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Aspetti di morfosintassi dell’antico persiano 195

Interessante è, poi, il caso di un’espressione dal probabile significato


‘impalare’, costituita dalla forma uzmayāpatiy seguita da una voce del
verbo kar- (‘fare’), che rinveniamo in quattro luoghi dell’iscrizione di
Bīsutūn, e precisamente in DB 2.76, 2.91, 3.52, 3.92. Il contesto in cui tale
espressione ricorre è, chiaramente, di tipo formulare, come si evince dal-
l’esame delle attestazioni, nelle quali osserviamo sempre la medesima strut-
tura, costituita, nell’ordine, da un complemento oggetto (tranne in DB
3.92 dove il verbo è passivo), da una espressione di “stato in luogo” (topo-
nimo al caso locativo o avverbio di luogo), seguita da uzmayāpatiy e da una
forma del verbo kar-. Ad esempio, in DB 2.76 leggiamo: pasāvašim
Hagmatānaiy uzmayāpatiy akunavam, che possiamo tradurre “In seguito
ad Ecbatana lo impalai”. Che la locuzione uzmayāpatiy debba essere ana-
lizzata in una forma nominale flessa uzmayā- seguita dalla postposizione
patiy, enclitica e sempre univerbizzata, non è oggetto di discussione.
Alquanto dibattuta risulta, invece, l’interpretazione della forma uzmayā-,
nella quale il Kent identifica un locativo (1953: 87), mentre altri studiosi
ritengono sia uno strumentale.
Per cercare di identificare in che caso sia flessa la forma uzmayā- con-
sideriamo brevemente la questione e i contributi più importanti apportati
in merito.

La particella localistica patiy ‘a, verso, contro’ è attestata nelle


iscrizioni achemenidi prevalentemente con l’accusativo; con casi diversi
occorre nelle forme viāpatiy (DB 2.16, dove è una congettura, e DB 3.26)
e uzmayāpatiy. Nell’analisi della prima forma, composta da uno strumen-
tale viā del tema in consonante vi- seguito dalla postposizione patiy, le
grammatiche tradizionali concordano, anche se l’interpretazione del ter-
mine viā (‘casa reale, famiglia reale, stirpe reale’) è incerta. Più controver-
sa risulta essere, invece, la spiegazione della forma uzmayāpatiy, così che,
sia per quanto concerne l’etimologia, sia per la morfologia di questa forma,
sono stati espressi pareri differenti.
L’interpretazione del Kent, ‘that which is up from the earth, stake’, si
basa sull’analisi di uzmayāpatiy come un locativo singolare uzmayā del
tema *uzma-, (“aggettivo in funzione di sostantivo”) seguito dalla postpo-
sizione patiy. A sua volta, *uzma- sarebbe da spiegarsi “from ud- ‘up’ +
zma- to zam- ‘earth’”, dalla forma *ĝhm- che la radice indoeuropea *ĝhem-
(cito la radice indoeuropea così come ricostruita dal Kent 1953:35)
avrebbe assunto in antico persiano (cf. Kent 1953: 32, 35, 50, 178; ma la
relazione con la radice zam- era già teorizzata dal Bartholomae 1906: 149).
Diversamente, in Meillet-Benveniste (1931: 215) la parola uzmayāpatiy è
scomposta nello strumentale uzmayā, derivante da un tema in -a- *uzma
avente un (ipotetico) significato ‘croix, pal’, seguito dalla postposizione
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196 Flavia Pompeo

patiy. Nell’interpretazione semantica di *uzma- il Benveniste si avvale di


quanto teorizzato dal Bartholomae (1906: 147), il quale individuava una
corrispondenza tra l’espressione uzmayāpatiy akunavam ‘ho fatto crocifig-
gere’ o ‘impalare’ e la locuzione del partico dārōbadag kar- ‘crocifiggere’,
dove dārō- significa ‘bois, pal’ (alla base di dārō- è ipotizzata, peraltro, una
forma di locativo *dārau o *dārawa) e -bad deriverebbe da patiy. Lo stu-
dioso francese, tuttavia, diversamente dal Bartholomae, teorizza che
uzmayā- sia uno strumentale e non ritiene che *uzma sia riconducibile con
certezza ad un originario *ud-zam- ‘au-dessus du sol’ (Meillet-Benveniste
1931: 215).
Fondamentale è il contributo del Szemerényi (1960), fondato su alcune
osservazioni di E. Herzfeld (1938: 258), che mi sembra pienamente condi-
visibile. Il Szemerényi esclude l’ipotesi della formazione di *uzma da un orig-
inario *ud-zam-, adducendo come prima motivazione il fatto che l’evoluzione
semantica da “was ausserhalb, über der Erde gelegen ist”, “that which is up
from the earth” a “stake, pale” sembra poco plausibile. Anche la morfologia
supporterebbe l’intepretazione di uzmayā non come locativo, ma come stru-
mentale di un tema in -a- *uzmaya-, in quanto la sola forma con cui possi-
amo comparare la forma uzmayāpatiy, vale a dire viāpatiy, è senza ombra di
dubbio uno strumentale. C’è da considerare, inoltre, che la forma zakīpu
‘palo’, che rinveniamo nella versione accadica, avvalora la tesi che il signifi-
cato di uzmayā sia qualcosa di concreto come ‘palo’ e non un ‘earthwork’
(1960: 76). Sulla base di questi dati, il Szemerényi reinterpreta anche la
prima parte della forma partica, rinvenedovi un antico strumentale del tipo
avestico in -ū- sclerotizzatosi (mpers. dārūbadag, e non dārōbadag, < iranico
antico *dārūpatiy) e non un locativo.
In Brandenstein-Mayrhofer (1964: 150), infine, dove si concorda con
quanto teorizzato dal Herzfeld e dal Szemerényi (1960), viāpatiy e
uzmayāpatiy sono esplicitamente messi in relazione l’uno con l’altro e anal-
izzati come strumentali seguiti da -patiy; la forma uzmayā, sulla base della
comparazione interna alle lingue indoraniche12, è ricondotta alla forma
*uzmaya-, tema in -a- da *ud-maya- ‘der hochgepflanste (Pfahl)’, derivato
dalla radice may- ‘befestigen’ (cf. anche Mayrhofer 1996: 314).
Da ultimo, se consideriamo che nel MacKenzie (1971: 24) quali signi-
ficati del sostantivo mediopersiano dār [d’l] troviamo registrati ‘tree, gal-
lows; wood’ e che il Nyberg (1974: 58), a sua volta, attesta per la forma

12. Per quanto concerne l’antico indiano, nel Brandestein-Mayrhofer (1964: 150) e
nel Mayrhofer (1996: 314) si ricostruisce una radice *ud-may- ‘hochpflanzen’ sulla base
della forma unminvanti attestata in AitB 2, 2, 7: yūpam un-minvanti ‘sie pflanzen den
Pfosten hoch’.
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Aspetti di morfosintassi dell’antico persiano 197

neopersiana dār i significati ‘wood, gibbet’, possiamo concludere che è


ipotizzabile un’estensione semantica da ‘legno’ a ‘palo’ e, quindi, ‘forca,
patibolo’, oppure direttamente da ‘palo’ a ‘patibolo’.
Dati questi elementi, nelle espressioni sopra considerate si può rin-
venire, a mio parere, una sorta di continuità tra la fase antica, quella media
e la moderna, che vede come tratto di unione per le prime due la struttura
della polirematica costituita da a) forma nominale che significa ‘palo’ inte-
so come ‘mezzo di supplizio’, b) particella enclitica (cui si aggiunge un
suffisso derivazionale -ag nel medio persiano), c) verbo kar-; mentre la fase
media e la moderna sono accomunate dalla sopravvivenza del termine
medio-persiano dār e dei suoi due significati ‘legno’ e ‘patibolo’.
La considerazione di tipo linguistico-cognitivo per cui, non di rado, una
nozione di strumento non prototipica è al confine con una nozione localisti-
ca potrebbe, inoltre, contribuire ad avvalorare l’interpretazione di uzmayā
come di uno strumentale (e quindi la sua derivazione da un tema in -a-).
Per concludere osserviamo che, dal momento che le suddette attesta-
zioni costituiscono le uniche occorrenze in cui rinveniamo -patiy con lo
strumentale, è lecito ipotizzare che la particella non fosse più sentita come
elemento a sé stante, ma costituisse un tutt’uno con il caso; i due elementi
dovevano aver formato una locuzione avverbiale del tipo “preposizione/
postposizione + forma flessa”, piuttosto frequente nelle iscrizioni acheme-
nidi (cf., ad esempio, pasāva, patipadam, paradraya, avaparā ecc.).

In antico persiano il caso strumentale è utilizzato regolarmente privo


di preposizione, cioè in modo assoluto, per esprimere la nozione di “mezzo
o strumento”; con la preposizione hadā indica, invece, il complemento di
compagnia.
Per quanto concerne l’impiego dello strumentale ai fini dell’espressio-
ne di nozioni localistiche, si può dire che esso è scarsamente attestato.

- Questo caso, infatti, ricorre in due attestazioni soltanto (anuv


Ufrātuvā in DB 1.92 e anā Pārsā in XPa 14) per indicare, probabil-
mente, lo “spazio entro il quale” si attua quanto espresso dal predica-
to13; ma entrambe presentano problemi interpretativi14.
- Una situazione analoga presentano le due uniche attestazioni del sin-
tagma hacā Sakaibiš ‘dagli Sciti’ (DPh 5 e DH 4), dal momento che la

13. Già il Brugmann (1911: 528) individua un possibile uso dello strumentale ai fini
dell’espressione di nozioni localistiche o temporali e lo definisce “örtlicher und zeitlicher
‘Prosekutivus’”.
14. Cf. Meillet-Benveniste (1931: 182) per la forma Ufrātuvā; parimenti, l’interpre-
tazione della forma anā non è uniforme nei vari manuali.

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