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IL DIRITTO AMMINISTRATIVO TRA PARTICOLARISMO E UNIVERSALISMO

Con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, l’assemblea costituente della Francia rivoluzionaria afferma il
regime ed il primato della legge sull’ arbitrio del potente ponendo le basi di quello che oggi definiamo Stato di diritto, alla cui
nascita si accompagnò la piena giuridicizzazione del potere pubblico, non più inteso come strumento del governo caratterizzato
dalla plenitudo potestatis, bensì sottoposto alla legge, expression de la volontè generale. È da ciò che trae origine il Diritto
Amministrativo e la relativa disciplina, alla cui nascita contribuì inoltre la separazione dei poteri e, in particolare, la non
soggezione dell’ amministrazione all’ autorità giudiziaria, con a legge del 24 agosto 1790 dell’Assemblea costituente si dispose,
infatti, che “le funzioni giurisdizionali rimanessero separate da quelle amministrative, con conseguente impossibilità dei giudici di
interferire in alcun modo, e, di conseguenza la verifica di tutti gli atti dell’amministrazione ritenuti illegittimi venne affidata ad
organi specializzati della stessa amministrazione. Un’amministrazione, in realtà, c’è sempre stata e con essa una serie di regole
che l’assistevano, ma l’emergere di una vera e propria organizzazione amministrativa, intesa come insieme di strutture ed apparati,
procede di pari passo con l’affermarsi dello stato, con quel processo cioè che vede l’accentramento del potere in un unico soggetto
e che porta al superamento del sistema feudale. Come scrisse Ranelletti “può esserci Stato senza legislazione o giurisdizione, ma
senza amministrazione non ci sarebbe più Stato, bensì anarchia”. Weber ammette al riguardo che gli ordinamenti giuridici
territoriali generali possono qualificarsi come Stati allorché si muniscono di un corpo permanente di personale professionale, un
corpo cioè di funzionari amministrativi assunti alle dipendenze del potere sovrano che traducono in atti la sua volutas,
caratteristiche queste che contrassegnano il delinearsi dello stato moderno, vicenda che si invera tra il XVI/XVII secolo in
Francia, Inghilterra, Spagna ed Austria. Inizialmente l’amministrazione però risulta priva di una propria autonomia, perché
propria di stati in cui tutti i poteri erano in mano al monarca titolare della plenitudo potestatis. Il d.a. tuttavia pur riprendendo
talune caratteristiche dello stato assoluto, le trasforma, così ad esempio l’ imperatività degli atti amministrativi riprende quella
degli atti del principe, può dirsi pertanto che il d.a. nasce come compendio della supremazia di legge e dell’ autoritarismo
pubblico del sovrano.
Secondo Zanobini la Pubblica Amministrazione non è soggetto distinto dallo stato, ma è lo stato stesso in azione per il
perseguimento dei suoi fini. In effetti le caratteristiche ontologiche tradizionali che configurano il regime amministrativo ossia
gerarchia, accentramento, imperatività degli atti ed il c.d. plusvalore, hanno fatto si che esso nascesse legato allo Stato almeno su
4 fronti:
1. è diritto della p.a. e quindi di una struttura essenziale dello Stato
2. i poteri speciali di cui dispone la p.a. nascono proprio dalla partecipazione del d.a. alla sovranità dello Stato
3. il d.a. è caratterizzato da un titolo posto dallo Stato
4. il d.a. ha come scopo la tutela di interessi pubblici di cui lo Stato è identificatore
Orlando nei suoi “Principi di diritto amministrativo” scriveva infatti che l’amministrazione e il suo diritto costituiscono elementi
espressivi ed identificativi dello Stato nel senso classico del termine e con esso della sua sovranità.
Tuttavia se da una parte l’origine del diritto amministrativo è ancorata allo stato, dall’ altro è fonte di una universalità limitata.
Esso presenta infatti tratti comuni nei diversi paesi dell’Europa continentale, poiché la sua formazione è debitrice del diritto civile
che ha alle spalle a sua volta una tradizione millenaria le cu matrici possono rinvenirsi nel Corpus Iuris ad esempio e nella Lex
Mercatoria. Comunanze derivanti da un lato dal continuo dialogo tra le diverse dottrine, ad esempio quella italiana di fine 800
inizio 900 si è lasciata influenzare particolarmente dalla legislazione francese con le figure dei Ministeri, prefetti, del Consiglio di
Stato e della Corte dei Conti. Anche il diffondersi nel 1865 delle c.d. Unioni internazionali amministrative, ovvero, collegi che
riunivano gli organi amministrativi dei diversi stati, ha contribuito ad avvicinare i diritti amministrativi propri dei diversi stati
aderenti alle unioni che prestavano servizio a loro favore per far si che esercitassero maggiormente la propria sovranità. Il diritto
amministrativo tradizionale rispondeva, dunque, ad alcune regole che possiamo definire costituzionali largamente condivise e
praticate nei vari ordinamenti dell’Europa continentale, come il principio di legalità dell’azione amministrativa, i controlli, l’
esecutorietà e la responsabilità, comunanze che dipendevano quindi sia da elementi culturali, sia da processi di mimesi da parte
delle giurisprudenze, senza, tuttavia, far venir meno la nazionalità e territorialità del diritto in parola. E’ da dire però che dopo la
fase formativa, gli elementi comuni si stemperano dinanzi all’imponenza della legislazione speciale, che irruppe alla fine dell’800
per far fronte alla rivoluzione industriale e all’allargamento del suffragio. Ne sono esempi le legislazioni sulla sicurezza sul
lavoro, sull’ igiene, sanità ed istruzione. Un fenomeno di decodificazione che rese il diritto amministrativo sempre più autoctono,
ed il richiamo alle legislazioni di altri paesi sempre meno frequente quasi solo in dottrina a fini rafforzativi delle tesi esposte.
Quando la legislazione poi diviene oltre che speciale anche settoriale, per materie, categorie, aree, o per città il diritto
amministrativo sarà largamente trasfigurato, pur essendo nato e strutturato come diritto speciale, fu successivamente normalizzato,
dato che una serie di privilegi, come la garanzia amministrativa, furono sostituiti dalla normativa e dalla giurisprudenza
comunitaria, ordinaria ed amministrativa, ed altri status di privilegio come l’occupazione appropriativa furono del tutto soppressi.
Il d.a. pur essendo nato come strumento unilaterale di autorità, oggi è innervato di consensualità e partecipazione, dapprima
improntato sulla contrapposizione pubblico-privato oggi è un diritto paritetico. L’art. 1 comma 1 bis della l. 7 agosto 1990 n. 241
dispone infatti che “ la pubblica amministrazione nell’adozione di atti di natura non autoritativa agisce secondo le norme di diritto
privato salvo che la legge disponga diversamente”.
Cassese, in uno scritto del 1996, osserva che negli studi di diritto amministrativo dominano oggi 6 parole: cambiamento,
rivoluzione, riforma, transizione, rottura, crisi, ma le trasformazioni del diritto amministrativo dipendono anche dalla sua storica
statualità, che ha subito una forte dequotazione, data da un lato dall’ internazionalizzazione, ovvero la soggezione a discipline
sovranazionali e dall’ altro dal decentramento dei poteri amministrativi un fenomeno dipeso essenzialmente da due elementi:

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processo di detastalizzazione, qui definita come Particolarismo, non nel senso che tratta cose minute, bensì questioni
sia di dettaglio, come le norme sulla polizia urbana, sia più grandi, come quelle della vigilanza sugli istituti di credito. Il
particolarismo nella nostra ottica è quello che si contrappone alla fonte statale, prodotto soprattutto dalle Regioni e dagli
enti locali, si parla, pertanto, di particolarismo delle fonti interne allo Stato che esprime, oltre ad una efficacia limitata
nello spazio, anche una corrispondenza ad esigenze specifiche del territorio, che ne fanno un ius proprium. Paolo Grossi
definisce così particolarismo, il localismo giuridico, e tra i diritti particolari che si distaccano dal diritto comune , il
diritto consuetudinario , feudale e statutario. Va tuttavia sottolineato che esso è si frutto di autonomia, ma non di
sovranità, Regioni ed enti territoriali sano dotate di un particolarismo limitato che non intacca la sovranità dello Stato.
Nonostante la riforma e l’ art. 114 abbiano posto sul medesimo piano Stato, Regioni ed enti locali la sovranità interna
dello stato conserva intatta la propria struttura essenziale. La legislazione regionale, infatti, nelle materie concorrenti
deve osservare i principi fondamentali delle materie stesse e rispettare nelle materie regionali e concorrenti, e in quelle
residuali, le materie di competenza esclusiva dello stato, come la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile, la tutela
dell’ambiente. Regioni ed enti locali sono poi stretti entro i principi generali dell’ordinamento, particolarmente rilevanti e
diffusi proprio in tale branca del diritto ove la non codificazione ha legittimato la giurisprudenza ad individuare una
summa di regole dell’azione amministrativa, al fine di porre ordine ad una normativa copiosissima e stratifica. Regole si
ricavano da principi costituzionali e comunitari, in parte dai principi del diritto privato, da disposizioni contenute in leggi
di particolare rilievo c.d. leggi forti della P.A ed altre elaborate applicando il canone generalissimo della ragionevolezza
e dell’ equità. Sicché è affermazione comune che il diritto amministrativo non è frutto solo delle leggi che regolano
l’attività dello stato, ma anche dei principi che costituiscono la parte generale non scritta di tale branca del diritto. Istituti
e discipline regionali, tuttavia, talvolta sono stati ripresi a livello di legislazione statale, cosicché il particolarismo
regionale è divenuto legge statale di principio. A guardar bene questo non è particolarismo, poiché nella nostra ottica
esso deve avere due requisiti:
a. uno formale, rappresentato da una fonte non statale
b. uno dato dalla specialità della disciplina, dettata in funzione di esigenze e caratteristiche locali, che non hanno e non
possono avere carattere generale.
In questi settori si invera così la sussidiarietà verticale del particolarismo, poiché l amministrazione è maggiormente
vicina agli interessi da curare, ed è quella in grado di valutare con maggiore cognizione di causa la specificità e la
particolarità come accade nelle discipline del territorio, beni culturali, paesaggistica ecc.
Universalismo: è indubbio che il diritto amministrativo stia perdendo il suo storico carattere autoctono, nel senso di
diritto quale espressione dello Stato e della sua sovranità, al punto che si dice essere divenuto extrastatuale. Ciò è dipeso
in primis dai Trattati europei, dai quali nascono continuamente principi generali e discipline di dettaglio che investono
l’organizzazione amministrativa su due livelli:
- Il primo riguarda i principi generali, sono tali ad esempio il principio di tutela del legittimo affidamento o quello di
diritto all’accesso alla documentazione amministrativa, molti di essi già presenti nel nostro ordinamento, ma una
volta entrati nella comunità europea, hanno acquisito una forza superiore, è obbligatoria, infatti, la non applicazione
della normativa interna divergente dal diritto europeo da parte delle amministrazioni, un ordine di considerazioni che
emerge in un consolidato indirizzo giurisprudenziale del nostro consiglio di Stato, ormai fermo nel rilevare che il
diritto comunitario si alimenta dei diritti nazionali in un processo di osmosi reciproca e avviene in questo modo una
compenetrazione reciproca fra ordinamento comunitario e ordinamento interno.
- Il secondo riguarda la legislazione di settore: tantissime aree che impegnano l’attività della nostra pubblica
amministrazione sono disciplinate in toto da regolamenti o direttive europee, trasfuse poi in leggi di Stato, come il
principio di precauzione nel diritto ambientale.
Moltissime sono dunque le ricadute della normazione europea sul nostro diritto amministrativo, tanto che quello europeo
non va inteso solo come fonte del diritto amministrativo nazionale, ma è da intendersi esso stesso come diritto
amministrativo, ha infatti una propria amministrazione che collabora con le amministrazioni nazionali
Accanto al Diritto Amministrativo Europeo, sovranazionale e di dimensione continentale, vi è poi anche un Diritto
Amministrativo Globale o universale privo di un centro unitario di produzione o di una disciplina comune di formazione e delle
fonti, pertanto è più opportuno parlare di tendenze e prospettive, frutto di interessi che hanno una dimensione globale come l’
ambiente, i trasporti, le comunicazioni ed i mercati finanziari che impongono agli Stati la ricerca di organismi e regole comuni. Il
termine globale si riferisce quindi alla massa di diritto prodotto dalle organizzazioni internazionali deputate a regolare interessi ed
attività proprie delle amministrazioni dei diversi stati, organizzazioni disomogenee per strutture e fonti, alcune istituite da trattati
internazionali come il Fondo Monetario Internazionale ed altre da organizzazioni internazionali come le sezioni specializzate dell’
ONU, tutte deputate alla produzione di un diritto che per la sua estensione e fonte è gerarchicamente più forte. La penetrazione del
diritto globale , non deriva soltanto da normazioni globali tecniche o comunque i settore ma è indotto dalla stessa collaborazione e
lavoro congiunto tra le organizzazioni internazionali e gli Stati, che comporta una interazione tra gli apparati giudiziali
internazionali e nazionali e i diritti interni degli Stati, da cui possono emergere principi destinati ad assumere carattere globale.
Ciò in sintonia con l’ art. 38 dello statuto della corte internazionale di giustizia il quale prevede che la corte decida le controversie
applicando i principi generali dei diritti riconosciuti dalle nazioni civili ricorrendo, alle decisioni giudiziarie e alla dottrina degli
autori più qualificati dei vari Paesi. Un esempio, di principio globale sta nel principio di precauzione nato dallo dottrina
giuridico- ambientale statunitense negli anni ’70, e divenuto principale ispiratore della generalità di discipline in tema di ambiente
e sicurezza. Principi che assumono carattere pervasivo-diffusivo e si impongono all’interno dei diritti degli Stati. Può così
accostarsi il diritto globale al cubismo, che induce a percepire anche ciò che non è visibile, il lavoro dei giuristi e in generale la
scienza del diritto devono dominare la dispersione, incentivando le comunanze e riducendo le dissonanze. Cassese, nel suo
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saggio sul diritto globale, scrive che esso non è un concerto in cui ogni strumento ha una precisa esecuzione, ma come il jazz può
raggiungere punti sublimi e inaspettati, ciò dipende dal fatto che non è un prodotto finito. Va osservato tuttavia che il diritto
amministrativo pur essendo sempre meno autoctono, sempre meno espressione della sovranità dello stato, e pur essendo la sua
produzione non più di esclusiva competenza statuale, alla base di tale crisi dello Stato, come viene da molti definita, vi è
l’adesione ai Trattati o convenzioni internazionali, e, quindi, comunque un esercizio della sovranità statale. Gli obblighi giuridici
provengono da percorsi spontanei, come la Lex mercatoria, e soprattutto da istituzioni private, o delegate dagli accordi
internazionali ad emettere solo raccomandazioni che poi assumono carattere precettivo, non a caso si parla di stateless global
governante. Così il diritto amministrativo tradizionale è divenuto si recessivo, ma la recessione non va intesa come spoliazione.
Tantissime aree del diritto amministrativo, come la sicurezza dello Stato, sistema tributario e contabile, ordine pubblico,
istruzione, previdenza sociale, non sono del tutto coperte dal diritto globale né dal diritto europeo, altre addirittura riservate al
diritto statuale, a dimostrazione del fatto che non siamo di fronte ad una sovranità statale del tutto perduta. Come afferma Cassese,
le regole sovranazionali sono comunque sottoposte a un processo di contestualizzazione nel senso per cui vengono influenzate
dall’ambiente giuridico dello Stato in cui devono trovare applicazione. Il TUE dichiara infatti di rispettare la storia, la cultura e la
tradizione dei popoli, e, in particolare all’art. 4 ammette di rispettare l’eguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro
identità insista nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema della autonomie locali e regionali.
Rispetta le funzioni essenziali dello stato, in particolare le funzioni di salvaguarda dell’integrità territoriale, di mantenimento
dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale, quest’ultima, in particolare, resta di esclusiva competenza di ciascuno
Stato membro”. Il che conferma l’esigenza di tutelare la identità differenziata degli Stati e con essa le autonomie locali e relativa
potestà normativa. La globalizzazione e la stessa europeizzazione del diritto amministrativo non fanno venir meno la statualità del
diritto in parola, ma vi sono semmai molte aree di coabitazione, che creano quello che in chimica si chiama entropia, ossia
confusione, in quanto la commistione causa intreccio e fusione di fonti. Il diritto amministrativo oggi è un sistema giuridico
aperto, non gerarchizzato nelle fonti e fatto di intersezioni fra ordinamenti nazionali e ultrastatali. non c’è più un ordine
sistematico ma casuale ed è proprio qui che si cercano punti di convergenza per mantenimento dell’unità sistematica del diritto.

The Province of Jurispudence Determined è l’ unica opera pubblicata in vita da John Austin, giurista e filosofo inglese. Una
prefazione necessaria alle sue sei lezioni volta ad identificare i caratteri distintivi del diritto positivo, e a liberarlo dalla perenne
confusione con i precetti della religione e della morale.
A tal fine Austin usa due nozioni:
1. comando, viene analizzato in termini di espressione di un desiderio da parte del sovrano che ha il proposito di infliggere
un male nel caso in cui tale desiderio sia ignorato. Una manifestazione di desiderio, dunque, caratterizzata dalla
soggezione del destinatario a una punizione in caso di inottemperanza.
2. abitudine all’obbedienza nei confronti di una determinata persona
In relazione a queste due nozioni Austin definisce:
- la soggezione al dovere o all’obbligo
- la sanzione
- il superiore, inteso come una o più persone che possono costringere altri ad obbedire
- la società politica indipendente, società in cui la maggioranza obbedisce abitualmente a un determinato superiore
comune
- il sovrano un determinato superiore umano che non obbedisce ad alcuno.
Può dirsi, pertanto che le leggi o regole, per Austin, non sono altro che comandi generali, o astratti come direbbe Bobbio, ai quali
l’ autore contrappone il diritto positivo posto, invece, da parte di un sovrano nei confronti dei membri di una società ibera
indipendente. Così identificato il diritto positivo costituisce uno dei tre tipi di regole per la condotta umana, accanto al quale si
pongono poi :
1. le leggi di dio, leggi propriamente dette ma non di diritto positivo, in cui gli uomini trovano una guida o un indice nei
principi di utilità generale
2. la moralità positiva, intesa come tutte le regole di condotta di produzione umana le quali non presentano la differenza
specifica del diritto positivo.
Stando alla critica di Kelsen tuttavia Austin nel ricercare termini chiari, rigorosi, e che fossero intangibili al senso comune,
scelse nozioni fondamentalmente sbagliate. Gli elementi da lui usati, cioè comando e abitudine, non includono la nozione di
regola come ciò che deve esser fatto mentre un sistema giuridico è un sistema di regole operante nel contesto di altre regole:
affermare quindi che un sistema giuridico esiste comporta non che si dia una abitudine generale all’obbedienza, ma che vi sia
generale accettazione di una regola costituzionale, che definisce il modo in cui le regole ordinarie debbano essere identificate.
L’ opera in parola risulta fondamentale per almeno tre delle discipline costituenti la filosofia pratica o etica in senso ampio e, in
particolare:
1. dal punto di vista della filosofia morale fornisce una delle prime e più esplicite concettualizzazioni dell’ utilitarismo della
regola. Secondo Austin la tendenza di un’azione, intensa come insieme di tutte le conseguenze che questa avrà sulla
felicità o benessere generale, deve essere apprezzata in relazione all’intera classe di azioni cui essa appartiene, per cui la
nostra condotta si conformerà a regole ricavate dalle tendenze delle azioni. L’utilità deve intendersi però non come ricorso
diretto bensì come parametro ultimo della nostra condotta, come il termine di paragone immediato solo nei confronti
delle regole alle quali la nostra condotta si conforma, ma non nei confronti di azioni specifiche o individuali. Le nostre
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regole sono modellate sull’utilità, la nostra condotta sulle nostre regole. Austin rifiuta così quella forma di utilitarismo che
si definisce utilitarismo dell’atto, e adotta invece la forma di utilitarismo generale o generalizzato, che chiamerà
utilitarismo della regola.
2. da quello della filosofia politica, aggiorna la teoria classica della sovranità. Risulta costruita intorno ad una teoria della
sovranità di chiare ascendenze hobbesiane, che fondando l’obbligo politico sull’abitudine all’obbedienza e sull’effettività
del potere. Austin potrebbe così sembrare un assolutista, ma in realtà al di là dell’impianto hobbesiano la sua teoria si
limita a trarre alcune conseguenze dello sviluppo del sistema politico inglese dopo la Gloriosa Rivoluzione, senza fondare
l’obbligo politico sull’obbedienza, bensì su fondamenti utilitaristici.
3. da quello della filosofia giuridica formula una teoria del diritto che ne prefigura molte di quelle oggi prevalenti. In
particolare per Austin, anche se diritto e morale sono concettualmente distinti il diritto subisce l’ influenza della moralità
utilitaristica, tra i due l’ autore, infatti, rinviene un legame necessario. Tuttavia egli non considera la sfera pratica esaurita
dalla distinzione fra diritto e morale, ma parla di un tertium quid, composto sia da comandi veri e propri che da
consuetudini. A questo aggregato Austin da il nome di POSITIVE MORALITY: locuzione che significa moralità
positiva, per sottolineare il fatto che è qualcosa fuori dal diritto ma non può nemmeno essere ridotta a semplice morale.
Della moralità positiva fanno parte quelli che noi chiameremo diritto costituzionale e internazionale, ma anche il diritto
primitivo o tradizionale. Austin afferma: ”il diritto sorge dalla consuetudine, o moralità positiva, quindi passa per una fase
di riformulazione giudiziaria, e solo dopo diviene diritto in senso proprio, cioè comando, legge”. Se teniamo conto di
questa considerazione appare chiaro che Austin impiega la categoria della moralità positiva per recuperare i motivi della
tradizione del common law. Da qui la distinzione tra la sua teoria e quella classica, che vede il common law come
l’applicazione da parte dei giudici di consuetudini giuridiche mentre Austin la raffigura come la conversione in diritto
operata dai giudici in consuetudini pregiuridiche, e in particolare egli configura il diritto come qualcosa di miracoloso
fatto da nessuno che esiste dall’eternità e viene dichiarato di tempo in tempo dai giudici.
Il contesto in cui opera è, quindi, quello del common law inglese, sistema giuridico che può dirsi eccezionale o anomalo rispetto a
quello continentale, perché caratterizzato dalla presenza della common law accanto alla civil law continentale e dalla dottrina per
cui il re era legislatore sia della common law che del diritto scritto frutto di una teoria classica che prevalse sulle dottrine rivali e
finì per incorporarsi all’ideologia della maggioranza parlamentare whigs che resse il Paese per buona parte del ‘700. Il che
concorse a tenere l’ Inghilterra fuori dai processi di codificazione che in quel periodo interessarono il resto d’Europa, e common
law e legislazione continuarono a convivere. Alcuni però rifacendosi alla critica hobbesiana revocavano il carattere giuridico del
common law. Per Bentham come per Hobbes non era un caso che la lingua inglese avesse una sola parola law, per indicare sia il
diritto che la legge. In particolare per Bentham se law designa propriamente la legge, diventa difficile ammettere la giuridicità del
common law, almeno in base alla rappresentazione fornita dalla teoria classica che per distinguere il common law dallo statute
law, aveva insistito sul carattere originariamente consuetudinario del diritto tradizionale inglese. La common law può rientrare
nella definizione benthamiana di diritto solo ove ai giudici venga dato un ruolo paralegislativo. Per cui l’intera opera teorica è
frutto del tentativo di ripensare il common law in base a criteri continentali.

DELIMITAZIONE DEL CAMPO DELLA GIURISPRUDENZA: Con l’ intento di delimitare, come appare chiaro sin dal
titolo, la sfera propria della giurisprudenza, Austin, provvede preliminariamente a definire il diritto. Per l’ autore le leggi Laws, in
senso proprio sono comandi, quelle che non sono comandi sono così chiamate impropriamente, entrambe possono comunque
distinguersi in:
1. Leggi divine o leggi di Dio
2. Leggi positive
3. Moralità positiva, o leggi morali positive
4. Leggi in senso metaforico o figurato
Lo scopo delle sei lezioni di Austin è quello di distinguere le leggi positive, oggetto della giurisprudenza, dagli altri oggetti ai
quali esse sono legate per somiglianze e analogie, oltre che dal comune nome di “legge”, ragion per cui tutte queste cose sono
spesso mescolate e confuse. Lo scopo di quest’opera è, dunque, tracciare il limite che separa il campo della giurisprudenza da
quelli confinanti. Parlando in prima persona Austin traccia il modo cui arriverà a tale delimitazione 2 in tappe:
1. Individua l’essenza e la natura comune delle leggi propriamente dette
2. Individua i caratteri propri delle 4 categorie in cui vengono separate.
In particolare:
Nella LEZIONE I vengono stabiliti gli elementi essenziali di una legge o regola, comuni a tutte le leggi propriamente dette. Si
individua l’essenza o natura di una legge imperativa, e si determina implicitamente l’essenza o la natura dei comandi per poi
distinguere quelli che sono leggi da quelli meramente occasionali o particolari.
L’oggetto della giurisprudenza è il diritto positivo così chiamato senza ulteriori qualificazioni e in senso stretto, spesso confuso
con oggetti cui è legato per somiglianza o analogia, identificati vagamente con il termine law. Una legge, nella eccezione più
ampia, può essere defbinita come una regola posta da un essere intelligente per la guida di un altro essere intelligente soggetto al
potere del primo. Il termine legge abbraccia così diversi oggetti determinati ovvero:
- le leggi poste da Dio alle sue creature umane, una parte frequentemente chiamata legge di natura o diritto naturale
- le leggi poste dagli uomini ad altri uomini, si distinguono a loro volta in due categorie:
a. leggi stabilite da superiori politici, frequentemente denominate di diritto positivo o diritto derivante da un atto di
posizione
b. regole impropriamente dette leggi, poste e rese effettive dalla semplice opinione, come le leggi dell’onore o della
moda
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Oltre ai vari tipi di regole che sono inclusi nell’eccezione letterale del termine law, e quelle che sono chiamate impropriamente
leggi per una stretta ed evidente analogia, esistono poi numerosi usi del termine che si basano su un’analogia più debole, e che
sono metaforici o figurati è così per:
- le leggi osservate dagli animali inferiori
- le leggi della vita dei vegetali.
Ove non vi è intelligenza o è troppo limitata per chiamarsi ragione, non c’è neppure la volontà su cui una legge può influire.
Ogni legge o regola nel significato più ampio è un comando: se qualcuno formula o dichiara la volontà che io faccia o mi astenga
dal fare determinate azioni, e se mi punirà nel caso non ottemperi alla sua volontà, l’espressione o manifestazione della sua
volontà è un comando. Esso si differenzia dalle altre forme di desiderio quando colui al quale è rivolto, è soggetto ad un male nel
caso in cui non si conformi alla volontà- desiderio, dunque io sarò vincolato o obbligato dall’altrui comando, e mi troverò in
dovere di obbedirgli. Comando e dovere risultano pertanto termini correlativi poiché il significato dell’uno è implicito e
presupposto nell’altro. Colui che infligge un male nel caso in cui il suo desiderio sia ignorato, formula un comando manifestando
il proprio desiderio, mentre colui che è soggetto ad un male nel caso in cui non osservi il desiderio manifestato, è vincolato da un
obbligo di comando e il male in cui incorrerà in caso di disobbedienza è chiamato sanzione o ottenimento coattivo
dell’obbedienza.
In particolare Paley, al riguardo, insiste sulla violenza del motivo per cui si obbedisce, se esso non è violento o intenso,
l’espressione o manifestazione di volontà non può considerarsi comando, e il soggetto non si trova in una situazione di dovere nei
suoi confronti. Egli per motivo violento intende qualcosa che incute timore: ciò che non è temuto non è avvertito come un male,
pertanto maggiore è il male eventuale maggiore è l’efficacia del comando. Alcuni celebri autori come Locke, Bentham, Paley
stesso, applicano tuttavia il termine sanzione sia al possibile male che al possibile bene, dunque punizione ma anche premio. In
conclusione può dirsi che comando, dovere e sanzione sono strettamente connessi, ognuno dei tre indica la stessa nozione, ma ne
denota aspetti differenti.
I comandi possono essere distinti in due specie:
- alcuni sono leggi o regole, se dettati generalmente e nei confronti degli appartenenti ad una classe, com’ è ad esempio il
comando del legislatore che i ladri siano impiccati
- altri comandi occasionali o particolari, quando obbligano ad un’azione o omissione specifica o individuale, è tale, il
comando del giudice che ordina la punizione per un caso specifico
Dunque, le leggi obbligano in generale i membri di una data comunità, un comando particolare obbliga individualmente una
singola persona. Ad ogni modo le leggi e gli altri comandi per vincolare ed obbligare soggetti che possono definirsi inferiori,
debbono provenire da soggetti superiori, la cui superiorità è spesso sinonimo di precedenza o eccellenza del potere. potere di
infliggere un male servendosi del timore per adeguare gli altri al suo volere. Chiunque possa obbligare un altro a rispettare i suoi
voleri è superiore dell’altro, e colui che è soggetto al male incombente è l’inferiore. Ma è anche vero che chi è superiore sotto un
profilo è inferiore sotto un altro. Ad esempio, il monarca è superiore di chi è governato, ma i governati sono anche superiori del
monarca, controllato nei suoi eventuali abusi, nel timore di scatenare ribellione. Ne risulta allora che il termine superiorità è
implicito in quello di comando perché sta ad indicare il potere di imporre obbedienza ad una volontà.
Sono invece oggetti impropriamente chiamati leggi:
1. Gli atti emanati dal legislatore per spiegare il diritto positivo, non portano alcun cambiamento, sono atti di interpretazione
autentica.
2. Leggi che abrogano leggi precedenti, revoche di comandi, e proprio per questo definite leggi permissive, e dunque imperative,
in quanto i soggetti sono liberati e reintegrati nei loro diritti o libertà.
3. Le leggi imperfette, sono quelle prive di sanzione, ossia quelle leggi che considerano criminose determinate azioni ma non sono
seguite da alcuna pena. Non sono leggi in senso proprio, ma un consiglio del superiore verso l’inferiore, i c.d. doveri non giuridici,
doveri cioè imposti da Dio o dalla moralità positiva.
Le leggi impropriamente dette enumerate sono le uniche che pur non appartenendo alle classe dei comandi, possono essere incluse
nel campo della giurisprudenza.
Vi sono tuttavia alcune leggi in senso proprio che possono apparire non imperative:
a. Le leggi che creano esclusivamente diritti, non doveri. Tuttavia i diritti che creano comportano doveri correlativi, come se il
dovere relativo che producono sia assoluto.
b. Le norme consuetudinarie (custumary laws), in origine regole di condotta che i governanti osservavano spontaneamente e non
in esecuzione di una legge posta da un superiore politico. Essa si trasforma in diritto positivo quando è adottata come tale dalle
corti e quando le decisioni giudiziali formate su di essa sono sanzionate dal potere dello stato, ma prima di essere adottata dalle
corti essa è esclusivamente una regola di moralità positiva, generalmente osservata, derivante dal consenso dei governanti e non
dal fatto di essere posta da superiori politici. Ma considerate come regole morali trasposti in diritto positivo, le norme
consuetudinarie sono stabilite dallo Stato, direttamente, quando sono recepite in documenti legislativi, indirettamente, quando
sono adottate dai tribunali. Dunque il diritto positivo consuetudinario, cioè prodotto giudizialmente è imperativo, in quanto ha
forza di legge per i governanti.
Nella LEZIONE II vengono individuati i caratteri distintivi delle leggi di Dio rispetto alle altre leggi per poi dividerle a seconda
che siano rivelate o meno. Le leggi divine o leggi di Dio sono quelle poste da Dio alle creature umane, leggi o regole
propriamente dette. In opposizione ai doveri posti dalle leggi umane, quelli posti dalla legge divina sono chiamati doveri religiosi,
le cui violazioni sono denominate peccati, che fanno incorrere il peccatore in sanzioni religiose, impartite da Dio come
violazione dei suoi comandi. Le leggi di Dio possono essere;
1. Rivelate, vengono comunicate tramite comandi espressi per mezzo del linguaggio umano comprensibile all’uomo o
per parola di Dio o tramite servitori che egli manda per annunciarli.
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2. non rivelate, spesso chiamate legge di natura o diritto naturale, diritto manifestata all’uomo dal lumen naturae o
rationis e sono poste da Dio alle sue creature con mezzi diversi dal linguaggio umano. Conoscerle non è agevole,
sono state pertanto elaborate due teorie:
a. Secondo una prima teoria, Dio ci ha dotato di sentimenti che ci avvertono quando ci allontaniamo dalla retta via dei
nostri doveri. Tali sentimenti che per la loro influenza sull’anima sono spesso chiamati coscienza, sono stati comparati al
senso morale, per cui gli uomini nella decisione sulla rettitudine, sono guidati dal senso comune.
b. Secondo un’altra teoria devono essere desunte dalla bontà divina e dalle tendenze delle azioni umane. La benevolenza
di Dio e il principio dell’utilità generale costituiscono la guida alla legge non rivelata.
Per capire la tendenza di un’azione umana non dobbiamo considerare un’azione singolarmente o isolamento, ma dobbiamo
guardare alla classe di azioni alla quale appartiene, e capire che effetto abbiano sulla felicità e il bene generale. Ad esempio, se un
povero ruba una manciata di grano dal ricco vicino l’atto di per sé è innocuo e considerato buono, ma se i furti fossero generali il
risultato sarebbe diverso. Per cui nella misura in cui le leggi di Dio sono rivelate, siamo obbligati a conformare la nostra condotta
in quei termini. Nel caso in cui non siano rivelate dobbiamo ricorrere a un’altra via, ossia l’effetto della nostra condotta sulla
felicità e bene generale che costituiscono l’obiettivo di Dio. In entrambi i casi la fonte dei nostri doveri è la stessa, ossia il
principio di utilità generale: la totalità della nostra condotta dovrebbe essere guidata dal principio di utilità, almeno quando la
condotta da seguire non sia rivelata. Infatti conformarsi al principio con il quale una legge coincide, equivale ad obbedire a tale
legge. Per obiettare ai critici che ammettono l’utilità come un criterio di condotta pericoloso, Austin afferma che se fossimo dotati
di senso morale, o di senso comune, non saremmo costretti a ricorrere al principio di utilità generale per risalire ai comandi divini,
e l’uomo sarebbe dotato di una ragione innata per acquistare coscienza dei propri doveri. Ma noi non siamo dotati di tale organo e
sarebbe sforzo vano, dobbiamo dunque ricavare i nostri doveri dalle tendenze delle azioni umane o rassegnarci a restare
nell’ignoranza di tali doveri. I critici, tuttavia, muovono a ciò un obiezione rilevando che se noi adeguassimo la nostra condotta
sul principio utilità generale, ogni nostra scelta sarebbe preceduta da un calcolo, da un tentativo di ipotizzare e comparare le
rispettive conseguenze di azione e astensione. Ma il principio di utilità generale non è miope o limitato: la nostra condotta è
regolata su conclusioni generali non particolari, e far procedere ogni azione a una previsione sarebbe superfluo e dannoso. In
generale quindi, la condotta umana è inevitabilmente guidata da regole, principi o massime, ma anche da sentimenti morali
associati a tali regole. Se io creo che una data azione sia proibita dalla Divinità, il mio senso morale o sentimento è connesso con
il mio concepire tale azione, e dunque la mia condotta è ispirata al principio di utilità generale. La mia condotta sarà
immediatamente guidata dal sentimento e solo dopo mediamente dal calcolo. Pensare infatti che la teoria dell’utilità sostituisca il
sentimento con il calcolo è un errore poiché il sentimento senza calcolo sarebbe cieco e il calcolo senza sentimento dannoso. Ci
sono casi però, eccezionali e anomali, in cui l’uomo applica il principio di utilità direttamente e immediatamente, e non la regola
religiosa, essendo questa applicabile ai casi generali e normali. I sostenitori delle riforme ad esempio, essendo concentrati
sull’utilità, potrebbero accontentarsi di qualcosa di meno di quanto pensano e desiderano piuttosto che ricercare il massimo bene
nel rischio di una guerra, paragonando il valore dei propri obiettivi con i costi di un perseguimento violento. Se si ammette che la
Divinità vuole il bene delle sue creature, afferma Austin, allora deve anche ammettersi che la legge divina non rivelata possa
risalirsi nel modo seguente: se certe azioni hanno tendenze utili, si può desumerne che Dio le comanda; se le hanno dannose si può
desumere che Dio le vieta. Secondo Austin la tendenza di un’azione, intensa come insieme di tutte le conseguenze che questa avrà
sulla felicità o benessere generale, dovrebbe essere apprezzata in relazione all’intera classe di azioni cui essa appartiene. Ad
esempio, il singolo furto non deve essere valutato in quanto tale, ma in relazione all’intera classe dei furti, e ci si domanda che
conseguenze ci sarebbero se tutti rubassero, risalendo dunque alla regola divina che vieta tutti i furti senza eccezione. Una
valutazione caso per caso non sarebbe affatto richiesta dall’utilitarismo, al contrario, questo richiederebbe soltanto di seguire la
regola, confidando nella sua utilità seguendola senza eccezioni. Secondo la teoria utilitaristica di Austin pertanto la nostra
condotta si conforma a regole ricavate dalle tendenze delle azioni, ma non è caratterizzata da un ricorso diretto al principio di
utilità generale, parametro ultimo della nostra condotta costituente il termine di paragone immediato solo nei confronti delle
regole alle quali la nostra condotta si conforma, ma non di azioni specifiche o individuali. Le nostre regole sono modellate
sull’utilità e la nostra condotta sulle nostre regole. Austin rifiuta, quindi, quella forma di utilitarismo chiamato utilitarismo
dell’atto e afferma che ad essere valutata in termini di utilità è la classe delle azioni, adotta così la forma di utilitarismo che si
definisce generale o generalizzato, quello che Austin chiamerà utilitarismo della regola. Anche Bentham può considerarsi un
utilitarista tale, ma a differenza di utilitaristi successivi come un utilitarista diretto, interessato alla critica di regole considerate uti
singulae piuttosto che uti universae. Austin, invece ha coltivato un utilitarismo di tipo normativo, e non esplicativo. La sua
filosofia politica è, infatti, costruita intorno ad una teoria della sovranità di chiare ascendenze hobbesiane che fondano l’obbligo
politico sull’abitudine all’obbedienza e sull’effettività del potere, sembrerebbe, pertanto, un assolutista, ma al di là dell’impianto
hobbesiano la sua teoria della sovranità si limita a trarre alcune conseguenze dello sviluppo del sistema politico inglese dopo la
Gloriosa Rivoluzione, senza fondare l’obbligo politico sull’obbedienza, ma su fondamenti utilitaristici.
Nelle LEZIONI III e IV, ci si occupa dell’esposizione delle tre teorie che portano ad esaminare il concetto di giurisprudenza. Ad
esempio, il diritto e la moralità positiva, vengono distinti dai giuristi moderni in diritto naturale e diritto positivo, ovvero in diritto
e moralità positiva modellate sulla legge di Dio da un lato, e diritto e moralità positiva di derivazione umana. Distinzione che
coincide con quella nelle pandette e nelle Istituzioni, ove lo ius civili è distinto dall’ ius gentium. Ciò vale a dire che oltre alle
regole di particolari nazioni, di produzione umana, particolari e transitorie non forgiate su modelli divini o naturali, vi sono regole
di diritto positivo che si estendono a ogni nazione, regole morali osservate da tutto il genere umano, universali e fatte dagli uomini
sul modello delle leggi divine o della natura. Esse costituiscono l’anima e la giuda dell’universo.
LEZIONE III: Se la nostra condotta fosse effettivamente modellata sul principio di utilità generale, essa si conformerebbe nella
maggior parte dei casi a leggi o regole poste dalla Divinità, e delle quali costituiscono parametro o indice le tendenze di classi
d’azioni. Ma esse sono talmente numerose che nessuna ragione individuale potrebbe sistematizzarle esaustivamente analizzando
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le rispettive tendenze, e quindi il sistema etico di ogni individuo abbraccerebbe solo una parte di tali regole lasciando le altre al
calcolo delle conseguenze specifiche. Secondo la teoria dell’utilità la scienza dell’etica o deontologia, ovvero la disciplina che si
occupa del diritto e della morale appartiene alle materie che si fondano sull’osservazione e l’induzione. Se il diritto e la moralità
positiva fossero esattamente ciò che devono essere modellati sull’utilità, potrebbero essere fornite ragioni sufficienti per ognuna
delle regole che la costituiscono, e ognuna di queste sarebbe fondata sulle ragioni, ma poiché ogni uomo può padroneggiare
soltanto una parte di tali dimostrazioni, molte delle regole di condotta sarebbero apprese sulla base dell’autorità, testimonianza o
della fiducia. Se un sistema giuridico o la moralità fossero modellati sull’utilità, tutte le regole che li costituiscono sarebbero
conosciute dalla totalità o maggioranza delle persone, ma tutte le numerose ragioni sulle quali il sistema poggerebbe non
potrebbero essere colte da ognuno e i più dovrebbero accontentarsi di indagare su soltanto alcune di tali ragioni. Nella matematica
e nella fisica possiamo normalmente fidarci di conclusioni ex auctoritate. Infatti i cultori di queste scienze e tecniche concordano
per lo più nei loro risultati. Nella scienza etica invece coloro che indagano raramente sono imparziali e perciò differiscono nei
risultati. Qui non ci si può basare sulla testimonianza o fiducia altrui, di conseguenza la scienza etica resta indietro rispetto alle
altre, e la conoscenza profonda sarà sempre limitata ai pochi che la studiano a lungo e assiduamente, soggetti perfettamente in
grado di cogliere i principi guida ed applicarli. Se i più fossero informati e raziocinanti, una volta divenuti capaci di ragionare
correttamente, potrebbero analizzare e approfondire le questioni che più conviene loro capire, come avviene nella scienza
economica, ove la verità è deducibile da principi evidenti con ragionamenti brevi e certi. Se gli elementi della scienza etica fossero
ampiamente diffusi la stessa disciplina farebbe progressi con rapidità proporzionale. Come ammette Locke e anche Austin, tali
progressi sono impediti da interessi inconfessabili o dai pregiudizi che ne risultano, in realtà saranno sempre pochi quelli che
cercheranno la verità in modo spassionato o imparziale. Nella scienza dell’etica dunque l’unica via sicura è l’utilità generale. Se
pensatori e scrittori si attenessero ad essa sinceramente e strettamente essi arricchirebbero queste discipline di verità sempre
nuove, ma poiché gli interessi di tali classi sono contrari agli interessi della grande maggioranza è difficile che seguiranno la via
indicata dal benessere generale. Come diceva Locke essi cominciano a sposare le più ricche in dote dell’opinione, per poi
nascondere e camuffarne le deformità. Paley, ammetteva che la classe media era non solo la più numerosa ma anche la più
importante in seno alla comunità, ma la influenza della loro posizione paralizzava i suoi sentimenti generosi e la rettitudine del
suo intelletto. Tali settori della società sono troppo rozzi ed ignoranti per occuparsi di libri del genere. Se ci fosse un vasto
pubblico di lettori attento ed imparziale, la scienza dell’etica progredirebbe con rapidità, l’etica sarebbe considerata oggetto e
materia di una scienza, gli scrittori si avvicinerebbero a un ideale di esattezza e coerenza geometrica e la pazienza nell’indagine,
libertà e imparzialità nella ricerca dell’utile disperderebbe l’oscurità da cui la scienza etica è offuscata e la libererebbero dalla
maggior parte delle sue incertezze, e come ammetteva Locke, con il tempo l’etica si allineerebbe alle scienze suscettibili di
dimostrazione, e i cultori di essa come quelli della matematica concorderebbero sui risultati, facendo emergere un corpo di verità
dottrinali sui cui allinearsi e confidare. I più troverebbero nel consenso unanime o generale di numerosi o imparziali ricercatori
quell’indice di affidabilità che giustifica la fiducia nell’autorità, ogni volta che non abbiamo l’opportunità di esaminare i pro e i
contro per nostro conto. Dunque, se l’utilità è il parametro più immediato del diritto e della moralità positiva, allora è impossibile
che essi siano esenti da difetti ed errori, e allo stesso modo se il principio di utilità generale ci permette di risalire ai comandi
divini, è impossibile che le regole di condotta osservate dal genere umano si accordino esattamente alle leggi stabilite dalla
divinità. Il diritto e la moralità sono, dunque, necessariamente viziati o difettosi e, solo quando l’esperienza del genere umano
renderà possibile un’osservazione più estesa e un ragionamento più preciso e rigoroso, gli uomini potranno rimediare a tali vizi ed
errori. Essendo però il campo della condotta umana infinito ed immenso, sarà impossibile per l’intelletto umano abbracciarlo ed
esplorarlo completamente, tuttavia con la generale diffusione della conoscenza entro la maggior parte dell’umanità, con il tempo
si rimedierà a molti dei difetti e degli errori, e i più che non saranno in grado di esaminare i risultati di tale scienza potranno
razionalmente confidare in un’autorità.
LEZIONE IV: Austin rileva che la contro-obiezione appena analizzata alla critica secondo cui i difetti e gli errori dell’ etica
popolare o volgare risultano irrimediabili, non risponde interamente all’obiezione, mostra che diritto e morale modellati sul
principio di utilità potrebbero approssimarsi col tempo alla perfezione, ma anche il più perfetto sistema etico che l’ingegno umano
possa concepire sarebbe solo una copia imprecisa del modello divino e ciò contraddice la teoria che l’utilità è indice del volere
divino, in quanto fa conoscere il volere della divinità in modo imperfetto. L’obiezione è fondata sulla presunta incompatibilità del
male con la sua perfetta saggezza e bontà, ma il diritto come una medicina serve a curare il male. Dio ci ha fornito istinto morale,
con cui compiamo alcune azioni e ci asteniamo da altre, così certi sentimenti o sanzioni di approvazione o disapprovazione
accompagnano ogni nostro riferimento ad azioni umane in modo negativo. Si tratta di sentimenti morali, fatti ultimi ed
imperscrutabili, che non provengono né dalla nostra educazione né dalla nostra conoscenza, sono sentimenti istintivi o istinti
morali, che esprimono la nostra ignoranza, il che significa che alcuni fenomeni non sono preceduti da cause alle quali siamo in
grado di risalire. Ad esempio, se poniamo a confronto un selvaggio in cerca di preda che incontra un cacciatore che trasporta un
cervo e si scaglia sul cacciatore e lo uccide, provando successivamente rimorso, e consapevolezza di essere colpevole, ed un
selvaggio che invece è colpito dal cacciatore e per difendersi lo uccide senza, pertanto essere colpito da rimorso, la differenza di
sentimenti nei due casi è riconducibile ad una percezione di utilità e alle cognizioni che il selvaggio possiede essendo estraneo alla
società. Il selvaggio considera le due azioni con sentimenti diversi senza che noi sappiamo il perché, dunque alcuni sentimenti
sono innati nella nostra natura, fatti ultimi, e non effetti di cause accessibili alla nostra osservazione. Ora, supponendo che la
Divinità ci abbia fornito di un senso o istinto morale, la nostra non può mai sbagliare anche se la volontà può essere debole. Ma se
fossimo veramente dotati di sentimenti del genere essi debbono essere indiscutibili e devono anche differire da altri sentimenti
della nostra natura, tutti gli elementi di essa che sono ultimi e non suscettibili di analisi, li conosciamo e distinguiamo prontamente
dagli altri, ma questo non dimostra che essi siano istintivi. I critici sostenitori dell’ipotesi che i sentimenti morali siano istintivi e
imperscrutabili ammettono che i sentimenti morali sono gli stessi in tutti gli uomini, ma in realtà i sentimenti morali
corrispondenti a periodi e nazioni diversi sono infinitamente diversi. Ciò significa che rispetto a poche classi di azioni i sentimenti
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morali degli uomini sono stati simili, ma rispetto ad altre classi di azioni hanno differito con varie gradazioni. Tali ipotesi mista
porta a far ricadere le regole umane positive in due categorie:
- quelle comuni a tutto il genere umano, ove il senso morale si conforma ai comandi divini
- quelle non universalmente osservate, la cui conformità ai comandi divini non è quindi attestata da tale affabile guida.
Ipotesi implicata dalla divisione del diritto positivo in naturale e positivo.
Tuttavia alcuni confondono i motivi che dovrebbero determinare la nostra condotta con il parametro a cui la nostra condotta
dovrebbe conformarsi, ed altri confondono la teoria dell’utilità generale con la teoria dell’origine della benevolenza parlando di
sistema egoistico. In realtà in base alla teoria dell’utilità, la misura o parametro della condotta umana è la legge posta da Dio e
l’utilità non è il parametro alla quale la nostra condotta debba conformarsi, ma è solo la guida, i comandi divini son il parametro
ultimo mentre l’utilità generale è il parametro più vicino e immediato, ma in nessun caso il motivo che dovrebbe determinare la
nostra condotta, rappresentato dal bene pubblico o bene generale, ovvero godimenti aggregati delle persone singole che
costituiscono quel pubblico. Il principio di utilità non ci chiede di perseguire sempre il bene generale, ma di non perseguire il
bene personale con mezzi inconciliabili con quello generale. Anche nei casi in cui l’utilità richiede che la benevolenza debba
essere il nostro motivo, essa di solito richiede che siamo motivati da una benevolenza parziale rivolta alla cerchia ristretta dei
familiari. Da qui si passa ad analizzare l’espressione buoni e cattivi motivi. La benevolenza benché non egoistica può condurre ad
azioni cattive quando mira ad obiettivi ristretti, ad esempio l’amore per i figli e il desiderio di spingerli ad avanzare nella vita può
portare ad azioni contrarie al bene pubblico. Il carattere morale dall’azione è determinato dal motivo, ma la benevolenza non
nasce da un sistema egoistico. Come mette Hartley e altri autori, la benevolenza nasce dall’amore per se stessi o da sentimenti
egoistici attraverso quel processo familiare, e ogni buon servizio reso da un uomo ad un altro deriva da un calcolo, con obiettivo
gli interessi dello stesso. Per Austin, come anche per Bentham benevolenza e simpatia sono un fatto atomico o ultimo, e che la
condotta deriva da un motivo egoistico nocivo, o da un motivo esclusivamente benefico poco importa, la teoria dell’utilità non
tiene conto dell’origine del sentimento.
Nella LEZIONE V, si dividono le leggi in due classi:
- leggi propriamente dette, si distinguono a loro volta in:
a. leggi di dio
b. legge positive
- leggi impropriamente dette, legate da analogia con le prime, e che quindi chiamiamo leggi in senso metaforico o
figurato.
Ogni metafora nasce da un’analogia, e ogni estensione analogica data ad un termine è una metafora o un discorso figurato.
L’analogia, invece, è una somiglianza, secondo cui gli oggetti hanno qualche proprietà in comune, due oggetti sono detti
somiglianti quando entrambi appartengono a un determinato genere o specie cui si riferisce esplicitamente o tacitamente, quando
entrambi presentano ogni proprietà che appartiene a tutti gli oggetti inclusi nella classe. Due oggetti simili sono invece detti
analoghi, quando uno possiede tutte le proprietà comuni alla classe e l’altro no. Somiglianza dunque è un termine ambiguo.
Quando diciamo che il piede d’uomo e quello del leone si somigliano in senso stretto è una somiglianza, ma il piede del tavolo
presenta solo una parte delle proprietà di questa classe dunque è una analogia. Tale preambolo è importante poiché nel diritto
ricorre spesso la parola analogia nelle questioni più oscure. Ad ogni modo tra le leggi chiamate impropriamente vi è una
distinzione: alcune sono strettamente analoghe alle leggi in senso proprio, altre sono lontanamente analoghe alle leggi in senso
proprio. Il termine legge viene esteso ad alcuni oggetti per vai di una decisione della ragione o dell’intelletto.
Austin le distingue a loro volta in tre classi principali:
1. Le LEGGI DI DIO, propriamente dette poste da Dio agli uomini;
2. Il DIRITTO POSITIVO o LEGGI POSITIVE, propriamente dette poste da uomini come superiori politici,
3. La MORALITA’ POSITIVA, o REGOLE MORALI POSITIVE, comprendente sia le leggi propriamente dette poste da
uomini che non sono superiori politici, sia le leggi che sono strettamente analoghe alle leggi in senso proprio, ma che
sono semplicemente opinioni nutrite o sentimenti avvertiti dagli uomini in relazione alla condotta umana.
Le leggi positive oggetto della giurisprudenza, sono legate per via di somiglianza o per via di analogia alle cose seguenti:
1. Per via di somiglianza sono legate alle leggi di Dio e alle leggi di moralità positiva propriamente dette
2. Per analogia stretta sono legate alle leggi della moralità positiva impropriamente dette
3. Per analogia debole sono legate a leggi meramente metaforiche o figurate.
Gli insiemi o aggregati normativi chiamati rispettivamente legge di Dio, diritto positivo, e moralità positiva:
1. a volte coincidono quando le azioni che sono prescritte o proibite dal primo sono prescritte o proibite anche dal secondo . Ad
esempio l’omicidio è vietato dal diritto positivo, proibito dalle legge imposte dall’opinione generale in quanto immoralità
convenzionale e proibito dalle legge di Dio in quanto peccato. Chi commette omicidio sarà soggetto a una pena inflitta
dall’autorità sovrana, soggetto a ostilità da parte dei consociati, soggetto oggi o domani ad una sofferenza da parte della
Divinità.
2. a volte non coincidono quando le azioni che sono comandate o proibite dal primo non sono comandate o proibite dal
secondo. Esempio ne è il contrabbando, proibito dal diritto positivo, ma non proibito dall’opinione generale quando
effettuato per alta tassazione, e dunque praticato senza vergogna e senza timore di incorrere nella riprovazione generale.
3. a volte confliggono quando azioni che sono prescritte o proibite da uno, sono rispettivamente prescritte e proibite dall’altro
inversamente. Ad esempio, il diritto positivo contrasta la pratica del duello, ma un uomo appartenente al ceto alto può essere
spinto dalla legge d’onore a raccogliere la sfida. Il dovere giuridico negativo che incombe su di lui è sopraffatto dal dovere
morale positivo originato dalla legge posta dall’opinione del suo ceto.
Tali considerazioni sono però spesso trascurate dai legislatori che dimenticano che i sentimenti morali o religiosi della
popolazione possono portare alla soppressione delle leggi positive, poiché il timore delle loro sanzioni sarà più debole di quello
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ispirato da altre e configgenti sanzioni. E piuttosto a seguito della frequente coincidenza fra diritto positivo, legge di Dio e
moralità positiva, spesso la vera natura e la fonte del diritto vengono travisati. Ad esempio, le norme consuetudinarie sono leggi
positive che l’organo giudiziario ha calcato su consuetudini preesistenti, fino a quel momento sono rese effettive moralmente.
Tuttavia le consuetudini erano osservate già da prima dai governanti tanto che possono essere definite come leggi positive in virtù
della loro creazione. L’analogia di una legge in senso proprio, con una legge imposta dall’opinione generale consiste nella
seguente somiglianza: in entrambi i casi gli esseri sono soggetti a un male convenzionale nel caso non rispettino la volontà.
Quindi l’analogia risiede nella rassomiglianza della sanzione e nel dovere di rispettarla. L’ analogia in questo caso fra legge in
senso proprio e legge impropria, è forte e stretta. Vi sono poi leggi improprie legate ad analogia deboli alle leggi propriamente
dette. Queste sono leggi in senso metaforico poiché mancano della caratteristica della sanzione o del dovere; come ad esempio le
leggi degli animali, la loro vita è infatti determinata da certe leggi, ma non sono indotti all’obbedienza dalla sanzione, né il loro
comportamento giudicato. Dunque, ogni volta che parliamo di leggi che governano il mondo non razionale l’impiego metaforico
del termine legge è dato da una analogia: 1. Vi è una uniformità di successione nei comportamenti che somiglia alla successione
prodotta da una legge imperativa; 2. Questa uniformità di condotta proviene da un autore intelligente e razionale, come per le
leggi imperative. Esempio, quando parliamo di regole dell’arte, si ha un impiego metaforico del termine regola, e si intende quel
modello che si consiglia di osservare per i praticanti d’arte. Non vi è sanzione non vi è dovere, ma guidano comunque la condotta.
Le leggi in senso figurato vengono spesso scambiate per leggi imperative in senso proprio. In questa materia gli errori non sono
impossibili. In un estratto di Ulpiano all’inizio delle Pandette, viene distinto un ius naturale comune a tutti gli esseri viventi, da un
ius naturale gentium comune agli uomini. L’ius animale è governato dagli istinti degli animali che li induce a nutrirsi a propagare
la specie ecc. queste leggi, legate per analogia debole alle legge propriamente dette, spingono gli animali ad agire in modo
uniforme, ma non devono essere mischiate con le leggi propriamente dette. Ma è pur vero che anche l’uomo è guidato da leggi
dell’istinto per i figli o il coniuge, fu questo probabilmente il motivo che spine Ulpiano ad assimilare gli istinti animali alle leggi
imperative propriamente dette. Austin, dalla confusione tra leggi in senso metaforico e leggi imperative propriamente dette passa a
Bentham. Come sappiamo per Austin vi sono le sanzioni derivanti dal diritto positivo,
naturale e da Dio; Bentham ne aggiunge un’altra, le sanzioni fisiche o naturali, ossia la sanzione fisica è un male arrecato a chi lo
subisce da un’azione o omissione sua propria. Austin ribatte: benché sia arrecata a chi lo subisce da una sua azione o omissione,
non si può dire che ciò avvenga in virtù di una legge morale, divina o positiva. Per esempio se una casa bruciasse per negligenza,
noi subiamo una sanzione fisica, ma non per mano divina. Per dirla come diceva Locke “ si tratta di un male naturalmente
prodotto dalla condotta cui consegue: essendo naturalmente prodotto da tale condotta, esso colpisce chi la subisce senza
l’intervento di una legge”. Questi mali fisici o naturali sono legati al termine sanzione per la seguente analogia: sono
effettivamente subiti a seguito di azioni o omissioni, e prima di essere subiti sono influenzati dalla volontà di coloro che possono
subirli. Tuttavia, nonostante l’apparente analogia, non si può parlare propriamente di sanzione, in quanto questi mali non derivano
da inosservanza di volontà di esseri superiori
Nella VI Lezione Austin si dedica al tema della sovranità e della società politica indipendente, al fine di distinguere la
giurisprudenza dagli altri campi che la circondano. La giurisprudenza per l’autore ha per oggetto il diritto positivo: ”ogni legge
positiva è posta da un sovrano, individuale o collettivo, nella cui società politica indipendente è sovrano. Ma per egli può parlarsi
di sovranità solo se i consociati obbediscono effettivamente ad un superiore comune, e quest’ultimo non obbedisca ad alcuno. È
questa la c.d. habit of obedience. Ciononostante riprende quasi alla lettera la fondazione utilitaristica dell’obbligo politico
avanzata nella lezione II, Austin, infatti non fonda l’obbligo politico sull’abitudine all’obbedienza, bensì sul principio di utilità, al
di là dell’impianto hobbesiano, è proprio di Hobbes che in tale lezione evidenzia un errore. Secondo l’autore, Hobbes cerca di
infondere l’obbligo religioso di obbedire, senza tener conto dei casi in cui la disobbedienza è consigliata dallo stesso principio di
utilità che suggerisce il dovere di sottomettersi. In particolare in tale lezione Austin, individua i caratteri delle leggi positive
propriamente dette, che costituiscono l’oggetto proprio della giurisprudenza, analizzando i termini sovranità- soggezione- società
politica indipendente. Ogni legge positiva o ogni legge in senso stretto è posta da un sovrano, individuale o collettivo, ad una o più
persone che siano sudditi del suo autore. La superiorità chiamata sovranità e la società politica indipendente cui la sovranità rinvia
si distinguono da altre superiorità o da altre società poiché la maggior parte della società in questione condivide una abitudine
all’obbedienza o sottomissione nei confronti di un superiore comune e quest’ ultimo non ha abitudine all’obbedienza nei confronti
di un altro supremo umano, si configura quindi una relazione reciproca fra società e superiore che può essere denominata
relazione sovrano-suddito o superiore-subordinato. Quando un determinato superiore umano non abbia l’abitudine ad obbedire ad
un altro e riceve obbedienza dalla maggioranza della società, è sovrano in quella società politica indipendente che non va intesa
come tutta la società bensì come la parte sovrana di essa che rende l’ obbedienza abituale. Deve ritenersi pertanto costituita da un
sovrano e dai suoi sudditi in contrapposizione a quella costituita interamente da sudditi. Si tratta di una società, quindi libera ed
indipendente perché condivide spontaneamente l’ abitudine all’ obbedienza nei confronti del superiore comune e determinato.
Qualora la generalità dei suoi membri obbedisca ad un superiore determinato in modo occasionale o transitorio è esclusa la
relazione sovrano-suddito, e dunque non si ha una società politica indipendente. Inoltre, se l’obbedienza abituale non viene dalla
maggioranza, la società in questione si trova divisa in due o più società politiche indipendenti. Perché una data società possa
formare una società politica, la maggior parte dei suoi membri deve obbedire abitualmente a un superiore tanto determinato
quanto comune, e quel superiore a sua volta non deve obbedire abitualmente a un superiore umano determinato. Supponiamo che
il viceré comandi abitualmente entro i confini della propria provincia e riceva abituale obbedienza dalla maggioranza, sembra sia
una società politica indipendente, ma il viceré in realtà è subordinato al sovrano, dunque questa sarà una società di natura, perché
nessuno vive direttamente sotto la sua soggezione, ma sotto quella del sovrano. Non è agevole tuttavia stabilire dei canoni generali
validi per ogni società volti a stabilire in che percentuale vada calcolata la maggioranza e a che punto l’ obbedienza possa essere
valutata come abituale, pertanto, la definizione di società politica indipendente è vaga ed incerta, al punto che provoca problemi
nell’applicazione del diritto internazionale. Supponiamo una società che possa essere chiamata indipendente, costituita da un
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numero di membri non ridotto, ma che vive in condizioni quasi primitive. Questa società non ha abitudine all’obbedienza nei
confronti di un superiore, ma in caso di attacco la maggioranza in grado di portare le armi si sottomette ad un capo, e appena tale
esigenza passa, la sottomissione transitoria cessa. Le leggi osservate da tale comunità sono meramente consuetudinarie, ma non
sostenute da sanzioni giuridiche o politiche, e ogni famiglia presta abituale obbedienza al suo capo abituale. Dunque si può parlare
di società naturale ma non di società politica, in quanto non obbedisce a un superiore comune se non in caso di necessità
transitorio. Sappiamo dunque, che una società indipendente per essere politica non deve scendere sotto a un certo numero di
componenti, ma il numero minimo non può essere fissato precisamente. Certo è però che ogni società politica e indipendente è
divisibile in due parti:
- quella sovrana e suprema
- quella costituita dai sudditi
Nel caso in cui la parte sovrana consista:
a. in un solo membro si parla di monarchia, ove la parte sovrana è puramente il monarca
b. se vi è pluralità di membri si parla di aristocrazia
Le aristocrazie nel significato generico a loro volta vengono suddivise in:
1. oligarchie, se la percentuale dei componenti della sovranità rispetto alla comunità è molto basso
2. aristocrazie in senso stretto, se la percentuale è bassa ma non estremamente
3. democrazie, se la percentuale è elevata.
All’ interno di esse l’individuo particolare non è sovrano, ma uno dei membri della collettività sovrana, e pertanto
suddito del gruppo sovrano. Quella dell’aristocrazia potrebbe essere definita, quindi, come una “monarchia limitata”.
In essa come in ogni altra società politica ogni sovrano effettivo esercita i propri poteri direttamente o attraverso
subordinati politici o delegati, una pratica che risulta necessaria quando il numero dei componenti della società è
grande e quando il territorio è molto vasto. La delega può avvenire in due modi, il sovrano:
1. Può delegare i poteri a titolo fiduciario o condizionato
2. Può delegare i poteri assolutamente o incondizionatamente a seconda che l assemblea rappresentativa sostituisca
completamente il corpo elettorale per il tempo il quale è eletta e nominata, o che in tale periodo sia completamente
investita dal carattere sovrano dell’altro.
In tale ambito la distinzione dei poteri politici in legislativi ed esecutivi non coincide con la distinzione fra poteri supremi e
subordinati. Secondo la distinzione di alcuni critici il potere legislativo coincide con il creare leggi e quello esecutivo con
l’applicarle, ma in realtà la maggior parte dei poteri considerati esecutivi o amministrativi consistono essi stessi di poteri
legislativi, o richiedono poteri che sono legislativi, di conseguenza i poteri sovrani legislativi ed esecutivi non sempre
appartengono a soggetti distinti, ad esempio molte delle leggi fatte dal parlamento britannico sono considerate strumentali al
funzionamento di altre e dunque il loro obiettivo è esecutivo, in molte società poi vengono esercitati direttamente dal legislatore
anche poteri giudiziari. Nell’impero romano ad esempio gli imperatori emanavano costituzioni chiamate decreta o sentenze. Di
tutte le comprensive distinzioni tra poteri politici, quella che li divide in supremi e subordinati è forse l’unica precisa. Sono infatti
supremi i poteri politici che appartengono o a un sovrano o a un governo collegiale. Sono subordinate quelle parti dei poteri
supremi che vengono delegate a subordinati politici, sia che si tratti di meri subordinati o sudditi. Così si sono date in Europa
molte comunità politiche che sono state definite come stati a sovranità limitata o imperfetta. Secondo gli autori di diritto
internazionale positivo un governo si definisce a sovranità limitata o imperfetta, se nonostante la sua semi-dipendenza,
possiede la maggior parte dei poteri politici sovrani che spettano ad un interamente o perfettamente supremo, dunque ogni
governo considerato imperfettamente supremo si trova in una delle tre seguenti situazioni:
a. è perfettamente suddito di un altro governo
b. né è perfettamente indipendente
c. è sovrano congiuntamente con l’altro.
In moltissimi casi poi i poteri politici vengono esercitati su una comunità politica dal governo di una comunità politica estera,
ma il governo della prima comunità non ha una sovranità limitata se il governo del secondo non detiene questi poteri politici. Un
esempio sta nei particolari governi tedeschi che dipendevano direttamente dal governo imperiale ed erano chiamati semisovrani,
all’ interno dei quali però vi era un’ ulteriore problema, inerente ai sudditi. Ogni qualvolta il componente di un gruppo sovrano in
una comunità era anche componente del gruppo sovrano in un’altra, essere sudditi rispetto al primo non sempre era compatibile
con l’essere anche sudditi del secondo. Questo accadeva ad esempio nell’unione federale di diverse società politiche. In
particolare nel caso di uno stato complesso o di governo federale, i diversi governi delle diverse società dell’unione federale sono
congiuntamente sovrane, uniformandosi in un’unica società politica indipendente. Un governo supremo federale e un governo
supremo non federale si distinguono soltanto per il fatto che gli stati che partecipano al governo federale non si trovano in uno
stato di mera soggezione, ma non sono nemmeno completamente sovrani nelle loro società, altrimenti non sarebbero membri di
uno stato complesso. Se il governo centrale fosse esso stesso sovrano, o se lo fosse ognuno dei governi federati, la società in
questione non costituirebbe uno stato complesso. Va osservato inoltre che se un membro componente del corpo sovrano, benché
giuridicamente non responsabile sarebbe comunque trattenuto dall’esercizio incostituzionale sia perché vincolato moralmente, sia
perché una trasgressione alla sua legge incostituzionale non sarebbe considerata illegale. Inoltre, se il componente è esente da
obblighi giuridici in qualità di membro dell’ente, sarà tuttavia soggetto a vincoli giuridici in altre sue qualità, in quanto obbedisce
alle leggi fatte dal gruppo sovrano.
Ad ogni modo ogni diritto giuridico è creato da una legge positiva e corrisponde ad un dovere imposto dalla stesse legge, che
ricade su persone diverse alle quali spetta il diritto. Dunque una legge positiva conferisce un diritto e impone il relativo dovere.
Per ogni diritto del genere si danno 3 soggetti distinti:
- il titolare del diritto
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- quello che rispetta il dovere correlativo al diritto
- il governo che pone la legge: non può acquisire diritti tramite leggi che esso stesso pone ai sudditi, poiché chi
gode di un diritto lo acquisisce dalla forza ed un potere altrui pertanto se un governo fosse titolare di diritti nei
confronti dei sudditi, la legge positiva sarebbe creata da un terzo sovrano, il che è impossibile. Il governo
ciononostante gode di diritti religiosi dati da un superiore comune, diritti morali che corrispondono a doveri nei
confronti dei sudditi. Così tale impiego del termine diritto somiglia al termine giustizia poiché un atto che si
conforma alla legge divina è considerato giusto ed utile, al contrario ingiusto o nocivo, di conseguenza, quello che il
governo ha diritto di fare è un atto utile, quello che non ha diritto di fare atto inutile e nocivo. Lo scopo o fine
proprio di un governo politico sovrano è il maggior sviluppo possibile della felicità umana, scopo dal quale
possiamo ricavare le cause dell’obbedienza presentate abitualmente dai più di una società illuminata. Se la società
fosse sufficientemente istruita o illuminata tale obbedienza sarebbe fondata sul principio di utilità, i sudditi, in
particolare, credendo che il governa raggiunga perfettamente il suo scopo, faranno di tale circostanza motivo per
obbedire. Poiché, però, ogni società non è perfettamente istruita ed illuminata, l’obbedienza risulta più come una
conseguenza all’abitudine e all’ affetto nei confronti del governo stabilito. Tuttavia anche quando la comunità lo
detestasse, avvertendo che cambiarlo significherebbe inaugurare un periodo di anarchia che sarebbe ancor più
detestabile, farà di ciò la sola causa dell’obbedienza abituale. Secondo l’opinione corrente durata e origine del
governo risiedono infatti nel popolo, fonte del potere sovrano. Se il popolo ama il governo è determinato ad
obbedirgli abitualmente per attaccamento, se lo odia, per timore di una rivoluzione violenta. Dunque il popolo è
spinto all’obbedienza abituale per diversi motivi, che tengono in vita il governo, che altrimenti cesserebbe di
esistere. Ciò significa che se il popolo ritiene giusto il governo la sua sarà una sottomissione volontaria libera, se
invece ritiene nocivo il governo ma comunque vi si sottomette per paura dei mali che seguirebbe al rifiuto di
sottomettersi, la sottomissione sarà sentita come imposta. Ogni governo può essere pertanto:
1. de jure: governo considerato legittimo, retto o giusto, ma che avendo perso potere ed essendo caduto, al momento
non riceve abituale obbedienza.
2. de facto: governo illegittimo o ingiusto ma che essendo effettivo riceve abituale obbedienza dalla maggioranza
della comunità.
3. sia de jure che de facto; governo considerato legittimo, retto o giusto che riceve obbedienza dalla maggioranza
della comunità politica indipendente
Una distinzione che rispetto al diritto positivo, è priva di significato, un governo politico sovrano stabilito o effettivo
rispetto allo stesso diritto non è né illegittimo né il legittimato, né buono né ingiusto, né legale né illegale e allo
stesso modo un governo sovrano stabilito rispetto al diritto positivo della propria comunità indipendente non è né
legittimo né illegittimo, altrimenti sarebbe tale in base ad un diritto che egli stesso ha prodotto e ciò è assurdo.
Rispetto alla moralità positiva invece un governo de facto non è illegittimo se la comunità lo ritiene legittimo, se l’
opinione è avversa, sarà moralmente illegittimo.

Ad ogni modo, in ogni comunità governata da un monarca o da un’assemblea sovrana i sudditi hanno doveri verso il monarca:
a. in parte giuridici discendono da leggi positive che esso stesso ha imposto
b. in parte religiosi, discendono dalla legge divina secondo il principio di utilità, se il governo incrementa il benessere
generale, i sudditi sono religiosamente vincolati a prestargli obbedienza.
c. in parte morali
Molti autori si sono soffermati ad indagare sull’origine di tali obblighi, o almeno di quelli imposti da Dio, facendo leva
sull’ipotesi dell’accordo o convenzione originaria, o patto civile fondamentale. Secondo tale ipotesi, il processo di formazione
dell’accordo o patto si basa su 3 stadi:
1. Nel primo, i futuri membri della comunità in formazione decidono di unirsi in una società libera ed indipendente fissando lo
scopo principale della loro unione, che corrisponde al progresso della felicità umana. factum unionis
2. Dopo aver deciso di unirsi in una società libera indipendente fissano la costituzione del suo governo politico sovrano, ossia
scelgono colui o coloro che deterranno la sovranità; factum ordinationis
3. Nel terzo stadio vi è uno scambio di promesse fra sovrano e sudditi, il sovrano promette di perseguire lo scopo per cui è nata la
comunità libera indipendente e i sudditi promettono obbedienza. Subjectionis, ove sudditi e sovrano sono vincolati.
Da qui la critica di Austin secondo cui ogni convenzione giuridicamente vincolante, deve la propria obbligatorietà ad una legge
positiva, dunque non è il patto civile fondamentale che fa sorgere il potere giuridico, ma è la legge che obbliga giuridicamente e fa
sorgere quella convenzione, di conseguenza, se il governo fosse sottoposto giuridicamente al patto civile fondamentale, i doveri
giuridici discenderebbero da una legge positiva che rendono obbligatorio il patto, e dunque tale legge per vincolare il governo
dovrebbe provenire da un terzo sovrano e il governo si troverebbe in uno stato di soggezione. Il patto, dunque, non può derivare
dall’obbligatorietà di una legge positiva, ma da quella religiosa o morale. Un’ analisi che mostra come anche quando la
formazione della società politica indipendente fosse preceduta da un patto civile fondamentale, nessuno dei doveri giuridici o
religiosi gravanti sul sovrano o sui sudditi potrebbe essere influenzato da tale precedente convenzione. Tra i doveri del sovrano
verso i sudditi, e i doveri dei sudditi verso il sovrano sono solo i doveri morali ad essere interessati da qualunque patto originario,
e dunque il patto stesso risulterebbe inutile o controproducente. Ogni convenzione, patto o accordo consistono in promesse
reciproche accettate, i cui principali elementi sono dati da:
- una dichiarazione da parte del promittente della sua intenzione di compiere o non compiere azioni
- una dichiarazione da parte del promissario che attende l adempimento della promessa da parte del promissario.

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Basta una rapida riflessione dunque per capire che tali promesse sono talmente essenziali che non si può parlare di accordo vero e
proprio ma è necessario aggiungere che l’ipotesi del patto originario, non ha alcun fondamento in fatti effettivi. Non si hanno
prove storiche che questa ipotesi si sia realizzata, cioè che la formazione di una società libera e indipendente sia mai stata
preceduta da un patto originario. Ma nella maggior parte delle società politiche indipendenti la costituzione delle istituzioni è
semplicemente emersa lentamente da regole morali positive prodotte da diverse generazioni di membri della comunità, di
conseguenza le istituzioni non sono state create dai membri originari della collettività, ma è stata opera di una lunga serie di
autori. Se poi fossero reperibili storicamente degli effettivi patti secondo cui un patto originario necessariamente precede la
formazione di una società libera indipendente allora l’ipotesi di Austin sarebbe errata. I difensori di tale ipotesi invece ammettono
l esistenza di un patto originario tacito. Se questo fosse vero la maggior parte della popolazione non avrebbe potuto partecipare a
tale patto originario, dunque anche questa ipotesi non può essere veritiera. I recenti e attuali difensori del patto originario
ammettono che esso non è fatto storico, ma comunque fondamento della società libera indipendente è il patto civile fondamentale,
come condizione alla quale le istituzioni politiche possano essere considerate rette o legittime, cioè conformi alle legge di Dio.

*Bentham definisce la società politica “quando si ritiene che un certo numero di persone condividono l abitudine di prestare
obbedienza a una persona certa e conosciuta e si ritiene che queste persone insieme costituiscano uno stato di società politica”.
Per Austin, tuttavia, tale definizione è inadeguate e difettosa, perché il superiore deve essere anche abitualmente obbedito e a sua
volta non deve obbedire ad altro.
*Hobbes definiva, invece, la società politica ed indipendente quando manteneva la propria indipendenza contro attacchi esterni
con la propria forza senza ricorrere ad aiuti esterni. Anche tale definizione per Austin è difettosa poiché nella storia del genere
umano molte società politiche indipendenti definite deboli difficilmente potrebbero mantenere l’indipendenza senza coalizione
con altre nazioni.
*Grozio, il potere sovrano è perfettamente o completamente indipendente da ogni altro potere umano, nella misura in cui i suoi
atti non possono essere annullati da alcuna volontà umana diversa dalla sua, a ciò, Austin replica sostenendo che Grozio tiene
conto esclusivamente della relazione fra sovrani, ma trascura la relazione sovrano-sudditi.

In conclusione possiamo affermare che l’oggetto proprio della giurisprudenza è il diritto positivo, intendendo per diritto
positivo quello stabilito o positum in una comunità libera indipendente su autorizzazione espressa o tacita del suo governo
supremo.
Collegate l’una all’altra, le leggi e regole positive di una comunità particolare, costituiscono un corpo di leggi e, dunque, la
giurisprudenza potrà essere particolare o nazionale. Benché ogni sistema giuridico abbia caratteristiche sue proprie, esistono
principi comuni ai diversi sistemi, tali da costituire analogie o somiglianze, dando origine ad una giurisprudenza generale o
filosofia del diritto positivo. In particolare ogni sistema giuridico contiene tali principi e distinzioni:
1. Nozione di dovere, diritto soggettivo, libertà, atto illecito, pena risarcimento;
2. Diritto scritto o promulgato e diritto non scritto non promulgato;
3. Diritti soggettivi validi erga omnes e diritti soggettivi validi per soggetti specifici;
4. Distinzione fra obblighi che nascono da contratto e quelli che nascono da atto illecito;
5. Distinzione fra illeciti civile ed illeciti penali;
accanto ad essi ve ne sono poi altri non necessari, ma comunque evidenti. Ne è esempio la distinzione fra ius personam e ius
rerum nel diritto romano, come sistemazione scientifica di insieme di leggi, poi adottata nelle moderne nazioni europee.
I termini chiave che ricorrono in ogni settore sono diritto, diritto soggettivo, obbligo illecito, sanzione, nonostante siano concetti
chiari, in realtà sono soggetti ad ambiguità in quanto il loro significato è molto complesso. Molti che scrivono di diritto hanno
cercato di dare un significato a tali nozioni, ma in realtà spesso questo le ha portate in una oscurità ancora più fitta. Infatti molte
classi di leggi che andrebbero distinte ricadono erroneamente sotto lo stesso nome causando confusione fra diritto in senso
proprio e morale. Ad esempio la distinzione fra diritto scritto e non scritto è piena di difficoltà; lo stesso termine giurisprudenza
non è libero da ambiguità. Per noi la giurisprudenza è la scienza di ciò che è essenziale al diritto, combinata con la scienza di ciò
che esso dovrebbe essere. Essa si distingue in particolare, scienza di ogni sistema giuridico effettivo, meramente pratica, e
giurisprudenza universale, che ha come oggetto la descrizione di oggetti e fini del diritto che sono comuni a tutti i sistemi, o
corrispondono ad aspetti simili. Benché i punti in cui le leggi delle diverse nazioni dovrebbero essere le stesse siano relativamente
poche, esiste molto spazio per la scienza della legislazione universale ove gli aspetti non perfettamente identici possono essere
trattati insieme tenendo conto della parte in comune e delle differenze. Nel caso in cui le differenze siano inevitabili questo
dipende dalle diverse situazioni nazionali. Ad esempio, il diritto romano fra tutti i sistemi giuridici diverso dall’inglese quello che
ha più influenzato il diritto positivo dell’Europa moderna, ma non può dirsi che sia limitato solo ad alcuni paesi, ma non può dirsi
che il civil law non attinga dal diritto romano, in quanto le sue massime sono prese ad esempio per tutte le epoche successive. La
quantità delle somiglianze fra diritto romano e quello inglese infatti non deve sorprendere: il sistema di equità si è formato più o
meno largamente sulla tradizione romanistica mediata dal diritto canonico. Dunque una solida conoscenza dei principi generali del
diritto favorisce la conoscenza dei principi inglese, non per la rassomiglianza ma per carpire le differenze immediate. Se
l’esposizione della scienza venisse fatta conformemente a tale metodo, spiegando i principi guida del diritto romano e della civil
law, si spiegherebbero anche i termini chiave. È l’accurata e pronta percezione delle analogie che costituisce il fondamento dello
studio del diritto.

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