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A - Il concetto di fenomeno
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non ha nulla a che fare con ciò che si usa chiamare «apparizione»
[Erscheinung] o addirittura «mera apparizione».
[7] In questo senso si parla dei «sintomi patologici»
[»Krankheitserscheinungen«]. Si intendono eventi del corpo che si
manifestano [sich zeigen] e che, nel manifestarsi come questi
manifestantisi, fanno da «indizi» di qualcosa che a sua volta non si
manifesta. L’insorgere di tali eventi, il loro manifestarsi, è associata
alla semplice presenza di disturbi che non si manifestano. Apparizione
come apparizione «di qualcosa» non significa dunque affatto:
manifestare se stesso, ma: annunciarsi di qualcosa che non si manifesta,
mediante qualcosa che si manifesta. L’apparire [Erscheinen] è16n un
non-manifestarsi. Ma questo «non» non deve assolutamente venir
confuso col «non» privativo che come tale caratterizza la struttura della
parvenza. Ciò che non si manifesta in quel modo, in cui l’apparente
[das Erscheinende] non si manifesta, non può mai neppure sembrare
[scheinen]. Indicazioni, presentazioni (Darstellungen), sintomi,
simboli, per quanto molto diversi fra di loro, hanno tutti questa struttura
formale fondamentale dell’apparire (Erscheinen).
[8] Benché l’«apparire» (»Erscheinen«) non sia mai un manifestarsi
nel senso del fenomeno, esso è tuttavia possibile soltanto sul
fondamento di un manifestarsi di qualcosa. Ma questo manifestarsi che
assieme rende possibile l’apparire, non è l’apparire stesso. Apparire è:
annunciarsi mediante qualcosa che si manifesta. Quando allora si dice:
con la parola «apparizione» (Erscheinung) rinviamo a qualcosa in cui
qualcosa appare senza essere esso stesso apparizione, con ciò non
abbiamo delimitato (umgrenzt, “circoscritto”) il concetto di fenomeno,
lo abbiamo bensì presupposto; e tale presupposizione rimane però
occultata [verdeckt], perché in questa determinazione di «apparizione»
[»Erscheinung«] l’espressione «apparire» (»erscheinen«) è usata in
duplice senso. Ciò in cui qualcosa «appare», significa ciò in cui
qualcosa si annuncia, ovvero non si manifesta; mentre nel discorso
[Rede]: «senza essere esso stesso ‘apparizione’», la parola
«apparizione» significa il manifestarsi. Ma questo manifestarsi
appartiene in modo essenziale a quell’«in cui» (Worin) entro il quale
qualcosa si annuncia. Dunque, i fenomeni non sono mai apparizioni,
anche se ogni apparizione è dipendente da fenomeni. Se si definisce il
fenomeno con l’ausilio di un concetto ancora oscuro di «apparizione»,
tutto è messo sottosopra e una «critica» della fenomenologia su queste
basi diviene una impresa ben stramba.
[9] La stessa espressione «apparizione» può, di nuovo, avere un
significato duplice: da un lato, [può significare] l’apparire nel senso
dell’annunciarsi come non manifestarsi, e dall’altro l’annunciante
stesso che, nel suo manifestarsi, indica [anzeigt] qualcosa di non
manifestantesi. E, infine, il termine apparire può essere usato per
significare il senso genuino di fenomeno come manifestarsi. Se si
designano questi tre diversi stati di cose con il termine «apparizione»,
la confusione diventa allora inevitabile.
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[10] Ma la confusione è in più aggravata in modo essenziale dal fatto
che «apparizione» può assumere un altro significato ancora. Se
l’annunciante che nel suo manifestarsi indica [anzeigt] il non-
manifesto è inteso come qualcosa che sorge dal non-manifesto stesso,
da questo si irradia, in modo tale che il non-manifesto sia concepito
come non mai manifestabile per essenza, in questo caso apparizione
significa produzione o prodotto, tale però da non esprimere l’essere
autentico del produttore: apparizione nel senso di «semplice
apparizione». L’annunciante così prodotto manifesta certamente se
stesso, ma in modo tale che, in quanto irradiazione di ciò che annuncia,
lo vela costantemente in se stesso. Ma questo velante non manifestare
non è, di nuovo, parvenza. Kant usa il termine Erscheinung in questa
combinazione di significati. Erscheinungen sono per lui, da un lato, gli
«oggetti dell’intuizione empirica», ciò che in questa si manifesta.
Questo manifestantesi (fenomeno nel senso genuino e originario) è, nel
contempo, «apparizione» come annunciante irradiazione di qualcosa
che nell’apparizione si nasconde.
[11] Poiché per l’«apparizione», nel significato dell’annunciarsi
mediante un manifestantesi, è costitutivo un fenomeno, ma questo può
però modificarsi in parvenza (Schein), anche l’apparizione può
diventare una semplice parvenza. In una particolare illuminazione un
individuo può parere tale da avere le guance rosse: questo rossore
manifestantesi può esser preso per l’annuncio della presenza di febbre,
la quale, a sua volta, indicherebbe, di nuovo, un’indisposizione
dell’organismo.
[12] Fenomeno, il manifestarsi-in-se-stesso, significa un modo di
incontro eminente (ausgezeichnet) di qualcosa. Apparizione
[Erscheinung], invece, significa un essente rapporto di rimando
nell’ente stesso, tale per cui il rimandante (l’annunciante) è in grado di
assolvere la sua funzione possibile solo se si manifesta in se stesso, se
è «fenomeno». Apparizione (Erscheinung) e parvenza (Schein) sono
essi stessi, in modo diverso, fondati nel fenomeno. La disorientante
molteplicità di «fenomeni» che vanno sotto il nome di fenomeno,
parvenza, apparizione, semplice apparizione, può essere riordinata solo
se è fin dall’inizio compreso il concetto di fenomeno: il manifestantesi-
in-se-stesso.
[13] Se, in questa accezione del concetto di fenomeno, resta
indeterminato quale ente venga chiamato in causa come fenomeno, e
se resta in generale indeciso se il manifestantesi è ogni volta un ente o
un carattere d’essere dell’ente, allora non si è raggiunto che il concetto
formale di fenomeno. Quando, però, si comprende il manifestantesi,
come ad esempio in Kant, nel senso dell’ente a cui si accede mediante
l’intuizione empirica, allora in questo caso il concetto formale di
fenomeno giunge ad una applicazione legittima [rechtmäßigen
Anwendung]. Fenomeno in questo uso soddisfa [erfüllt] il concetto
ordinario di fenomeno. Tale concetto ordinario non è però il concetto
fenomenologico di fenomeno. Nell’orizzonte della problematica
kantiana, quel che si intende fenomenologicamente per fenomeno può
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essere illustrato (facendo riserva per altre differenze) dicendo: ciò che
nelle apparizioni (Erscheinungen), nel fenomeno in senso ordinario,
ogni volta si manifesta preliminarmente e contemporaneamente,
benché non tematicamente, può essere portato tematicamente al
manifestarsi: e questo così-manifestantesi-in-se-stesso (le «forme
dell’intuizione») sono i fenomeni della fenomenologia. Giacché è
evidente che spazio e tempo debbono potersi manifestare a questo
modo, ossia debbono poter divenire fenomeni, se Kant, affermando che
lo spazio è l’in-cui [Worinnen] apriori di un ordine, pretende di
formulare una asserzione trascendentale fondata nella cosa stessa
[sachbegruendete Aussage].
[14] Ma se, ora, il concetto fenomenologico di fenomeno va compreso
in quanto tale, prescindendo dal modo cui il manifestantesi possa più
da vicino venir determinato, allora, indispensabile presupposto è il
coglimento evidente [Einsicht] del senso del concetto formale di
fenomeno e della sua applicazione legittima in un significato ordinario.
Prima di poter fissare il concetto preliminare [Vorbegriff] di
fenomenologia, occorre delimitare il significato di λόγοϛ, affinché sia
chiaro in quale senso la fenomenologia possa in generale essere una
«scienza di» fenomeni.
B - Il concetto di logos
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primariamente giudizio, se si comprende con ciò un «collegare» o un
«prender posizione» (riconoscere o respingere).
[16] Λόγοϛ, in quanto discorso, significa piuttosto qualcosa come
δηλοῦν, render manifesto ciò di cui, nel discorso, «il discorso» è.
Aristotele ha esplicato più precisamente questa funzione del discorso
come ἀποφαίνεσθαι (cfr. de interpretatione cap. 1-6. Inoltre Met. Z. 4
e Eth. Nic. Z.) Il λόγοϛ fa vedere (φαίνεσθαι) qualcosa, ovvero ciò su
cui il discorso verte; e precisamente lo fa vedere per i discorrenti
(forma verbale mediopassiva) ossia per coloro che discorrono fra di
loro. Il discorso «lascia vedere» ἀπὸ…, a partire da ciò stesso di cui si
discorre. Nel discorso (ἀπόφανσιϛ), nella misura in cui esso è genuino,
ciò che [was] è detto deve esser attinto muovendo da ciò intorno a cui
si discorre, in modo che la comunicazione discorsiva, in ciò che è detto,
renda manifesto e come tale accessibile agli altri ciò intorno a cui
discorre. Questa è la struttura del λόγοϛ in quanto ἀπόφανσιϛ. Questo
modo del render manifesto nel senso del far vedere esibendo. La
preghiera (εὐχή), ad esempio, è anch’essa un render manifesto, ma in
un altro modo.
[17] Nel compimento [Vollzug] concreto il discorrere (far vedere) ha il
carattere del parlare, della verbalizzazione vocale in parole. Il λόγοϛ è
φωνή, e precisamente φωνή μετὰ φαντασίαϛ, verbalizzazione vocale in
cui qualcosa è ogni volta visto.
[18] Ed è soltanto perché la funzione del λόγοϛ come ἀπόφανσιϛ
consiste nel far vedere qualcosa mostrando, che il λόγοϛ può avere la
forma strutturale della σύνθεσιϛ. Sintesi non significa qui collegamento
e connessione di rappresentazioni, manipolazione di eventi psichici,
nei cui riguardi nasca poi il «problema» della concordanza di essi, in
quanto interni, coi fatti fisici esterni. Qui il συν ha un significato
prettamente apofantico e significa: lasciar vedere qualcosa nel suo
essere insieme a qualcosa, lasciar vedere qualcosa in quanto qualcosa.
[19] E di nuovo, poiché il λόγοϛ è un lasciar vedere, per questo esso
può essere vero o falso. Anche qui tutto sta nel liberarsi da un concetto
artificioso di verità nel senso di una «concordanza». Questa idea non è
per nulla l’elemento primario del concetto di ἀλήθεια. L’«esser vero»
del λόγοϛ, in quanto ἀληθεύειν, significa: nel λέγειν, in quanto
ἀποφαίνεσθαι, trarre fuori l’ente, di cui è il discorso, dal suo esser
nascosto (Verborgenheit) e lasciarlo vedere come non nascosto
[Unverborgenes] (ἀληθέϛ), scoprirlo [entdecken, lett.:
“disoccultarlo”]. Corrispondentemente l’«esser falso», ψεύδεσθαι,
vuol dire ingannare nel senso di occultare [verdecken]: porre (nel modo
del lasciar vedere) qualcosa dinanzi a qualcosa e spacciarla in quanto
qualcosa che essa non è.
[20] Poiché però «verità» ha questo senso e il λόγοϛ è un modo
determinato del lasciar vedere, il λόγοϛ non può affatto esser
considerato il «luogo» primario della verità. Quando, come oggi ormai
tutti fanno, la verità è definita come ciò che appartiene «propriamente»
al giudizio, facendo per di più risalire questa tesi ad Aristotele, si cade
in un duplice errore: perché il richiamo ad Aristotele è infondato e
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perché, soprattutto, il concetto greco di verità è frainteso. «Vero» in
senso greco, certo più originariamente del λόγοϛ suddetto, è la
αἴσθησιϛ, la diretta apprensione sensibile di qualcosa. Poiché una
αἴσθησιϛ mira ogni volta ai propri ἴδια, cioè all’ente genuinamente
accessibile solo mediante essa e per essa (ad esempio, il vedere ai
colori), l’apprensione è sempre vera. Il che significa: il vedere scopre
sempre colori, l’udire scopre sempre suoni. «Vero», nel senso più puro
e originario, cioè esclusivamente scoprente, cosicché non possa mai
occultare, è il puro νοεῖν, l’apprendere, direttamente osservante, delle
più semplici determinazioni d’essere dell’ente come tale. Questo νοεῖν
non può mai occultare, non può mai esser falso; potrà, tutt’al più,
restare un non apprendere, un ἀγνοεῖν, non essere sufficiente
all’accesso diretto, adeguato.
[21] Ciò che non ha più la forma di attuazione [Vollzugsform] del puro
lasciar vedere, ma che, nel mostrare, ricorre di volta in volta a
qualcos’altro e fa così vedere qualcosa in quanto qualcosa, assume, con
questa struttura sintetica, la possibilità dell’occultare [Verdecken]. La
«verità del giudizio», comunque, non è che il contrario di questo
occultare [Verdecken], cioè un fenomeno di verità fondato per più
aspetti. Realismo e idealismo, con pari fondamentalità, mancano il
senso del concetto greco di verità, in base al quale soltanto è possibile
comprendere la possibilità di qualcosa come una «dottrina delle idee»
quale conoscenza filosofica.
[22] Proprio perché la funzione del λόγοϛ sta nel diretto lasciar vedere
qualcosa, nel lasciar apprendere l’ente, il λόγοϛ può significare
ragione. E proprio perché, di nuovo, λόγοϛ viene usato non soltanto
nel significato di λέγειν ma ugualmente in quello di λεγόμενον (il
mostrato [das Aufgezeigte] come tale), e poiché questo è null’altro che
l’ὑποκεί- μενον (ciò che in ogni interpellare e discutere sta già ogni
volta, come semplicemente presente, a fondamento), il λόγοϛ, in quanto
λεγόμενον, significa fondamento [Grund], ratio. E infine, poiché
λόγοϛ in quanto λεγόμενον può anche significare ciò che è chiamato in
questione in quanto qualcosa che diviene visibile mediante la sua
relazione a qualcosa, mediante la sua «relazionalità», λόγοϛ assume il
significato di relazione e rapporto.
[23] Questa interpretazione del «discorso apofantico» può bastare per
il chiarimento della funzione primaria del λόγοϛ.
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contenuto reale [Sachgehalt] di diventare fenomeno, la fenomenologia
lo ha tematicamente «afferrato» quale oggetto.
[28] Fenomenologia è modo di accesso a, modo di determinazione
giustificante di, ciò che [Was] deve costituire il tema dell’ontologia.
Ontologia è possibile soltanto come fenomenologia. Il concetto
fenomenologico di fenomeno intende, come manifestantesi, l’essere
dell’ente, il suo senso, le sue modificazioni e i suoi derivati. E il
manifestarsi [das Sichzeigen] non è un casuale manifestarsi, e
nient’affatto qualcosa come apparire [Erscheinen]. L’essere dell’ente
non può assolutamente essere qualcosa «dietro» cui stia ancora
qualcosa «che non appare».
[29] «Dietro» i fenomeni della fenomenologia non c’è essenzialmente
nient’altro, ma ciò che deve divenire fenomeno può ben essere
nascosto. È proprio perché i fenomeni, innanzi tutto e per lo più, non
sono dati, che occorre la fenomenologia. Esser-occultato
[Verdecktheit] è il controconcetto [Gegenbegriff] di «fenomeno».
[30] I modi del possibile esser-occultato dei fenomeni sono diversi. In
primo luogo il fenomeno può esser occultato nel senso che esso è come
tale ancora non scoperto. Della sua sussistenza non si ha né conoscenza
né ignoranza.13 Ma un fenomeno può essere anche ricoperto
[verschüttet]. Sta in ciò: esso era un tempo scoperto, ma ricadde
successivamente nell’occultamento. Quest’ultimo può diventare totale;
di regola però accade che quel che era prima scoperto risulta ancora
visibile, benché solo come parvenza [Schein]. Senonché, quanta
parvenza, altrettanto «essere» [Wieviel Schein jedoch, soviel »Sein«].
Questo occultamento nel senso di «distorsione» è il più frequente e il
più pericoloso, perché qui le possibilità dell’inganno e dello sviamento
sono particolarmente ostinate. Strutture d’essere (e relativi concetti)
disponibili, ma velate quanto al loro suolo d’origine
[Bodenständigkeit], possono rivendicare il proprio diritto forse
all’interno di un «sistema». Grazie alla loro esser costruttivamente
agganciate ad un sistema, esse possono spacciarsi per qualcosa di
«chiaro», che non ha bisogno di ulteriore giustificazione, e può perciò
servire come punto di avvio di un processo deduttivo progrediente.
[31] Comunque inteso — nel senso di nascondimento [Verborgenheit],
ricoprimento [Verschüttung] o distorsione [Verstellung] —
l’occultamento [Verdeckung] ha di nuovo una duplice possibilità. Ci
sono occultamenti casuali e occultamenti necessari, cioè tali da
radicarsi nel modo di sussistere di ciò che è scoperto. Ogni concetto e
principio fenomenologico attinto originariamente è esposto, in quanto
asserzione comunicata, alla possibilità della degenerazione
[Entartung]. Viene trasmesso in una comprensione vuota, perde il
proprio suolo d’origine [Bodenständigkeit] e diventa una tesi astratta
[freischwebend, lett.: «sospesa per aria»]. La possibilità dello
sclerotizzarsi e del perdere di «presa» di ciò che originariamente
l’aveva è insita anche nel lavoro concreto della fenomenologia. E la
difficoltà di questa ricerca sta proprio nel renderla critica verso se
stessa in un senso positivo.
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[32] Agli oggetti della fenomenologia, il modo di incontro dell’essere
e delle strutture d’essere nel modus del fenomeno deve in primo luogo
essere strappato. Perciò, il punto di partenza [Ausgang] dell’analisi,
così come l’accesso [Zugang] al fenomeno, e il passaggio
[Durchgang] attraverso gli occultamenti predominanti richiedono una
peculiare assicurazione metodologica. Nell’idea dell’afferramento e
della esplicazione «originari» ed «intuitivi» dei fenomeni c’è proprio
il contrario dell’ingenuità di un casuale, «immediato» e pacifico «star
a guardare».
[33] Sulla base del concetto preliminare [Vorbegriff] di fenomenologia
che abbiamo delimitato, possono ora esser fissati nel loro significato
anche i termini «fenomenico» e «fenomenologico». «Fenomenico» è
detto ciò che [was] nel modo di incontro del fenomeno è dato ed
esplicabile; perciò si parla di strutture fenomeniche. Per
«fenomenologico» si intende invece tutto ciò che appartiene al modo
di esibizione [Aufweisung] e di esplicazione, e ciò che costituisce la
concettualità richiesta da questa ricerca.
[34] Poiché fenomeno, in senso fenomenologico, è sempre e soltanto
ciò che [was] costituisce essere, ma essere è ogni volta essere dell’ente,
per giungere a mettere lo scoperto l’essere, c’è prima bisogno di una
corretta presentazione dell’ente. Questo si deve parimenti manifestare
nella modalità di accesso che è genuinamente propria di esso. In tal
modo, diviene fenomenologicamente rilevante il concetto ordinario di
fenomeno. Il compito preliminare [Voraufgabe] di un’assicurazione
«fenomenologica» dell’ente esemplare come punto di partenza per
l’analitica autentica è già sempre predelineato muovendo dal fine di
questa analitica stessa.
[35] Considerata materialmente [sachhaltig genommen], la
fenomenologia è la scienza dell’essere dell’ente: ontologia. Nel corso
dei chiarimenti che abbiamo dati circa i compiti dell’ontologia, risultò
la necessità di una ontologia fondamentale [Fundamentalontologie],
che ha a tema l’ente privilegiato ontologico-onticamente, l’Esserci, in
modo da portarsi di fronte al problema cardinale, la domanda sul senso
dell’essere in generale.18n Dall’indagine stessa risulterà: il senso
metodico della descrizione fenomenologica è l’interpretazione
[Auslegung]. Il λόγοϛ della fenomenologia dell’Esserci ha il carattere
dell’ἑρμηνεύειν, per il tramite del quale l’autentico senso d’essere e le
strutture fondamentali del suo proprio essere vengono resi noti alla
comprensione d’essere propria dell’Esserci. La fenomenologia
dell’Esserci è ermeneutica nel significato originario della parola,
secondo il quale essa designa il lavoro di interpretazione. Poiché però,
attraverso lo scoprimento del senso dell’essere e delle strutture
fondamentali dell’Esserci in generale, viene prodotto l’orizzonte di
ogni indagine ontologica ulteriore concernente l’ente difforme
dall’Esserci, questa ermeneutica è «ermeneutica» anche nel senso della
elaborazione delle condizioni di possibilità di qualsiasi ricerca
ontologica. E infine, poiché l’Esserci vanta il primato ontologico
rispetto ad ogni essente (in quanto ente avente la possibilità
10
dell’esistenza), l’ermeneutica, nella sua qualità di interpretazione
dell’essere dell’Esserci, acquista un terzo senso specifico (che,
filosoficamente parlando, è primario), quello di analitica
dell’esistenzialità dell’esistenza. Pertanto in questa ermeneutica, che
elabora ontologicamente la storicità dell’Esserci quale condizione
ontica della possibilità della storiografia, getta le sue radici ciò che può
esser detto «ermeneutica» solo in senso derivato: la metodologia delle
scienze storiche dello spirito.
[36] L’essere, in quanto tema fondamentale della filosofia, non è un
genere dell’ente, e tuttavia riguarda ogni ente. La sua «universalità» è
da ricercarsi più in alto. L’essere e la struttura dell’essere si trovano al
di sopra di ogni ente e di ogni determinazione possibile di un ente.
L’essere è il transcendens puro e semplice.19n La trascendenza
dell’essere dell’Esserci è eminente perché in essa hanno luogo la
possibilità e la necessità dell’individuazione più radicale. Ogni
aprimento dell’essere in quanto transcendens è conoscenza
trascendentale. La verità fenomenologica (l’apertura dell’essere) è
veritas transcendentalis.
[37] L’ontologia e la fenomenologia non sono due diverse discipline
che fanno parte della filosofia assieme ad altre. I due termini denotano
entrambi la filosofia stessa nel suo oggetto e nel suo procedimento. La
filosofia è ontologia universale fenomenologica, muovente
dall’ermeneutica dell’Esserci, la quale, in quanto analitica
dell’esistenza, 20n ha fissato il capo del filo conduttore di ogni
domandare filosofico nel punto da cui tale domandare salta fuori ed in
cui è risospinto.
[38] Le ricerche che seguono sono state possibili solo sulla base posta
da Edmund Husserl, con le cui Ricerche logiche la fenomenologia fece
irruzione. Le discussioni del concetto preliminare [Vorbegriff] di
fenomenologia indicano che l’essenziale per essa non sta nell’esser
realmente effettiva come «corrente» filosofica.21n Più in alto della
realtà effettiva sta la possibilità. La comprensione della fenomenologia
consiste esclusivamente nell’afferrarla come possibilità.14
[39] Per quanto concerne la goffaggine e la «ineleganza» di espressione
delle analisi che seguono, si può aggiungere che un conto è informare
sull’ente raccontando, e un altro è cogliere l’ente nel suo essere. Per
questa seconda impresa mancano non solo la maggior parte delle
parole, ma, prima di tutto, la «grammatica». Se ci è lecito richiamare
precedenti analisi sull’essere, impareggiabili quanto al loro livello, si
paragonino le sezioni ontologiche del Parmenide di Platone o il quarto
capitolo del settimo libro della Metafisica di Aristotele con qualche
passo narrativo di Tucidide, e si vedrà quale sforzo inaudito fu richiesto
ai greci dai loro filosofi in fatto di formulazioni linguistiche. Quando
le forze siano essenzialmente inferiori e, per di più, l’ambito ontologico
da esplorare assai più arduo di quello che fu pre-dato ai greci, è
inevitabile che crescano anche la prolissità della elaborazione
concettuale e la durezza dell’espressione.
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§ 54 Il problema dell’attestazione di una possibilità esistentiva
autentica
14
all’essere autentico dell’Esserci.
[2] Per il tramite dell’apertura (Erschlossenheit, “essere accessibile”),
l’ente che noi chiamiamo Esserci è nella possibilità di essere il suo Ci.
Col suo mondo, l’esserci c’è (ist…da) per esso stesso, e ciò innanzi
tutto e per lo più in modo da essersi reso accessibile (erschlossen) il
suo poter-essere a partire dal «mondo» di cui si prende cura. Il poter-
essere in cui l’Esserci esiste si è già ogni volta affidato a possibilità
determinate. E ciò perché l’Esserci è un ente gettato, il cui esser-gettato
è reso accessibile (erschlossen, “dischiuso”, “aperto”), in modo più o
meno chiaro e profondo, da un esser emotivamente intonato. Della
situazione emotiva (tonalità affettiva [Stimmung]) fa
cooriginariamente parte la comprensione. Così l’Esserci «sa» l’affar
suo nei propri riguardi, e ciò in quanto si è progettato in possibilità di
se stesso, cioè in possibilità che esso, immedesimato col Si, si è lasciato
prescrivere [vorgeben] dallo stato interpretativo pubblico del Si-stesso.
Ma questa prescrizione [Vorgabe] è resa esistenzialmente possibile dal
fatto che l’Esserci, in quanto comprendente con- essere, può star a
sentire (hören) gli altri. Perdendosi nella pubblicità del Si e nelle sue
chiacchiere, l’Esserci non ascolta [überhört] il proprio se-Stesso. Se
l’Esserci deve poter-essere sottratto alla perdizione del non- ascoltarsi
(Sichüberhören) - e se lo deve proprio attraverso se stesso - è
necessario che esso possa anzitutto trovarsi, che possa trovare quel se-
Stesso che esso ha trascurato di sentire prestando ascolto (Hinhören)
al Si. Questo dare ascolto dev’essere interrotto, cioè dev’essere data
all’Esserci, dall’Esserci stesso, la possibilità di un sentire che
interrompa il prestare ascolto. La possibilità di una interruzione di
questo genere è data da un venir improvvisamente chiamati
(unvermittelt Angerufenwerden). La chiamata (Ruf) interrompe il non
ascoltantesi prestar ascolto (das sich überhörende Hinhören) al Si
dell’Esserci soltanto se essa, in corrispondenza col suo carattere di
chiamata, suscita un sentire in tutto opposto al sentire perduto. Laddove
quest’ultimo sentire è stordito dal «chiasso» e dalla rumorosa
equivocità della chiacchiera ogni giorno
«nuova», la chiamata deve chiamare senza rumore, inequivocamente
(unzweideutig), senza offrire appiglio per la curiosità. Ciò che dà ad
intendere chiamando in questo modo è la coscienza morale.
[3] Noi concepiamo la coscienza morale come un modo del discorso.
Questa articola la comprensibilità. Definendo la coscienza morale
come chiamata, non intendiamo affatto far ricorso a una «immagine»,
quale ad esempio la rappresentazione kantiana della coscienza morale
come un tribunale. Soprattutto non dobbiamo dimenticare che il
discorso, e quindi anche la chiamata, non implicano necessariamente
la verbalizzazione sonora. Ogni espressione e ogni «esclamazione»
presuppongono già il discorso. Quando l’interpretazione quotidiana
parla di una «voce» della coscienza morale, non intende alludere a una
comunicazione verbale che non ha effettivamente [faktisch] luogo;
«voce», qui, significa dar-a-intendere. Nella tendenza ad aprire, propria
della chiamata, c’è un momento di urto, di brusco scuotimento. Viene
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chiamato dalla lontananza nella lontananza. È colpito dalla chiamata
chi vuole venir ripreso [zurueckgeholt].
[4] Con questa caratterizzazione della coscienza morale è soltanto
delineato l’orizzonte fenomenico per l’analisi della sua struttura
esistenziale. Il fenomeno non è paragonato a una chiamata, ma, in
quanto discorso, è compreso muovendo dalla schiusura
(Entschlossenheit) costitutiva dell’Esserci. La considerazione evita sin
dal principio la via che si offre per prima all’interpretazione della
coscienza morale, e che la riconduce a una facoltà dell’anima
(intelletto, volontà o sentimento) o la spiega come un suo prodotto. Di
fronte a un fenomeno come la coscienza morale salta subito agli occhi
l’inadeguatezza ontologico-antropologica di ogni astratta
classificazione di facoltà dell’anima o di atti personali.
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Tuttavia, il fatto che la chiamata ignori [“eluda”, “disdegni”] il Si e lo
stato interpretativo pubblico dell’Esserci, non significa affatto che essa
non colpisca insieme (mittrifft) anche il Si. Proprio nell’ignorare (im
Uebergehen, “nell’eludere”, “nel disdegnare”) essa respinge nella
insignificanza (Bedeutungslosigkeit) il Si avido di pubblica
reputazione. Il Sé, però, deprivato (beraubt) nel richiamo [im Anruf] di
questo rifugio e di questo nascondiglio, è condotto a se stesso per il
tramite della chiamata [durch den Ruf].
[4] Il Si-stesso è richiamato il Sé. Non si tratta però del Sé quale
possibile «oggetto» di apprezzamenti o del Sé della inconsistente,
eccitata e curiosa anatomia della propria «vita interiore», e neppure del
Sé della del semplice stare a guardare «analitico» gli stati d’animo e i
loro retroscena. Il richiamo del Sé-stesso nel Si-stesso non lo relega in
sé nel senso di un’interiorità che lo separerebbe dal «mondo esterno».
Tutto ciò, la chiamato lo salta [ueberspringt] e lo disperde, per
richiamare unicamente il Se-stesso, il quale, nondimeno, non è mai
altrimenti che nel modo dell’essere-nel-mondo.
[5] Ma come dobbiamo determinare il ciò-che-viene-detto di questo
discorso [das Geredete dieser Rede]? Che cosa ( Was) la coscienza
morale grida (zurufen) al chiamato? A rigore, nulla. La chiamata non
asserisce nulla, non dà alcuna informazione su eventi mondani, non ha
nulla da raccontare. Meno che meno aspira ad inaugurare un
«soliloquio» (»Selbstgespraech«, “colloquio tra sé e sé”) nel se-Stesso
richiamato. Al se-Stesso richiamato non è gridato (zu-gerufen)
«nulla»; esso è incitato [aufgerufen] a se-Stesso, cioè al suo più proprio
poter-essere. La chiamata, secondo la sua tendenza di chiamata, non
coinvolge il se-Stesso richiamato in una «negoziazione» (Verhandlung,
“trattativa”), ma, quale incitamento al suo poter-essere più proprio, è un
chiamar-dinanzi [Vor-rufen], un chiamare al «proscenio» l’Esserci
nelle sue possibilità più proprie.
[6] La chiamata non ha bisogno di pronuncia sonora (Verlautbarung).
Essa nemmeno proferisce parola, ma non resta per questo oscura e
indeterminata. La coscienza morale parla unicamente e costantemente
nel modo del tacere. Con ciò essa non solo non perde nulla in fatto di
percepibilità, ma costringe l’Esserci, chiamato e incitato, alla
silenziosità di se stesso. La mancanza di una formulazione verbale di
ciò che nella chiamata viene invocato (gerufen) non condanna il
fenomeno alla nebulosità di una voce misteriosa, ma sta
semplicemente a indicare che la comprensione dell’«invocato» (des
»Gerufenen«) non può aggrapparsi all’attesa di una comunicazione o
di qualcosa di simile.
[7] Ciò nonostante, quel che la chiamata dischiude (erschliesst) è
univoco, anche se essa, nel singolo esserci a seconda delle sue
possibilità di comprensione, può andar incontro ad una diversa
interpretazione. Al di là dell’apparente indeterminatezza del contenuto
della chiamata, non può non esser colta la sicura traiettoria
[Einschlagsrichtung, “direzione d’impatto”] della chiamata. La
chiamata non ha bisogno di un primo ricercare a tastoni di colui che
17
deve esser richiamato, non abbisogna di alcun segno di riconoscimento
che permetta di stabilire se è o no proprio lui ad essere inteso. Nella
coscienza morale, le «illusioni» non sorgono per uno stravedere (stra-
chiamare [Sichver-rufen]) da parte della chiamata, ma solo per il modo
in cui la chiamata è udita, cioè per il fatto che essa, anziché essere
compresa autenticamente, è stornata dal Si in un negoziante
(verhandelnden) dialogo tra sé e sé e così pervertita nella sua tendenza
di schiudimento (Erschliessungstendenz).
[8] Occorre tener fermo: la chiamata con cui caratterizziamo la
coscienza morale è richiamo del Si-stesso nel suo Sé; in quanto tale è
incitamento del Sé al suo poter-esser-sé, e perciò una chiamata
dell’Esserci di fronte alle proprie possibilità. [9] Ma potremo ottenere
un’interpretazione ontologica adeguata della coscienza morale solo
quando avremo posto in chiaro non soltanto chi sia il chiamato nella
chiamata della coscienza morale, ma chi sia che chiama, in quale
rapporto il chiamato stia col chiamante e come debba essere
ontologicamente inteso questo «rapporto» come connessione d’essere.
20
svelato nell’angoscia? Come potrebbe chiamare altrimenti se non
incitando a questo poter-essere di cui ad esso unicamente importa?
[10] La chiamata non racconta storie e chiama anche senza
verbalizzazione sonora. La chiamata parla nel modo spaesante del
tacere. E ciò perché la chiamata non chiama il richiamato alle
chiacchiere pubbliche del Si, ma lo chiama indietro da queste al
silenzio del poter-essere esistente. Ed in che cosa si fonda la spaesante,
«disabituale» e fredda sicurezza con cui il chiamante colpisce il
chiamato, se non nel fatto che l’Esserci singolarizzato su di sé nel suo
spaesamento è per esso stesso assolutamente inconfondibile? Che cosa
sottrae all’Esserci in modo tanto radicale la possibilità di rifugiarsi
nell’equivoco, fraintendendosi e disconoscendosi, se non lo stato di
abbandono nell’esser affidato (die Verlassenheit in der
Ueberlassenheit) ad esso stesso?
[11] Lo spaesamento è il modo fondamentale, anche se
quotidianamente coperto, dell’essere-nel-mondo. L’Esserci stesso,
come coscienza morale, chiama dal fondo di questo suo essere. «Mi
chiama» è una discorso eminente dell’Esserci. La chiamata,
emotivamente pervasa di angoscia, fa sì che l’Esserci possa progettarsi
nel suo poter-essere più proprio. La chiamata della coscienza morale,
compresa esistenzialmente, annuncia ciò che prima abbiamo
semplicemente asseverato: lo spaesamento incalza l’Esserci e minaccia
il suo oblio nella perdizione.
[12] L’affermazione che l’Esserci è ad un tempo il chiamante e il
chiamato ha perso ora la sua formale vuotezza ed ovvietà. La coscienza
morale si rivela come chiamata della Cura: il chiamante è l’Esserci
che, nell’esser-gettato (esser-già-in…), si angoscia per il suo poter-
essere. Il richiamato è questo Esserci stesso, incitato al suo più proprio
poter-essere (esser-avanti-a-sé). E incitato è l’Esserci mediante il
richiamo dalla deiezione nel Si (esser-già-presso-il mondo di cui ci si
prende cura). La chiamata della coscienza morale, cioè la coscienza
morale stessa, trova la sua possibilità ontologica nel fatto che l’Esserci,
nel fondamento del suo essere, è Cura.
[13] Non c’è quindi bisogno di prender rifugio in potenze non conformi
all’esserci, tanto più che il regresso verso di esse illumina tanto poco
lo spaesamento della chiamata, che esso piuttosto lo annienta. La
ragione di fuorvianti «spiegazioni» della coscienza morale non starà in
fondo nel fatto che, già nella fissazione del reperto fenomenico della
chiamata, lo sguardo è stato troppo limitato e l’Esserci è stato
tacitamente presupposto in una casuale determinazione o
indeterminazione ontologica? Perché cercare una via d’uscita in
potenze estranee prima di assicurarsi che, nell’impostazione
dell’analisi, l’essere dell’Esserci non sia stato sottovalutato,
concependolo come innocuo soggetto (Subjekt), in qualche modo
presente, dotato di coscienza (Bewusstsein) personale?
[14] Eppure sembra che l’interpretazione del chiamante – che dal punto
di vista mondano è «nessuno» – come una potenza riposi sul
riconoscimento non prevenuto della sussistenza di qualcosa di
21
«oggettivamente rinvenibile». Ma, a ben guardare, questa
interpretazione è null’altro che una fuga davanti alla coscienza morale,
una scappatoia dell’esserci, con la quale esso se la svigna passando per
la sottile parete che, per così dire, separa il Si dallo spaesamento del
proprio essere. Tale interpretazione della coscienza morale suole anche
spacciarsi come riconoscimento della chiamata nel senso di una voce
obbligante in modo generale e non «semplicemente soggettivo».
Ancor di più: questa coscienza morale «generale» è elevata a
«coscienza morale universale» (Weltgewissen) , la quale, per il suo
carattere fenomenico, è un «esso», un «nessuno», che dunque parla,
come questo indeterminato, nel singolo «soggetto».
[15] Ma questa «coscienza morale pubblica» che altro è se non la voce
del Si? Alla dubbia invenzione di una «coscienza morale universale»
l’esserci può arrivarci solo perché la coscienza morale, nel suo
fondamento e nella sua essenza, è ogni volta mia. E ciò non solo nel
senso che è ogni volta il poter-essere più proprio a essere richiamato,
ma anche perché la chiamata proviene dall’ente che io stesso di volta
in volta sono.
[16] Nella nostra interpretazione del chiamante, fondata
esclusivamente sul carattere fenomenico del chiamare, la «potenza»
della coscienza morale non è né sminuita né resa «semplicemente
soggettiva». All’opposto, solo in essa hanno via libera l’inesorabilità e
l’inequivocabilità della chiamata. L’«oggettività» del richiamo trae la
sua legittimità soltanto nella misura in cui l’interpretazione lasci ad
esso la sua «soggettività», la quale però rifiuta il predominio del Si-
stesso.
[17] Contro questa interpretazione della coscienza morale come
chiamata della Cura si potrebbero tuttavia sollevare le seguenti
obiezioni: che fondamento può avere un’interpretazione della
coscienza morale così lontana dall’«esperienza naturale»? In qual
modo la coscienza morale potrà fungere da incitamento al più proprio
poter-essere quando essa, innanzi tutto e per lo più, non fa che
rimproverare e ammonire? La coscienza morale parla in modo così
indeterminato e vuoto di un poter-essere più proprio dell’Esserci, o
piuttosto parla in modo ben determinato e concreto degli errori e delle
omissioni che hanno già avuto luogo o che si intendevano commettere?
Il richiamo che abbiamo stabilito proviene dalla «cattiva» coscienza
morale o dalla «buona»? La coscienza morale fornisce qualcosa di
positivo o svolge una funzione esclusivamente critica?
[18] La legittimità di queste perplessità è incontestabile. Da
un’interpretazione della coscienza morale si può esigere che «si»
riconosca in essa il fenomeno così com’esso è esperito
quotidianamente. Ma soddisfare tale esigenza non significa
riconoscere la comprensione ontica ordinaria della coscienza morale
quale istanza prima dell’interpretazione ontologica. D’altra parte le
obiezioni suddette risultano premature nella misura in cui l’analisi
della coscienza morale da esse presa di mira non è stata ancora portata
a termine. Finora abbiamo semplicemente tentato di ricondurre la
22
coscienza morale, in quanto fenomeno dell’Esserci, alla costituzione
ontologica di questo ente. E ciò in vista del compito di render
comprensibile la coscienza morale come un’attestazione nell’Esserci
stesso del suo poter-essere più proprio.
[19] Ciò che la coscienza morale attesta giunge a piena determinazione
soltanto se è stato delimitato con sufficiente chiarezza quale carattere
debba avere l’ascoltare che corrisponde in modo genuino al chiamare.
La comprensione autentica, «conseguente» alla chiamata, non è una
semplice appendice del fenomeno della coscienza morale, un evento
che accade e potrebbe anche mancare. L’esperienza vissuta della
coscienza morale si può cogliere nella sua pienezza soltanto a partire
dalla comprensione del richiamo e assieme ad essa. Se il chiamante e
il richiamato sono ogni volta il medesimo Esserci proprio, ne consegue
che in ogni non-sentire-ascoltando (Ueberhoeren) la chiamata, in ogni
fraintendersi, è insito un determinato modo di essere dell’Esserci. Una
chiamata a vuoto a cui «non segue nulla» è una finzione inconcepibile
da un punto di vista esistenziale. «Che non segue nulla» significa
qualcosa di conformemente all’esserci positivo.
[20] Così, allora, soltanto l’analisi della comprensione del richiamo è
in grado di condurre all’esplicito chiarimento di ciò che la chiamata dà
ad intendere. Ma solo muovendo dalla precedente caratterizzazione
ontologico-universale della coscienza morale, è possibile capire
esistenzialmente quel «colpevole!» evocato nella coscienza morale.
Tutte le esperienze e le interpretazioni della coscienza morale sono
concordi nel riconoscere che la «voce» della coscienza morale parla in
qualche modo di «colpa».
[1] Per cogliere fenomenicamente ciò che è udito (das Gehoerte) nella
comprensione del richiamo (Anrufverstehen), bisogna tornare di nuovo
al richiamo (Anruf). Richiamare il Si-stesso significa incitare il se-
Stesso più proprio al suo poter-essere, e precisamente in quanto
Esserci, cioè in quanto essere-nel-mondo prendente cura e con-essere
con gli altri. L’interpretazione esistenziale di ciò a cui la chiamata
incita, se si comprende rettamente nelle sue possibilità metodiche e nei
suoi compiti, non può quindi pretendere di delimitare alcuna singola e
concreta possibilità dell’esistenza. Ciò che può e vuole essere fissato,
non è il di volta in volta esistentivamente evocato (Gerufene) nel
rispettivo Esserci, ma ciò che appartiene alla condizione esistenziale
di possibilità del poter-essere di volta in volta effettivo-esistentivo.
[2] La comprensione esistentivamente-udente della chiamata è tanto
più autentica quanto più incondizionatamente l’Esserci ode e
comprende il suo esser-richiamato e quanto meno il senso della
chiamata è pervertito da ciò che si dice, si sente dire e si ritiene valido.
Ma qual è l’elemento costitutivo essenziale dell’autenticità della
23
comprensione del richiamo? Che cos’è ciò che è dato essenzialmente
ad intendere di volta in volta nella chiamata, anche se non sempre è
effettivamente compreso?
[3] Abbiamo già risposto a questa domanda con la tesi: la chiamata non
«dice» nulla di cui si possa discorrere; non dà notizia di eventi
mondani. La chiamata pone l’Esserci innanzi al suo poter-essere, e ciò
in quanto chiamata che viene dallo spaesamento. Il chiamante è
certamente indeterminato, ma il da-dove esso chiama non è
indifferente per il chiamare. Questo da-dove – lo spaesamento
dell’esser-gettato nell’isolamento – è «evocato» assieme al chiamare,
cioè è dischiuso insieme ad esso. Il da-dove viene la chiamata
chiamando-innanzi-a (Vorrufen auf…) coincide con il verso-dove del
richiamo che chiama indietro (des Zurueckrufens). La chiamata non dà
ad intendere un poter-essere ideale e universale: essa dischiude il poter-
essere come il poter-essere ogni volta individuato d’un rispettivo
Esserci. Il carattere di apertura della chiamata è determinato
pienamente solo se è inteso come richiamo-indietro chiamante-innanzi
(vorrufenden Rueckruf) . È a partire dalla chiamata così intesa che
diviene possibile chiedersi che-cosa (Was) essa dia ad intendere.
[4] Ma la risposta alla domanda circa che-cosa la chiamata dice non
potrà forse essere data più facilmente e sicuramente col «semplice»
rinvio a ciò che è in genere udito (gehoert) o non-udito-ascoltando
(ueberhoert) in tutte le esperienze comuni della coscienza morale? E
cioè che la chiamata appella l’Esserci come «colpevole!», oppure,
come accade nella coscienza morale ammonente, rinvia ad un possibile
esser-«colpevole», o ancora, come accade nella «buona» coscienza
morale, che essa conferma una «consapevolezza di mancanza di
colpa»? Se almeno quel «colpevole!» che è «concordemente»
(uebereinstimmend) riscontrato nelle esperienze e nelle interpretazioni
della coscienza morale non fosse determinato in modi così nettamente
contrastanti! Ma anche se il senso di questo «colpevole!» si potesse
determinare univocamente (einstimmig), il concetto esistenziale di
questo esser-colpevole continuerebbe a restare oscuro. Se tuttavia
l’Esserci appella se stesso come «colpevole!», da dove potremo
ricavare l’idea di colpa se non dall’interpretazione dell’essere
dell’Esserci? Ma allora rinasce il problema: chi dice come (wie) noi
siamo colpevoli e che cosa (was) significa colpa? L’idea di colpa non
può certo essere escogitata arbitrariamente e poi appiccicata
all’Esserci. Se è mai possibile una comprensione dell’essenza della
colpa, tale possibilità dovrà essere prefigurata nell’Esserci. Dove
troveremo la traccia che possa guidare allo svelamento del fenomeno?
Ogni ricerca ontologica concernente fenomeni come la colpa, la
coscienza morale, la morte deve prender le mosse da ciò che di essi
«dice» l’interpretazione quotidiana dell’Esserci. Nel modo d’essere
dell’Esserci deiettivo è implicito al tempo stesso che la sua
autointerpretazione è per lo più «orientata» inautenticamente e non
coglie l’«essenza» del fenomeno; e ciò perché le è estranea
l’impostazione ontologica del problema originaria e adeguata.
Tuttavia, in ogni visione manchevole è insieme svelato un rinvio
24
all’«idea» originaria del fenomeno. Ma da dove prendiamo il criterio
per determinare il senso esistenziale originario di «colpevole!»? Dal
fatto che questo «colpevole!» funge da predicato dell’«io sono». E se
ciò che l’interpretazione inautentica intende come «colpa» fosse insito
nell’essere dell’Esserci in quanto tale, e precisamente in modo che
l’Esserci fosse colpevole in quanto esiste di volta in volta
effettivamente?
[5] L’evocazione (Berufung) del «colpevole!» concordemente udito
non è perciò ancora la risposta al problema del senso esistenziale
dell’invocato nella chiamata (im Ruf Gerufenen). Questo deve prima
esser concettualizzato, affinché sia possibile rendere comprensibile che
cosa significa l’evocato «colpevole!», come e perché l’interpretazione
quotidiana ne travisa il significato.
[6] La comprensibilità quotidiana assume l’«esser-colpevole»
(»Schuldigsein«) innanzi tutto nel senso di «esser in debito»
(»Schulden haben«), «avere un conto aperto con qualcuno». Si deve
restituire un qualcosa a qualcuno che lo rivendica. Questo «esser
colpevole» nel senso di «indebitarsi» (»schulden«) è una maniera di
con-essere con gli altri nel quadro del prendersi cura procurando,
producendo eccetera. Modi di tale prendersi cura sono anche il privare,
il prendere a prestito, il defraudare, il sottrarre, il rubare, cioè il non dar
soddisfazione in qualche modo a rivendicazioni di possesso avanzate
da qualcuno. L’essere colpevole di questo tipo è sempre riferito a ciò
che è oggetto possibile del prendersi cura.
[7] Esser colpevole ha allora l’ulteriore significato di «esser colpa di»
[»schuld sein an«, “essere responsabile di”] cioè di esser motivo, esser
autore di qualcosa o anche «esser occasione» di qualcosa. Nel senso di
questo «aver colpa» di qualcosa si può «esser colpevole» senza «essere
in debito» con qualcuno o essergli debitore. Viceversa, si può esser in
debito di qualcosa presso qualcuno senza tuttavia averne colpa [esserne
responsabile]. Un altro può «fare debiti» presso un terzo «per me».
[8] Questi significati ordinari dell’esser-colpevole, come l’«aver debiti
presso» o l’«aver colpa di» [“esser responsabile di”], possono confluire
e determinare un comportamento che chiamiamo «rendersi colpevole»
[»sich schuldig machen«, “rendersi debitore”] cioè: essendo colpevole
di aver-debiti, ledere un diritto e rendersi così punibile. L’esigenza che
non viene soddisfatta, però, non è necessariamente riferita a un
possesso, può regolare in generale l’essere-assieme pubblico. Il
«rendersi colpevole» nella violazione in senso giuridico
(Rechtsverletzung), quale abbiamo ora chiarito, può però assumere
anche la forma di un «rendersi-colpevole verso altri». Ciò non accade
in virtù della violazione come tale, ma per il fatto che è colpa mia [“è
mia responsabilità”] se l’altro, nella sua esistenza, è messo a
repentaglio, è indotto in errore, è rovinato. Questo rendersi-colpevole
verso altri è possibile senza violazione della legge «pubblica». Il
concetto formale dell’esser-colpevole nel senso dell’essersi-reso-
colpevole verso l’altro può essere determinato così: esser-causa
[Grundsein, “esser fondamento”, “esser ragione”, “esser motivo”] di
25
una deficienza nell’Esserci dell’altro in modo tale che questo esser-
causa stesso si determini, muovendo dal suo per-che, come «difettivo».
Questa difettività consiste nel non soddisfare una esigenza che
concerne l’esistere come con-essere con gli altri.
[9] Resterebbe da vedere come nascano queste esigenze e in qual modo
siano da concepirsi in base a tale origine i rispettivi caratteri di esigenza
e di legge. Comunque, l’esser-colpevole, nell’ultimo significato di
violazione di un’«esigenza morale», è un modo di essere dell’Esserci.
Ciò vale certamente anche per l’esser-colpevole come «rendersi
punibile», «indebitarsi» e «aver colpa di» [“esser responsabile di”].
Anche questi sono comportamenti dell’Esserci. Quando si concepisce
l’«esser gravati di colpa morale» come una «qualità» dell’Esserci, si
dice in realtà ben poco. Questa interpretazione rivela soltanto che una
siffatta caratterizzazione non basta a definire ontologicamente questo
genere di «determinazione d’essere» dell’Esserci rispetto ai
comportamenti precedentemente analizzati. Il concetto di colpa morale
è così poco chiarito dal punto di vista ontologico che poterono divenire
e restare predominanti interpretazioni di questo fenomeno che fanno
rientrare in tale concetto anche l’idea delle punibilità e perfino quella
dell’aver debiti presso…, o addirittura interpretazioni che lo
determinano a partire da queste idee. Ma in tal modo il «colpevole!» è
ancora una volta ricondotto nell’ambito del prendersi cura nel senso
del calcolo inteso a pareggiare le rivendicazioni.
[10] Il chiarimento del fenomeno di colpa (Schuldphaenomen), che non
è necessariamente connesso all’«aver debiti» o alla violazione in senso
giuridico, può riuscire solo se prima si pone la questione di fondo
dell’esser-colpevole dell’Esserci, cioè se si concepisce l’idea di
«colpevole!» a partire dal modo di essere dell’Esserci.
[11] A tal fine l’idea di «colpevole» deve esser formalizzata quanto
occorre affinché i fenomeni di colpa ordinari, legati al con-essere con
gli altri prendendo cura, cadano fuori. L’idea di colpa non solo deve
essere innalzata oltre l’ambito del prendersi cura calcolante, ma deve
anche essere sciolta dal riferimento al dovere e alla legge, violando i
quali si diventa colpevole. Anche in questo caso la colpa è ancora
necessariamente assunta come deficienza, come mancanza di qualcosa
che può e deve essere. Ma «mancare» significa non esser-
semplicemente-presente. Deficienza come non-esser-presente di
qualcosa di dovuto è una determinazione d’essere della semplice-
presenza. In questo senso all’esistenza non può mancare per essenza
nulla, non perché essa sia completa, ma perché il carattere del suo
essere è del tutto diverso da quello della semplice-presenza.
[12] Senonché, dell’idea di «colpevole!» è proprio il carattere del non.
Se il «colpevole!» deve poter determinare l’esistenza, si presenta allora
il problema ontologico di chiarire sul piano esistenziale il carattere-
di-«non» (»Nichtcharakter«) di questo «non». Inoltre, all’idea di
«colpevole!» appartiene quel che nel concetto di colpa come «aver
colpa di» [“esser responsabile di”] è indifferentemente espresso, ossia,
l’esser causa di… [das Grundsein fuer…, “esser fondamento di…”,
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“esser motivo di….”, “esser ragione di….”]. L’idea formale
esistenziale di «colpevole!» la definiamo quindi così: esser-causa di un
essere che è determinato da un «non», cioè esser-causa di una nullità.
Se l’idea del «non», quale si trova nel concetto di colpa
esistenzialmente compreso, esclude il riferimento a ogni sorta di
semplice-presenza (o possibile o richiesta), se, conseguentemente,
l’Esserci non deve affatto esser commisurato a qualcosa di
semplicemente-presente o di valido che esso stesso non sia o che non
sia nel suo modo di essere (cioè non esista), allora viene meno la
possibilità, riguardo all’esser causa di una mancanza, di calcolare
come «manchevole» un siffatto essente-causa stesso stesso. Muovendo
da una mancanza «causata» in modo conforme all’esserci, dal non
adempimento di un’esigenza, non si può affatto calcolare la
manchevolezza della «causa». L’esser causa di… non ha bisogno di
avere il medesimo carattere del «non» proprio del «privativo» che in
esso si fonda e da esso scaturisce. La causa non ha bisogno di ricevere
indietro la propria nullità soltanto da ciò che essa causa. Ma allora ne
consegue: l’esser-colpevole non risulta anzitutto da un indebitamento,
ma, al contrario, questo diviene possibile solo «a causa di» di un
originario esser-colpevole. È possibile esibire qualcosa di simile
nell’essere dell’Esserci? E come è possibile, in generale, sul piano
esistenziale?
[13] L’essere dell’Esserci è la Cura. Essa comprende in sé l’effettività
(esser-gettato), l’esistenza (progetto) e la deiezione. Essendo, l’Esserci
è gettato, non è condotto nel suo Ci da se stesso. Essendo, l’Esserci è
determinato come un poter-essere (Seinkoennen, “esser in grado di
essere”) che gli appartiene, ma tuttavia non in quanto se lo sia dato da
sé. Esistendo, esso non può aggirare il proprio esser-gettato, come se il
«che c’è e ha da essere» potesse esser svincolato dal suo esser se-Stesso
e portato come tale nel Ci. Ma l’esser-gettato non sta alle spalle
dell’Esserci come un evento fattuale (tatsaechlich), irrelativo
all’Esserci e semplicemente accaduto a esso: l’Esserci, fin quando è,
è costantemente (in quanto Cura) il proprio «che». In quanto questo
ente, affidato al quale esso unicamente può esistere come l’ente che
esso è, esso è esistendo la causa del suo poter essere. Benché non abbia
esso stesso posto la causa, l’esserci riposa nel peso di quest’ultima, che
la tonalità emotiva gli rende manifesto come disagio.
[14] In qual modo (wie) l’Esserci è questa causa gettata? Unicamente
progettandosi nelle possibilità in cui è stato-gettato. Il se-Stesso, che
come tale ha da accollarsi la causa di se stesso, non può mai insignorirsi
di questa causa; ma, esistendo, ha da assumere l’esser-causa. L’aver da
essere la proprio causa gettata (geworfenes Grund, “fondamento
gettato”, “ragione gettata”) è il poter-essere in cui ne va nella Cura.
[15] Essendo-causa, cioè esistendo come gettato, l’Esserci è
costantemente in ritardo rispetto alle proprie possibilità. Esso non è mai
esistente in anticipo (vor) rispetto alla propria causa, ma sempre solo
dalla propria causa e in quanto propria causa. Esser-causa significa,
quindi, non esser mai, fondamentalmente, signore dell’essere più
27
proprio. Questo non rientra nel senso esistenziale dell’esser-gettato.
L’Esserci, essendo-causa, è, come tale, una nullità di se stesso. Ma
«nullità» non significa affatto non esser-presente, insussistenza; essa
concerne un «non» che è costitutivo dell’essere dell’Esserci, del suo
esser-gettato. Il carattere-di-non di questo non si determina
esistenzialmente: essendo se-Stesso, l’Esserci è l’ente gettato in quanto
se-Stesso; svincolato dalla causa, non in virtù di se stesso, ma in se
stesso, per essere in quanto questa causa. L’Esserci non è esso stesso
la causa del suo essere nel senso che questa causa derivi da un progetto
dell’Esserci; ma l’Esserci, in quanto se-Stesso, è l’essere della causa.
Questa causa è sempre e solo causa di un ente il cui essere ha da
accollarsi l’esser-causa.
[16] L’Esserci è la sua causa esistendo, ossia è tale da comprendersi a
partire da possibilità e, così comprendendosi, esser l’ente gettato. Dal
che deriva: potendo essere, l’Esserci sta di volta in volta o nell’una o
nell’altra possibilità; esso costantemente non è un’altra [possibilità], e
vi ha rinunciato nel progetto esistentivo. Il progetto, in quanto di volta
in volta gettato, non è soltanto determinato dalla nullità dell’esser-
causa, ma è essenzialmente nullo proprio in quanto progetto. Questa
determinazione non indica affatto, daccapo, una qualità ontica come
l’«inefficienza» o il «disvalore», ma è un costitutivo esistenziale della
struttura dell’essere del progettare. La nullità di cui parliamo fa parte
dell’esser-libero dell’Esserci per le sue possibilità esistentive. Ma la
libertà è solo nella scelta di una possibilità, cioè nel sopportare di non-
aver-scelto e di non-poter-scegliere le altre.
[17] Tanto nella struttura dell’esser-gettato quanto in quella del
progetto è insita per essenza una nullità. Essa è la causa della possibilità
della nullità dell’Esserci non-autentico nella deiezione, in cui esso di
volta in volta già da sempre effettivamente è. La Cura stessa, nella sua
essenza, è totalmente permeata di nullità. Perciò la Cura, cioè l’essere
dell’Esserci, significa in quanto progetto gettato: il (nullo) esser-causa
di una nullità. Il che significa: l’Esserci è, come tale, colpevole;
ammessa che sia legittima la determinazione esistenziale formale della
colpa come esser-causa di una nullità.
[18] La nullità esistenziale non ha affatto il carattere di una privazione,
di una manchevolezza rispetto a un ideale proclamato e non raggiunto
nell’Esserci. È l’essere di questo ente a esser nullo precedentemente a
tutto ciò che può progettare e per lo più raggiunge, a esser nullo già
come progettare. La nullità non compare occasionalmente nell’Esserci
per inerirgli come una qualità oscura che esso – qualora fosse
abbastanza progredito — potrebbe anche rimuovere.
[19] Ciò nonostante il senso ontologico della nullezza di questa nullità
esistenziale resta ancora oscuro. E ciò vale anche per l’essenza
ontologica del «non» in generale. L’ontologia e la logica hanno preteso
molto dal «non» e, di conseguenza, hanno fatto vedere a tratti le sue
possibilità, senza però giungere al suo disvelamento ontologico.
L’ontologia trovò il «non» e ne fece uso. Ma è proprio così ovvio che
ogni «non» significhi una negatività nel senso di una deficienza? La
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sua positività si esaurisce nel costituire un «passaggio»? Perché ogni
dialettica si rifugia nella negazione, senza essere in grado di fondarla
essa stessa dialetticamente, o almeno di determinarla in quanto
problema? È mai stato posto il problema dell’origine ontologica della
nullezza o, in primo luogo, si sono almeno cercate le condizioni sulla
cui base può essere posto il problema del «non», della sua nullezza e
della sua possibilità? E dove mai queste condizioni potranno esser
reperite se non nella chiarificazione tematica del senso dell’Esserci in
generale?
[20] I concetti di privazione e di manchevolezza, oltre tutto poco chiari,
non sono sufficienti nemmeno per l’interpretazione ontologica del
fenomeno della colpa, anche se, intesi in termini sufficientemente
formali, ammettono un’ampia utilizzazione. Meno che mai, però, è
possibile orientare la ricerca intorno al fenomeno esistenziale della
colpa sull’idea del malum in quanto privatio boni. Bonum e privatio
provengono entrambi dall’ontologia della semplice-presenza, non
diversamente dall’idea di «valore» che da ciò essi «tirata fuori».
[21] L’ente il cui essere è la Cura non solo si può coprire di colpe
effettive, ma è colpevole nel fondamento del suo essere; questo esser-
colpevole costituisce la condizione ontologica della possibilità che
l’Esserci, esistendo, diventi colpevole. Questo esser-colpevole
essenziale è cooriginariamente la condizione esistenziale della
possibilità del bene e del male «morale», cioè della moralità in generale
e della possibilità delle sue modificazioni effettive. L’esser-colpevole
originario non può essere determinato in base alla moralità perché
questa già lo presuppone per se stessa.
[22] Ma quale esperienza parla in favore di questo esser-colpevole
originario dell’Esserci? Non si trascuri però la contro-domanda: la
colpa «c’è» (ist… da) solo quando si risveglia una consapevolezza
della colpa? Oppure, proprio nel fatto che la colpa «dorme» si
annuncia l’originario esser colpevole? Che l’esser-colpevole, innanzi
tutto e per lo più, resti non aperto e che la deiettività dell’Esserci lo
mantenga nella chiusura, non fa che rivelare la nullità di cui abbiamo
discorso. L’esser-colpevole è più originario di ogni sapere che lo
concerne. Soltanto perché l’Esserci è colpevole nel fondo del suo
essere e soltanto perché, in quanto gettato nella deiezione, si chiude a
se stesso, diviene possibile la coscienza morale, se è vero che la
chiamata in fondo dà ad intendere questo esser-colpevole.
[23] La chiamata è chiamata della Cura. L’esser-colpevole costituisce
l’essere che noi denominiamo Cura. Nello spaesamento, l’Esserci sta
originariamente con se stesso. Lo spaesamento porta l’Esserci in
cospetto della sua integra nullità che rientra nella possibilità del suo
poter-essere più proprio. Poiché nell’Esserci, in quanto Cura, ne va del
suo essere, è dallo spaesamento che l’Esserci si incita, quale Si-stesso
effettivamente deietto, al suo poter-essere. Il richiamo è un richiamo-
indietro chiamando-innanzi (ein vorrufende Rueckruf): Innanzi (vor)
alla possibilità di assumere, esistendo, quell’ente gettato che l’Esserci
è; indietro (zurueck) nell’esser-gettato, per comprenderlo come la nulla
29
causa che l’Esserci, esistendo, ha da assumere. Il richiamo-indietro
chiamando-innanzi, proprio della coscienza morale, dà ad intendere
all’Esserci che esso – nulla causa di un progetto nullo stando nella
possibilità del suo essere — deve andare riprendersi dall’essersi-
perduto nel Si; dà cioè ad intendere all’Esserci che è colpevole.
[24] Ciò che l’Esserci dà così ad intendere, sarebbe allora una semplice
notizia di sé stesso. E l’ascoltare corrispondente ad una tale chiamata
non sarebbe allora che un prender atto del fatto «colpevole!». Ma se la
chiamata ha il carattere di incitare a…, questa interpretazione della
coscienza morale non condurrà ad un completo pervertimento della
funzione della coscienza morale? «Incitare all’esser-colpevole» non
verrà a significare incitare alla malvagità?
[25] Anche l’interpretazione più forzata della coscienza morale si
rifiuterà di attribuirle questo senso di chiamata. Ma che significa allora
«incitare all’esser colpevole»?
[26] Il senso di chiamata diviene chiaro solo se la comprensione,
anziché assumere un concetto di colpa derivato (nel senso di
colpevolezza «risultante» da un’azione o da una omissione), si atterrà
al senso esistenziale dell’esser-colpevole. Un’esigenza di questo
genere non è arbitraria, se si tiene presente che la chiamata della
coscienza morale muove dall’Esserci e si indirizza esclusivamente
all’Esserci stesso. Ma in tal caso l’incitare al proprio esser-colpevole
equivale a un chiamare-innanzi a quel poter-essere che, in quanto
Esserci, già sempre sono. Questo ente non ha bisogno di contrarre una
«colpa» mediante azioni od omissioni, esso non deve che essere
autenticamente quel «colpevole!» che, essendo, è.
[27] L’ascolto genuino del richiamo equivale allora
all’autocomprensione dell’Esserci nel suo poter-essere più proprio,
cioè a un autoprogettarsi nel poter-divenir-colpevole più proprio e
autentico. Il comprendente lasciarsi-chiamare-innanzi a questa
possibilità porta con sé il rendersi libero da parte dell’Esserci per la
chiamata: la disponibilità per il poter-esser-chiamato. Comprendendo
la chiamata, l’Esserci è obbediente (hoerig) alla sua possibilità di
esistenza più propria. Ha scelto se stesso.
[28] Con questa scelta, l’Esserci rende possibile a se stesso quel più
proprio esser-colpevole che resta invece precluso al Si-stesso. La
comprensione comune, propria del Si, non conosce che l’ottemperanza
o la violazione di regole pratiche e norme pubbliche. Essa procede
computando manchevolezze ed escogitando compensazioni. Si è già
sottratta all’esser-colpevole più proprio per parlare a voce tanto più alta
di mancanze. Ma nel richiamo il Si-stesso è richiamato all’esser-
colpevole che è più proprio del suo se-Stesso. La comprensione della
chiamata è una scelta; non però della coscienza morale che, in quanto
tale, non può essere scelta. Ciò che è scelto è l’aver-coscienza morale
come esser-libero per il più proprio esser-colpevole. Comprensione del
richiamo significa: voler-aver-coscienza morale.
[29] Con questa espressione non si vuole alludere al voler avere una
«buona coscienza morale» e neppure alla sollecitazione volontaria
30
della chiamata, ma unicamente alla disponibilità per l’essere chiamati.
Il voler-aver-coscienza morale è tanto lontano dalla ricerca di
colpevolezze effettive quanto lo è dalla tendenza a una liberazione
dalla colpa in quanto esser «colpevole!» essenziale.
[30] Il voler-aver-coscienza morale è invece il presupposto esistentivo
più originario per la possibilità del divenir-colpevole effettivo.
Comprendendo la chiamata, l’Esserci lascia agire in sé il se-Stesso più
proprio in base al poter-essere che ha scelto. Solo così l’Esserci può
essere responsabile. Ma ogni agire è di fatto necessariamente
«incosciente» (»gewissenlos«), non soltanto perché non evita colpe
morali effettive, ma perché, con-essendo già sempre con gli altri sul
nullo fondamento del suo nullo progettare, si è reso colpevole nei loro
confronti. In tal modo il voler-aver-coscienza morale diventa
l’accettazione della essenziale mancanza di coscienza morale entro la
quale soltanto sussiste la possibilità esistentiva di essere «buono».
[31] Sebbene nell’immediato la chiamata non dia nulla a conoscere,
essa non è soltanto critica, bensì positiva. La chiamata apre il poter-
essere più originario dell’Esserci in quanto esser-colpevole. La
coscienza morale si rivela quindi come un’attestazione appartenente
all’essere dell’Esserci, in cui l’Esserci è chiamato davanti al suo poter-
essere più proprio. Questo poter-essere autentico, così attestato, può
essere definito esistenzialmente in modo più concreto? Prima di tutto
bisogna chiedersi: l’analisi da noi compiuta di un poter-essere attestato
dall’Esserci stesso potrà vantare una sufficiente evidenza finché non
sia stato fugato il timore che la coscienza morale sia stata interpretata
unilateralmente col riportarla alla costituzione dell’Esserci, senza tener
conto dei dati noti all’interpretazione ordinaria della coscienza morale?
Nell’interpretazione da noi proposta, il fenomeno della coscienza
morale è ancora riconoscibile così com’esso «realmente» è? Non sarà
stata eccessiva la sicurezza con cui abbiamo desunto l’idea della
coscienza morale dalla costituzione dell’Esserci?
[32] Si deve ora garantire anche alla comprensione ordinaria della
coscienza morale la via d’accesso all’ultimo passo della
interpretazione della coscienza morale, ossia alla delimitazione
esistenziale del poter essere autentico attestato nella coscienza morale.
A tal fine, c’è bisogno della dimostrazione esplicita della connessione
fra i risultati dell’analisi ontologica e le esperienze quotidiane della
coscienza morale.
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Da: Filosofia e cultura, vol. 3b, Il Novecento (La Nuova Italia, 20o7) capitolo: Martin Heidegger (a
cura di P. Ciccarelli)
Introduzione Heidegger
1 Vita e opere
Martin Heidegger nacque a Meßkirch, in Germania, nel 1889. Dopo aver intrapreso studi teo-
logici, nel 1919 decise di allontanarsi dal cattolicesimo per dedicarsi completamente alla filoso-
fia. Studiò con il neokantiano Heinrich Rickert (1863-1936), ma l’impronta decisiva al suo pen-
siero fu impressa dal fondatore della fenomenologia, Edmund Husserl (1859-1938). Non tardò
ad acquisire notorietà pubblica con lezioni, tenute nelle Università di Friburgo e Marburgo, che
affascinarono gli ascoltatori per l’inaudita radicalità e spregiudicatezza del modo di leggere i
testi filosofici. Notorietà che si consolidò e allargò oltre i confini della Germania quando Hei-
degger pubblicò il suo primo importante libro, Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927). La persona-
lità di Heidegger presenta una sconcertante mescolanza di radicalismo critico, a tratti anche
rivoluzionario, e di filisteismo morale. Ne è prova la sua pronta adesione al nazionalsocialismo
nel 1933 (un episodio su cui torneremo più avanti, v. §§ 3.1 e 3.3.1). Da un lato, Heidegger spro-
nava i suoi colleghi filosofi e scienziati a non starsene in disparte, ad assumersi eroicamente la
propria responsabilità partecipando attivamente alla «rivoluzione nazionalsocialista». Dall’al-
tro, però, accettava compromessi meschini, come accadde ad esempio quando, in occasione di
una nuova edizione di Essere e tempo, in ossequio alla politica antisemita del regime tolse la dedi-
ca al suo maestro Husserl, ebreo. Anche l’atteggiamento dopo la guerra non è privo di ambi-
guità. Dopo essere stato sospeso dall’insegnamento per ordine delle forze di occupazione, Hei-
degger accettò di buon grado l’aiuto offertogli da allievi e estimatori per riabilitarlo. Si difese da
chi gli rimproverava le trascorse scelte politiche, dicendo di essersene subito pentito e di aver poi
sempre mantenuto un atteggiamento ostile nei confronti del regime. Eppure, in nessuno degli
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3 Heidegger
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sperienza umana dell’essere. Affinché si possa edificare una vera e propria scienza dell’essere,
occorre dunque prima svolgere un’analisi dell’essere dell’uomo, o «analitica esistenziale» (l’ag-
gettivo “esistenziale” viene da “esistenza”, appellativo dato da Heidegger all’essere dell’uomo).
Il problema Il tema dell’essere su cui Heidegger richiama l’attenzione è antico quanto la filosofia stessa. È
dell’essere infatti il tema del pensiero filosofico greco sin da Parmenide ❚ v. vol. I, capitolo, pp. 000-000 ❚. C’è
nell’antichità
però un’evidente differenza tra il modo antico e quello heideggeriano di porre il problema dell’es-
sere. In Parmenide, infatti, la nozione di “essere” è definita in opposizione a quella di “esserci”.
Parmenide stabilisce cioè una separazione netta tra l’essere, o «verità», e quella che chiama doxa,
l’«opinione», ossia il modo in cui le cose appaiono all’esperienza umana (il sostantivo doxa deriva
infatti dal verbo dokèin, “apparire”, “mostrarsi”). Si tratta della medesima separazione che Plato-
ne stabilisce tra il mondo delle idee, accessibile solo alla mente, e la realtà visibile. Già Platone, ma
soprattutto Aristotele avverte la necessità, per così dire, di “gettare un ponte” tra la dimensione
della verità dell’essere e quella dell’opinione umana. Tanto nella filosofia antica quanto in quella
medioevale, però, il discorso sull’essere (ontologia) si congiunge con difficoltà al discorso sull’uo-
mo (antropologia) e, per questa ragione, viene per lo più articolato come discorso su Dio (teolo-
gia), inteso come l’unico ente in grado di conseguire una conoscenza assolutamente vera.
Il problema Proprio questa difficoltà a far coesistere ontologia ed esperienza umana determina, nel corso della
della coscienza filosofia moderna, il progressivo accantonamento del problema dell’essere e lo spostamento del-
nel pensiero
moderno
l’attenzione su un’altra questione, il problema della coscienza. A questa tradizione moderna,
che parte da Cartesio e passa per Kant e l’idealismo classico tedesco (Fichte, Hegel, Schelling), si
ricollega il maestro di Heidegger, Edmund Husserl ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 4, pp. 000-000 ❚.
Come testimoniano i corsi universitari tenuti da Heidegger negli anni Venti, Essere e tempo nasce
da un confronto critico con la fenomenologia di Husserl. Richiamandosi alla necessità di por-
re il problema dell’essere, Heidegger intende anzitutto rivolgere una critica alla tradizione moder-
na. Per capire perché mai Heidegger ponga un problema così singolare e, per così dire, “superato”
attenzione, glossa su tre righi
come il problema dell’essere, occorre dunque per prima cosa capire la sua critica a Husserl.
Il Novecento 4
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giudichi ecc.) si presenta come un oggetto, ossia come qualcosa che è indipendente dal mio
coglierlo. Husserl chiama questa indipendenza dell’oggetto dal soggetto la sua «trascendenza»:
la cosa percepita trascende, sta oltre la coscienza, dunque sta fuori della coscienza che la perce-
pisce. La fenomenologia husserliana riconduce la trascendenza dell’oggetto all’«immanenza»
dei vissuti intenzionali, la spiega cioè come un prodotto della coscienza. In parole più semplici,
l’albero si manifesta come indipendente dalla coscienza che lo percepisce perché, secondo Hus-
serl, la coscienza stessa attribuisce all’albero questa sua indipendenza da lei. Per Husserl, quindi,
non c’è essere che non sia essere di coscienza, giacché anche tutto quanto si presenta come altro
dalla coscienza è tale, in realtà, soltanto nella coscienza e per la coscienza.
La critica di Heidegger critica il primato attribuito da Husserl alla coscienza, ossia il suo «coscienzialismo» o
Heidegger al «soggettivismo». Lo critica però rimanendo sul terreno stesso della fenomenologia, condividendo
coscienzialismo
moderno
cioè con Husserl il problema che, secondo Heidegger, l’idealismo non riesce a risolvere. Quale
problema? Il problema fenomenologico, cioè dell’indagine filosofica circa l’apparire, il manifestar-
si di ciò che è. Benché Heidegger trasformi profondamente la terminologia di Husserl (soprattutto
nella sua seconda fase, come vedremo), il suo può essere definito un pensiero fenomenologico.
Diverse sono però le vie fenomenologiche aperte da Husserl e da Heidegger. Husserl, consideran-
do la coscienza come luogo d’origine dell’apparire, rimane saldamente legato alla tradizione sog-
gettivistica moderna iniziata da Cartesio. Heidegger, invece, criticando il primato della coscienza,
cerca di aprire all’indagine fenomenologica una via nuova, alternativa a quella moderna.
Il primato Questa esigenza di liberarsi dalla tradizione moderna, viva e presente lungo tutto lo svolgimen-
della presenza to del pensiero di Heidegger, nasce da una considerazione tanto semplice quanto basilare circa
percettiva
in Husserl
la natura del fenomeno, ossia dell’apparire stesso. Per Husserl, l’apparire di qualcosa
significa anzitutto il suo essere presente. La cosa si manifesta quando è presente «diretta-
mente» o – come Husserl ama dire – «in carne e ossa». Tutti gli altri modi di manifestazione
(come ad esempio, il ricordo, l’immaginazione, il simbolismo matematico ecc.) sono modi sol-
tanto indiretti, dunque secondari e imperfetti. La «presentazione» dell’oggetto, ossia la sua per-
cezione diretta, ha dunque un primato rispetto a tutte le forme di manifestazione nelle quali
l’oggetto rimane ancora in parte assente.
La critica Heidegger contesta il primato attribuito da Husserl alla presenza. L’apparire – osserva
di Heidegger Heidegger – non ha luogo anzitutto nella forma della percezione diretta, ossia dell’avere in pre-
alla presenza
percettiva
senza l’oggetto da parte della coscienza. Si tratta, in fondo, di un’osservazione ovvia che ciascu-
no di noi può fare riflettendo, ad esempio, su quanto accade ora, mentre ci troviamo nella no-
stra stanza a studiare. Dinanzi a noi c’è il libro, la penna, la scrivania, il computer, accanto c’è
la finestra, la porta ecc. La doman-
da che guida il pensiero fenomeno-
logico di Heidegger è: in che senso
tutte queste cose «ci sono», «sono
qui»? Noi possiamo, certo, guardare
separatamente ciascuna di esse, con-
siderarle cioè in sé come oggetti pre-
senti dinanzi a noi. Tuttavia, il libro,
la penna, la scrivania, il computer, la
finestra, la porta ecc. ci sono anche
5 Heidegger
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senza che vi prestiamo attenzione. Il libro, ad esempio, è qui ma non lo vediamo come libro,
piuttosto lo leggiamo per apprenderne il contenuto. La penna accanto al libro c’è ma non ci
facciamo caso, e se vi prestiamo attenzione è soltanto per afferrarla e scrivere. La sedia su cui
siamo seduti c’è senza che la guardiamo, né la guardiamo quando la spostiamo per alzarci. Se
ci alziamo e apriamo la porta, non osserviamo direttamente la porta, né guardiamo la maniglia
che afferriamo per aprirla. Insomma, anzitutto le cose ci sono, dunque si manifestano, appaio-
no senza essere «tematicamente» presenti, senza cioè essere il tema esplicito di una percezione
diretta. Possono divenire «tematiche», possono essere percepite, ma «innanzitutto e per lo più»
non sono oggetti percepiti, dunque non hanno il carattere della presenza.
Il non Per comprendere il senso di queste osservazioni occorre tener presente quanto abbiamo già det-
manifestarsi to, ossia che, pur criticando Husserl, Heidegger intende rimanere sul terreno della fenomenolo-
del fenomeno
in senso
gia. Questo implica però una revisione radicale del concetto stesso di fenomeno. Fenomeno
fenomenologico non è soltanto ciò che si manifesta, ma anche e soprattutto ciò che rimane assente e
che dunque, in un certo senso, non si manifesta. Sembra un paradosso, ma è in realtà
quanto risulta dalle osservazioni che abbiamo appena fatto. Il libro, la penna, la sedia, la porta,
la maniglia, l’intera stanza con tutto quanto vi è contenuto si manifesta rimanendo
assente. Per accorgercene basta riflettere su quanto ci accade in questo momento. Il rapporto
che c’è ora tra me e il libro non è di tipo percettivo, cioè io non vedo il libro, ma lo leggo. Lo stes-
so vale per la sedia: non la percepisco, ma ci sto seduto. Parimenti per la maniglia: non la osser-
vo, ma la afferro per aprire la porta.
Il Novecento 6
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Il sistema La conoscenza che mira a determinare l’ente in quanto semplice presenza è secondo Heidegger
di rimandi soltanto uno dei possibili modi in cui l’uomo si rapporta agli enti. Ma non è il modo primario.
Primario è invece il prendersi cura, il rapporto pratico nel quale gli enti appaiono come mezzi
utilizzabili adatti a uno scopo. Nell’apparire come mezzi, gli enti si inseriscono in quello che
Heidegger chiama «sistema di rimandi». Ogni singolo mezzo cioè rimanda allo scopo possi-
bile a cui è adatto, scopo che, a sua volta, è sempre mezzo che rimanda a un altro scopo possibi-
le. La sedia rimanda alla possibilità di stare seduti, lo stare seduti alla possibilità di leggere il
libro, il leggere il libro alla possibilità di apprendere la lezione ecc. Il sistema dei rimandi è dun-
que la totalità, l’insieme unitario delle connessioni tra i mezzi
Il concetto La totalità dei rimandi è chiamata da Heidegger anche «mondo». L’essere dell’esserci (così,
di mondo ricordiamo, Heidegger chiama l’uomo) è un «essere nel mondo». Anche questa nozione cen-
e la critica
dell’io come
trale dell’analitica esistenziale implica una critica nei riguardi di Husserl e, più in generale, della
sfera tradizione soggettivistica. Affermando che l’esserci è in se stesso un essere nel mondo, Heideg-
immanente ger vuole contrastare l’idea di origine cartesiana secondo cui l’uomo sarebbe anzitutto chiuso
nel proprio io, in quella che Husserl chiamava l’«immanenza di coscienza», e debba quindi cer-
care il modo di uscire da sé, ossia di trascendere la propria immanenza per entrare in contatto
con oggetti posti fuori di lui. Essere nel mondo significa che l’esserci è in se stesso «trascenden-
te», è cioè – afferma Heidegger – «già sempre fuori di sé presso il mondo». Che cosa signi-
fica? Torniamo ai nostri esempi. Nello stare seduti sulla sedia, nel leggere il libro, nello scrivere
con la penna, nell’aprire la porta, tutti questi enti non ci stanno semplicemente di fronte come
oggetti estranei. Ci sono bensì familiari nel senso che sono commisurati a noi, al nostro poterli
usare, e noi stessi ci adattiamo perciò alla loro forma. La penna, ad esempio, è anzitutto una
cosa che può essere afferrata e dunque è fatta a misura della nostra mano (per questo il termine
tedesco usato da Heidegger per “utilizzabile” è Zuhandenes, che letteralmente significa: “ciò che
è portata di mano”). Per usare la penna, però, occorre imparare a disporre le dita, la mano, il
braccio e tutto il corpo in un certo modo. Usare un mezzo significa cioè saperlo padroneggiare
con il corpo, dunque non osservarlo astrattamente dall’esterno, ma «immedesimarsi», fare
tutt’uno con esso. Questa immedesimazione con il mezzo, necessaria al suo funzionamento, è
appunto l’essere fuori di sé presso il mondo.
7 Heidegger
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to nel 1924-25), Heidegger analizza la distinzione aristotelica tra due forme di attività umana: la
pòiesis, il produrre nel senso del “fare”, e la praxis, l’“agire” in senso vero e proprio. Normal-
mente non distinguiamo il fare dall’agire, o meglio ci rappresentiamo l’agire come un fare. Per
Aristotele, invece, si tratta di attività fondamentalmente diverse. Entrambe sono attività, hanno
cioè un fine o uno scopo a cui tendono. L’una, però, la pòiesis, ha il fine fuori di sé, mentre
l’altra, la praxis, ha il fine in se stessa. Heidegger interpreta questa distinzione in senso
fenomenologico. Secondo lui, cioè, distinguendo la praxis dalla pòiesis Aristotele ha inteso
distinguere due modi di manifestarsi dell’essere umano.
Il carattere Riflettiamo su un esempio di pòiesis: la produzione di un tavolino da parte del falegname.
fenomenologico Affermando che la pòiesis è un’attività che non ha il fine in se stessa, Aristotele intende dire che
della pòiesis:
l’eclissarsi
gli atti compiuti dal falegname per produrre il tavolino (dunque, la progettazione, la scelta del
del produttore legname, il montaggio, la rifinitura ecc.) sono tutti orientati verso uno scopo che sta oltre gli
nel prodotto atti stessi. Ciò significa, sotto il profilo fenomenologico, che l’apparire del produttore è secon-
dario rispetto all’apparire dell’opera da produrre. La realizzazione del tavolino è infatti un
modo di rendere manifesto qualcosa. Grazie alla produzione, cioè, la cosa prodotta appare,
diventa presente. Benché, però, debba il proprio apparire all’attività del produrre, la cosa pro-
dotta appare soltanto quando l’attività del produrre è cessata. In altre parole, nel momento in
cui il tavolino è realizzato, diventa cioè concretamente presente, l’attività del falegname è fini-
ta. Nel tavolino non vediamo più il falegname che l’ha prodotto. Si comprende allora il rilievo
fenomenologico che ha per Heidegger la nozione aristotelica di pòiesis. Nella produzione, il
produttore scompare, dilegua nel prodotto. L’atto del manifestare si eclissa nella
cosa manifestata.
Storie
per approfondire
Heidegger e la riflessione difendersi dal potere politico, i filosofi antichi e della pri-
sul politico: ma modernità (Cartesio, Spinoza, Hobbes, Leibniz ecc.)
Leo Strauss e Hannah Arendt adottarono un’abile tecnica comunicativa, la «scrittura
Benché il primo Heidegger abbia prestato scarsa essoterica». Essendo consapevoli, cioè, che la filosofia
attenzione al fenomeno della politica, due suoi stu- deve necessariamente mettere in discussione le conven-
denti, Leo Strauss (1899-1973) e Hannah Arendt zioni su cui si fonda il potere politico e corre quindi sem-
(1906-1975), hanno ricevuto da lui l’impulso a pre il pericolo di diventare oggetto di persecuzione, i filo-
porre questo tema al centro dei propri interessi. sofi comunicavano i propri insegnamenti “tra le righe”, in
Negli anni Venti, essi frequentarono un corso universitario modo indiretto, stando attenti a non offendere l’opinione
nel quale Heidegger attirò la loro attenzione su due testi comune.
della filosofia greca, il Sofista di Platone e l’Etica Nicoma- La Arendt, il cui pensiero è più chiaramente legato a quel-
chea di Aristotele. Un punto, in particolare, sembra essere lo di Heidegger, solleva un problema diverso: riflettere
stato per loro decisivo: il rilievo dato da Heidegger alla dif- sulle questioni civili senza lasciarsi condizionare da pre-
ferenza tra il modo di vita del filosofo, ossia di colui che giudizi che scaturiscono da esperienze estranee alla sfera
ricerca la verità, e quello di chi si occupa di affari pubblici, politica. Ad esempio, a causa di un modo di pensare che
cioè il politico in senso lato (il retore, l’avvocato, il capo di ha un’origine filosofica e quindi necessariamente “antipo-
un partito, lo stratega militare ecc.). Strauss e Arendt arri- litica”, siamo di norma inclini a considerare l’imprevedibi-
varono così a maturare una convinzione che, nonostante lità e la provvisorietà dei risultati dell’azione politica come
gli esiti differenti delle loro riflessioni, è comune a entram- difetti da cui occorre liberarsi. Comunemente, cioè, si
bi: la filosofia intrattiene un rapporto conflittuale con la attribuisce al pensiero politico il compito di prevedere
sfera politica. Una “filosofia politica” è, dunque, a rigor di nel modo più esatto possibile i comportamenti umani. La
termini, impossibile. La filosofia nasce infatti soltanto nel Arendt giudica un atteggiamento del genere, basato sul-
momento in cui viene messa radicalmente in questione la l’idea tipicamente scientifica della prevedibilità degli even-
dimensione dell’opinione (quella che i greci chiamavano ti fisici, incompatibile con la sfera politica. Se infatti –
dòxa), dimensione che è invece propria dell’agire politico. osserva – un’azione umana fosse completamente preve-
Molto diverse sono, però, le conseguenze che Strauss e la dibile, non sarebbe più un’azione umana. Avrebbe perso
Arendt traggono da questa consapevolezza. quelle caratteristiche che rendono l’azione diversa da un
Per Strauss si tratta anzitutto di difendere la filosofia dagli processo fisico, ossia, anzitutto la libertà e, quindi, l’impre-
imperativi della politica. Strauss scopre così che, per vedibilità e la provvisorietà.
Il Novecento 8
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Il rendersi La praxis, l’agire in senso vero è proprio si distingue dalla pòiesis perché il suo scopo consiste nel-
visibile l’esecuzione stessa degli atti necessari a compierlo. Un esempio di praxis che si trova spesso negli
dell’agente
nella praxis
scritti di Aristotele è l’attività del suonare uno strumento musicale. Quando suoniamo uno stru-
mento, ad esempio il flauto, siamo impegnati in un’attività il cui fine è l’attività stessa. Se infatti
cessa l’attività, cessa anche il suono. Il manifestarsi del suono coincide dunque con il manifestar-
si di colui che suona. Il suono non è dunque un prodotto che appare successivamente all’attività
del suonare lo strumento, mentre il tavolino appare soltanto dopo l’esecuzione degli atti neces-
sari alla sua costruzione. Il suono, dunque lo scopo del suonare, coincide con l’atto stesso del
suonare. Questa elementare osservazione aristotelica ha per Heidegger un’importanza decisiva.
Essa indica infatti che la prassi umana può attuarsi in due modi fenomenologicamente opposti.
Se si attua come produzione, l’attività umana scompare nel prodotto, se invece si
attua come azione in senso proprio, si rende visibile in se stessa.
Esistenza Benché non ne faccia esplicita menzione, in Essere e tempo Heidegger si serve della distinzione
autentica, aristotelica tra pòiesis e praxis per individuare due diversi modi di essere dell’esserci, cioè dell’uo-
o propria,
e esistenza
mo: l’esistenza inautentica e l’esistenza autentica. Pur essendo entrambe attività pratiche,
inautentica, nell’una, l’esserci non si rivela, nell’altra si rivela a se stesso. Si osservi, al proposito, che la radice
o impropria della parola tedesca che rendiamo in italiano con “autenticità”, Eigentlichkeit, è eigen, “proprio”.
L’esistenza inautentica è dunque l’esistenza “non propria”, “impropria”, che non si appropria
di sé, ossia che non incontra se stessa in quello che fa. L’uomo è viceversa autentico quando agi-
sce in modo da svelare quello che gli è proprio. Si tratta, a guardar bene, di una distinzione del
tutto ovvia. Quando, ad esempio, di una attività ripetitiva e noiosa, come imparare a memoria
un testo o compilare bollettini postali, diciamo che è “alienante”, intendiamo appunto dire che
ci aliena o espropria di quello che siamo capaci di fare, ossia che non consente di mostrarci nel-
la nostra individualità. Attività creative che chiamano direttamente in causa le nostre attitudini
personali, ad esempio una partita di calcio o la risoluzione di un quiz di intelligenza, consentono
invece di mostrarci in quello che abbiamo di più proprio.
9 Heidegger
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La dipendenza La paradossale dipendenza dell’uomo dagli strumenti che lo rendono per altro verso indipen-
delle attitudini dente è espressa da Heidegger con la seguente formula: «l’esserci comprende se stesso a
tecnico-pratiche
dagli strumenti
partire dagli enti che incontra nel mondo». Al proposito, occorre tener presente che, quan-
do parla di «comprendere» o «comprensione» (Verstehen), Heidegger non intende un atto di
natura teorico-conoscitiva. Intende invece un’attitudine pratica, ossia l’«esser capace di esse-
re» o «saper fare qualcosa» (Sein-können). Si tratta perciò di un sapere, ma nel senso tecnico-
pratico che intendiamo quando diciamo, ad esempio, di “saper andare in bicicletta”, “saper
nuotare”, “sapere come si compila un modulo” e simili. Che l’esserci comprenda se stesso a par-
tire dagli enti che incontra nel mondo significa dunque che il suo saper fare, ossia le sue attitudi-
ni dipendono dagli strumenti che consentono di metterle in pratica. Più in particolare, gli stru-
menti vincolano la prassi umana alle possibilità determinate che essi permettono di realizzare.
Un martello, ad esempio, consente di conficcare chiodi, ma non consente di scrivere e, vicever-
sa, una penna consente di scrivere ma non consente di conficcare chiodi.
Il decadimento La prassi umana quotidiana è dunque essenzialmente un “produrre” nel senso, prima chiarito,
da sé del termine aristotelico pòiesis. Al pari della pòiesis aristotelica, infatti, il prendersi cura pratico
dell’esistenza
inautentica
di cui parla Heidegger è un’attività orientata verso uno scopo che sta al di là, ossia fuori, all’e-
sterno dell’attività stessa. Ciò significa che l’esserci «si disperde» nei mezzi di cui fa uso. L’essere
nel mondo è dunque un perdersi o – per usare il termine tecnico che troviamo in Essere e tempo
– un Verfallen, espressione traducibile in italiano con «decadimento» (o anche «deiezione»),
da intendere però secondo il duplice significato del «decadere da sé» dell’esserci e del suo con-
temporaneo «cadere nel mondo» di cui l’esserci si prende cura.
Il conformismo La perdita di sé o decadimento che caratterizza l’essere
del «si» nel mondo dell’esserci non riguarda però soltanto il sin-
impersonale
golo individuo. Riguarda bensì anche quello che Heideg-
ger chiama l’«essere assieme», dunque la dimensione
sociale, intersoggettiva dell’esistenza umana. L’esisten-
za inautentica è anche e soprattutto un «essere as-
sieme» inautentico. Si tratta, in sostanza, di quello che
siamo soliti chiamare “conformismo”, ossia la tendenza
ad allinearsi alle opinioni dei più, a comportarsi secondo
schemi prestabiliti, a rendersi uniformi alla collettività.
Heidegger parla, in proposito, di predominio di un «si
impersonale» (Man è la parola con la quale in tedesco
si designa il soggetto di frasi impersonali: ad esempio, man
sagt, “si dice”): l’esserci inautentico agisce e pensa
così come si agisce e si pensa (tema anticipato da
Nietzsche, ❚ v. vol. III, nome capitolo, Lettura 2 ❚). Caratteri-
stiche dell’esistenza inautentica sono secondo Heidegger i La spersonalizzazione nella società di
massa è stato uno dei temi della Pop Art: ecco
la «chiacchiera», la «curiosità» e l’«equivoco». La come Roy Lichtenstein raffigura se stesso in
chiacchiera è il modo vacuo di discorrere di cose o di vi- questo Autoritratto (1978, collezione privata).
cende umane, basato sulla ripetizione acritica di pregiu-
dizi comunemente accettati. La curiosità è un desiderio di conoscenza fine a se stesso, che si appa-
ga della superficie delle cose senza mai essere disposto a andare a fondo. Chiacchiera e curiosità
fanno sì che nel vivere l’uno con l’altro predomini l’equivoco ossia l’incomprensione reciproca.
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dunque
la morte è la possibilità
che rende ogni possibilità impossibile
pertanto
l’inautentico si rivela
la vita autentica accetta la morte, nella chiacchiera
facendo propria la dimensione dell’angoscia e nelle occupazioni
e non si disperde nell’inautentico. frenetiche.
eigen, “proprio”). Giunto a questo punto dell’analitica esistenziale, Heidegger si chiede: c’è un
modo d’essere in cui l’esserci è propriamente se stesso? Un modo di vita, cioè, nel qua-
le l’uomo non fugge da se stesso, ma si rivela invece per quello che propriamente è? Il problema
può sembrare di semplice soluzione, e tale è per lo più sembrato, secondo Heidegger, nella tra-
dizione filosofica. Da Socrate fino a Husserl, infatti, si è concordemente ritenuto che l’uomo
acceda a se stesso grazie a un atto di riflessione interiore, grazie cioè alla conoscenza di sé. Sen-
nonché, una soluzione del genere è per Heidegger necessariamente inadeguata. Per lui, infatti,
l’esistere umano non è anzitutto conoscere, ma agire. La prassi ha un primato sulla teoria. Affi-
dare il compito di manifestare l’esserci a un atto conoscitivo quale la riflessione interiore, come
ha per lo più fatto la tradizione filosofica, significherebbe attribuire alla conoscenza maggiore
importanza che alla prassi.
L’esistenza Per Heidegger, dunque, non si tratta di trovare una via di conoscenza capace di condurre l’uo-
autentica quale mo dinanzi alla sua vera natura. Si tratta piuttosto di individuare quei modi d’essere in cui l’es-
autorivelazione
dell’agente
serci non si nasconde a se stesso, non si immedesima cioè negli strumenti che usa, non decade
da sé cadendo nel mondo, non si conforma acriticamente agli schemi del «si» impersonale.
Saranno modi di essere “pratici” nel senso della praxis di Aristotele, dunque azioni tali da far sì
che l’agente si riveli a se stesso nell’atto in cui agisce, come accade al flautista dell’esempio ari-
stotelico, il quale, suonando, produce il suono, ma esibisce al contempo anche se stesso. Azioni
di questo tipo sono i fenomeni esistenziali che Heidegger chiama «angoscia» ed «essere per
la morte».
La necessità L’angoscia è uno «stato d’animo» ossia un modo di quella che Heidegger chiama «situati-
di un’analisi vità emotiva» (Befindlichkeit, ❚ Lettura 2 ❚). Stati d’animo sono ad esempio, la paura (a torto,
fenomenologica
e non psicologica
secondo Heidegger, confusa con l’angoscia), l’allegria, la noia, la depressione, il pudore ecc. Si
della dimensione tratta dunque di quelli che normalmente chiamiamo “sentimenti” o “stati psicologici”. Heideg-
emotiva ger avverte però che la natura degli stati d’animo è totalmente travisata quando si considerano
in modo psicologico, ossia come proprietà di una sfera psichica, interna, soggettiva, estranea
alla sfera mondana, esterna, oggettiva. Anche negli stati d’animo l’esserci è in rapporto con il
mondo, non rimane isolato nella propria privata interiorità. Gli stati d’animo sono dunque
fenomeni in senso fenomenologico, ossia modi di apparire degli enti.
11 Heidegger
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L’autorivelazione Che cosa appare negli stati d’animo? Pensiamo a un caso che è sicuramente capitato a tutti: lo
emotiva spavento che ci prende quando, camminando distrattamente lungo un viale, avvertiamo improv-
nella paura
visamente la presenza di un cane che, dietro un cancello, si rivolge a noi ringhiando e abbaiando.
In un caso simile, ci assale la paura perché il cane ci appare come qualcosa di minaccioso. Perché
nasca il sentimento di paura, però, non è sufficiente che qualcosa si riveli minaccioso. La paura
nasce dal fatto che la minaccia si manifesta nelle nostre immediate vicinanze. Se infatti osservia-
mo il cane di lontano, oppure se siamo sin da principio consapevoli che c’è una rete a protegger-
ci, anche se sappiamo che si tratta di un cane pericoloso, di norma non ne abbiamo paura. Ciò
significa che il sentimento di paura nasce soltanto quando la minaccia ci coinvolge, ci riguarda
direttamente. In termini fenomenologici: la minaccia fa paura quando ci si manifesta in modo
tale da renderci manifesti a noi stessi. La paura fa sì che l’esserci si riveli a se stesso.
Il rivelarsi Tutti gli stati d’animo sono secondo Heidegger modi in cui l’esserci si rivela a stesso. Non si trat-
all’esserci ta però di atti di riflessione o di autopercezione nel quale l’io osservi se stesso come un oggetto.
del suo essere
gettato
Al contrario, negli stati d’animo l’esserci avverte la propria esistenza come una possibilità da
attuare, ossia come un «aver da essere». La paura, infatti, non è soltanto paura «di» qualcosa
(del cane, ad esempio), ma anche sempre paura «per» qualcosa (ad esempio, per la nostra inte-
grità fisica). Ciò per cui abbiamo paura, ossia ciò che sentiamo minacciato è sempre una nostra
attuale possibilità di fare qualcosa: se il cane ci mordesse, non potremmo compiere ciò che sta-
vamo facendo, ad esempio, continuare la nostra passeggiata. Rivelando l’esistenza come possi-
bilità, la paura, così come ogni altro stato d’animo, fa sì che l’uomo avverta – afferma Heidegger
– la propria «gettatezza » (Geworfenheit). L’esistenza umana è «gettata», è cioè una condizione
precaria, priva di garanzie, irrimediabilmente esposta al rischio del fallimento.
La cura come Non si leggano però queste parole di Heidegger come espressione di un esangue pessimismo,
costrizione come un ammonimento a considerare insensato ogni progetto e ideale di vita, insomma come
a essere liberi
un invito alla rassegnazione. Per Heidegger, infatti, il carattere di gettatezza dell’esistenza impli-
ca il contrario della rassegnazione. Essendo gettata, l’esistenza è «affidata» all’uomo come un
compito da attuare e verso cui egli è responsabile. Si rifletta, per capire questo punto, sul signifi-
cato dell’espressione “affidare”. Quando qualcosa o qualcuno – ad esempio, un bambino – ci
viene affidato, veniamo a trovarci in una condizione che è, insieme, libera e non libera. Per un
verso, siamo liberi di disporre di ciò che ci viene affidato: un bambino affidato alla nostra cura
va guidato e educato. Per altro verso, però, proprio questa libertà ci pone vincoli ben precisi:
nell’aver cura di un bambino dobbiamo mirare al suo bene, siamo cioè responsabili della sua
crescita. Il bambino suscita la nostra apprensione perché, per tutto il tempo in cui è affidato alla
nostra cura, ci pone costantemente dinanzi alla necessità di agire, di prendere decisioni nei suoi
riguardi, di valutare ciò che è bene e ciò che è male per lui. La cura di un bambino che ci è stato
affidato è dunque una condizione nella quale siamo, per così dire, “costretti a esser liberi”: la
libertà è avvertita come un «peso», un’incombenza a cui non possiamo sottrarci. Per designare il
rapporto dell’esserci con la propria esistenza, Heidegger usa l’espressione «cura» (Sorge) nel
senso appena chiarito. L’esserci ha cura della propria esistenza, si trova cioè nella
necessità di assumere su di sé il peso della libertà di agire.
L’angoscia La paura, così come la maggior parte degli stati d’animo, pur rivelando all’esserci il fatto di esse-
come stato re gettato nella propria esistenza, è però secondo Heidegger un modo per evitare di assumersi il
d’animo
autentico
peso della libertà. La paura offre all’uomo una via di fuga dalla costrizione di essere libero: gli
consente di rifugiarsi nel «si» impersonale. Le possibilità di esistenza a cui l’uomo è rinviato nel-
la paura non sono cioè possibilità liberamente progettate, sono bensì passivamente accettate in
conformità a ciò che gli altri fanno. Diverso è invece il caso di quello che Heidegger chiama lo
«stato d’animo fondamentale» o «autentico»: l’angoscia ❚ Lettura 3 ❚, un tema centrale
già in Kierkegaard ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 0, pp. 000-000 ❚.
L’effetto Benché apparentemente simile alla paura, l’angoscia (Angst) presenta una caratteristica che la
liberatorio distingue da tutti gli altri stati d’animo. L’angoscia – afferma in sostanza Heidegger – è uno sta-
dell’angoscia
to d’animo senza oggetto. Non c’è propriamente niente che susciti l’angoscia. O meglio, ciò che
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suscita l’angoscia non è, come accade nella paura, questo o quell’ente che si incontra nel mon-
do, ma è il mondo stesso come tale. Quando è angosciato, l’esserci avverte l’insensatezza di tut-
to quello che normalmente per lui ha senso. Lo stato d’animo dell’angoscia produce cioè un
effetto «spaesante» o «inquietante» (unheimlich) perché priva l’esserci dell’abituale confidenza
con l’ambiente circostante. Nell’angoscia – afferma Heidegger – l’uomo «non si sente più a casa
propria», avverte cioè che ogni possibilità di agire che il mondo gli offre non ha più senso, non
rappresenta più uno scopo degno di essere perseguito. Ciò non significa però che l’angoscia ini-
bisca o paralizzi l’azione. Al contrario, secondo Heidegger, l’angoscia, rivelando l’insensatezza
di ogni singolo scopo determinato, libera l’esserci dalla tendenza inautentica a interpretare se
stesso e le proprie possibilità di agire accettando acriticamente quello che impersonalmente tut-
ti pensano e tutti fanno. L’angoscia, insomma, libera l’uomo dall’inautenticità e lo
dispone a esistere autenticamente.
Autenticità Ma che cosa significa, propriamente, esistere in modo autentico? Che cosa deve fare l’uomo, in
e inautenticità concreto, per essere autentico? La risposta a queste domande in Essere e tempo può apparire
come diversi
di modo
deludente. Heidegger, infatti, non stabilisce nessuno scopo, ideale, valore concreto da realizza-
di esistere re. La differenza tra autenticità e inautenticità non risiede cioè in un diverso conte-
nuto dell’esistenza, ma soltanto in un diverso modo di esistere. Abbiamo già osservato
che quando Heidegger parla di «modo di essere» intende l’apparire, il manifestarsi di ciò che è.
L’esistenza autentica è appunto un diverso modo di manifestarsi del medesimo contenuto che
si manifesta nell’esistenza inautentica. Nell’esistenza inautentica, l’esserci fugge da se stesso,
ossia, si nasconde, non si manifesta a se stesso. Ciò significa che le possibilità di agire, i proget-
ti, gli scopi, i valori che lo guidano non sono vissuti da lui come sue libere scelte. Nascondendo-
si a se stesso, l’esserci non afferra le possibilità di esistenza in quanto proprie possibilità, possibi-
lità cioè a cui si può dire sì o no, ma soltanto come schemi di comportamento prestabiliti a cui
si deve adeguare in ossequio all’autorità del «si» impersonale. L’angoscia, rivelando l’insensa-
tezza del mondo, libera l’esserci da questa tendenza inautentica a fuggire da sé, lo spinge cioè a
porsi dinanzi a se stesso e a riconoscere senza finzioni rassicuranti il proprio essere gettato nel-
l’esistenza.
La rivelazione In altre parole, l’angoscia fa sì che l’uomo scopra la propria libertà. Non si tratta però di
autentica una libertà senza vincoli. Quella umana è – afferma Heidegger – una «libertà finita», vale a
di sé come
scoperta della
dire, non è infinita come la libertà creatrice che la tradizione filosofico-teologica attribuisce
libertà finita all’onnipotenza divina. Che la libertà umana sia finita significa essenzialmente due cose. Signifi-
ca anzitutto che l’esserci è costretto a concretizzare di volta in volta la propria libertà in una scel-
ta determinata la quale esclude inevitabilmente altre possibili scelte. Significa inoltre che una
volta compiuta la scelta, abbracciato un ideale, optato per un fine, l’uomo rimane vincolato alla
necessità di portarlo a compimento. L’esistenza umana è insomma caratterizzata da quella con-
dizione duplice, libera e vincolata a un tempo, che abbiamo sopra esemplificato riflettendo su
che cosa implichi aver cura di qualcosa o qualcuno che ci è stato affidato. Ciò significa, secondo
Heidegger, che l’esserci è autenticamente libero quando sceglie le sue possibilità di
esistenza in vista della propria morte. L’esserci è autentico, cioè, quando esiste come
«essere per la morte» o «anticipazione della propria morte».
La scelta Parlando di essere per la morte, Heidegger non allude alla necessità di pensare alla morte o,
autentica peggio, di suicidarsi. La morte è presa da lui in considerazione come la «la possibilità più pro-
resa possibile
dall’essere
pria» dell’esserci. Tra tutte le possibilità, osserva infatti Heidegger, la morte è una possibilità
per la morte assolutamente eccezionale, perché è «la possibilità dell’impossibilità dell’esistenza
come tale». Ciò significa che nell’anticipazione della propria morte, l’esserci si trova confron-
tato con l’«impossibilità», ossia con la negazione della possibilità come tale, dunque con il
limite oltre il quale l’esistenza non può andare. La morte non offre niente da realizzare, niente
che possa essere concretamente attuato, giacché rappresenta l’annullamento di ogni possibi-
lità di esistenza concretamente realizzabile nel mondo. La morte è infatti il non essere più nel
mondo dell’esserci. Tuttavia, come abbiamo già osservato a proposito dell’insensatezza del
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L’interpretazio- Essere e tempo fu avvertito come un libro rivoluzionario perché poneva finalmente al centro l’uo-
ne esistenziali- mo nella sua esistenza concreta. Per farsi un’idea dell’effetto di rottura suscitato dall’analitica
sta di Essere
e tempo
esistenziale si pensi soltanto alla differenza tra l’aspirazione di fondo della fenomenologia di
Heidegger e quella del suo maestro Husserl. Per Husserl il problema fondamentale della feno-
menologia non era sostanzialmente diverso dal problema sul quale la filosofia da Platone in poi
si era continuamente affaticata senza mai trovare, secondo lui, una soluzione adeguata: il pro-
blema dell’episteme o «scienza rigorosa» ❚ v. vol. III, nome capitolo, § 4 e 6, pp. 000-000 ❚. Husserl era
cioè persuaso che la ragione umana, qualora fosse riuscita a realizzare il suo scopo, giungere a
un sapere incontrovertibile, assolutamente certo e al riparo da ogni possibile dubbio, avrebbe
gradatamente risolto ogni problema umano. In Essere e tempo, nonostante l’evidente presenza
dell’insegnamento husserliano, non c’è più traccia dell’entusiasmo razionalistico che animava
Husserl. Mentre Husserl si richiamava ai «compiti infiniti della ragione», da realizzare grazie
all’applicazione rigorosa del metodo fenomenologico, Heidegger batteva l’accento sulla «fini-
tezza» dell’esistenza, vale a dire, sul carattere limitato e dunque problematico e aperto di ogni
risultato pratico o teorico conseguito dall’attività umana. Proprio questa tonalità esistenziali-
sta e antropologica di Essere e tempo ne favorì il successo in un’epoca – gli anni tra la prima e
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polemica
«Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire». Sotto il profilo
strettamente teorico, quindi, la svolta trae origine dalla critica del modo in cui, in Essere e tempo
e in altri scritti immediatamente successivi, era stato concepito l’agire umano. Più in particolare,
nella seconda metà degli anni Trenta, Heidegger rimette in discussione il rapporto tra
prassi umana e verità.
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cosa (espresso dal nome “ente”) è, ossia si manifesta. In base a questa concezione ontologico-
fenomenologica, la conoscenza è quel particolare modo di essere o presentarsi nel
quale l’ente si presenta come differente dal suo stesso essere o presentarsi.
La verità come Chiariamo questo concetto con un esempio concreto. Un atto conoscitivo è, ad esempio, l’asser-
svelamento zione “la neve è bianca”. Essa manifesta o – come Heidegger dice anche – «svela» l’ente, la
neve bianca reale. Asserire significa svelare l’ente, nell’asserzione si produce uno «sve-
lamento». I termini “svelamento” e “svelatezza” sono il calco letterale della parola greca che
designa la verità: alètheia (da a-, “non”, e lèthe, “nascondimento”, “velatezza”). “Svelato” signifi-
ca dunque “vero”. Quello conoscitivo, però, è uno svelamento, per così dire, “condizionato” o
“subordinato”. L’asserzione “la neve è bianca”, infatti, è vera, ossia svela l’ente se e solo se la
neve è effettivamente bianca, dunque se ciò che l’espressione linguistica esprime è conforme allo
stato di cose reale. Per stabilire se l’asserzione (“la neve è bianca”) è conforme alla cosa asserita
(la neve bianca reale) occorre verificarla. Occorre, ad esempio, guardare direttamente la neve e
constatarne l’effettiva bianchezza. È dunque l’ente in se stesso (la neve bianca reale) il «criterio»
o la «misura» in base alla quale possiamo stabilire se l’asserzione (“la neve è bianca”) è vera o
falsa, se cioè è svelante o velante.
La conoscenza Questo ragionamento consente a Heidegger di mostrare che l’asserzione, così come ogni atto
come differenza conoscitivo è uno svelamento soltanto secondario o «derivato», fondato cioè su uno svelamento
ontologica
preliminare o «originario», grazie al quale l’ente si manifesta come ciò a cui la conoscenza deve
adeguarsi. In altre parole, Heidegger sostiene che, quando si asserisce qualcosa intorno alla
Storie
per approfondire
A-lètheia: i Greci e noi Una presenza che, quanto più «rimane assente», «si
Heidegger ha prestato sempre grande attenzione cela», «si ritrae», tanto più ci tiene in suo dominio, impe-
al mondo greco. Le sue interpretazioni dei preso- dendoci di riflettervi sopra criticamente. Ritornare al
cratici, dei poeti tragici, di Platone e Aristotele mondo greco significa dunque per Heidegger riflettere
muovono tutte da una convinzione di fondo: ben- criticamente su noi stessi, sui principi che informano il
ché sia la base della nostra moderna civiltà occi- modo di vivere occidentale.
dentale, il mondo greco è divenuto per noi pres- La scoperta più importante fatta da Heidegger in questa
soché inaccessibile. In altre parole, noi pensiamo e sorta di “viaggio a ritroso” nell’identità dell’Occidente
agiamo in base a principi che sono stati scoperti per la riguarda proprio il concetto di verità (scoperta contesta-
prima volta dai Greci, ma non siamo più in grado di com- ta, in realtà, da alcuni filologi classici). La parola alètheia –
prendere perché pensiamo e agiamo, per così dire, “in osserva Heidegger – è composta dalla a privativa (“non”)
modo greco”. Prendiamo ad esempio il concetto di e dal verbo lanthànein (“nascondersi”). Heidegger ne con-
«verità», un principio per noi indispensabile, di cui faccia- clude che, quando i Greci usavano questa parola, la inten-
mo uso ogni giorno. Senza di esso, infatti, non vi sarebbe- devano come a-lètheia, «non nascondimento», «non vela-
ro tribunali (dove i testimoni “giurano di dire la verità”), tezza». Avvertivano cioè che la verità reca in sé un nesso
istituzioni scientifiche (in cui “si ricerca la verità”), passa- indissolubile tra la presenza e l’assenza. “Vero” era per
porti (che “attestano la vera identità” di una persona), loro, anzitutto, quello che è stato portato alla luce strap-
banconote (che, per avere valore, “non devono essere pandolo a un occultamento. Ad esempio, vero è l’ordine
false”) ecc. Ebbene, secondo Heidegger, il fatto che cose naturale delle cose, ordine che non è immediatamente
come tribunali, enti di ricerca, passaporti, banconote evidente, giace per lo più nascosto, occultato dalle con-
abbiano così grande importanza nella nostra vita quoti- venzioni, dalle opinioni e dai costumi comunemente con-
diana attesta la «presenza» dell’antica Grecia tra noi. I divisi. La verità è insomma il risultato di una critica della
filosofi greci furono infatti i primi a porre a tema il concet- tradizione. Che cosa significa per Heidegger questa sco-
to di “verità” (in greco: <PAROLA GRECA>, alètheia) e a perta filologica? Significa che i Greci non soltanto pensava-
farne un principio del pensare e dell’agire quotidiani. Si no e agivano, come anche noi facciamo, in base al princi-
rifletta, però, sulla natura di questa presenza. Heidegger pio della verità, ma erano anche consapevoli del modo in
non intende tanto quella che possiamo percepire diretta- cui questo principio si impone, ossia come una presenza
mente quando, ad esempio, visitando un sito archeologi- inestricabilmente connessa con l’assenza. Per Heidegger, la
co nel sud dell’Italia (l’antica magna Grecia), vediamo le differenza tra noi e i Greci sta tutta qui: noi ci lasciamo gui-
rovine di un tempio. Si tratta, piuttosto, di una presenza dare acriticamente dai principi scoperti dai Greci, i Greci
che non appare direttamente, di una «presenza assente». sapevano invece di essere guidati da tali principi.
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i Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1915-1964. Si tratta di una delle prime sculture ready-made (“già
fatte”), costituita da una ruota mobile fissata a uno sgabello. «Questa macchina – afferma Duchamp –
non ha altra intenzione che quella di sbarazzarsi dell’apparenza di opera d’arte […].Voleva porre fine
al desiderio di creare l’opera d’arte».
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intende altresì indicarne il carattere problematico. La differenza ontologica esige cioè una fon-
dazione filosofica che sia in grado di dimostrarne l’origine. Come abbiamo già osservato, Hei-
degger ritiene che nessuna filosofia abbia sinora fornito una soluzione soddisfacente a questo
problema. Benché in non pochi luoghi lasci intendere che il problema rimanga per lui in sostan-
za aperto, prima e dopo la svolta Heidegger prospetta due soluzioni differenti. Due soluzioni
che differiscono per il diverso ruolo che viene attribuito alla volontà e, dunque, all’agire dell’uo-
mo.
19 Heidegger
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Storie
per approfondire Heidegger e il nazismo: prospettica, appare a molti indubbio. Molti interpreti, cioè,
l’illusione della filosofia al potere. ritengono che quella di Heidegger sia stata una filosofia ir-
Una questione ancora assai controversa è quale sia razionalista, ostile alla scienza, all’argomentazione razionale,
il rapporto tra la filosofia di Heidegger e la sua scel- alla libertà di pensiero, politicamente incline, quindi, a for-
ta politica a favore del nazismo. Una questione ana- me di governo come la dittatura. Si può tuttavia avanzare
loga a quella che, nel secondo dopoguerra, è sorta un’interpretazione diversa e, forse, meno sommaria della
in Italia a proposito di Giovanni Gentile, importan- questione. L’accusa di irrazionalismo è infatti spesso indizio
te filosofo e eminente personalità politica del regi- della preconcetta volontà di liquidare l’avversario senza ca-
me fascista (v. vol. III, cap. 00, § 3.2). Nel Novecento non pirlo. E, nel caso della filosofia di Heidegger, il rimprovero di
mancano altri casi di filosofi schierati a fianco di regimi poli- essere un pensiero ostile alla libertà umana appare parti-
tici tirannici, basati sulla repressione violenta della libertà. Si colarmente inadeguato, visto il rilievo assolutamente cen-
pensi ai numerosi filosofi e uomini di cultura comunisti, co- trale che questa nozione assume in tutta la sua opera. Sem-
me ad esempio l’ungherese György Lukács (1885-1971) e, bra dunque più corretto spiegare la scelta politica di Hei-
in Francia, Jean-Paul Sartre, che hanno dato pubblicamente degger come il frutto di un’illusione. È l’illusione, ricorrente
il proprio consenso a una dittatura totalitaria come quella nella storia della filosofia, di potersi servire della dittatura
di Stalin, ferocemente avversa a ogni espressione di dissen- come di uno strumento, più rapido ed efficace di altre for-
so. Si tratta di un fatto non nuovo nella storia della filosofia. me di governo, per condurre la filosofia al potere e rende-
Già Platone, infatti, aveva manifestato la propria propensio- re così compiutamente razionale la vita politica. Non c’è
ne per la dittatura tentando di diventare consigliere di un dubbio quindi che a Heidegger vada rimproverata la scon-
tiranno, Dionigi di Siracusa. Il rapporto tra filosofia e tiranni- certante incapacità di capire in tempo gli evidenti propositi
de si può interpretare in modi diversi. Un primo modo con- criminali di Hitler e della sua cricca. Ma si tratta appunto di
siste nell’individuare quali sono gli elementi ideologici che mancanza di intelligenza politica e di scarso coraggio civile,
rendono affine una certa filosofia al regime politico tiranni- non di affinità ideologica tra la sua filosofia e la brutale mi-
co. Il caso di Heidegger, osservato da questa angolazione tologia irrazionalista propagandata dai nazisti.
inteso la nozione di «comprensione» (Verstehen) in senso non teoretico ma pratico, ossia come la
capacità dell’esserci di progettare la propria esistenza (v. sopra § 2.4.2). Estendendo all’ente in
quanto tale questa nozione di comprensione pratica, che in Essere e tempo rimaneva invece
ancora limitata all’esistenza umana, Heidegger conferisce al proprio pensiero un carattere
volontaristico e, per così dire, “attivistico”. Dalla capacità umana di svelamento – si legge ad
esempio nella conferenza sull’Essenza della verità – «nascono le decisioni semplici e rare della
storia». Non è un caso che gli scritti nei quali viene prospettata questa soluzione volontaristica
del problema della differenza ontologica risalgano agli anni in cui Heidegger compì la fatale
scelta di impegnarsi in politica.
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qui ci sono sotto-sotto paragrafi e sotto-sotto-sotto paragrafi:mi sa che è la prima volta che succede…
X ora ho messo in rosso i sotto-sotto-sotto paragrafi, ma se si decide di metterli farò nuovo stile.
i Passato e presente si confrontano in un processo interpretativo tipico di molta pittura contemporanea: il quadro di Magritte qui a destra
(Prospettiva: Madame Recamier di David, 1950) ripropone – con una macabra variazione – il soggetto di un famoso dipinto del 1771 di
Jacques-Louis David (Ritratto di Madame Recamier, Parigi, Louvre).
21 Heidegger
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nia, rappresentano soltanto, per così dire, “uno degli infiniti fili” di quella gigantesca “trama” di
fatti che, soltanto retrospettivamente, quando cioè l’avvenimento si sarà compiuto, potrà essere
individuata come “seconda guerra mondiale”.
La storicità Con le espressioni «storia dell’essere», «evento» o anche «verità dell’essere» Heidegger designa
di ogni pensare proprio questa dimensione della storia come un accadere che non ha nessun autore o causa,
e agire umano
dunque nessun ente a cui possa venir ricondotto. In altre parole, dopo la svolta, Heidegger con-
sidera lo svelare come un essere (nel senso verbale della parola) senza ente, uno svela-
mento senza autore. Si comprende meglio, a questo punto, che cosa implichi la svolta antiu-
manistica. Affermando che la differenza ontologica, dunque la svelamento grazie al quale l’ente
in quanto tale si impone come criterio della conoscenza, è un destino della storia dell’essere,
Heidegger colloca sia il pensare sia l’agire umano in una prospettiva integralmente
storica. Non ammette più quindi, come invece faceva prima della svolta, un primato della
prassi sulla teoria. Tanto l’agire quanto il pensare sono modalità di un puro svelare o venire alla
presenza che non è opera né dell’uomo né di nessun altro ente.
L’impossibilità In altri termini, secondo Heidegger, quando pensiamo e agiamo, noi non siamo mai la causa, ossia
di dominare non produciamo il nostro pensare e agire. Possiamo, certo, produrre concetti (idee, dottrine, ideo-
e calcolare
l’evento
logie) o cose (scarpe, automobili, centrali nucleari). Con le moderne tecniche di manipolazione
genetica, siamo persino in grado di produrre esseri umani così come produciamo scarpe, facendo
sì, cioè, che vengano fuori perfettamente conformi a un modello. Tuttavia, secondo Heidegger,
non saremo mai in grado di produrre l’essere, dunque l’accadere, il manifestarsi della produzione
stessa. Anche là dove, come accade nella tecnica contemporanea ❚ v. sotto § 3.3.3 e Lettura 5 ❚, tut-
to viene ricondotto alla capacità umana di «disporre» o «dominare» grazie all’«organizzazione» e
al «calcolo», questa stessa capacità illimitata di disposizione e dominio rimane «indisponibile» e
«indominabile». Ci si chiederà: che fare allora? La conseguenza che Heidegger invita a trarre da
questa radicale storicizzazione di ogni attività umana è, in fondo, molto semplice. Si tratta in
sostanza di «meditare» sull’evento, ossia di tenere desto il ricordo del puro e semplice accadere che
l’uomo non può né dominare né calcolare in anticipo. Una conseguenza che, a chi chiede alla filo-
sofia indicazioni per concrete soluzioni pratiche, appare certo molto deludente. Al proposito, però,
non si dimentichi la circostanza biografica in cui è maturato questo pensiero, ossia la delusione
riguardo a quella «rivoluzione nazionalsocialista» a cui Heidegger era andato incontro con le più
grandi speranze. Fu anzitutto questa delusione a persuadere Heidegger dell’impossibilità di ogni
soluzione tecnica, dunque volontaristica e attivistica, dei problemi del mondo contemporaneo.
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Storie
per approfondire Perché i poeti?
Perché i poeti? (Wozu Dichter?, 1950, ma risalente
sco, e non soltanto i poeti, stava tragicamente vivendo
sulla propria pelle.
al 1946) è il titolo di una conferenza di Heidegger Nella conferenza, Heidegger non dà risposte, non pre-
che riecheggia un verso del poeta da lui più ama- tende cioè di attribuire un senso alla mancanza di senso,
to, il tedesco Friedrich Hölderlin (1770-1840). né considera la poesia uno strumento per superarla. Il
Nell’elegia Pane e vino (Brod und Wein) Hölderlin richiamo ai poeti, però, serve a marcare la differenza tra
si era infatti chiesto: «Perché i poeti in un tempo due atteggiamenti umani: l’atteggiamento dei tecnici, che
di miseria?». Nella conferenza, Heidegger afferma vogliono dominare la mancanza di senso organizzando in
che poeti sono coloro che «scendono nell’abisso» e, modo sempre più esatto e capillare la vita umana, e l’at-
facendo così esperienza della «notte del mondo», si met- teggiamento dei poeti, che invece «scendono nell’abisso»
tono sulle tracce degli «dèi fuggiti». Per comprendere della «notte del mondo» sulle «tracce degli dèi fuggiti». I
simili affermazioni, così suggestive ma anche così provo- primi, per Heidegger, non sono capaci di «sopportare» la
catoriamente lontane dal linguaggio consueto della filo- mancanza di senso, cercano di dimenticarla dando sfogo
sofia, occorre anzitutto prestare attenzione all’anno in cui alla propria «volontà di potenza» e finiscono così con
Heidegger tenne la conferenza: 1946. Siamo dunque nel- l’accrescere l’insensatezza. Per Heidegger, infatti, la guerra
l’immediato dopoguerra, nella Germania bombardata e non è altro che lo scatenamento di questa volontà di
ridotta a un cumulo di macerie e occupata dalle potenze dominio tecnico. I poeti, invece, sono in grado di soppor-
alleate. Parole come «abisso», «notte del mondo», «fuga tare la «miseria» del proprio tempo. Heidegger assegna
degli dèi» danno immediata espressione lirica alla miseria, perciò alla poesia e, più in generale, all’arte il compito di
al dolore, alla lacerazione del momento presente. Espri- «preparare» gli uomini a un possibile mutamento del
mono cioè l’esperienza concreta di quello che Nietzsche loro destino storico. Per Heidegger è infatti evidente che
aveva chiamato «nichilismo europeo». «Perché i poeti?» nessuna tecnica umana potrà mai rischiarare la «notte
è quindi una domanda volutamente paradossale, giacché del mondo». Il nichilismo non può cioè essere superato
chiede il senso o lo scopo di una esperienza il cui “ogget- tecnicamente, perché la tecnica è l’espressione suprema
to” è proprio il «nulla», la mancanza di senso, l’assenza di del nichilismo. Il paesaggio che fa da sfondo alla conferen-
direzione o scopo. Wozu? significa infatti, letteralmente,“a za, le macerie dell’«anno zero» della Germania sono per
che scopo?”,“verso dove?”. In un luogo e in un momento Heidegger la più eloquente testimonianza del carattere
che verranno di lì a poco icasticamente ritratti dal titolo inesorabilmente distruttivo della tecnica. Senonché, pro-
di un film del regista italiano Roberto Rosselini (1906- prio l’esperienza non tecnica della «notte del mondo», di
1977), Germania anno zero (1948), Heidegger poneva cui i poeti si fanno portavoce, può essere l’occasione per
dunque la domanda sul senso dell’insensatezza. Si chiede- un «nuovo inizio» della storia umana. I poeti sono dun-
va cioè quale fosse lo scopo e la direzione di una espe- que per Heidegger una sorta di “profeti” che annunciano
rienza di mancanza di scopo e di direzione che ogni tede- agli uomini la possibile via d’uscita dal nichilismo tecnico.
ticolarmente evidente: il parlare. Il parlare è infatti evidentemente uno svelare. Quando dicia-
mo qualcosa, ad esempio, “fuori piove”, rendiamo manifesta la pioggia che sta cadendo.
Il senso non Ma c’è di più: l’uomo è l’unico tra tutti gli enti animati e inanimati a essere dotato del
soggettivistico linguaggio. Che il linguaggio sia una caratteristica specificamente umana è noto da lungo tem-
del possesso
umano
po, come attesta l’antica definizione greca dell’essenza dell’uomo come «animale dotato di
del linguaggio discorso» (zoòn logon echon). Sennonché Heidegger, nel richiamare l’attenzione su questa defini-
zione, precisa che non va intesa nel senso che l’uomo sia l’autore del parlare. Non va inteso cioè
in senso soggettivistico. Il parlare, in quanto svelare, è piuttosto il modo d’essere nel quale l’uo-
mo diviene manifesto. Quando diciamo “fuori piove”, infatti, non manifestiamo soltanto l’even-
to atmosferico che sta avendo luogo, ma rendiamo inevitabilmente manifesti anche noi stessi. O
meglio, rendiamo manifesti noi stessi a qualcun altro che in questo momento ci sta ascoltando.
Se non c’è nessuno che ci sente, le nostre parole – come si dice – “cadono nel vuoto”, ossia non
ha luogo alcuna manifestazione, né quella della pioggia, né quella che ci riguarda.
La possibilità Muovendo da queste elementari osservazioni fenomenologiche riguardo al parlare o «dire»,
offerta all’uomo Heidegger giunge all’affermazione paradossale secondo cui ciò che parla, ossia il «parlan-
di rispondere
all’appello
te», non è propriamente l’uomo, ma il linguaggio stesso. Si faccia attenzione: Heidegger
del linguaggio non dice che il linguaggio sia un’entità trascendente che parla per bocca dell’uomo, bensì, pro-
prio al contrario, che il parlare, così come ogni altro accadere dello svelamento, non è causato
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all’evento dell’essere che «si dona» nella parola. La concezione del pensiero come ascolto e rin-
ro filosofico debba assumere l’atteggiamento di chi accoglie un dono, ossia «rendere grazie»
graziamento può essere considerata come un modo diverso di mettere in atto l’atteggiamento
l’evento dell’essere si è reso manifesto. A tale scopo Heidegger ricorre sovente alle etimologie,
vale a dire, allo studio dell’origine delle parole. Si tratta, a dire il vero, di etimologie che la lin-
guistica contemporanea considera in molti casi prive di fondamento scientifico, frutto di sempli-
ci giochi di parole. Un esempio di questo controverso metodo etimologico è l’affinità rilevata da
Heidegger tra le espressioni che nella lingua tedesca designano le attività del denken, “pensa-
re”, e del danken, “ringraziare”. In base a questa consonanza, Heidegger ritiene che il pensie-
Storie
per approfondire
La domanda «che cos’è una cosa?» rapporto con quello a cui serve. Un paio di scarpe, ad
e le scarpe di Van Gogh esempio, rinvia necessariamente ai piedi, in funzione dei
Heidegger pone, in diverse occasioni, una strana quali le scarpe sono state prodotte. Un paio di scarpe
domanda: «Che cos’è una cosa?». Una domanda non è dunque una cosa isolata, ma rende implicitamente
strana e singolare perché, a ben vedere, la com- presente una quantità di altre cose (i piedi, le gambe, l’uo-
prendiamo soltanto se già possediamo una rispo- mo che le calza, il suo camminare, la materia di cui le scar-
sta. La domanda chiede infatti che cosa una cosa pe sono fatte ecc). Per rendere espliciti questi riferimen-
è. Presuppone dunque implicitamente proprio ti occorre interpretarli, seguire cioè i rinvii contenuti in
quella nozione di “cosa” che pone invece esplicitamente quello che abbiamo dinanzi. Nell’interpretare il quadro di
in questione. Si tratta quindi di una domanda che gira in Van Gogh, Heidegger non fa altro che esplicitare, dunque
circolo. Un circolo che sembra il frutto di un inutile gioco seguire, i possibili rinvii contenuti nell’immagine delle
speculativo, ma che, invece, secondo Heidegger è presen- scarpe. Ecco allora che, secondo Heidegger, «dall’interno
te in modo latente in ogni nostra esperienza, anche la più logoro» delle scarpe «si palesa la fatica del cammino per-
comune. Qualsiasi cosa, cioè, guardiamo, sentiamo, odo- corso lavorando», sul «cuoio» vediamo depositato
riamo, amiamo, odiamo, dimentichiamo ecc. è sempre, ad l’«umidore» e il «turgore del terreno», «sotto le suole»
un tempo, nota e ignota, familiare ed estranea, saputa e avvertiamo «la solitudine del sentiero campestre nella
non saputa, presente e assente. Nel saggio L’origine dell’o- sera che cala» ecc.Tutto ciò, naturalmente, non è conte-
pera d’arte (1950), Heidegger mostra che questa caratte- nuto nel quadro nello stesso modo in cui vi sono conte-
ristica paradossale di ogni esperienza umana giunge ad nuti i colori, le pennellate, la tela e tutto quanto lo costi-
espressione soprattutto nelle opere d’arte. Più precisa- tuisce materialmente.Tuttavia, questi e altri rinvii che cia-
mente, Heidegger afferma che l’opera d’arte «pone in scuno di noi può vedere mettendosi dinanzi all’immagine
opera la verità». Cerchiamo di capire meglio. Il saggio sul- di Van Gogh fanno indubbiamente parte del quadro. Ne
l’arte comincia proprio con la domanda: «Che cos’è una fanno parte come una sorta di alone in cui è contenuto
cosa?». Diversamente, però, da quanto accade in altri suoi l’assente, l’ignoto, l’estraneo, l’implicito a cui il presente, il
testi in cui il problema viene sollevato, Heidegger si serve noto, il familiare, l’esplicito rinvia. Non è difficile, a questo
qui di un esempio tratto dalle arti figurative: un quadro punto, capire perché Heidegger dica che l’arte è la «mes-
del pittore olandese Vincent Van Gogh (1853-1890) raffi- sa in opera della verità». Sappiamo, infatti, che la verità è
gurante un paio di scarpe visibilmente deformate dall’u- per Heidegger la «svelatezza», ossia il nesso tra presenza
so. Heidegger immagina che siano scarpe da lavoro di una e assenza (v. box A-letheia). Il quadro di Van Gogh mette
contadina, e se ne serve per chiarire che cosa sia un mez- in opera le verità nel senso che espone il nesso della pre-
zo o strumento, ossia una cosa che serve a qualcos’altro. senza con l’assenza, dell’esplicito con l’implicito, del fami-
La caratteristica di ogni strumento, infatti, è di essere in liare con l’estraneo.
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Storie
per approfondire Che cos’è l’iki? Il colloquio
di Heidegger con un giapponese
una seduzione artistica, strettamente legata, però, alla sfera
dell’erotismo e della sessualità, dunque del corpo e della
Tra gli scritti heideggeriani raccolti in In cammino sensibilità. Si comprende dunque perché la traduzione
verso il linguaggio (1959) ce ne è uno che si intitola occidentale, ossia “metafisica” della parola porti completa-
Da un colloquio dal linguaggio (Aus einem Gespräch mente fuori strada.
von der Sprache). È un dialogo tra due personaggi, Ci potremmo però chiedere perché mai l’«interrogante»
l’uno chiamato «l’interrogante», l’altro «il giappo- insista sulla difficoltà a intendere quello che la parola pro-
nese». Si tratta del resoconto di un colloquio real- priamente significa. Non è sufficiente osservare che l’iki è
mente avvenuto tra Heidegger e un suo ospite venuto dal legato all’erotismo, al corpo, non ha cioè nulla di metafisico,
Giappone, attento studioso del pensiero heideggeriano e ideale o sovrasensibile? Cosa c’è qui, ancora, da interroga-
della letteratura tedesca. Inoltre, particolare importante in re, da mettere in questione? In realtà, il senso del dialogo
questo contesto, l’ospite straniero aveva tradotto in giap- sta proprio in questo insistere sull’interrogazione (per que-
ponese alcune opere di Heidegger. L’incontro tra i due sto Heidegger chiama se stesso l’«interrogante»). Heideg-
prirsi della differenza ontologica, ossia l’imporsi dell’ente in quanto tale. L’espressione
“Occidente” diventa cioè sinonimo di “metafisica”. Occorre qui fare attenzione al capo-
diventa così l’occasione per una riflessione sul linguaggio e, ger intende cioè richiamare l’attenzione sul fatto che le
in particolare, sulla possibilità di tradurre da lingua a un’al- distinzioni metafisiche, in particolare la distinzione paradig-
tra. La discussione si concentra, tra l’altro, su una parola matica della metafisica occidentale, quella tra sensibile e
gg
giapponese, iki, espressione che potremmo considerare sovrasensibile, è, per così dire, “incorporata” nella lingua
approssimativamente equivalente a “seduzione della bel- stessa che parliamo. Ne deriva che anche quando provia-
lezza”. L’«interrogante», dunque Heidegger stesso, esprime mo a correggerne le parole, precisando ad esempio che iki
la propria difficoltà a comprendere quello che iki veramen- designa una forma di seduzione soltanto corporea, siamo
più tipico della filosofia: la riflessione su di sé. Non si tratta però evidentemente né di una rifles-
p
sione psicologica, né della riflessione trascendentale che, secondo la filosofia moderna da Carte-
sio a Husserl, consente di accedere alla soggettività umana come a una fonte di certezza incon-
trovertibile, al riparo del divenire storico. L’uomo al quale le interpretazioni offerte da Heideg-
ger danno accesso è soltanto una figura storicamente determinata, più in particolare, è la figura
g
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Il Avevamo osservato che, già prima della svolta, Heidegger intendeva con “metafisica” la diffe-
capovolgimento renza ontologica, ossia l’imporsi dell’ente come criterio del conoscere e dell’agire liberamente
del significato
della metafisica
voluto dall’uomo. Dopo la svolta, questo significato del termine “metafisica” in parte si mantie-
dopo la svolta ne, ma assume però una connotazione nettamente negativa. La metafisica diventa espressione,
non già della libertà, ma di una «necessità» o «costrizione» (Not) che vincola dispoticamente
tanto la conoscenza quanto la prassi. Il mutamento del giudizio di Heidegger riguardo alla
metafisica è diretta conseguenza della nuova soluzione da lui data dopo la svolta al problema
della differenza ontologica. Come avevamo visto, la differenza ontologica, o svelatezza dell’ente
in quanto tale, è il manifestarsi o svelarsi dell’ente come differente dall’essere. In altre parole,
l’ente è svelato in quanto tale quando si presenta come indipendente dall’atto di svelamento che
lo fa essere presente (v. sopra § 3.2).
La necessità Sennonché, in base alla dottrina volontaristica che precede la svolta, lo svelarsi dell’ente come
di portare indipendente e altro dall’essere accade grazie all’uomo e, in particolare, alla sua capacità di “crea-
a compimento
la metafisica
re liberamente”, per così dire, lo svelamento. Con ciò Heidegger intendeva proseguire quella che
prima della gli sembrava essere la linea di pensiero predominante e più feconda dell’intera tradizione filosofica
svolta occidentale da Platone fino a Husserl: la concezione metafisica dell’uomo come origine del-
la verità. Di più: Heidegger assegnava a se stesso il compito di «portare a compimento» questo
umanismo metafisico. A suo giudizio, infatti, la metafisica tradizionale richiedeva di essere perfe-
zionata. In particolare, Heidegger riteneva che la metafisica si fosse fino a quel momento limitata a
svelare l’ente in quanto tale in modo soltanto parziale, come ad esempio era accaduto a Kant, che
non era andato in sostanza oltre lo svelamento della natura, ossia della «regione» degli oggetti del-
la conoscenza fisico-matematica. La metafisica – come Heidegger diceva prima della svolta in
Kant e il problema della metafisica – andava dunque «ripetuta», ossia portata a compimento realiz-
zando integralmente il suo progetto di svelamento dell’ente in quanto tale.
L’oltrepassa- Heidegger prima della svolta vedeva dunque la metafisica come una possibilità che la filosofia
mento della doveva finalmente mettere in pratica realizzandone le potenzialità ancora inespresse. Con la
metafisica
svolta, la posizione di Heidegger riguardo al «compito del pensiero» e, più in generale, riguardo
alla possibilità stessa di una traduzione pratica della filosofia muta radicalmente. Non si tratta più
ora di portare a compimento quello che la metafisica aveva lasciato incompiuto ma, semmai, di
«oltrepassare la metafisica», ossia di criticare e abbandonare il suo progetto di svelare l’ente
in quanto tale. Ma che cosa significa, in concreto, oltrepassare o «superare» la metafisica? Hei-
degger invita a lasciarsi alle spalle quello che considera l’atteggiamento più caratteristico dell’u-
manità occidentale. È, in sostanza, l’atteggiamento che rende il pensiero una funzione
della prassi, che ne fa cioè uno strumento per modificare, guidare, trasformare, dominare la
realtà in vista di scopi posti dall’uomo. La metafisica va oltrepassata perché fornisce il principio
che giustifica teoricamente questa subordinazione del pensiero alla prassi. Principio che coincide
con la soluzione umanistica che Heidegger stesso aveva dato al problema della differenza ontolo-
gica prima della svolta. Affermando, infatti, che lo svelamento grazie al quale l’ente si presenta
come indipendente dallo svelamento stesso è opera dell’uomo, Heidegger aveva vincolato la sve-
latezza, dunque la verità, il pensiero, la teoria alle esigenze pratiche dell’uomo.
Metafisica Con la svolta Heidegger diventa dunque consapevole che l’apertura umana della differenza
e tecnica ontologica, ossia la metafisica, l’umanismo, il soggettivismo e tutto quanto è per lui sinonimo di
“Occidente”, ha un carattere essenzialmente tecnico. Proviamo a chiarire con un esempio.
Se intendiamo abbreviare la distanza tra due città costruendo un’autostrada, dobbiamo anzitut-
to procurarci la rappresentazione esatta di tale distanza, poi dei mezzi che occorrono per aprire
la via, dei materiali necessari per costruirne le strutture ecc. Ciascuna delle rappresentazioni che
precedono e rendono possibile la costruzione dell’autostrada è uno svelamento nel quale le cose
si presentano in modo oggettivo, indipendentemente cioè dai modi soggettivi in cui ne facciamo
quotidianamente esperienza. Si tratta dunque di rappresentazioni che presuppongono l’apertu-
ra della differenza ontologica. La distanza oggettiva tra le due città, ad esempio, è del tutto indi-
pendente dal senso della distanza che avvertiamo quando viaggiamo dall’una all’altra. In viag-
gio, infatti, la distanza rimane legata alla nostra soggettiva esperienza, allo stato d’animo, ad
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27 Heidegger
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manifestano appare come il risultato del volere umano. Ciò significa che tanto la metafisica quan-
to la tecnica sono per Heidegger espressioni del «nichilismo». Concepire l’essere come ciò che è
posto dalla volontà umana equivale infatti per Heidegger a negargli ogni significato autonomo,
renderlo dunque pari a nulla (l’espressione “nichilismo” viene dal latino nihil, “nulla”).
Il carattere Chiariamo questa concezione con un esempio concreto. Pensiamo al modo in cui un albero da
nichilistico frutta si presenta allo sguardo di un ingegnere biochimico. Che cosa vede un ingegnere biochi-
della riduzione
tecnica
mico quando analizza, ad esempio, un arancio? Vede le diverse funzioni chimiche che presiedo-
della cosa no al nascere del frutto, l’arancia che possiamo cogliere e mangiare. Il suo sguardo non si limita
a funzione però a rilevare processi naturali. Nel comprendere le funzioni chimiche, l’ingegnere vede anzi-
tutto le possibilità di modificarle e combinarle in modo da creare qualcosa che l’albero da solo
non può creare. Ad esempio, modificandone opportunamente il patrimonio genetico, il biochi-
mico può far sì che l’albero produca arance di dimensioni, colore e peso omogenei, più adatte
alla vendita. Il biochimico vede dunque l’arancio anzitutto come qualcosa che può essere mani-
polato, ossia adattato in modo potenzialmente infinito a funzioni che possono anche non avere
alcun rapporto con l’arancio. È il caso delle più recenti tecniche di produzione dei cosiddetti “or-
ganismi geneticamente modificati” (OGM), grazie alle quali, ad esempio, cellule di origine ani-
male possono essere utilizzate per modificare le caratteristiche proprie di una specie vegetale.
La violazione Sono esempi, questi, tratti dall’attualità più recente che si adattano bene a chiarire quello che
tecnica Heidegger intende per nichilismo. Il modo di considerare l’arancio da parte del biochimico è
dei vincoli
naturali
infatti caratterizzato dal fatto che, per lui, la cosa non ha alcuna essenza propria. Il biochi-
mico non suppone cioè che vi sia un principio che renda l’arancio un arancio, che lo distingua
cioè, ad esempio, da un pero o da una mucca o da un uomo. Nell’ottica dello svelamento tecni-
co, distinzioni ontologiche elementari, ovvie per il senso comune, come quella tra piante, ani-
mali e uomini, diventano irrilevanti. Ciò che è tecnicamente rilevante è infatti soltanto la di-
sponibilità delle cose ad essere funzioni in vista di scopi che non hanno alcun lega-
me con le cose stesse. Si pensi, in proposito, alla differenza tra l’antica pratica di incrociare
varietà diverse di piante mediante il cosiddetto “innesto” e le manipolazioni genetiche consen-
tite dalla moderna bioingegneria. L’agricoltore che innesta un mandarino su un arancio inter-
viene nel processo di maturazione del frutto modificandone la finalità (il mandarancio anziché
l’arancia). Si tratta però soltanto della deviazione di un corso naturale compiuta in vista di uno
scopo anch’esso naturale. Una deviazione, dunque, che rimane intimamente vincolata alla na-
tura. Le tecniche di bioingegneria, ad esempio la clonazione, ossia la produzione di individui
aventi identico corredo genetico, mira invece proprio a oltrepassare il principale vincolo impo-
sto dalla natura, la cosiddetta “biodiversità” o varietà genetica tra gli individui.
Il nichilismo Heidegger ritiene che la metafisica e il suo compimento tecnico, dunque il definitivo imporsi del-
come oblio l’ente abbia fatto sì che l’essere venisse completamente «dimenticato» (o «obliato»). All’«oblio
dell’essere
dell’essere» Heidegger riconduce aspetti della modernità che considera in modo fortemente criti-
co, come ad esempio la «fuga degli dei», ossia il definitivo tramonto della forza di coesione eserci-
tata dalle religioni, «la distruzione della terra», la «massificazione dell’uomo», il «prevalere della
mediocrità». La modernità è insomma considerata da Heidegger come un’epoca di profonda
decadenza. Si tratta di una diagnosi critica che avvicina Heidegger alla tradizione culturale con-
servatrice e antimoderna nata dalla reazione alla Rivoluzione francese ❚ v. vol. III, nome capitolo, §
0, pp. 000-000 ❚. Occorre notare, però, che il concetto heideggeriano di oblio dell’essere o nichili-
smo non allude a una “restaurazione” o ritorno a un passato idealizzato. Oblio dell’essere signifi-
ca, molto semplicemente, l’oblio dell’accadere, dell’evento nel quale ogni ente viene alla presen-
za. La meditazione storica, l’interpretazione dei testi filosofici e poetici, dunque il confronto con
la tradizione serve a oltrepassare la metafisica e il nichilismo, ossia a destare l’umanità contempo-
ranea dal suo secolare oblio dell’essere. Ciò significa che per Heidegger la meditazione storica,
benché critica verso ogni volontarismo, può avere un effetto liberante, dunque un rilievo pratico.
Il ricordo dell’essere, del venire alla presenza, dell’accadere senza soggetto della storia, può pre-
parare l’Occidente a liberarsi un giorno dalla costrizione a pensare e agire in modo tecnico.
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4 Attualità di Heidegger
La prima Il pensiero di Heidegger ha avuto grande influenza, non soltanto sulla filosofia ma anche su ampi
ricezione settori della cultura del Novecento. Tradotte in tutto il mondo, le sue opere hanno suscitato e susci-
dell’opera
di Heidegger
tano ancora oggi reazioni diverse, talvolta aspramente contrapposte. La storia della sua ricezione
va suddivisa in due fasi nettamente distinte. La prima, precedente alla seconda guerra mondiale, è
caratterizzata dalla prevalenza di un’interpretazione sostanzialmente positiva, quella basata sulla
lettura esistenzialista di Essere e tempo a cui abbiamo già fatto cenno ❚ v. § 3.1 ✉. Fa eccezione la
stroncatura da parte di un esponente del positivismo logico ❚ v. vol. III, nome capitolo, pp. 000-000 ❚,
Rudolf Carnap (1891-1970), che nel 1932 sottopose ad analisi logica alcune frasi di Heidegger e
ne concluse che si trattava di proposizioni insensate. Occorre però osservare che, agli occhi di Car-
nap, Heidegger rappresentava soltanto un esempio particolarmente vistoso di un uso incontrollato
del linguaggio quale poteva essere rimproverato a quasi tutte le filosofie del passato. Si trattava, in
altre parole, di una critica alla metafisica in generale allo scopo di smascherarne il carattere non
conoscitivo e escluderla così dal novero delle discipline scientifiche in senso stretto.
Le accuse di Ben più roventi sono invece le controversie suscitate da Heidegger dopo la seconda guerra mon-
irrazionalismo diale. Polemiche la cui asprezza di toni si spiega con la circostanza biografica che abbiamo più
nel dopoguerra
volte richiamata, ossia con il breve ma fatale coinvolgimento di Heidegger con il regime nazista.
Molti interpreti, soprattutto in Germania e in Francia, hanno ritenuto che le scelte politiche di
Heidegger fossero diretta conseguenza di un atteggiamento ostile ai principi della razionalità
che, ancora implicito in Essere e tempo, si palesa senza alcuna reticenza nelle opere successive
alla svolta. Letto in questa chiave interpretativa, il «pensiero dell’essere» del secondo Heidegger
è stato accostato al misticismo, ossia a un atteggiamento essenzialmente affine alla fede religiosa.
Heidegger stesso ha fornito non pochi appigli a questa interpretazione del suo pensiero. Alcune
sue affermazioni dal tono spiccatamente oracolare sono diventate emblematiche: «sorge la
scienza, sparisce il pensiero», oppure: «soltanto un dio ci può salvare». Se a queste affermazioni
si aggiunge l’enigmaticità che, come abbiamo visto, caratterizza lo stile degli scritti successivi
alla svolta, si comprende bene come mai il filosofo tedesco di origine ebraica Karl Löwith
(1897-1973), che era stato allievo di Heidegger e fu poi costretto all’esilio a causa delle leggi
naziste contro gli ebrei, abbia potuto definire il suo maestro il «mistagogo dell’essere». Löwith
vede cioè in Heidegger una sorta di sacerdote di un culto religioso primitivo che, esercitando le
arti della persuasione irrazionale, ha saputo raccogliere attorno a sé adepti fanaticamente con-
vinti di possedere la verità. Non molto diversa è la critica del maggior esponente della «Scuola
di Francoforte», Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) ❚ v. Critica della razionalità tecni-
ca, pp. 000-000 ❚, che definisce il linguaggio di Heidegger un «gergo dell’autenticità». Secondo
Adorno, Heidegger è sostanzialmente un reazionario, qualcuno, cioè, che intende “reagire” allo
sconquasso civile determinato dalla razionalizzazione capitalistica. Il suo enfatico richiamo alla
vita autentica è dunque un tentativo, secondo Adorno necessariamente votato al fallimento, di
preservare l’uomo dalle forme di dominio create dell’organizzazione sociale capitalistica, forme
di dominio che Heidegger presenta falsamente quali modi di vita inautentici. A questo scopo
Heidegger ha creato un «gergo», ossia una lingua speciale che sollecita nell’ascoltatore, non già
la riflessione critica, ma l’adesione cieca e irrazionale, e contribuisce così a suscitare una fede
settaria, essenzialmente affine al fanatismo ideologico dei nazionalsocialisti.
L’ateismo In tempi più recenti, l’interpretazione in chiave irrazionalistica ha incontrato meno sostenitori.
di principio La pubblicazione di corsi universitari e scritti inediti, consentendo di comprendere meglio la
della filosofia
formazione culturale di Heidegger, ha contribuito a una valutazione più obiettiva del significato
della sua opera. Significato che è anzitutto filosofico e non religioso. Benché infatti abbia
costantemente sottolineato l’importanza del «sacro» nella vita umana, su un punto Heidegger è
stato sempre chiaro: l’essere non è Dio. Non infrequenti sono inoltre le sue dichiarazioni a
proposito del carattere essenzialmente ateo del pensiero filosofico. L’affermazione già
citata, sovente addotta a testimonianza della sua ispirazione religiosa, secondo cui «soltanto un
29 Heidegger
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dio ci può salvare», si limita in realtà a esprimere la convinzione, condivisa da tanti filosofi razio-
nalisti di ogni epoca, che senza base religiosa non è possibile alcuna vita umana associata.
Anche l’ostilità nei confronti della razionalità scientifica espressa nel motto «sorge la scienza,
sparisce il pensiero», non è affatto nuova nella storia della filosofia e, soprattutto, non è necessa-
riamente un’espressione di irrazionalismo. Si pensi ad esempio a Hegel, il più vigoroso sosteni-
tore del carattere intimamente razionale della realtà. Anche per lui, le scienze sono basate sul
principio dell’astrazione intellettuale che conosce la realtà dividendola e mantenendola separa-
ta e, di conseguenza, non è in grado di afferrarne la vera natura. È opportuno, al proposito,
richiamare il giudizio particolarmente equilibrato dato dalla filosofa tedesca di origine ebraica
Hannah Arendt (1906-1975), che fu allieva di Heidegger ed ebbe con lui anche una relazione
sentimentale intensa e dolorosa. In un breve testo, scritto in occasione dell’ottantesimo com-
pleanno del maestro, Heidegger ha ottant’anni (Martin Heidegger ist achtzig Jahre alt, 1969),
Arendt stigmatizza coloro che pretendono di stabilire affinità tra il pensiero di Heidegger (o, a
seconda dei casi, quello di Platone, Lutero, Hegel, Nietzsche ecc.) e il totalitarismo nazista.
Arendt sostiene invece che Heidegger, come pochi altri nel Novecento, ha testimoniato l’estra-
neità del modo di vita del filosofo, incentrato sull’esperienza solitaria del pensare, rispetto alla
vita politica, basata invece sulla condivisione di un mondo comune.
Il domandare L’attualità, se non addirittura l’esemplarità dell’opera di Heidegger sta anzitutto nella capacità
critico di porre in atto un’interrogazione filosofica radicale, facendo così comprendere che la filosofia
come pietas
del pensiero
consiste essenzialmente in un domandare critico che sappia però porsi all’altezza del-
l’oggetto interrogato. Emblematica è, a questo proposito, la frase con cui si chiude il saggio
sulla Questione della tecnica (Die Frage nach der Technik, 1954; ❚ Lettura 5 ❚): «il domandare è la
pietà del pensiero». Frase assai suggestiva nella quale si trovano associati due atteggiamenti
antitetici: il domandare, dunque l’atteggiamento critico del filosofo che non riconosce altra
autorità che non sia quella della verità; e la pietas, parola che nella religione romana designava
la fedeltà e il rispetto nei riguardi della propria appartenenza (famigliare, politica, religiosa, cul-
turale). Ricordando che l’identità culturale dell’Occidente è il risultato dell’incontro tra questi
due atteggiamenti, Heidegger ha additato il pericolo che deriva dalla tentazione di dissociarli.
Ha cioè mostrato come la critica razionale non possa essere esercitata senza memoria storica,
né è possibile richiamarsi a radici storiche senza alimentare la capacità critica. Il pericolo di una
tale dissociazione è insito, a suo avviso, nella tecnica, il tema più attuale della sua opera. Un
tema che Heidegger affronta escludendo anzitutto che se ne possa dare un giudizio semplifican-
te: esecrandola come fonte di tutti i mali contemporanei o, all’opposto, celebrandola come uni-
co strumento in grado di curarli. Heidegger si limita a mostrare la paradossale ambivalenza del-
la tecnica moderna, figlia tanto del domandare che dissolve ogni tradizione quanto di una spe-
cifica tradizione, quella, come abbiamo visto, formatasi in Occidente grazie alla metafisica.
Benché, quindi, non formuli programmi né offra soluzioni, l’opera di Heidegger è in grado di
suscitare in chi voglia leggerla senza pregiudizi la vigilanza critica necessaria a individuare e
capire i problemi del mondo contemporaneo.
Letture consigliate
Il Novecento 30
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31 Heidegger Sintesi
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suoi limiti, che consistono nell’effetto esclusivo e condi- cogliere le cose in se stesse viene dunque spiegata da Hei-
zionante di ogni scelta tra le possibilità. Il pensiero della degger come differenza ontologica tra essere ed ente.
morte conduce alla presa di coscienza più forte della
libertà perché la morte è intesa da Heidegger come la La differenza ontologica nel primo e nel secon-
possibilità più estrema, che prevedendo l’impossibilità do Heidegger Il desiderio di riferirsi alla realtà effetti-
dell’esistenza rompe nel modo più netto la familiarità con va delle cose fa emergere il primato dell’ente nella sua dif-
il mondo. ferenza ontologica dal modo in cui appare nella cono-
scenza, ma non chiarisce l’origine della differenza. In
Essere e tempo e negli scritti dei primi anni trenta Heideg-
IL SECONDO HEIDEGGER: ger attribuisce all’uomo la facoltà di «attuare» la
L’ABBANDONO DELL’UMANISMO differenza ontologica. Ciò significa che lo svelamento
preliminare dell’ente, che suscita l’impressione di riferirsi
La svolta e il suo significato Il forte influsso eserci-
alle cose in se stesse, è in realtà risultato dell’iniziativa
tato da Essere e tempo sulla cultura del tempo aveva contri-
umana. Rifacendosi al trascendentalismo kantiano e al
buito a mettere in rilievo l’ orientamento esistenzialista e
volontarismo medievale, Heidegger fa dipendere la diffe-
antropologico dell’opera, cioè la sua attenzione ai feno-
renza ontologica dalla capacità umana di comprendere e
meni e ai problemi dell’esistenza concreta dell’uomo.
progettare l’esistente. L’ente si svela nella sua differenza
Tuttavia dopo la seconda guerra mondiale Heidegger
dal conoscere perché un atto della volontà e della com-
smentisce questa interpretazione, sottolineando che l’in-
prensione umana lo rivela in questa dimensione. Dalla
dagine sull’uomo condotta nel suo libro doveva essere
seconda metà degli anni trenta, dopo la sua infausta espe-
solo la preparazione per una fase più importante, dedica-
rienza politica, Heidegger adotta tuttavia una posizione
ta al problema dell’essere. Nella Lettera sull’«umanisimo»,
di segno opposto. La differenza ontologica è concepita in
infatti, Heidegger ritiene necessaria una «svolta» che
chiave antivolontaristica, come «accadimento» o
abbandoni l’impostazione antropologica adottata nell’a-
«evento storico» che non può essere ricondotto né
nalitica esistenziale. All’origine di questo mutamento c’è
all’uomo, né a nessun altra causa singola.
il ripensamento avviato da Heidegger in seguito alla sua
adesione al nazismo. Illuso circa le possibilità di rinnova- La storia come storia dell’essere Dopo la svolta
mento presentate dal regime, nel 1933 aveva accettato la Heidegger concepisce la storia non più come il frutto del-
carica di rettore a Friburgo e aveva sostenuto con entusia- l’agire umano, ma come «storia dell’essere». Con tale
smo le iniziative del nazismo, per poi dimettersi dopo espressione Heidegger non intende alludere ad un essere
meno di un anno. Il fallimento di questo infelice coinvol- superiore che dirige gli avvenimenti, ma al contrario vuo-
gimento politico spinse Heidegger a ripensare il modo in le sottolineare che la storia riguarda l’essere, cioè il sem-
cui il rapporto tra la verità e l’agire umano era defi- plice manifestarsi di ciò che è. La storia è il puro accade-
nito in Essere e tempo. re, il venire alla presenza degli enti senza un principio
identificabile che ne governi l’apparire. Questo manife-
La differenza ontologica tra essere ed ente Sin
starsi degli enti è uno svelamento senza autore né
da Essere e tempo Heidegger criticava l’idea della verità causa, perché possiede un carattere unico e imprevedibi-
come «adeguamento», secondo la quale la conoscenza
le che non si lascia derivare da nessun ente o stato di cose.
è vera se si adegua alla realtà conosciuta. Il problema di Quando sostiene che la differenza ontologica è un evento
questa concezione è che riduce la distinzione tra atto della storia dell’essere, Heidegger intende dire che lo sve-
conoscitivo e oggetto conosciuto a una semplice differen- lamento dell’ente come criterio di verità della conoscenza
za cognitiva, mentre per Heidegger si tratta di una diffe- è un fenomeno più grande dell’uomo, che esula dal suo
renza ontologica tra essere ed ente. La conoscenza è controllo. Lo stesso manifestarsi degli enti nel pensare e
infatti un modo d’essere dell’ente, cioè un modo in cui nell’agire non è prodotto dall’uomo, e in questo senso
l’oggetto si svela all’uomo. Nel conoscere si avverte però l’uomo non è autore del pensare e dell’agire, perché in
la necessità di cogliere le cose in maniera oggettiva, per queste attività c’è un essere, vale a dire uno svelarsi, un
come sono indipendentemente dal modo in cui l’uomo se accadere, che nella sua imprevedibilità non può essere
le rappresenta. Questa realtà effettiva degli oggetti, defi- dominato dall’uomo.
nita da Heidegger «svelatezza dell’ente in quanto
tale», è preliminare e prioritaria rispetto alla svelamento Meditazione storica e linguaggio Heidegger esor-
che ha luogo nel conoscere, perché è il criterio di raffron- ta alla «meditazione storica» come fedeltà al puro
to per definire la verità della conoscenza. Il conoscere accadere che è sottratto al potere umano di calcolo e di
corrisponde all’essere dell’oggetto, che significa il suo previsione. La meditazione viene rivolta in particolare ai
modo di apparire all’uomo, mentre la realtà oggettiva che testi della “tradizione occidentale”. Secondo Heidegger
serve da termine di confronto per la verità corrisponde nelle parole dei pensatori e dei poeti del passato si è con-
all’ente in se stesso. L’aspirazione della conoscenza a servato lo svelamento dell’essere. Questo è possibile per-
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ché nel linguaggio l’uomo rivela la sua prerogativa di degger si riallaccia alla concezione metafisica dell’uomo
essere “immerso” nel modo più profondo nell’essere, cioè come origine della verità, emersa nel corso della tradizio-
nello svelamento. Nel parlare, infatti, l’uomo svela conti- ne filosofica, con l’intento di portarla a compimento
nuamente gli enti e se stesso. In realtà l’uomo non è auto- riconducendo l’intero svelamento dell’ente a opera uma-
re del parlare, ma è il linguaggio stesso che parla, na. Dopo la svolta, tuttavia, Heidegger adotta la posizio-
perché il parlare, come ogni altra forma di svelamento, ne opposta, ponendosi l’obiettivo di «oltrepassare la
riguarda l’essere ed è un evento non riducibile a opera metafisica». La metafisica, ossia l’apertura umana della
dell’uomo o di un altro ente. Tuttavia il rilievo che nel differenza tra essere ed ente, assume un senso negativo:
parlare ha l’ascolto consente all’uomo di rispondere diventa sinonimo di un atteggiamento che considera il
agli appelli del linguaggio. La meditazione sulla tradi- mondo soltanto in funzione dell’uomo e che riduce il pen-
zione storica ha proprio il compito di far emergere lo sve- siero a strumento per controllare e trasformare la realtà.
lamento che i pensatori e i poeti hanno espresso dando Con l’imporsi degli enti nella differenza ontologica, cioè
ascolto e risposta all’appello del linguaggio. nella loro realtà oggettiva, che è indipendente dal loro
modo di presentarsi, le cose diventano adatte ad essere
La critica della metafisica e della tecnica La liberamente manipolate dall’uomo, perché vengono pri-
meditazione storica si propone di rintracciare l’origine vate del loro lato inatteso e incalcolabile, legato al loro
della cultura occidentale, la cui caratteristica è secondo manifestarsi. Proprio per questo la metafisica come diffe-
Heidegger l’emergere della differenza ontologica, ovvero renza ontologica trova il suo compimento nella tecnica
l’imporsi dell’ente nella sua indipendenza dall’atto dello moderna, che considera la realtà un oggetto a disposi-
svelamento. Sin da prima della svolta Heidegger designa zione del fare umano. Questo modo di sottoporre tutto
con il termine “metafisica” questo aprirsi della diffe- l’esistente al volere umano conduce al nichilismo, per-
renza ontologica che contraddistingue l’Occidente. Nel ché priva le cose della loro essenza autonoma, e produce
primo Heidegger il principio della metafisica così intesa è «l’oblio dell’essere», cioè la dimenticanza dell’essere
l’umanismo, perché l’affermarsi dell’ente in se stesso come accadimento imprevedibile senza autore, che non
come criterio di verità è derivato dall’attività umana. Hei- può essere assoggettato alla manipolazione umana.
33 Heidegger Laboratorio
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11 Completa lo schema relativo al diverso significato 20 Completa la tabella, relativa agli stati d’animo della
dell’apparire in Husserl e in Heidegger, inserendo in paura e dell’angoscia:
modo appropriato le seguenti espressioni: dalla
coscienza; dall’attività pratica umana. nel pensiero nel pensiero
di Husserl di Heidegger
nel pensiero nel pensiero
di Husserl di Heidegger significato .................................. ..................................
della paura .................................. ..................................
l’APPARIRE .............................. .............................. .................................. ..................................
(= manifestazione .............................. .............................. .................................. ..................................
degli enti) .............................. .............................. .................................. ..................................
dipende
.............................. .............................. .................................. ..................................
.............................. ..............................
.............................. .............................. significato .................................. ..................................
.............................. .............................. dell’angoscia .................................. ..................................
.............................. .............................. .................................. ..................................
.................................. ..................................
.................................. ..................................
Rispondi alle domande: .................................. ..................................
12 Heidegger afferma che ogni pensatore essenziale
pensa un unico pensiero. Il suo unico pensiero è
stato l’essere (Sein). Come viene affrontata in Essere
Rispondi alle domande:
e tempo la domanda essenziale, l’unica e assoluta
questione di tutta una vita: «che cosa significa 21 Qual è la differenza tra l’esistenza autentica e
essere? – che cos’è l’essere?»? l’esistenza inautentica?
13 La riflessione di Heidegger parte dall’uomo: perché 22 Come e perché nascono l’angoscia e la dimensione
tra la molteplicità degli enti l’uomo è un ente dell’esser-ci come cura (Sorge)?
privilegiato? 23 Che cosa significa l’espressione “prendersi cura”? In
14 Che cosa esprimono i concetti di esser-ci e di che modo il “prendersi cura” rappresenta una
essere-nel-mondo ? modalità ontologica dell’esserci?
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Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false 40 Per Heidegger l’essenza della scienza moderna è
e motiva le tue risposte: rappresentata
29 L’uomo può scegliere tra un’esistenza a dalla conoscenza intellettuale
autentica e un’esistenza inautentica. V F b dalla relatività delle conoscenze
perché ............................................................................... c dalla superficialità dei giudizi
............................................................................................ d dalla tecnica
............................................................................................
41 L’essere si può disvelare soltanto attraverso
............................................................................................
a la tecnica
30 La differenza tra autenticità e l’inautenticità b la scienza
è in un diverso contenuto dell’esistenza. V F c il linguaggio
perché ............................................................................... d la metafisica
............................................................................................
............................................................................................ Rispondi alle domande:
............................................................................................ 42 Qual è la differenza tra la praxis e la pòiesis?
31 L’esserci si trova nella necessità di assumere 43 In che senso Aristotele usava questi termini? Quali
su di sé il peso della libertà di agire. V F significato assumono all’interno del pensiero di
perché ............................................................................... Heidegger?
............................................................................................ 44 Che cos’è per Heidegger la tecnica? Quali sono i
............................................................................................ suoi fini?
............................................................................................
45 In cosa consiste il nichilismo per Heidegger?
Rispondi alle domande: 46 Perchè l’opera d’arte è in grado di rivelare il senso
delle cose in modo migliore rispetto alle cose stesse?
32 Qual è la dimensione temporale fondamentale
dell’esistenza autentica? 47 Quali sono le caratteristiche principali della dottrina
heideggeriana del linguaggio?
33 Quali sono gli stati d’animo conseguenti
all’accettazione delle possibilità?
Spiega, alla luce delle tue conoscenze, il seguente
34 Perché soltanto figurandosi la propria morte l’uomo giudizio:
è in grado di scegliere autonomamente le possibilità 48 «Heidegger interpreta in modo personale, ma
dell’esistenza, senza conformarsi acriticamente agli niente affatto arbitrario, lo spirito dell’avanguardia e
schemi del “si” impersonale (il “si dice”, il “si fa”, il “si la sua problematica della difesa della libertà interiore
pensa”) ? contro la pressione dell’organizzazione tecno-
35 Che cosa significano nel pensiero di Heidegger i scientifica del mondo». (G.Vattimo, Tecnica ed
termini “trascendenza” e “differenza ontologica” ? esistenza, Torino, Paravia, 1997, p. 29).
36 In che cosa consiste la svolta antiumanistica di Tratta in modo sintetico i seguenti argomenti:
Heidegger? 49 L’idea che l’uomo sia sempre “apertura” può essere
37 Quali sono stati, secondo Heidegger, gli errori collegata all’oltre-uomo di cui parla Nietzsche? (max
fondamentali della metafisica occidentale ? 10 righe)
38 Quali sono le tematiche principali dell’ultima fase del 50 Nel corso della storia della filosofia quello del
pensiero di Heidegger ? tempo è stato uno dei concetti più problematici.
Evidenzia in un testo espositivo i risultati delle analisi
di Kant, Hegel e Husserl. (max 25 righe)
Scegli il completamento corretto:
39 La svolta (Kehre) cui Heidegger si richiama nella 51 Quali aspetti del pensiero di Hölderlin e di
Lettera sull’umanismo va intesa come Kierkegaard hanno influenzato la tematica
a il cambiamento totale dell’oggetto della esistenzialista heideggeriana? (max 12 righe)
conoscenza 52 Heidegger esalta il “pensiero poetante”, rinnovando
b il mutamento radicale degli strumenti di così l’alleanza tra poesia e filosofia. In che modo il
indagine filosofica pensiero poetante può dare voce a ciò che il
c la crisi che lo porta a non occuparsi più linguaggio della metafisica non riesce più a
dell’essere esprimere? (max 15 righe)
d il mutamento della direzione della via percorsa 53 In che modo nichilismo e umanismo sono collegati?
dall’analitica esistenziale (10 righe)
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determinate dalla tradizione del pensiero al contrario, sottopone alla propria misura il tempo»
occidentale,si rivelano consuetudini che cercano di (Introduzione alla metafisica).
spingerlo costantemente fuori direzione rispetto al Alla luce di quanto hai studiato spiega questa
proprio problema. Infatti il suo problema è posizione, rispondendo alle domande: la filosofia, per
realmente nuovo. Non viene posto all’interno della Heidegger, dipende interamente dalla propria
metafisica occidentale, ma è comunque diretto a epoca? Qual è la sua funzione? Prova a cimentarti
questa metafisica. Non problematizza la questione con questo tema. (max 20 righe).
della metafisica circa l’ente supremo (Dio) e circa
l’essere di ogni ente. Si interroga piuttosto circa ciò 61 Secondo parte della critica con Heidegger la filosofia
che, solo, apre la sfera di questo domandare e forma ha assunto una nuova importanza, diventando
lo spazio in cui si muove il domandare della nuovamente qualcosa che non è più o meno
metafisica. Heidegger dunque si interroga circa indifferente praticare o no, qualcosa che “deve
qualcosa che la tradizione della metafisica essere”, affinché noi possiamo essere uomini. Per
presupponeva come problematico: cosa significa in questo motivo Heidegger avrebbe rivalutato la
generale essere?» (H.G. Gadamer, Heideggers Wege: storia della filosofia, in modo organico e completo,
Studien zum Spaetwerk Tübingen, Mohr, 1983; trad. it. per la prima volta dopo Hegel. Prova a spiegare
di R. Cristin, I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova, queste valutazioni e assumi una posizione riguardo
1987, pp. 22-23). all’idea che l’occuparsi di filosofia sia un requisito
essenziale per essere uomini in un senso più
Rifletti su queste considerazioni, evidenziando i vari autentico (max 20 righe).
lati del rapporto problematico tra la filosofia e il
linguaggio. (max 20 righe) 62 La concezione heideggeriana del Da-sein ha
influenzato profondamente le arti visive. In
60 Scrive Heidegger: «La filosofia si spinge molto più particolare, ha contribuito alla nascita della pittura
avanti del suo presente attuale, essa ricongiunge il informale. Dopo aver cercato notizie sul tuo libro di
proprio presente al suo remoto e principale storia dell’arte, prova a illustrare i nessi tra la
passato. In ogni caso la filosofia permane un genere concezione del “segno” e della “materia” di questa
di sapere che non solo non si lascia attualizzare ma, tendenza pittorica e la filosofia di Heidegger.
37 Heidegger Laboratorio