamo
dalla Differenza. Alle critiche a Fichte si alternano quelle a Kant,
e anche qui è ripresa quella già presente nella Differenza ( e che
ritroveremo nella Logica): l'identità di coscienza e realtà, sogget­
to e oggetto, è per Kant solo parziale.
Se l'identità fra coscienza e realtà non deve essere affermata
all'inizio, ma conquistata, bisogna seguire il cammino della co­
scienza che si fa ragione. Ora la coscienza comincia col cercarsi
nella natura, o piuttosto, col cercare di identificare a sé la na­
tura, e non ci riesce. I molti tentativi che la coscienza fa per ri­
trovarsi nella natura costituiscono la lunga sezione A del quinto
capitolo, intitolata « La ragione che osserva», sezione che contie­
ne una filosofia della natura, dalla natura inorganica alla vita
e alle espressioni esteriori della vita psichica.
Poiché la coscienza non si ritrova nella natura osservandola,
o, che è lo stesso, poiché la ragione non si attua come ragione
che contempla, la ragione cerca di attuarsi da sé, nell'attività
pratica. La sezione B del V capitolo è intitolata: « L'attuazio­
ne dell'autocoscienza razionale per se stessa» e contiene alcune
delle pagine più efficaci della Fenomenologia. All'inizio di que­
sta sezione, come fa spesso, Hegel anticipa con una rapida pennel­
lata quello che dirà poi non solo in questa sezione, ma anche nel
capitolo sesto: l'autocoscienza cerca prima di realizzarsi come in­
dividuo ( e saranno le pagine su « Il piacere e la necessità» che
descrivono l'atteggiamento faustiano, riprendendo talora espres­
sioni dell'Urfaust di Goethe); « ma poi, elevandosi ... all'univer­
salità, quest'individuo diviene ragione universale... e che nella
830 FILOSOFIA MODERNA

sua pura coscienza unifica ogni autocoscienza » (Fen., I, p. 293).


L'universale, nella prassi, è l'eticità che « altro non è se non
l'assoluta unità spirituale della loro essenza nella realtà indi­
pendente degli individui » (ibid. ). Un primo tentativo di realizza­
re tale unità è compiuto dalla « legge del cuore », ossia dal desi­
derio di rendere tutti felici ( c'è una allusione a Rousseau?); dal­
la illusione di far regnare la virtù, di moralizzare la vita po­
litica e il corso del mondo; ma « il corso del mondo vince su ciò
che, in contrapposizione ad esso, costituisce la virtù » (Fen., I,
p. 323). La coscienza si accorge poi che il corso del mondo non è
tanto malvagio quanto pareva, perché gli individui che credevano
di operare solo egoisticamente realizzano qualcosa che ha valore.
Queste pagine della Fenomenologia hanno rispondenza con quelle
ldelle Lezioni sulla filosofia della storia in cui si parla della
astuzia della ragione, che adopera le passioni degli individui per
realizzare fini universali. La legge morale in senso kantiano è
una universalità solo pensata; l'universalità vissuta è l'ethos, il
costume di un popolo. Il popolo è il sostegno (Hegel dice addi­
rittura: la sostanza) della vita dell'individuo. « Per questo gli
uomini più sapienti dell'antichità hanno coniato la sentenza: sa­
pienza e virtù consistono nel vivere conformemente ai costumi de]
proprio popolo » (Fen., I, p. 296).

12. Lo spirito

Solo con l'eticità la coscienza diventa sptrtto. Col capitolo


« Lo spirito » comincia quello che il De Negri chiama il ciclo sto-•
riografìco della Fenomenologia, non perché solo in questo le fi­
gure della coscienza rispondano a momenti storici - abbiamo già
rilevato queste corrispondenze - ma perché da qui in avanti la ri­
spondenza diventa più stretta. E si capisce: se lo spirito è la
sfera della coscienza nella comunità civile, le sue figure rappre­
sentano non solo aspetti, « astrazioni », « momenti » della co­
scienza, ma « spiriti reali », che hanno una storia. E la storia che
interessa davvero Hegel comincia col mondo greco rr.

" Nelle Lezioni sulla filosofia della storia Hegel parla anche del mondo orientale,
ma le sue meditazioni filosofiche, come si è visto negli scritti giovanili, sono partite
dalla considerazione della Grecia antica.
HEGEL 831

Il mondo greco è per Hegel il mondo della « libertà bella»,


cioè della inserzione spontanea dell'individuo nella vita dello Stato,
di una armonia che non ha ancora subito il travaglio della consape­
volezza razionale. Può essere utile ricordare qui ciò che Hegel dice
a proposito del mondo greco nell� Lezioni sulla filosofia della sto­
ria: il costume è « impresso nell'individualità...». Ma è solo il
regno della bella libertà, che è in unità ingenua, naturale con
lo scopo sostanziale. « È l'unione del volere morale e del volere
soggettivo cosi che l'idea è unita con una forma plastica... Come
in una bella opera d'arte il sensibile porta l'impronta e l'espres­
sione dello spirituale» (Ph. G. mi•, p. 239). « Noi sappiamo che la li­
bertà, quale fu in Grecia, fu la più bella che mai sia esistita
sulla terra» (Ph. G., p. 602 trad. it., III, p. 92); bella, ma fragile
perché destinata a rompersi quando la volontà individuale prende
coscienza di sé. E già nel mondo greco sorge un'antitesi dentro la
polis: quella fra legge umana e legge divina. Hegel fa qui un com­
mento filosofico dell'Antigone di Sofocle. Creante rappresenta
la legge umana, che è la legge della polis, mentre Antigone rap­
presenta la legge divina, che è la legge della famiglia. La fami­
glia è già eticità, non è pura realtà naturale ( è questa una co­
stante del pensiero hegeliano, fin dal Sistema dell'eticità), ma
è un'eticità più vicina alla natura di quanto sia lo Stato, il qua­
le, solo, può dare all'individuo una vita imperitura, spiritua­
le; mentre il singolo, in quanto appartiene alla famiglia, « è sol­
tanto la debole ombra» (Fen., Il, p. 11) 28• Altro conflitto pre­
sente nel mondo greco è quello fra ciò che vi è di consapevole nel-
1'azione umana e ciò che in essa è determinato dal fato; e qui He­
gel si ispira all'Edipo re. Il fato sembra colpire chi non ha col­
pa, ma ogni azione è colpa, solo perché è una scelta; scegliere
infatti vuol dire fare una cosa piuttosto che un'altra, quindi ope­
rare una scissione (Entzweiung) (Fen., II, p. 26).
Nel mondo greco « la sostanza etica», cioè la vita del popolo,

21•;.
Ph. G. sta per: Vorlesungen uber die Philosophie der Weltgeschichte, a cura di
G. Lasson, Leipzig, Meiner 1923. La traduzione è mia. La traduzione italiana cit., edita
da La Nuova Italia, oorta in margine il numero della pagina dell'edizione tedesca; non
sarà quindi cliffici.le ritrovare nella traduzione italiana i passi citati.
21 Allusione a Polinice che ha combattuto contro la polis, il cui cadavere riceve
sepoltura da Antigone.
832 FILOSOFIA MODERNA

« teneva l'opposizione inclusa nella sua coscienza semplice, costi­


tuendo quest'ultima una unità immediata con la sua essenza».
( Fen., II, p. 42). L'essenza è l'universale, la volontà dello Stato, la
quale è immediatamente vissuta nel costume dalle coscienze indivi­
duali; non c'è opposizione fra coscienza individuale e coscienza
collettiva. L'opposizione comincia nel mondo romano in cui « il sé
assolutamente discreto [distinto] ha il suo contenuto di contro a
sé, con una realtà altrettanto dura ». Il contenuto è il diritto, i]
mondo delle leggi, che sta contro le persone dei cittadini. Il
mondo romano rappresenta per Hegel il momento dell'antitesi, di
qui si deve ricostruire la sintesi, che è il mondo moderno.
In questa ricostruzione ha una funzione fondamentale l'uscir di
sé della persona astratta (l'accentuazione del concetto di persona
è il torto fondamentale del mondo romano, per Hegel), la sua alie­
nazione o estraneazione (Entausserung e Entfremdung). Credo che
in nessun altro testo hegeliano i due termini compaiano con tanta
frequenza come in queste pagine 29• L'alienazione non è, come per
Marx, un disvalore: è la condizione per il formarsi della civiltà
(Bildung) moderna. Hyppolite 30 connette infatti il significato che
il termine ' alienazione ' ha in queste pagine di Hegel con quel­
lo che ha in Hobbes, in Locke, in Rousseau quando parlano (asse­
gnandole limiti molto diversi) della « alienazione » che gli indivi­
dui debbono fare dei loro diritti naturali per passare dallo stato
di natura allo stato sociale, civile. Hegel dice che il mondo del­
la cultura (Bildung) ossia il mondo civile, sorge « dal movimento
per cui l'autocoscienza si aliena della sua personalità » (Fen., II,
p. 46), e insiste su questo carattere dell'alienazione come un
« togliere il sé naturale », una « estraneazione dell'essere naturale»
(ibid., p. 47). Coltivarsi (sich bilden) vuol dire dunque negarsi
come puro ente naturale, uscire dallo stato di natura per affer­
marsi come essere sociale. Hegel enumera quindi alcune figure di
questa realtà sociale, figure che hanno riferimento all'Europa pre­
rivoluzionaria, e specialmente alla monarchia francese, della qua­
le descrive da ultimo lo sfacelo.

" La sezione B del VI capitolo, intitolata appunto « Lo spmto estraniato ». Si


veda M. D'ABBIERO, «Alienazione» in Hegel, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1970.
"' Genèse et structure cit., p. 375.
HEGEL 833

Di fronte alla « cultura », cioè alla civiltà laica, sta il morido


della fede, che giudica vanità il mondo della cultura. In atteggia.:.:
mento critico, sia rispetto alla cultura ( cioè alla civiltà prerivolu­
zionaria) sia rispetto alla fede sta « la pura intellezione ». Da princi­
pio la pura intellezione si presenta come semplice affermazione del
valore della ragione, come affermazione che l'uomo è uomo per là
ragione, non per la posizione sociale; poi si afferma specialmente
come lotta contro la fede: è l'illuminismo, che considera la religione
come « un tessuto di superstizioni, di pregiudizi e di errori »
(Fen., II, p. 89). Tali errori sono nati su un fondamento di veri­
tà che è la religione naturale, travisata però dai preti, i quali
si sarebbero tenuti per sé l'interpretazione razionale dei dogmi,
ed avrebbero ammannito al popolo solo l'interpretazione mitica,
fantastica di essi. Nell'ingannare il popolo, il clero ha avuto come
alleato il dispotismo politico, che si serve della religione come
instrumentum regni. Hegel riconosce i meriti dell'illuminismo:
l'affermazione del valore della ragione, l'affermazione del valore
del finito, ma in complesso sono più i rimproveri che gli muo.­
ve: sopra tutto quello di non aver capito la vera natura della
religione, la quale è, sl, una forma di pensiero inferiore al con­
cetto, alla filosofia, ma è pur sempre pensiero dell'assoluto, e
non collezione di errori e di superstizioni. « L'illuminismo ha
dunque sopra la fede un potere perché nella stessa coscienza di
lei si trovano quei momenti ch'esso mette in valore », esso « avvia
a superare la separazione priva di pensiero, o meglio priva di
concetto, che è data dalla fede » (Fen., II, p. 114 ), cioè la sepa­
razione fra la coscienza umana e l'assoluto, ma ha il torto di
chiudersi nel finito. Tutte le istituzioni, la monarchia, la Chie­
sa sono discusse e giudicate in base alla loro utilità per l'uomo.
« Così-è dato lo spirito come libertà assoluta,· esso è l'autocoscien­
za che abbraccia se stessa, di modo che la certezza di se medesima
è l'essenza di tutte le masse spirituali, e del mondo reale e di
quello ultrasensibile» (Fen., II, p. 125). Le « masse spirituali�>
sono le istituzioni, le classi sociali, la Chiesa ecc., .ossia tutte
le · forme in cui prende corpo la vita dello spirito. Questa. au�
tocoscienza si esplica come volontà che non · lasda sussistere nul­
la di fronte a sé, e proprio per questo è. solo distruttiva. e èul­
mina . nel terrore.• La figura della libertà assoluta ha un corri-
834 FILOSOFIA MODERNA

spondente storico· nella Rivoluzione francese, come si vede chia­


ramente da molte espressioni di Hegel 31•
Come già aveva accennato ne La costituzione della Germania,
Hegel vede nella concezione morale di Kant il parallelo della Rivo­
luzione francese: questa ha attuato ciò che quella aveva teoriz­
z.ato. Come nella concezione politica rivoluzionaria non c'è più
opposizione fra individuo e Stato, perché questo è l'espressione
della volontà dei cittadini, cosi nella « visione morale del mon­
do », che è quella kantiana, non c'è· più opposizione fra volontà
e legge, poiché la legge esprime la natura stessa della volontà
(autonomia della volontà). E come, a sommesso avviso di chi scri­
ve, non ha simpatia per gli ideali della Rivoluzione francese,
cosi Hegel non ha simpatia per la morale kantiana. Dopo averne
esposti i punti fondamentali: carattere formale della legge mora­
le, valore esclusivo dell'intenzione, disinteresse per il risultato
dell'azione morale, bando alla ricerca della felicità come mo­
vente dell'azione morale, tensione continua verso la perfezione
morale (santità), Hegel ne fa la critica. L'unione di virtù e felicità,
prima esclusa, è poi postulata come esigenza della vita morale;
la perfezione morale (santità) non si raggiunge mai, sicché c'è una
contraddizione fra il primo principio dell'etica kantiana: « c'è una
autocoscienza morale » e l'affermazione che la perfezione morale
non si raggiunge mai. C'è quindi una distorsione (Verstellung )32
nella stessa coscienza morale, un vespaio di contraddizioni, di cui la
fondamentale è quella che Hegel rimprovera sempre alla morale
kantiana: la coscienza morale ha in sé stessa la legge, eppure la
legge si presenta come un al di là, un dover essere. Per superare
questa difficoltà ci si appella alla coscienza (Gewissen) 33, cioè a un

31 E sono espressioni che non denotano certo simpatia. Nonostante tutti gli sforzi
di J. Ritter per dimostrare che « H_egel ha sempre detto sl alla Rivoluzione francese;
non c'è niente di meno equivocabile di questa affermazione» (Hegel e la Rivoluzione
francese, trad, it. Napoli, Guida, 1970, p. 28); sembra a chi scrive che, dopo il 1796,
Hegel abbia sempre espresso il suo dissenso dagli ideali della Rivoluzione francese:
caratteristica, fra molti altri testi, l'Anmerkung al paragrafo 539 dell'Enciclopedia.
Certo Hegel ne ha riconosciuto la necessità, come riconosce la necessità di ogni
fatto storico - del mondo ebraico dell'Antico. Testamento, del cristianesimo medieva­
le -, ma anche la Rivoluzione francese, come i due momenti storici citati, rappre­
senta il momento dell'antitesi, della negazione, che è necessaria al progresso, ma nella
quale non ci. si può fermare.
31 Travolgimento, traduce De Negri.
" Il tedesco ha due parole diverse per indicare la coscienza morale (Gewissen) e
HEGEL 835

atteggiamento in cui si ha fiducia nella possibilità di conoscere im­


mediatamente ciò che è bene e ciò che è male. La « coscienza», in
questo senso, vuol essere il superamento del dualismo kantiano
fra impulso e legge morale: la coscienza« sa e fa ciò che è concreta­
mente giusto» (Fen., II, p. 165). « Il dovere non è più l'univer­
sale che si contrappone al Sé (al soggetto), anzi si sa che non ha
validità alcuna in tale stato di separazione; ora è la legge che è per
il soggetto, non il soggetto per la legge» 34• Le pagine sulla « co­
scienza» si riferiscono al soggettivismo romantico; ma non sem­
pre il soggettivismo romantico è la giustificazione della santità degli
impulsi: esso assume anche la forma dell'anima bella, nella quale
gli impulsi armonizzano immediatamente col dovere. Abbiamo già
incontrato la figura dell'anima bella ne Lo spirito del cristianesimo;
qui essa è giudicata molto più severamente: lungi dal trovare gusto
nell'azione, l'anima bella se ne ritrae sempre più; « le manca la
forza dell'alienazione, la forza di farsi cosa e di sopportare l'es­
sere » (Fen., II, p. 183 ). Così essa « arde consumandosi in se
stessa e dilegua qual vana caligine che si dissolve nell'aria» (ibid.,
p. 184). Più avanti Hegel dice addirittura che l'anima bella « è
sconvolta fino alla pazzia» (ibid., p. 153 ), ripensando forse· a
Holderlin, che era finito pazzo.
Fin qui Hegel ha parlato della coscienza umana cosi come si
svolge nella storia, elevando a categorie, a figure dello spirito
alcuni momenti e atteggiamenti che gli sono sembrati tipici. E. De
Negri nella sua Interpretazione di Hegel ha paragonato la Fenome­
nologia ai romanzi filosofici dell'epoca: al Wilhelm Meister di
Goethe, all'Iperione di Holderlin, all'Enrico di 0/terdingen di
Novalis; in questi infatti si vedono riflesse nella vita di un per­
sonaggio le avventure dello spirito umano, nella Fenomenologia
il cammino della coscienza ha continui riferimenti alla storia del­
l'umanità. J. Hoffmeister nella sua Introduzione alla Fenomenolo­
gia (p. XVIII ss.) rileva che in alcune opere precedenti e contem­
poranee si stabiliva un paragone e un rapporto tra le facoltà del-
1' anima e le epoche della storia dell'umanità.

la coscienza come semplice consapevolezza (Bewusstsein), in italiano abbiamo una pa­


rola sola. De Negri traduce quindi qui Gewissen con spirito coscienzioso.
34
Risonanza della frase evangelica: « Il s�bato è· fatto per l'uomo, non .J'u!).ID.o
per il sabato» (Mare. II, 27).
836 FILOSOFIA MODERNA

13. Religione e filosofia


Dall'« Autocoscienza » al lungo capitolo su « Lo spirito » ( salvo
la parte su « La ragione che osserva ») Hegel ci ha dato una filoso­
fia di quello che nel sistema sarà chiamato spirito oggettivo; col
capitolo VII « La religione » comincia fa filosofia dello spirito
assoluto, che, nella Fenomenologia, apparentemente, comprende so­
lo religione e filosofia (sapere assoluto), ma in realtà tratta anche
dell'arte, quando parla della « religione artistica ». Il passaggio
dallo spirito oggettivo allo spirito assoluto, dall'attività umana
nel mondo alla contemplazione religiosa, estetica, filosofica non
è facile, come non è facile stabilire il rapporto fra spirito oggetti­
vo e spirito assoluto nel sistema di Hegel. Lo spirito assoluto e,
per rimanere nella Fenomenologia, la religione è il manifestarsi
di una realtà più alta della storia umana, o è unii delle forme più
alte di questa attività? Le opere hegeliane offrono lo spunto sia
per l'una come per l'altra interpretazione.
Quello che Hegel dice della religione nella Fenomenologia
contiene già l'essenziale di quello che sarà detto nelle Lezioni
sulla filosofia della religione. In queste è molto più ampia la
trattazione delle religioni storiche, ed hanno un posto a sé - co­
me religioni del sublime - il giudaismo e l'islamismo; è anche
messo in rilievo il culto, e ne è precisato il carattere; ma il
concetto. della religione resta il medesimo. La religione è rap­
presentazione dell'assoluto; non è sentimento, come riteneva
Schleiermacher: è conoscenza, è pensiero, ma non ancora pensiero
perfetto, non ancora concetto. In tutte le figure dello spirito,
dice Hegel, è presente un aspetto religioso, se intendiamo per re­
ligione la « coscienza dell'essenza assoluta », ma nella religione
lo spirito sa di aver presente l'essenza assoluta; l'imperfezio­
ne della religione rispetto alla filosofia consiste nel ritenere l'as­
soluto come separato dalla coscienza del credente.
La prima forma di religione è la religione naturale. Nella religio­
ne lo spirito sa se stesso, ma si sa rappresentandosi in forma di fi­
gure, e nelle religioni orientali queste figure sono attinte dalla
natura: luce (religione persiana), piante e animali (religione in­
diana), opere di un artefice (obelischi e piramidi in Egitto). La
seconda forma· di religione è la religione artistica: in essa lo spi­
rito si sa come naturalità tolta, perché le rappresentazioni dell'as-
HEGEL 837

soluto non sono forze naturali, ma fìgure umane: tali sono le di­
vinità greche. La rappresentazione religiosa è strettamente legata
con la concezione etica del popolo greco: è la concezione in cui
l'uomo ha coscienza di sé come superiore alla natura, ma non co­
me soggetto infinito: l'individuo ha coscienza di sé come inserito
in un popolo che gli assegna determinati compiti e gli toglie i pro­
blemi. Hegel parla quindi di una« assoluta levità», di una gioia sen­
za limiti - e questa si rillette nelle divinità greche. - Hegel ve­
de un progresso nella rappresentazione artistica della divinità: la
forma più legata alla natura è la rappresentazione plastica della
divinità, la scultura; gli dei greci sono inizialmente le figu re scol­
pite dagli artisti, ma la statua deve essere animata, il dio deve avere
la favella: nascono così l'inno e l'oracolo. Alla manifestazione del
dio, l'uomo risponde col culto 35, che culmina col sacrificio. Ma quan­
do compie questi riti, (Hegel parla specialmente del culto di Ce­
rere e di Bacco) l'uomo, preso dall'entusiasmo, balbetta soltanto;
bisogna invece che il Dio si esprima chiaramente, e ciò avviene nella
poesia epica e, in forma più alta, nella tragedia. Nella tragedia i
molteplici dei, ancora dispersi nell'epos omerico, si raccolgono in
tre forme essenziali: Zeus, « forza del focolare e spirito della pie­
tà familiare, nonché forza universale dello Stato e del governo »,
Febo, il dio della luce, il dio che sa e si esprime nell'oracolo,
e le Erinni, divinità tenebrose; chi domina, poi, è « l'immota uni.
tà del destino» (Fen., II, p. 247). La terza forma di religione è
la religione rivelata 36 (offenbare ), che si realizza nel cristiane­
simo. Nella fede cristiana l'assoluto, che già la religione greca
concepiva come spirito, è presente come autocoscienza, come un
uomo reale, che il credente può vedere, sentire udire. È la dot­
trina dell'Incarnazione, del diventar uomo di Dio (Menschwerdung
des gottlichen Wesens ), quella che Hegel apprezza specialmente nel
cristianesimo. Il contenuto di questa dottrina è altamente filoso­
fico, ma la comunità cristiana lo pensa nella forma della rappresen­
tazione, cioè come riferito ad un uomo esistito in un determinato

" NeJle Lezioni sulla filosofia della religione il culto sarà visto come un momento
essenziale della religione in quanto tale, e precisamente come il momento in cui l'uomo
non si limita a contemplare, ma fa, risponde al Dio con azioni.
36
Non nel senso teologico, ma nel senso di religione manifesta, in cui « lo spirito
è chiaro a se stesso », come si dice neJle Lezioni sulla filosofia della religione trad. it.
I, p. 127. De Negri traduce: « religione disvelata ».
838 FILOSOFIA MODERNA

tempo, nel passato. Così avviene anche della dottrina della Trini­
tà: la generazione del Verbo esprime un movimento dialettico nella
divinità, esprime l'assoluto come spirito; ma la comunità cristia­
na se la rappresenta come rapporto di padre a figlio. Analoghe os­
servazioni fa Hegel a proposito della creazione, del peccato origi­
nale, della redenzione.
« Quel che resta ancora da fare [ nel cammino della coscienza ver­
so il sapere assoluto] è solo il superamento di questa mera forma
[della rappresentazione] » (Fen., Il, p. 287) per arrivare al con­
cetto, al sapere assoluto. Nell'introduzione a quest'ultimo breve� ca­
pitolo della Fenomenologia, Hegel ripercorre un po' le tappe del
cammino; traccia anche, in modo estremamente rapido (ibid., pp.
300-301) e per allusioni, uno schizzo della- storia della filosofia da
Cartesio a Schelling, e dà un cenno, assai interessante, ma molto
rapido, della dottrina del tempo. A proposito della successione
delle figure passate in rassegna dalla Fenomenologia, Hegel dice:
« Il tempo è il concetto medesimo che c'è (da ist) e si presenta al­
la coscienza come intuizione vuota; perciò lo spirito appare neces­
sariamente nel tempo, ed appare nel tempo finché non coglie il suo
concetto puro, vale a dire finché non elimina il tempo. Il tempo
è il puro Sé esteriore ed intuito; è un Sé non attinto ancora dal
concetto; quando questo attinge se medesimo, supera la sua forma
temporale... » (Fen., II, p. 298). Vien fatto di pensare alla conce­
zione kantiana del tempo come forma della sensibilità: c'è di co­
mune il concetto del tempo come modo di apparire del reale; ma il
reale che appare, per Hegel, è lo spirito stesso che non ha rag­
giunto la piena consapevolezza di sé; e lo stesso apparire ha un
significato diverso da quello che ha in Kant: non è dovuto alla
limitatezza del nostro conoscere, ma è un momento necessario del
divenire dello spirito. Forse potremmo dire: è il modo in cui lo
spirito appare a sé nella storia, mentre il sapere assoluto, la
-filosofia, è la coscienza intemporale di ciò che lo spirito è nella
storia 38•

37 E si capisce, poiché sarà compito del sistema di filosofia svolgere questo sapere:
qui si tratta solo di darne un'idea.
" La Prefazione alla Fenomenologia è stata scritta dopo l'opera e segna, come si
è detto, il distacco da Schelling. I punti fondamentali della Prefazione mi sembrano
questi: 1) la filosofia deve essere esposta scientificamente, per concetti, ossia deve
giustificare le sue affermazioni, non procedere per intuizioni; 2) deve cogliere i prin-
HEGEL 839

LA LOGICA

14. Che cosa è la logica

Il rapporto tra Fenomenologia e Logica è stato una delle « cro­


ci » degli studiosi di Hegel, e non pretenderemo certo di risolve­
re questo problema. Ci limiteremo a ricordare qualche frase di
Hegel nella Scienza della logica. L'oggetto della Fenomenologia
è « la coscienza come sapere concreto, cioè immerso nell'esteriori­
tà. Ma la progressione di quest'oggetto riposa soltanto, come lo
sviluppo di ogni vita naturale e spirituale, sulla natura delle pu­
re essenzialità che costituiscono il contenuto della logica » (Scien­
za della logica, trad. Moni-Cesa, p. 7) 39• Pet capire che cosa
siano le « pure essenzialità » giova ricordare un altro passo della
Logica in cui Hegel dice che la logica studia la semplice impalca­
tura (Geruste) delle forme dello spirito (p. 662), di quelle forme
dello spirito che sono oggetto della Fenomenologia. Poco dopo, nel
discutere la concezione della logica come scienza formale, scrive
che si potrebbe accettare questa concezione solo se si intendesse
per 'forma ' il principio intrinseco che dà forma (innere Bildner)
(p. 670) - direi: la forma in senso aristotelico -. Oggetto del­
la logica sono dunque i principì, le strutture che stanno a fonda­
mento delle realtà concrete offerte dall'esperienza. Si capisce quin-'
di che la logica si identifichi con la metafisica, che è appunto
studio dei principi primi della realtà. Si pensi poi che la real­
tà si identifica col pensiero: questo, dice Hegel, è stato dimo­
strato dalla Fenomenologia, nella quale si è visto che la far-

cipi più generali, non raccogliere sotto l'etichetta filosofica una quantità di materiali
riguardanti la natura (elettricità, magnetismo ecc.); 3) deve rispettare le differenze del
reale, non vederle solo come espressione di un assoluto indifferenziato (la famosa notte
in cui tutte le vacche sono nere); 4) Il vero (la realtà fondamentale) « non è sostanza
ma soggetto» (p. 19), ossia realtà che diviene, attività che, divenendo, si differenzia.
pur rimanendo se stessa: « è la mediazione del divenir altro da sé con se stesso»
(p. 20). Questo divenir altro è la negatività, l'alienazione. Il vero (inteso come vero
essere) deve sopportare « il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo►>, che è con­
dizione del suo arricchirsi. 5) L'assoluto non va concepito come inizio, ma come ri­
sultato (p. 21 ).
" Da qui in avanti citerò sempre la Scienza della logica in questa traduzione, in­
dicando solo il numero della pagina. Non avverto le - rare - volte in cui modifi­
cherò la traduzione.
-840 FILOSOFIA MODERNA

ma più alta di coscienza, il sapere assoluto, è quella in cui è


scomparsa ogni opposizione fra la coscienza e il suo oggetto. « La
scienza pura [ o sapere assoluto]... contiene insieme il pensiero
in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppure la cosa in
se stessa in quanto è insieme anche il puro pensiero » (p. 32). He­
gel rimprovera infatti a Kant di avere messo la cosa in sé al di
là del pensiero, e osserva che « la vecchia metafisica aveva sotto
questo riguardo un concetto più alto del pensiero, che non quello
ch'è venuto di moda ai tempi nostri. Metteva cioè per base che
quello che per mezzo del pensiero si conoscesse delle cose e nelle
cose, fosse il solo veramente vero che le cose racchiudessero »
(p. 26 ). Se si tien ferma questa identità di pensiero e realtà si
deve affermare l'identità di metafisica e logica, identità che del
resto Kant aveva già intravveduta, dice Hegel (p. 32), quando aveva
concepito la logica trascendentale come scienza dei concetti puri,
e questi come costitutivi dell'oggetto. Ma Kant non ha condotto
fino in fondo questa concezione.
La critica, positiva e negativa, di Hegel a Kant è riassunta
nell'introduzione alla Logica dell'Enciclopedia, in quei paragrafi
che espongono la « seconda posizione del pensiero rispetto all'og­
gettività ». La prima posizione è quella della metafisica prekantia­
na, alla quale Hegel, come nel passo sopra citato della grande Scien­
za della logica, riconosce il merito di aver affermato l'identità
di essere e pensiero, ma alla quale rimprovera di aver creduto che
tale unità si realizzasse coi concetti astratti. Di qui la reazione
empiristica, la quale afferma che la verità si trova nell'esperien­
za. Ma Kant osserva che nell'esperienza sono già impliciti ele­
menti necessari e universali, che non c'è oggetto di esperienza
senza concetti, e questo è il suo grande merito; il suo torto è
quello di non aver visto che il concetto costituisce la totalità
dell'oggetto, di aver ammesso nell'oggetto, oltre alla forma a
priori, una materia sensibile, e di aver quindi legato a questa il
pensiero. I concetti kantiani, le categorie, sono quindi incapaci
di cogliere l'assoluto, che resta al di là dell'oggetto conosciu­
to: la cosa in sé. La negazione kantiana della metafisica ha va­
lore nei limiti in cui colpisce· i difetti della precedente metafi.­
sica - la concezione dell'anima come cosa, la concezione di Dio
come realtà esistente accanto a un finito parimente esistente -
ma è falsa in quanto chiude il pensiero umano nell'ambito dell'espe-
HEGEL 841

rienza. « Poiché l'uomo è pensante, né il buon senso né la filo­


sofia si faranno mai persuadere a non elevarsi da e per mezzo del­
la contemplazione empirica del mondo a Dio [ ... ]. Dire che questo
trapasso [ dal finito all'infinito] non debba essere fatto è dire eh�
non si debba pensare » (Enciclopedia, § 50, Anm. ). Ed errata è pu­
re la critica kantiana alla prova ontologica, infelice l'esempio dei
cento talleri, che è « barbarico » chiamare concetto. Dio è un og­
getto di tutt'altra specie dai cento talleri o da qualsiasi realtà fini­
ta: è la totalità del reale, e sarebbe strano che non contenesse nep­
pure la più povera determinazione del reale, che è l'essere(§ 51).
Grande merito di Kant è la scoperta delle antinomie, ma grande
torto il non aver visto che la contraddizione non è dovuta a una
debolezza dell'intelletto, ma esprime la struttura stessa del reale
(§ 48 ). Se il torto fondamentale di Kant è quello di aver posto una
dualità fra il pensiero e il reale, fra soggetto e oggetto(oggetto co­
me cosa in sé), si capisce che Hegel apprezzi particolarmente quelle
teorie kantiane nelle quali tale dualità è superata: innanzi tutto
la teoria del giudizio sintetico a priori, e poi la teoria del giudizio
riflettente nella Critica del Giudizio.

15. L'essere

Visto dunque che per Hegel il pensiero non costituisce solo la


forma dell'oggetto, ma la sua totalità, si capisce che le « pure
essenzialità» che sono oggetto della logica non sono soltanto un
aspetto del reale, non sono un nostro modo di vedere la realtà:
ne sono, come si diceva, l'armatura o l'impalcatura: una impalca­
tura, però, che non si è ancora rivestita di tutta la ricchezza
del reale. Ecco perché Hegel può definire l'oggetto della logica
in due modi che sembrano contrastanti: come « l'esposizione di
Dio com'egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della
natura e di uno spirito finito» (Logica, p. 31) e come« il regno del­
le ombre; il mondo delle semplici essenzialità, libero da ogni concre­
zione sensibile» (p. 41). Il Dio di Hegel non è infatti l'atto pu­
ro di Aristotele, ma è un Dio che si fa, che diviene, che passa
via via ad una ricchezza sempre maggiore; per Hegel infatti la per­
fezione è al termine, non all'origine del processo; ora la logica
coglie l'origine(Dio come era in sé etc.), quando è ancora ombra,
842 FILOSOFIA MODERNA

priva di corposità e di determinazioni. Si capisce quindi che la


Logica cominci col contenuto più povero: l'essere, « l'essere in ge­
nerale; l'essere e niente più, senza alcun'altra determinazione
e riempimento» (p. 55) 40• Ma un tale essere, senza nessuna de­
terminazione, non si può pensare né può esistere: si identifica
col nulla, e se l'essere si identifica col nulla, anche il nulla
si identifica col puro essere. Se però ci si fermasse a questa iden­
tità, non si penserebbe propriamente nulla e non ci sarebbe nul­
la. Bisogna dunque che essere e nulla siano insieme identici e op­
posti, e che ognuno dei due sparisca nel suo opposto. La verità
dell'essere e del nulla è questo sparire: è il divenire.
Si vede qui all'opera il metodo dialettico: metodo dialettico,
perché dialettica è la realtà, il che vuol dire « che il negativo
è insieme anche positivo, ossia che quello che si contraddice non
si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve solo nel­
la negazione del suo contenuto particolare... Cotesta negazione
è un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco
del precedente» (p. 36) 41•
Hegel si rende conto delle difficoltà alle quali può dare origi­
ne l'identificazione di essere e nulla; infatti a quella prima tria-­
de (essere, nulla, divenire) esposta in una pagina e mezzo fa segui­
re quattro Note, che occupano, nella traduzione italiana, ventiset­
te pagine. La prima obiezione che vien fatta è che, se essere e nul­
la sono lo stesso, è lo stesso che io sia o non sia, che questa ca­
sa sia o non sia ecc. Hegel risponde che l'essere identico col nul­
la è l'essere indeterminato, non gli enti determinati, come sono
io, come è questa casa ecc. L'essere determinato è quello che è,
e non può non essere, perché è in relazione con tutto l'universo,
ed è determinato da queste relazioni; quindi il non-essere di un
essere determinato muterebbe la faccia dell'universo, e perciò è di­
verso dal suo essere. Inoltre, quando si dice che essere e nulla so­
no lo stesso non si intende che siano entrambi livellati in una spe-

.. Hegel assume il termine "essere" (Sein) in tre diverse estensioni di significato:


1) rorne inizio del processo logico (tesi della prima triade), 2) come titolo del primo
capitolo della categoria della qualità, 3) come oggetto di tutto· il primo libro della
Logica, che si divide in logica dell'essere, dell'essenza e del concetto.
1
' Questo negare che è insieme un arricchire è espresso da Hegel col verbo
aufheben. che il Croce ha tradotto con «superare» e il Moni con «togliere►>, nel
�enso del latino tollere, che vuol dire portar via e portare in alto, elevare.
HEGEL 84.3

cie di grigiore, ma che sono momenti del divenire: sono quella« in­
quietudine di incompatibili » che è il movimento, che è l'essere di
ciò che non era e il non essere di ciò che era. È . l'astrazione
quella che fissa i momenti del divenire, ne fa delle entità, e sic­
come questi momenti sorgono e scompaiono, fissa anche lo scompari­
re e lo ipostatizza nel nulla. Ma se l'essere fosse solo essere, co­
me diceva Parmenide, fosse solo unica e immutabile sostanza, co­
me diceva Spinoza, non si spiegherebbero il divenire e il finito.
Hegel stesso ci dice che l'essere di cui egli parla è l'essere co­
si come lo concepiscono gli Eleati, sopra tutto Parmenide, e il
nulla corrisponde alla concezione buddistica: la verità dell'elea­
tismo e del buddismo è la concezione eraclitea 42• La realtà ori­
ginaria è il divenire, non l'atto puro: questa è l'affermazione
fondamentale espressa dalla prima triade della Logica hegelia­
na 43•
Affermare che il reale non è l'essere indeterminato, ma l'esser
determinato è ribadire una volta di più che la realtà è contraddit­
toria, è sintesi di essere e nulla, poiché la determinazione è ne­
gazione. Hegel ripete volentieri la frase di Spinoza: omnis de­
terminatio negatio. Le cose che ci sono 44, che si presentano al­
la nostra esperienza, hanno un aspetto positivo, per cui possono
dirsi essere, e un aspetto negativo, per cui sono questo e non al­
tro (un albero è una realtà positiva, ma il suo essere albero im­
plica che esso non sia una pietra): il loro aspetto positivo è la
qualità, l'aspetto negativo è il limite: in quanto il reale ha una
qualità ed è determinato esso è qualcosa (Etwas), un ente. Il qual­
cosa è in rapporto con l'altro, ha non solo una determinatezza, ma

42
Spesso le categorie della Logica hegeliana corrispondono alle filosofie storica­
mente esistite. Lo dice Hegel stesso nella Introduzione alle Lezioni sulla storia della
filosofia (trad. it. voi. I, p. 41): « ... la successione dei sistemi filosofici �he si mani­
festa nella storia è identica alla successione che si ha nella deduzione logica delle de­
terminazioni concettuali dell'Idea». Come la trama della Fenomenologia, che ha per
oggetto la coscienza concreta, è offerta dalla storia vissuta, cosl la trama della Logica
è offerta dai sistemi filosofici affermatisi nella storia.
43
Le categorie e sottocategorie della Logica hegeliana sono numerosissime: ricor­
deremo qui solo quelle che ci sembrano più significative. La Logica si divide in tre
grandi parti: essere, essenza, concetto. Le categorie dell'essere sono: qualità, quan­
tità, misura.
44
Hegel chiama Dasein (esserci) l'esser determinato. « Dasein ist bestimmtes Sein •
(Wiss., der Logik. p. 95, trad. it. p. 102).
844 FILOSOFIA MODERNA

una destinazione, quasi una missione ad essere in un certo modo 45•


« Il qualcosa si riferisce cosi di per se stesso all'altro » (p. 124)
e pone un limite fra sé e l'altro. Per il fatto di essere limita­
to, il qualcosa tende a uscire dal limite, e questa è la sua in­
quietudine. « Il qualcosa posto col suo limite immanente come la
contraddizione di se stesso, dalla quale è indirizzato oltre a sé,
è il finito » (p. 128). Dire di qualcosa che è finito è come dire
che è infìciato di non essere, che non solo muta, ma che è desti­
nato a perire, che ha in sé il germe della corruzione; per le co­
se finite « l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte » (p.
128). È questa « la mestizia del finito ». Mestizia che nasce
da un errore dell'intelletto, il quale fissa il finito, ne fa una
realtà assoluta, e considera quindi il suo finire come una pura
perdita. Questa è, secondo Hegel, la concezione che la metafisica
tradizionale ha del finito: quella che lo pone come qualcosa che
sta accanto all'infinito. Altra concezione errata del finito è quella
fichtiana, che lo vede come un continuo sforzo di negare il limi­
te e fa consistere l'infinità in un dover essere. Ma, se si pen­
sa che la caratteristica del finito è di avere in sé la negazione,
si vedrà nel perire del finito la negazione della negazione e quin­
di l'affermarsi dell'infinito. « È la natura stessa del finito di
sorpassarsi, di negare la sua negazione e di diventare infinito »
(p. 139). L'infinito è dunque il sorpassarsi del finito; ecco per­
ché non c'è luogo alla mestizia quando ii finito perisce: perché
proprio in questo perire del finito si realizza l'infinito. L'in­
finito si attua dunque ogni momento, non è un al di là del finito,
né nel senso della trascendenza (antica metafisica) né nel senso
di un ideale irraggiungibile (Fichte) - questi due sono due tipi
di « cattivo infinito ». L'infinito è il vero essere, ma si attua
nel negarsi del finito. « La proposizione che il finito è ideale
costituisce l'idealismo. L'idealismo della filosofia consiste soltan­
to in questo, nel non riconoscere il finito come un vero esse­
re » (p. 159). È questa una delle frasi che spiega come mai la
filosofia di Hegel sia stata interpretata da alcuni come una me-

45 Il Moni traduce Bestimmung con destinazione per distinguerlo da Bestimmtheit


(determinatezza). Ricordiamo che Bestimmung è il termine usato da Fichte nei titoli:
Die Bestimmung des Gelehrten, Die Bestimmung des Menschen, che traduciamo con
Ut missione del dotto, La missione dell'uomo. Hegel dice che « la Bestimmung del­
l'uomo è la ragione pensante » (p. 120).
HEGEL 845

tafìsica della trascendenza, da altri come una concezione imma­


nentistica. L'affermazione infatti che il finito è ideale, dove 'idea­
le ' vuol dire apparente, non reale, « non vero », può essere in­
terpretata come se volesse dire che il mondo dell'esperienza non
è la vera realtà e rimanda a un'altra realtà. Ma se ricordiamo che
Hegel ha dichiarato « cattivo infinito » (ossia errata concezione
dell'iruìnito) quello dell'antica metafisica, sembra molto più pro­
babile l'interpretazione immanentistica: l'infinito si attua nel pe­
renne avvicendarsi del finito, nella storia, e la vera realtà è pro­
prio il divenire, il negarsi e sorpassarsi di ogni finito.
Dal finito si passa all'uno che si contrappone ai molti 46 e
di qui si capisce il passaggio dalla categoria della qualità, del­
la quale si è parlato finora, alla categoria della quantità. Hegel
dice che la quantità « è il tolto (aufgehobene) esser per sé» (p.
197 ), ossia è il momento in cui ciò che una cosa è, la sua quiddi­
tas, se mi è permesso usare questo termine, non conta più, è su­
perata da un altro modo di essere. Questa è una definizione negati­
va della quantità; in modo positivo essa è definita « unità dell'es­
ser fuori di sé [che] è unità con sé» (ibid.). Se infatti ci fosse
solo esteriorità, ci sarebbero i molti, ma non la quantità; se ci
fosse solo unità con sé ci sarebbe l'uno; la quantità è invece que­
sta sintesi di uno e moltepli1':e, è unità dispersa, sparpagliata.
In questo concetto di esteriorità e unità con sé sono già presenti
i due momenti della quantità: continuo e discreto 47•

" L'uno è uno dei modi dell'esser per sé, che corrisponde all'atomo della conce­
zione atomistica, come fa pensare ciò che Hegel dice nelle Lezioni sulla storia della
filosofia ( trad. it. I, p. 333). Talora però Hegel parla dell'esser per sé come se si trat­
tasse non dell'atomo, ma dell'unità della coscienza.
" Hegel dedica ampio spazio alla categoria della quantità, più che alla categoria
della qualità. N. Hartmann (La filosofia dell'idealismo tedesco, cit., pp. 431 ss) ritiene
che la trattazione hegeliana sulla quantità, che secondo lui è la prima_ filosotia . delJa
matematica che prende in esame il calcolo infinitesimale, abbia un grande valore.
Confesso che sono più vicina all'opinione di J. N. Findlay (Hegel oggi, cit., p. 174)
il quale dice che molto spesso l'esposizione sulla quantità ci guadagna a essere igno­
rata, e quindi mi limito ai cenni dati sopra. Un matematico da me consultato, il prof.
C. Melzi, dopo aver letto le pagine sul calcolo infinitesimale, fu ammirato della cill­
tura di Hegel che, disse, dimostra di conoscere tutte le trattazioni dei suoi tempi,
ma altrettanto stupito delle interpretazioni fantasiose che Hegel dà delle teorie· mate- ·
matiche.
846 FILOSOFIA MODERNA

16. L'essenza

« La verità dell'essere è l'essenza» (p. 433 ). Con questa frase


Hegel comincia la logica dell'essenza. Per chiarirla teniamo pre­
sente che l'essere nel significato più ampio 48, è per Hegel l'im­
mediato, ossia ciò che si presenta immediatamente all'esperienza,
il dato, potremmo dire. È immediatamente dato che qualcosa ci
sia, abbia una qualità e una quantità. L'essenza è ciò che vi è
di più profondo, ciò che si rivelerà come la ragione di ciò che
è dato: è il vero essere, in confronto al quale l'immediato è so­
lo apparenza (Schein) 49• Ricordiamo però che la logica hegeliana
è metafisica: descrive lo svolgimento del reale, non (solo) della
nostra conoscenza; l'essenza non è quindi solo l'oggetto di una
conoscenza più approfondita, ma è lo stesso approfondirsi dell'es­
sere. Hegel usa per indicare tale approfondirsi il verbo sich erin­
nern, che vuol dire originariamente internarsi e derivatamente
ricordare. L'essenza è l'essere che si è « internato»; ma quel
sich erinnern è forse una eco del platonico sapere è ricordare 50•
Si ricorda ciò che è passato, e « l'essenza è l'essere che è passa­
to, ma passato senza tempo» (p. 433 ), e anche qui forse c'è una
eco dell'aristotelico -rò -.t TI" dvixL, come osserva K. Fischer. L'es­
senza è dunque l'interiorità dell'essere, ciò a cui l'essere ritor­
na, negando le dèterminazioni superficiali, accidentali, sotto le
quali ci si presenta immediatamente. Tali determinazioni non
sono annullate, ma sono decadute a modo di apparire di qualcosa di
più profondo, che è l'essenza. Per indicare l'atto per cui l'essen­
za si nega come immediato e si pone come l'interiorità, Hegel usa
il termine rif{.essione.
Prima di parlare dei rapporti fra l'essenza e l'apparenza Hegel
parla delle « essenzialità », cioè dei caratteri dell'essenza in se
stessa. Si tratta· di quelli che la metafisica tradizionale chiama­
va primi principi: identità, differenza, contraddizione; principi
che Hegel contesta o, se si vuole, rovescia. Il principio di iden­
tità dice che ogni cosa è se stessa; ora questa è una « vuota tau-

.. Cfr. la nota 40.


" Il Moni traduce Schein con parvenza e riserva il termine apparenza per tra­
durre Erscheinung.
" Cfr. V. VERRA, Storia e memoria in Hegel, in Incidenza di Hegel, cit.
HEGEL 847

tologia», ed è contraddetta da ogni autentico - giudizio, poiché


nel _giudizio il predicato esprime sempre qualche cosa di diverso
dal soggetto. Non si dice infatti « una pianta è una pianta », ma si
cerca di determinare che cosa sia la pianta con un predicato diver­
so dal soggetto. Il carattere sintetico del giudizio risalta ancora
più chiaramente nella forma negativa del princjpio di identità che
è il principio di contraddizione: « A non può essere insieme A e
non-A». Non si spiega infatti donde venga la negazione, se non si
ammette che la negazione sia nel reale stesso. Questo carattere di
negatività presente nel reale è espresso dalla differenza: ogni co­
sa è identica con sé, ma differente da altre, e può differire da al­
tre solo perché non è la totalità dell'essere. La contraddizione
è il momento risolutivo dell'identità e della differenza, il momen­
to in cui gli opposti (l'opposizione è l'ultima forma di differen­
za) entrano in rapporto fra loro. Ognuno degli opposti esclude da
sé l'altro, ma per essere se stesso deve, appunto, escludere l'al­
tro, quindi essere in rapporto con l'altro ed esserne condiziona­
to 51• La nota III a questo paragrafo esprime con particolare ef­
ficacia il significato che Hegel dà alla contraddizione. « Tutte le
cose sono in se stesse contraddittorie», egli dice (p. 490 ), perché
si muovono, perché sono attive, « l'identità non è che la determina­
zione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione
invece è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove,
ha un impulso (Trieb) e un'attività solo in quanto ha in se stesso
una contraddizione» (p. 491), perché ha in sé una mancanza, cioè
un negativo di se stesso.
Per questa contraddizione le cose finite rimandano a un fanda­
mento (Grund). La categoria del fondamento risponde al principio
leibniziano di ragion sufficiente (zureichender Grund), principio
sul quale è impostata una delle prove leibniziane dell'esistenza
di Dio. Hegel fa rilevare la differenza tra la prova leibniziana
tradizionale e quella che secondo lui è la vera. La prova tradizio­
nale parte dall'ente finito e contingente come se questo fosse
qualcosa di reale, e conclude all'esistenza di un ente necessario.
« Nell'argomento usuale l'essere del finito appare come il fondamen­
to dell'assoluto: poiché il finito è, c'è l'assoluto. La verità è in-

51 Credo che le tre « essenzialità » hegeliane (identità, differenza, contraddizione) ab­


biano un riferimento ai tre principi fondamentali della Dottrina della scienza di Fichte.
848 FILOSOFIA MODERNA

vece che, poiché il finito è l'opposizione che si contraddice in se


stessa - poiché il finito non è, c'è l'assoluto... il non essere del
finito è l'essere dell'assoluto» (p. 495).
Il fondamento è l'essenza come ragion d'essere di ciò che appare,
del fenomeno, è ciò per cui il fenomeno viene alla luce (hervorgeht),
ossia esiste. Il fenomeno è infatti ciò che appare, ciò che consta, e
questo « essere uscito dalla negatività e dall'interiorità» (p. 537) è
l'esistenza. L'esistenza è dunque il modo di essere del fenomeno,
il quale non è per Hegel qualcosa di soggettivo, ma è lo stesso ma­
nifestarsi dell'essenza, infatti « L'essenza deve apparire» (p. 537).
L'esistenza è quella medesima realtà che era l'essere, ma un esse­
re non più immediato, puro dato; è un essere che è sorto dall'es­
senza, che è fondato, giustificato, che ha la sua ragion d'essere:
è il mondo visto come la manifestazione di Dio. E qui Hegel ri­
prende il discorso sulle prove dell'esistenza di Dio, sulla prova
ontologica, oltre che su quella cosmologica. Per la prova ontologi­
ca Hegel ha sempre avuto simpatia, e si è sempre opposto alla cri­
tica che ne fa Kant: qui egli unifica in certo senso la prova onto­
logica con quella cosmologica: se, infatti, il mondo è la manifesta­
zione di Dio, se « l'essenza è l'esistenza, non è diversa dall'esi­
stenza » (p. 541) - che è un modo per ripetere quanto è detto nel­
la frase« l'essenza deve apparire » - vedere il mondo è come vede­
re Dio. Non si dia però a queste parole una interpretazione mistica:
non si tratta infatti per Hegel di vedere il mondo come un'orma
di Dio, ma piuttosto di mondanizzare Dio. Cosl le due prove, onto­
logica e cosmologica, hegelianamente interpretate, sono diventate
una sola: impossibile pensare Dio senza pensarlo esistente (ossia
manifestato nel mondo), impossibile pensare il mondo senza pensar­
lo come una manifestazione dell'assoluto.
Nei due capitoli su l'esistenza e l'apparenza o fenomeno Hegel
si riferisce alla concezione kantiana del fenomeno e della cosa in
sé, e la critica.
La sintesi di essenza ed esistenza è la realtà attuale (Wirklich­
keit). Ciò che è reale non è né l'essenza concepita come un al
di là né il suo apparire considerato solo come apparire, ma è la
sintesi dell'essenza e del suo apparire, di Dio e del mondo. Si ca­
pisce quindi che Hegel si riferisca alla concezione spinoziana, co­
me avverte la Nota (p. 604 ). La totalità di mondo e Dio è l'Assolu-
HEGEL 849

to, che si dispiega nei suoi attributi e nei suoi modi. Anche que­
sta terminologia (attributo, modo) è tipicamente spinoziana; il
termine « assoluto » non è però di Spinoza, ma di Schelling, che a
Spinoza si era ispirato, specie in una fase della sua :filosofia,
e il discorso sull'assoluto sembra riferirsi a uno Spinoza visto
attraverso Schelling. Ora uno dei problemi fondamentali, sia di
Spinoza sia di Schelling, è quello sul modo in cui il mondo procede
da Dio: necessariamente o liberamente? Hegel è quindi condotto a
trattare delle categorie della modalità: possibile, attuale, contin­
gente, necessario. La realtà è l'attuarsi di una possibilità e la
possibilità è già in sé qualcosa. L'attuarsi di un possibile (di ciò
che poteva essere o non essere) è il contingente (Zufallig), e il con­
tingente per un verso non ha in sé una ragion d'essere (altri­
menti sarebbe necessariamente), per l'altro verso ha una ragion
d'essere, perché è. « Quest'assoluta inquietudine del divenire di
queste due determinazioni [ essere e poter essere] è la contin­
genza » (p. 615). Quello che è assolutamente necessario, invece�
« è soltanto perché è; non ha nessun'altra condizione o ragion
d'essere » (p. 623 ); non rimanda quindi ad altro, non è media­
to da altro, e in questo senso Hegel può dire che la necessità as­
soluta è necessità cieca (ibid. ). Il che vuol dire: c'è mediazione,
spiegazione, intelligibilità solo quando una cosa è spiegata da
un'altra; intelligibile è solo il reale nella sua totalità: una tota­
lità intesa come tessuto di enti diversi. Come, se ricordiamo la
dialettica di finito-infinito, ogni cosa è infinita solo in quanto
nega la sua finitezza e trapassa in altro, cosl ogni cosa è neces­
saria solo in rapporto ad altre, e solo cosl è intelligibile. Questo
mi sembra il significato della frase: « Quest'essenza [in sé ne­
cessaria] ha orrore della luce » (p. 624 ): cioè un'essenza in sé
necessaria sarebbe inintelligibile. Affinché entri la luce nel massic­
cio e opaco necessario, bisogna che in esso si introduca la nega­
zione, e la negazione porta la distinzione e il rapporto. Il rap­
porto può essere di sostanza e accidente, di causa ed effetto, di
azione reciproca (sono le tre categorie kantiane della relazione,
ma qui, nella logica hegeliana hanno una importanza ben minore­
che nella Critica kantiana).
850 FILOSOFIA MODERNA

17. Il concetto
Si arriva cosi alla logica del concetto.
Il passaggio dall'essenza in generale al concetto s1 capisce
bene nella prospettiva hegeliana, poiché l'essenza è « la verità
dell'essere», cioè il vero essere, il fondamento; ora il fondamen­
to, la ragion d'essere, è il concetto. « Essere ed essenza sono i
momenti del suo [ del concetto] farsi, ed esso è la loro base e ve­
rità [ ... ]. Cosi il concetto è la verità della sostanza» (pp. 651 e
652). Bisogna però vedere che cosa Hegel intenda per concetto. Non
si tratta infatti di un concetto che viva in uno spirito, in una
mens; non si tratta del concetto come attività spirituale, poiché
lo spirito non è ancora sorto; si tratta del concetto come intel­
ligibilità in generale. Potremmo pensare al l6gos degli stoici. He­
gel ci rimanda all'Io trascendentale kantiano, all'Io penso della
deduzione trascendentale, che è la pura attività unificatrice del
dato, quella che costituisce l'oggetto come oggetto, ossia come
intelligibile. « Appartiene alle vedute più profonde e giuste che
si trovino nella Critica della ragion pura, che quell'unità, la qua­
le costituisce l'essenza del concetto, sia stata riconosciuta come
l'unità originariamente sintetica dell'appercezione, come unità del­
l'Io penso o dell'autocoscienza. Questa proposizione costituisce
la cosiddetta deduzione trascendentale delle categorie» (p. 659).
E come, in Kant, l'intelletto che costituisce l'oggetto presuppo­
ne le intuizioni, cosi, dice Hegel, nella logica il concetto pre­
suppone l'essere e l'essenza; ossia: quello che si realizza co­
me essere e come essenza si fa poi intelligibilità, concetto. E pro­
prio perché la realtà è concetto, ossia è intelligibile, ci può es­
sere verità. Hegel difende infatti la definizione tradizionale del­
la verità come coincidenza della conoscenza col suo oggetto. Ora,
poiché vi è questa coincidenza, si possono ritrovare nell'ogget­
to le determinazioni dell'intelletto: concetto (in senso stretto),
giudizio, sillogismo, dei quali tratta la prima sezione della logica
del concetto (Soggettività).
Il concetto è ciò che l'intelletto coglie ed esprime (l'intel­
letto è la facoltà dei concetti): è l'intelligibile. Come concet­
to puro, puro intelligibile, è universale; ma il concetto deve de­
terminarsi, deve essere l'intelligibilità di questo e di quello, e
perciò farsi particolare e individuo. Il giudizio esprime la coinci-
HEGEL 851

denza dell'individuo con l'universale; il giudizio consiste infatti


nel trovare un concetto che illumini un dato, che faccia capire
che cosa è un dato; l'espressione tipica del giudizio è: « l'indivi­
duo è l'universale» (p. 715), p. es.: « questo è un uomo». Ma
l'intelligibilità è più evidente quando si vede anche perché si
attribuisce un predicato ad un soggetto, quando l'attribuzione è
mediata, e questo si avvera nel sillogismo. La razionalità del rea­
le non deve essere semplicemente asserita, come frutto di una
intuizione intellettuale o di una fede: deve essere dimostrata:
questo mi sembra il nocciolo del discorso sul sillogismo.
Si tratta ora di ritrovare l'intelligibilità, la razionalità nella
natura, ed è il compito della seconda sezione della logica del
concetto (Oggettività), che è piuttosto una filosofia della natu·
ra ( come era una filosofia della natura il capitolo « La ragione
che osserva» nella Fenomenologia). Hege] percorre infatti i gra­
di del meccanismo, del chimismo, della teleologia. Anche il pri­
mo capitolo della terza sezione (L'idea) che tratta della v·ita è an­
cora nell'ambito di una :filosofia della natura. Il secondo capitolo
tratta della conoscenza e molto brevemente della volontà (l'idea
del bene) e traccia brevemente una :filosofia dello spirito soggettivo.
L'ultimo capitolo della Logica è dedicato all'idea assoluta. L'idea
è « l'unità del concetto e dell'oggettività» (p. 859). L'idea non
è dunque per Hegel una rappresentazione soggettiva; è il reale
stesso in quanto coincide con la sua intelligibilità. Il termine ' idea '
ha quindi un significato che ci ricorda quello platonico; ma l'idea
hegeliana non è statica, è in divenire: dovrà ancora estraniarsi
nella natura per acquistare piena consapevolezza di sé nello spirito.
Come spero sia risultato anche dal poco che se ne è detto, la
Logica hegeliana è una formidabile metafisica, che dell'antica me­
tafisica riprende tutti i problemi, e talora, pur in una inquadra­
tura molto diversa, anche alcune soluzioni, nelle parti più feno­
menologiche, più descrittive. L'inquadratura molto diversa è data
dalla concezione del primato del divenire: per Hegel Dio si fa,
non è, e l'attuazione più perfetta di Dio si ha nello spirito uma­
no, come si vedrà nella :filosofia dello spirito. Ho detto che la
ripresa di soluzioni della metafisica antica, più precisamente ari­
stotelica, ha luogo nelle parti più fenomenologiche, e sono quelle
che si debbono purtroppo sorvolare in una breve esposizione; in-
852 FILOSOFIA MODERNA

dicheremo solo la rivalutazione della dottrina della materia e della


forma, della sostanza come oùcrloc, la soluzione aristotelica delle
due prime antinomie kantiane, l'affermazione dell'identità inten­
zionale fra pensiero ed essere - che per Hegel diventa anche
identità reale.

LA FILOSOFIA DELLA NATURA


E LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO

18. La natura

. La natura è l'idea « nella forma del suo esser altro » (Enci­


clop. § 247), l'idea fuori di sé, l'idea che è esterna a sé. Il che im­
plica due affermazioni: che anche la natura è idea, è una realtà intel­
ligibile, ma che è il minimo di intelligibilità, una intelligibilità
che si nega, quasi si perde, si estranea. Il mondo, cosi come lo
concepisce Hegel, è un mondo unitario, come quello aristotelico, non
dualistico, come quello cartesiano: tutto è idea, ossia tutto è in­
telligibile. La differenza fondamentale rispetto alla concezione
aristotelica è che l'emergere dell'idea, il suo farsi spirito, non è un
processo continuo, ma è un processo dialettico, che passa per la
negazione: la natura è il momento negativo, in cui l'idea si fa
altro. La natura non è quindi la forma più alta di realtà, « non
è da divinizzare » (Enciclop. § 248 Anm.) 52; abbiamo visto in­
fatti nella Fenomenologia - ed Hegel lo ripeterà nella Filosofia
della religione, - che le religioni che ra!_)presentano la divinità in
forme naturali sono le più basse. Ma la proposizione hegeliana
che la natura non è da divinizzare vuol dire qualcosa di più: vuol
dire che non bisogna neppure vedere nella natura l'opera più alta
della divinità, la realtà che meglio la rivela. Solo alla sensibilità
la natura appare come la realtà più vera, più solida; a una cono-

52
Da qui in avanti indicherò solo il numero del paragrafo della Enciclopedia. La
abbreviazione Anm. (Anmerkung) vuol dire che il passo si trova nella annotazione
di Hegel stesso (la parte in carattere più piccolo).
HEGEL 853

scenza più profonda lo spirito si manifesta come realtà molto più


alta. « Al Vanini che diceva bastare un filo di paglia a far co­
noscere l'essere di Dio, bisogna rispondere che ogni rappresentazione
dello spirito, la più bassa delle sue immaginazioni, ... ogni qualsiasi
parola, è fondamento più eccellente a conoscere l'essere di Dio di
qualsiasi oggetto naturale» (ibid. ). Tuttavia, aveva detto poco prima
Hegel, « anche nell'elemento della esteriorità, la natura è rappresen­
tazione dell'idea », e la :filosofia della natura ha il compito di mostra­
re la presenza dell'idea nei vari gradi della natura.
La filosofia della natura è in Hegel un tributo alla convinzione
dominante al suo tempo nella cultura romantica: la convinzione cioè
che non solo ci sia una teleologia nella natura ( questo aveva am­
messo anche Kant), ma che sia possibile scoprire in particolare questa
teleologia, scoprire il significato delle varie forme naturali. È in
certo senso un ritorno alla concezione pre-galileiana della filosofia
della natura: la persuasione che si possa cogliere l'essenza dei feno­
meni naturali, si possa dire ad esempio che cosa è la gravità ( § 262),
come si possa dedurre la legge della caduta dei gravi dal concetto del
corpo (§ 267), e simili. Hegel ritiene quindi sia stato un grande
errore di Newton quello di ridurre i fenomeni fisici a ciò che di essi
può essere espresso matematicamente (§ 270 Anm.); questo è una
« ineffabile metafisica » che riduce tutta la natura al solo aspetto ma­
tematizzabile e nega ciò che è propriamente fisico.
La riduzione riesce o sembra riuscire in quello che è il primo
grado della filosofia della natura: la meccanica, che considera solo il
moto locale, ma si dimostra sempre più inadeguata quando sono più
evidenti gli aspetti qualitativi, studiati dalla fisica, e ancora più quan­
do si parla della fisica organica che tratta anche della vita. Il moto
locale implica i concetti di spazio e di tempo. Kant li aveva concepiti
come forme dell'intuizione; Hegel consente nell'intenderli come
forme, ossia astrazioni: lo spazio è« l'esteriorità immediata » ( § 254
Anm.), ma nega che essi siano solo qualcosa di soggettivo, un modo
di apparire a noi: sono momenti della realtà stessa. Si è detto che
cos'è lo spazio; il tempo è « il divenire intuito » ( § 258). Se lo spazio
è l'astratta oggettività, il tempo è l'astratta soggettività, « il prin­
cipio medesimo dell'io ». Si dice che tutto nasce e muore nel
tempo, ma« non è già nel tempo che tutto nasce e muore; il tempo
stesso 'è questo divenire, nascere e morire» (ibid., Anm.). Il pre-
854 FILOSOFIA MODERNA

sente finito è l'istante; passato e futuro vivono nel ricordo, nel


timore o nella speranza. Da notare anche l'affermazione che lo
spazio « è il tempo negato» (§ 259 Anm.). Tempo e spazio sono
astrazioni, ha detto Hegel: il trapasso dall'idealità alla realtà, dal­
l'astrazione all'essere concreto determinato è la materia. Poiché
tempo, spazio e materia sono aspetti immediatamente dati, mi è par­
so opportuno accennare a ciò che Hegel ne dice, mentre mi sembra
inutile cercar di riferire i significati :filosofici che egli trova in cer­
ti concetti o leggi scientifiche come la formula del moto di cadu­
ta dei gravi, nella meccanica, o delle leggi di propagazione del­
la luce, del peso specifico, del calore, del suono, dell'elettricità ecc.
Dobbiamo rilevare tuttavia che Hegel era informatissimo della
scienza del suo tempo.
Con la vita l'idea emerge sempre più, « viene all'esistenza»
(§ 337), perché la vita è « attività che si media con se stessa»
(§ 338): è già un raccogliersi in unità dalla dispersione nella ma­
teria. Hegel vede l'inizio dell'organicità, caratteristica della vita,
già nelle strutture geologiche; tale organicità si accentua nella vita
vegetale e ancor più nella vita animale.

19. Lo spirito soggettivo

Trattando della vita animale, Hegel non parla della sensibilità;


di questa parlerà nella prima sezione della :filosofia dello spirito, dedi­
cata allo spirito soggettivo, cioè allo spirito cosl come si realizza
nella coscienza individuale. Il discorso sullo spirito soggettivo
è legato all'ultima parte della :filosofi.a della natura: si è già detto
che l'universo hegeliano è un universo unitario, come quello ari­
stotelico, e il De anima di Aristotele, nel quale la psicologia co­
stituisce l'ultima parte, il vertice, di una biologia filosofica, è ri­
cordato da Hegel all'inizio della filosofia dello spirito come « l'opera
migliore, e forse l'unica d'interesse speculativo intorno a tale og­
getto» (§ 378).
Come all'inizio della filosofi.a della natura Hegel ha sottoli­
neato il minor valore della natura nella gerarchia del reale, cosl
all'inizio della filosofi.a dello spirito sottolinea il primato di que­
sto: « La conoscenza dello spirito è la più concreta delle cono­
scenze, e perciò la più alta e difficile» (§ 377). Lo spirito è« l'idea
HEGEL 855

giunta al suo esser per sé» (§ 381), cioè l'idea pienamente attuata,
l'idea che ha preso coscienza di sé. Si è detto che tutto è idea, per
Hegel, il che vuol dire: tutto è intelligibile; ma l'intelligibilità del
reale non è data di colpo: si attua progressivamente(e dialetticamen­
te, attraverso negazioni) e la sua più alta attuazione è lo spirito, la
realtà che è non solo intelligibile, ma intelligente. È questa, del
resto, una tesi antica: anche per Aristotele le forme pure(pienamen­
te attuali) sono intelligenti, e così per Plotino: l'intelligibile e l'in­
telligente coincidono. Ma, si diceva, la caratteristica di Hegel
è di concepire lo spirito non come atto puro, ma come divenire e
risultato del divenire. Già nel Sistema dell'eticità e alle soglie
della sezione « Autocoscienza » della Fenomenologia si è visto che
lo spirito sorge dalla vita, si afferma prima come bisogno, impul­
so e poi diventa chiara coscienza di sé; così nell'Enciclopedia lo
spirito soggettivo si attua prima come anima o spirito naturale,
cioè anima come principio animatore, ed è oggetto dell'antropolo­
gia; poi come coscienza, ed è oggetto della fenomenologia; infine co­
me spirito in senso preciso, ed è oggetto della psicologia.
Lo spirito soggettivo nel suo primo momento, come anima, non
è quello che più interessa Hegel, infatti le osservazioni più carat­
terizzanti in proposito, che si trovano nelle Annotazioni, si rife­
riscono quasi sempre a momenti ulteriori della vita spirituale.
Cosi l'affermazione che il problema dei rapporti fra anima e
corpo è un problema mal posto, perché presuppone che anima e cor­
po siano due cose separate(§ 389); l'affermazione che« la relazione
sessuale raggiunge nella famiglia il suo significato e la sua deter­
minazione spirituale e morale » (§ 397); la superiorità del pen­
siero sul sentimento (§ 400). A proposito dell'« anima senziente »
Hegel ci dà una fenomenologia di certi stati inconsapevoli o semi­
consapevoli dello spirito. Un grado superiore dello spirito è la
coscienza. Nella sezione « fenomenologia » Hegel ripercorre breve­
mente le figure principali delle quali ha parlato nella Fenomenolo­
gia dello spirito - fino alla« Ragione » -, ma senza quei riferimen­
ti alla storia dell'umanità che le rendono così concrete 53•

" La parte che nella Fenomenologia dello spzrzto tratta de « La ragione che os­
serva » è stata qui svolta (modificata) nella filosofia della natura; il contenuto del ca­
pitolo su « Lo spirito» nell'opera del 1807, sarà svolto nello spirito oggettivo, quello
dei cap:tcli sulla relig'one e il sapere assoluto nello spirito assoluto.
856 FILOSOFIA MODERNA

Al termine della sezione « fenomenologia» Hegel riprende una


delle sue tesi fondamentali: la conoscenza è identità di pensiero
e realtà: << L'autocoscienza, ossia la certezza che le sue determi­
nazioni sono tanto oggettive, ossia. determinazioni dell'essenza
delle cose, quanto suoi propri pensieri, è la ragione; la quale,
in quanto tale identità, è non solo la sostanza, ma la verità come
sapere [ ... ]. Questa verità, che sa, è lo spirito» (§ 439). Lo
spirito è teoretico in quanto è determinato dall'oggetto; questa
è però la sua apparenza, poiché l'oggetto è posto dall'intelligen­
za, la quale si svolge attraverso vari gradi: intuizione, rappre­
sentazione, immaginazione, memoria, pensiero. A proposito della
immaginazione Hegel parla del linguaggio, sottolineandone fortemen­
te l'elemento intellettuale: « La parte formale del linguaggio è ope­
ra dell'intelletto, che imprime in esso le sue categorie: questo
istinto logico produce la parte grammaticale del linguaggio» (§ 459
Anm. ). I suoni che costituiscono il linguaggio sono segni delle rap­
presentazioni e l'espressione grafica è segno di un segno; il che
vuol dire che il materiale delle intuizioni è filtrato dalla intelli­
genza e organizzato logicamente. La scrittura alfabetica è quindi
superiore a quella ideografica, che connette immediatamente il se­
gno al dato sensibile (ibid. ). Lo spirito teoretico nella sua forma
più alta è il pensiero.
Lo spirito pratico è il volere che si afferma prima 54 come
individualità, ossia come volere di ciò che attrae, qui ed ora,
impulso, sentimento, come dice anche Hegel, osservando però che il
termine 'sentimento ' può essere preso in significati diversi. Quan­
do si parla di sentimento del diritto, della morale, di sentimento
religioso, si intende dire talora che quei valori sono fatti proprii
dall'uomo (sono immanenti, dice Hegel), e allora il sentimento
è contrapposto all'intelletto come la totalità all'astrazione: è il
vivere quei valori anziché enunciarli astrattamente. E in questo
senso il sentimento è valido. Ma si dimentica che il sentimento
trae il suo pregio da ciò che è giustificato razionalmente; « la ve­
rità e ... la razionalità reale del cuore e del volere può avere
luogo soltanto nell'universalità dell'intelligenza, non già nell'indi-

54 Questi " prima " e " poi " non vanno mai intesi in senso cronologico, ma in
senso logico; prima è ciò che è presupposto.
HEGEL 857

vidualità del sentimento come tale» (§ 471, Anm.). Quindi « è


sospetto, e ben più che sospetto, l'attenersi al sentimento e al
cuore contro la razionalità pensata, contro il diritto, il dovere,
la legge, perché quel che vi ha di più in quelli riguardo a que­
sti, è soltanto la soggettività particolare, il vano e l'arbitrio»
(ibid. ). (Si ricordi «La legge del cuore e il delirio della presun­
zione» nella Fenomenologia dello spirito). Di contro al sentimento
come impulso e arbitrio sta il dovere, il suo determinarsi come
qualcosa che è in sé e a cui la singolarità esistente deve adeguar­
si per aver valore (§ 472). Il male è appunto l'inadeguatezza
dell'essere rispetto al dover essere (ibid., Anm.). Ma in cosa
consista il dovere, come le inclinazioni, le passioni si adeguino
al dovere può esser determinato solo nella sfera dello spirito og­
gettivo (§ 474 Anm.). Il volere diventa volere libero, spirito li­
bero solo quando è volere razionale, e cosa sia il volere razionale
è spiegato dallo spirito oggettivo.

20. Lo spirito oggettivo. Il diritto

Lo spirito oggettivo è lo spirito che « realizza il suo con­


cetto, la libertà, nell'aspetto esteriormente oggettivo, come un
mondo determinato mediante il concetto» ( § 484); ossia è lo spirito
che si realizza in un mondo suo, distinto da quello della natura:
il mondo delle leggi, delle istituzioni, dei costumi. Potremmo
dire: lo spirito oggettivo è la civiltà, è ciò di cui si fa storia,
tenendo presente tuttavia che lo spirito oggettivo non è tutta la
civiltà, poiché arte, religione e filosofia, che certo sono elemen­
ti di una civiltà, appartengono per Hegel allo spirito assoluto 55•
Hegel dice che lo spirito oggettivo è la realizzazione della
libertà, e la libertà è « l'unità del volere razionale col volere
singolo» (§ 485); non è dunque l'arbitrio, ma è la volontà che si

55 È questo uno dei punti nei quali la filosofia di Hegel può dar luogo a due
diverse interpretazioni: lo spirito assoluto è il manifestarsi all'uomo di una realtà tra­
scendente, che è oltre la storia, o si risolve anch'esso nella storia? Arte, , religione e
filosofia vivono nella storia (Hegel le ha considerate cosi nelle sue lezioni) ma esauri­
scono nella storia la loro vita o sono la manifestazione all'uomo di un assoluto che
è oltre la storia? Nella risposta a questa domanda divergono la sinistra e la destra
hegeliana.
858 FILOSOFIA MODERNA

adegua a ciò che prescrive la ragione, ossia alla legge; anzi He­
gel identifica libertà e legge (ibid.). Si capisce quindi che la
libertà si realizzi nel diritto. Il termine ' diritto ' ha in Hegel
un significato ampio e un significato ristretto; in senso ampio è
coestensivo a ' spirito oggettivo ' ( e cosl è inteso da Hegel nei
Lineamenti di filosofia del diritto); in senso stretto è il primo
momento dello spirito oggettivo, è il diritto astratto, al quale
si oppone come antitesi la moralità, e che sarà inverato nell' eti­
cità come sintesi.
La filosofia del diritto ha per oggetto l'idea del diritto (Filos.
del dir., § 1 ); il che non vuol dire che essa debba commisurare le
leggi a un diritto ideale, al diritto naturale secondo la concezione
illuministica, accettata anche da Kant e da Fichte, ma che deve
scoprire la razionalità del diritto vigente, di ciò che è 56• « Del
resto, su ciò che è diritto, eticità, Stato, la verità è tanto antica
quanto manifesta e nota nelle pubbliche leggi, nella pubblica mo­
rale e religione. Di che ha mai bisogno questa verità [ ... ] se
non che la si comprenda e si dia forma razionale al contenuto che è
già razionale in se stesso, affinché questo appaia giustificato per il
pensiero libero, che non può arrestarsi al dato... ? » (Filos. del dir.,
pp. 5-6) �. Si ammette infatti, osserva Hegel, che la natura sia come
deve essere, sia razionale, rifletta una divina ragione; perché dunque
non si dovrebbe ammettere la medesima cosa nel mondo dello spi­
rito? Negare che nel mondo dello spirito, ossia nella storia, tutto
sia come deve essere vuol dire cadere in una specie di « ateismo mo­
rale », cioè negare che Dio sia presente nel mondo dello spirito. E
Hegel conclude con la famosa frase: « Ciò che è razionale è reale, e
ciò che è reale è razionale» (Filos. del dir., p. 15). Si capisce quindi
che per lui la filosofia del diritto non abbia altro compito che quello
di comprendere, ossia di giustificare razionalmente, ciò che è.
Il diritto astratto è l'insieme dei rapporti esteriori fra indi­
vidui che costituiscono una comunità; nel diritto astratto l'indi­
viduo è persona, che per Hegel vuol dire soggetto capace di pro-

.,. Hegel però polemizza altrettanto vivacemente contro la Scuola storica del di­
ritto (Hugo, Savigny), che è l'antitesi del giusnaturalismo. Cft. N. BoBBIO, Hegel e
il giusnaturalismo, in « Rivista di Filosofia» 57 (1966), pp. 379-407.
" Citerò cosl i Lineamenti di filosofia del diritto, traduz. italiana cit. Talora mo­
difico la traduzione.
HEGEL 859

prietà: « l'esistenza che questa [la persona] dà alla sua libertà è


la proprietà» (Enciclopedia, § 487); i rapporti che si instaurano
fra le persone (contratto, diritto e torto) si· riferiscono tutti alla
proprietà. La moralità è il momento in cui l'universale (il dove­
re, la legge) si manifesta alla coscienza individuale. Se nel di­
ritto astratto l'individuo è persona (nel senso detto sopra), nella
moralità è « soggetto, volontà riflessa in sé» (§ 503 ), ossia volontà
consapevole, che accetta la legge solo in quanto la riconosce come
cosa sua. Quella che Hegel chiama 'moralità ' rispecchia la conce­
zione morale di Kant, nei suoi elementi caratteristici: interiorità,
valore esclusivo dell'intenzione, prescindendo dal risultato dell'azio­
ne, universalità e carattere formale della legge, scissione di virtù
e felicità (che però si cerca poi di ricongiungere), di essere e do­
ver essere. Hege1, che ha polemizzato con questa concezione fin
dagli scritti giovanili, riprende qui duramente la critica. « La con­
traddizione sotto tutti gli aspetti, che viene espressa in questo
molteplice dover essere - l'essere assoluto, che tuttavia insieme non
è - contiene l'analisi più astratta dello spirito in se stesso, il
suo più profondo insearsi (In-sich-gehen). La sola relazione tra
loro delle determinazioni contraddittorie è la certezza astratta di
se stesso [... ] . Questa somma vetta del fenomeno del volere, che si è
volatilizzato fino all'assoluta vanità [ ... ] , rovina immediatamente
in se stessa» (§§ 511 e 512).
La vera vita morale non è questa tensione verso una perfezio­
ne mai pienamente raggiungibile, ma è il consapevole e volonteroso
inserimento in una comunità, un inserimento non tanto regolato da
leggi quanto vissuto nel costume: è l'eticità. La virtù non consi­
ste nell'obbedienza a una legge formale, al dovere per il dovere,
ma è la dedizione alla comunità in cui si vive, al bene del popolo,
è la capacità di sacrificarsi (§ 516). La comunità più perfetta è
lo Stato, ma a questo sono presupposte la famiglia e la società ci­
vile. Della famiglia Hegel ha sempre avuto un concetto molto alto;
ha sempre sottolineato il carattere spirituale del vincolo famiglia­
re, dato dalla volontà, dal consenso, che trasforma in fatto etico
l'unione naturale ed economica che sta alla base della famiglia. La
società civile è il secondo momento dell'eticità: è l'unione di più
famiglie determinata dai bisogni economici; è la società cosl come
è considerata dall'economia politica (Filos. del dir., § 189 Anm.).
860 FILOSOFIA MODERNA

N. Bobbio 58 ha osservato che la società civile per Hegel non è solo


la struttura economica della società ( questa sarebbe l'interpreta­
zione marxista del concetto di società civile), poiché Hegel tratta,
nel discorso sulla società civile, anche dell'amministrazione della
giustizia, della polizia; si tratta però sempre di istituzioni deterrni­
nate dai bisogni, alle quali gli individui ricorrono per proteggere
la loro particolarità (Filos. del dir., § 184) mentre lo Stato, il
grado più alto di eticità, è la realizzazione piena dell'uomo consi­
derato nella sua umanità.
« Lo Stato è la realtà dell'idea etica [ ... ], la volontà sostanziale
che si pensa e si sa, e compie ciò che sa» (Filos. del dir., § 257). Lo
Stato - società politica - non va confuso con la società civile,
poiché, come si è detto, questa nasce dai bisogni degli individui,
mentre lo Stato è logicamente presupposto agli individui, come
l'idea della totalità di un organismo è presupposta logicamente alle
parti (Filos. del dir., § 278). Le parti di un organismo non han­
no senso se non nel tutto, e gli individui umani non sono au­
tenticamente uomini se non nello Stato. Con questo concetto
si capisce che Hegel non apprezzasse molto gli ideali della Rivolu­
zione francese: libertà e uguaglianza. La nota al paragrafo 539 del­
l'Enciclopedia è significativa in proposito: lo Stato esige l'autorità
e l'ineguaglianza; la libertà, intesa non nel senso hegeliano di iden­
tificazione con la legge, ma come libertà dell'individuo di fron­
te allo Stato, è arbitrio. Poiché lo Stato è un organismo, esso non
può esistere senza una struttura, la quale è espressa dalla costitu­
zione. Non è però necessario che la costituzione sia formulata: la sua
garanzia « è riposta nello spirito di tutto il popolo» (Enciclope­
dia, § 540); quindi non ha senso domandarsi chi debba fare
la costituzione; sarebbe come chiedersi chi debba fare lo spirito
di un popolo (ibid., Anm.). Al governo, che culmina nel potere
governante del sovrano, spetta mantenere l'unità dello Stato. La
forma perfetta dello Stato è quella in cui il potere sovrano è eser­
citato non da « una cosiddetta persona morale» o da una maggio­
ranza, ma da una persona reale; è cioè la monarchia (Enciclopedia,
§ 542). Hegel non ritiene necessaria la divisione dei poteri {legisla­
tivo, esecutivo, giudiziario); ritiene però utile una rappresentanza

58 La fi{,osofia giuridica di Hegel nell'ultimo decennio in « Rivista critica di Storia


della filosofia» XXVII (1972), pp. 295-96.
HEGEL 861

per classi (Stande), poiché vede in queste un intermediario fra gl'in­


dividui e il potere. Le classi debbono essere rappresentate in un
parlamento, del quale i proprietari terrieri fanno parte di diritto
(la proprietà terriera deve essere inalienabile e trasmessa eredita­
riamente secondo il maggiorascato), mentre la classe degli industria­
li e dei commercianti deve eleggere i suoi deputati, che debbono rap­
presentare le diverse corporazioni. La classe più elevata è quella
dei funzionari dello Stato. In Hegel prevale la preoccupazione della
unità dello Stato su quella della libertà individuale. Solo nello
Stato gl'individui vivono razionalmente e liberamente. Su questo
punto le Lezioni sulla filosofia della storia sono ancora più radi­
cali: che cosa sia bene o male è determinato, per i casi abituali
della vita privata, dalle leggi e dai costumi di uno Stato. « Il va­
lore degli individui, dunque, deriva dalla loro conformità allo spi­
rito del popolo, dal fatto che essi lo rappresentino e facciano par­
te di una delle classi nelle quali è distribuita l'attività del tutto
[ ... ]. La moralità dell'individuo consiste dunque nell'adempimen­
to dei doveri del proprio stato (Stand) e questi sono facili da cono­
scere... » (Ph. G., pp. 72-73).

21. La storia

Col paragrafo 545 dell'Enciclopedia (e 321 della Filosofia del


diritto) Hegel comincia a parlare dei rapporti fra Stati. Lo Stato
è l'espressione dello spirito di un popolo, ma i popoli sono molti
e spesso in contrasto fra loro; l'universalità del diritto è un idea­
le, deve essere, ma non è; ora quando qualcosa non è, essa non è nep­
pure un valore per Hegel. Bisogna dunque accettare i rapporti fra
Stati così come sono, e cioè come rapporti di forza, che si risolvono
spesso con la guerra. A differenza di Kant, e anche di Schelling,
che vedono nella instaurazione di un efficace diritto internaziona­
le, che porti alla pace perpetua, uno scopo da perseguire, Hegel, ap­
plicando la concezione dialettica della realtà e fedele ad una con­
vinzione espressa fino dagli anni di Jena, afferma che la guerra è
una condizione necessaria ed insuperabile. La vera giustizia nei
rapporti fra stati è la storia: « la storia universale è il giudizio
universale (das Weltgericht, § 548) » che si può anche tradurre:
la ifroria è il tribunale dèl mondo.
862 FILOSOFIA MODERNA

È possibile fare una :filosofia della storia (Hegel ha dedicato


ripetutamente ad essa corsi di lezioni) perché anche la storia, come
ogni realtà, è razionale; anzi, essendo una realtà spirituale, manife­
sta con particolare evidenza la sua razionalità. La :filosofia della
storia ha il compito di cogliere questa razionalità, di cogliere il
significato di ciò che avviene nella storia. Per questo la :filosofia
della storia è teodicea, nel preciso significato leibniziano, ossia
giustificazione di Dio, cioè dimostrazione che tutto ha un signifi­
cato, anche il male, e contribuisce al bene, al raggiungimento di
un bene superiore.
Si è già detto che il soggetto della storia non è l'individuo, ma
lo spirito dei popoli, rappresentato dallo Stato; gli individui non
sono che i mezzi per lo svolgimento della vita dei popoli: cercando
infatti di perseguire i loro interessi, i loro fini particolari, essi
realizzano un fine più universale, che sfugge alla loro consape­
volezza. Qui si rivela« l'astuzia della ragione » (Ph. G., p. 83) 59, che
adopera le passioni degli individui per realizzare fini universali.
Ci sono però nella storia degli individui superiori, gli individui
storici (Weltgeschichtliche Individuen) che incarnano in sé lo spi­
rito di un popolo: i condottieri, i grandi uomini politici: Alessan­
dro Magno, Giulio Cesare, Napoleone, che intuiscono la direzione
della storia, la fanno progredire e per questo sono da chiamare eroi.
« Essi assumono i loro fini e il loro compito non dal sistema stabile
e ordinato, dall'ordine consacrato delle cose. Il loro diritto non
deriva dalle condizioni presenti, ma da un'altra fonte alla quale
attingono. È lo spirito nascosto che batte alle porte del presen­
te [ ... ] che non ha raggiunto ancora l'esistenza e la vuol raggiunge­
re... » (Ph. G., p. 75). Questi individui nòn hanno un concetto filo­
sofico di ciò che vogliono realizzare, lo sentono istintivamente: la
loro intuizione è quasi animalesca (gleichsam etwas Tierisches), e
la prova che essi colgono nel segno è il successo, il seguito che hanno.
La :filosofia della storia, o storia filosofica "°, ha il compito di

" Cfr. nota 27b '•.


,.. Hegel distingue vari tipi di storiografia: storiografia ongmaria, riflessa e filo­
sofica. La storiografia originaria è quella che dà, per prima, ai fatti una forma storica.
Hegel ne dà come esempio le storie di Erodoto, di Tucidide, di Cesare, del Guicciar­
dini, i Mémoires del Cardinale di Retz; è autentica storia, anche se non perfetta; po­
tremmo dirla storia contemporanea, in un significato analogo a quello crociano, ma più
stretto. La storia riflessa è invece storia passata, mo�, fatta con l'intelletto. Hegel
ne distingue varie sottospecie: storia generale (compilazione fatta sulle storie origina-
HEGEL 863

cogliere il significato degli eventi storici; evidentemente non dei


singoli eventi, ma delle grandi epoche storiche, e sappiamo che
per Hegel queste sono: il mondo orientale, il mondo greco,µ mondo
romano, il mondo cristiano-germanico. Il mondo orientale rappresen­
ta l'affermazione esclusiva della totalità, dello Stato, di fronte
al singolo. C'è una eticità immediata, naturale, perché l'indivi­
duo si sottomette inconsapevolmente al potere (che è insieme politi­
co e religioso). Non mi fermerò su quello che Hegel dice in parti­
colare delle varie civiltà orientali: Cina, India, Persia e Asia Mi­
nore, Egitto. La Grecia rappresenta la giovinezza dello spirito, per­
ché ivi l'armonia fra la totalità e il particolare si compie senza
sforzo, spontaneamente, con gioia; infatti le incarnazioni più per­
fette dello spirito greco, agli occhi di Hegel, sono due giovani:
Achille e Alessandro Magno (che Hegel considera ancora appartenen­
te al mondo greco); e il centro della cultura greca è l'arte, che è il
momento aurorale dello spirito.
Anche nella natura, anche nella divinità, il Greco vede la forma
umana. La natura non si presenta ai greci come una forza unica, ma
come distinta in vari aspetti. I culti di Diana in Efeso, di Cibele e di
Astarte, che rappresentano la natura come la gran madre, non sono di
origine greca. I greci venerano le fonti, i boschi, il sole, e li
esprimono in forme spirituali come Naiadi, Ninfe, Apollo. Le Naia­
di diventano poi le Muse, ispiratrici del canto; Apollo diventa il
dio che sa, che rivela. In tutti questi culti troviamo un fatto
naturale, ma che dà solo il primo impulso, ed è poi umanizzato, spi­
ritualizzato. D'altra parte l'universale, l'idea, lo spirito sono vi­
sti sempre plasticamente, incarnati in un individuo sensibile. Ec­
co perché la caratteristica dello spirito greco è la bellezza, che è
manifestazione sensibile dell'idea. Anche la divinità è l'umanità
idealizzata nella forma della bellezza (anche nella Fenomenologia la
religione greca è vista come religione artistica). Infine lo Stato
greco rappresenta per Hegel la sintesi fra la soggettività, che è
l'arte, e l'oggettività, che è la religione. « Nello Stato lo spirito
non è soltanto oggetto, come divino, non è solo soggettivamente raf-

rie), storia prammatica (quella che cerca di spiegare i fatti, o psicologicamente - ed è


la peggiore forma di storia - o moralisticamente, e anche questa è inadeguata), storia
critica, che oggi chiameremo erudita o filologica. La storia filosofica cerca di compren­
dere i fatti con la ragione, di coglierne la razionalità.
864 FILOSOFIA MODERNA

figurato in una bella corporeità, ma è vivo spirito universale, che


è insieme lo spirito autocosciente dei singoli individui » (Ph. G.,
p. 599).
La forma caratteristica dello Stato greco è la democrazia, nel­
la quale l'individuo non si contrappone allo Stato, ma attua sponta­
neamente la volontà di questo. « In Grecia vediamo la democrazia
nella sua forma più bella. Sappiamo che la libertà, cosi come si realiz­
zò in Grecia, fu la più bella che sia mai esistita sulla terra » (Ph. G.,
p. 602). Parole che possono stupire se si pensa alla scarsa simpa­
tia manifestata da Hegel per la democrazia, ma Hegel aggiunge poi a
quali condizioni può secondo lui realizzarsi la democrazia, e allora
si capisce perché egli ammiri la democrazia greca e non la ammiri
nel mondo moderno. Dice infatti che la democrazia è possibile solo
quando la volontà soggettiva si identifica immediatamente con quella
oggettiva, con la legge. Quando la soggettività prese coscienza di.
sé, come distinta dal volere oggettivo, venne meno la condizione fon­
damentale della democrazia. Ci sono poi altre condizioni particola­
ri: è necessario che lo Stato sia piccolo, affinché tutti i cittadi­
ni siano presenti alle deliberazioni e possano influire sulle deci­
sioni da prendere. Il numero dei cittadini era poi ridotto in Gre­
cia dal fatto che gli schiavi non partecipavano alla vita politica,
e non solo la schiavitù riduceva il numero dei cittadini, ma faceva
sì che i cittadini appartenessero press'a poco tutti alla medesima
categoria sociale, fossero sul medesimo piano. Infine, quando vi
era una incertezza, per una decisione importante, si ricorreva agli
oracoli; l'oracolo aveva una funzione analoga a quella del monarca.
La bella armonia greca venne meno col destarsi della co­
scienza della soggettività, e colui che impersona questo risveglio è
Socrate. « Egli è il più nobile degli uomini, moralmente irrepren­
sibile; ma ha portato a consapevolezza il principio di un mondo
soprasensibile, un principio della libertà del puro pensiero, che
è assolutamente giustificato, è assolutamente in sé e per sé, e que­
sto principio dell'interiorità, con la sua libertà di scelta, signi­
ficava la rovina per lo Stato ateniese » (Ph. G., p. 645). La guerra
del Peloponneso non è che l'espressione di questa interna scissione
dello spirito greco.
L'antitesi della bella libertà greca è il mondo romano, per il
quale Hegel, sappiamo, non ha alcuna simpatia ed è estremamente
parziale nel descriverlo. Vede la civiltà romana fondata sulla vio-
HEGEL 865

lenza e retta dalla violenza: violenza e durezza nella famiglia e nel­


lo Stato; è il regno della separazione dell'universale dal particolare.
La religione romana sembra a prima vista uguale a quella greca, ma
gli dèi romani hanno qualcosa di freddo e di arido. L'interiorità sog­
gettiva, scoperta da Socrate, diventa « la personalità astratta, che
si dà realtà nella proprietà privata ». L'unica figura romana per la
quale Hegel manifesti qualche simpatia è Giulio Cesare, ma l'im­
pero, che in certo senso nasce da lui, aggrava i difetti e le antinomie
del mondo romano. Anche l'estensione della cittadinanza romana a
tutti i sudditi dell'impero non ha alcun valore agli occhi di Hegel:
« nonostante questa eguaglianza dei cittadini, la tirannia continua
ad esistere; anzi è proprio il dispotismo che introduce l'uguaglian­
za» (Ph. G., p. 716). Il diritto del cittadino è solo il diritto pri­
vato. « Il vivente corpo dello Stato ... è ora nuovamente ridotto al
morto atomismo del diritto privato» (ibid. ).
In questa atmosfera si capisce che si diffondesse un richiamo al­
l'interiorità come è il cristianesimo, il cristianesimo infatti è l'af­
fermazione che Dio è spirito e in questo senso è stato sempre
apprezzato da Hegel. Dopo aver dedicato al cristianesimo medievale
pagine che richiamano molto da vicino quelle della Fenomenologia
sulla « coscienza infelice » e aver cercato il significato delle istitu­
zioni medievali, Hegel introduce il discorso sull'epoca moderna.
Preannunciata da quello che oggi chiameremmo il rinascimento del
secolo XII (Hegel non usa questo termine), l'epoca moderna inizia
con la Riforma protestante. La Riforma era possibile solo nei paesi
germanici, dice Hegel, perché solo i popoli germanici hanno quella
saldezza di vita interiore, quella totalità non scissa che egli chia­
ma Gemut, mentre nei popoli romanici c'è una scissione dello spirito
originata dalla dualità degli elementi entrati a formarli: quello
romano e quello germanico. La Riforma è una rivalutazione dell'inte­
riorità e della libertà. Mentre la cristianità medievale aveva vi­
sto nelle Crociate la massima espressione di religiosità, Lutero ha
trovato nello spirito e nel cuore la profondità che il medioevo cer­
cava nel sepolcro di Cristo (Ph. G., p. 878). Dopo la Riforma, gli
Stati si consolidano, perché il protestantesimo insegna che l'etici­
tà e la giustizia nello Stato è anche espressione del divino e co­
mando di Dio (Ph. G., p. 888). Sull'illuminismo e la Rivoluzione
francese Hegel esprime sostanzialmente le medesime idee che abbia­
mo trovato nella Fenomenologia. La Rivoluzione francese realizzò
866 FILOSOFIA MODERNA

nella politica quello che Kant teorizzò nella morale: la libertà, ma col
medesimo errore: il formalismo. Se questo non generò in Germania
la rivoluzione fu perché ivi la Riforma aveva già trovato la concilia­
zione fra particolare e universale e aveva insegnato che la volontà
universale è la volontà dello Stato, al di sopra della quale non vi
è nulla; « dove domina la libertà della Chiesa evangelica, ivi è tran­
quillità» (Ph. G., p. 928).
Dalla Rivoluzione francese, dalla sua concezione della libertà,
nacque il liberalismo, del quale Hegel ha pochissima stima; egli ve­
de invece attuato il suo ideale politico nella monarchia prusssiana.

22. Lo spirito assoluto. L'arte

La storia è la giustiziera, il tribunale del mondo, ma lo spirito


assoluto, con le sue espressioni di arte, religione, filosofia, è
collocato da Hegel oltre lo spirito oggettivo, giudicato dalla sto­
ria. Anche l'arte, la religione e la filosofia vivono nella storia,
ma Hegel vuol forse dire che esse esprimono valori soprastorici 61•
La prima espressione dello spirito assoluto è l'arte. L'estetica
di Hegel, a differenza di quella di Kant, tratta solo del bello ar­
tistico, non del bello di natura, poiché il primo è immensamente
più alto del secondo: « il peggior ghiribizzo del cervello umano è
qualcosa di più alto della più grande produzione della natura, per­
ché è spirituale, e la realtà spirituale è più alta della realtà natura­
le» (Die Idee und das Ideal, p. 2) 62• Anche la natura è idea, ma
la manifestazione dello spirito divino che è mediata dallo spirito
dell'uomo, come è l'opera d'arte, è più alta di quella che si ha
immediatamente nella natura (ibid., p. 56). « L'arte ha per materia­
le il sensibile spiritualizzato o lo spirito reso sensibile » (ibid.,

" R. Kroner dice: « Lo spirito assoluto supera la contraddizione di essere insieme


nella storia e sopra la storia perché nella storia, mediante la sua attività, si fa sopra­
storico e si intuisce, si rappresenta, si concepisce nella sua essenza soprastorica. Opere
d'arte, religioni, filosofie hanno, come gli Stati, una esistenza storica, ma l'arte, la reli­
gione, la filosofia sono tuttavia per sé al di sopra della storia: lo spirito si rivela in
esse per se stesso come sottratto al tempo, eterno» (Von Kant bis Hegel, cit. II, p. 521).
N. Hartmann, pur accentuando di più la storicità dell'arte, della religione, della filo­
sofia, non è di parere molto diverso (Cfr. La filosofia dell'idealismo tedesco, cit., p. 557).
02
È il primo volume delle Vorlesungen uber die Aesthetik e l'unico uscito nel­
l'edizione curata da G. Lasson, Leipzig, Meiner, 1931.
HEGEL 867

p. 66); per questo l'arte deve idealizzare la natura. Idealizzare


infatti non vuol dire falsare, vuol dire anzi mettere in rilievo
l'idea, la realtà vera di ogni cosa; idealizzando, quindi, l'arte ci
mostra che cosa è veramente ciò che essa rappresenta. « La traspa­
renza dello spirituale è ciò che l'artista deve mettere in rilievo nel­
la realtà: allora la sua forma diventa ideale » (ibid., p. 225). Ora
l'idea che appare, che si manifesta sensibilmente, è chiamata da
Hegel l'ideale. L'ideale non è soltanto l'idea che ha preso corpo in
un individuo, poiché questo si avvera anche negli enti naturali: è
l'idea che si realizza sensibilmente nello spirito umano, mediante
una immagine, è l'idea rappresentata come esistente (ibid., p. 214 ).
L'arte è tanto più perfetta quanto più perfetta è l'unità fra il
contenuto e la forma, fra l'idea e il suo modo di apparire, e il di­
fetto di unità non deriva sempre da una imperfezione di tecnica;
anzi « l'imperfezione nel modo di rappresentare l'idea indica una
imperfezione nell'idea stessa » (ibid., p. 112). È ciò che si avvera
nell'arte « simbolica », quella del mondo orientale, nella quale
l'idea è astratta, indeterminata, e la forma è ancora immediata, na­
turale. « Il contenuto è oscuro e astratto e la sua figurazione è de­
sunta ancora dalla natura immediata » (ibid., p. 115). Fra conte­
nuto e forma, fra l'idea e la sua espressione vi è quindi spropor­
zione, e questa sproporzione dà luogo al sublime: l'idea è immen­
samente al di sopra della sua espressione sensibile che si sforza di
adeguarlesi, ma non ci riesce e dà luogo al simbolo. « Il simbolo è
una rappresentazione che ha un significato, ma un significato che
non è pienamente impresso nell'espressione, nella rappresentazìo­
ne; resta una differenza fra l'idea e l'espressione » (ibid., p. 116 ).
L'arte classica, che è l'arte greca, è quella in cui forma e contenuto
sono pienamente compenetrati, in cui l'ide�. è tutta trasfusa nell'im­
magine sensibile.
L'ideale dell'arte classica, così come è espresso nelle figura­
zioni della divinità, rappresenta la perfetta individualità, in cui
per un verso non c'è nulla di astratto, nulla di trascendente, e,
per l'altro verso, non c'è niente di più di ciò che è necessario per
rappresentare l'idea: non significati trascendenti, ma neppure inu­
tili particolari. L'ideale dell'arte classica, proprio perché è pie­
na armonia di universale e di singolarità, esprime una perfetta se­
renità, una assenza di preoccupazione che ce lo fa sembrare quasi
freddo. Eppure le figure delle divinità greche spirano una certa tri-
868 FILOSOFIA MODERNA

stezza, che è quasi il presentimento del loro tramonto. La loro ar­


monia è infatti destinata ad essere rotta, e la prima incrinatura
dell'ideale greco è rappresentata dalla satira, che trova il suo ter­
reno specialmente nel mondo romano.
L'ideale classico è la più perfetta attuazione della bellezza:
« non vi sarà mai nulla di più bello », dice Hegel non senza rim­
pianto. Ma la bellezza non è la forma più alta dello spirito assoluto;
lo spirito ha bisogno di esprimersi e ritrovarsi in se stesso, non
in una forma esteriore; l'uomo cerca una unione con Dio superiore a
quella che gli è offerta dall'antropomorfismo greco con la sua molte­
plicità di dèi; vuole identificarsi con Dio. Tale identificazione
è espressa dal cristianesimo, e col cristianesimo sorge l'arte ro­
mantica che ha come caratteristica non la piena coincidenza di
interno ed esterno, ma l'interiorità del sentimento (Gemiit). « Il ca­
rattere di quest'arte è la spiritualità, la consapevolezza (das Fiir­
sichseinde), la soggettività, la partecipazione affettiva (das Gemii­
tliche) » (ibid., p. 122). L'arte romantica non è plastica, come quel­
la greca, ma musicale e lirica, e la sua suprema aspirazione non è più
la bellezza in senso classico, ma l'interiorità. Ma proprio questo
prevalere dell'interiorità, della soggettività, è quello che porta l'ar­
te romantica alla sua dissoluzione, poiché, nei confronti della sog­
gettività da esprimere, l'oggetto passa in seconda linea: qualsiasi
cosa può diventare materia d'arte, e allora si finisce col cadere
nella prosa.

23. La religione

La seconda forma dello spirito assoluto è la religione. Pochi han­


no sottolineato il valore e l'autonomia della religione come Hegel.
Per quel che riguarda il valore, basterebbe leggere la Premessa
alle Lezioni sulla filosofia della religione dove certe affermazioni
hanno persino un tono enfatico: « l'oggetto della religione è il più
alto, l'assoluto»; tutte le attività dell'uomo assumono il loro signi­
ficato più profondo, il loro centro, nella religione, che è « pensiero,
coscienza, sentimento di Dio» (F.R., pp. 59-60) 63• La religione è

63
Cito cosl le Lezioni sulla filosofia della religione, a cura di E. Oberti e G. Bor­
ruso. Non avverto quando modifico la traduzione.
HEGEL 869

« la coscienza assolutamente libera, la coscienza della verità assoluta.


Perciò essa dà il pieno appagamento. È ciò in cui lo spirito è sciol­
to da ogni finitezza e rassicurato e confermato su ogni cosa; è l'oc­
cuparsi di ciò che è eterno » (F.R., p. 61). L'autonomia del momento
religioso è sottolineata dall'affermazione che la religione è uno
specifico modo di rapporto con l'assoluto: è pensiero, ma non con­
cetto dell'assoluto (concetto sarà la filosofia). Tanto meno poi è ridu­
cibile a concetto astratto dell'assoluto, come è la teologia naturale
di Wolff, che è metafisica (e per giunta cattiva metafisica) e non re­
ligione. La religione è rapporto vissuto con Dio, con Dio « cosl co­
me è nella comunità religiosa » (F.R., p. 68) e qui è sottolineato
(come nei primi scritti di Hegel) l'aspetto sociale della religione.
Si è detto che la religione è pensiero: più precisamente è senti­
mento, rappresentazione e pensiero (F.R., p. 122), concepiti come
momenti nei quali si determina il fatto religioso. La religione non
è solo sentimento: è un sentimento che tende a tradursi in pensiero,
e la forma di pensiero che essa attinge è quella che Hegel chiama
rappresentazione. Non è facile vedere in che cosa la rappresentazio­
ne si distingue dal concetto: sembra che la caratteristica della re­
ligione sia quella di apprendere il suo oggetto (che è Dio) come tra­
scendente lo spirito umano, trascendenza che essa cerca di superare
nel culto. « Nel culto, invece, da un lato è Dio, io sono dall'altro
lato, e la determinazione è questa: congiungermi con Dio in me stes­
so, sapermi in Dio e sapere Dio in me - questa concreta unità»
(F.R., p. 264). La filosofia invece non trova questa unità nella devo­
zione e nel culto: la dimostra. Questa differenza si coglie forse in
ciò che Hegel dice a proposito delle prove tradizionali dell'esisten­
za di Dio: esse hanno valore e rappresentano lo sforzo della religio­
ne per diventare sapere, ma sono ancora un sapere imperfetto. La
prova cosmologica ha il torto di partire dal finito come se questo
fosse una realtà a se stante, di fronte all'infinito, mentre la filo­
sofia coglie l'infinito nel superarsi del finito, lo coglie immanen­
te al finito, come la sua negazione e il suo superamento. La prova
ontologica consiste nell'affermazione che il concetto di Dio implica
la sua esistenza; è la prova più profonda dell'esistenza di Dio, poi­
ché vuol dire che « Dio non è solo rappresentazione: egli è » (F. R.,
p. 256). Ma la filosofia non parte dalla rappresentazione di Dio co­
me da qualcosa di soggettivo: « Bisogna assumere il concetto, e so­
prattutto il concetto assoluto, il concetto in sé e per sé, il con-
870 FILOSOFIA MODERNA

cetto di Dio, in generale (uberhaupt), e questo concetto contiene


l'essere come sua determinazione» (F.R., p. 257).
La differenza fra religione e filosofia si approfondisce quando
si passa ai dogmi più determinati, per esempio la Trinità, nella re­
ligione cristiana, « la generazione del Figlio nell'eternità. Qui an­
cora si trova il pensiero della negatività assoluta nella forma del
sensibile» (F.R., p. 325), ossia la negatività presente nello spiri­
to è rappresentata come una generazione. Analoghe osservazioni so­
no fatte su altri dogmi del cristianesimo, che pure è per Hegel la re­
ligione più alta.
Anche la religione, come l'arte e la filosofia si svolge nella
storia, ha diverse epoche, alle quali corrispondono diversi tipi: al­
la religione naturale (orientale), greca e cristiana, già distinte
nella Fenomenologia, Hegel aggiunge, nelle Lezioni sulla filosofia
della religione, la religione ebraica come religione del sublime, e
la religione romana come religione del fine. La religione cristiana
è religione rivelata perché concepisce Dio come spirito. Anche la
religione greca è religione della spiritualità, ma si tratta di una
spiritualità che si manifesta in forma corporea, mentre nella reli­
gione cristiana Dio è pura spiritualità; ora è nell'essenza dello
spirito il manifestarsi: Dio si rivela allo spirito umano. Nel cri­
stianesimo Hegel distingue il regno del Padre, del Figlio e dello
Spirito. Nel primo Dio si rivela come uno e trino, « assoluta atti­
vità, actus purus, ossia soggettività, personalità infinita, infini­
ta distinzione di sé da sé, oggettiva divinit2. a sé, come è espresso
dalle parole ' figlio ', ' generazione ' » ( Ph. R., IV, p. 5 7) 64• Il
regno del Figlio è il momento della distinzione e dell'opposizione.
La creazione esprime il distinguersi del finito dall'infinito, il pec­
cato originale l'opposizione del finito all'infinito, del particolare
all'universale; « il male è l'egoismo » (Selbstsucht) (Ph. R.,
IV, p. 104), un egoismo spirituale, una ricerca di sé nel sapere.
Ora il sapere suppone una separazione, una opposizione (Hegel ricor­
da la sua concezione del giudizio (Urteil) come uno scindere, p.
109) e l'opposizione porta il dolore. Ma la conoscenza è anche l'an­
dar oltre la pura naturalità, l'aprirsi all'universale, quindi l'inizio

64
Indico con Ph. R. le Vorlesungen uber die Philosophie der Religion, hrsg. von
G. Lasson, Hamburg, Meiner, 1967 (ristampa dell'ediz. del 1927), nelle parti non
ancorn apparse nella traduzione italiana.
HEGEL 871

della riconciliazione. Solo l'inizio, però, poiché la certezza di


ricongiungersi con Dio può venire solo dall'incarnarsi, dal farsi
uomo di Dio. Il regno dello Spirito è la vita religiosa della co­
munità, la Chiesa, il regno di Dio che è un preludio del regno dei
cieli.
Nella filosofia della religione, specialmente quando parla del
cristianesimo, Hegel cerca sempre di dare una interpretazione filo­
sofica dei dogmi; egli ritiene infatti che filosofia e religione ab­
biano il medesimo oggetto e che la filosofia sia la verità della re­
ligione.

24. La filosofia

La filosofia è non solo sapere dell'Assoluto, del reale nella


sua totalità, ma è sapere assoluto, ossia sapere nella sua forma
più perfetta, che è il concetto. Il concetto è quel tipo di sapere che
si identifica pienamente col reale; di qui il bisogno che Hegel stnte
nella Introduzione alle Lezioni sulla storia della filosofia 65 di richia­
mare le linee fondamentali della sua concezione della realtà, di spie­
gare la nozione di svolgimento (Entwicklung). Il discorso è in­
trodotto per chiarire il modo in cui Hegel intende la storia della fi­
losofia, ma ha un valore che si applica universalmente. « Per inten­
dere che cosa sia lo svolgimento occorre distinguere, per cosl dire
due stati: l'uno che si designa come attitudine, facoltà, essere in
sé (come lo chiamo io), potentia, MvixµLç, l'altro esser per sé, at­
tualità (actus, èvépye:Lix ) » (St. F., I, p. 30). Hegel fa l'esempio del
bambino, che è ragionevole in potenza, ma che diventerà ragione­
vole in atto solo quando, adulto, eserciterà la sua ragione. E poiché la
realtà è idea, l'idea è in sé e per sé, come abbiamo già visto, quando
si attua come idea, ossia quando prende coscienza di sé e diventa spi­
rito. Ma anche lo spirito non è un punto di arrivo che si fermi in sé:
è attività a sua volta in svolgimento, e in svolgimento perenne. Hegel
cita a questo proposito una frase di Goethe: « la cosa formata di­
venta sempre a sua volta materia », ossia: ciò che è termine di un
processo di svolgimento è a sua volta punto di partenza per uno

" Cito dalla traduzione italiana a cura di E. Codignola e G. Sanna, cit.


872 FILOSOFIA MODERNA

svolgimento ulteriore. Ciò che si svolge è il concreto, e il concreto è


l'unità dei differenti. Anche nell'in sé, nella potenza c'è l'unità dei
differenti, ma nella potenza essa è ancora implicita, mentre nello
svolgimento la diversità si accentua (in un fiore sbocciato la diffe­
renza delle sue diverse proprietà è molto più evidente di quando
l'abbozzo del fiore era contenuto nel seme), sicché si potrebbe dire
che svilupparsi vuol dire concretarsi, arricchire la concretezza. Il
concetto di svolgimento chiarisce quello di superamento (Aufhebung)
che abbiamo trovato presente nelle opere di Hegel, poiché dice in
che modo ciò che era in potenza è tolto ed elevato nell'atto. E con­
ferma anche il concetto di dialettica, poiché lo stimolo allo svolgi­
mento è la contraddizione fra l'unità e la molteplicità del concreto:
ciò che era apparentemente semplice si complica e si arricchisce,
la molteplicità urge e rompe l'unità semplice per dar luogo a una
più alta unità.
La legge dello svolgimento domina anche lo spirito nelle sue
forme più alte, anche la filosofia. Anche la filosofia si svolge, non
è, ma si fa; la filosofia si identifica quindi con la sua storia, e que­
sta (la storia della filosofia) non è « una filastrocca di opinioni di­
verse » (St. F., I, p. 20), ma è la verità che si svolge « nel tempo,
nella forma dell'accadere, in questi luoghi particolari, in questo
o quel popolo, in date circostanze politiche e in date relazioni con
esse » (ibid., p. 40). Ora, se ricordiamo che il tempo è il divenire
intuito, possiamo capire che la storia della filosofia è il riflesso nel­
l'intuizione, cioè nel modo di apparire, di quel processo necessario
dell'idea che è descritto nella logica. « Reciprocamente, se si prende
per sé il processo logico, vi si ritrova nei suoi momenti fondamen­
tali il corso delle manifestazioni storiche » (ibid., p. 41 ). Ogni filo­
sofia storicamente esistita è un momento necessario perché la fi -
losofia, ossia la verità, sia. La storia della filosofia è quindi una spe­
cie di grande teorema svolgentesi nei secoli e lo studio di questa
storia è esso stesso filosofia.
Si capisce che secondo questa concezione la storia della filoso­
fia si presenti come una storia di idee, anzi una deduzione di idee, e
questo è l'aspetto deteriore della storia hegeliana della filosofia, non
tanto in Hegel stesso, poiché per un grande pensatore come lui
ha interesse anche sapere come egli vedesse il contributo che le filo­
sofie storicamente esistite portavano al suo sistema, quanto nei suoi
seguaci, poiché è assai meno utile conoscere il contributo che le va-
HEGEL 873

rie filosofie hanno portato ad ogni modestù cultore di filosofia, an­


ziché avere notizie su quelle filosofie storicamente esistite. L'aspet­
to invece più fecondo di quella concezione della storia della filo­
sofia è l'affermazione che ogni filosofia nasce su un humus prepa­
rato, sì, dalla storia simpliciter, cioè dalle vicende economiche, po­
litiche, culturali, ma che di questa cultura in largo senso fanno
parte le filosofie che l'hanno preceduta; la convinzione che nessuno
filosofa nel poele di cartesiana memoria, ma ha dietro di sé una
tradizione filosofica che merita di essere conosciuta prima di es­
sere criticata.
INDICE

Premessa pag. 7

1 FRANCESCO BACONE » 11
1. Vita e opere - 2. La divisione delle scienze - 3. Il meto­
do. Pars destruens - 4. Le due vie del sapere - 5. I ca­
ratteri del vero sapere - 6. L'etica

II GALILEO » 31
Vita e opere: 1. Il periodo pisano - 2. A Padova - 3. I
processi - Il pensiero: 4. Galileo filosofo - 5. Un nuovo
concetto di scienza

III R. CARTESIO » 65
1. La vita - Il metodo: 2. L'evidenza - 3. Analisi e sintesi -
4. Mathesis universalis - 5. Enumerazione completa - LA
concezione della realtà: 6. Concezione meccanicistica del
mondo corporeo e concezione spiritualistica dell'uomo -
7. Il dubbio - 8. Il cogito. Cogito cartesiano e cogito ago­
stiniano - 9. Che cosa sono io - 10. Il criterio di verità -
11. L'esistenza di Dio. Primo argomento - 12. Esistenza
di Dio. Secondo e terzo argomento - 13. L'errore - 14. La
prova a priori dell'esistenza di Dio - 15. L'esistenza dei
corpi - 16. La cosmologia. Concetti generali: sostanza,
attributo, modo - 17. L'estensione come essenza dei corpi -
18. Il moto - 19. La formazione del cosmo - 20. L'uo­
mo - 21. Le passioni - 22. La morale provvisoria - 23.
Conclusione
876 INDICE

IV INTORNO A CARTESIO: MERSENNE E GASSENDI pag. 125


1. Mersenne - 2. Gassendi

V LIBERTINI E GIANSENISTI » 135


1. La messa in discussione del cristiano come tipo di
uomo universale - 2. La filosofia come vera religione - 3. Il
Cristianesimo come comprensione esauriente dell'uomo

VI B. PASCAL . » 161
1. Vita e opere - 2. Stoicismo e scetticismo - 3. Il potere
della ragione - 4. I limiti della ragione - 5. A Dio non si
arriva con la ragione - 6. Il cuore - 7. Il «pari» - 8.
L'analisi dell'uomo

VII N. MALEBRANCHE » 179


1. Il problema dei rapporti fra estensione e pensiero -
2. Anima e corpo. La conoscenza - 3. L'occasionalismo
4. La morale

VIII B. SPINOZA » 193


1. Cenni biografici - 2. Il «Breve trattato» - 3. I «Prin­
cipi della filosofia di Cartesio » e i « Cogitata metaphy­
sica» - 4. Il « De intellectus emendatione» - 5. L'«Eti­
ca»: l'ordine geometrico - 6. Le definizioni - 7. Il con­
cetto di attributo - 8. L'unicità della sostanza - 9. Dio -
10. Negazione della finalità - 11. Pensiero ed estensione -
12. L'uomo. Anima e corpo - 13. La conoscenza - 14. Le
passioni - 15. Le virtù - 16. Il «Trattato teologico-po­
litico»

IX TH. HoBBEs » 229


1. Cenni biografici - 2. Empirismo e nominalismo - 3. Mec­
canicismo e teoria della sensazione - 4. Sentimenti, impulsi,
volizioni - 5. Negazione della libertà - 6. Bene e male. Fe­
nomenologia della vita morale - 7. Virtù e vizi. Il fonda­
mento della morale - 8. L'assolutismo politico
X I PLATONICI DI CAMBRIDGE E NEWTON » 249
1. I platonici di Cambridge - 2. Newton

XI J. LOCKE » 261
1. Cenni biografici - 2. Le idee - 3. Il giudizio - 4. La ve­
rità - 5. Le proposizioni generali - 6. Le leggi fisiche -
7. Esistenza dei corpi - 8. Esistenza di Dio - 9. L'etica -
10. Le dottrine politiche
INDICE 877

XII G. BERKELEY . pag. 277


1. L'ispirazione religiosa - 2. Cenni biografici - 3. La teo­
ria della visione - 4. La critica delle idee astratte - 5. Esse
est percipi - 6. L'etica

XIII L'ETICA DEL « MORAL SENSE » » 291


1. Shaftesbury - 2. Hutcheson

XIV D. HUME . » 301


1. Cenni biografi.ci - 2. Hume e Hutcheson - 3. Impres­
sioni e idee - 4. Negazione delle idee astratte o generali -
5. Spazio e tempo - 6. Causalità. Parte critica - 7. La cau­
salità. Parte positiva della dottrina - 8. L'esistenza dei cor­
pi - 9. La sostanza - 10. L'io come soggetto conoscente -
11. L'io come soggetto delle passioni - 12. Volontà e
libertà - 13. La morale - 14. Il « senso comune» contro
Hume. T. Reid

XV L'ILLUMINISMO INGLESE » 333


1. Verso il secolo dei lumi (il latitudinarismo teologico,
Ch. Blount, R. Boyle) - 2. John Locke - 3. Gli scrittori del
deismo (J. Toland, A. Collins, W. Whiston, T. Woolston,
M. Tindal) - 4. Le reazioni al deismo (S. Oarke, W. Law,
P. Browne, J. Butler) - 5. La fine del deismo e Hume

XVI L'ILLUMINISMO FRANCESE . » 373


1. L'ambiente olandese e Pierre Bayle - 2. Gli anni della
clandestinità e l'opera del Fontenelle - 3. Montesquieu -
4. Voltaire - 5. Enciclopedia, d'Alembert, Diderot - 6.
Condillac - 7. Filosofia della natura - 8. I materialisti -
9. Jean-Jacques Rousseau - 10. Il progresso umano: Tur­
got e Condorcet

XVII G. w. LEIBNIZ . » 449


1. La disputa fra gli antichi e i moderni: filosofia e scien­
za - 2. La concezione della sostanza come monade - 3. Ori­
gine del concetto di monade. Origine logica - 4. Origine
metafisica - 5. I corpi - 6. Spazio e tempo - 7. Vinculum
substantiale - 8. Caratteri della monade - 9. L'armonia pre­
stabilita - 10. Teoria della conoscenza - 11. Contro Locke -
12. Le nozioni universali e la conoscenza delle essenze spe­
cifiche - 13. Le verità necessarie. Gli Assiomi - 14. Prin­
cipio di non-contraddizione e principio di ragion sufficien­
te - 15. Verità di ragione e verità di fatto - 16. L'esistenza
di Dio - 17. I possibili e la libertà divina - 18. La libertà
umana - 19. Morale e Diritto naturale
878 INDICE

XVIII LA FILOSOFIA IN GERMANIA NELL'ETÀ DELL'ILLU­


MINISMO pag. 489
1. L'eredità del Seicento - 2. Chr. Thomasius e la sua scuo­
la - 3. Christian WolfI - 4. Discepoli e avversari di WolfI -
5. L'Accademia di Berlino - 6. La « filosofia popolare».
M. Mendelssohn - 7. Psicologia, logica, ontologia. Lambert
e Tetens - 8. La storia, la religione. G. E. Lessing

XIX LA FILOSOFIA ITALIANA NEL SETTECENTO » 589


G. B. Vico: 1. La vita e gli scritti - 2. La « Scienza nuo­
va» - 3. La Provvidenza divina - L'illuminismo italiano

xx I. KANT » 611
1. Vita e opere - La filosofia teoretica: 2. La preparazione
alla Critica. I primi scritti - 3. Metafisica e fisica negli
scritti del 1755-56 - 4. La critica alla metafisica negli scrit­
ti del 1762-66 - 5. La Dissertazione del 1770. Sensibi­
lità e intelletto, tempo e spazio - 6. La lettera a M. Herz
e il problema della « Critica della ragione pura» - 7. I giu­
dizi sintetici a priori - 8. La deduzione trascendentale delle
categorie e la soluzione del problema - 9. I principi della
ragion pura - 10. Lo schematismo - 11. La dialettica tra­
scendentale - 12. I paralogismi - 13. Le antinomie - 14. La
soluzione delle antinomie. La terza antinomia - 15. L'ideale
della ragion pura - 16. Uso costitutivo e uso regolativo
delle idee - 17. I «Prolegomeni» - Morale, diritto, reli­
gione: 18. L'etica negli scritti precritici - 19. L'etica della
maturità - 20. La « Critica della ragione pratica» - 21. Mo­
rale e diritto - 22. La storia come progressiva affermazione
della ragione - 23. La religione - La finalità nell'arte e nel­
la natura: 24. Il problema della « Critica del giudizio » -
25. Il giudizio estetico - 26. Il giudizio teleologico

XXI DA KANT A FICHTE » 685


1. La crisi della Aufkliirung - 2. Il momento criticista •
3. La spinta scettica - 4. Epigoni - 5. Il fermento roman­
tico

XXII J. G. FICHTE » 727


1. Vita e opere - 2. Le « Introduzioni» alla « Dottrina
della scienza» - 3. La « Dottrina della scienza» del 1794
4. La missione del dotto - 5. La filosofia del diritto
6. La dottrina morale - 7. La filosofia della religione - 8. La
filosofia della storia
INDICE 879

XXIII F. W. ScHELLING pag. 755


1. Vita e opere - 2. Tra Kant e Fichte - 3. La fondazione
dell'idealismo - 4. L'Assoluto ideai-reale. Storia, scienza,
arte - 5. Filosofia e religione - 6. La filosofia positiva -
7. Filosofia, mitologia, rivelazione

XXIV G. w. F. I-ìEGEL » 795


1. Vita e opere - Scritti giovanili: 2. Religione nazionale e
cristianesimo - 3. La vita di Gesù e la positività della reli­
gione cristiana - 4. Lo spirito del cristianesimo - Gli scritti
di Jena anteriori alla «Fenomenologia»: - 5. La costitu­
zione della Germania - 6. Il « Sistema dell'eticità» - 7. Dif­
ferenza fra il sistema fichtiano e il sistema schellinghiano -
8. Fede e sapere - La fenomenologia dello spirito: 9. Che
cos'è la « Fenomenologia dello spirito » - 10. Coscienza e
autocoscienza - 11. La ragione - 12. Lo spirito - 13. Reli­
gione e filosofia - La logica: 14. Che cosa è la logica -
15. L'essere - 16. L'essenza - 17. Il concetto - La filosofia
della natura e la filosofia dello spirito: 18. La natura -
19. Lo spirito soggettivo - 20. Lo spirito oggettivo. Il
diritto - 21. La storia - 22. Lo spirito assoluto. L'arte
23. La religione - 24. La filosofia ·

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