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sola e soprattutto a lottare per sopravvivere. Nel suo Paese era stata reclutata
per uccidere e, dopo l’addestramento secondo le più rigide e spietate tecniche
di resistenza fisica e psicologica, non ebbe la forza di trasformare quegli
insegnamenti di morte in un destino da killer. Una giovane martire della
mafia nigeriana venduta come una bestia, violentata e costretta più volte ad
abortire. Nel viaggio della tratta degli esseri umani, in piena traversata del
deserto, è costretta persino a bere le proprie urine. La storia di Mary ha
commosso papa Francesco, in visita alla Comunità Giovanni XXIII dove la
donna ora risiede. Ma quante sono le Mary che popolano ogni giorno le
nostre strade? Quali sono le storie drammatiche che si celano dietro questa
moderna tratta delle schiave (e degli schiavi) che è la prostituzione e che
spesso fingiamo di non conoscere? Quali sono le responsabilità di quelli che
definiamo “clienti”? È delle tante, troppe Mary che questo libro parla,
raccontando storie, tracciando traiettorie che si intrecciano inevitabilmente
con quelle dell’immigrazione, ricostruendo le ragioni perverse che spingono
uomini (spesso connazionali) a schiavizzare altri esseri umani, facendo
mercimonio del loro corpo.
Don Aldo Buonaiuto, antropologo ed esorcista, segue le orme di don
Oreste Benzi all’interno della Comunità Papa Giovanni XXIII. È stato
nominato da Papa Francesco Missionario della Misericordia. Noto per la
testimonianza in tv e giornali a favore degli ultimi e sui drammi
dell’emarginazione, ha fondato e dirige il quotidiano digitale «In Terris», con
il quale ha vinto premi per il giornalismo di impegno sociale. È in prima linea
contro lo sfruttamento della prostituzione e contro la dipendenza psicologica
da sette e centri di oppressione. Come presidente dell’associazione “Pace in
Terra” promuove iniziative internazionali come la Giornata del Migrante
Ignoto e la moratoria contro la legalizzazione di qualsiasi forma di schiavitù.
Per i corridoi umanitari e le mediazioni nelle emergenze migratorie, collabora
con istituzioni nazionali e comunitarie.
Aldo Bonaiuto, Donne crocifisse. La vergogna della tratta raccontata dalla
strada.
ISBN 978-88-498-6053-5
Quest’opera è protetta dalle norme vigenti sul diritto d’autore. È vietata ogni
duplicazione, anche parziale, non autorizzata. È assolutamente vietato
installare questo file su dispositivi appartenenti a terzi, spedirlo via email o
distribuito mediante qualsiasi strumento informatico.
Prefazione
I lupanari
Nella Roma delle origini le prostitute si tingevano i capelli di rosso,
indossavano la tunica invece della stola e ululavano come i lupi alla luna per
attirare i loro clienti, per questo erano chiamate lupe (oltreché meretrici, da
merere - guadagnare) e i lupanari erano i bordelli dell’epoca.
Altri loro nomi erano: fornicatrices (da fornix - arco) perché adescavano
sotto i ponti, ambulatrices (passeggiatrici) perché adescavano per strada e
lenoctilucae (lucciole) perché uscivano di notte. Le prostitute erano di
proprietà dei padroni di schiavi (lenones).
Per Catone il Censore: «è nei lupanari che i giovani devono soddisfare i
loro ardori, piuttosto che attaccarsi alle donne sposate» e un Tribunale
sorvegliava 32.000 prostitute.
Le prime limitazioni
Nel Medioevo le meretrici si spostavano secondo il calendario di fiere e
mercati oppure accompagnavano gli eserciti in guerra.
Il re degli Ostrogoti, Teodorico, cercò, attraverso pene severe, di limitare
lo sfruttamento del meretricio condannando a morte chi, in casa propria,
tratteneva le donne per mettere in commercio il loro corpo.
Il re dei Franchi, Carlo Magno, primo imperatore del Sacro Romano
Impero, decretò che fosse impressa in fronte, con un ferro rovente, la
condizione di prostituta.
Il dilagare della sifilide, considerata un castigo divino, e la moralizzazione
promossa da Riforma e Controriforma, portarono alla chiusura dei postriboli,
nel tentativo di confinare le prostitute in quartieri-ghetto, nonché a gravose
imposizioni fiscali sul meretricio.
In epoca moderna è stato Napoleone a regolamentare e mettere sotto il
controllo dello Stato le case di tolleranza, mentre, solo nel 1904, si è arrivati
al primo accordo internazionale contro lo sfruttamento della prostituzione e,
nel 1910, alla convenzione per la repressione della “tratta delle bianche”.
Il male minore
Nell’epoca rinascimentale e poi nell’età dei lumi la prostituzione
femminile era autorizzata in quanto non metteva a repentaglio la famiglia né
il passaggio in eredità dei beni. Uno “sfogatoio” sociale al quale indirizzare le
giovani sterili o del tutto prive di mezzi di sostentamento e le vedove senza
protezione.
Ancora oggi, un aspetto particolarmente ripugnante del mercimonio coatto
è l’ipocrisia di descrivere il fenomeno come un “male minore” per la società,
quasi si trattasse di una valvola di sfogo per stemperare il tasso collettivo di
aggressività ed evitare danni peggiori al bene comune. Una tentazione alla
quale non sono immuni neppure alcuni uomini di Chiesa. Alcuni anni fa,
prima un parroco piemontese (per «liberare le strade dalla prostituzione che è
ineliminabile») poi un vescovo portoghese (per «limitare la diffusione
dell’Aids») arrivarono a chiedere di riaprire le case chiuse e dovette
intervenire «L’Osservatore Romano», con un articolo di padre Gino Concetti,
per ribadire che la riapertura dei bordelli è «un metodo già rifiutato dalla
coscienza e dalla cultura civile».
2.
La prostituzione in Italia
Le case chiuse
Con l’Unità d’Italia venne autorizzata l’apertura di case controllate dallo
Stato per l’esercizio della prostituzione. Le case di tolleranza, cioè tollerate
dallo Stato, furono classificate, nel 1860, in tre categorie e il Decreto diventò
Legge attraverso l’emanazione del “Regolamento del servizio di sorveglianza
sulla prostituzione”.
Un secolo e mezzo fa il legislatore, appena raggiunta l’unificazione
nazionale, si preoccupò immediatamente di fissare tariffe, di indicare la
necessità di una licenza per aprire una casa, di stabilire le tasse da pagare e di
istituire controlli medici sulle prostitute per contenere le malattie veneree.
A ricostruire l’evoluzione storica del meretricio coatto nel nostro Paese
sono alcuni saggi fondamentali come Storia della prostituzione in Italia di
Romano Canosa e Isabella Colonnello, Storia delle case chiuse in Italia e in
Veneto di Walter Basso, Storia delle case chiuse in Italia e in Toscana di
Alessandra Artale, Storia della prostituzione di Vern Leroy Bullough e Maria
Vassalle.
La regolamentazione del sesso a pagamento in Italia è durata parecchi
decenni. Nel 1888, secondo la legge Crispi, all’interno delle case di tolleranza
era vietato vendere cibo e bevande, fare feste, balli e canti. Non si potevano
aprire case di tolleranza in prossimità di luoghi di culto, asili e scuole. Le
persiane dovevano restare chiuse (da qui il nome “case chiuse”).
Nel 1891 furono ridotte le tariffe in modo da limitare la prostituzione
libera, che non era soggetta a controllo sanitario. Durante il fascismo i gettoni
(o marchette) consegnati a fine giornata dalla ragazza erano la base per
calcolare il suo compenso nel bordello.
Nella prima metà del Novecento, la situazione non era migliore all’estero.
In Unione Sovietica, nel 1922, furono censite 62.000 prostitute a Pietrogrado
e Mosca. E solo nel ’46 la Francia chiuse i bordelli, seguita dalla Germania.
La legge Merlin
In Italia la legge per l’abolizione delle case chiuse, presentata dalla
senatrice socialista Lina Merlin nell’agosto del ’48, passò 10 anni dopo, il 4
marzo ’58, tra accese polemiche.
È stata l’ultima fermata di un lungo percorso di regolamentazione del sesso
a pagamento nell’Italia unita. La legge Merlin pose fine alla
regolamentazione della prostituzione in Italia, chiudendo le case di tolleranza.
Settecento casini furono chiusi, liberando 3.000 prostitute.
La situazione attuale
Oggi, in Italia, la prostituzione di per sé non è un reato, lo sono però il suo
sfruttamento e l’istigare qualcuno a prostituirsi.
Attualmente, in Olanda, Svizzera, Germania e Nuova Zelanda, le case di
tolleranza sono legali e possono anche farsi pubblicità. In Olanda, le
prostitute devono avere almeno 18 anni e non potrebbero avere rapporti con
clienti minorenni. Però, non c’è nessuna pena prevista se la prostituta è
minorenne e il cliente ha meno di 16 anni. Negli Usa, solo due Stati
ammettono la presenza di case di tolleranza: Nevada e Rhode Island.
Già nel 1949 la Convenzione internazionale contro la tratta aveva stabilito
che la «prostituzione e il male che l’accompagna, vale a dire la tratta degli
esseri umani ai fini della prostituzione, sono incompatibili con la dignità ed il
valore della persona umana».
In Italia, la legge del 1958, ridusse questo sfruttamento che, però, è
riemerso a partire dagli anni ’90 con lo sviluppo dei flussi immigratori e ha
assunto connotati ancora più terribili perché le vittime sono completamente
alla mercé di trafficanti e sfruttatori.
L’immigrazione
Con la recente emergenza profughi le organizzazioni criminali hanno
trovato nuove opportunità per reperire, condizionare e introdurre in Italia le
vittime del mercato della prostituzione. Paesi europei come la Svezia e la
Norvegia hanno fatto da tempo la scelta di vietare l’acquisto di prestazioni
sessuali a pagamento – nota come “modello nordico” – e hanno ottenuto una
forte riduzione del fenomeno.
Recentemente anche la Francia ha approvato una legge che introduce
sanzioni nei confronti dei clienti.
Il modello nordico
Dove la prostituzione e la sua fornitura sono legali, sono sempre di più gli
elementi che evidenziano le lacune del sistema. Nel 2007 il governo tedesco
ha ammesso che la normativa che legalizza la prostituzione non ha ridotto la
criminalità e che oltre un terzo dei pubblici ministeri tedeschi ha rilevato
come la legalizzazione della prostituzione abbia reso più complesso il loro
lavoro finalizzato a perseguire la tratta e lo sfruttamento di esseri umani.
In considerazione del numero sempre maggiore di elementi attestanti che la
legalizzazione della prostituzione e dell’attività d’intermediazione per
fornirla non promuovono affatto la parità di genere né riducono la tratta degli
esseri umani, la relazione del governo tedesco concluse che la differenza
essenziale tra i due modelli di parità di genere, di cui sopra, risiedeva nel fatto
che vedere la prostituzione semplicemente come un “lavoro”, contribuiva a
mantenere le donne nel mondo della prostituzione.
Ritenere la prostituzione una violazione dei diritti umani delle donne aiuta
queste ultime a rimanerne fuori.
Nel 2003 il sindaco di Amsterdam (Paesi Bassi) ha affermato che la
legalizzazione della prostituzione non era riuscita a prevenire il fenomeno
della tratta, aggiungendo che sembrava impossibile creare una zona sicura e
controllabile che fosse preclusa agli abusi della criminalità organizzata.
Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, i Paesi
Bassi sono la prima destinazione delle vittime della tratta di esseri umani.
Oltre 42.000 giovani olandesi hanno firmato una petizione, consegnata al
Parlamento che ora ne dovrà discutere.
La campagna si chiama “Sono impagabile”. Su Instagram sono state
pubblicate immagini dei sostenitori con cartelli dove si legge «Ik ben
onbetaalbaar» (io sono senza prezzo), «E se fosse tua sorella?» e «La
prostituzione è sia una causa che una conseguenza della disuguaglianza».
In Olanda il sesso a pagamento è legale tra “adulti consenzienti”. I giovani
attivisti premono sulle istituzioni perché la legislazione olandese viri verso il
modello nordico, adottato da Svezia, Norvegia, Islanda, Irlanda del Nord e
Francia, in base al quale i clienti sono penalizzati.
Proprio ad Amsterdam il quartiere a luci rosse è purtroppo una delle
principali attrazioni turistiche, in un Paese dove la prostituzione viene
considerata uno dei risvolti della libertà di scelta. I promotori della campagna
chiedono che sia fatto di più per proteggere le donne in condizione di
vulnerabilità, che più facilmente finiscono nella prostituzione, spesso una
scelta “fasulla” dettata da circostanze e mancanza di altre prospettive.
In risposta alla petizione, un portavoce del ministero della Giustizia ha
segnalato che il governo ha dei piani per rafforzare le misure a contrasto del
traffico di esseri umani, oltre al finanziamento per aiutare le persone
coinvolte a lasciare la prostituzione. Queste iniziative, ha spiegato, saranno
discusse in Parlamento nel corso di quest’anno.
L’esperienza di Svezia, Finlandia e Norvegia, che non aderisce all’UE,
dove per affrontare il problema della prostituzione si utilizza il “modello
nordico”, sostiene questo punto di vista.
La Svezia ha modificato la sua legge in materia di prostituzione nel 1999,
vietando l’acquisto di sesso e depenalizzando i soggetti che si prostituiscono.
In altre parole, è la persona che acquista sesso, in teoria quasi sempre l’uomo,
che commette un reato e non la prostituta. La normativa introdotta dalla
Svezia fa parte di un’iniziativa generale volta a eliminare tutti gli ostacoli alla
parità delle donne nel Paese. In Svezia questa legislazione ha avuto un
impatto estremamente forte. Nel Paese, il numero di persone che si
prostituiscono è un decimo rispetto alla vicina Danimarca, dove acquistare
sesso è legale e la popolazione è inferiore. La legge ha anche modificato
l’opinione pubblica in merito. Nel 1996 il 45 per cento delle donne e il 20 per
cento degli uomini erano a favore della criminalizzazione dell’acquisto di
sesso da parte degli uomini. Nel 2008 il 79 per cento delle donne e il 60 per
cento degli uomini erano favorevoli alla normativa. La polizia svedese
conferma inoltre che il modello nordico ha esercitato un notevole effetto
deterrente sulla tratta a fini di sfruttamento sessuale. L’efficacia di tale
modello nel ridurre la prostituzione e la tratta di donne e ragazze e nel
promuovere la parità di genere è sempre più evidente. Nel frattempo, i Paesi
in cui fornire prostituzione è un’attività legale si trovano a dover ancora
affrontare problemi in relazione alla tratta di esseri umani e alla criminalità
organizzata, due fenomeni legati alla prostituzione. Il Parlamento Europeo si
è espresso nel 2014 a favore del modello nordico esortando i governi degli
Stati membri che adottano altri approcci per affrontare la questione della
prostituzione a riesaminare la loro legislazione alla luce dei successi ottenuti
in Svezia e in altri Paesi che hanno introdotto il modello nordico. Tale scelta
comporterebbe significativi progressi per la parità di genere nell’Unione
europea. Il Parlamento Europeo si è dichiarato contro la prostituzione, ma a
favore delle donne che ne sono vittime, raccomandando di considerare
colpevole l’acquirente, ossia l’uomo che compra servizi sessuali, anziché la
prostituta.
Mi rivolgo ai parlamentari, in particolare a coloro che hanno dei figli, e
chiedo, se da genitori, vorrebbero mai vedere una propria figlia messa in
vetrina con l’obbligo di rilasciare lo scontrino fiscale per le prestazioni
sessuali effettuate. I modelli europei da imitare sono quelli dei Paesi nordici,
che hanno avuto il buonsenso e la consapevolezza di considerare sempre
l’acquirente colpevole e quindi correo dello sfruttamento sessuale. Colpire la
domanda significa dire ai trafficanti di esseri umani che la prostituzione non
potrà più essere un business e, nello stesso tempo, insegnare alle nuove
generazioni il sacrosanto rispetto per la dignità umana di cui il corpo è parte
integrante.
La libera autodeterminazione sessuale, sancita dalla Costituzione, non può
essere mai considerata come forma di espressione dell’iniziativa economica
privata.
Il dramma della tratta di giovanissime donne, di cui il 37 per cento
minorenni, arrivate in Italia con la promessa di un lavoro normale, sembra
non interessare più di tanto.
Le vediamo lungo i marciapiedi d’Italia e in alcune zone sono presenze
radicate da molti decenni nell’apparente impossibilità di affrontare il
fenomeno, proprio a partire da queste zone a luci rosse. Purtroppo, le uniche
luci che le illuminano sono i fari delle macchine, puntati addosso per
scrutarle prima di essere reclutate e pagate dal cosiddetto “cliente”, primo
responsabile di questa ignobile schiavitù.
Questi uomini, di ogni età, si muovono imperterriti beffandosi dello Stato,
senza temere i controlli delle Forze di polizia, e sapendo che le autorità non
possono fare niente per bloccarli.
In Italia non è proibita la prostituzione bensì il favoreggiamento e lo
sfruttamento.
I clienti, di fatto, favoriscono questo mercato: solo fermandoli, come
avviene nei Paesi nordici, è possibile iniziare a smantellare i tanti giri di affari
delle organizzazioni criminali.
I politici, però, non sono consapevoli di quale sciagura si consumi sulle
strade così come nei tanti bordelli al chiuso, dagli appartamenti a certi privé,
dagli alberghi fino agli scantinati etc.
Addirittura, c’è chi pensa alla legalizzazione del meretricio come la via per
risolvere questo strazio. Eppure, basterebbe ascoltare gli agenti di polizia
tedeschi e olandesi per capire come quelle donne in vetrina o nei luoghi
regolamentati hanno il racket alle spalle; il “protettore” è costantemente
presente nei giri della prostituzione e difficilmente una donna riesce ad
autogestirsi senza avere qualcuno che la “protegga” e quindi che la utilizzi
distruggendole l’esistenza.
I dati europei
La prostituzione è un fenomeno difficile da quantificare, in quanto illegale
nella maggior parte degli Stati del pianeta. Secondo una relazione del 2012
della fondazione Scelles, la prostituzione ha una dimensione globale che
coinvolge circa 40-42 milioni di persone, di cui il 90 per cento dipende da un
protettore. La prima relazione Eurostats con i dati ufficiali sulla prostituzione
è stata pubblicata nell’aprile 2013. Il documento era incentrato sulla tratta di
esseri umani nell’Ue nel periodo compreso tra il 2008 e il 2010. Quello che è
comunque certo è che la prostituzione e lo sfruttamento sessuale sono aspetti
definitivamente legati al genere, con donne e ragazze che vendono i loro
corpi, volontariamente o sotto coercizione, a uomini che pagano il servizio
offerto. La maggior parte delle vittime della tratta a fini di sfruttamento
sessuale sono di genere femminile. Praticamente tutti coloro che acquistano
servizi sessuali sono prevalentemente uomini. Una forma di violenza e una
violazione della dignità umana e della parità di genere. Lo sfruttamento
nell’industria del sesso perpetua l’idea che i corpi di donne e ragazze possano
essere messi in vendita. In Italia non è reato prostituirsi. Bisognerebbe
iniziare una battaglia al fine di contrastare in primis i vari racket.
Le ragazze nigeriane
Questo fenomeno delle ragazze nigeriane che arrivano con i barconi e dopo
qualche giorno di accoglienza nei centri finiscono sul marciapiede è
purtroppo un problema sempre più diffuso. Giunte in Italia hanno già un
numero di telefono che sono costrette a chiamare: il numero della cosiddetta
“madame” che aspetta la loro telefonata e si informa subito dove si trovano,
per poi mandare delle macchine a prelevarle, al fine di essere accompagnate
sulla strada.
Purtroppo, sui barconi non arrivano soltanto disperati che scappano dalle
tragedie, ma anche vittime della tratta che le organizzazioni criminali
riescono a infiltrare nel mercato della disperazione.
La maggior parte di loro sono minorenni perché il mercato dei clienti
richiede proprio che siano giovanissime.
Tutti vedono, troppi sanno, ma fanno finta di non vedere.
I riti voodoo sono da sempre l’arma di ritorsione e di minaccia per queste
ragazze, rivolte soprattutto nei confronti dei loro genitori e dei loro fratelli.
Queste poco più che bambine temono che, in caso di ribellione, i loro cari
possano rimanere vittime di riti magici e malefici. Per questo assecondano,
obbediscono ed eseguono l’ordine delle “madame” che sono poi quelle che
seguono e gestiscono l’attività delle vittime. In Italia, attualmente, il
fenomeno si è espanso fino a quadruplicarsi.
La prima volta
Il mio primo contatto con il mondo della prostituzione è avvenuto molti
anni fa, rientrando a casa in macchina con i miei genitori.
Una sera, tornando dalle colline del fermano, nelle Marche, passammo in
una zona molto conosciuta per la presenza di donne che si prostituivano
lungo il litorale adriatico chiamata le Fratte di Porto S. Elpidio. Tutte le sere
c’erano decine di ragazze e un veicolare impazzito di automobili che
bloccavano il traffico tutta la notte. Ricordo che, incuriosito, chiesi ai miei
genitori come mai non si andava avanti, io avevo circa sette anni, mia madre
mi rispose che era a causa del mercato delle pelli. Anche se era di sera molto
tardi, credetti a quello che mi venne detto avendo parenti imprenditori nel
settore del pellame.
Solo molto tempo dopo, quando iniziai ad andare per quelle stesse strade
con don Oreste Benzi, ricordai le parole di mia madre. Che in fondo non si
discostavano così tanto dalla realtà, visto che queste ragazze, per i tanti
clienti, rappresentavano davvero solo della pelle, della carne in vendita da
utilizzare e gettare via.
Joy
Joy, di etnia Edo, è nata in un piccolo villaggio della Nigeria. Per i
drammatici problemi economici della sua famiglia ha dovuto abbandonare
gli studi subito dopo la scuola elementare per cominciare a lavorare come
parrucchiera e nel 2010 un amico le propone di emigrare in Italia per fare lo
stesso lavoro ma con un guadagno molto maggiore.
Il calvario di Joy inizia con un viaggio di due giorni, in autobus e poi in
macchina, con un uomo soprannominato The Boss. Per due mesi vive in una
stanza con altre quattro ragazze nigeriane in attesa di partire per l’Italia.
Due mesi di speranze e paure, senza alcuna rassicurazione finché The Boss
le imbarca su un aereo per la Francia. Da lì il trasferimento in treno verso
l’Italia e, appena arrivata a Milano, Joy si accorge dell’inganno. Il
passaporto che le avevano dato è falso e viene subito buttata sulla strada con
l’obbligo di prostituirsi per ripagare 65.000 euro di debito: è la cifra
richiesta dall’organizzazione criminale che l’ha fatta arrivare in Italia e a
controllarla è Fay, la madame con cui è costretta a vivere in un
appartamento e che le impone anche di fare richiesta di asilo politico in
questura.
All’ufficio immigrazione Joy racconta la falsa storia, inventata per lei
dalla madame, della fuga dalla Nigeria per fuggire dalle persecuzioni.
Più volte Joy torna in questura senza però ottenere i documenti richiesti.
Agli ordini di Fay, la ragazza si prostituisce per quasi due anni. A insegnarle
il comportamento da tenere con i clienti è Nelly, un’altra donna nigeriana
incaricata di accompagnare in strada le nuove arrivate.
Ogni sera alle 20 Joy viene portata nel luogo in cui deve prostituirsi e poi
riaccompagnata a casa alle due di notte. Dopo alcuni mesi di convivenza con
Fay, Joy viene messa ad abitare con una famiglia nigeriana composta da
padre, madre e tre figli. Ogni settimana la madame passa a riscuotere i 400
euro che mediamente Joy guadagna sulla strada. In tutto Joy consegna a Fay
30.000 euro in due anni ma non è abbastanza e viene spostata nella zona
industriale dove è costretta a prostituirsi per altri tre anni.
Nel maggio 2015 Joy è ridotta in fin di vita da due uomini, un marocchino
e un rumeno, che la picchiano selvaggiamente per rapinarla.
Durante il ricovero in ospedale, la ragazza capisce che non può più
andare avanti così. Quella “non vita” l’ha quasi uccisa e Joy decide di
scappare dai suoi aguzzini Fay e The Boss. Nel tentativo di ricominciare da
zero, fugge dalla metropoli e si rifugia dalla connazionale Mary.
Mentre è ospite della sua amica, conosce Dany con il quale ha un figlio e
che la spinge a chiedere aiuto all’Associazione Comunità Papa Giovanni
XXIII che si fa carico di proteggerla dai suoi sfruttatori. Abitare vicino a
loro è pericoloso, perciò Joy viene trasferita in un’altra regione, in una
struttura lontana, al riparo da chi vorrebbe riprecipitarla all’inferno.
Stefania
L’emozione, fortissima, nella voce. Poi il coraggio di raccontare da capo
l’orrore dei suoi 17 anni.
Quando da un paesino sperduto della Bulgaria, con la promessa fatta da
alcuni amici dei suoi genitori di portarla in Italia a lavorare, Stefania ha
iniziato il suo calvario.
Nella sala del Quirinale scende il silenzio assoluto.
Stefania è girata di spalle, leggermente piegata: «Mi hanno buttato sulla
strada a calci e pugni. Mi hanno tagliato le orecchie, strappato i capelli.
Porto i buchi, nella mia pancia: mi ci saltavano sopra, coi tacchi a spillo».
Erano in quattro, gli aguzzini della ragazza: «Due uomini e due donne»,
racconta, dopo la mattinata passata con Mattarella, ancora scossa. Difficile,
parlare con lei, perché le torture subite l’hanno resa parzialmente sorda.
Noi, operatori dell’Associazione Papa Giovanni XXIII l’abbiamo trovata
in ospedale, ricoverata da due mesi, allo stremo fisico, senza capelli, piena di
ferite: furono i carabinieri a chiamarci per segnalarci il suo caso.
Quando l’abbiamo vista la prima volta sembrava uscita da un campo di
sterminio.
La vita di Stefania è ricominciata da lì: l’accoglienza in una casa rifugio,
l’aiuto, l’ascolto. I capelli, bellissimi, che sono ricresciuti. Oggi, a 24 anni
finalmente ha anche il lavoro. «Che era il mio sogno fin dall’inizio» racconta
lei. Il pensiero corre subito alle “altre”, «le ragazze come me che sono sulla
strada anche adesso».
«Anche agli uomini, desidero rivolgermi. Perché sappiano che stanno
sbagliando e affinché smettano di farlo». Il passaggio sui “clienti”, nella
testimonianza di Stefania al Quirinale davanti al Presidente della Repubblica
Mattarella, è stato drammatico: «Questi uomini che voi chiamate “clienti”
sono uomini che vanno a fare la spesa, a comprare qualcosa di cui hanno
bisogno» ha detto. «Così anche io sono diventata una cosa da comprare,
come quando si va dal macellaio». E ancora: «Non riuscirò mai a capire
come una persona che si definisce “uomo” possa non avere pietà di una
ragazza che piange, sanguina e che soffre. Come possa comprarla, per fare
sesso, mentre piange e sta male».
8.
Il business della terza industria illegale più remunerativa
La lunga battaglia
Don Oreste Benzi era il prete descritto “dalla tonaca lisa”, perché non si
curava di rinnovare la sua talare invecchiata. Era troppo occupato a rincorrere
i più disperati con l’amore contagioso e la carità inesauribile che lo
caratterizzava.
Egli aveva deciso di intraprendere un cammino particolare: recarsi anche
sui marciapiedi della prostituzione per dare voce a migliaia di giovani donne
ridotte in stato di schiavitù e per denunciare il fenomeno della tratta degli
esseri umani.
La malavita lo minacciava, molti lo deridevano, altri lo ritenevano un
ingenuo quando affermava che tutte quelle donne erano davvero schiavizzate
e non avevano scelto liberamente la prostituzione.
Neanch’io l’avrei capito fino in fondo se non l’avessi accompagnato sulle
vie delle donne vendute e mercificate, dei bambini costretti all’accattonaggio,
dei giovani sfruttati dai caporali, degli immigrati torturati e venduti: un
inesauribile ingorgo di aberrazioni umane se si considerano le molteplici
connivenze a vari livelli e i guadagni incalcolabili che se ne ricavano. Con la
sua morte la battaglia non si è arrestata neanche per un momento. Anzi, la
Comunità Giovanni XXIII, da lui fondata, ha moltiplicato le iniziative per
sensibilizzare le coscienze, scuotere le istituzioni, intervenire in tutti i contesti
possibili per dare voce alle schiave.
Si nega l’evidenza
Eppure c’è chi ancora oggi nega l’evidenza, ritenendo che la tratta
appartenga alla storia del Nuovo Mondo con la riduzione in schiavitù di
migliaia di persone deportate nelle Americhe dal continente nero.
Invece, senza sconti, il passato si ripete. Anzi, il commercio degli esseri
umani ai nostri giorni ha assunto molte facce, alcune terribilmente evidenti,
altre più subdole ma non meno devastanti.
Le cause di questo efferato crimine risiedono tutte nell’avidità e nella
smania di potere, che continuano ad accecare gli uomini. Le volontà politiche
non sono né determinate, né orientate a combattere simili casi di sfruttamento
che denunciano un deteriorarsi della società sul piano etico e uno svilimento
della nostra stessa civiltà.
Ci si chiede anche perché, nella maggior parte degli Stati, non esistano
ancora leggi che condannino fermamente i fruitori del sesso a pagamento.
Questo turpe mercato viene di fatto ignorato da molti governi occidentali,
pronti a favorire un’economia senza etica, narcisistica e selvaggia, incurante
di contrastare con decisione le organizzazioni criminali, capaci di gestire
ignominiosi commerci.
Rigurgiti di razzismo, nascosti dietro comunicazioni distorte e fuorvianti
riportate talvolta dai media, rendono sgradevoli e ingombranti tutti coloro che
hanno avuto il torto di essere nati semplicemente sfortunati in territori da
sempre sottomessi e impoveriti.
Il virus dell’indifferenza ha contagiato anche quei leader che vorrebbero
indebolire le organizzazioni umanitarie impegnate quotidianamente nel
mettere la propria vita accanto a quella dei più deboli.
A volte risultano scomode perfino le stesse realtà del mondo cattolico che
operano instancabilmente, con spirito di carità, per garantire ai deboli
un’accoglienza dignitosa.
Forse c’è ancora chi non ha ben compreso che la forza del cattolicesimo
risiede tutta nella scelta di lottare fino al martirio per ciò in cui si crede.
Insieme ai miei fratelli dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, viviamo
con gli schiavi liberati e per questo non possiamo tacere in merito a quanto
continuamente sperimentiamo. Ci sentiamo in dovere di gridare contro
l’aberrante profanazione della vita umana.
Nella fede seguiamo l’esempio di Santa Bakhita, nella speranza che si
risveglino le coscienze dei governanti a favore di tutte le vittime di tratta e
perseveriamo con quella stessa passione di quel testardo uomo di Dio, don
Oreste Benzi, che con il suo sorriso pieno di amore riusciva a spezzare le
catene dei moderni schiavi.
Lo sfruttamento economico
Alla radice di tutto c’è sempre lo sfruttamento economico. Nella Grecia
classica, nei bordelli, una prostituta guadagnava al giorno due oboli, mentre
la paga giornaliera di un operaio erano 6 oboli (circa 50 euro odierni).
Nell’antica Roma, il guadagno giornaliero medio di una meretrice era di 2
assi, mentre quello di un artigiano di 12 assi e un legionario di 10 assi.
Nella Firenze medioevale, una prostituta del bordello municipale incassava
2 fiorini, mentre una cortigiana 50 fiorini e un tessitore specializzato 6 fiorini.
Nella Venezia rinascimentale una prostituta guadagnava ai bagni pubblici
un ducato al giorno, mentre la paga media di un marinaio era di due ducati.
Un secolo fa, in Francia, una prostituta da strada incassava due franchi al
giorno, una meretrice in una casa di tolleranza 4 franchi e un impiegato
statale 30 franchi.
Oggi la prostituzione è la terza industria illegale al mondo per fatturato,
dopo armi e droga. È una forma moderna di schiavitù e i martiri sono
soprattutto donne e bambini.
I dati attuali
I numeri descrivono un quadro sconcertante. L’Istat, nel rendere noto
l’ultimo report dell’indagine condotta sul sommerso per gli anni 2012-2015,
rileva che «i servizi di prostituzione realizzano un valore aggiunto pari a 3,6
miliardi di euro», ossia poco meno del 25 per cento dell’insieme delle attività
illegali e consumi per circa 4 miliardi di euro. Il dato è confermato
dall’Ufficio Studi della Cgia, l’associazione degli artigiani e delle piccole
imprese.
Il Codacons rileva un costante aumento dei clienti che hanno raggiunto
quota tre milioni, così come delle prostitute, passate da 70.000 a 120.000 in
un decennio con il fatturato della prostituzione che risulta cresciuto del 25,8
per cento (passando dai 2,86 miliardi di euro del 2007 ai 3,9 miliardi di euro
annui del 2016).
Il fenomeno della prostituzione si è evoluto, nel corso degli anni, con la
società, adeguandosi ai tempi che corrono.
Secondo l’analisi dell’associazione per la tutela dei consumatori Codacons,
le prostitute che operano in strada rimangono la fetta di mercato più grande
(il 60 per cento). Il restante 40 per cento è rappresentato da chi si vende in
luoghi privati, come casa propria o altre strutture non all’aperto. Si registra,
nell’ultimo decennio, una fortissima crescita di prostitute cinesi, che
svolgono prevalentemente la propria attività al chiuso (case, centri massaggi,
locali).
Le parole di Bergoglio
Ma non possiamo tacere e, proprio a causa di questo silenzio, mi risuonano
ancora più forti quelle parole di perdono rivolte dal Papa a coloro che non
hanno, a volte, neanche più la forza di sperare.
Queste le preziose parole, pronunciate da Papa Francesco il 12 agosto 2016
incontrando le ragazze sottratte al racket della prostituzione. «Io vi chiedo
perdono per tutti i cristiani, i cattolici che hanno abusato di voi e anche
perdono da parte mia di non aver pregato tanto per voi e per questa schiavitù.
Perdono per una società che non capisce. Perdono per i governanti che se ne
infischiano di questo. Per il Signore ognuna di voi è importante, per Dio
ognuna di voi ha la faccia del suo Figlio sofferente, che ha sofferto sulla
croce e voi avete sofferto sulla croce. Vi chiedo perdono per i credenti, i
cristiani che vi hanno abusato e vi dico di guardare avanti. Guardate avanti,
davanti a voi c’è l’orizzonte, la speranza. Il Signore vi ha fatto sentire quella
parola, quella domanda “quanto soffri?”. Il Signore con questi fratelli e
sorelle che lavorano vi ha aiutato. Grazie del coraggio che avete avuto.
Grazie di guardare la vita con speranza e pregate per me perché io possa dire
le cose giuste e dare le bastonate giuste. Grazie tante».
La sua visita ha felicemente scioccato queste figlie di Dio dimenticate da
tutti ma non dal Santo Padre che le ha abbracciate e ascoltate con un’umanità
tangibile.
Bergoglio ha proprio scelto di fare visita in una nostra umile dimora nelle
periferie di Roma, in quelle periferie dell’esistenza dove la persona è soltanto
usata per soddisfare i propri perversi istinti e poi gettata ai bordi dei
marciapiedi.
È stata impressionante la sua capacità e il profondo desiderio di ascoltare i
drammi di queste creature.
Anna dalla Moldavia ha raccontato piangendo l’orrore subito sulle strade,
il suo essere venduta, violentata e torturata fino all’estremo; così Stefania che
ha anche mostrato al Papa le cicatrici impresse nel suo corpo con le orecchie
tagliate dai magnaccia. Gloria e Kate, provenienti dalla Nigeria, hanno
sottolineato il calvario della tratta a partire dal viaggio passando per i deserti,
la mancanza di cibo, la costrizione di doversi bere l’urina per mancanza di
acqua, il desiderio di morire per farla finita. E poi la commovente storia
dell’ultima ragazza accolta proprio alla vigilia dell’arrivo del Pontefice, che
accostandosi a Francesco ha raccontato il suo inferno.
Storie che hanno commosso e colpito nel profondo anche coloro che ogni
giorno hanno scelto di mettere la propria vita accanto a quelle di queste
donne invisibili. Papa Francesco tuona sempre contro questa piaga disumana
ed è solo grazie a lui che qualche media si rende conto che il fenomeno esiste
ed è più esteso di quello che si immagini.
Il Papa ha versato alle ragazze le bevande, le ha servite e abbracciate più
volte commuovendosi. Sembrava volesse restare con noi ancora più tempo...
Abbiamo cantato insieme e si vedeva che era a suo agio con i poveri e gli
ultimi della terra.
Sicuramente dal Cielo il nostro fondatore don Oreste Benzi avrà gioito
immensamente.
Penso che ci sia stata la sua regia perché poco prima della sua morte aveva
detto che se avesse raggiunto il Paradiso, non si sarebbe fermato,
tormentando anche gli angeli del cielo. E su questo non avevo dubbi.
A volte mi chiedo – come ha fatto sempre con i potenti finché è stato in
mezzo a noi – quanto starà stressando, anche lassù, angeli e santi affinché ci
sia attenzione per l’uomo più debole. Poi arriva Papa Francesco, con un
linguaggio tanto simile a quello di don Oreste.
E riesci a vedere nelle docili carezze che ha rivolto alle donne schiavizzate
come il Cielo e la terra si uniscano per liberarle.
11.
Il magistero anti tratta
Leda
Leda prende talmente tante botte ogni giorno, da desiderare costantemente
la morte. Una sera decide di buttarsi dal terzo piano. Non riesce a morire e
una volta uscita dal coma, dopo un percorso di riabilitazione, Leda non ha
più memoria e l’unica cosa che, in piccoli spazi di lucidità, si ricorda, è
quella di avere un figlio. Ospitata nella casa di accoglienza
dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, si tenta insieme a lei di ricostruire la
sua storia. Quello che le viene in mente è solo una bicicletta e il ricordo di
essere buttata su di un furgone.
Dopo una decina di anni incontro, di notte, un ispettore di polizia con il
quale avevo condiviso alcune esperienze con l’unità di strada per recuperare
in Abruzzo delle prostitute. Il poliziotto tira fuori dalla tasca un bigliettino su
cui c’è scritto il nome della donna che stava cercando da diversi anni. Si
tratta proprio di Leda che viveva nella mia Pronta Accoglienza. Non poteva
essere semplicemente un caso l’incontro con quel poliziotto! Mi dice che
sono dieci anni che la mamma, il papà, la sorella e il figlio la stanno
cercando disperatamente. Tutti i giorni prendono il loro carretto e, con un
mulo, partono dal villaggio in cui vivono e si incamminano per andare a
Tirana, all’ambasciata italiana, per chiedere di informarsi in Italia sulla loro
familiare, pregando che sia viva. Non hanno mai perso la speranza.
Abbiamo fatto incontrare Leda con il figlio, ormai cresciuto, che nel
frattempo ha studiato l’italiano, pensando che un giorno avrebbe rivisto e
avrebbe potuto parlare con la sua mamma. Questa madre che oggi ha gravi
problemi psicologici dovuti alle percosse, alle torture e alle violenze subite
per troppo tempo. E questo figlio che, anche lui, ha gravi disagi perché
quando la mamma rimase incinta, il compagno fece nascere questo bimbo a
forza di calci e di pugni. Ma che sono riusciti a incontrarsi dopo tanti anni e
a stringersi in un abbraccio di amore, grazie alla realizzazione di un vero e
proprio miracolo.
Il male subito
Quelli del recupero sono momenti difficili, è un percorso lungo e in salita.
Queste ragazze arrivano nelle nostre case di accoglienza distrutte, alcune
con orecchie tagliate, con costole rotte e molte con problemi psichiatrici,
sono donne giovanissime che non avranno più futuro. Altre nonostante le
ferite psicologiche riescono a recuperare il proprio cammino di vita. Ma, chi
chiederà perdono per il male che hanno subito?
Si tratta di ragazze crocifisse, che nel momento in cui riescono a uscire dal
proprio dramma e offrono la loro testimonianza, fanno emergere il dolore e lo
strazio di chi viene violentato, usato e gettato come un qualsiasi prodotto. Il
pensiero va sempre alle altre che continuano a stare sulla strada.
È commovente vedere queste donne salvate e accolte che hanno sempre
una preghiera e un pensiero per quelle che sono ancora schiave, affinché
qualcuno le possa liberare da quel giogo.
Una donna che trova il coraggio di affrontare le minacce che vengono fatte
ai suoi familiari, che sono sempre il motivo per cui è partita, è un vero
miracolo.
A quel punto, bisogna iniziare il difficile percorso della liberazione,
traumatico, non certo semplice e immediato.
Prima c’è il periodo di protezione, per non farsi ripescare dagli aguzzini,
poi inizia quello per ristabilirsi psicologicamente, iniziare a reintegrarsi, a
togliersi di dosso quel marchio.
13.
La società del gratuito
La seggiolina di Fiorella
La tratta è un abisso e come nei dirupi di montagna sui cigli possono
nascere fiori preziosi. Ricordo Fiorella, un’anziana signora con problemi di
salute che assieme a suo marito per oltre dieci anni, ogni sabato sera a
mezzanotte ha partecipato al rosario recitato in gruppo per le donne
crocifisse. Fiorella non riusciva a stare in piedi e per questo si portava da casa
una seggiolina grazie alla quale poteva prendere parte a quello che per lei era
un appuntamento imperdibile. Non importava quanto fosse freddo o caldo,
pioggia, neve, afa, non hanno mai impedito a Fiorella di essere con noi riuniti
in cerchio ai bordi della strada della prostituzione. Erano le ginocchia a essere
fragili non la sua fede, e così Fiorella divenne silenziosamente e umilmente
un esempio, un modello per tutti noi. La signora veniva spontaneamente, non
apparteneva a qualche gruppo religioso, sentiva la chiamata a essere in mezzo
a noi per pregare e così facendo ci toglieva ogni alibi. Se c’era lei con tutti i
suoi acciacchi e i suoi malanni sempre più gravosi, quale scusa avevamo noi
per disertare il rosario in strada? Papa Francesco ha parlato spesso dei Santi
della porta accanto, cioè dei modelli invisibili di coerenza e di solidarietà
nella preghiera, perché azione e contemplazione sono le due gambe su cui
cammina la vera fede. Fiorella si sentiva madre e sorella delle ragazze vittime
della prostituzione coatta, viveva come un’ingiustizia insopportabile
l’indifferenza di gran parte della società nei confronti delle più fragili
creature di Dio. Esserci a quel rosario era per lei un gesto religioso e civile
insieme, dove «è più grande la colpa sovrabbonda la grazia», insegnano i
padri della Chiesa. La signora non aveva una laurea in teologia ma avvertiva
l’urgenza di partecipare a un momento di Vangelo condiviso, a un frammento
di cielo in terra. «Non posso non andare» ripeteva Fiorella a chi gli opponeva
qualche ragione per restare a casa. Avrebbe avuto tutte le umane
giustificazioni, ma lei era una di quelle credenti che alle dichiarazioni di
intenti e ai proponimenti preferivano la concretezza della testimonianza.
Tanti cattolici, a volte anche personalità note, venivano il sabato sera per
vivere un’esperienza di fede fuori dall’ordinario. Ci facevano grandi
complimenti, promettevano di non mancare un appuntamento, esternavano il
loro entusiasmo e poi non si rivedevano più. Magari nel loro cuore è rimasta
traccia indelebile di quella preghiera comunitaria in un luogo di abbandono e
di desolazione, in un’autentica periferia geografica esistenziale, ma la
teologia della seggiolina di Fiorella ha la carica rivoluzionaria che don Oreste
Benzi attribuiva a chi pregava veramente. La signora non ha mai detto che
sarebbe tornata il sabato successivo, ma fino alla morte mantenne il silente
patto che aveva stretto con la sua coscienza. Esserci per non lasciare mai sole
le figlie usate e poi scartate dalla società crudele. Se avesse conosciuto la vita
dei Santi, Fiorella avrebbe scoperto che, per esempio, madre Teresa di
Calcutta si regolava esattamente come lei: preferiva una preghiera a una
promessa. Fiorella, senza saperlo incarnava il paradigma di santità che integra
l’aiuto al prossimo con il dialogo rivolto al cielo. Lei pregava quaggiù per
chiedere lassù la liberazione delle giovani donne schiavizzate. In ognuna di
loro Fiorella vedeva un grano del rosario, nelle loro ferite trovava la carne
viva di Cristo. Agli occhi beffardi del mondo insensibile, quella seggiolina
poteva apparire insignificante e persino ridicola, visto che sorreggeva il peso
di un’anziana carica di sofferenze fisiche e inesistente ostentazione di sé. E
invece quella seggiolina aveva la dignità e la forza del trono di una cattedrale.
Fiorella presiedeva una liturgia celeste fatta di sguardi, presenza e vicinanza
spirituale. Nessuno le diceva di essere con noi ogni sabato sera ma lei sentiva
che non poteva stare in un altro posto. Il primo sabato senza di lei gli occhi di
tutti si volgevano istintivamente verso quella seggiolina vuota. Da allora sono
sicuro che ogni ragazza strappata alla tratta ha sulla testa la mano di Fiorella.
Per il mondo della prostituzione in Italia l’arrivo sulla scena di don Oreste
Benzi è stato un Big Bang. L’incessante, testarda azione di persuasione sulle
istituzioni e sulle Forze dell’Ordine, lo scandalo in senso etimologico ed
evangelico di una tonaca che di notte scende in strada in mezzo alle donne
schiavizzate dal racket del sesso ebbero un effetto dirompente sulla società e
la mentalità corrente. Progressivamente un tema ritenuto disdicevole e
impronunciabile veniva imposto nell’agenda pubblica. Da quel momento in
poi nessuno poteva fingere di ignorare o voltare la testa dall’altra parte anche
se il tentativo strisciante di screditare don Oreste, di sbeffeggiarlo, di ritrarlo
come un esagerato fu violentissimo. Come sempre accade per gli autentici
rivoluzionari dopo aver fallito con le denigrazioni si arrivò alle minacce vere
e proprie. In un modo o nell’altro quel prete dalla tonaca lisa e chi lo seguiva
andavano fermati.
Uno dei modi per uscire dalla strada è denunciare i propri aguzzini. In
questo capitolo ho raccolto il frutto di una ventennale missione di soccorso,
ascolto, assistenza, affiancamento delle donne crocifisse. Quanto qui riportato
è la fotografia fedele di un cammino percorso insieme a queste ragazze. Il
lettore noterà subito l’immediatezza, la semplicità, il tono spontaneo dei loro
racconti. Io mi sono limitato a tutelare la loro riservatezza rendendo
impossibile risalire alle loro identità. Per il resto tutto ciò che viene narrato è
l’esatta esposizione della “via crucis” delle donne crocifisse. Ne deriva un
quadro di insieme dal quale diventa più comprensibile la nostra campagna
contro la legalizzazione del sesso a pagamento. Quale libertà può esserci
dietro vicende atroci come quelle qui riportate? Come può essere “libera
volontà” quella che determina per necessità la disperata decisione di vendere
il proprio corpo? Nelle parole delle schiave del racket si trovano le risposte:
Larisa
Mi chiamo Larisa, ho ventitré anni e sono nata in Moldavia. Sono venuta
in Italia in quanto mi avevano promesso un lavoro: nel mio paese non c’è
lavoro e io lo cercavo tanto in quanto la mia famiglia è molto povera e ho
sempre dovuto aiutare mia mamma a mantenere la famiglia. Mia cugina, che
abita vicino casa mia, mi ha presentato una signora di nome (…), di circa
quarant’anni, proveniente dalla capitale della Moldavia, la quale girava nei
paesetti come il mio proprio per cercare ragazze disposte a trasferirsi in
Italia per lavorare in casa con anziani o come donne di servizio. Io accettai;
ricordo che partimmo con tre auto assieme a questa donna e altre dieci
persone circa, tra ragazze come me, uomini e donne che partivano
clandestinamente, più tre autisti. Attraversammo la Romania e una volta
giunti al confine, sempre di notte, ci hanno fatto scendere dalle auto e
passare la frontiera a piedi. I nostri bagagli sono rimasti sulle auto e non ci
sono stati più restituiti. Dopo aver camminato parecchio ci hanno poi
separati, e noi ragazze ci hanno fatto salire poi su un’auto con la quale,
sempre di notte siamo arrivati a Belgrado. Ci hanno portato in un
appartamento, penso in periferia, nel quale abbiamo incontrato altre due
ragazze rumene, anche loro tratte in inganno come noi, che ci hanno
informato su quello che sarebbe stato il nostro destino e cioè di essere
costrette a prostituirci. In questo appartamento era vietato guardare dalle
finestre, e su ogni finestra c’era un allarme. Da mangiare ci veniva dato,
ogni tanto, solo del pane con salame e tutte avevamo una gran fame. Dopo
un po’ di tempo sono venuti dei magnaccia per scegliere le ragazze da
comprare e da portare a far prostituire nei locali. Era come un mercato: si
capiva benissimo nonostante la lingua diversa, che c’erano in corso delle
contrattazioni e la ragazza in trattativa veniva giudicata in base alla statura
e alla bellezza. Quelli che mi avevano comprato mi hanno poi portato in un
paese in un altro appartamento affollato da tantissime ragazze dove si
dormiva per terra, una ragazza di fianco all’altra. Sono rimasta lì circa due
settimane; oltre al cibo che si riceveva raramente eravamo tutte
continuamente malmenate e violentate dai nostri aguzzini e da altri loro
amici che passavano di lì, e minacciate di morte con la pistola puntata
contro se non avessimo accettato di prostituirci. Sono stata rivenduta ad un
altro magnaccia, sempre slavo, che sentivo chiamarsi (…), anche se
probabilmente era solo un soprannome. Questi mi ha portato in Albania.
Sempre di notte abbiamo attraversato la frontiera a piedi e poi abbiamo
passato un fiume con una barca. All’altra riva c’era ad attenderci un’altra
persona con un pulmino che ci ha portato in un paese vicino. Siamo poi
arrivati, sempre di notte, a una specie di albergo, abbastanza isolato, pieno
di ragazze e di magnaccia da cui era impossibile fuggire perché anche
questo era sempre sorvegliato notte e giorno come tutti gli altri posti in cui
ero stata portata finora. Qui sono stata costretta a prostituirmi con i clienti
che venivano portati all’albergo e ad assumere droghe sia per via orale che
tramite iniezioni, sempre contro la mia volontà e questo perché i miei
aguzzini volevano che stessi calma e tranquilla per svolgere bene il mio
lavoro in quanto mi ribellavo sempre. Ricordo che tra le ragazze di varia età
che si prostituivano nell’albergo ce ne erano pure diverse che sembrava lo
facessero di loro spontanea volontà visti i buoni rapporti che mantenevano
con i miei aguzzini, anzi alcune sembravano proprio addette a controllare
noi nuove arrivate. Non saprei dire con precisione il tempo trascorso in
questo posto; un giorno sono stata comprata da un albanese che mi ha
portato in Italia. Siamo partiti con un barcone: eravamo circa quaranta
persone tra uomini e donne. Sempre di notte siamo sbarcati sulla costa vicino
a (…), dopo un tratto di strada a piedi abbiamo preso un taxi, siamo andati
alla stazione dei treni e siamo partiti per un’altra città. Alla stazione c’era
ad attenderci un uomo, fratello di (…). Siamo saliti sulla sua auto e ci siamo
diretti a (…), in un appartamento dove viveva la moglie di (…), che si
prostituiva in un altro appartamento lì vicino durante il giorno, ma che la
notte tornava per dormire lì e controllarci. I miei nuovi magnaccia intanto
erano intenti a cercarmi un appartamento solo per me dove farmi prostituire
e mi avevano comprato dei libri in italiano per farmi studiare la lingua così
da poter poi parlare con i clienti. Nel frattempo, mi facevano prostituire
nello stesso appartamento dove si prostituiva questa donna, con minacce di
morte per me e per i miei familiari in Moldavia se fossi fuggita. Dopo poco
tempo i miei due magnaccia affittarono un appartamento al terzo piano di un
palazzo. I clienti che venivano da me tramite un annuncio che era stato
messo su un giornale, ricordo che dovevano suonare a un campanello dove
era scritto il nome della signora anziana che lo aveva affittato. Tutti i giorni
uno dei due magnaccia mi sorvegliava da dentro la sua auto parcheggiata
sempre davanti al palazzo dove ero costretta a prostituirmi. Un giorno che
stranamente non vidi l’auto appostata per controllarmi scappai via subito,
corsi alla stazione e salii sul primo treno in transito. Ho continuato la mia
fuga lontano da quella città, poi ho incontrato per caso due coniugi che ho
supplicato di aiutarmi e che mi hanno poi portato da don Aldo Buonaiuto.
Doris
Mi chiamo Doris e sono nata in Nigeria. Mio padre si chiama Josef, mia
madre Sophia e ho cinque fratelli. Mia madre vendeva prodotti alimentari al
mercato, mio padre produceva alcool per distribuirlo ai commercianti.
Eravamo molto poveri ed andavamo avanti con molta fatica. I miei fratelli
andavano a scuola. Io ho frequentato le scuole elementari e le medie per una
durata complessiva di nove anni. Non ho iniziato le superiori perché mi sono
lasciata influenzare da cattive compagnie, ragazzi che bevevano, stavano in
giro tutto il giorno e andavano sempre in discoteca. Mio padre era molto
arrabbiato con me e non mi ha mandato più a scuola. Era nel settembre 2015
quando sono andata via di casa e mi sono trasferita a Benin City prendendo
una camera in affitto con una mia amica. Non avevamo problemi particolari
per vivere perché lei prendeva il cibo da casa di sua madre. Il ragazzo di lei
ci pagava l’affitto. Io, tra l’altro, per un periodo ho trovato lavoro in un pub
dove mi pagavano 13.000 naira al mese; ho lavorato lì per tre mesi. Poi è
arrivata un’altra commessa che ha iniziato a comportarsi male con me e
allora ho deciso di abbandonare questo lavoro. Il ragazzo della mia amica ci
accompagnava spesso da un amico di nome (…) che aveva 26 anni. A
dicembre 2016 (…) ci ha voluto parlare e chiesto se volevamo andare in
Europa perché c’era una signora che portava le ragazze in Europa. Era una
madame e dicevano che viveva in Germania. L’ha chiamata al telefono e lei
ha voluto parlare con me e l’altra ragazza. Ci ha spiegato che aiutava le
ragazze a venire in Germania per offrire loro un lavoro in hotel. Ha
specificato che non faceva arrivare le ragazze per metterle sulla strada a
fare le prostitute. Ha aggiunto che lei non prendeva in giro nessuno. Io era
molto interessata da questa opportunità e le ho detto che avrei accettato.
Così lei ha chiesto il mio numero di cellulare e il ragazzo gliel’ha dato. Poco
dopo (…) mi ha chiamato al telefono dicendo che sua sorella, sarebbe venuta
a prendermi per fare il giuramento in una casa a Benin City. Mi ha spiegato
che non avrebbe potuto farmi partire senza il giuramento. Avrei dovuto
promettere di restituire i soldi una volta giunta in Europa. A gennaio del
2017 siamo andati con (…) in una casa dove praticavano il voodoo: mi
hanno tagliato le unghie e i capelli e ho giurato che, una volta arrivata in
Germania, avrei restituito a (…) 25.000 euro. Ho anche detto che non avrei
dato loro alcuna somma se le cose non sarebbero state come mi avevano
promesso. Loro mi hanno detto che non mi avrebbero restituito le unghie e i
capelli finché non avessi dato quanto dovevo. Sono tornata nel mio paese per
spiegare che sarei partita, ma mia madre e mio padre non volevano. Ma io
ho spiegato ai miei familiari che non potevo fare più nulla perché ormai
avevo giurato. Mia sorella era molto arrabbiata con me perché avevo preso
questa decisione da sola. Era così preoccupata che è voluta venire con me a
Benin City e ha conosciuto (…) la quale le ha spiegato che non potevo più
tirarmi indietro. Sono tornata nel mio villaggio dove sono andata a vivere da
mia nonna in attesa di partire. Era previsto che partissi il 1 marzo 2017.
Infatti, quel giorno con l’autobus sono andata a Benin City. Sono arrivata
alla stazione degli autobus dove ho preso un altro autobus che mi ha portata
in una città dove ho incontrato (…). Lei ha portato un’altra ragazza, e ci ha
detto di prendere un altro mezzo per proseguire. (…) ci ha detto che una
persona avrebbe atteso il nostro arrivo. Arrivate abbiamo chiamato (…) che,
a sua volta, ha contattato un uomo, che si trovava in Libia. Era lui, a quanto
ci ha detto (…), che avrebbe organizzato i nostri spostamenti. Lui ha
contattato un altro uomo che ci è venuto a prendere. Eravamo spaventate di
questo uomo che ci ha fatto dormire in una specie di centro di accoglienza
dove c’erano altre sei ragazze. Anche loro sarebbero dovute partire per
l’Europa. Sempre lo stesso uomo l’indomani mattina ci ha accompagnate da
un altro uomo. Lui con l’automobile ci ha accompagnato alla frontiera col
Niger. Superata la frontiera un altro uomo ancora con un motorino (eravamo
in tre sul mezzo) ci ha accompagnato fino a un villaggio di cui non so il
nome. In questo posto c’erano molte ragazze che erano destinate all’Europa.
Siamo rimaste lì per tre giorni fino a quando ci hanno caricato in un grande
bus. Erano le 11 di sera. In questo veicolo eravamo almeno una cinquantina
di persone, sia uomini che donne. Siamo arrivati ad Agadez alle 9 di mattina.
Io e la mia amica abbiamo iniziato ad aspettare che ci chiamassero per
partire, come facevano con gli altri. Da Agedez ci hanno portato in un camp
dove abbiamo mangiato. La notte siamo partiti per il deserto: un uomo arabo
ci ha caricati all’interno di un Hilux. Erano tre gli Hilux con i quali siamo
partiti. In ogni mezzo c’erano circa 27 persone. C’erano altri arabi, oltre
agli autisti, che ci controllavano. Siamo arrivati a Gatron, in Libia. Un uomo
arabo ci ha minacciato con un fucile dicendo che ci avrebbe uccisi se le
persone che dovevano venire a prenderci non fossero arrivate presto.
L’indomani, noi che eravamo sullo stesso Hilux, siamo stati chiamati da un
altro uomo arabo. Con l’Hilux ci hanno portato in un altro camp dove
c’erano due ragazzi nigeriani. A me e la mia amica hanno chiesto chi ci
aveva fatto venire in Libia e noi abbiamo risposto che era (…). I due ragazzi
nigeriani lo hanno chiamato al telefono. Dopo la telefonata hanno chiamato
un certo (…) che è venuto a prenderci per portarci da una donna nigeriana,
a Saba. Lei è una donna sposata che aiutava le ragazze a incontrare (…).
Questi si trovava vicino al mare dove partono le barche. Siamo state a casa
di (…) tre settimane; poco dopo sono arrivate altre due ragazze, che erano
anche loro in contatto con (…). Un giorno è arrivato un uomo arabo che ci
ha portato in un’altra città e poi da (…). Siamo state trasferite in un camp
dove c’erano altre ragazze, circa 2.000 persone, provenienti da Nigeria,
Gambia, Senegal, ecc. Siamo rimaste in questo camp per quattro mesi.
Quando il tempo era bello partiva una barca; purtroppo vedevamo che i
gommoni non tornavano e ogni tanto delle persone morivano durante la
traversata. La situazione nel campo non era bella: non c’era da mangiare, ci
trattavano male, ogni tanto uccidevano qualcuno, violentavano le ragazze. A
me non hanno mai toccato forse perché vedevano che ero molto giovane. Io,
infatti, ero tra le più giovani del campo. Prima è partita la mia amica, il 30
maggio, poi il 27 giugno sono partita con un gommone: eravamo 175
persone. Era molto pericoloso, abbiamo rischiato di morire. Siamo partite
alle 2 di mattina, ad un certo punto abbiamo attraversato le acque territoriali
della Tunisia. Durante la traversata stavo accanto ad una delle persone che
guidava la barca. Era un uomo del Gambia che aveva un navigatore. Alle 8
ha iniziato a chiamare i soccorritori. Eravamo stremati e non riuscivamo
nemmeno a ripararci dal sole. Alla fine, il gambiano, dato che i soccorsi non
arrivavano nonostante li chiamasse ripetutamente, ha fatto parlare me con i
soccorritori, così che sentissero anche dalla mia voce che stavamo male. A
loro dissi che non avevamo più le forze e, per far accelerare i soccorsi,
raccontai anche che c’erano dei morti anche se non era vero. Sono arrivati
dopo le 15.30; credo che fossero italiani. In tutto il viaggio è durato circa 13
ore. Ci hanno caricato in una grande nave dove ci hanno dato da mangiare;
siamo rimasti lì per tre giorni. Siamo approdati a Lampedusa (era il primo
luglio) dove ci hanno smistato facendoci salire in un bus e tramite una nuova
barca, senza scendere dal bus, ho iniziato il viaggio verso il nord Italia
finché sono arrivata a (…). Intanto l’uomo del Gambia aveva comunicato al
magnaccia che mi ero salvata e nella traversata erano morte (solo!) due
persone. Il giorno dopo ho chiamato mia sorella grazie a un telefono che mi
hanno prestato degli ospiti del campo. Mia sorella mi ha richiamato dicendo
che (…) dalla Germania l’aveva chiamata e già stava minacciando perché
rispettassi la promessa che avevo fatto. Così ho chiamato direttamente (…)
che mi ha detto: «Voglio i miei soldi!». Mi sono accorta che (…) aveva un
numero italiano e allora le ho chiesto perché non ne avesse uno tedesco. Lei
mi ha risposto dicendo che ora era in Italia per venire a prendere me. Ha
aggiunto che mercoledì 5 luglio dovevo uscire dal “camp”. Lei ha inviato
una ragazza, per venire a prendermi. Così, dopo tre giorni di permanenza
nella struttura, sono andata via. Col treno siamo arrivate a (…), a casa di
(…). In realtà dopo ho scoperto che la casa era stata affittata dalla madame.
(…) mi ha spiegato che avrei vissuto con lei in quell’abitazione. Allora le ho
chiesto dove fosse la madame. Mi ha risposto: «Lei non c’è». Dopo due
giorni ho parlato al telefono con (…) e mi sono lamentata perché non ero in
Germania come avevamo concordato. Lei ha detto che dovevo avere
pazienza e andare a “lavorare” come prostituta sulla strada con (…) finché
non sarebbe venuta lei a prendermi per portarmi in Germania. Io le ho detto
che non erano questi i nostri accordi e io non sarei andata a fare quello che
mi chiedeva. Sono rimasta a casa per tre settimane. Lei mi ha chiamato
dicendo che non mi potevo comportare così perché nella casa dove abitavo
bisognava pagare l’affitto, il cibo e poi le dovevo il denaro del viaggio.
Inoltre, mi ha detto che, se non pagavo, la mia vita sarebbe diventata molto
difficile perché, non avendo mantenuto la promessa fatta durante il rito
voodoo, tutto si sarebbe ritorto contro di me: sarei potuta diventare matta e
sarei potuta anche morire all’improvviso! Allora ho iniziato ad andare sulla
strada. Più o meno avevo tre clienti al giorno; guadagnavo circa 20 euro a
cliente. Prendevamo il treno alle ore 20 per giungere alla stazione di (…) e
arrivavamo nel luogo dove ci prostituivamo dopo 40-45 minuti di cammino.
Tornavo a casa verso mezzanotte. Quando c’era la madame a casa tornavo
alle 3 di mattina. Se non riuscivo a trovare un passaggio restavo in stazione
fino alle 6 di mattina prima di riuscire a tornare a casa. In strada c’erano
numerose ragazze che si prostituivano e così guadagnavo poco. Ciò
nonostante la madame continuava a dirmi che dovevo stare sulla strada e
guadagnare più che potevo. L’altra ragazza, invece, stava sulla strada da
molto più tempo di me (sei anni), i clienti la conoscevano e allora andavano
poco da lei. C’erano sere che aveva solo uno o due clienti. Io, invece, ero
nuova e pertanto più persone si avvicinavano a me. Sono stata sulla strada
per una settimana, ma non ce la facevo a continuare con quella vita terribile
e così ho deciso di non tornarci più. Allora è venuta a parlare con me
direttamente la madame dicendo che non era contenta di me. Per non farmi
scappare hanno iniziato a chiudermi dentro casa a chiave. Ero al quarto
piano e non potevo scappare. Inoltre, ha aggiunto che lei non era la mia
madame, ma sua figlia maggiore. Non ricordo il suo nome perché aveva un
nome dialettale e molto lungo. Due settimane dopo è venuta a parlarmi: ha
confermato di essere lei la mia madame; ha aggiunto che prima iniziavo a
pagarla, prima mi avrebbe portata in Germania a lavorare nell’hotel che mi
aveva promesso. Allora lei mi ha detto che se continuavo a prostituirmi mi
avrebbe fatto uno sconto di 5.000 euro, dato che mi avevano portato in Italia
e non in Germania. Non sapevo cosa fare e allora ho continuato ad andare
sulla strada per altri tre mesi. In questo periodo ho guadagnato circa 700
euro. Volevo spedire del denaro per aiutare la mia famiglia, ma la madame
non era d’accordo perché avevo guadagnato poco. Per accontentarmi hanno
mandato 50 euro alla mia famiglia. Sulla strada una ragazza mi ha
consigliato di tenere qualche soldo per me e di non dare tutto alla madame.
Allora sono riuscita a racimolare 150 euro che ho inviato a mia sorella. La
madame non si fidava più di me perché ha iniziato a capire che trattenevo
qualcosa. Guadagnavo tra i 50 e i 100 euro al giorno. I soldi che consegnavo
alla madame non servivano solo a rifondere il mio debito ma anche a pagare
il vitto, l’alloggio e i vestiti. Una volta mi hanno accompagnato al negozio
per comprare degli abiti. Piangevo sempre e non ce la facevo più. Sulla
strada ho incontrato don Aldo, al quale ho raccontato la mia storia. Mi ha
chiesto di lasciare la strada che mi avrebbe aiutato. Avevo paura e non sono
andata, mi ha lasciato il suo cellulare. Un giorno sono arrivate due signore
che si sono offerte di aiutarmi; mi hanno detto che ero troppo piccola per
stare sulla strada. Io ho risposto loro che non avevo nessuno e non sapevo
come fare. La madame ha visto che portavo al collo una corona del rosario
che mi aveva regalato don Aldo e si è infuriata con me. Mi sorvegliava
perché temeva che potessi scappare. E così ho fatto. Un giorno, dopo
l’ennesima sfuriata della madame che cercava sempre più soldi ho preso
coraggio per chiedere aiuto al sacerdote. Don Aldo mi ha tranquillizzata e
mi ha detto di arrivare alla stazione, lì avrei trovato una volontaria che mi
avrebbe accompagnata nella sua struttura.
Maria Elena
Mi chiamo Maria Elena, sono nata in Brasile il 12.03.97, abitavo con la
nonna paterna e mio padre. I miei genitori sono separati, ho anche un
fratello più piccolo e una sorella più grande. All’età di quattro anni sono
stata affidata a mio padre ed ho sempre vissuto con lui. A 15 anni uscendo
dalla scuola ho incontrato un uomo italiano di circa 65 anni che lavorava
alla (…) e veniva in vacanza in Brasile molto spesso, almeno ogni due mesi.
Ogni volta che veniva io stavo con lui, che essendo benestante mi riempiva di
regali lussuosi. Mio padre, accortosi di tutti questi regali si è insospettito, e
un giorno mi ha seguita mentre andavo a scuola, scoprendo la mia relazione
con quest’uomo più grande di me e cercando di impedirmi di vederlo. Un
giorno ho espresso a (…) la mia volontà di andare via di casa per poter
continuare a stare con lui, ma siccome non poteva portarmi in Italia, mi ha
intestato un appartamento nel mio paese. Sono andata a vivere in questa
casa, dove veniva a stare anche lui ogni volta che era in Brasile. Ho
frequentato la scuola e mensilmente (…) mi accreditava denaro su una carta
di credito a me intestata. Nel frattempo, ho conosciuto un ragazzo più o meno
della mia età del quale mi sono innamorata e che sapeva della mia relazione
con (…) e gli stava bene anche perché approfittava dei vantaggi che dava la
mia posizione economica, visto che con me frequentava ristoranti costosi e
insieme ci divertivamo. Questo ragazzo stava a casa con me quando (…) era
in Italia. Quando mi sono stancata di questa situazione, perché innamorata
del ragazzo, ho deciso di troncare la mia relazione con (…), il ragazzo si è
arrabbiato moltissimo perché non avremmo avuto più i soldi, così ha
cominciato a portarmi in una discoteca dove ho scoperto che lui aveva
avviato un traffico di prostituzione, agganciava i turisti italiani e offriva loro
la compagnia di alcune ragazze e poi ne prendeva i compensi. Dapprima mi
sono ribellata, ma lui mi costringeva a prostituirmi picchiandomi e
dicendomi che lo faceva per il nostro bene. Una volta l’ho anche denunciato
alla polizia e appena tornata a casa mi ha ferito alla testa e mi ha rotto un
braccio. Per circa due mesi, mi ha venduta ad un cliente fisso, italiano, fino a
quando io esasperata dalla mia condizione mi sono rivolta ad una mia cara
amica che ha più o meno la mia età, le ho chiesto aiuto dicendole che volevo
fuggire in Italia, lei mi ha messa in contatto con una sua conoscenza, un
ragazzo italiano che si è offerto di scrivere una lettera di invito in Italia che
potesse giustificare la mia partenza e potesse farmi avere il visto turistico.
Questo ragazzo ha immediatamente chiarito che però, una volta in Italia, io
non avrei dovuto più fare riferimento a lui. Pertanto, la mia amica mi mette
in contatto con sua cugina, sposata con un uomo italiano, residente in Italia
e che lavora in un agriturismo; quest’ultima accetta di darmi un alloggio una
volta in Italia. Parto per l’Italia, arrivo a Roma dove mi accoglie (…) che mi
lascia a casa sua per una notte e mi accompagna la mattina dopo, alla
stazione, aiutandomi a partire per (…). In quella città sono rimasta da
maggio a novembre, lavorando come cameriera, senza contratto, nello stesso
agriturismo. La mia amica, mi riferisce di essere stata costretta con la
violenza a dichiarare al ragazzo del mio paese che mi trovavo in Italia. Lei,
vista la gravità della situazione, mi consiglia di rivolgermi al centro anti-
violenza di (…) e lì, dopo aver raccontato la mia storia, mi aiutano
mettendomi in contatto con la Comunità Papa Giovanni XXIII dove tuttora
sono accolta. L’Associazione per me rappresenta l’unica possibilità per
ricominciare una nuova vita, che nel mio paese d’origine sarebbe messa a
grave rischio a causa della presenza del succitato (…) che continuerebbe a
farmi violenza costringendomi nuovamente a prostituirmi. Non potendo
tornare nel mio paese l’ottenimento di un permesso di soggiorno, seguendo
un programma di integrazione sociale con l’Associazione Papa Giovanni
XXIII, mi permetterebbe di costruire un futuro e condurre una vita dignitosa
in Italia.
Giulia
Mi chiamo Giulia. Sono nata a Benin City (in Edo State, Nigeria).
Provengo da una famiglia povera composta da padre, madre e sei figli. In
Nigeria ho studiato fino all’età di 17 anni. Un giorno una mia amica, mi ha
chiesto di aiutarla a cercare la sorella di cui non aveva più notizie in
Europa. Mi ha presentato un amico del suo fidanzato che organizzava viaggi
in Europa e mi ha detto che lì avrei potuto trovare un lavoro come badante o
addetta alle pulizie. Ho accettato la sua offerta. La prima cosa che ho dovuto
fare, prima di partire, è stato il giuramento tradizionale (Oath) che
consisteva nel bere una soluzione composta anche da peli e liquidi organici
del mio corpo. Il giuramento era guidato da una persona specializzata e
consisteva nel promettere di non fuggire e di non parlare con la polizia. Se
non avessi mantenuto le promesse mi hanno detto che sarei diventata matta e
che la mia famiglia sarebbe stata colpita da sciagure. Io non credevo a
questo rito ma comunque ho accettato di sottopormi ad esso.
Successivamente sono stata portata in una grande casa dove ho incontrato
altre persone come me pronte per partire. Mi sono stati dati subito due
numeri di telefono, uno libico che avrei dovuto contattare una volta
raggiunta la Libia, e uno italiano che avrei dovuto chiamare giunta in Italia.
Quando sono arrivata in Italia ho scoperto che lei era la mia madame. Il
viaggio era tutto organizzato, non ho avuto bisogno di soldi. Siamo partiti
dalla Nigeria con un autobus contenente trenta persone, successivamente
abbiamo attraversato il deserto con un “Hilux” caricato con cento persone
circa, stavamo molto stretti. Durante il viaggio sono stata più volte picchiata
e ho subito violenza da cinque uomini. Quando sono giunta in Libia, (…)
(che ho scoperto essere il fidanzato della madame) ha detto: «Come sta la
mia shoe (scarpa)?» intendendo dire «come sta la mia ragazza?». A quel
punto mi è sembrato di capire che “shoe” era il nome in codice con cui
indicavano noi ragazze. Siamo partiti per l’Italia con un barcone sbarcando
a Lampedusa il 5 aprile 2015. Da Lampedusa siamo stati trasferiti a (…). Lì
ci siamo ritrovate quattro ragazze, ognuna faceva riferimento a una madame
diversa. Ho chiamato la mia che mi ha detto di dirigermi verso la stazione e
poi avrebbe mandato una donna a prendermi. La madame mi ha detto che a
breve avrei iniziato a lavorare. Ero molto felice di poter iniziare a
guadagnare un po’ di denaro per me e la mia famiglia. Dopo alcuni giorni,
durante i quali siamo state ospitate da alcuni amici della madame, un uomo
ci ha portato a (…). Ci ha portato in mezzo alla strada e ci ha mostrato un
profilattico dicendo che il lavoro che dovevamo fare era prostituirci. Io ho
iniziato a piangere ero disperata e ho ripensato a tutto quello che avevo
sofferto e rischiato per arrivare in Italia e trovare quello che credevo fosse
un lavoro pulito e onesto. Lui mi ha detto che non c’era altro lavoro che
avrei potuto fare in questo Paese e mi ha ricordato anche la promessa che
avevo fatto in Nigeria. Così ho iniziato a prostituirmi. Abitavo in un
appartamento, la madame mi minacciava dicendo che se non lavoravo mi
avrebbe picchiato. Inoltre, affermava che mi avrebbe venduto a un’altra
madame non appena io avessi finito di pagare il mio debito. Un giorno la
madame mi ha presentato un avvocato dicendo che dovevo richiedere asilo
politico e intimandomi di non dire alla commissione cosa facevo veramente
altrimenti mi avrebbe ucciso. Poi il fidanzato della madame mi ha
comunicato che lei era stata arrestata. Allora mi ha fatto andare a (…) per
parlare con un avvocato e mi ha fatto trasferire in un altro appartamento,
sempre nella stessa città. Ma io non ce la facevo più a fare quella vita. Così,
con l’aiuto di alcuni uomini italiani che mi hanno presentato delle
associazioni che aiutano le ragazze con i miei stessi problemi, tra cui l’unità
di strada della Papa Giovanni XXIII, sono riuscita a scappare. Era il 20
luglio 2016. Successivamente, il 5 agosto 2016, sono entrata nella Struttura
di Pronta Accoglienza di don Aldo.
Angela
Angela ha la famiglia d’origine albanese composta dal padre, di anni 53,
dalla madre, di anni 48, da tre fratelli, di 29, 26 e 20 anni, da una sorella, di
anni 25. I due fratelli maggiori sono entrambi sposati, mentre l’ultimo vive
ancora con i genitori. La sorella vive a Roma, si è separata da un albanese e
successivamente si è sposata con un uomo di origine pakistana, con cui ha
avuto due figli e con cui ha successivamente interrotto la relazione. Il
secondo marito della sorella è rientrato in patria con il primo bambino, di 3
anni. Descrive suo padre come un uomo maltrattante, molto violento e con
problemi connessi all’abuso di alcolici, mentre sua madre come una donna
sottomessa. Quando Angela ha appena 14 anni, viene organizzato un
matrimonio concordato con un conoscente del cognato. Nel momento in cui
la donna prova ad opporsi, suo padre la percuote e la obbliga a contrarre
questo matrimonio dopo una settimana. All’età di 15 anni rimane incinta del
primo figlio, con suo marito concepisce tre figli. Dichiara che suo marito la
percuote abitualmente e abusa di sostanze alcoliche. Molto spesso la
costringe a prostituirsi con gli amici per pagare i debiti del gioco e le impone
di assumere sostanze stupefacenti. Afferma che il marito rincasa spesso in
uno stato di ebbrezza e la picchia violentemente, anche quando si trova in
stato interessante. In varie occasioni chiede aiuto alla sua famiglia d’origine
per uscire dalla situazione di maltrattamento, ma le viene sempre negato,
ritenendo che le violenze subite facciano parte di una vita normale e
privandola di qualsiasi sostegno. All’età di 17 anni, per la prima volta,
chiede ospitalità presso un centro di accoglienza per nuclei monoparentali.
Racconta che nei successivi anni, si rivolge a questa comunità e ad un’altra,
per sfuggire dai maltrattamenti, rivolti a lei e ai suoi figli. In tali strutture
soggiorna con i suoi bambini per alcuni mesi in varie occasioni: inizia e
interrompe il programma più volte. Si instaura il “ciclo del maltrattamento”,
per cui spesso rientra a casa dal marito in seguito a promesse di
cambiamento e innumerevoli richieste di perdono, ma dopo la fase di “luna
di miele”, le violenze ritornano con un’intensità sempre maggiore. Circa tre
anni fa, in attesa del quarto figlio, racconta di essersi recata più volte presso
il pronto soccorso per le percosse subite. Nell’ottobre del 2009, in un
ulteriore episodio, suo marito la percuote al di fuori di un ospedale dove era
ricoverato il suo terzo figlio. Afferma che i medici testimoni delle violenze la
conducono al pronto soccorso, dove trascorre la notte, e il giorno seguente
l’accompagnano presso le Forze dell’Ordine al fine di sporgere denuncia nei
confronti del marito. Stanca per i continui maltrattamenti, sporge denuncia
nei confronti di suo marito presso le Forze dell’Ordine. Quest’ultimo viene
detenuto presso l’Istituto Penitenziario. In seguito all’ennesimo rigetto di un
aiuto da parte della famiglia, chiede sostegno a un parroco, responsabile di
una comunità per minori, per aiutarla nella ricerca di un lavoro e
nell’accoglienza dei bambini. Il Responsabile si rende disponibile ad aiutare
lei e i suoi bambini, offrendo loro ospitalità e permettendole di svolgere
un’attività lavorativa, presso una ditta delle pulizie. Nel frattempo, consulta
un avvocato per mandare avanti le procedure legali relative alla separazione
e il giudice dei Tribunali per Minorenni per richiedere e sostenerla
nell’accoglienza temporanea dei suoi figli presso quest’ultimo istituto per
minori. A dicembre il marito viene rilasciato dall’Istituto Penitenziario e
chiede consulenza a un avvocato per riuscire ad ottenere l’affidamento dei
bambini. Probabilmente per le migliori condizioni economiche e per una
maggiore stabilità abitativa, il Giudice del Tribunale dei Minorenni, affida
tutti e quattro i figli al padre. Angela, resasi conto delle poche possibilità e
prospettive di vita per il futuro dei suoi bambini, accetta e firma il consenso
per l’affido al padre. Attualmente, da circa un anno, risiedono con
quest’ultimo e la nonna paterna presso l’abitazione della famiglia di origine
del marito. Angela preoccupata per il suo futuro, avendo perso il lavoro
presso una ditta di pulizie, accetta la proposta di sua sorella di raggiungerla
in Italia per fornirle un aiuto, essendo quest’ultima in stato interessante e
avendo delle difficoltà nel gestire il figlio più piccolo. Angela parte per
l’Italia, soggiorna per circa un mese presso l’abitazione della sorella,
condividendo la casa con il marito di quest’ultima, di origine pakistana e con
il loro figlio. A fine agosto del 2010, dai racconti della donna, la sorella la
vende a due albanesi. I due la conducono nei dintorni della città di (…) e la
obbligano a esercitare l’attività di meretricio in strada. Lavora dalle 22 fino
alle 2 del mattino tutti i giorni. Afferma di venire sempre accompagnata e
controllata sul posto di lavoro da (…) e di impiegare circa due ore di viaggio
in macchina per raggiungere la strada in cui si prostituisce. Nei dintorni del
posto di lavoro si trova un hotel, un benzinaio, una chiesa piccola e una
stazione dei carabinieri, ma di non ricordarsi il nome della strada. Vive con i
due albanesi e con una ragazza russa, che pare fosse sotto il controllo di
(…). I due albanesi esercitano violenza sulla donna, picchiandola
continuamente e sottoponendola a minacce. Esausta per le esperienze
vissute, Angela decide di affidarsi e di accettare l’aiuto di un cliente italiano.
Lo stesso convince la donna prospettandole una fuoriuscita dalla condizione
di sfruttamento e dalle violenze continuamente subite. L’uomo conduce
Angela presso la sua abitazione. La donna dichiara di non ricordarsi
l’indirizzo esatto, ma di essere in grado di riconoscere l’abitazione. Afferma
che la casa si trova nelle prossimità dell’ospedale, di una piazza, di due
stazioni di servizio e di essere all’interno di un palazzo vecchio con un
portone grigio. Una volta trasferitasi, l’uomo la obbliga a prostituirsi presso
la sua abitazione, agendo violenza e percuotendola con un’intensità
superiore rispetto a quella dei due albanesi. Con tale uomo, Angela dichiara
di vivere in stato di reclusione senza la possibilità di uscire da sola e senza
poter avere dei contatti con l’esterno. I clienti sono tutti di origine italiana,
tranne un rumeno, Angela dichiara di aver soggiornato, prostituendosi,
presso l’abitazione dell’uomo rumeno sita a (…) per circa due settimane;
l’uomo era in accordo con (…), che avrebbe ricevuto la somma di 2.000
euro. Il denaro viene sempre ricevuto da parte di (…). Dalle dichiarazioni
della donna, l’uomo avrebbe vari precedenti penali: è stato detenuto per
circa tre anni, compie furti di automobili e spaccia sostanze stupefacenti. Lei
sospetta che (…) sfrutti anche altre donne, viste presso la sua abitazione.
Angela dopo aver litigato con il padre di (…), scappa dall’abitazione di
quest’ultimo, in cui soggiornava da circa una settimana. La donna dichiara
di aver soggiornato presso questa abitazione più volte. Giunge presso la
stazione dei carabinieri dove chiede aiuto e protezione, questi contattano don
Aldo che la accoglie presso la sua struttura di pronta accoglienza per
aiutarla e iniziare un programma di protezione.
Anita
Mi chiamo Anita sono nata in Nigeria. In famiglia, oltre me, eravamo mio
padre, mia madre, mia sorella e i miei quattro fratelli. All’età di un anno e
mezzo, mia madre ha lasciato mio padre, ed è partita con me e i miei fratelli
alla volta di Benin City. Mia madre si è sposata con un altro uomo. All’età di
18 anni sono partita per Lagos al fine di cercare un lavoro e aiutare così la
mia famiglia che era estremamente povera. All’età di 20 anni mi sono
innamorata e sono rimasta incinta di un uomo. Lui, appena ha saputo che
ero in stato interessante, mi ha abbandonato. Così sono ritornata dalla mia
famiglia a Benin City. Mia madre lavorava presso una fattoria come
bracciante agricola e io l’ho un po’ aiutata in questa sua attività fino alla
nascita del mio bambino. Quando ha compiuto due anni ho deciso di lasciare
nuovamente casa per trovare lavoro. Sono andata in un’altra zona di Benin
City lasciando mio figlio in casa con mia madre. Ho trovato lavoro in un
ristorante come lavapiatti. Ma la paga era troppo misera così non ho potuto
continuare questa attività. Una mia amica, mi ha detto che sua sorella
aiutava le persone ha trovare un lavoro in Italia. Con (…) sono andata a
parlare con la sorella che si è offerta di occuparsi delle pratiche per il
viaggio. Così, il 7 aprile 2015, sono partita dalla Nigeria. Da Benin sono
andata ad Abuja, Kaduna e poi altri luoghi di cui non ricordo il nome. Ogni
tanto cambiavamo gruppo. I gruppi erano composti da circa 15 persone, sia
uomini che donne, tutti giovani. Dopo circa un mese siamo arrivati in Libia.
Un uomo, di cui non ricordo il nome, a quel punto, ha telefonato a (…)
chiedendo altri soldi per permettermi di attraversare il mare. Abbiamo
attraversato il deserto e poi siamo arrivati sulla costa per imbarcarci.
Eravamo circa 110 persone, delle quali alcune non mi perdevano di vista. Ad
agosto del 2015 siamo arrivati in Italia, a Lampedusa. Da Lampedusa siamo
andati in Sicilia. Non conoscevo nessuna parola di italiano e quindi non ho
compreso cosa stessero progettando sul mio conto. Poi sono stata
accompagnata in treno fino a (…), dove sono stata presentata ad una donna
africana che mi ha obbligato a scendere in strada per prostituirmi dicendo
che con il ricavato avrei ripagato il viaggio. Io non volevo, ma non avevo
altra scelta e quindi sono stata costretta a prostituirmi. Consegnavo il
denaro alla madame che non era mai abbastanza e ogni volta venivo
picchiata e lasciata senza cibo. Non volevo fare quella vita e quindi un
giorno sono scappata. Impaurita e spaventata sono andata in un posto che mi
sembra si chiamasse (…) in cerca di qualcuno che mi potesse aiutare. I
carabinieri mi hanno fermato e mi hanno portata in caserma dove sono stata
affidata a don Aldo e agli operatori della Comunità Papa Giovanni XXIII che
mi hanno accolto in una loro struttura protetta.
Ester
Mi chiamo Ester, sono nata in Nigeria e sono di etnia Edo. Provengo da
un piccolo villaggio vicino Benin City dove vivevo con la mia famiglia. A
causa dei gravi problemi economici familiari ho potuto frequentare solo la
scuola elementare. Un periodo, inoltre, ho lavorato come parrucchiera. Nel
2013 ho conosciuto un uomo che mi ha proposto di emigrare in Italia
garantendomi un lavoro come parrucchiera. Sono partita in autobus da
Benin City per Lagos con un uomo del Togo. Dopo un viaggio in macchina di
un giorno e una notte siamo arrivati in Togo. Lì sono rimasta per due mesi
circa aspettando di partire per l’Italia. Ero con altre quattro donne
nigeriane. Ci siamo imbarcati su un aereo diretto in Francia, poi in treno
fino a (…). Ho visto che mi avevano fatto un passaporto falso. A (…) mi
hanno buttato sulla strada dicendomi che non potevo fare altro che
prostituirmi se volevo pagare il debito di 65.000 euro che avevo contratto per
il viaggio in Italia. Vivevo in un appartamento con la mia madame. Lei mi ha
ordinato anche di fare richiesta di asilo politico in questura inventando per
me una storia che avrei dovuto consegnare all’ufficio immigrazione. In
seguito, sono tornata altre volte in questura per cercare di ottenere i
documenti, sempre seguendo gli ordini della madame. Mi sono prostituita a
(…) per un anno e mezzo circa. Nel primo periodo mi accompagnava in
strada una ragazza nigeriana di nome (…), venuta appositamente per
insegnarmi il comportamento da tenere coi clienti. Lei mi portava nel luogo
dove dovevo prostituirmi e poi andava da un’altra parte. Utilizzavamo
l’autobus e stavo sulla strada dalle ore 20 alle una o due di notte chiedendo
un passaggio per tornare a casa. In quel periodo abitavo in una stanza,
l’appartamento era costituito da due camere. Dopo circa tre mesi mi hanno
trasferito in un nuovo appartamento dove viveva una famiglia nigeriana
composta da marito, moglie e tre figli. Ogni settimana (…) veniva sul bus o
alla fermata per riscuotere quanto avevo guadagnato sulla strada, in genere
una somma compresa tra i 200 e i 400 euro. In tutto alla mia madame ho
dato circa 30.000 euro, ma lei non era contenta perché guadagnavo troppo
poco. Così mi ha spostato nella zona industriale dove mi sono prostituita per
tre anni. Un giorno due uomini, un marocchino e un rumeno, mi hanno
picchiato con tale violenza che sono stata ricoverata in ospedale. Sono stata
molto male e questa ulteriore prova mi ha convinto a fuggire e cambiare vita.
Per un mese sono stata ospite di una connazionale mia amica. In questa città
ho conosciuto il mio fidanzato che è anche il padre di mio figlio.
Successivamente ho chiesto aiuto ai volontari dell’unità di strada
dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Considerata la vicinanza
coi miei sfruttatori era pericoloso per me restare in quella zona, pertanto
l’Associazione ha ritenuto opportuno trasferirmi in una loro struttura
protetta dove ho incontrato mamma Marina che mi ha cambiato la vita.
Olga
Mi chiamo Olga, sono nata in Moldavia, e insieme ad altre tre mie amiche
abbiamo contattato telefonicamente un’agenzia di cui non ricordo il nome
per cercare lavoro. Al telefono rispondeva una donna che ci informava che si
trattava di un lavoro di ballerina in Italia e pertanto ci metteva al corrente
che dovevamo frequentare un corso presso una scuola di ballo. Questa
donna si chiama (…) ed è lei che ci ha insegnato a ballare. Preciso che per
un mese la donna aveva affittato i locali della suddetta palestra dove
andavamo solo noi per imparare a ballare. Il nome delle tre mie amiche è:
(…), (…) ed (…), queste ultime sono sorelle e sono tutte della mia città.
Preciso che a un certo punto la donna ci ha detto che lei andava in Italia ove
avrebbe atteso il nostro arrivo ed intanto ci affidava a tale (…) di cui non
conosco altri dati. Aggiungo inoltre che la donna appena ci ha conosciuto ha
voluto i nostri passaporti e ha pensato lei a tutte le spese per venire in Italia.
Il 9 luglio su invito di (…) io e le mie amiche ci portavamo presso
l’Ambasciata Italiana, la incontravamo lì davanti e questa ci consegnava i
passaporti che in precedenza ci aveva preso la donna, per poter fare il visto
per l’Italia. I passaporti ci venivano riconsegnati all’aeroporto, il 18 luglio
al momento della partenza da una giovane che non conosco che è partita con
noi per l’Italia. Preciso che siamo partite in un gruppo di 9 ragazze e ad
attenderci all’aeroporto di Roma vi era la (…). Quest’ultima ha
accompagnato me, le tre mie amiche di cui sopra e un’altra giovane a bordo
di un pulmino bianco presso un hotel di (…), il pulmino era condotto da un
uomo di circa 40-45 anni sicuramente italiano che sono in grado di
riconoscere. Preciso che lo stesso uomo successivamente ci accompagnava a
lavorare presso il Night Club ubicato in (…) e così lo descrivo: alto, grosso,
capelli corti lisci e scuri, carnagione chiara. Le altre quattro giovani che
sono venute con noi sono state invece portate via da un altro pulmino bianco,
una di loro l’hanno fatta scendere con noi, le altre ho sentito dire che le
avrebbero condotte vicino alla città in cui eravamo. Giungevamo all’hotel
suddetto nel tardo pomeriggio sempre del giorno 18 luglio e una volta qui
giunte la donna, ci diceva che avremmo dovuto lavorare presso un nuovo
CLUB iniziando la sera del 20 luglio successivo. Noi avevamo paura di non
saper ballare bene perciò chiedevamo alla donna di farci fare delle prove
prima di iniziare. L’ultima volta che abbiamo visto la donna è stata nella
giornata del 20 luglio all’interno del Night Club dove venivamo
accompagnate io e le mie tre amiche sopra citate dal solito autista a bordo
del solito pulmino. Nel Night trovavamo la donna che ci faceva vedere come
dovevamo ballare ed era insieme ad altre tre ragazze. Così la descrivo, età
circa 29 anni, altezza media, corporatura normale, capelli tinti di colore
castano media lunghezza, occhi chiari, carnagione chiara. Quello stesso
giorno insieme a lei ad attenderci nel Club vi era il padrone dello stesso che
so’ chiamarsi (…) ed era lui il “CAPO” e subito ci diceva che a lui non
interessava che noi ballassimo ma voleva che intrattenessimo i clienti,
praticamente voleva che noi facessimo tutto quello che il cliente ci
richiedeva, anche il rapporto sessuale e quest’ultimo doveva dare i soldi
delle nostre prestazioni direttamente alla cassa del Night Club. Io per due
settimane ho lavorato ma mi sono sempre rifiutata di avere rapporti sessuali,
lui prendeva tutti i soldi delle mie consumazioni dicendo che per sei mesi
dovevamo lavorare lì per lui senza pretendere nulla perché lui ci aveva
pagato il viaggio e le spese. Le prime due settimane essendo nuova i clienti
pur non ottenendo da me i rapporti sessuali mi richiedevano ugualmente per
le consumazioni ma lui mi diceva che ormai dovevo sottostare anche alle
loro richieste sessuali. Precisamente diceva che dovevo avere i rapporti
sessuali fuori dal locale ma il cliente prima di uscire avrebbe dovuto pagare
alla cassa il prezzo delle mie prestazioni. (…) più volte ci minacciava
ripetendoci che non avevamo scelta e che dovevamo fare quello che voleva e
diceva lui sottolineando che lavoravo male proprio perché non volevo
prostituirmi. Sabato 11 agosto le mie amiche, le due sorelle, sono scappate
per cercare di tornare a casa. Quando (…) l’ha saputo si è arrabbiato tanto
e ci ha detto che adesso avremmo dovuto lavorare anche per pagare le spese
che aveva avuto per le altre due. Io ed (…) eravamo tanto spaventate anche
perché avevamo capito che non potevamo più sottrarci alla volontà di (…) di
dover soddisfare tutte le voglie dei clienti, in particolare quelle sessuali
perciò decidevamo di scappare, cosa che facevamo lunedì 13 agosto. In
precedenza, girellando per (…) avevamo conosciuto un ragazzo di nome (…)
che non sapeva neanche che noi lavorassimo al Night e spaventate gli
abbiamo raccontato cosa ci stava succedendo, questo ci consigliava di
scappare e di rivolgerci alla Caritas. Noi abbiamo seguito il suo consiglio ed
una volta riuscite a scappare ci ha accompagnato lui stesso alla Caritas.
Aggiungo che abbiamo lasciato tutte le nostre cose nell’albergo perché
sapevamo che nell’hotel venivamo controllate da personale che lavora lì per
conto del padrone del Night. Preciso che il 16 agosto io e la mia amica ci
portavamo alla questura per denunciare i fatti di cui sopra ma ci
ripensavamo perché entrambe avevamo molta paura che qualcuno potesse
far del male alle nostre famiglie. Ricordo che mentre uscivamo dalla
questura unitamente alla mia amica a bordo di un pulmino della Caritas
vedevamo entrare il padrone del Night Club, quello che ci voleva far
prostituire, noi ci siamo spaventate molto e ci siamo nascoste ma ho paura
che lui ci abbia comunque viste. Questo fatto l’abbiamo subito raccontato ad
una donna della Caritas che era con noi nel pulmino. La signora contatta
telefonicamente il sacerdote don Aldo e successivamente vengo trasferita
nella sua struttura di pronta accoglienza.
Osas
Osas è nata a Benin city, Edo State, in Nigeria. Ha i genitori, tre fratelli e
una sorella, più piccoli di lei, non è mai andata a scuola. La madame
conosceva la famiglia di Osas e la loro situazione di povertà, ne ha
approfittato convincendola a trasferirsi in Italia, raccontandole che sarebbe
stato facile per lei inserirla in uno dei suoi saloni di parrucchiera. Le diceva
che l’avrebbe assunta regolarmente con un contratto e che avrebbe
provveduto a farle ottenere il permesso di soggiorno. La madre si fidava
molto di lei, così incoraggia Osas a partire. Nel mese di marzo si presenta un
uomo a prenderla; in pullman raggiungono la Costa D’Avorio e lì si fermano
temporaneamente in una struttura dove ci sono molte altre ragazze di
villaggi diversi, tra di loro non possono parlarsi, le dicono solo che ciascuna
di loro si recherà in Europa per motivi e luoghi diversi. La madame si
occupa nel frattempo di procurale un passaporto falso che paga
accordandosi con Osas che, quando avrebbe iniziato a lavorare, le avrebbe
restituito tutto così come anche i soldi per il viaggio. Il passaporto e gli altri
documenti li ha sempre tenuti in custodia (…), anche al momento
dell’imbarco all’aeroporto. Parte in aereo da Lagos atterrando in Italia, (…)
scompare e al suo posto subentra un altro uomo, dopo una notte in un
albergo di cui non ricorda il nome, il giorno seguente in treno si spostano a
(…), arrivano in un appartamento dove vive la sorella della madame, che lei
chiamerà semplicemente sister, di cui lui è il compagno. Lì resta segregata,
controllata a vista, privata dei documenti e della possibilità di comunicare
con chiunque in Italia e nel suo paese. La madame e la sorella dicono a Osas
che dovrà prostituirsi in strada, lei è sconvolta, vuole ritornare in Africa,
racconta loro di non essere mai stata con un uomo sperando di avere
comprensione, ma loro non vogliono sentire ragioni, la picchiano, presa
dalla paura cerca di scappare dall’appartamento, la raggiungono e la
chiudono in una stanza dove per molto tempo (…) abusa duramente di lei,
con violenza e percosse ripetute. La madame e sua sorella le praticano il rito
voodoo, col quale la minacciano di maledizioni e morte per lei e la sua
famiglia se si fosse rifiutata di prostituirsi. Una sera le procurano dei vestiti
succinti e la conducono in strada insieme a (…) che la controlla a distanza.
Le lasciano un cellulare col quale la chiamano continuamente. La sister
rimane in strada con lei per controllare che salga in macchina con i clienti e
per prenderle i soldi al suo rientro. Dopo qualche tempo la accompagnava
solo lui che continuava ad approfittare di lei. Ogni mese doveva anche
pagare 300€ per l’affitto; ogni settimana invece 10€ per il cibo che però non
riusciva quasi mai a consumare. Per dormire le era stato dato un semplice
materasso posto sul pavimento. Una sera è uscita per andare a lavorare e ha
chiesto aiuto ad un uomo che già conosceva, facendosi accompagnare in
stazione, dove prende il primo treno che trova arrivando a (...). In stazione
ha conosciuto una signora nigeriana, che le ha offerto ospitalità nel suo
appartamento; la donna era una ex prostituta, che successivamente aveva
trovato lavoro in una fabbrica. Viveva in una camera che dividerà poi con
Osas, in un appartamento in affitto; le altre due camere erano affittate ad
altre persone (due uomini e una donna). La donna chiede a Osas di dividere
con lei le spese dell’affitto e si offre di aiutarla a trovare un posto nella
fabbrica in cui lavora, ma non avendo i documenti non può far niente. Le
consiglia di finire di pagare il debito con la madame per non aver problemi.
Osas è costretta a richiamare la madame per paura delle ripercussioni che la
sua fuga possa avere su lei e sulla famiglia in Nigeria. Infatti,
periodicamente la madame rientrava in Nigeria e con aggressività
minacciava i familiari di Osas, a volte anche con percosse e diceva loro che
Osas sarebbe morta in Italia se non avesse pagato quanto le doveva. Osas
allora le assicura che la continuerà a pagare finché non salderà il suo
debito. Le paga circa 800/1000 euro al mese. Lei, in effetti, non ha mai
saputo a quanto ammontasse il debito, ogni volta che chiedeva alla madame
quanto le mancasse per saldare, lei rispondeva che le doveva ancora
moltissimo. Viene presa dalla polizia durante un controllo, viene foto
segnalata e poi rilasciata. Poi la polizia va nell’appartamento in cui Osas
abitava per una perquisizione, in quel momento nell’abitazione si trovava
soltanto lei. Gli agenti hanno un mandato di perquisizione e trovano nella
stanza dei due uomini un discreto quantitativo di cocaina. Viene trattenuta in
carcere, nel frattempo seguono varie udienze, le assegnano un difensore
d’ufficio che riesce ad ottenere per lei gli arresti domiciliari. Si trasferisce in
un appartamento da amici per qualche mese ma poi ritorna a (…). Durante il
periodo in cui Osas è in difficoltà la madame non la cerca, ma non appena
finiscono i problemi giudiziari riprende a chiamarla nuovamente, come se
qualcuno la tenesse aggiornata. Le chiede ancora soldi e minaccia
fortemente di fare del male alla sua famiglia, Osas si accorda per poterle
consegnare il poco che riesce a recuperare trovandosi di nuovo costretta a
prostituirsi, ha ricominciato a pagare con la modalità di consegnare
mensilmente alla sister i soldi che prendeva. Ha consegnato alla sister circa
38.000 euro del debito, eppure le dicevano che questo non si era ancora
estinto. Da dicembre non è più riuscita ad avere una dimora fissa, era
sempre ospite di qualche ragazza che aveva conosciuto e si offriva di
ospitarla. Tenta anche di trovare lavoro in Svizzera ma senza risultati. Non
volendo ritornare sulla strada, prova a vendere prodotti davanti ai
supermercati, ad aiutare le persone con i carrelli e persino a chiedere
l’elemosina, cambia numero di telefono. A marzo la madame riprende a
cercarla con insistenza, anche la famiglia dalla Nigeria la cerca preoccupata
per le minacce che lei continua a rivolgerli ogni volta che rientra in Nigeria.
Osas non riesce più a reagire. Disperata rientra di nuovo a (…), ma senza
neanche un domicilio dorme in stazione, impaurita ed infreddolita chiede
aiuto a molte persone, finché una signora le lascia il cellulare di un
sacerdote della Comunità Papa Giovanni XXIII. Osas lo chiama e gli chiede
aiuto perché non riesce più a sopportare quella vita. Desidera essere protetta
dalla sua madame, chiede di poter cominciare una nuova vita onesta e
dignitosa. Don Aldo la fa arrivare presso la sua struttura di pronta
accoglienza per iniziare una nuova vita.
Jerina
Mi chiamo Jerina sono nata a Tirana (Albania). Conobbi la (…) in
Albania nel mese di aprile; la conoscenza fu dovuta al fatto che la medesima
ha i genitori ed alcuni parenti che hanno una rivendita ambulante di capi di
abbigliamento sita nei pressi di quella che hanno i miei genitori. (…) che
all’epoca si trovava in Albania, in ferie, aiutava i genitori nella conduzione
dell’attività, accanto a quella dove io aiutavo i miei genitori, e facemmo
quindi amicizia. In seguito, venne a casa mia e avendo appreso che ero
vedova del precedente marito, deceduto in un incidente stradale avvenuto in
Albania, mi propose di partire per l’Italia, per poter guadagnare del denaro
e provvedere quindi al mantenimento di mia figlia, concepita unitamente al
defunto marito e, che attualmente ha cinque anni e mezzo e vive con i miei
genitori. In tale contesto, mi fece conoscere un uomo, che, a suo dire, in
possesso di regolare permesso di soggiorno, mi avrebbe dapprima. sposato e
poi, successivamente regolarizzato mediante ricongiungimento familiare. Il
(…) si recò anche presso la mia abitazione. I miei genitori tutt’ora sono
convinti che l’uomo mi abbia sposata. Nel mese di luglio, quest’ultimo, mi
condusse in Italia a bordo di un gommone, clandestinamente, e sbarcammo
su una spiaggia. Il prezzo del trasporto, lo corrispose l’uomo. Da (…)
prendemmo un treno per (…) e giunti in tale città, prendemmo un treno per
(…), dove egli mi condusse presso un locale ricettivo. Nel locale, venni
registrata con le generalità di mia sorella che io le sottrassi prima di recarmi
in Italia. Il documento in questione non era contraffatto, tutt’altro, solo la
mia somiglianza con mia sorella indusse in errore il gerente del locale
ricettivo. Per l’alloggio, corrispondevo ogni settimana la somma di 200 euro
ai gerenti, un signore e una signora anziana, sempre in contante. A volte
pagavo io e a volte pagava l’uomo, che tutti i giorni passava, con la scusa di
consumare una bibita al bar, oppure saliva in camera mia, per ritirare il
provento della mia attività di prostituta. Una volta, mi regalò un telefono
cellulare, che mi disse era stato ricettato da alcuni suoi connazionali dediti a
furti. La sim card era stata acquistata da lui, ma non ne ricordo il numero.
Quello in uso all’uomo, però, numero che dovevo chiamare in caso di
problemi, era il seguente (…). Ricordo che all’inizio ho lavorato anche in un
appartamento che era stato preso in affitto dal (…) e da altri suoi
connazionali dediti allo sfruttamento della prostituzione. Quest’ultimo, si
trovava in zona (…), in una piccola stradina alla quale si accede da un
piazzale dove è sito l’ingresso di una scuola; si accedeva all’interno
dell’appartamento, in realtà un monolocale con bagno, tramite due o tre
scalini che immettevano in un piccolo ingresso nel quale vi erano tre porte di
colore marrone e precisamente una di fronte, una a destra e una a sinistra.
La mia, era quella a sinistra e all’interno di detto locale, consumavo i
rapporti sessuali con i clienti. Il luogo veniva usato anche da altra ragazza,
che divideva la stanza con me e che a sua volta era sfruttata da altro
albanese, amico di (…), che abitava con lui e che si faceva chiamare (…).
Quest’ultimo, si vedeva spesso in giro con il (…) e con altro individuo, e
viaggiavano tutti a bordo dell’autovettura di colore scuro di proprietà del
(…). Credo che lei non confermerà tali circostanze, in quanto è terrorizzata
dall’uomo che la sfrutta, che potrebbe rivalersi, tramite conoscenti, sulla sua
famiglia in Albania. Sono perfettamente in grado, se condotta sul luogo, di
rintracciare il locale in questione. In altra occasione, a causa di una
gravidanza indesiderata, il (…) mi condusse a farmi visitare da una
dottoressa il cui studio è sito in località (…); quest’ultima, divideva lo studio
con altro dottore, forse il padre o il marito. In detta occasione, pur non
ricordando con precisione il periodo, la visita si svolse alla presenza del
(…), che dopo avermi accompagnata, pagò il relativo costo della visita. In
seguito, nel corso del primo allontanamento dal territorio nazionale, giunta
in Albania, mi recai da un dottore per abortire e quindi, il (…), provvedette
al pagamento delle relative spese dell’operazione e del gommone per farmi
tornare in Italia. Mandò quindi un suo amico ad attendermi in (…) e mi
condusse quindi in (…), dove ripresi la mia attività. Anche questo luogo, e
cioè dove è sito lo studio medico, sarei in grado, se condotta sul posto, di
individuarlo. Nel corso della visita medica al pronto soccorso del policlinico,
dove venni condotta a seguito di una retata della polizia, le lesioni che mi
vennero riscontrate, come ho già riferito nel corso della precedente
denuncia, mi sono state inferte dal (…), che mi picchiava ogni volta che non
riuscivo a guadagnare abbastanza denaro. Del fatto, che non so precisare in
quale periodo è avvenuto, credo che sia rimasto l’esito della visita, presso
quei locali. Voglio infine aggiungere, che in data 30 aprile u.s., nel corso di
una telefonata avvenuta con mia madre, che dimora in Albania, ho appreso
che il fratello di (…), recatosi presso la mia abitazione in Albania, armato di
pistola, ha minacciato i miei genitori di tremende ritorsioni se non provvedo
immediatamente a ritirare la denuncia che ho fatto a carico del fratello; ha
inoltre minacciato che in caso contrario, avrebbe rapito mia figlia che
attualmente è custodita dai miei genitori. Ora vivo nella casa di don Aldo e
con lui ho iniziato un percorso di recupero per poter arrivare ad avere un
lavoro e una vita come le tante ragazze della mia età.
Nicole
Mi chiamo Nicole e sono nata in Nigeria presso Lagos. Ho vissuto sempre
a Lagos con la mia famiglia composta da mamma, papà, una sorella e tre
fratelli. Io sono la figlia maggiore. Ho frequentato la Primary School sempre
a Lagos, la mia mamma lavorava come donna delle pulizie in ospedale e mio
papà lavorava come taxista. Mio padre nel 2005 è deceduto a causa di un
incidente in macchina mentre lavorava. Con la morte di mio padre non sono
più riuscita ad andare a scuola perché non c’erano più i soldi e allora sono
andata a lavorare in un banchetto “Yaba market” dove c’era un’amica di
mia mamma che faceva le unghie e i capelli, mi ha insegnato a lavorare. Un
giorno durante il lavoro allo “Yaba market” è arrivata una cliente, vedendo
che ero molto brava a fare capelli, mi ha chiesto se volessi andare a lavorare
nel suo negozio di estetista in Italia. La donna si chiama (…). Io ho accettato
al pensiero di poter aiutare la mia famiglia e mandare a scuola i miei fratelli,
dopo la morte del papà la mamma faceva fatica a sostenere da sola tutte le
spese per la famiglia. Dopo che ho accettato (…) mi ha consegnato 20.000
naira per fare il passaporto a Lagos, generalità false, foto e impronte vere, ai
funzionari mi ha detto di dire che partivo per Parigi per comprare delle cose.
Poi mi ha portato a Benin City dove mi ha fatto fare il rito voodoo,
praticamente un uomo mi ha fatto un rituale con sangue, animali, usando le
mie unghie e la mia biancheria intima. Il rito diceva che mi sarei dovuta
comportare bene senza scappare una volta arrivata in Italia. Sono rientrata
a casa, ho atteso un mese il visto per partire, poi è arrivato un visto per tre
settimane per la Francia. A gennaio sono partita, lei mi è venuta a prendere
a Lagos in macchina e siamo andate a prendere l’aereo per Parigi. Lei
prima di partire in aereo mi ha dato il passaporto e me l’ha ripreso appena
arrivate in Italia (penso che (…) riusava i passaporti più volte per altre
ragazze nuove che portava in Italia). Da Parigi abbiamo preso un treno e
siamo arrivate in Italia. Subito (…) mi ha portata in questura per fare
richiesta di Asilo Politico, me l’hanno negato; lei mi aveva detto di dare
cognome, data di nascita e storia false. Aveva detto di diminuire la data di
nascita così sembravo più piccola e avrei potuto avere più possibilità.
Abitavo nell’appartamento di (…), era in un condominio vecchio color
giallo. Io vivevo al secondo piano insieme a lei, il suo fidanzato e un’altra
ragazza che lavorava anche lei in strada. Per una settimana sono stata a
casa sua tranquilla e non siamo andate a lavorare, un giorno (…) è venuta
da me dandomi una minigonna e una maglietta corta dicendomi che sarei
dovuta andare al lavoro. Mi ha portato al lavoro, dove lei stessa lavorava, e
mi ha fatto vedere quale lavoro avrei dovuto fare. Quella sera mi sono
rifiutata e non ho fatto niente, una volta tornate a casa ho detto che non avrei
fatto la prostituta e che mi aveva promesso un altro lavoro. Lei con il suo
fidanzato mi ha picchiata dicendo che avrebbe fatto male alla mia famiglia in
Nigeria e che dovevo pagarle 55.000 euro per il viaggio in Italia. La casa si
trova a venti minuti a piedi dalla stazione dei pullman. Prendevo l’autobus
alle 18.30, scendevo dove c’è il supermercato. Ai clienti chiedevo 20 euro,
rientravo a casa alle 5, così tutte le notti. Alla madame ho pagato 20.000
euro. Lei mi picchiava molto con il suo fidanzato se non le portavo i soldi,
poi chiamava la mia famiglia e la minacciava di ritorsioni. Una sera mi ha
fermata in strada la polizia e ha voluto vedere dove abitavo, sono entrati
hanno guardato le varie stanze, hanno fatto delle domande, poi se ne sono
andati. La madame mi ha subito spostata da una sua amica sempre vicino
alla stazione, ma non ricordo l’indirizzo. Una sera mentre ero in strada sono
passate delle persone della Papa Giovanni che mi hanno fatto tante domande
e pregato insieme, alla fine mi hanno chiesto di uscire dalla strada che mi
avrebbero aiutato a costruirmi una nuova vita. Io non ho accettato perché
avevo paura. Loro mi avevano lasciato il cellulare di un sacerdote dicendomi
che se mi fossi convinta avrei potuto chiamarlo e mi avrebbe aiutata. Dopo
sette mesi, stanca della madame e delle sue minacce, una sera quando sono
andata a lavorare, ho chiesto aiuto ad un cliente e sono scappata. All’inizio
sono andata a vivere da un’amica, conosciuta in strada, sono rimasta lì per
sei mesi, facevo i capelli per guadagnare qualcosa e contribuire alle spese di
casa. La mia amica continuava a lavorare in strada, ogni tanto andavo
anch’io perché non sempre avevo i soldi per vivere e mandavo qualche soldo
a casa. Quando andavo in strada, amiche della mia madame venivano lì e mi
picchiavano e minacciavano dicendo che avrei dovuto finire di pagare il
debito. In strada mi hanno fermato quattro volte a (…), vivevo già con la mia
amica, mi hanno preso le impronte digitali; la quarta volta mi hanno
mandato al CPT di (…) dove sono stata per due mesi, dopo mi hanno fatto
uscire e sono tornata dalla mia amica dove sono rimasta per un mese. A
febbraio sono partita per la Germania, lì avevo contatti con un’amica che
conoscevo dalla Nigeria, sono andata da lei a vivere e ho chiesto l’asilo
politico, mi hanno fatto vivere per un anno nella casa per rifugiati, mentre
loro facevano indagini sulla storia che gli avevo raccontato. Poi mi hanno
fatto fare un rientro in Italia portandomi in aereo a Roma in questura, la
quale mi ha dato un foglio di via e mi ha lasciata libera. Sono tornata a (…)
sempre dalla mia amica che mi ospitava, qui ho chiamato un operatore per
gli stranieri, sono andata a vivere in un posto dove aiutavano le persone per
quattro mesi, lui ha provato a richiedere un documento per me alla questura,
ma mi è stato negato, non sapendo cosa fare mi sono presa una stanza da
sola, mi mantenevo facendo i capelli e andando ogni tanto in strada. Dopo
un po’ di tempo l’operatore ha contattato il sacerdote che avevo incontrato
in strada e pochi giorni dopo vengo accolta grazie a padre Aldo e mamma
Marina.
Vera
Mi chiamo Vera, sono partita dalla Moldavia nel mese di aprile scorso,
perché una mia amica che descrivo come una donna alta circa mt. 1,60/1,65,
molto robusta, con capelli castani luoghi e lisci, occhi scuri e un’età di circa
24 anni, mi aveva detto che sarei potuta andare in Francia per lavorare
come cameriera, così come aveva fatto già lei. Essendo io già in possesso di
passaporto, lei si preoccupava solamente di procurarmi il visto necessario.
Nella circostanza mi disse che aveva avuto dei problemi per avere il visto
d’ingresso per la Francia e pertanto mi disse che dovevo passare prima per
l’Italia, dove aveva ottenuto il visto necessario. Aggiunse che avrei dovuto
aspettarla in Italia, fino a che non sarebbe venuta anche lei che mi avrebbe
poi accompagnata in Francia. Così il 30 aprile sono partita dalla Moldavia
con l’autobus per arrivare direttamente nella città di (…) dove mi stava
aspettando un uomo: che descrivo come un uomo di nazionalità albanese
senza barba né baffi, alto circa mt. 1,75/1,80; capelli scuri corti con
frangetta sulla fronte; occhi scuri, robusto; di circa 26/27 anni, con un
tatuaggio con colorato su un braccio, non ricordo quale, con un disegno che
raffigura un animale, mi sembra la testa di un leone. Nel contesto (…), mi
accompagnava, a bordo della sua auto BMW di colore nero, in un albergo di
(…) dove sono rimasta per due giorni, dopo di che mi ha portato in un
albergo di una vicina città. Qui sono rimasta per due settimane senza fare
niente, in tre occasioni lui mi ha raggiunto e mi ha dato rispettivamente 50,
30, e altre 30 euro per le mie esigenze. Trascorso tale periodo, lui mi diceva
che avrei dovuto prostituirmi perché gli ero debitrice del denaro, 2000
dollari, che mi aveva prestato la donna per il viaggio. Io gli ho risposto che
non volevo farlo, così lui mi ha picchiata talmente tanto che, alla fine, ho
ceduto alle sue richieste. Mi consegnò dei vestiti quindi mi disse che da
quella sera sarei dovuta andare con un’altra ragazza alla quale avrei dovuto
obbedire e che mi avrebbe detto tutto quello che dovevo fare: lui mi
precisava però che i soldi avrei dovuto consegnarli personalmente a lui, ogni
pomeriggio successivo, verso le ore 14.30, sarebbe passato appositamente
per riscuotere il denaro. (…) è una ragazza rumena, alta circa mt. 1,65;
bionda con capelli ondulati lunghi sulla spalla; occhi scuri, abbastanza
robusta. Così quella sera, dopo aver comprato dei preservativi con i soldi
che mi aveva dato (…), abbiamo preso il treno delle 18 diretto a (…). Qui
giunte siamo scese e con un passaggio occasionale siamo arrivate sulla
statale dove abbiamo iniziato a prostituirci. Nella circostanza la donna mi
diceva che dai clienti dovevo pretendere, per le mie prestazioni, 30 euro.
Così tutti i giorni facevamo la stessa cosa, a volte prendevamo il treno delle
18, a volte quello delle 19, per andare prima nella città dove mi facevano
prostituire e poi tornare in albergo non prima delle 4 del mattino successivo;
solo il sabato, in quanto non c’erano treni disponibili per (…), ci
accompagnava e poi ci veniva a riprendere (…) con la sua macchina, la
BMW di colore nero. Preciso che la ragazza rumena, aveva a sua volta, un
altro protettore che sapevo essere un uomo albanese di circa 30 anni, alto
mt. 1,60 circa, corporatura muscolosa; completamente calvo, occhi scuri,
che io ho visto molte volte girare con la sua auto, una Mercedes bianca,
mentre la controllava sul posto di lavoro. Come ho già detto, tutto quello che
guadagnavo, lo dovevo consegnare al magnaccia che veniva a prenderlo tutti
i pomeriggi alle 14.30 circa, lasciando per me soltanto 20 euro al giorno per
mangiare e per il biglietto del treno. Preciso che la stanza dell’albergo la
pagava lui. Preciso che quest’ultimo mi ha picchiato altre due volte perché
avevo guadagnato poco e perché avevo provato a fuggire. Dopo circa un
mese di questa vita, alla prima occasione che ho avuto, sono scappata, ho
conosciuto una persona il quale si è offerto di accompagnarmi da don Aldo e
così ho accettato il suo aiuto
Vivian
Mi chiamo Vivian sono la secondogenita di sei fratelli, abitavo a Benin
City in quanto mia madre è nativa di quella città, abitavamo con la mia
famiglia in periferia della città, io aiutavo i miei genitori a vendere della
frutta e verdura nel mercato, alimenti che mio padre andava nei villaggi a
comprare e poi portava nel centro di Benin City. Io da anni lo aiutavo perché
avevo interrotto gli studi a circa 14 anni dopo aver frequentato la prima
classe alla scuola secondaria, la nostra vita era molto difficile, la mia
sorellina più piccola aveva appena tre anni e vivevamo dei pochi soldi che
guadagnavamo al mercato, un giorno una mia cliente si fermò a parlare con
me, mi fece un sacco di complimenti dicendo che ero brava a trattare le
persone e che ero carina, che le dispiaceva vedermi sempre lì a lavorare
sebbene fossi giovane; mi disse che aveva una figlia in Italia con un
ristorante, aveva bisogno di aiuto ma cercava una ragazza sveglia che
sapesse trattare con le persone. Io ne fui onorata, dissi che però non avevo la
possibilità di pagarmi quel viaggio, così lei mi zittì dicendo che quello non
era un problema, la figlia poteva anticipare i soldi per il viaggio e io li avrei
restituiti lavorando una volta arrivata qui. La donna tornò più volte per
sapere se fossi sempre d’accordo sul progetto di partire, mi fece addirittura
parlare con la figlia che stava in Italia, lei mi confermava che cercava
qualcuno per il suo ristorante; io ero felice, nella mi esperienza non avevo
mai sentito che le ragazze in Europa venissero a prostituirsi. Tornata a casa
ne parlai con mia sorella maggiore, non volevo parlarne con mia madre
perché sapevo che essendole utile per il mercato non mi avrebbe mai
permesso id partire, anche mia sorella era preoccupata, io però dentro di me
avevo deciso di partire e dissi di sì a quella donna. Lei venne più volte al
mercato, mi portò a fare delle fototessere che servivano per i miei documenti,
un giorno, la donna disse che era tutto pronto, mi disse di preparare le mie
cose, io andai a casa sua a Benin City senza avvisare mia madre del viaggio,
la donna mi fece prendere un autobus per Lagos e insieme siamo arrivate
all’aeroporto. Il volo era diretto da Lagos in Austria, viaggiai da sola, la
donna mi aveva detto, una volta arrivata in Austria di prendere un treno
diretto a Roma e così ho fatto; una volta arrivata a Roma, sapendo come ero
vestita un uomo nigeriano riuscì a riconoscermi, mi stava aspettando,
insieme siamo saliti su un treno diretto a (…), l’uomo una volta arrivati mi
prese il passaporto ed i biglietti, poi mi affidò ad una donna e se ne andò; noi
siamo salite su un autobus ed abbiamo raggiunto il suo appartamento. Nella
casa in una stanza viveva una sua amica con il figlio piccolo ed il compagno,
loro hanno convissuto con noi per due mesi e poi una mattina è sparita
portando via tutto, so che era spaventata perché la polizia la cercava ma non
so davvero dove sia andata, non ci aveva detto nulla. Lei era una donna sulla
trentina, non ha mai detto molto di sé, mi lasciò un giorno per riposare e il
giorno dopo mi disse che dovevo stare pronta per andare a lavorare, chiesi
quale lavoro e lei mi rispose che quando sarei arrivata sul posto di lavoro
avrei capito, cominciavo a essere inquieta. Quella sera mi portò con il treno
fino a (…), alla stazione avevo visto altre ragazze nigeriane, lei mi disse che
dovevo solo stare zitta, io però non riuscivo a trattenermi, quello non era il
lavoro che mi aveva promesso in Nigeria, io ero cristiana non volevo
prostituirmi, lei mi disse che non c’era nessun ristorante e che quello era il
lavoro che dovevo fare per pagare i 45.000 euro che le dovevo per essere
stata portata in Italia, quei soldi mi sembravano tantissimi; mi rifiutai e mi
picchiò lì sulla strada perché non lavoravo, quando siamo tornate a casa mi
picchiò ancora con pugni e schiaffi e (…) la vide ma non disse nulla, non
voleva problemi e sapeva che la polizia la stava cercando. La sera dopo
tornammo ancora a (…), mi istruì su quanto chiedere e cosa fare con il
cliente, mi consegnò anche dei preservativi; rimase lì a controllarmi, era lei
che fermava le macchine perché io non sapevo cosa dire, controllava se
salissi nelle auto. Desideravo fuggire ma non sapevo dove andare, a chi
chiedere aiuto, lei non mi lasciava mai sola, quella sera ebbi solo un cliente,
lei arrabbiata diceva che il giorno dopo avrei dovuto fare di meglio. Per una
settimana intera mi controllava e mi procurava i clienti poi esigeva i soldi;
poi iniziai ad andare da sola, se non portavo a casa i soldi mi picchiava
duramente, avevo pensato più volte di fuggire ma lei mi aveva detto che la
mia famiglia in Nigeria avrebbe pagato il mio debito ed io non potevo
sopportare di mischiare la mia famiglia con questa schifosa situazione. In
quei mesi che sono stata con lei, dovevo pagare anche i soldi, circa 250 euro
per l’affitto, 50 euro per la spesa alimentare e altri 50 euro per le bollette
ogni mese, sommati a questi ho consegnato per il risarcimento del mio debito
circa 2.000 euro, ogni sera mi mandava a lavorare ma io non volevo, questo
lavoro mi disgustava, per questo spesso mi picchiava. Nel mese di maggio
(…) con il bambino di 5-6 mesi e il compagno sono spariti, io sono tornata
dalla strada e non ho più visto nessuno, lei riusciva a tenermi strettamente
legata a sé, la sera andavo a lavorare a (…) ma le altre ragazze erano
diffidenti nei miei confronti e facevo fatica a trovare qualcuno con cui
parlare, i clienti erano i miei aguzzini che pretendevano da me quelle cose e
che mi compravano con il loro denaro, durante il giorno poi stavo chiusa in
casa, anche (…) quando era con noi non usciva mai di casa. In (…) la polizia
mi fermò per accertamenti e mi portò in un centro di raccolta, non ricordo se
ho fornito le mie vere generalità perché la mia madame mi aveva istruito nel
non dare mai il mio vero nome. Quando sono arrivata al centro di raccolta
non sapevo come fare, sono stata trattenuta circa due mesi e poi rilasciata,
una ragazza che avevo conosciuto al campo mi ha aiutata, lei abitava a (…)
e io l’ho seguita, lei mi disse che io non dovevo più prostituirmi perché ero
cristiana, mi sentii molto confortata dalla sua disponibilità ad aiutarmi,
rimasi con lei fino a ottobre, cercavo di guadagnare qualcosa vendendo le
cose porta a porta, venni fermata dai carabinieri, stavo camminando in un
parco e fui poi portata in centrale e foto segnalata, una seconda volta. Nel
mese di novembre questa amica si è sposata e si è trasferita a Londra e io
rimasta sola chiesi a una ragazza che faceva la acconciatrice per noi
africani, se poteva ospitarmi, accettò e restai con lei. Ebbi un grave incidente
in cui mi ruppi una gamba in più punti, ancora oggi queste ferite mi causano
grosse sofferenze; quando io fui mandata al campo di raccolta la madame
scappò dalla casa perché temeva che l’avessi denunciata, infatti da subito
cominciarono le minacce ai miei familiari, la sua famiglia insisteva
chiedendo dove ero perché lei mi sta ancora cercando; anche adesso lei è in
Italia, me lo confermano i miei familiari, mentre ero accolta dalla Giovanni
XXIII i suoi parenti sono andati nel piccolo locale dove i miei vendevano le
verdure, costruito con il sacrificio di anni, hanno rotto tutte le scorte e
distrutto i muri, hanno picchiato i miei familiari che tentavano di difendersi
urlandogli che io dovevo pagare il mio debito e che dovevo farlo subito o lei
quando mi trova mi ucciderà; ora la mia famiglia non ha più niente e io sono
terrorizzata, non possiamo neanche denunciare quello che è successo perché
non abbiamo neanche i soldi per pagare le indagini. Ho paura per la mia
vita ma non posso permettere che (…) rovini la vita dei miei familiari, per
questo sono disposta a denunciare tutto quello che lei mi ha fatto, sono
disposta a riconoscerla in foto e di collaborare per quanto necessario,
chiedo di essere protetta e di poter avere una opportunità con un lavoro
onesto con cui potermi difendere.
Mirmi
Mi chiamo Mirmi, sono nata in Albania. Ero residente con la mia famiglia
a Tirana e mi fidanzai con tale (…), con rito mussulmano, che prevede la
totale padronanza del marito sulla moglie. Durante l’inverno dello stesso
anno, il fratello e il cugino del mio fidanzato, mi proposero di andare in
Grecia con loro, in quanto mia madre è originaria della Grecia e conosco
quella lingua. Giunti in quel paese mi portarono ad Atene nell’appartamento,
dove venni sottoposta a una violenza carnale di gruppo venendo anche
picchiata selvaggiamente. Addirittura, mi costrinsero a spogliarmi
completamente per poi spruzzarmi dell’acqua gelata addosso. Dopo di ciò mi
segregarono in una casa di “tolleranza” dove mi prostituii per sei mesi.
Verso la fine di dicembre, la polizia greca mi espulse da quel Paese
inviandomi in Albania. Nel mese di gennaio, poiché mia sorella era stata
rapita da alcuni albanesi sconosciuti che l’avevano portata in Italia,
decidevo di venirci anch’io, considerato anche che la mia famiglia non mi
avrebbe accettata, in quanto sposata e convivente col (…) e la sua famiglia.
Il viaggio venne organizzato dallo stesso, che nei primi giorni di gennaio,
nelle ore serali mi accompagnò a (…), dove ci imbarcammo su un grosso
motoscafo cabinato, a bordo del quale vi erano circa 30 persone.
Sull’imbarcazione udii uno degli scafisti esprimersi in lingua inglese con
altri dicendo che in caso la Guardia di Finanza li avesse intercettati
avrebbero buttato a mare una ragazza per costringerli a fermarsi e
soccorrerla, questo mi spaventò molto. Dopo circa un’ora e mezza
sbarcammo su una scogliera vicino a (…) dove trovammo ad aspettarci degli
uomini albanesi che ci accompagnarono a piedi a una chiesa diroccata nelle
vicinanze. Durante la notte domandai al (…), perché tutti quei sotterfugi, ma
lui per tutta risposta mi picchiò. La mattina verso le 4,30 vennero
nuovamente gli uomini albanesi che ci prelevarono portandoci alla stazione
di (…), dove partimmo alla volta di (…). Appena giunti a (…), (…), telefonò
ai suoi cugini che vivevano in Italia con regolare permesso di soggiorno.
Insieme al (…), presi il filobus che ci portò sul lungomare, dove trovammo ad
attenderci i due cugini a bordo di una macchina di colore scuro, con cui ci
accompagnarono in hotel, dove c’era una camera a nostro nome, Ricordo
che mi registrarono nell’albergo col mio nome vero. Quella sera stessa mi
accompagnarono a (…), vicino ad un ristorante, dove fui costretta a
prostituirmi. Ormai sapevo già come dovevo comportarmi, infatti avevo già
lavorato per loro in Grecia e sapevo che tutto quello che guadagnavo
prostituendomi dovevo consegnarlo, a fine serata al (…) inoltre, i miei orari
erano dalle ore 14 fino alle 4.00 di notte, arrivando ad avere più di 30 clienti
a notte, non potendo comunque incassare meno di 600 euro, altrimenti erano
botte. Inoltre, il (…), mi consegnava personalmente i preservativi
confrontando quelli mancanti con l’incasso realizzato. II (…), finanziato dai
miei incassi, cominciò a organizzarsi con altri suoi cugini per sfruttare nuove
ragazze. Si accordò con tale (…) cognato di (…), il quale acquistava delle
autovetture usate e gliele consegnava per portarle in Albania, non ho idea
per farci cosa. Una notte, i due, portarono sulla statale dove mi prostituivo,
due ragazze, una rumena e una albanese, per farle prostituire con i
camionisti di passaggio. Ricordo che in quel periodo venne ritrovata una
giovane morta in pozzo vicino nella zona della, il (…) lamentò la scomparsa
della giovane albanese che sfruttava e che avevo visto “lavorare” su quella
strada, pochi giorni dopo il lui tornò in Albania.
Sono a conoscenza che in quel periodo nella casa abbandonata dove era
stato trovato il corpo della ragazza, vivevano vari albanesi tra cui un certo
(…), il quale per un certo periodo alloggiò presso l’hotel (…) di (…),
unitamente a una giovane albanese che sfruttava.
Poi venni fermata dalla polizia che mi rimpatriò con l’espulsione, mentre
il (…), e gli altri rimasero in Italia. In Albania vi era (…) fratello di (…) che
aveva l’incarico di fare tornare in Italia le donne che venivano espulse,
infatti organizzò il mio viaggio di ritorno, che avvenne dopo pochi giorni a
bordo di un gommone. Era tutto previsto, ogni appartenente alla famiglia
aveva il suo incarico, venendo pagato per questo, ci trattavano come degli
animali. Quando arrivai nuovamente in Italia, decisi di prostituirmi “in
proprio”, sottraendomi al controllo dei miei sfruttatori. Durante l’estate,
mentre ero intenta a prostituirmi nella zona della (…) sulla statale, nei pressi
di un distributore, arrivarono due uomini incappucciati a bordo di una fiat e
mi picchiarono selvaggiamente con calci e pugni, aiutati da alcune ragazze
che si prostituivano nelle vicinanze. Di questi fatti presentai una querela
presso la questura nell’immediatezza dei fatti. Poco tempo dopo, tornai nella
casa dove, precedentemente vivevo col (…), scoprendo che lo stesso, nel
frattempo, si era trasferito in Svizzera. Nella medesima via abitavano in un
appartamento, ricavato in un ex albergo, i cugini con i rispettivi genitori e
trafficavano sicuramente sostanze stupefacenti. Nel mese di settembre,
raggiunsi il (…) in Svizzera, recandomi nel cantone tedesco, da cui le
Autorità locali mi mandarono a (…) mentre il (…) restò a (…), dove
trafficava con notevoli quantitativi di droga. Mentre mi trovavo in Svizzera,
mio padre, sporse denuncia per la mia scomparsa all’Interpool,
rintracciandomi. Giunto anch’egli in Svizzera, dopo varie peripezie riuscì a
fare avere l’espulsione da quel Paese a (…).
Rientrai in Italia unitamente al (…), a (…) alloggiando in un albergo del
centro di cui non ricordo il nome. Qui lui prese contatto con un certo (…) il
quale sfruttava una ragazza, sicuramente minorenne. Da qui ebbe origine un
grosso giro di prostituzione da tre uomini rumeni. Nell’estate seguente,
vennero arrestati dalla polizia (…) e (…), mi allontanai da quella città
rifugiandomi a (…), ospite di un mio ex cliente che mi aiutò ad uscire dal
“giro”. Poi andai a lavorare presso una famiglia, chiedendo nel frattempo, il
permesso di soggiorno alla questura, che me lo negò poiché non ero in
possesso dei requisiti contemplati dall’art. 18, invitandomi in quegli uffici col
mio avvocato. Quando mi presentai venni prelevata e accompagnata al porto
e rimpatriata a bordo di una nave. All’arrivo della nave in Albania trovai
mio padre ad attendermi. Durante il tragitto per tornare a casa, venimmo
fermati da tre uomini a bordo di un’auto che ci picchiarono brutalmente
dicendo che io sapevo il perché mi stava succedendo tutto questo. Il terzetto
venne messo in fuga da un ufficiale dell’Interpool che transitava casualmente
sul posto. Dopo tali fatti, temendo per l’incolumità della mia famiglia, feci
domanda di tornare in Italia, e dopo molti contatti tra le autorità Italiane e
quelle del mio paese, ottenni il visto di reingresso per l’Italia. Tornata in
Italia andai nuovamente presso la famiglia che mi aveva aiutata e chiesi
nuovamente il permesso di soggiorno alla questura, ma inspiegabilmente mi
intimarono nuovamente di lasciare l’Italia notificandomi un nuovo
provvedimento di espulsione. Dopo alcuni giorni, venni ripresa dalla banda
dei malviventi, mi picchiarono a sangue e fui ni nuovo portata in strada e
controllata a vista. Una sera passarono degli operatori della Papa Giovanni
insieme a don Aldo che mi convinsero a uscire da quell’inferno. Fui portata
nella pronta accoglienza di don Aldo e da lì iniziai un percorso di protezione.
Amanda
Mi chiamo Amanda e sono nata in Delta State, Nigeria. I miei genitori li
ho persi all’età di un anno e sei mesi e da allora sono stata affidata alla
sorella di mia madre. Sono rimasta nella sua famiglia fino all’età di 16 anni,
ma sono stata costretta ad andarmene perché il marito voleva approfittare di
me. Mia madre ha avuto tre mariti e nove figli. Io ho un solo fratello di
sangue e vive in Nigeria. Per allontanarmi dal marito di mia zia, chiedo
aiuto alla mia sorellastra, che a sua volta si rivolge a sua sorella.
Quest’ultima accetta di aiutarmi ma non si concretizza nulla perché poco
dopo si trasferisce in America. Nel frattempo, ho vissuto con la mia
sorellastra ma le sue condizioni economiche sono precarie quindi lei chiede
a un’altra sorella di aiutarmi a trovare lavoro in Italia. (…) accetta,
mettendomi in contatto con un uomo, che vive a Lagos e suo fratello (…) che
vive in Italia. Fino ad aprile sono stata ospitata presso la famiglia di
quest’uomo a Lagos aiutando nei lavori domestici e legando un rapporto di
fiducia. Nel frattempo, mi organizzano il viaggio in Italia con il fratello (…),
preparano i documenti falsi per passare la frontiera che affronterò con altre
persone: tre ragazze ed un ragazzo. Partiamo da Mali con l’aereo per
arrivare in Tunisia, ma la polizia locale, verificata la falsità dei documenti,
ci rimanda indietro. Ho dovuto aspettare quattro mesi a Mali finché non mi
fecero altri documenti falsi, vivendo nel frattempo, in un appartamento dove
c’erano altre persone, sicuramente più di venti tra ragazze e ragazzi, tutti
che aspettavano di partire per l’Italia. In agosto, mi viene consegnato un
passaporto falso della Guinea, 1.000 euro, un cellulare e un biglietto aereo
per Barcellona; una volta atterrato l’aereo a Barcellona, acquisto un
biglietto per volo diretto per Milano-Malpensa. All’aeroporto mi aspetta (…)
insieme ad un altro uomo e vengo portata in auto a (…) in un appartamento
dove resto una sola notte. Il giorno seguente vengono a prendermi due
donne, una sarà la mia madame, per condurmi in un appartamento. Le due
donne mi eseguono un rito voodoo e mi dicono che devo lavorare in strada
per pagare un debito di 50.000 euro servito per farmi arrivare in Italia. Il
fratello della madame con la sua ragazza mi portano a lavorare sulla strada
e sono costantemente controllata da quella ragazza, quando scoprono che
cerco aiuto per scappare mi trasferiscono sulla strada nella zona di (…). Ho
lavorato su strada per circa due anni dietro minacce, violenze e riti voodoo.
Pagavo 250 euro per la casa, 200 euro per l’affitto del marciapiede e dovevo
consegnare tutti i guadagni alla madame che ogni mese veniva a casa per
prendere i soldi. Il primo mese ho pagato 2.600 euro, in due anni quasi
40.000 euro. In questi due anni sono stata fermata diverse volte dai
carabinieri così la madame mi ha costretto a chiedere asilo politico per poter
avere il permesso di soggiorno. Non sapendo come fare chiedo aiuto ad una
ragazza, che lavorava in strada vicino a me e mi presenta una famiglia
nigeriana composta dal marito e sua moglie con due figli maschi che
gestiscono un gruppo di ragazze che fanno prostituire e per la quale anche
lei lavora. Queste persone mi dicono che questa operazione prevede diversi
costi: 400 euro per il domicilio, 200 euro per la residenza, 150 euro per la
storia inventata da presentare per la richiesta di asilo politico e 100 euro per
presentarmi all’avvocato che avrebbe seguito la mia pratica. L’uomo mi
prenota un appuntamento e mi accompagna presso uno studio legale. Lei
richiede l’asilo politico presso la questura ed ottengo un permesso di
soggiorno di tre mesi con la motivazione di essere in attesa di asilo politico.
L’asilo viene respinto in primo grado e presento ricorso in appello,
ottenendo il rinnovo del permesso fino a sentenza che non mi concede asilo.
All’avvocato ho dovuto pagare 1.100 euro per la richiesta e per il ricorso.
Nel frattempo, continuo a lavorare in strada. Nel mese di settembre a una
festa di compleanno incontro un ragazzo nigeriano e iniziammo a vederci. A
dicembre scopro di essere incinta, decidiamo di andare a vivere insieme e mi
aiuta a scappare dalla casa di (…). Io sono rimasta in contatto con un cliente
di 72 anni e gli chiedo aiuto perché il ragazzo non lavora e abbiamo
problemi. Contatto degli amici che vivevano a (…) e chiedo se mi aiutano a
trovare una casa dove poter andare. Infatti, dopo poco mi trovano una stanza
e il cliente mi aiuta economicamente a mantenerla. Qui vivo con il mio
ragazzo fino a giugno 2010 ma con lui ho dei problemi perché è violento e mi
picchia tanto che il 5 maggio sono intervenuti i carabinieri chiamati dalla
gente del palazzo preoccupati per le urla. I carabinieri hanno richiesto
l’intervento di un’autoambulanza e io sono stata ricoverata in ospedale dove
hanno evidenziato ecchimosi in varie parti del corpo. Una volta dimessa
sono rientrata a casa ma gli episodi di violenza da parte del mio ragazzo si
sono ripetuti. L’ultima aggressione è avvenuta mentre ero al sesto mese di
gravidanza. Approfittando della partenza di (…) avvenuta il 17 giugno, ho
chiamato una mia amica per chiederle aiuto. Lei mi ha dato il numero di don
Aldo della Comunità Papa Giovanni XXIII. Grazie al suo intervento sono
stata accolta presso una casa famiglia dove è nato mio figlio. Ho mantenuto i
contatti con il papà di mio figlio e quando ci siamo incontrati mi ha convinto
a ritornare assieme a lui. Sono partita per (…) e ho lasciato i miei documenti
al fratello del mio compagno; poi ho proseguito il viaggio verso la Svizzera,
ma sono stata trattenuta al confine in una struttura dove soggiornano le
persone sprovviste di documenti. Ho detto che cercavo di ricongiungermi con
il mio compagno e mi hanno sistemato in una stanza, in attesa di asilo
politico dandomi un piccolo sussidio. Sono rimasta in questo domicilio fino a
settembre e (…) veniva a trovarci e a dormire da noi, ma l’ufficio
immigrazione mi consegna il diniego di asilo e mi ordina di lasciare il paese.
Lo stesso mese io e mio figlio rientriamo a (…) in casa di un amico di (…),
che mi ospita per una notte. Poi siamo andati a vivere in un appartamento
con un’altra persona ma la convivenza è resa difficile dalle difficoltà
economiche, poiché io ero sprovvista di documenti e il mio compagno non
trovava lavoro. Lui ritorna a essere aggressivo e violento, mi ordina di
tornare in Svizzera per approfittare del sussidio previsto per chi richiede
asilo. Mi sono opposta perché avevo un foglio che mi vieta di entrare in
Svizzera. Lui si arrabbia molto e ha un atteggiamento aggressivo e violento,
spesso mi picchia e sentendomi in pericolo parto con mio figlio in treno per
arrivare a (…); ho chiamato don Aldo chiedendo una nuova possibilità di
aiuto, essere accolta insieme a mio figlio che in questo momento rappresenta
la mia famiglia.
Veronique
Mi chiamo Veronique. Mio padre si chiama David e mia madre Mariana.
Non ricordo il cognome perché è morta quando ero molto piccola. Sono
cristiana cattolica. Ho quattro fratelli e una sorella; sono la penultima nata.
Un uomo del mio villaggio, quando avevo 13 anni voleva sposarmi. Era
molto vecchio e aveva tanti bambini. Mio padre non voleva e così lui lo
menava. Per questo mio padre mi ha mandato a vivere nel villaggio vicino
presso mia zia. Sono stata lì per cinque anni e andavo a scuola. Al quinto
anno sono tornata al mio villaggio, ma ancora quest’uomo voleva sposarmi e
allora sono rientrata nuovamente lì, continuando così la scuola secondaria.
Ho vissuto in questo paese fino a 19 anni dopodiché mi sono trasferita da
mio fratello sposato. Ho vissuto un anno con la sua famiglia, lui ha trovato
un lavoro per me in ospedale come donna delle pulizie e per preparare le
camere. Mi pagavano 6500 naira. Dopo otto mesi, ho lasciato il lavoro
perché volevo imparare a fare la parrucchiera e aprire un mio negozio. Un
giorno mentre andavo nel posto dove imparavo a fare i capelli e facevo
l’apprendista e così ho incontrato un’amica, Stella. Lei mi ha detto che c’era
un uomo di Benin City, un certo (…). (il suo numero nigeriano è...), che
cercava ragazze per lavorare. Lui stava andando a incontrarlo. Affermava di
avere già tre ragazze e ne cercava solo un’altra. Io ero interessata, così
quest’amica ha telefonato dicendo che aveva trovato un’altra ragazza.
Quando ho incontrato (…) mi ha proposto di andare in Germania per
lavorare come cameriera in un ristorante. Ero felice dell’opportunità e ho
accettato. Lui ha chiesto di incontrare la mia famiglia. Ho chiamato mio
fratello e (…) ha chiesto il suo numero per conoscerlo. Sono partita con lui e
la mia amica. Ci siamo fermati a Ekpoma per la notte, presso una sua amica.
Quella notte (…) ha sognato delle persone che la inseguivano e si è svegliata
così agitata che al mattino che non ha voluto più proseguire. Allora lui gli ha
detto che gli avrebbe dovuto pagare il viaggio fino a Ekpoma. Lui non aveva
soldi e così l’ha lasciata andare via. Abbiamo preso un autobus per Benin
City e siamo arrivati a casa sua. Ci siamo fermati lì fino a sera. (…) è uscito
tornando con un’altra ragazza. Ci siamo preparati, abbiamo comprato del
cibo per il viaggio e ci ha portato a dormire in un luogo dove c’erano altre
cinque ragazze e un ragazzo che sarebbero venuti con noi. Il giorno dopo,
alle 6 di mattina, ci ha accompagnato da un autista che guidava un autobus
con scritto Sokoto State. Siamo entrati nel mezzo scrivendo il nostro nome e
cognome su un foglio. Lui è salito con noi per caricare altre ragazze e
ragazzi in città. Poi, quando l’autobus era al completo, siamo usciti da Benin
City. Eravamo più di 30. (…) ha consegnato ad ognuno di noi 8.000 naira
per il viaggio, per il cibo e l’acqua, dicendoci di tenere i soldi al sicuro
poiché il viaggio sarebbe stato molto lungo. L’autista ci ha portato via
attraversando Akwa Ibom State per arrivare nella città di Sokoto. L’autista si
è fermato a Sokoto e ha telefonato a (…), che ha dato all’autista un altro
numero di telefono da chiamare. È arrivato un uomo musulmano, che non
parlava inglese, con un furgone tutto chiuso e lungo. C’erano dentro altri
uomini e donne, alcuni stavano seduti, altri in piedi. Non c’era aria, eravamo
tutti compressi. L’autista ci ha fatto capire, a gesti, di stare in silenzio perché
dovevamo passare la frontiera dove c’erano i militari. Passata la frontiera,
l’uomo ci ha detto che potevamo di nuovo parlare. Nel tragitto qualcuno è
svenuto. Arrivati in Niger, l’autista ha contattato altri autisti del luogo. Sono
arrivate due grandi auto Toyota a caricarci; stavamo tutti stretti, uno seduto
sull’altro. Viaggiavamo di notte e ci hanno fermato dei militari sulla strada
per chiedere soldi. Ognuno di noi ha dovuto pagare 3500 naira per
proseguire. Gli autisti, che parlavano inglese, hanno viaggiato fino alla
mattina seguente e ci hanno portato fino alla foresta dicendo che avremmo
dovuto proseguire a piedi con uno dei due autisti. Ci ha riferito che quel
posto era molto pericoloso, che c’erano spiriti e anche molti militari che, se
ci vedevano, ci avrebbero ucciso. L’autista ci ha spiegato che avremmo
dovuto fare tutto quello che lui diceva, di correre se lui correva e di fermarci
quando lui si fermava. Abbiamo camminato per trenta minuti circa e ci ha
detto che nessuno doveva rimanere indietro. Dovevamo stare tutti insieme
perché se qualcuno si attardava sarebbe morto. Siamo arrivati in un posto
dove c’erano delle mucche. L’uomo che ci accompagnava ci ha fatto
nascondere lì perché c’erano dei militari. Poi ha chiamato altri uomini del
Niger per portarci a Agadez. Le ragazze viaggiavano sulle auto e i ragazzi
sulle moto. Ad Agadez c’erano molte altre persone. Qui ci hanno portato via
i telefoni e ci hanno dato dei contenitori per portare con noi dell’acqua. Ci
hanno diviso portandoci in una stanza dove abbiamo passato la notte a
dormire sul pavimento, e ci hanno dato da mangiare del pane. Ci siamo
fermati tre o quattro giorni ad Agadez. Poi ci hanno chiesto dei soldi per
comprare occhiali e cappelli per il deserto e hanno contattato altri autisti per
portarci in Libia. Eravamo ancora più di trenta. Quest’uomo ci ha spiegato
che dovevamo ascoltare gli autisti e fare quello che avrebbero detto,
altrimenti ci avrebbero potuto uccidere. Abbiamo viaggiato tutta la notte
senza dormire. La mattina dopo eravamo nel deserto. Siamo arrivati in un
posto per fermarci a mangiare. Di notte, poi, ci siamo nuovamente fermati
per dormire. Il viaggio è continuato il giorno seguente; abbiamo viaggiato
fino a sera per poi dormire e continuare la mattina seguente. Al pomeriggio,
siamo arrivati in un luogo dove c’era un pozzo; ci hanno detto che lì era
caduta e morta una donna. Non avevamo più acqua, perciò ci hanno
consigliato di prendere da bere per continuare il viaggio. L’auto, però, ha
iniziato ad avere dei problemi con le gomme; ci hanno fatto scendere a
spingere l’auto. Arrivata sera, ci siamo ancora fermati per la notte. Il giorno
dopo, al risveglio, gli autisti non c’erano più e con le Hilux si erano portati
via anche cibo e acqua. Non sapevamo dove andare, piangevamo pensando
di morire. Si vedevamo le tracce delle auto, ma poi queste si perdevano nel
deserto. Mentre pregavamo è volato verso di noi un uccello che veniva a
toccare ogni persona sulle spalle e poi si dirigeva in una direzione facendo
così per tre volte prima di scomparire. Qualcuno pensava che era uno spirito
maligno, qualcun altro che era un miracolo di Dio. Alcuni di noi hanno
deciso di seguire la direzione indicata dal volatile, abbiamo trovato la strada
e, così, siamo tornati indietro a chiamare gli altri che non volevano venire.
Sulla strada abbiamo incontrato un Hilux che portava altra gente in Libia e
abbiamo chiesto aiuto. Le persone che erano sull’Hilux ci hanno dato acqua
e cibo. Abbiamo seguito l’Hilux a piedi perché l’autista guidava piano per
aiutarci fino ad un posto dove ci ha detto di proseguire la strada da soli.
Mentre camminavamo è arrivato un altro Hilux che ha caricato due persone
perché aveva posto. Poi, ne è passato un altro caricando altri tre di noi.
Così, via via che altri Hilux passavano, ci hanno fatti salire tutti. Abbiamo
incontrato nuovamente i nostri autisti: ci hanno spiegato che erano andati a
riparare l’auto e che sarebbero tornati a riprenderci. Eravamo di nuovo tutti
insieme con gli autisti dei due Hilux. Quella notte non tutti hanno dormito
per paura di essere abbandonati nel deserto. Il giorno seguente abbiamo
continuato il viaggio fino a un posto con molti militari. C’era anche
dell’acqua. I soldati ci hanno chiesto di scendere e ci hanno accompagnato
in una costruzione, separando uomini e donne. Ci hanno fatto spogliare tutti
e ci hanno preso i soldi. Alcuni di noi, però, avevano nascosto il denaro tra i
vestiti e così non ci hanno portato via tutto. Ci hanno fatto rivestire. Quelli
che non avevano soldi li hanno fatti stendere a terra e picchiati con un
bastone. Ripreso il viaggio siamo arrivati in un luogo dove siamo rimasti
alcuni giorni per prendere acqua e fare la doccia. Abbiamo proseguito il
viaggio con gli Hilux fermandoci successivamente presso una caserma con
altri militari. Anche qui hanno chiesto denaro; noi abbiamo detto loro che
non avevamo niente, perché altri militari avevano già preso tutto. Un soldato
parlava francese e c’era una ragazza fra noi che parlava questa lingua. Così
i militari non hanno fatto nulla alle ragazze, ma hanno picchiato i ragazzi
con un bastone. Non c’era acqua e non avevamo da mangiare, ma, avendo
detto che non avevamo soldi, non potevamo comprare nulla. I militari ci
hanno dato solo acqua e abbiamo ripreso il viaggio. Quando l’autista ha
visto di nuovo un altro posto di blocco coi militari ha cambiato strada
sapendo che non avevamo denaro. Siamo arrivati in un villaggio vicino alla
Libia. Ci hanno portato in una casa e ci hanno chiuso dentro. Abbiamo
comprato pane e acqua e siamo rimasti lì per tre giorni. Abbiamo proseguito
nel deserto verso la Libia. Gli autisti del Niger, a questo punto, hanno
contattato altri due Hilux con due autisti arabi per portarci a Saba. Abbiamo
attraversato il deserto fino a Saba, dove c’era un campo con molte persone
sedute per terra e c’era un uomo nigeriano, Prince, quello che organizzava
la traversata del mare in barca. Era sabato. Prince ha chiamato (…) dicendo
che eravamo arrivati in Libia. (…) ha inviato a Prince i soldi per la barca e
per il cibo. Ci ha dato del denaro per comprare alimenti e acqua per il resto
del viaggio. Abbiamo aspettato una settimana e un giorno. La domenica notte
ci sono venuti a prendere con altri due Hilux guidati da arabi. Ci hanno
accompagnato in una casa nuova e ci hanno fatto nascondere dietro questa
casa, dandoci pane e acqua. Ci siamo fermati altri quattro giorni lì, poi sono
venuti a prenderci con un camion con rimorchio e ci hanno fatto stendere sul
cassone del rimorchio perché c’erano soldati lungo la strada. Col camion
siamo giunti in un altro campo. Stavamo all’aperto. In questo campo
vendevano cibo che potevamo comprare con i soldi dati da (…) a Prince.
Dopo più di una settimana è tornato il camion a prenderci per portarci
presso una specie di caverna, dove un uomo arabo ci ha minacciato di
consegnargli tutti i soldi o ci avrebbe uccisi. Ancora una volta siamo riusciti
a nascondere parte dei soldi nei vestiti. Siamo restati lì ancora una
settimana. La notte accendevamo il fuoco per scaldarci, perché era freddo.
Ci hanno portato del pane e potevamo bere l’acqua dove si abbeveravano gli
animali. L’arabo ha contattato un altro autista per portarci via: erano tre
militari con altrettante auto. Siamo andati con loro e ci portarono in un
posto dove c’erano degli animali. Abbiamo dormito con gli animali, poi, il
giorno seguente, ci hanno accompagnato in un bosco dove abbiamo aspettato
due giorni, a pane e acqua. Ci è venuto a prendere un camion per portarci,
vicino al mare, in un campo molto grande. C’erano migliaia di persone. Ci
davano cibo e siamo stati lì ancora una settimana. A mezzanotte, di
domenica, è arrivato il turno dei “(…) passengers” – come ci chiamavano –
e ci hanno fatto salire su un camion chiuso. Molte ragazze hanno perso i
sensi lì dentro perché era molto caldo ed eravamo molto stretti. Siamo
arrivati sulla costa e qui ci hanno chiesto di tagliare le unghie e di togliere
catene, orecchini e scarpe perché ci avrebbero fatti salire su un gommone.
Nell’imbarcazione eravamo 150 persone. Guidava un ragazzo del Ghana.
Siamo partiti a mezzanotte e al mattino, in mezzo al mare, sono giunti i
soccorsi italiani. Sono arrivati con una piccola barca prendendo cinque
persone alla volta e dando a ciascuno un giubbotto di salvataggio. Ci hanno
accolto in una nave grande, dove hanno soccorso anche delle persone da un
altro gommone. Nella nave ci hanno dato da mangiare. Siamo saliti su una
nave più piccola e poi su una grande per arrivare in Italia, in Sicilia (non
ricordo il nome del posto, ma gli italiani dicevano “Sicily”). Ci hanno dato
cibo, ciabatte e altro. Abbiamo dormito per terra. Il giorno dopo hanno
registrato i nomi, fatto le foto, preso le impronte digitali consegnandoci una
tessera di identificazione personale. Il pomeriggio è arrivato un autobus per
portarci al campo di Foggia dove ci hanno dato vestiti, scarpe e ci hanno
sistemato nelle camere. Ho conosciuto un nigeriano al quale il giorno dopo
ho chiesto in prestito il telefono per chiamare in Nigeria. Lui ha dormito una
notte nella nostra camera, poi, alla mattina mi ha chiesto di non prendere
nulla delle mie cose, perché la gente del campo non sospettasse che lei stava
scappando. Il giorno dopo sono salita con lui sull’autobus all’interno del
campo. Dopo circa mezz’ora ci ha fatti scendere per prendere un altro
autobus per la stazione di Napoli. Da Napoli abbiamo preso un treno per
Roma. A Roma mi ha portato in un appartamento dove mi presentò la sua
ragazza che aveva una camera in subaffitto da una coppia nigeriana e mi ha
detto che avrei diviso la camera con lei. Il nigeriano ha detto alla madame di
spiegarmi il lavoro che avrei dovuto fare, cioè prostituirmi. Io gli ho risposto
che (…) mi aveva promesso un lavoro in Germania in un ristorante e non
volevo prostituirmi. Il nigeriano mi ha detto che (…) aveva mentito e che
dovevo prostituirmi. Io ho iniziato a piangere. Sono rimasta a casa tre giorni
e lui ha invitato la madame a darmi dei vestiti per andare sulla strada con
lei. Alla fine ci sono andata insieme a lei. Non so di preciso dove mi trovavo
a Roma, perché lei mi faceva uscire solo di notte. So solo che c’erano molte
case attorno e l’appartamento era ai piani superiori. Abbiamo preso un
autobus per arrivare in un posto dove c’erano degli alberi, come un bosco, e
poche case vicine. La madame mi ha mostrato il posto dove dovevo stare, poi
si è allontanata in modo, però, da potermi vedere. Più tardi è arrivato un
uomo bianco che mi ha chiesto qualcosa, ma io non capivo l’italiano. Allora,
lei si è avvicinata, ha parlato col tizio e mi ha detto di seguirlo. Sono salita
con lui nella macchina. Dopo, l’uomo mi ha dato 10 euro e lei mi ha preso i
soldi. Più tardi è venuto un altro uomo e lei ha fatto allo stesso modo. Lui mi
ha portato lontano e siccome parlava inglese mi ha posto delle domande,
come «da quanto sei in Italia?», «perché sei sulla strada?». Gli ho spiegato
tutto aggiungendo che non volevo prostituirmi, ma ho fatto quello che mi ha
chiesto di fare e mi ha dato venti euro. Poi mi ha lasciato dalla madame che
ha preso i soldi. A mezzanotte è arrivato un altro uomo che viveva lì vicino e
mi ha detto di seguirlo a casa sua. L’uomo ci ha chiesto di dormire a casa
sua. Ci ha dato del cibo e dopo ha chiesto di farmi stare a letto con lui. Io ho
detto che non volevo e lei mi ha minacciato dicendo che se non lo facevo
avrebbe chiamato e che quando saremmo tornate a casa non mi voleva più
con lei. Ho seguito quell’uomo, ma non volevo togliere i vestiti, così lui ha
chiamato la madame che ha continuato a insultarmi e picchiarmi. Sono
andata con quell’uomo che mi ha dato 50 euro che subito lei ha preso. Io
piangevo e non volevo più fare queste cose. Il mattino seguente siamo tornate
a casa. (…) mi ha portato nella sua stanza subaffittata da una coppia
nigeriana, a (…), in una zona dove c’è un capannone dove c’è il mercato
ogni mercoledì. Quando sono entrata in casa ho incontrato la coppia e altre
due ragazze. Quella sera (…) ha chiesto a (…) di insegnarmi come parlare in
italiano per andare sulla strada. Lei mi ha dato anche dei vestiti per andare
a prostituirmi. Una settimana dopo sono andata con (…) in piazza (…) dove
loro si prostituivano. Qui ho incontrato molte ragazze che dicevano che non
potevo stare lì, perché eravamo troppe. (…) ha chiamato (…) spiegando che
le altre ragazze non volevano che io stessi lì, così (…) mi ha riaccompagnato
a casa insultandomi perché non volevo prostituirmi. Ha detto pure che avrei
dovuto restituirgli i soldi che il fratello (…) aveva pagato per il mio viaggio.
L’uomo che affittava a (…) la stanza gli disse che non avremmo potuto stare
in quattro nella stessa stanza. Così quella notte ho dormito per terra. Il
giorno dopo (…) è andato a cercare un’altra casa lì vicino e ha trovato una
stanza da una coppia nigeriana di Benin City, per 150 euro al mese.
L’appartamento era a (…), vicino a un bar, non distante dalla stazione. (…)
mi ha raccontato che anche lei prima si era dovuta prostituire, ma adesso
con il compagno comprava oggetti (un po’ di tutto, anche tv, computer, ecc.)
a poco prezzo e li spediva prima di Natale per rivenderli in Nigeria. Mi
hanno dato una stanza nel solaio dove non potevo stare in piedi, perché era
molto basso. Era una stanza abbandonata, sporca, senza intonaco e con il
materasso sul pavimento. (…) ha dato all’uomo 150 euro e mi ha detto che
dovevo ripagare l’affitto andando a prostituirmi. La sera del giorno dopo,
(…) è venuto con me a (…) per incontrare un’altra ragazza nigeriana, e le ha
detto di accompagnarmi nel posto dove anche lei prima si prostituiva, (…)
chiedeva 100 euro al mese per stare in quel posto. Lei lavorava in un
“african shop” lì vicino. I soldi dell’affitto li avrei dovuti consegnare
direttamente io a lei. Così (…) mi ha accompagnato sulla strada. (…) mi ha
detto che dovevo mettere vestiti corti, perché altrimenti i bianchi non si
sarebbero fermati, ma era freddo… mi ha anche detto che se non andavo
sulla strada a prostituirmi avrebbe chiamato (…), il quale sarebbe andato
dalla mia famiglia a chiedere i soldi e che poi mi avrebbero venduta. Poi mi
hanno lasciato lì e più tardi è giunto un uomo bianco che parlava inglese,
(...). Mi sono prostituita con lui e mi ha dato venti euro. Sono rimasta lì fino
alle quattro della mattina. (…) mi aveva fatto vedere che autobus dovevo
prendere per tornare a casa da sola. Arrivata a casa alle otto di mattina (…)
mi ha chiesto quanto avessi guadagnato. Avevo solo quei venti euro, ma lui
non mi credeva e pensava che stessi mentendo. Ha cercato in tutta la stanza,
ma non ha trovato nulla e ha preso quei venti euro andando via. Al
pomeriggio è tornato per dirmi che quando stavo sulla strada dovevo
chiamare gli uomini e non aspettare che si fermassero loro. Gli ho risposto
che non volevo più prostituirmi, ma lui mi ha insultato dicendo che non
volevo restituire i soldi al fratello. Ha aggiunto che dovevo restituirgli anche
i 150 euro. Il giorno dopo sono tornata sulla strada e mi sono prostituita. In
tal modo sono riuscita a dargli i 150 euro. Andavo quasi tutti i giorni a
prostituirmi, ma guadagnavo poco. Un giorno lui è tornato a chiedere i soldi
per mandarli a suo fratello. Alla mia risposta che non ne avevo, mi ha
picchiato pensando che li nascondevo. Mi sono prostituita per quattro mesi,
da ottobre a febbraio, e ho scritto su un foglio quello che gli davo. Andavo
via alle venti prendendo da sola l’autobus. Tornavo alle quattro di mattina,
entrando da sola in casa, perché avevo le chiavi. Non sono mai scappata
perché avevo paura che (…) lo dicesse a (…) e che lui andasse a fare del
male alla mia famiglia. Lui voleva che gli consegnassi 100 euro a settimana.
Dovevo pagare l’affitto, il cibo, il posto di (…) e non riuscivo a dare i soldi
al magnaccia. Siccome non riuscivo neppure a pagare (…), lui mi ha portato
in un altro posto. Anche qui, andavo e tornavo con l’autobus da sola. Gli
dicevo più volte che non avevo i soldi, che non riuscivo e gli davo tutto quello
che avevo, ma lui non mi credeva mai. Allora, un giorno, è andato a
prendere un cliente per farmi prostituire nella mia camera e poi ha preso dei
soldi direttamente da lui. La sera seguente non sono andata sulla strada. La
coppia dove vivevo mi hanno chiesto il perché e io ho risposto loro che ero
stanca, che non potevo andare. Così hanno chiamato (…) per dirglielo e lui è
venuto a picchiarmi. Ad un certo punto (…) ha fermato il magnaccia perché
mi stava facendo proprio male, è andato via ed è tornato con un’altra
ragazza per dormire nella stanza con lei. A me ha mandato sulla strada.
Quando sono tornata ho dovuto dormire sul pavimento del piano di sotto.
Molte altre volte (…) si è comportato in questo modo. Ogni venerdì, sulla
strada, venivano a pregare delle persone che dicevano di aiutare le ragazze
ad uscire dal racket della prostituzione e lasciavano il numero di un certo
(…). Io non ho chiamato mai, ma ho conservato il suo numero. Una volta che
stavo andando sulla strada ho incontrato un ragazzo sull’autobus. Ci siamo
presentati e siamo diventati amici. Mi ha detto che viveva in una casa per
profughi e che lavorava in un ristorante. Io lo incontravo il pomeriggio. Un
giorno, mentre passeggiavo con lui, (…) mi ha visto. Quando sono arrivata a
casa ho scoperto che aveva chiamato il magnaccia per dirgli che avevo un
ragazzo. Poco dopo è arrivato e mi ha domandato cosa andassi a fare in
quella via, gli ho risposto che incontravo una persona e lui ha detto che suo
fratello aveva pagato per farmi prostituire, non per incontrare uomini. Lui
voleva sapere chi fosse, ma non gliel’ho detto. Mi ha picchiato e ancora una
volta (…) lo ha fermato perché non continuasse. Un giorno, mentre ero sulla
strada, ho visto altre ragazze nigeriane come me. Ho raccontato loro che
(…) mi menava e mi hanno detto che anche a loro succedeva con la madame
e che avrei potuto denunciarlo alla polizia se mi picchiava ancora. Un
giorno ero malata e non sono andata a prostituirmi. (…) è arrivato per
chiedermi soldi, ma gli ho detto che ero malata e non potevo andare. Lui
pensava che mentissi e allora mi voleva picchiare. Allora gli ho detto che se
lo avesse fatto io sarei andata a chiamare la polizia. Mi ha risposto che lui
non aveva paura della polizia e che dovevo andare a prostituirmi, mi ha fatto
vestire e uscire di casa, ma ho aspettato fuori che se ne andasse per tornare
in camera. Ero molto malata e non riuscivo a mangiare, così ho chiamato il
mio amico per dirglielo. Mi ha consigliato di chiamare il 118. Arrivata
l’ambulanza un infermiere ha chiesto a (…) di accompagnarmi in ospedale,
ma lui ha detto che non poteva. Allora ho chiamato un’amica, anche lei
prostituta, che è venuta con me in ospedale. Lì i medici mi hanno comunicato
che ero incinta. Era febbraio. Il dottore mi ha chiesto se volessi abortire. In
tal caso sarei dovuta andare all’ospedale vicino. Io ho risposto che non
volevo abortire. Mi hanno dato due fogli con gli appuntamenti per tornare a
fare delle visite. Sono tornata a casa e c’erano (…), un altro ragazzo, e la
coppia che mi aspettavano. Mi hanno chiesto cosa fosse successo e ho
risposto loro che avevo solo la febbre. La donna mi ha detto di mostrarle il
foglio di dimissione dall’ospedale, ma io ho risposto che non avevo nulla. Lei
mi ha detto che mentivo perché non era possibile. Più tardi ho vomitato; la
donna mi ha chiesto se ero incinta e io ho risposto di no. Sono rimasta a casa
per una settimana, poi ho chiamato il mio amico per dirglielo. Lui è venuto a
trovarmi mentre la coppia era a fare compere. Il mio amico mi ha chiesto chi
fosse l’uomo che mi aveva portato in Italia e chi dovevo pagare; gli ho
risposto che era (…) e che dovevo dare soldi a suo fratello. Lui mi ha detto
che se il magnaccia avesse scoperto che ero incinta mi avrebbe sicuramente
picchiata. Ho spiegato al mio amico che ero spaventata e non volevo
abortire. Secondo lui, invece avrei dovuto farlo. Poi, però, ho cambiato idea,
ma, mentre cercavo l’ospedale, ho incontrato una signora nigeriana con tre
bambini. Le ho chiesto dove era l’ospedale spiegandole che dovevo andare
ad abortire. Lei mi ha detto che il medico non parlava inglese e allora si è
offerta di accompagnarmi. Mentre aspettavamo le ho raccontato che mi
prostituivo per pagare (…). Allora lei mi ha consigliato di non abortire:
anche a lei era capitato, era stata sulla strada, ma poi era stata accolta in
una casa famiglia. Il dottore, una volta che mi ha ricevuto, mi ha dato un
appuntamento dicendo che avrei dovuto portare il passaporto. Uscendo la
donna nigeriana mi ha ripetuto di non abortire; io le ho spiegato che non
volevo, ma avevo paura di (…). Così lei mi ha dato il suo numero di telefono
per incontrarla il giorno seguente. La sera stessa l’ho chiamata. Il giorno
dopo l’incontrata e mi ha dato il numero di un’altra ragazza che aveva
vissuto in casa famiglia. Il giorno seguente (…) è tornato e ha chiamato (…).
Questi gli ha detto di vendermi a qualcun altro e di farmi raccogliere i miei
vestiti per andare via. Mentre preparavo la valigia gli ho detto che avevo
dimenticato una cosa di sotto. Ho usato questa scusa per scappare via. Sono
andata a nascondermi in un parco. (…) mi ha chiamato intimandomi di
tornare a casa perché mi aspettava. Anche (…) mi ha telefonato per lo stesso
motivo. Sono rimasta fuori tutta la notte e sono tornata a casa al mattino
presto, sono entrata in silenzio, ho preso le mie cose e sono salita
sull’autobus per recarmi da un’altra ragazza amica che conoscevo, che si
chiama (…). A quel punto ho chiamato la ragazza che era stata nella casa-
famiglia e l’ho incontrata alla stazione, assieme a don Aldo e agli operatori
dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Non immaginavo che
fossero proprio quelli che venivano a pregare sulla strada. Ho chiesto aiuto
spiegando anche che ero incinta.
17.
Il mio sogno
Il lungo tratto di vita trascorso di notte sulle strade italiane, prima con don
Oreste Benzi e con i fratelli della Giovanni XXIII, hanno cambiato
irreversibilmente il mio modo di sperimentare e condividere la fede. Nelle
periferie geografiche ed esistenziali si incontra Cristo nelle piaghe delle
nostre vittime. Nostre, perché tutte le volte che si parla di legalizzazione della
prostituzione si cede alla tentazione diabolica di normalizzare l’inaccettabile.
Neppure dovrebbe essere un’ipotesi quella di poter acquistare un corpo come
se fosse un nostro diritto.
Una notte mi trovavo a Perugia nella zona di Pian di Massiano dove si
ritrova il gruppo chiamato Goel (che significa il Dio “vendicatore” che
riscatta e libera gli schiavi nel giubileo), a pregare ogni sabato il Santo
Rosario a mezzanotte. Un’invocazione a Dio per le donne schiavizzate, che
sono li accanto, sui cigli delle strade e spesso impossibilitate ad attraversarle
per aggregarsi a noi nella preghiera. Un Rosario recitato nella cattedrale del
cielo al cospetto di una modesta statua della Vergine di Fatima, illuminata da
quelle piccole fiaccole che continuano incessantemente ad accendersi da
decenni per donare la speranza di una rinascita e il coraggio di abbandonare
la strada strappando le catene della servitù. Da quel fazzoletto di terra
macchiata di sangue sono venute via molte ragazzine vittime della
prostituzione coatta, recuperate dalla Vergine Maria. E sempre da quel
piazzale, frequentato negli anni da migliaia di uomini e donne, giovani
desiderosi di condividere questa esperienza unica di evangelizzazione, sono
nate conversioni e anche vocazioni al sacerdozio. Voglio dedicare questo mio
modesto contributo a quelle ostie viventi che, negli angoli più bui della nostra
“civilissima” società occidentale, hanno forgiato la mia esistenza. Vorrei che
la testimonianza delle loro sofferenze arrivasse soprattutto alle nuove
generazioni. È per questo che ho deciso di scrivere questo libro dopo aver a
lungo meditato e pregato. L’intenzione che mi ha animato è quella di
raggiungere in primo luogo quelle agenzie educative, come la scuola e la
parrocchia, che in questi anni di crisi sociale e culturale stanno affrontando il
mare in tempesta del terzo millennio globalizzato. Il riferimento mio e di
milioni di credenti irradia la sua luce da Piazza San Pietro ed è il Santo Padre
che alle donne crocifisse ci insegna a rivolgere attenzione, affetto e
condivisione. Per questo, per il segno profetico che dalle sue parole arriva
nitido al cuore dell’umanità e per quanto ogni giorno conferma nel suo
magistero rivolgo a Papa Francesco il più devoto e filiale ringraziamento.
Eccole, dunque le croci viventi. Anna, morta di Hiv dopo aver ricevuto la
carezza di Giovanni Paolo II nel Giubileo del 2000 accompagnata sul sagrato
di San Pietro da don Oreste Benzi. La carezza del Papa arriva ancora oggi a
tutte le nostre “sorelline” che accogliamo ogni giorno. Quando scelsi Anna
tra le decine di ragazze per il baciamano al Pontefice vidi illuminarsi i suoi
occhi divenuti luminosi come le stelle che brillano in cielo quando preghiamo
sui marciapiedi. Blessing, una notte la avvicinai scorgendo che nascondeva la
mano sotto il giacchettino. Nel chiederle il motivo del suo pianto ininterrotto
mi mostrò la destra che grondava sangue. Così alla mia insistenza sulle cause
di quella emorragia rispose che era stato l’ultimo cliente. Dopo averla pagata
per la prestazione sessuale le bloccò il braccio incastrandole la mano nella
portiera della macchina per riprendersi il denaro e scappare. A quel punto mi
confidò anche di essere incinta e così la convinsi a venire con me al pronto
soccorso. Non potrò mai dimenticare la frase che mi rivolse il medico di
guardia appena mi vide con quella ragazza: «Questa è una prostituta?». Io
non risposi. Poi incalzò per provocarmi: «E lei chi sarebbe, il suo salvatore?».
A quel punto fissando intensamente il suo sguardo gli replicai: «Io sono uno
come lei, chiamato a fare il proprio dovere… gli dia un po’ di ghiaccio
perché ha dolore». Infine, la terza “ostia vivente”: Maria. Una notte la
avvicinai sulla strada rivolgendole una serie di domande: «Perché sei qui?, lo
sanno i tuoi genitori che ti prostituisci?, tu credi in Dio?, quanto soffri?,
perché non vieni via con me?». Questi, e altri simili, sono gli interrogativi
che indirizzo alle schiave della prostituzione. Quesiti opposti a quelli dei
clienti che chiedono solo: «Quanto vuoi?». Quella notte Maria scoppiò a
piangere dinanzi a un semplice prete in tonaca. Quando le chiesi cosa
avrebbero fatto i suoi genitori qualora avessero saputo che era finita in strada,
lei mi rispose: «Verrebbero immediatamente a prendermi». E io: «Questa
notte il Signore ha risposto alle loro preghiere e anche alle tue, mandando me
a prenderti». Poi ho aggiunto in albanese: «Non aver paura, vieni via con me»
(mos ki frik hajde me mua). A qualche giorno dalla sua liberazione, scoprì di
aspettare un bambino. Il Goel quella notte aveva salvato due vite.
Appendice
I STAZIONE
II STAZIONE
III STAZIONE
IV STAZIONE
V STAZIONE
VI STAZIONE
VII STAZIONE
Gesù cade più volte
Dal Libro del Profeta Isaia 53, 7.10
Noi ti adoriamo o Cristo e ti glorifichiamo
Perché con la tua santa croce hai redento il mondo
«Maltrattato, si lasciò umiliare e non apri la sua bocca; era come un
agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e
non apri la sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori».
Meditazione: Quante volte sei caduto Nazareno? Quante volte ti abbiamo
spinto verso questo suolo fatto di fango e polvere; terra arida, senz’acqua, che
tu hai bagnato con il sangue dell’espiazione. Caduto per rialzare. Tu continui
a piegarti verso la nostra miseria bisognosa di redenzione. Ti sei fatto peccato
pur non conoscendolo.
Il cliente delle schiave: Quante volte sono caduto nel baratro del peccato.
Io, cliente e schiavista, per un egoismo malato e spietato. Dinanzi alla donna
innocente, caduta nella trappola del male, mi sono fatto complice di questo
maledetto mercato. Sono caduto più volte... chissà se mai riuscirò a rialzarmi!
Orazione: Signore della vita, Tu vera libertà che hai scelto di farti schiavo
per noi. Tu Gesù, maltrattato e abbattuto dai nostri peccati, non ci
abbandonare sulla tanta polvere di questa perversione umana. Soffia in noi il
tuo alito di vita perché rialzandoci dagli inferi sappiamo ricreare quei cieli e
terra nuova da te promessi. Per Cristo Nostro Signore.
VIII STAZIONE
IX STAZIONE
X STAZIONE
XI STAZIONE
XII STAZIONE
Gesù è risorto, è veramente risorto
Noi ti adoriamo o Cristo e ti glorifichiamo
Perché con la tua santa croce hai redento il mondo
Dal Vangelo di Luca 24, 1-12
Il primo giorno della settimana, al mattino presto, esse si recarono al
sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono che la
pietra era stata rimossa dal sepolcro e entrate non trovarono il corpo del
Signore Gesù. Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco
due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante. Le donne impaurite
tenevano il volto chinato a terra ma quelli dissero loro: «Perché cercate tra i
morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò
quando era ancora in Galilea e diceva “bisogna che il Figlio dell’uomo sia
consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”».
Ed esse si ricordarono delle sue parole. E, tornate dal sepolcro,
annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria
Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre che erano
con loro raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro
come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Pietro tuttavia si alzò
corse al sepolcro e chinatosi vide soltanto i teli. E tornò indietro pieno di
stupore per l’accaduto.
La resurrezione secondo don Oreste Benzi:
«Se non ci fosse la domanda, non ci sarebbe l’offerta. Se gli italiani non
chiedessero prestazioni sessuali a pagamento, non ci sarebbe la tratta delle
donne che vengono schiavizzate e forzate, da criminali singoli o associati, a
dare le prestazioni sessuali richieste. Questa ingente quantità di persone
colpite dalla schiavitù, dalla disoccupazione, dalla fame, dalla guerra, sono le
vittime di una società disumana, di una società in cui l’uomo è una “cosa”
accanto alle altre.
Voce della vittima liberata dalla schiavitù: Ora posso testimoniare cosa
significa essere una donna libera, mamma a tempo pieno per i propri figli,
avere un marito che mi ama, avere una casa e un lavoro; poter vivere in
amicizia con Dio. Cancellare l’obbrobrio».
Amen. Alleluia.
Ringraziamenti
Sento il bisogno di ringraziare la mia famiglia che amo sopra ogni cosa
anche se mi vede poco per il mio apostolato: mia mamma Alda che sempre
mi protegge con il suo amore e mio fratello Gianni che è parte di me. Mio
padre Vitaliano che è in cielo e mia nonna Alba che mi ha trasmesso la fede e
l’amore per Gesù. Poi ringrazio don Oreste che ogni giorno mi parla al cuore
e anche da Lassù mi guida e consola. Un grazie alle persone che da tanti anni
mi sopportano con il loro sincero affetto e quotidiana condivisione: Marina e
Sergio, Roberto e Benedetta, Alessio e Mattia; Mons. Macario Tinti che mi
ha insegnato l’amore per il Santo Rosario, Mons. Tarcisio Carboni per avermi
trasferito la sua gioia evangelica. Ringrazio alcuni pastori molto importanti
per la mia vita, che mi hanno sempre sostenuto con affetto sincero e la loro
testimonianza: Mons. Giancarlo Vecerrica, Mons. Stefano Russo, il Cardinale
Gualtiero Bassetti. Madre Gabriella insieme alle monache benedettine di
Monte San Martino che pregano per me da quando avevo 14 anni. E poi
Paolo Ramonda con tutti i fratelli e sorelle della Giovanni XXIII e in
particolare quelli della Casa tra le Nuvole. Desidero ringraziare quei
giornalisti sensibili e coraggiosi nel dare voce alle donne crocifisse. Un grazie
particolare a Giacomo Galeazzi per avermi incoraggiato e sostenuto in questa
avventura editoriale. Di nuovo, sempre e ancora grazie al Vicario di Cristo,
Sommo Pontefice, Pastore buono e docile Sua Santità Papa Francesco.
Indice
Introduzione
1. Breve storia del mercimonio coatto
L’ingiustizia più radicata nella storia dell’umanità
I lupanari
Le prime limitazioni
Il male minore
2. La prostituzione in Italia
Una legge ad hoc
Le case chiuse
La legge Merlin
La situazione attuale
L’immigrazione
Il modello nordico
Oltre 100.000 prostitute di strada
La richiesta della Comunità Papa Giovanni XXIII ai Governi
E se fosse tua figlia?
Le radici del mio impegno
Ringraziamenti