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A che punto sono le rivoluzioni?

Proteste anche in Siria, atlante


ragionato delle rivolte nei paesi arabi di Guido De Franceschi

Tutto è cominciato in Algeria e Tunisia con quella che ai primi di gennaio è stata ribattezzata la rivolta
del couscous. La fiammata dei prezzi delle materie prime alimentari sui mercati internazionali aveva
reso improvvisamente più acuta la crisi dei due paesi nordafricani. Certo, nessuno avrebbe potuto
immaginare un effetto domino tale da mettere in crisi alcuni tra i regimi più solidi del mondo arabo, da
quello del tunisino Ben Ali a quello del rais egiziano Mubarak. Eppure così è stato. Anzi. La rivolta si è
rapidamente estesa, anche grazie all'uso dei social network come twitter e facebook, fino al Golfo
Persico. Ecco cosa è accaduto e sta accadendo in Nord Africa e nel Medio Oriente, a cominciare dalla
Tunisia e, a seguire, negli altri paesi.

Egitto
di Guido De Franceschi 22 marzo 2011 questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011

Hosni Mubarak
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Le prime proteste di piazza in Egitto si sviluppano il 25 gennaio al Cairo e ad Alessandria. Le parole
d'ordine dei manifestanti sono: basta con la corruzione, più lavoro, più libertà, prezzi meno alti per i
beni di primo consumo e soprattutto stop al regime autoritario del "Faraone" Hosni Mubarak, al potere
da trent'anni e da tempo impegnato ad aprire per il figlio Gamal una strada moquettata verso la sua
successione. I disordini si diffondono in molte città (i morti, alla fine, saranno più di 350). Piazza Tahrir
al Cairo diventa il cuore geografico e simbolico della "Rivoluzione del Loto". Il 29 gennaio viene
nominato vicepresidente l'ex capo dei Servizi egiziani, Omar Suleiman. Sarà lui ad annunciare, l'11
febbraio, la fine dell'era di Hosni Mubarak. L'ex presidente, anziano e malato, si è ritirato lontano dal
palcoscenico a Sharm el-Sheikh. Il potere passa temporaneamente all'Alto Consiglio militare. Il 3 marzo
si dimette il primo ministro Ahmed Shafik. Lo sostituisce Essam Sharaf. Nella seconda settimana di
marzo si registrano scontri di origine confessionale tra copti e musulmani, con alcuni morti. L'8 marzo
gruppi di uomini aggrediscono una manifestazione di donne in piazza Tahrir. Il 19 marzo nel
referendum costituzionale vince con il 77 per cento il "sì", sostenuto, tra gli altri, dai Fratelli Musulmani
(mentre la gran parte dei partiti politici di opposizione si erano espressi per il "no").

Libia, la rivolta più veloce e la repressione brutale


di Guido De FranceschiCronologia articolo22 marzo 2011

 Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 18:04.

Muhammar Gheddafi

A metà febbraio le proteste che infiammano una parte consistente del mondo arabo raggiungono anche
la Libia del colonnello Muammar Gheddafi. In pochissimi giorni la situazione va fuori controllo. Ci
sono violenti scontri tra manifestanti antigovernativi e gruppi che sostengono il rais. Il regime decide di
applicare la massima brutalità nel tentativo di stroncare la rivolta. Già nei primi giorni di repressione si
contano centinaia di morti e moltissimi feriti. Le città principali sprofondano nel caos, migliaia di
persone occupano la Piazza Verde di Tripoli, i palazzi del potere vengono dati alle fiamme, la Libia si
trova isolata e le notizie iniziano a rincorrersi confuse. Voci su importanti defezioni nell'esercito si
mescolano a quelle di tentativi di un golpe militare, politici e diplomatici iniziano a sfilarsi dal regime.
Voci non confermate danno Gheddafi in fuga, forse verso il Venezuela. Poi mentre le violenze
continuano con bombardamenti sui civili e i morti diventano molte migliaia, forse più di diecimila (ma
è ancora impossibile fare stime esatte sul numero delle vittime), il 22 febbraio il leader della Jamahiriya,
Gheddafi, appare in tv da Tripoli, esprimendo terribili messaggi sulla sua volontà di combattere "fino
all'ultima goccia di sangue" ed eventualmente di "morire come un martire". Mentre miliziani mercenari
provenienti da altri paesi africani convergono sulla Libia per dar manforte al regime del colonnello e al
Qaeda cerca di infilarsi nella contesa manifestando il suo appoggio interessato agli oppositori di
Gheddafi, la Libia naufraga nel sangue. Nel corso dell'ultima settimana di febbraio molte città cadono in
mano agli insorti, la Cirenaica si dichiara "zona liberata" dal governo di Gheddafi. Il regime continua a
bombardare altri centri. Auto e furgoni stracarichi cercano di allontanarsi dalle zone più calde. Tra
mercoledì 23 febbraio e giovedì 24, Gheddafi e i suoi fedeli si asserragliano a Tripoli. Il rais è rifugiato
nel bunker di Bab al-Aziziya, nella capitale. Gli scontri, violentissimi, proseguono venerdì 25 e nei
giorni successivi. Le Nazioni Unite decidono di comminare sanzioni nei confronti del regime di
Gheddafi. Il 27 febbraio a Bengasi si forma un Consiglio nazionale di transizione, che ha l'obiettivo di
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raccogliere in un fronte comune tutte le città controllate dagli insorti. Nella prima settimana di marzo si
combatte nelle città di Brega, di Al Zawiya, nel centro petrolifero di Ras Lanuf, bombardato
dall'aviazione fedele a Gheddafi. Il 7 e l'8 marzo sui network televisivi arabi si rincorrono voci su
possibili trattative tra i ribelli e Gheddafi per un'uscita di scena, con garanzie, per il Colonnello. Nei
giorni successivi la controffensiva di Gheddafi si rivela efficace. Il 17 marzo viene approvata la
risoluzione 1973 delle Nazioni Unite che autorizza la comunità internazionale a istituire una no-fly zone
sulla Libia e a impiegare ogni mezzo necessario alla protezione dei civili e all'imposizione del cessate il
fuoco. La Francia si distingue per interventismo, ma sono vari i paesi impegnati nella missione
"Odyssey Dawn" tra cui gli Stati Uniti e l'Italia. In Libia è guerra. Continuano gli scontri tra le truppe
lealiste e gli insorti e, a partire dal 19 marzo, iniziano i bombardamenti aerei della coalizione
internazionale su obiettivi strategici in vista dell'istituzione e del controllo di una efficace no-fly zone.
Tra i paesi partecipanti alle operazioni si verifica qualche attrito riguardo alla leadership della missione.

Algeria
di Guido De FranceschiCronologia articolo22 marzo 2011

Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 17:58.

Abdelaziz Bouteflika

A partire da gennaio, l'Algeria ha assistito a varie proteste antigovernative che hanno portato in
superficie il malessere che da tempo sobbolle nel più vasto paese del Maghreb. I principali motivi di
malcontento sono la disoccupazione e la corruzione diffuse, l'aumento dei prezzi per i beni di prima
necessità e il persistere di pratiche di governo autoritarie. Nel mese di gennaio, alcuni algerini si sono
autoimmolati, a imitazione del tunisino Mohamed Bouazizi che, dandosi fuoco, aveva innescato la
rivolta popolare nel suo paese. Il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999, ha
cercato di calmare gli animi revocando lo stato di emergenza in vigore da 19 anni. Secondo molti
osservatori si tratta di una manovra più che altro simbolica. Nonostante rimanga vigente il divieto di
manifestazioni, nelle ultime settimane di febbraio e nei primi giorni di marzo gruppi di dimostranti
scendono in piazza in ripetute occasioni, controllati da consistenti dispiegamenti delle forze di
sicurezza. Il 5 marzo uno dei leader dell'opposizione, il capo del partito Raggruppamento per la cultura
e la democrazia, Said Sadi (che fa parte del Coordinamento per la democrazia e il cambio, il movimento
che guida le proteste), è aggredito da contromanifestanti lealisti. Il 7 marzo scendono in piazza,
nonostante i divieti, migliaia di agenti della polizia locale, che chiedono stipendi migliori. I disordini nel
paese rimangono più che altro in potenza. Probabilmente ha il suo peso il ricordo dei massacri che
sconvolsero l'Algeria negli anni Novanta, nel corso del conflitto stragista e fratricida (circa
duecentomila vittime) seguito all'annullamento del risultato di elezioni vinte dal partito islamista Fis.

Bahrain, il sovrano negozia con gli oppositori


di Guido De FranceschiCronologia articolo22 marzo 2011

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 Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 17:58.

Hamad bin Isa al-Khalifa

In Bahrain, miniarcipelago nel Golfo Persico che ospita la Quinta Flotta della Marina militare
americana, a metà febbraio hanno inizio grandi proteste contro il re Hamad bin Isa al-Khalifa. Le
manifestazioni, che si irradiano da Piazza della Perla nella capitale Manama, chiedono che la dinastia
regnante promuova riforme politiche sostanziali. Ma il quid della protesta è da ricercarsi nel fatto che,
mentre la dinastia regnante è sunnita, circa il 70 per cento della popolazione autoctona del paese è sciita
ed è assai sottorappresentata politicamente e da sempre penalizzata in ogni ambito della società a
vantaggio della minoranza sunnita. Nella terza settimana di febbraio la brutale repressione delle proteste
di piazza causa sette morti. Il 22 febbraio una folla impressionante, in proporzione alla popolazione
totale del Bahrain, si raduna in Piazza della Perla. I principali movimenti di opposizione esprimono un
pacchetto di richieste: una monarchia davvero costituzionale, una riforma elettorale che non metta
all'angolo gli sciiti, la liberazione di tutti i prigionieri politici, un nuovo governo di salvezza nazionale e
un'inchiesta indipendente sulle sette persone uccise durante le proteste. Intanto il governo libera più di
300 prigionieri politici. Il 3 marzo a Hamad Town si verificano scontri tra cittadini sciiti e sunniti,
facendo ulteriormente emergere il problema della differenza religiosa che scorre sottotraccia alle
proteste. Il 14 marzo arrivano in Bahrain circa mille militari sauditi e 500 poliziotti degli Emirati per
dare manforte al re. Il 15 il sovrano dichiara tre mesi di stato di emergenza. Alcuni leader
dell'opposizione vengono arrestati. Il 18 marzo viene demolito simbolicamente dall'esercito il
monumento di Piazza della Perla, cuore della protesta.

Giordania, il nuovo governo


di Guido De FranceschiCronologia articolo22 marzo 2011

questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 18:02.

re Abdallah

Il Regno di Giordania, a partire da gennaio, è stato attraversato dalle proteste di piazza, particolarmente
accese ogni venerdì, giorno della preghiera. Il 18 febbraio gli scontri tra manifestanti antigovernativi e
supporter lealisti sono particolarmente violenti e causano una decina di feriti. Gli oppositori, fra cui è
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particolarmente attiva la Fratellanza Musulmana, di norma non attaccano direttamente la figura del re
Abdallah II, discendente diretto del Profeta. Sull'onda delle pressioni della piazza, il primo febbraio il
sovrano scioglie il governo e sostituisce il primo ministro Rifai con l'ex generale Marouf al-Bakhit. Il
regno hashemita vive una profonda crisi economica e il malessere è generato dal fatto che un quarto
della popolazione vive in condizioni di severa povertà e il tasso di disoccupazione è molto alto, specie
tra i giovani. La richiesta di riforme politiche ed economiche continua. Venerdì 25 febbraio, le
manifestazioni di protesta raccolgono molte migliaia di partecipanti. Il 7 marzo ad Amman più di
cinquecento giornalisti partecipano a una dimostrazione per chiedere misure che consentano ai media di
essere davvero liberi e indipendenti. Il 15 marzo re Abdallah annuncia una revisione delle leggi
elettorali.

Marocco, la protesta più contenuta


di Guido De FranceschiCronologia articolo22 marzo 2011

Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 18:02.

re Mohammed VI

In Marocco l'ondata di proteste popolari che sconvolge il Maghreb e altri paesi arabi è per ora stata più
contenuta rispetto ai paesi vicini. Nonostante la diffusione della povertà e la carenza di democrazia, il re
Mohammed VI gode di genuina simpatia presso al maggioranza dei suoi sudditi e ha mantenuto fino a
oggi l'immagine di un riformista. In più la sua famiglia vanta una prestigiosa discendenza dal Profeta.
Nonostante il rispetto per il re, anche in Marocco nel corso del mese di febbraio ci sono proteste legate
all'aumento dei prezzi, a una situazione economica difficile per molti e alle richieste di una riduzione
dei poteri in mano al sovrano. Il 20 febbraio alcune decine di migliaia di persone scendono in strada in
varie città del paese. In alcuni casi ci sono episodi di violenza. Nuove proteste, non molto numerose, si
sviluppano anche il 26 febbraio, soprattutto a Casablanca. I manifestanti chiedono una nuova
Costituzione. Il 25 e il 26 febbraio si verificano disordini anche nel Sahara Occidentale, paese che il
Marocco considera parte integrante del suo territorio fin dal 1975. Il 6 marzo alcune centinaia di
manifestanti si radunano nella capitale Rabat per chiedere riforme politiche sintetizzabili nello slogan
base "Vogliamo uno Stato di diritto". Il 9 il re promette di rafforzare i poteri del parlamento e dei partiti
politici e di riformare il potere giudiziario. Il 20 marzo decine migliaia di persone tornano in piazza
chiedendo una nuova Costituzione. È una delle più grandi manifestazioni in decenni di storia del Paese.

Yemen, la rivolta degli universitari


di Guido De FranceschiCronologia articolo22 marzo 2011

Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 18:14.

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Ali Abdullah Saleh

Durante tutto il mese di febbraio decine di migliaia di persone animano ricorrenti manifestazioni
antigovernative nello Yemen, uno degli Stati più poveri della regione. Nella capitale Sana'a gli studenti
universitari sono particolarmente attivi nelle proteste, che chiedono un passo indietro al presidente Ali
Abdullah Saleh, al potere dal 1978, prima nel solo Yemen del Nord e poi nel paese riunificato. Il
presidente promette che non si ricandiderà nelle elezioni del 2013, ma esclude di lasciare il suo posto
prima di allora. Negli ultimi giorni di febbraio violenti scontri oppongono chi protesta e squadracce di
picchiatori "controrivoluzionari" che molti pensano siano stati assoldati e armati dal governo. Si
contano più di dieci vittime. Numerosi deputati del partito di governo lasciano il Parlamento per
protesta contro gli eccessi nella repressione delle violenze. In occasione della preghiera del venerdì, il
25 febbraio decine di migliaia di persone si radunano in strada nella capitale San'a nella più grande
manifestazione dall'inizio delle proteste nel paese arabo. Il 4 marzo un'altra grande manifestazione
chiede le dimissioni del presidente. Intanto nei primi giorni di marzo anche alcuni capi tribali si sfilano
dalla loro alleanza con il regime e si registra la morte di alcuni soldati yemeniti in un attacco attribuito
ad al Qaida. Anche un gruppo che si batte per la secessione del Sud del paese si unisce alle proteste, ma
con obiettivi che nulla hanno a che fare con quelli degli studenti e degli altri oppositori. Nel corso del
mese di marzo ci sono ancora scontri e decine di vittime e centinaia di feriti tra i dimostranti. Spezzoni
dell'esercito si uniscono alle proteste e il paese scivola verso la guerra civile. Saleh vede sgretolarsi il
suo potere e il 22 marzo fa intravedere la possibilità di un suo passo indietro fra circa un anno con un
graduale passaggio di poteri, ma la piazza e le opposizioni rifiutano l'apertura del presidente.

Oman, la protesta per equità e lavoro contro il


sultano Said al Said
di Guido De FranceschiCronologia articolo22 marzo 2011

Questo articolo è stato pubblicato il 28 febbraio 2011 alle ore 15:06.

L'onda di proteste popolari che agita molti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente raggiunge l'Oman
sabato 26 febbraio. Il tradizionalmente sonnacchioso Stato della Penisola arabica, in cui governa fin dal
1970 il sultano Qaboos bin Said al Said, vede scoppiare le prime manifestazioni nell'importante città
portuale di Sohar. Domenica 27 febbraio i dimostranti, che chiedono migliori salari, più lavoro, una
distribuzione più equa dei proventi del petrolio, meno corruzione e le dimissioni del governo, si
scontrano con le forze di sicurezza. La reazione è particolarmente dura: nel corso dei disordini ci sono
due morti e numerosi feriti. Per calmare gli animi, il sultano, che detiene un potere pressoché assoluto
nel paese, annuncia la creazione di 50 mila nuovi posti di lavoro statali e un sussidio mensile per i
disoccupati di 150 rial (poco meno di 400 dollari) e sostituisce alcuni ministri. Lunedì 28 febbraio e nei
giorni successivi si registrano ulteriori disordini. Il sultano fa tre rimpasti governativi in una settimana.
Il 7 marzo avviene la sostituzione più importante nell'esecutivo, quella del ministro dell'Economia
Ahmad Mekki. La mossa è salutata con soddisfazione dai manifestanti. Il 13 marzo il sultano avvia
timide riforme politiche, annunciando che il potere legislativo sarà parzialmente esteso anche a persone
che non appartengono alla famiglia reale.
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Gli altri, da Teheran al Sudan
di Guido De FranceschiCronologia articolo21 ferbbraio 2011

Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 18:01.

In Iran l'opposizione, i cui moti sono stati già brutalmente stroncati nel 2009 dall'efficiente apparato
repressivo della Repubblica Islamica, ha animato nei giorni scorsi altri tentativi di protesta di piazza, a
cui ha fornito combustibile quanto sta accadendo nei paesi arabi che condividono con la non araba
Teheran la fede musulmana. Dopo un corteo è stata arrestata (e poi rilasciata) anche Faezeh Hashemi, la
figlia dell'ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani. La consueta repressione contro le opposizioni ha
causato almeno due morti.
Negli ultimi dieci giorni sono avvenute proteste popolari anche in Iraq e a Sulaymaniyah, nel Kurdistan,
ci sarebbe stata almeno una vittima nel corso di una piccola sollevazione contro il governo locale.

Nello scorso fine settimana l'onda contestataria proveniente da Nord ha colpito anche Gibuti, dove
decine di migliaia di persone hanno partecipato a proteste contro il presidente Ismail Guelleh, succeduto
nel 1999 a suo zio. Ci sono stati violenti scontri che hanno causato alcune vittime. Dal Sudan, che, in
conseguenza di un recente referendum, vedrà a luglio la nascita di un nuovo Stato indipendente nella
sua zona meridionale e vive un clima di tensioni in cui si innesta la crisi non risolta della regione del
Darfur, arriva una notizia inaspettata: il presidente Omar al Bashir afferma con enorme anticipo di non
volersi ricandidare nelle elezioni del 2015, per "accrescere la democrazia". Secondo tutti gli analisti,
l'annuncio di al Bashir ha l'obiettivo di diluire le possibilità che il contagio contestatario travolga anche
il suo paese (e il suo "trono").

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