Sei sulla pagina 1di 4

I pionieri della terapia familiare

La lettura di questo testo rappresenta un viaggio attraverso le radici della terapia familiare con le persone
che hanno creduto fortemente in quello che facevano anche se era del tutto nuovo e sconosciuto.

o N. Ackerman: Sé del terapeuta come strumento per sollecitare il cambiamento


o M. Bowen: Massa indefferenziata dell’Io, triangolare, trigenerazionale
o V. Satir: interesse sulle emozioni positive, prendersi cura, promuovere la crescita
o C. Whitaker: uscire dalla rigidità dei ruoli assegnati, terapeuta centrale per creare la crisi
o J. Framo: consigli per una terapia efficace
o S. Minuchin: fam. Disimpegnate/invischiate;
o J. Haley: mantenere il sintomo, cambiamento senza pensare al significato del cambiamento
o M. Erickson: utilizzazione; osservazione; visione positiva; liv. multipli; atteg. Paradossale; rapport
o M. Palazzoli Sellvini: resilienza.

Ackerman parla delle emozioni e del sé del terapeuta come qualcosa che può essere utilizzato a favore del
cambiamento. Necessario che il paziente conosca le emozioni del terapeuta in modo tale da aprire canali
comunicativi, alimentare l’intimità, ridurre il conflitto, l’ansia. Credo che un buon terapeuta debba avere un
buon contatto con le proprie emozioni cosi che possa rimandare dei contenuti altrimenti inaccessibili ai
propri pazienti e migliorare il contatto reciproco.

Bowen, è stato il primo pioniere che ho conosciuto. Riscontro quanto sia difficile per un individuo
contrapporsi a quelle forze emotive che tendono a mantenere lo stato di coesione familiare per
differenziare il suo sé, quanta energia ci voglia per potersi assumere la responsabilità della propria felicità,
sempre con il rischio di effettuare un taglio emotivo, ponendo più una distanza fisica, una rottura,
illudendosi di conquistare l’indipendenza piuttosto che effettuare una reale differenziazione. E soffrire per
un taglio emotivo quando si ha bisogno di vicinanza emotiva.

“Qualsiasi cosa sia stata nel passato, è stata il meglio che potevamo fare, poiché essa rappresentava il
meglio di ciò che sapevamo, essa rappresentava il meglio della nostra coscienza” (Virginia Satir, 1991).
Sembrano poche parole, ma dicono tanto, ho scoperto di recente la formula “ognuno sta facendo del
proprio meglio, io sto facendo del mio meglio” ed è come una formula magica che permette di abbassare
quel muro di aspettative e richieste eccessive a cui siamo abituati a sottoporci per adottare un’ottica più
indulgente verso sé stessi, e che poi trasferiamo sugli altri, giudicandoli. Una visione più umana verso i
carnefici che siamo rispetto al nostro essere, per venirsi incontro e conciliarsi con sé stessi; sembra questa
l’ottica di Virginia Satir, la capacità di accettarsi, di liberarsi, di vedere, sentire e provare ciò che è piuttosto
che ciò che dovrebbe essere. Ancora una volta prendersi la responsabilità della propria libertà, della propria
felicità, attraverso una “Terza nascita”, quella della consapevolezza che porta a fare scelte proprie
assumendosi tutta la responsabilità. Mi destabilizza come il concetto di sofferenza psichica sia determinato
dalla bassa autostima generata dalle esigenze di equilibrio da parte del sistema che entra in contrasto con i
bisogni di crescita dell’individuo, è come dire “ne sacrifichiamo uno per il bene di tutti”. Dunque il sistema
familiare è un conglomerato di egoismo che non risparmia il benessere di uno per la propria sopravvivenza?
E’ come una scatola che ti ingloba, fin quando resti si mantiene in equilibrio, se provi ad uscire ti si chiude
intorno? Perché non sottoporre tutte le famiglie ad un percorso per “diventare più interamente umani”? Ci
vorrebbero più persone in grado di valorizzare le differenze, sostenere, gratificare, confermare gli individui;
ci sono persone che naturalmente hanno questa dote, sono persone che invidio, vorrei essere come loro e
invece sono dall’altra parte ad aspettare che qualcuno mi valorizzi, sostenga, gratifichi, confermi come
individuo.

Process not progress, quante volte pensiamo a raggiungere obiettivi senza mai fermarci a guardare che c’è
tutto un percorso in divenire da tenere in considerazione. Per Whitaker è fondamentale la ricerca della
persona non dei comportamenti che agisce, forse la ricerca di quell’individuo che si è perso nei
comportamenti che sono il riflesso della famiglia che si porta dentro. Trovo interessante come l’assenza di
qualcuno sia più significativa della presenza di molti, di come la famiglia organizza il proprio mondo
affettivo sui processi di inclusione-esclusione. Non comprendo se l’importanza è posta sull’assenza in sé e
sul significato che essa porta o su ciò che permette di esplorare, accedendo ad altri piani relazionali. In ogni
caso nessun membro della famiglia viene antagonizzato o ritenuto resistente ma questa forza viene
trasformata in energia.

“Le difficoltà che una persona nel presente ha nella vita di coppia, di famiglia o con se stessa possono
essere visti come sforzi riparativi, che hanno lo scopo di correggere, padroneggiare, rendere innocui,
elaborare o cancellare antichi paradigmi relazionali, che sono sentiti come disturbanti e che provengono
dalla famiglia di origine”. Mi soffermo su questa considerazione di James Framo perché spiega quanto sia
potente la storia familiare nell’influenzare le relazioni attuali. C’è una sorta di monito nella mia famiglia ed
è quello di tenerla unita, di non ripercorrere la strada dei miei parenti, questo mi è sempre sembrato più un
modo per riscattare, riparare ciò che si era rotto andandolo ad aggiustare prima che si potesse rompere. A
mio parere, questo tacito accordo ha fatto molti danni, soprattutto per quanto mi riguarda, che sono quella
investita del ruolo dichiarato di tenere unità la famiglia, e quindi mi sono cimentata in mille peripezie per
creare occasioni di incontri, sforzi che mi hanno portata a sbattere contro l’egoismo dei miei familiari, sforzi
che mi hanno portata a rivedere le dinamiche della mia famiglia di origine nella mia coppia anche lì dove
non c’erano e a distorcere quelle che c’erano. Per quanto riguarda la mia famiglia di origine sembra che il
destino sia quasi compiuto, ognuno ha assunto la sua posizione, il ruolo che gli è stato assegnato: i miei
genitori, sembra assurdo, ma ricalcano alla perfezione i comportamenti dei miei nonni paterni (avrei voluto
scrivere errori, ma non vorrei colpevolizzarli); il mio primo fratello, come il fratello di mia madre, è la
vittima del mondo, incapace di intendere e volere deve essere guidato in tutto e per tutto da tutti, non ha
capacità decisionale è la moglie che decide per lui (secondo mia madre, secondo me è un ruolo che gli fa
molto comodo); il mio secondo fratello, ha adottato la tecnica del segreto, nessuno sa niente di lui; e poi ci
sono io che, come mia zia (sorella di mio padre), ho abbandonato mia madre; ora è la nuora che si occupa
di lei, cosi come mia madre ha fatto per anni per i miei nonni paterni. A quanto pare tutti gli sforzi riparativi
hanno avuto un unico epilogo, quello di ripetere la storia della mia famiglia. C’è un punto nei “consigli per
una terapia efficace”, il numero 8: il matrimonio può essere un’esperienza di crescita. Ci riflettevo già da
tempo, io che sono sempre stata contraria al matrimonio sin da piccola, sebbene io e Ivano vivessimo
insieme già da 4 anni qualcosa è cambiato, non so bene cosa ma è stata una spinta a migliorarmi, a crescere
e a provare ad uscire da quel bozzolo che mi teneva rinchiusa da troppo tempo.

Bellissimo il lavoro di Minuchin, un lavoro politico che guarda sia al contesto culturale ma anche a quello
sociale ed economico della famiglia; di come questi influenzano le famiglie che a loro volta si organizzano e
danno l’imprinting ai comportamenti dei singoli individui. Il concetto del blueprint ossia la tendenza da
parte del sistema a ripetere in situazioni nuove l’unico modello che ha appreso. Trovo in questi concetti e
nella propensione di Minuchin ad aiutare i bambini alcuni punti di contatto con il mio vissuto e con la mia
scelta di questa scuola. Sono sinceramente interessata a poter offrire un aiuto alle famiglie che dispongono
di una situazione sociale, culturale, economica svantaggiata; per fornire loro degli strumenti che gli
permettano di andare oltre il bluprint. Era uno dei miei pensieri, fin da piccola, fare il servizio civile, lo
vedevo come un modo per poter aiutare, e quando alla soglia dell’età consentita sono riuscita ad entrare in
un’associazione di volontariato e farlo ci ho messo tutto quello che potevo dare. Da lì mi è nata l’idea che
forse il mio obiettivo professionale si aggira da queste parti. Infine, i bambini sono stati la leva che ha
messo in moto il meccanismo, quelli che hanno pesato nella decisione di iniziare la specializzazione. E’ una
vita che io lavoro con i bambini, sembra quasi che riesca a parlare più con loro che con coetanei e adulti
vari. Ci sono due bambini in particolare che hanno dato una direzione alle mie decisioni: Mario e Melinà.
Mario, un bambino a cui ho fatto da babysitter per sbaglio, per via di un papà che non voleva impegnarsi la
mattinata con il figlio e lo ha delegato a me che ero lì per il cuginetto, contro la volontà di sua moglie. Un
bambino che presentava molte stereotipie, e, a detta della nonna, l’unico gioco che lo divertisse era correre
in tondo e ridere, rigido nella postura. Spesso i due cuginetti, della stessa età (2 anni), stavano con i nonni e
Mario passava il 90% del tempo a piangere. La prima settimana mi limitai ad osservare come, quando e
perché piangeva. Capii che spesso piangeva perché voleva i giochi del cugino, fare ciò che faceva lui, e
molto spesso piangeva perché non capiva cosa succedeva, nessuno glielo spiegava, tutti cominciavano a
lamentarsi e a intimargli di non piangere. Cominciai a spiegargli tutto, perché piangeva, cosa era successo,
che doveva aspettare il suo turno, come si colorava, come si aprivano le mollette. Sono stata 3 settimane
con loro, dopo la prima M. aveva ben altro da fare che correre e ridere e non aveva mai più pianto. L’ultimo
giorno, noi tre eravamo impegnati in un gioco, quando la zia (colei che mi aveva assunta) venne a salutarmi,
ormai era ora di andare, salutai i bambini poi M. mi si gettò al collo, la ritenni una cosa normale fin quando
non sentii la zia urlare e chiedermi urlando come fossi riuscita a fare una cosa del genere e che M. non
aveva mai abbracciato nessuno, nemmeno in famiglia. So che quello che ho fatto con Mario è dargli spazio,
comprenderlo e rendergli le cose più semplici per far sì che comprendesse, e fornirgli delle alternative al
confronto continuo con il cuginetto che doveva sopportare ogni giorno, comunicare con lui. Melinà è una
bambina francese, sua mamma è cugina di Ivano. E’ successo qualcosa quest’estate, rientravamo dalla
nostra metà vacanza in cui avevo respirato l’aria e il coraggio del cambiamento, siamo stati per tre giorni
ospiti a casa della cugina di Ivano, e li sono entrata in rotta di collisione con lei, rigida come non l’avevo mai
vista prima. Melinà è una bambina molto a modo, eppure la mamma aveva sempre qualcosa da
rimproverarle, cose che non rimproverava poi al fratellino. Sebbene non parlassimo la stessa lingua,
comunicavamo tanto, e lei coglieva ogni occasione per stare con me, nonostante la madre la riprendesse e
le chiedesse di non darmi fastidio. Ad ogni rimprovero vedevo sul suo volto un misto di delusione e
dispiacere, ogni volta sempre più intenso. Ed io spesso ero la sua boccata d’aria. Guardandola mi sono
ripromessa che quando sarei rientrata dalle vacanze avrei cercato una scuola di specializzazione che mi
permettesse di lavorare con loro, ho spulciato tutte quelle sul sito del Miur, poi a settembre tornando a
lavoro dai miei bambini, che presentavano più disturbi legati ai familiari che alla scuola, ho capito che non si
può lavorare con i bambini come se una volta aggiustati loro si aggiusta tutta la famiglia.

Haley, mutua la possibilità che nelle famiglie avvenga un’induzione del sintomo attraverso la
comunicazione interpersonale, tale per cui i pattern comunicativi possono indurre in maniera
inconsapevole le persone ad un comportamento piuttosto che un altro; una visione basata
sull’influenzamento negativo più che sulla collaborazione e l’aiuto reciproco, come se Haley scartasse la
fiducia negli individui e si concentrasse sulle tattiche e strategie per resistere al cambiamento. La mancanza
di fiducia negli individui mi fa venire in mente quanto i media e le personalità di spicco ci abbiano fatto
credere che dopo l’emergenza Covid ne saremo usciti migliori, diciamo che credo sia difficile in soli tre mesi
sradicare anni e anni di modi d’essere, si cerca sempre di mantenere stabile la situazione. Ed è su questo
che Haley e il suo gruppo lavorano, prestare attenzione al comportamento osservabile, compreso il
sintomo, con l’obiettivo di interrompere il pattern usuale dei risposta al problema che mantiene immutata
la situazione.

Dalla mia breve esperienza di psicologa, ho capito che le persone cercano nel terapeuta colui che le
cambierà, forse è lo stesso pensiero che ho avuto quando mi sono rivolta alla mia terapeuta, la sensazione
di voler cambiare perché così non mi vado più bene, la sensazione che lei aveva il potere di farlo; in realtà
come dice Erikson nei suoi livelli multipli della terapia, il terapeuta crea l’opportunità di cambiamento, sta
al paziente coglierla e riuscire ad utilizzarla. Molte occasioni, credo di averle colte e riguardano me e la mia
coppia, tante altre mi sono sfuggite. E’ molto più semplice lavorare sulla coppia che su cinque persone.

Resilienza, è la parola che apre il paragrafo dedicato a Mara Palazzoli Selvini, quella della Palazzoli Selvini è
una storia di resilienza, di una donna che trova dentro sé la forza per non cessare di combattere, per essere
attiva protagonista della sua vita, aveva la capacità di non sentirsi vittima impotente. Riesce ad essere
sempre se stessa perché quello che ha scelto l’ha scelto solo lei e lo ha scelto per se stessa. Ho adorato
leggere di Mara Palazzoli Selvini, e ho trascritto queste frasi per ricordarmi che vorrei essere come lei.

Ho tagliato e re-incollato alcuni racconti mi sembravano fuori luogo e troppi, dopo diversi tentativi di farli
fuori ho deciso di tenerli mi sembrava di sprecare un’occasione, quelli di tirarli fuori dalla mia testa.

Angela Cecere

Potrebbero piacerti anche