Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
CINEMA E REALTA’
VIRTUALE
I limiti tra l’interattività dei sistemi di grafica
immersiva e la narratività del linguaggio
cinematografico
Tesi di laurea in
Teoria e Tecnica dei Linguaggi Multimediali
Relatore Presentata da
Prof. Pier Luigi Capucci Nicola Lercari
Correlatrice
Ing. Antonella Guidazzoli
Sessione III
Anno accademico 2005/2006
Alla mia famiglia e a Maria
per avermi sostenuto e sopportato
con affetto in tutti questi anni
2
INDICE
INTRODUZIONE ....................................................................................................6
3
II.7.1 Interfacce naturali e multimodali...................................................................110
II.7.2 Realtà virtuale come interfaccia uomo-macchina.........................................114
II.8 Il sonoro nei sistemi di grafica immersiva .....................................................115
II.8.1 Breve descrizione del sistema uditivo ..........................................................117
II.8.2 Sound stage .................................................................................................118
II.8.3 Il sonoro spazializzato..................................................................................119
II.8.4 Le principali tecnologie.................................................................................121
II.9 La Realtà Virtuale attraverso la rete................................................................123
Note al Capitolo II ...................................................................................................125
4
CONCLUSIONI ...................................................................................................205
GLOSSARIO ........................................................................................................207
INDICE DELLE FIGURE ...................................................................................214
FILMOGRAFIA ....................................................................................................216
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ......................................................................218
WEBOGRAFIA ....................................................................................................228
LICENZA...............................................................................................................230
5
INTRODUZIONE
L’obiettivo principale del saggio consiste nel compiere una riflessione
sulle nuove forme mediali che stanno profondamente trasformando la
cultura visiva contemporanea e che permettono la simulazione del mondo
reale attraverso la grafica 3D.
I presupposti che stanno alla base di questo lavoro sono da ricercare
nel profondo interesse che le tecnologie di rappresentazione sintetica
della realtà hanno suscitato in me, fin da quando ho iniziato i miei studi
sulla comunicazione e sul cinema.
L’occasione per trasformare questa passione in un argomento su cui
compiere approfondimenti e riflessioni e in una materia con cui potersi
confrontare, anche dal punto di vista pratico e progettuale, si verificò
nell’inverno 2006 durante il periodo di tirocinio curricolare svolto presso il
Vis.I.T. Lab del CINECA.
Presso tale struttura entrai in contatto con alcune tecnologie di grafica
immersiva e con un gruppo di professionisti impegnato in progetti di realtà
virtuale applicata ai beni culturali.
La curiosità iniziale si trasformò, ben presto, in un coinvolgimento
diretto e in un forte stimolo ad analizzare le dinamiche comunicative e le
soluzioni estetiche che appartengono al linguaggio di questi nuovi media.
Negli incontri e nelle discussioni con il professor Pier Luigi Capucci e
con l’ingegner Antonella Guidazzoli, responsabile dei progetti del Vis.I.T.
Lab, emerse la necessità di studiare il mondo della realtà virtuale secondo
una prospettiva che tenesse conto della dimensione grafico-espressiva di
questi sistemi e che tentasse, contemporaneamente, di interpretare le
strutture formali e i modelli enunciativi su cui essi sono basati.
Il percorso che abbiamo deciso di percorrere in questo lavoro, si può
considerare come il risultato di tali riflessioni.
Il fine che ci siamo posti è quello di analizzare le forme e le tecnologie
dei sistemi di grafica immersiva per individuare nuove modalità di
progettazione e trasmissione dei contenuti e cercare di sfruttare al meglio
le particolarità linguistiche di questi innovativi sistemi di simulazione.
6
Abbiamo deciso, quindi, di porre in relazione i sistemi di grafica
immersiva e i mezzi di comunicazione tradizionali.
Il termine di paragone che si è scelto di utilizzare è costituito dal
confronto tra le principali forme relative al mondo della realtà virtuale e il
linguaggio cinematografico, inteso come uno dei principali sistemi di
creazione e trasmissione dei significati nella cultura moderna e
postmoderna.
L’intento è quello di spiegare le caratteristiche, le forme e le
convenzioni dei sistemi di grafica immersiva utilizzando il cinema come
chiave di lettura della cultura visiva contemporanea.
Il cinema, infatti, tra i media tradizionali è quello che presenta maggiori
analogie con le forme e le convenzioni dei nuovi media; il campionamento
della realtà effettuato dalla macchina da presa che cattura ventiquattro
fotogrammi in un secondo e l’integrazione su un unico supporto di diversi
media, quali testo, immagini, suono e grafica, costituiscono un valido
esempio di tali affinità.
Siamo, dunque, convinti che mettendo in evidenza eventuali
convergenze e divergenze tra questi universi mediali, possano nascere
ipotesi plausibili e filoni di future ricerche riguardanti le dinamiche
comunicative generate dalla loro co-azione.
Il tema centrale di questo saggio diventa, quindi, quello di individuare
i limiti esistenti tra le opposte strutture formali che soggiacciono
rispettivamente al cinema e alla realtà virtuale: la narratività e l’interattività.
Compiendo una riflessione sulle modalità, sulle tecniche e sulle
tecnologie che permettono la fruizione dei contenuti e l’interazione uomo-
computer nei sistemi di grafica immersiva ci poniamo, inoltre, l’obiettivo di
individuare nuove soluzioni estetiche e di proporre nuove tipologie di
progettazione delle interfacce utilizzabili negli ambienti virtuali.
Per quanto riguarda la struttura del saggio, nel primo capitolo
tenteremo di analizzare e spiegare le caratteristiche formali e
comunicative del linguaggio cinematografico che costituiscono il punto di
partenza del discorso sulle nuove forme di narrazione proposte nella parte
centrale del volume. Nel secondo capitolo affronteremo i concetti di base,
le tecnologie e le forme espressive che costituiscono il mondo dei sistemi
7
di grafica immersiva in modo da poter poi sviluppare, nella terza parte,
una riflessione approfondita sul problema dell’interattività in questi nuovi
media. Come già anticipato il centro di questo lavoro è costituito
dall’analisi dei limiti tra le forme del cinema e quelle dei sistemi di grafica
immersiva che tratteremo nel terzo capitolo. Il quarto capitolo rappresenta,
invece, il tentativo di superare la prospettiva teorica proponendo un
esempio di navigazione interattiva. In quest’ultima parte del saggio, inoltre,
descriveremo gli strumenti utilizzati per la realizzazione dell’ambiente
virtuale che abbiamo deciso di proporre e introdurremo una riflessione
sulla necessità di utilizzare sistemi aperti e tecnologie open source
nell’ambito dei beni culturali.
Le fonti bibliografiche e la documentazione necessaria alla stesura del
saggio sono stati reperiti presso la fornitissima Biblioteca Renzo Renzi
della Cineteca di Bologna, presso la Biblioteca Sala Borsa di Bologna e
presso le biblioteche dei Dipartimenti di Musica e Spettacolo, Psicologia e
Scienze della Formazione dell’Università di Bologna.
La quasi totalità degli articoli e dei saggi consultati sono stati reperiti
attraverso Internet, consultando gli organi di diffusione online delle
pubblicazioni scientifiche di importanti centri di ricerca quali
Massachusetts Institute of Technology di Boston, Human Interface
Technology Laboratory di Washington, CINECA di Bologna, Istituto
Auxologico di Milano, CNR ITABC di Roma, Laboratorio Media Digitali del
Politecnico di Milano, Interactive media/ Virtual Environments of University
of Hamburg oppure di enti privati quali Natural Interaction e Sensing
Places.
Un ringraziamento speciale è rivolto sicuramente a tutti coloro che mi
hanno aiutato nelle ricerche e fornito interessanti spunti di riflessione, ai
miei genitori Carlo e Bruna, a Davide Anni, Massimiliano Minissale,
Michele Stocco e Stefania Semenzato per i validi e brillanti consigli, a
Maria ed ai miei coinquilini Age e Matteo per aver tollerato il mio umore
degli ultimi mesi, ai ragazzi del CINECA per il prezioso aiuto e soprattutto
a Wikimedia Foundation, Wikipedia L’enciclopedia libera! e NOEMA,
tecnologie e società per l’enorme contributo in termini di saggi,
conoscenze e materiali multimediali messi a disposizione.
8
I. LE FORME DEL LINGUAGGIO
CINEMATOGRAFICO
loro.
Figura 1
Le immagini, che sono impresse sulla pellicola e che
comunemente sono definite fotogrammi, scorrono ad una velocità di
ventiquattro al secondo e vengono attraversate da un fascio di luce che le
proietta sullo schermo.
9
L’otturatore del proiettore ha il compito di oscurare la sorgente
luminosa nell’istante che intercorre tra il passaggio di un fotogramma e
l’altro.
L’effetto che si riesce ad ottenere con questo sistema ottico-
meccanico è quello di “ingannare” l’apparato visivo dello spettatore e
illuderlo che ciò sta colpendo lo schermo sia un flusso luminoso
ininterrotto.
Il cervello di chi è presente in sala elabora gli stimoli provenienti dal
nervo ottico e ricostruisce una sequenza continua di immagini in
movimento che inizia ad assumere la forma del film.
All’interno di questo saggio che si occupa di analizzare alcune
tecniche di simulazione della realtà, riteniamo interessante provare a
capire le ragioni che generano il movimento cinematografico e quindi
danno vita al fenomeno illusorio su cui è basato il cinema.
1
A partire dal 1916 anno in cui Hugo Münsterberg , ossia uno tra i più
celebri pionieri della psicologia applicata, si occupò per primo della
percezione visiva relativa alle immagini in movimento e arrivando fino agli
inizi del XXI secolo si sono susseguite moltissime ricerche e teorie su
questo tema.
Negli studi più recenti le ipotesi maggiormente accreditate sono quelle
che identificano le cause dalla percezione del movimento cinematografico
in due fenomeni ben precisi: la frequenza critica di fusione e il movimento
apparente.
L’espressione frequenza critica di fusione, in inglese critical flicker
fusion, è usata nella psicofisica della visione per definire quella frequenza
alla quale uno stimolo luminoso intermittente è percepito dall’osservatore
come completamente continuo. Più che una grandezza assoluta essa si
può considerare come una quantità statistica dal momento che esiste un
intervallo di frequenze in cui a volte si percepisce l’intermittenza della luce
e a volte no.
Il limite critico corrisponde alla frequenza in cui il flickering è
percepito, statisticamente, il cinquanta per cento delle volte.
1
Hugo Münsterberg in Il film. Il cinema muto nel 1916 Parma, Pratiche, 1980.
10
Negli studi sulla percezione cinematografica la frequenza critica di
fusione è quella soglia sotto la quale si verifica l’effetto di sfarfallamento
(flickering effect) dell’immagine, tipico dei primi film muti; il suo valore è
stimato intorno ai sedici Hertz.
Come già anticipato, nel cinema moderno la velocità di proiezione dei
fotogrammi è di ventiquattro al secondo, valore identico a quello della
frequenza con cui la macchina da presa campiona la realtà e impressiona
la pellicola.
Durante la proiezione, un potente raggio di luce attraversa i
fotogrammi. L’otturatore interrompe per un brevissimo istante tale fascio
luminoso sia nel momento in cui un fotogramma è messo in posizione, sia
mentre esso rimane fermo nel medesimo punto.
Il risultato che si ottiene è quello di proiettare due volte lo stesso
fotogramma e arrivare ad una frequenza di circa quarantotto Hertz, che
garantisce un ampio margine d’errore.
Dalla suddetta considerazione si può dedurre che il numero di
immagini che il nostro occhio percepisce ogni secondo è molto al di sopra
della soglia minima della frequenza critica di fusione e quindi la sequenza
di fotogrammi proiettati sullo schermo è interpretata dal cervello come un
unico flusso di stimoli visivi.
Il secondo elemento percettivo su cui è basata l’illusione
cinematografica è quello del cosiddetto moto apparente, in inglese
apparent motion.
Il fenomeno del moto apparente si verifica quando uno stimolo visivo è
attivato ad intermittenza in una data posizione ed è immediatamente
seguito da un altro stimolo identico attivato in una posizione adiacente.
Max Wertheimer 2, fondatore della psicologia della gestalt, fu il primo
scienziato ad occuparsi di questo tema ed a ricollegarlo al cosiddetto
fenomeno phi (1) secondo cui nelle aree del cervello dedicate
all’elaborazione degli stimoli visivi avviene una fusione delle immagini
simili e successive.
Per spiegare il moto apparente ricorreremo ad un semplice esempio:
nelle decorazioni usate per addobbare l’albero di natale la luce colorata
2
Max Wertheimer Experimentelle Studien über das Sehen der Bewegung in Zeitschrift
fuer Psychologie, 1912.
11
che viene generata dalla lunga fila di minilampadine sembra essere in
movimento.
Questa impressione di moto è indotta in chi guarda da un dispositivo
che permette di accendere e spegnere le piccole sorgenti luminose
secondo un ordine e una velocità prestabiliti.
Tale effetto, dunque, altro non è che un’illusione percettiva dovuta ad
una caratteristica del sistema visivo umano per cui se uno stimolo visivo
muta abbastanza velocemente è percepito come un movimento.
L’illusione cinematografica è nata, quindi, grazie a lunga serie di
scoperte ed innovazioni nel campo della meccanica e dell’ottica che
hanno permesso di sfruttare alcune caratteristiche dell’apparato visivo
umano in modo creativo.
Tratteremo la storia della tecnologia cinematografica all’inizio del terzo
capitolo, cercando di individuare eventuali analogie con quella dei sistemi
di grafica immersiva.
12
Gianfranco Bettetini afferma in proposito: “Simulare significa, infatti,
imitare, rappresentare, riprodurre; ma significa anche fingere, ingannare,
3
mentire.”
Stando a tale definizione, la simulazione è una pratica che ha come
risultato la creazione di un modello che rappresenta la realtà, ma dato il
suo carattere ambiguo, non è detto che questo modello sia attendibile
oppure oggettivo.
Le caratteristiche del modello differenziano le varie tipologie di
simulazione: esistono simulazioni fisiche, logico-matematiche, sensoriali,
tridimensionali e molte altre ancora.
Oggi la simulazione, all’interno di una società sempre più influenzata
da fenomeni di smaterializzazione e virtualizzazione 4 e sempre più intenta
a comunicare tramite le immagini, ha assunto un ruolo di assoluto rilievo
arrivando a coinvolgere la produzione industriale, lo sviluppo culturale e
l’intero sistema percettivo umano.
La realtà virtuale si può considerare lo stato dell’arte a cui oggi sono
giunte le attività di simulazione plurisensoriale; dedicheremo a questo
complesso mezzo di comunicazione e alle dinamiche ad esso relative il
secondo e il terzo capitolo di questo saggio, ora desideriamo invece
soffermarci soltanto sulla simulazione visiva e considerarla in una delle
sue forme più conosciute e sviluppate degli ultimi cento anni: il cinema.
Innanzi tutto occorre fornire una definizione di simulazione visiva; essa
si può considerare come un sistema di rappresentazione che coinvolge
l’apparato visivo umano attuando una simulazione della realtà tramite le
immagini.
La simulazione visiva utilizza, dunque, un insieme di segni iconici che
permettono di produrre il senso rifacendosi a modelli o idee analoghi, dal
punto di vista percettivo, agli stimoli provenienti dai referenti che essi
permettono di rappresentare.
L’esistenza di una particolare “visione” del mondo, quella dell’artista o
di colui che realizza il modello, è una caratteristica imprescindibile dalle
3
Gianfranco Bettetini La simulazione visiva. Inganno, finzione, poesia, computer
graphics, Milano, Bompiani, 1991, p. VIII.
4
Cfr Pierre Lévy, Qu’est-ce que le virtuel?, Parìs, Éditions La Découverte, 1995 (tr. it. di
Maria Colò e Maddalena Di Sopra, Il virtuale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997).
13
pratiche di simulazione visiva, anche quando le immagini sono utilizzate
per descrivere elementi che esistono effettivamente nella realtà che si
vuole rappresentare.
La scelta del punto di vista da utilizzare e l’insieme dei processi
mentali che precedono l’azione pratica di rappresentazione sono validi
esempi di quanto si è appena sostenuto.
La lunga storia della simulazione contiene un elevatissimo numero di
modalità per schematizzare la realtà e renderla attraverso modelli.
I primi che furono realizzati appartenevano alla categoria delle arti
plastiche e si videro attribuite finalità magiche, spirituali e propiziatorie,
come testimoniano le pitture rupestri e le statuette con funzioni religiose
del periodo Neolitico.
Nei millenni la società umana si trasformò profondamente e di
conseguenza anche le forme di rappresentazione che essa produsse
mutarono la propria ontologia.
L’arte assunse, quindi, una pluralità di aspetti differenti: essa continuò
ad avere una funzione spirituale e a trasmettere significati che andavano
al di là della forma di ciò che era rappresentato.
L’uomo, però, iniziò a non confondere più l’oggetto e il soggetto
dell’atto simulatorio e decise di imitare la natura o creare mondi illusori e
fantastici sia con finalità puramente estetiche sia per dominare, attraverso
il realismo della rappresentazione, la realtà con cui si confrontava.
La simulazione visiva stessa fu partecipe di questo processo
evolutivo. Essa, inoltre, subì l’influenza delle scienze esatte e dei loro
modelli logico-matematici che la indussero ad assumere anche una
funzione conoscitiva nei confronti del mondo.
Tra le modalità di simulazione visiva che iniziarono ad assolvere tale
finalità, la prospettiva è indubbiamente quella che riuscì ad imporsi con
maggiore incisività nella cultura umana.
A partire dal Rinascimento e arrivando fino al XX secolo, tale tipologia
di simulazione ha imposto le sue regole e i suoi schemi alla quasi totalità
delle forme di rappresentazione.
Da quando Leon Battista Alberti introdusse il concetto di finestra
prospettica, nel mondo della simulazione visiva, sì assistette alla
14
cristallizzazione di alcune convenzioni che influenzarono il concetto stesso
di rappresentazione all’interno della cultura occidentale.
Nel Quattrocento i pittori cominciarono ad organizzare tutti gli elementi
della rappresentazione attorno ad un centro di simmetria, più
comunemente chiamato punto di fuga in modo da rendere tutto più
simmetrico e bidimensionale.
In una rappresentazione prospettica è previsto che il corpo del
soggetto che guarda sia fisso, immobile, “bloccato” in una posizione
frontale e centrale rispetto a ciò che sta guardando. La conoscenza del
mondo con la prospettiva diventa, quindi, un’attività relativa soltanto alla
vista, senso della distanza per eccellenza (2).
L’occhio dell’osservatore è lo strumento che permette di colmare la
distanza tra soggetto e oggetto del processo conoscitivo; quindi nella
prospettiva monoculare, tipica del Rinascimento, esso si sovrappone con
l’osservatore stesso e diventa il vero soggetto della visione.
Un passo in avanti, volto a reinterpretare e superare le norme
prospettiche, è rappresentato dalle anamorfosi (3) del periodo barocco
descritte da Bettetini 5; tali forme di rappresentazione hanno permesso di
ovviare alla staticità tipica dell’immagine pittorica e alla condizione
d'immobilità del punto di vista prospettico.
Per osservare al meglio le opere basate sul fenomeno
dell’anamorfismo ci si doveva spostare fisicamente e individuare, tra i
molti possibili, il punto di vista corretto.
La fruizione degli affreschi e dei dipinti realizzati secondo tale tecnica
divenne un vero e proprio percorso che l’osservatore doveva compiere
all’interno degli ambienti in cui si trovavano le opere d’arte.
Dunque fino alla nascita del cinema così come noi oggi lo
conosciamo, se si escludono alcuni dispositivi realizzati nella seconda
metà del XIX secolo e di cui parleremo nel paragrafo III.1, la simulazione
visiva ha avuto a che fare con il movimento soltanto per quanto riguarda
quello simulato all’interno della rappresentazione oppure relativamente
allo spostamento dell’osservatore determinato dalla possibilità di avere
simultaneamente punti di vista differenti su una medesima opera.
5
Ibidem.
15
Come già anticipato nel paragrafo precedente, il cinema è costituito da
immagini in movimento. La nascita di questa tipologia di simulazione
visiva ha introdotto una fondamentale innovazione nel mondo della
rappresentazione.
Per la prima volta il movimento diventa parte integrante di ciò che sta
all’interno dello schermo, anzi diventa lo statuto ontologico stesso di ciò
che compone la simulazione visiva.
Riprendendo ancora quanto sostenuto da Gianfranco Bettetini si
possono tentare di individuare i principali effetti generati dalla comparsa
della settima arte nel mondo della rappresentazione: “In fondo,
l’invenzione dell’immagine in movimento [...] comporta il capovolgimento
analogico dell’antico problema del rapporto visivo fra osservatore e
osservato. Capovolgimento, perché lo spettatore è fermo e si muove il
punto di vista, così come si muovono i contenuti dell’immagine; ma
capovolgimento analogico, perché il fine dell’operazione è
6
sostanzialmente lo stesso.”
La simulazione cinematografica permette agli spettatori immersi nel
buio della sala di “viaggiare” attraverso gli spazi virtuali rappresentati sullo
schermo senza muoversi dalla propria poltrona.
Nel cinema, però, diversamente che nelle altre forme di
rappresentazione prospettica, non è più l’occhio ad essere il soggetto
della simulazione. La macchina da presa diventa, infatti, una “protesi”
dell’apparato visivo dello spettatore.
Essa permette di avere una pluralità di punti di vista sulla stessa
scena e, tramite l’utilizzo di sistemi focali diversi, di vedere in maniera
differente l’immagine di uno stesso referente.
E’ però con l’avvento del montaggio, quindi con l’emancipazione del
linguaggio cinematografico dalle forme e dalle convenzioni del cinema
delle origini, che la simulazione cinematografica assume una
connotazione del tutto differente rispetto alle altre arti figurative.
Lo spazio cinematografico diventa, infatti, una funzione del tempo
della rappresentazione e può essere organizzato in strutture narrative che
6
Op. cit. p. 49.
16
si basano sull’accostamento di sequenze di immagini differenti che si
integrano fino a costituire un unico racconto articolato.
La strutturazione dello spazio e del tempo messe in pratica dal
montaggio ha l’effetto di creare il film, ossia una forma di rappresentazione
che, pur avendo una propria autonomia, esiste soltanto all’interno della
cornice dello schermo.
Lo spettatore cinematografico deve fare proprie le modalità spazio-
temporali del film se vuole godere di questa forma di simulazione visiva.
Egli, quindi, è costretto ad immergersi nella narrazione a tal punto da
sentirsi come affacciato ad una finestra che dà sul mondo diegetico;
ovviamente egli può solo guardare all’interno di tale finestra e non può
entrarvi del tutto perchè è immobilizzato nella propria poltrona.
7
Cfr. André Bazin Qu’est-ce que le cinema?, s.l., Éditions du Cerf, 1958 (tr. it.,
presentazione e scelta testi di Adriano Aprà, 3ª ed., Milano, Garzanti, 1994).
17
Secondo il celebre critico francese, nella fotografia l’immagine e il suo
referente coincidono poiché è la luce stessa che viene riflessa da
quest’ultimo a determinare in modo univoco la morfologia e le qualità della
sua rappresentazione.
Le considerazioni appena effettuate costituiscono un valido spunto per
descrivere un’ulteriore caratteristica della simulazione visiva che fino ad
ora non abbiamo ancora affrontato: la relazione genetica che connette il
modello alla realtà.
8
A tal fine risulta utile riprendere una riflessione di Pier Luigi Capucci
in cui si pone l’accento sul processo generativo delle varie forme di
simulazione visiva; esistono molte tipologie di rappresentazione che sono
possibili soltanto quando l’oggetto o il fenomeno che si vuole simulare è
presente fisicamente nel momento in cui inizia il processo di creazione
dell’immagine che lo rappresenta. Questa tipologia di rappresentazione,
che si può creare soltanto in presenza di un referente, è definita appunto
referenziale.
Molte forme d'espressione artistica possono, quindi, essere
annoverate nella categoria della simulazione referenziale: sicuramente
tutte quelle rappresentazioni ottenute ponendo a contatto una matrice con
un supporto sensibile, come il calco, la serigrafia, la xilografia e tutte le
altre tecniche di stampa, ma anche tutte le simulazioni che si basano su
processi fotochimici, quelli cioè in cui è la luce stessa a trasferire le
caratteristiche morfologiche di un oggetto sul supporto fotosensibile.
Ovviamente la fotografia ha un ruolo primario tra le simulazioni visive
referenziali, ma le innovazioni tecnologiche nel campo delle
rappresentazioni che sfruttano le proprietà della luce hanno permesso nel
corso degli ultimi centocinquanta anni di scoprire forme di
rappresentazione sempre più complesse e articolate quali il cinema, il
video e l’olografia (5).
La referenzialità dell’immagine diventa un’eredità riscontrabile in tutte
le arti che si basano sui processi fotografici, quindi si può considerare una
peculiarità fondamentale per la maggior parte delle forme d'espressione
cinematografica.
8
Cfr. Pier Luigi Capucci Realtà del virtuale, Bologna, CLUEB, 1991.
18
Lev Manovich seguendo un ragionamento analogo al nostro afferma:
“Indipendentemente dalla complessità delle innovazioni stilistiche, il
cinema continua ad attingere ai depositi della realtà, a quegli esempi di
immagini ottenute con processi prosaici e metodici. Il cinema è nato da
quello stesso impulso che ha generato il naturalismo, la stenografia e i
musei delle cere. Il cinema è l’arte dell’indice – come direbbe Pierce: il
9
tentativo di trasformare la realtà in impronte.”
La natura indicale dell’immagine nel cinema del XX secolo è stata una
costante ed è andata ad imporsi sulle altre forme di simulazione
cinematografica, relegate al cinema di animazione.
Come vedremo, nel paragrafo I.1.7, in seguito all’introduzione delle
tecnologie digitali nel processo produttivo dei film, tale situazione sta
rapidamente mutando.
Per concludere questo discorso inerente alla genesi dei modelli nella
simulazione visiva, bisogna introdurre una seconda categoria che raccolga
quelle forme che sono rimaste escluse dalla precedente categorizzazione.
È possibile racchiudere in un unico insieme tutte quelle forme di
rappresentazione per generare le quali non è necessaria l’esistenza, o la
presenza, di un referente; queste simulazioni che non necessitano di una
relazione diretta con l’oggetto o il fenomeno che andranno a
rappresentare appartengono alla famiglia delle simulazioni non
referenziali.
Pittura, scultura e le arti che sono nate dall’espansione e dallo
sviluppo delle loro forme e modalità di rappresentazione, appartengono a
questa seconda categoria. Essa, però, comprende al suo interno anche
forme espressive più recenti che si basano sulla sintesi computerizzata
dell’immagine e che, per la loro natura digitale, sono definite nuovi media.
Computer grafica, cinema digitale e realtà virtuale sono le applicazioni
che, allo stato attuale, appaiono più evolute e consolidate tra quelle di cui
si compone l’ampio panorama della simulazione visiva non referenziale.
Tali nuove forme di rappresentazione permettono l’integrazione e la
compresenza dei tratti distintivi di entrambe le categorie appena citate.
9
Lev Manovich, Cos’è il cinema digitale in http://www.trax.it/lev_manovich.htm, p. 2.
19
In questo modo la simulazione rende l’uomo in grado di mescolare la
realtà con la fantasia, il reale con il virtuale.
10
Lev Manovich, The Language of New Media, Cambridge, Massachusetts, The MIT Press,
2001 (tr. it. di Roberto Merlini, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Fres s.r.l. Edizioni
Olivares, 2002, p. 128).
20
La cornice è il luogo entro cui avviene la negoziazione tra l’arte e la
realtà, perché essa è uno strumento del mondo che protegge una
porzione del mondo stesso. La cornice fatta di buio al cinema e fatta di
legno al museo, assolve la stessa funzione: delimita.
Lo schermo classico si può, dunque, considerare come una “finestra”
sul mondo della rappresentazione che permette di avere un punto di vista
frontale e privilegiato sui luoghi, sugli oggetti e sulle persone raffigurate
all’interno del quadro.
L’effetto principale dello schermo è quello di creare una netta
separazione tra il mondo oggetto della rappresentazione e quello in cui si
trova l’osservatore; questi due spazi possiedono una scala dimensionale
ed uno statuto ontologico differente: il primo è virtuale e illusorio mentre il
secondo è reale e tangibile.
La principale funzione dello schermo classico è quella di contenere al
proprio interno e presentare all’osservatore immagini pittoriche.
Le caratteristiche di tali forme di rappresentazione che a noi più
interessano, sono quelle che si riferiscono alle modalità attraverso cui
avviene la significazione e al rapporto tra la bidimensionalità dell’immagine
e lo spazio del discorso.
L’immagine pittorica è statica, centripeta, tutta racchiusa in sé stessa,
costringe l’osservatore a dirigere lo sguardo verso il centro della tela,
escludendo la parete su cui il quadro è eventualmente appeso.
Nell’immagine cinematografica si verifica l’opposto; essa è dinamica,
centrifuga, aperta verso l’esterno e porta l’osservatore a prolungare
mentalmente l’uscita di un personaggio verso un fuori quadro che
all’occorrenza si chiama fuori campo.
In questa riflessione sull’idea di schermo, inteso come dispositivo di
creazione del senso, è da tenere presente che la sua bidimensionalità di
tale dispositivo porta a diffondere un’immagine e il rapporto che esiste tra
le sue due principali dimensioni di lunghezza e larghezza. Questo rapporto
può sempre essere scritto sotto forma di frazione. Ad ogni schermo
corrisponderebbe, quindi, una frazione ideale.
21
Questo per dire che lo spazio del discorso racchiuso dalla cornice si
negozia proprio sulla cornice, perché le due dimensioni, moltiplicate tra
loro stabiliscono l’estendibilità massima della rappresentazione.
Il quadro non può andare fuori della cornice e il film non può invadere
il buio: entrambi possono assorbire lo spettatore al loro interno, o meglio
fin sulla loro superficie, ma non possono occupare più dello spazio che la
cornice negozia tra il proprio interno ed il proprio esterno.
Il XIX secolo fu un periodo in cui le tecniche di rappresentazione della
realtà furono oggetto di un radicale processo di trasformazione e di
innovazione che portò alla nascita della fotografia e del cinema.
Lo stesso concetto di schermo fu profondamente rivoluzionato dalla
comparsa di queste nuove forme d’espressione.
La principale innovazione introdotta dalla tecnologia cinematografica è
quella di rappresentare all’interno di una medesima superficie rettangolare
un’immagine che cambia nel tempo.
In questo modo lo schermo diventa dinamico e si trasforma in un
dispositivo di visualizzazione che possiede tutte le caratteristiche dello
schermo classico, ma che inoltre permette di simulare la realtà mediante
sequenze di immagini in movimento.
Dato che le immagini mostrate dallo schermo dinamico sono il risultato
di un processo di illusione, il cinema chiede al proprio spettatore di
accettare un duplice compromesso.
Innanzi tutto chi è presente in sala deve accettare implicitamente la
finzione della messa in scena filmica che, attraverso movimenti di
macchina, scenografie e luci, crea una realtà tridimensionale pur
descrivendola con immagini bidimensionali.
Egli deve, inoltre, accettare l’esistenza dello spazio diegetico (6), da
cui è escluso.
Lo spettatore deve dimenticare di trovarsi fisicamente in un luogo
reale, la sala cinematografica, ed immergersi totalmente nella storia
narrata; in questo modo egli perde la percezione dell’ambiente circostante
ed è portato a credere di trovarsi in prossimità della scena visualizzata
sullo schermo.
22
Il pubblico si trova in una singolare situazione per cui è consapevole di
non essere incluso nel mondo simulato, ma allo stesso tempo non ha una
vera e propria idea dell’ambiente che sta gli sta dietro o di fianco; sa solo
che ciò che ha davanti è il film.
La percezione di uno spettatore in sala è, dunque, quella di trovarsi al
limite tra lo schermo e il mondo che esiste al di là di esso.
In termini spaziali questo fenomeno si può considerare come la
capacità di un film di assorbire chi lo guarda e portarlo fin sullo schermo,
ma non al suo interno.
Tale caratteristica dello schermo dinamico è un importante elemento
di divergenza tra i dispositivi di rappresentazione propri del cinema e quelli
dei sistemi di grafica immersiva.
In questi ultimi l’utente è “immerso” nel mondo simulato, si sente
parte di esso e soprattutto può interagire con l’ambiente virtuale in cui si
trova. Per quanto riguarda il rapporto tra lo schermo e le tecnologie di
realtà virtuale rimandiamo al paragrafo II.4.3.
I.1.5 Il realismo
Dopo aver sottolineato la natura referenziale e indicale dell’immagine
cinematografica, risulta necessario compiere una breve riflessione sulle
soluzioni estetiche che il cinema ha sviluppato a partire da queste sue
fondamentali caratteristiche.
Analizzando la storia del cinema, se si escludono alcune forme
arcaiche di simulazione cinematografica tipiche del periodo del cinema
delle origini e gli esiti delle sperimentazioni del cinema di animazione e di
quello d'avanguardia, appare evidente l’influenza che l’estetica realista ha
esercitato sulle altre modalità di rappresentazione filmica.
Secondo la prospettiva idealista di Bazin, il realismo nel cinema è il
risultato di un lungo processo che ha interessato l’arte e la ricerca
scientifica per tutto l’Ottocento; “Il mito direttore dell’invenzione del cinema
è dunque il compimento di quello che domina confusamente tutte le
tecniche di riproduzione meccanica della realtà che nacquero nel XIX
secolo, dalla fotografia al fonografo. È quello del realismo integrale, di una
23
ricreazione del mondo a sua immagine, un’immagine sulla quale non
pesasse l’ipoteca della libertà d’interpretazione dell’artista né
11
l’irreversibilità del tempo”.
Seguendo tale concezione è possibile considerare l’evoluzione del
realismo all’interno della storia del cinema come un processo incrementale
secondo cui ogni innovazione tecnologica si può intendere come una
tappa di un unico grande percorso; tale situazione si è verificò con
l’adozione delle pellicole pancromatiche intorno al 1920, con l’avvento del
sonoro nel 1930, con l’introduzione del colore negli anni Cinquanta e si sta
riproponendo oggi con il passaggio all’alta definizione.
L’estetica realistica si è imposta nel mondo delle immagini in
movimento anche a livello linguistico: si può considerare come prova di
questa affermazione la strenua volontà con cui il linguaggio
cinematografico classico ha tentato di individuare e introdurre soluzioni
estetiche e comunicative che rendessero la narrazione e le immagini le più
verosimili e realistiche possibile.
Nel cinema classico si affermarono, quindi, moltissime convenzioni e
regole secondo le quali tutto ciò che poteva far dubitare allo spettatore di
trovarsi realmente in presenza della scena che stava guardando sullo
schermo dovette essere abolito o camuffato.
Nella simulazione cinematografica a partire dalla metà degli anni Dieci
del Novecento iniziò ad essere proibito lo sguardo in macchina da parte
degli attori, venne elaborato il sistema della continuità spaziale a cento
ottanta gradi, la dialettica di campo-controcampo, si inventarono i raccordi
tra le inquadrature in modo da creare un’illusione di continuità spaziale e
temporale fra le sequenze di immagini e fra i luoghi e le situazioni
presentate al pubblico.
Allo stesso tempo, almeno fino al fenomeno delle nouvelles vagues
che esplose negli anni Sessanta, fu sostanzialmente proibito mostrare le
attività, le fasi e gli strumenti della produzione cinematografica.
Secondo questa concezione il pubblico sarebbe stato turbato nel
vedere cavi elettrici sospesi sulle teste degli attori e l’illusione
cinematografica sarebbe venuta meno se la seconda macchina da presa,
11
Op. cit. p.15.
24
impegnata a riprendere la scena da un’altra angolazione, fosse rimasta in
campo.
La storia del cinema però non è priva di esempi, come le pellicole del
genere musical, in cui la simulazione cinematografica infrange il muro del
realismo forzato e parla di se stessa provando a compiere una riflessione
metalinguistica sulla propria stessa natura.
Non fanno, forse, parte dell’immaginario collettivo le molte scene dei
film musicali in cui la narrazione è “magicamente” interrotta da una
melodia e i Ginger Rogers e i Fred Astaire di turno iniziano a cantare a
squarciagola rivolgendosi direttamente al pubblico in sala?
I.1.6 La narrazione
La vita di ogni essere umano può essere considerata come una
successione di azioni, fatti ed eventi causali che se uniti in un’unica
grande concatenazione costituiscono la storia di un individuo.
Il concetto di storia assume, dunque, un ruolo fondamentale per
l’umanità dal momento che gli individui conducono la propria esistenza
immersi in un complesso sistema formato da tante storie differenti.
Sono storie quelle che ci permettono di descrivere alle altre persone
gli eventi a cui partecipiamo, sono storie quelle che ci accompagnano la
notte lungo le nostre esperienze oniriche, sono storie le favole che ci
appassionavano durante l’infanzia, sono storie quelle narrate nei romanzi
e nei fumetti che leggiamo, ma anche quelle rappresentate nei film che
vediamo al cinema.
L’importanza della nozione di storia, intesa come racconto, per la
produzione culturale umana è il motivo per cui abbiamo deciso di
analizzare la struttura formale che si trova a monte di tale idea: la
narratività.
André Gardies definisce la narratività come “un insieme di codici,
procedure e operazioni indipendenti dal medium nel quale esse si
possono realizzare, ma la cui presenza in un testo ci permette di
25
12
riconoscere quest’ultimo come un racconto” ; questa definizione risulta
molto utile perché legittima il nostro tentativo di analizzare le strutture
narrative tanto nel cinema quanto nei sistemi di grafica immersiva.
In questo paragrafo andremo ad analizzare la narrazione
cinematografica, le istanze che coinvolge, gli elementi che la compongono
e le principali funzioni che essa assolve all’interno del mondo delle
immagini in movimento.
L’obiettivo è quello di individuare, all’interno di questa particolare
forma del linguaggio cinematografico, strutture di base e concetti che
possano tornare utili nei successivi capitoli di questo lavoro in cui
tenteremo di analizzare le caratteristiche dei sistemi di grafica immersiva.
12
André Gardies, Le récìt filmique, Paris, Hachette, 1993, p.28.
13
David Bordwell e Kristin Thompson, Film Art: An Introduction, 6ª ed., New York,
McGrawn-Hill Companies, 1988 (tr. it. di Paola Bonini, Cinema come Arte: teoria e prassi
del film, Milano, Editrice Il Castoro s.r.l., 2003, p. 98).
26
L’importanza cruciale che il concetto di storia riveste nell’esistenza e,
dunque, nella cultura umana ha determinato il successo di quei mezzi di
comunicazione che sono stati in grado di strutturare la forma narrativa e
declinarla secondo le peculiarità del proprio linguaggio specifico.
Il cinema è indubbiamente il medium che meglio di ogni altro è riuscito
a catturare il grande pubblico raccontando storie.
Questo è avvenuto poiché il linguaggio cinematografico ha eletto la
narrazione a struttura formale privilegiata attraverso la quale comunicare i
propri contenuti, tanto che Christian Metz affermò “la maggior parte dei
film realizzati al giorno d’oggi – siano belli o brutti, originali o no,
commerciali o no – hanno in comune la caratteristica di raccontare storie;
in questo senso appartengono tutti allo stesso, unico genere, o meglio,
14
una sorta di surgenere.”
Per analizzare in dettaglio la narrazione nel cinema è utile ricorrere ad
alcune semplici “immagini”: una ragazza si trucca davanti ad uno
specchio, un lampadario oscilla in una cucina, un ragazzo è disteso sul
pavimento del soggiorno.
Queste tre situazioni difficilmente possono essere interpretate come
una storia; quello che manca è un nesso causale che le colleghi fra loro e
che permetta di contestualizzarle da un punto di vista temporale e
spaziale.
Ciò di cui è privo tale esempio è, quindi, di una struttura narrativa che
avrebbe permesso di descrivere gli eventi nel modo seguente: Giulia si
stava truccando di fronte al piccolo specchietto che si trovava appeso
nella sua stanza. Improvvisamente si udì un forte rumore provenire dalla
cucina. Lasciò cadere il rimmel e si precipitò a vedere cosa stava
succedendo. Arrivata nel disordinatissimo soggiorno adiacente alla cucina,
si guardò intorno e vide Marco, il suo fidanzato, che era disteso sul
pavimento e imprecava. Era caduto dalla scala mentre tentava di sostituire
una lampadina. Dalle espressioni del ragazzo Giulia capì subito che si era
procurato una ferita alla testa e che quella sera invece, che andare al
cinema, avrebbero passato parecchie ore al pronto soccorso
dell’ospedale.
14
Cfr. Christian Metz, Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma, Paris, Union
Générale d’Éditions, 1977.
27
In questo caso si può parlare di narrazione poiché le tre situazioni, i
tre nuclei di contenuto assumono un significato in base alle relazioni
causa-effetto che li legano e contemporaneamente sono connotati nello
spazio, la casa di Giulia e Marco e nel tempo, presumibilmente le prime
ore della sera.
Ci riserviamo di scendere nello specifico degli elementi costitutivi della
narrazione nel prossimo paragrafo, ora desideriamo approfondire alcuni
aspetti tipici della narratività cinematografica.
Come ha dimostrato il semplice racconto appena descritto ogni
struttura narrativa crea un mondo autonomo e coerente, basato su un
proprio sistema di personaggi, eventi, spazi e tempi. Tale sistema è stato
definito dalla narratologia, con il termine greco diegesi che significa
appunto racconto.
La diegesi si può intendere come il mondo del racconto, come quel
complesso insieme di situazioni, luoghi, individui, suoni che vengono
presentati all’interno di un film.
Possiamo quindi definire diegetico tutto ciò che è caratteristico del
racconto ed appartiene alla diegesi, mentre extradiegetico tutto ciò che è
presente nel film ma che è estraneo a tale mondo.
Un semplice esempio della distinzione tra diegetico ed extradiegetico
è effettuato da Gianni Rondolino in merito alla musica in un film: “è musica
intradiegetica quella che è dentro il mondo diegetico (trasmessa da una
radio, prodotta da un’orchestra), quella musica, in sostanza che sentono,
o possono sentire, anche i personaggi del film; è musica extradiegetica,
quella musica di commento che, al contrario, non è interna alla diegesi,
15
ma si sovrappone ad essa e che solo gli spettatori, possono sentire.”
Un'ultima considerazione in merito alla narrazione cinematografica
riguarda la sua capacità di stabilire una certa visione del mondo diegetico,
di narrare gli eventi con una certa prospettiva e dunque fare in modo che
questo o quell'elemento assumano un determinato significato.
Il cinema, come il teatro, basa le proprie potenzialità rappresentative
sulla recitazione di uno o più attori impegnati nell’interpretazione dei
personaggi attorno ai quali gravita la storia.
15
Gianni Rondolino e Dario Tomasi, Manuale del Film. Linguaggio, racconto, analisi,
Torino, UTET Libreria s.r.l. , 1995, p. 16.
28
È da sottolineare che nella rappresentazione cinematografica, a
differenza di quella teatrale, la relazione tra i personaggi e il pubblico non
è diretta, anzi è filtrata, mediata dalla particolare visione del mondo
imposta dagli obiettivi della macchina da presa. Ad esempio durante le
riprese un regista cinematografico, mentre sta effettuando una
panoramica per seguire il movimento di un personaggio che rappresenta il
fulcro narrativo della vicenda e che cammina lungo una strada, può
decidere improvvisamente di “abbandonare” tale inquadratura. La
macchina da presa iniziare a seguire l’interpretazione di un altro attore
anch’egli presente nella medesima via e dà vita ad una nuova linea
narrativa.
Questo esempio pone l'accento su un’altra caratteristica che permette
di distinguere la narrazione cinematografica da altre tipologie di
rappresentazione e che risulta fondamentale nel processo di attribuzione
del senso in un film.
Un racconto cinematografico non si sofferma e non descrive mai la
totalità degli elementi che costituiscono il mondo diegetico, bensì
attraverso un’operazione di selezione sceglie quali aspetti della storia
mostrare al pubblico e quali saranno gli elementi che produrranno il
significato.
Dopo tale attività di selezione l’istanza che guida il racconto
cinematografico avrà il compito di combinare i vari nuclei narrativi e
presentarli in una modalità ben precisa che determinerà la forma filmica.
Tale istanza che, è stata definita dai vari teorici di cinema in diversi
modi, prende il nome di enunciatore ed ha il compito di decidere come
strutturare e organizzare il racconto cinematografico.
La sua presenza fa in modo che alla semplice rappresentazione visiva
in un film si sovrapponga una struttura formale più complessa: la
narrazione.
La storia del cinema è disseminata di lungometraggi in cui è
facilmente riscontrabile quanto appena sostenuto. Sicuramente tutti quei
film biografici che narrano la storia di un individuo e in cui,
necessariamente, l’enunciatore deve attuare una selezione degli episodi
da mostrare, altrimenti lo spettacolo durerebbe quanto la vita di colui a cui
29
si ispira, e poi combinarli in una struttura narrativa che attribuisca loro il
significato che il racconto cinematografico vuole comunicare allo
spettatore.
Storia e intreccio
La narrazione permette allo spettatore di comprendere il senso del film
portandolo ad individuare i principali nuclei narrativi, spingendolo a
collegarli attraverso relazioni causali, temporali e spaziali.
Prima di analizzare nel dettaglio ciascuna funzione della narratività
cinematografica è interessante compiere un’ulteriore considerazione.
Durante la fruizione di un film, molti spettatori riescono a dedurre dalle
immagini che stanno guardando, particolari, fatti ed aspetti inerenti al
mondo diegetico che non sono presentati in modo esplicito.
Per comprendere i processi mentali che un film narrativo genera nelle
menti di chi lo sta guardando, bisogna fare una chiara distinzione fra le
due modalità di cui si costituisce la narratività di un testo in qualunque
forma sia esso codificato: la storia e l’intreccio.
Ad esempio nel celebre film di Alfred Hitchcock Psycho (Psycho,
1960), quando Marion Crane, in fuga con quarantamila dollari sottratti dal
proprio ufficio, finisce nel motel di Norman Bates alcune informazioni
implicite, che le immagini ci forniscono, possono essere interpretate come
una figurazione della complicata e distorta personalità del giovane
albergatore e della tragica fine cui andrà incontro la bella e sventurata
protagonista.
Gli animali impagliati che adornano il salotto dell’albergo, la voce
inquietante della madre di Norman, il comportamento voyeuristico del
giovane possono essere considerati, quindi, come indizi velati relativi alla
svolgimento della narrazione, che il regista decide di comunicare in modo
indiretto per aumentare la suspense del racconto.
30
L’insieme di tutti i particolari, gli eventi e le informazioni che vengono
comunicate al pubblico, in modo implicito oppure esplicito, costituisce la
storia del film ovvero il che cosa esso mette in scena.
Riprendendo la definizione di diegesi possiamo affermare che tutti gli
elementi che compongono il mondo diegetico sono attribuibili alla storia su
cui è basata la narrazione.
Un film, però, presenta elementi paratestuali come i titoli di testa e di
coda, contiene contenuti sonori extradiegetici come la colonna sonora.
Tali elementi ovviamente non possono essere letti o ascoltati dai
personaggi; tutte le componenti non diegetiche fanno parte dell’intreccio,
del come il contenuto è comunicato al pubblico.
L’intreccio corrisponde al modo in cui la storia è narrata e a tutti gli
eventi che essa contiene; è possibile, quindi, attribuire a tale forma della
narratività tutto ciò che il film presenta sia dal punto di vista visivo che dal
punto di vista uditivo, insomma il come si articola la messa in scena.
Molto spesso storia e intreccio si sovrappongono, altre volte sono
sostanzialmente differenti.
Bordwell e Thompson affermano in proposito: “L’intreccio presenta
esplicitamente certi eventi della storia, che sono quindi comuni ad
entrambi. La storia va oltre l’intreccio, suggerendo alcuni eventi diegetici
cui non assistiamo mai. L’intreccio, a sua volta, va oltre la storia
presentando immagini e suoni che possono influenzare la nostra
16
comprensione della storia.”
Volendo terminare questa riflessione su storia e intreccio all’interno
del racconto cinematografico, bisogna sottolineare che tali elementi
implicano alcune differenze se li si considera dal punto di vista di chi
racconta la storia, ossia l’enunciatore, e dal punto di vista di chi la guarda,
cioè l’enunciatario-spettatore.
Per il regista la storia è l’insieme di tutte le componenti che
costituiscono la narrazione; egli ha la possibilità di comunicare una parte
di tali elementi in modo diretto, includendoli quindi nell’intreccio, oppure
rappresentarli in modo implicito o addirittura tralasciarne alcuni. Il regista,
dunque, struttura la storia attraverso l’intreccio.
16
Op. cit. p. 101.
31
Lo spettatore entra in contatto con il film attraverso l’intreccio, inteso
come modalità con cui il contenuto è trasmesso. Egli ricompone la storia
sulla base delle informazioni fornitegli dall’intreccio ed ha inoltre la
possibilità di individuare gli elementi non diegetici che il film rappresenta.
Il narratore
La caratteristica fondamentale di ogni struttura narrativa è quella di
presentare un’istanza che si pone all’origine di tutte le informazioni che
sono trasmesse. Tale istanza è l’enunciatore. Egli è il narratore a cui
spetta il compito di organizzare la storia e presentarla in un determinato
modo, secondo un determinato punto di vista, a chi la fruisce.
Gianni Rondolino e Dario Tomasi evidenziano che nel cinema
narrativo la funzione dell’istanza enunciatrice si articola in tre differenti
livelli: ”mostrare, far sentire, narrare. In un film che racconti una storia,
tuttavia questi tre livelli non si trovano tutti su uno stesso piano, ma
occupano una posizione gerarchica differente: il mostrare e il far sentire
sono infatti subordinati a un narrare che si esercita attraverso immagini e
17
suoni.”
La loro riflessione suggerisce, inoltre, uno schema utile per
sintetizzare visivamente quanto sostenuto.
ISTANZA NARRANTE
(o ENUNCIATORE)
mostrare narrare far sentire
17
Op. cit. p. 21.
32
Talvolta l’istanza enunciatrice afferma la sua presenza attraverso una
voce extradiegetica, detta voice over, oppure attraverso brevi frasi testuali
che dall’esterno della storia descrivono, commentano o forniscono
informazioni supplementari su di essa, ad esempio contestualizzandola
geograficamente o temporalmente. In questi casi si parla di narratore
extradiegetico.
Esistono però molti film in cui è un personaggio stesso ad assumere
su di sé l’istanza narrante e a farsi carico della narrazione degli eventi.
Attraverso le parole che egli proferisce agli altri personaggi, oppure
direttamente al pubblico, sono descritti alcuni particolari o l’intera storia
che costituisce la narrazione.
Questa forma di enunciatore è definito dalla teoria cinematografica
narratore intradiegetico.
La causalità
33
Ad esempio l’arroganza, la voglia di realizzarsi ottenendo fama e
denaro, la determinazione a perseguire i propri interessi a qualunque
costo sono le qualità di Cesare Rico Bandello, protagonista di Piccolo
Cesare (Little Caesar, 1931) di Mervyn LeRoy, che fungono da motore
narrativo per le vicende di questo gangster movie che stabilirà molti dei
canoni e degli stereotipi tipici del genere cui appartiene.
Non necessariamente, però, le cause su cui è basata la narrazione in
un film sono attribuibili ai personaggi; esistono fenomeni naturali ed eventi
catastrofici che attivano la storia, un esempio sono i lungometraggi The
day after tomorrow (2004, Roland Emmerich) e Armageddon (1998,
Michael Bay) in cui il cinema hollywoodiano ricorre a fenomeni apocalittici
come l’avvento di una nuova era glaciale o l’imminente impatto di un
enorme meteorite con la Terra per dare il via ad un intreccio emozionante
e ricco di effetti speciali.
Esistono, invece, generi cinematografici in cui l’intreccio spinge il
pubblico stesso a dedurre dalle storie le cause che innescano le reazioni
dei personaggi. È il caso del cinema poliziesco o di quello giallo in cui lo
spettatore, presumibilmente all’inizio della narrazione, è messo di fronte
ad un mistero o ad un omicidio a prima vista inspiegabili. Saranno la
curiosità e la voglia di verità tipiche di chi assiste ad un evento efferato a
spingere il pubblico a ricostruire per deduzione le cause che hanno
generato tali tragici effetti.
In alcuni casi l’intreccio può addirittura presentare allo spettatore delle
cause e poi non mostrarne gli effetti in modo da tenere sulle spine gli
spettatori ed accrescere la suspense che caratterizza la narrazione; è il
caso del cinema di Alfred Hitchcock, vero e proprio maestro di questa
tipologia di narratività.
La mancata rappresentazione degli effetti nell’intreccio di un film è
particolarmente significativa nelle sequenze finali in cui tale scelta
narrativa permette di non concludere le storie e lasciarle aperte
all’interpretazione del destinatario dell’enunciazione filmica.
Il tempo
34
Le relazioni causa–effetto, come abbiamo appena visto, si possono
considerare funzioni essenziali per lo svolgimento narrativo di un film.
E’ quasi banale affermare che esse debbano svilupparsi in base alla
precisa temporalità che determina la progressione degli eventi
rappresentati dal film.
Se la fotografia è un medium che simula qualcosa che è già avvenuto,
la cui connotazione temporale si esaurisce nell’istante stesso in cui la
macchina fotografica fissa la realtà sull’emulsione di alogenuri d’argento
della pellicola, il cinema invece ha come sua principale qualità quella di
poter rappresentare una storia nel corso del suo divenire.
18
André Gaudreault e François Jost indicano il tempo presente come
forma temporale dominante in ogni narrazione filmica. I due teorici
francesi affermano che il cinema mostra le azioni nel corso del loro stesso
svolgersi e perciò l’istanza enunciatrice si relaziona con esse come se
stessero avvenendo proprio nell’istante in cui vengono narrate.
In una qualsiasi forma narrativa si possono distinguere due dimensioni
temporali differenti: il tempo della storia e quello dell’intreccio.
Il primo è quello che caratterizza la temporalità della diegesi, mentre il
secondo è quello che determina il tempo del racconto, e che nel caso del
cinema è definito tempo filmico.
Sulla base di tali considerazioni possiamo ipotizzare che lo spettatore
costruisce il tempo del film in relazione a quanto gli viene presentato
dall’intreccio narrativo; anche se gli avvenimenti sono rappresentati in
ordine cronologico, la stragrande maggioranza dei film, com'è facilmente
ipotizzabile, non mostra tutti gli eventi nella loro interezza. Per questo
motivo le parti della storia che non contengono particolari rilevanti per la
costruzione del significato vengono solitamente omesse, tranne in quelle
pellicole in cui si decide consapevolmente di creare dei nonsense e delle
direttrici narrative insignificanti per spiazzare lo spettatore o creare un
regime onirico di visione.
Un’altra caratteristica del tempo del film è la possibilità di
rappresentare uno stesso evento in più di una scena per caricarlo di
particolare intensità emotiva. È questo, ad esempio, il caso in cui un
18
Cfr. André Gaudreault e François Jost, Le récit cinématographique, Paris, Nathan,
1990.
35
personaggio è rimasto particolarmente traumatizzato da qualcosa che gli è
capitato, come supponiamo l’aver assistito alla morte violenta di un altro
personaggio.
Le innumerevoli scelte attraverso le quali l’istanza enunciatrice può
strutturare il tempo del racconto costringono lo spettatore a tentare di
ricostruire l’ordine esatto in cui gli eventi sono accaduti, ad ipotizzare la
loro durata e la loro frequenza.
Ordine, durata e frequenza sono i tre livelli con i quali Gerard
Genette19 descrive le relazioni che si instaurano tra il tempo della storia e
quello del racconto all’interno di qualunque impianto narrativo. Andiamo a
descriverli brevemente.
Nel cinema degli ultimi decenni la pratica di presentare gli avvenimenti
che riguardano la storia in un ordine cronologico differente rispetto a
quello vero in cui essi sono avvenuti è diventata una soluzione stilistica
assai comune.
Tra i precursori di questo modo di fare cinema bisogna assolutamente
citare Orson Welles e il suo film d’esordio, nonché capolavoro, Quarto
Potere (Citizen Kane, 1940). Nell’incipit di questo lungometraggio si
assiste alla morte di un uomo, Kane, la cui vita verrà mostrata nel resto
del film tramite una serie labirintica e strabiliante di flashback.
La confusa struttura temporale proposta da Welles porta lo spettatore
a ricomporre mentalmente il corretto ordine cronologico degli avvenimenti
della vita di Kane; quindi si può affermare che, all’interno di una
narrazione, l’ordine della storia può essere dedotto dall’ordine
dell’intreccio.
L’istanza narratrice, come abbiamo già visto, seleziona quali eventi
della storia da mostrare all’interno del film; l’intreccio può essere relativo a
un periodo dalla durata molto breve oppure, come nel caso di Quarto
potere, descrivere un’intera vita, nelle sue fasi tipiche di gioventù, età
adulta e vecchiaia. Se si effettua un'operazione di addizione tra le durate
relative ai vari eventi della storia si può ottenere la durata totale
dell’intreccio.
19
Cfr. Gerard Genette, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino, 1976.
36
Nel cinema, come notano Bordwell e Thompson esiste un’ulteriore
durata significativa: la durata della proiezione. “I rapporti fra durata della
storia, dell’intreccio e della proiezione sono complessi, ma ai nostri fini è
sufficiente dire che il cineasta può manipolare la durata della proiezione
indipendentemente dalla durata complessiva della storia e dell’intreccio.”20
Il regista può decidere di strutturare l’intreccio in modo da utilizzare la
durata della proiezione per allargare o comprimere i confini temporali della
storia. Questa particolare scelta stilistica ottiene l’effetto di enfatizzare o
sminuire l’effetto che gli eventi presentati nella storia suscitano nel
pubblico.
La frequenza con cui un evento è presentato in una storia
normalmente è di una sola volta. Esistono, tuttavia, narrazioni filmiche in
cui lo spettatore assiste più volte al medesimo avvenimento. Rashômon di
Akira Kurosawa (Rashômon, 1950) rappresenta un caso limite in cui
diversi narratori intradiegetici descrivono secondo il proprio punto di vista
lo stesso fatto, ovvero l’uccisione di una giovane donna che si trovava in
viaggio con il marito per le strade del Giappone feudale.
Il risultato che si ottiene descrivendo uno stesso evento più volte è
quello di rappresentarlo mediante angolazioni differenti, oppure
contestualizzarlo in modo diverso in base al crescente numero di
informazioni di cui l’intreccio può disporre.
Lo spazio
20
Op. cit. p. 107.
37
Quando ci riferiamo allo spazio cinematografico possiamo riferirci
tanto allo spazio della storia, o spazio diegetico, vale a dire alle strade,
alle case, alle città, alle foreste, insomma a tutti gli spazi che sono
rappresentati dal film, quanto allo spazio dell’intreccio ovvero quell’insieme
di rapporti spaziali che si formano sullo schermo cinematografico in base
alle modalità nelle quali si sviluppa lo spazio della storia.
Per spiegare il concetto di spazio dell’intreccio basta proporre un
semplice esempio. L’azione filmica si sta svolgendo in una strada di New
York, che equivale allo spazio della storia. Sullo schermo tale strada non
sarà rappresentata così come appare nella realtà, ma secondo il
particolare punto di vista che il regista ha deciso di adottare e filmare con
la macchina da presa.
Le scelte stilistiche nella rappresentazione di un determinato spazio
vanno a creare una specifica simulazione di tale ambiente, che si può
considerare lo spazio dell’intreccio o del racconto cinematografico.
Quest’ultimo permette allo spettatore di costruirsi una rappresentazione
mentale dello spazio della storia e attribuire significati specifici al mondo
diegetico.
Lo spazio nel cinema, dunque, non è soltanto il contesto in cui si
muovono i personaggi e in cui si verificano gli eventi, ma è un elemento
che assolve funzioni narrative specifiche diventando un vero e proprio
agente della narrazione.
Rondolino e Tomasi scrivono in proposito: “Lo spazio, innanzi tutto
può assumere una funzione attanziale. Non forse quella di soggetto eroe,
ma certamente quella di destinatario, destinatore, oggetto, adiuvante e
21
opponente.”
Un esempio di tale funzione attanziale dello spazio è il ruolo che la
città gioca nel primo cinema gangsteristico; la metropoli è presentata
come un ambiente virulento che partorisce la malavita, come un luogo di
corruzione che determina la corruzione dei valori sociali e quindi come la
principale responsabile del comportamento dei criminali.
Lo spazio, quindi, diventa una componente attiva della narrazione
cinematografica che permette, attraverso le varie tipologie di interazione
21
Op. cit. p. 26.
38
che innesca con i personaggi, lo sviluppo di importanti matrici narrative
come quelle portate avanti dal cinema western, dai gangster movie e da
molti altri generi cinematografici.
39
“entrare” nella dimensione della rappresentazione ed intervenire su di
essa in modo dinamico.
Nel XXI secolo non mancano, però, tentativi e studi volti a trasformare
lo statuto ontologico e formale della settima arte. Ci riferiamo alle
sperimentazioni sul cinema immersivo e sul cinema interattivo che si
stanno compiendo in molti paesi e centri di ricerca, come ad esempio
presso l’istituto australiano iCinema Centre for Interactive Cinema
Research; l’analisi di queste nuove tipologie di simulazione, che
avvicinano il mondo delle immagini in movimento alla realtà virtuale,
trascende dagli obiettivi di questo saggio.
Passiamo adesso a descrivere le innovazioni attraverso le quali la
tecnologia digitale sta già oggi trasformando il fenomeno dell’illusione
cinematografica.
22
Cfr. Lev Manovich, op. cit.
40
Alla luce delle speculazioni sviluppate nei suoi scritti e delle riflessioni
che abbiamo compiuto nel corso di questo capitolo tenteremo di
analizzare ed individuare le principali differenze tra il cinema tradizionale,
per intenderci quello basato su processi fotochimici e girato su supporti in
cellulosa, e il cinema digitale.
Il principale elemento che permette di distinguere le immagini in
movimento tradizionali da quelle digitali ci ricollega, ancora una volta, alla
questione della referenzialità nella simulazione visiva.
Se la sua natura fotografica lega in modo indissolubile l’immagine
cinematografica alla realtà filmata “dal vivo”, nel cinema digitale questo
forte legame genetico viene meno.
L’immagine digitale è artificiale e dunque è svincolata da un referente
reale; essa è descritta mediante informazioni discrete, è totalmente
modificabile poiché basata su algoritmi che gestiscono diversi livelli di
contenuto e che permettono di intervenire in qualunque momento sulla
gamma, sulla tonalità, sulla saturazione dei colori oppure sulla forma e
sulla composizione degli elementi, insomma su tutto ciò di cui essa è
composta.
Come si può desumere da questa prima distinzione, il passaggio al
digitale ha profondamente ridefinito la natura stessa dello spettacolo
cinematografico e delle attività necessarie alla creazione delle immagini in
movimento.
Nel cinema digitale è possibile creare una realtà altra basata su
sequenze di immagini realizzate interamente con appositi strumenti di
modellazione tridimensionale.
La macchina da presa cessa di essere il principale strumento della
creazione filmica dal momento che i software di montaggio non attuano
una distinzione tra materiale grafico, animazioni, immagini campionate
digitalmente e fotografie e sequenze prodotte in presenza di un referente
reale; tale situazione si verifica poiché alla base della simulazione visiva
digitale stanno sequenze di informazioni discrete che si “concretizzano”
nell’unità minima dell’immagine digitale: il pixel.
41
Altre importanti conseguenze della natura algoritmica e modulare
dell’immagine digitale sono le attività di montaggio non lineare e di
compositing.
Il montaggio non lineare è una tecnica di post produzione che offre la
possibilità di accesso random al materiale audiovisivo. Tale caratteristica
assume un’importanza fondamentale poiché permette di intervenire in
qualsiasi momento su una sequenza di immagini e modificarne ogni
singolo fotogramma.
Ciascun elemento che costituisce il montaggio può essere spostato,
modificato e rieditato senza particolari limitazioni, poiché i software di non
linear editing gestiscono il materiale audio e video come dati digitali
indipendenti.
È importante ricordare che questi strumenti informatici non lavorano
direttamente sulle fonti originali, memorizzate su nastro o pellicola, ma
solo su file creati durante la digitalizzazione e l’acquisizione del materiale
girato. Ne consegue che le elaborazioni e le modifiche possono essere
eseguite senza limiti e senza degrado di qualità, contrariamente a quanto
succede nel montaggio lineare in cui i numerosi passaggi di registrazione,
taglio e giustapposizione degli spezzoni di pellicola possono provocare il
deperimento del supporto.
Sebbene in passato il montaggio non lineare fosse prevalentemente
effettuato su appositi dispositivi hardware come le workstation della
statunitense Avid Technology, oggi grazie al rapido e consistente sviluppo
dei processori e dei personal computer si sta lentamente determinando
una situazione per cui anche gli utenti professionali eseguono le proprie
attività di post produzione con tecnologie software, quali FinalCut Pro,
Avid Express, Adobe Premiere Pro oppure l’open source Cinelerra, che
permettono risultati eccellenti con investimenti molto più contenuti.
Il progredire del cinema ha dunque dato vita ad una situazione per cui
l’inquadratura, prima composta da un fotogramma non modificabile, indice
di quella realtà che la luce imprimeva sulla pellicola, diventa luogo di una
negoziazione interna che si concretizza nella possibilità di variare il
contenuto simbolico stesso in ogni suo minimo particolare.
42
Il sapere più caratterizzante del cinema digitale diventa quindi il
compositing, o composizione digitale. Esso permette di creare un’unica
sequenza di immagini in movimento a partire da un numero pressoché
illimitato di livelli, ad ognuno dei quali è associato un input di dati digitali,
quindi video referenziali, grafica 3D, scenografie ed attori virtuali eccetera.
Esistono ormai moltissime opere filmiche che sono state realizzate con la
tecnica della composizione digitale.
Il compositing a partire dalla metà degli anni Novanta si è imposto
come pratica primaria all’interno della produzione degli studios
hollywoodiani. Su tutte citiamo la serie di Jurassic Park di Steven
Spielberg e gli episodi I, II e III della saga di Star Wars realizzati da
George Lucas, tra le prime a sfruttare le enormi potenzialità delle
tecnologie digitali.
Dal punto di vista estetico l’innovazione introdotta dal compositing è
molto rilevante poiché trasforma radicalmente le modalità attraverso le
quali è possibile comporre un’inquadratura.
Nel cinema tradizionale la composizione delle immagini era vincolata
al profilmico e dunque alle modalità di organizzazione della messa in
scena; era, quindi, il regista a decidere durante le riprese come strutturare
gli effetti di luce, i costumi, le scenografie, i movimenti degli attori.
Nel cinema digitale diventa possibile “montare” il materiale filmico
all’interno dell’inquadratura stessa mediante la sovrapposizione di livelli
differenti di contenuto; è evidente che in questo modo si spiana la strada a
nuove modalità di significazione e a nuove soluzioni estetiche.
Se la caratteristica più saliente del mezzo cinematografico risulta
essere la capacità di riprodurre il movimento e quindi le strutture
temporali collegate alle relazioni tra le immagini, il cinema digitale
conferisce una rinnovata importanza alle relazioni spaziali, così
determinanti nel processo di creazione del significato nella fissità
dell’immagine pittorica e fotografica. Il cinema digitale si può, quindi,
considerare come il luogo della negoziazione tra saperi pittorici e saperi
cinematografici.
Spiegare perché il cinema è figlio della pittura significa menzionare
l’importanza che in esso rivestono saperi pittorici quali l’utilizzo della luce,
43
dei colori, le modalità di composizione dell’inquadratura, che non a caso si
definisce “messa in quadro”, l’organizzazione dello spazio, le scenografie.
Queste omologie linguistiche rendono contigua l’enunciazione pittorica e
quella cinematografica e instaurano tra esse un regime di influenza e
contaminazione reciproca; da sempre il cinema è stato messo in relazione
con la pittura, soprattutto nelle sue fasi iniziali in cui fu necessario un
tentativo di legittimazione del cinematografo in quanto arte delle immagini
in movimento, e l’unica strada che sembrò possibile fu proprio quella di
accostare il cinema alla pittura, evidenziando i loro rapporti di stretta
parentela.
Allo stesso tempo tentare di fornire una spiegazione delle ragioni che
hanno spinto a definire cinema digitale le nuove modalità di enunciazione
che si articolano mediante immagini in movimento di natura numerica e
algoritmica significa sottolineare il forte legame che collega il linguaggio
del cinema tradizionale a quello del nuovo cinema digitale.
Il comune denominatore più facilmente individuabile è il tipo di
sguardo, il cosiddetto punto di vista cinematografico, che entrambe le
forme di espressione utilizzano per relazionarsi con il mondo
rappresentato. L’impianto visivo del cinema digitale è il medesimo di
quello del cinema tradizionale: l’unità significante minima su cui entrambi
fanno riferimento è l’inquadratura, intesa come rappresentazione in
continuità di un certo spazio per un certo tempo. Tanto nell’uno quanto
nell’altro esiste la stessa varietà di inquadrature basata su un’identica
scala di campi e di piani.
L’ eredità che il cinema digitale riceve da quello tradizionale riguarda
ovviamente anche l’organizzazione filmica. Entrano a questo punto in
gioco codici più propriamente cinematografici come l’angolazione e la
distanza tra la macchina da presa e l’oggetto della rappresentazione, la
dialettica di campo e fuoricampo, quella dei piani oggettivi e soggettivi, il
ricorso o meno a movimenti della cinepresa, le modalità che permettono
di collegare un’inquadratura all’altra, i cosiddetti raccordi.
La tecnologia digitale pone ricollega il cinema alla pittura e pone la
spazialità e la temporalità sul medesimo piano, attuando una vera e
44
propria rivoluzione delle logiche che soggiacciono alle pratiche del
montaggio.
In proposito Lev Manovich afferma: “Mentre la logica tradizionale del
montaggio privilegia il montaggio temporale rispetto a quello interno a una
scena (da un punto di vista tecnico il secondo era molto più difficile) la
composizione li pone sullo stesso piano. Più precisamente, cancella la
loro rigida separazione tecnica e concettuale”. 23
Oggi il compositing rende possibile un nuovo modo di costruire
l’inquadratura, permettendo l’integrazione di reale e virtuale, la fusione tra
una simulazione referenziale della realtà ed un tipo di simulazione che non
parte da essa, ma si fonda sulla costruzione di immagini sintetiche.
Il cinema di Richard Linklater è un valido ed interessante esempio del
fenomeno di ibridazione che sta coinvolgendo la simulazione visiva
contemporanea.
Il regista presenta con Waking Life (Waking Life, 2001) la storia di
Wiley Wiggins, un ragazzo che in seguito ad un incidente stradale, si trova
immerso in un mondo a metà tra sogno e realtà.
Il film è girato utilizzando la rotoscoping animation una tecnica che ha
permesso di mescolare immagini di computer graphics a sequenze girate
con attori reali e poi modificate manualmente da abili disegnatori.
Dal punto di vista visivo l’effetto ottenuto è quello di mostrare una forte
graficizzazione della figura umana e un’elevata stilizzazione del profilmico;
il film si può considerare un esempio lampante della nuova simulazione
cinematografica in cui il confine tra referenzialità e non referenzialità è
venuto meno
La simulazione cinematografica in Waking life è costituita da una
commistione tra immagini del mondo reale filmate dal vivo e poi elaborate
con le tecnologie di rotoscoping e disegni animati interamente realizzati in
digitale. Il livello di ibridazione tra forme referenziali e non referenziali è
tale che è molto difficile distinguere le une dalle altre.
Anche tutto ciò che riguarda il punto di vista, e quindi la particolare
visione che il regista offre del mondo rappresentato nel film, è
profondamente rivoluzionato dal cinema digitale.
23
Op. cit. p. 199.
45
Nel nuovo spazio cinematografico, diventato virtuale, i vincoli ed i limiti
imposti alla messa in scena dalla fisicità degli attori, dalla materialità delle
scene, e di tutto ciò che si trova davanti alla macchina da presa, viene
meno.
Se già il cinema tradizionale aveva abituato il pubblico a spettacolari
movimenti di macchina e sequenze basate sull’elaborazione di un punto di
vista complesso e improbabile nella realtà, si vedano le riprese aeree e le
sequenze ottenute con dollie e skycam, la simulazione del cinema digitale
fa proprio l’utilizzo di un punto di vista impossibile, irreale, che vede negli
effetti speciali digitali la sua manifestazione.
Le forme cinematografiche digitali che sono apparse negli ultimi anni
denotano una visione del mondo non propriamente basata sull’uomo che
presenta allo spettatore immagini tanto spettacolari quanto inverosimili.
La proliferazione di punti di vista che evidentemente non possono
appartenere ad un regime di visione umano è la prova più saliente di
questo processo che può essere meglio definito ricorrendo ad un esempio
diretto.
In una delle scene iniziali del remake di Non aprite quella porta (The
Texas chainsaw massacre, Tobe Hooper, 1974), girato nel 2003 da
Marcus Nispel, un’autostoppista sopravvissuta alla furia di una misteriosa
famiglia di mostri, sale sul furgoncino sul quale i protagonisti stanno
viaggiando verso il Messico. La giovane si siede nel sedile posteriore e
dimostra di essere in un evidente stato confusionale per quanto accaduto.
Dopo pochi minuti si spara alla testa. La sequenza successiva è dominata
da un significativo movimento della macchina da presa; il punto di vista si
sposta dal sedile anteriore a quello posteriore poi tramite il foro nel cranio
della suicida trascina lo spettatore fuori dal furgone e indietreggiando si
posiziona ad una ventina di metri dal mezzo.
Tale sequenza si può interpretare come l’adeguamento dei canoni del
genere horror alle tecnologie attuali, ma allo stesso mostra al pubblico le
potenzialità del nuovo mezzo cinematografico.
Le soluzioni estetiche presenti in molti film realizzati in digitale
propongono, dunque, una nuova concezione di realismo secondo cui è
possibile creare effetti di realtà e iper realtà partendo da un mondo
46
totalmente artificiale che viene reso verosimile tramite l’utilizzo di algoritmi
e strumenti informatici.
Nel processo di profondo rinnovamento e radicale trasformazione
dello spettacolo cinematografico non poteva essere esclusa la narrazione,
che come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è stata considerata da
molti teorici e critici come la principale forma del cinema moderno.
La narratività cinematografica del XXI secolo subisce l’influenza dei
nuovi media con i quali condivide la natura digitale.
La sequenzialità della sua dimensione temporale è messa in
discussione in nome di strutture formali che rispecchiano l’hyperlinking e
l’accesso casuale tipico dei mezzi digitali, come è facilmente riscontrabile
nel cinema di Quentin Tarantino o in quello dello stesso Linklater, in cui è
lo spettatore stesso che deve ricomporre la storia a partire da una
sequenza di spezzoni o episodi che apparentemente non hanno una
connessione causale tra loro.
La linearità dello svolgimento narrativo è rimpiazzata da una nuova
estetica che tenta di individuare modalità alternative di significazione come
il loop temporale, l’ibridazione dei contenuti, la modularità delle scene e
delle vicende, gli effetti speciali, il montaggio spaziale oppure il ricorso ad
intrecci e finali multipli.
Le nuove convenzioni che si stanno affermando e la mutata natura
dell’immagine cinematografica stanno rapidamente trasformando il mondo
della settima arte. Il tradizionale valore narrativo del cinema, basato su
storie riprese dal vero mediante strumenti ottici, sta lasciando il campo alla
creazione integrale delle immagini realizzata mediante il computer.
Il cinema digitale ha ormai abbandonato il ruolo di mezzo di
registrazione oggettiva e realistica della realtà ed è, dunque, sempre più
simile alla pittura, alla grafica e alle forme pre-cinematografiche di
rappresentazione quali la lanterna magica, il Thaumatropio, lo Zootropio, il
Praxiscopio e il Kinetoscopio.
Queste forme di rappresentazione sono tutte contraddistinte dalla
manualità della creazione dell’immagine e, dunque, dall’artificialità del suo
processo genetico, basato sulla simulazione visiva non referenziale.
47
Il cinema digitale si può considerare come un ritorno a queste antiche
pratiche e ai tratti distintivi che le caratterizzavano. Ovviamente essendosi
trasformato il contesto tecnologico in cui avviene la produzione culturale
sono cambiate anche le modalità in cui la manualità e la creatività
partecipano al processo di creazione delle immagini.
Terminata l’epoca della riproducibilità meccanica e fotografica delle
immagini le operazioni che si possono compiere in fase di post produzione
sono diventate funzioni delle scelte possibili nei software di montaggio non
lineare, di compositing, di morphing e di color correction.
Questa situazione però non deve essere considerata come un limite,
ma bensì come uno stimolo ad individuare percorsi alternativi ed
inesplorati di creazione dell’opera filmica che sappiano sfruttare a proprio
vantaggio i vincoli e le particolarità delle nuove forme di rappresentazione.
La caratteristica primaria del linguaggio del cinema digitale è, infatti,
quella di determinare un’ibridazione fra le convenzioni e gli stili del cinema
del Novecento e le pratiche di creazione e animazione delle immagini in
movimento del periodo pre-cinematografico, rielaborate attraverso il
digitale.
Gli effetti di questa contaminazione estetica pongono il cinema
contemporaneo in una condizione di costante ricerca di una nuova identità
basata sulle potenzialità offerte dalla simulazione visiva digitale.
Al termine di questa riflessione è utile effettuare un’ultima
precisazione. Se fino a qualche anno fa le tecnologie digitali e gli effetti
speciali, a causa dei loro costi, erano appannaggio dei grandi studios
hollywoodiani e dei film con enormi budget, oggi sono diventate, almeno
nelle versioni meno sofisticate e performanti, alla portata di tutti.
Le conseguenze dirette della diffusione dei sistemi di montaggio
digitale non lineare, delle telecamere DV, MiniDV e HDV, dei software di
compositing e color correction sono l’abbattimento dei costi e dei tempi di
produzione e post produzione e una nuova libertà stilistica ed espressiva
che si concretizza nella ricerca di nuove forme di narrazione,
significazione e montaggio portate avanti anche da piccole case di
produzione indipendenti.
48
Note al Capitolo I
2) Cfr. Pier Luigi Capucci Realtà del virtuale, Bologna, CLUEB, 1993.
In questo testo l’autore compie un’attenta riflessione sul sistema percettivo
umano e distingue all’interno dei vari sensi quelli che permettono una
percezione a distanza da quelli che invece necessitano di prossimità o
contatto tra soggetto e oggetto della percezione; con l’espressione sensi
della distanza si allude alla vista e all’udito, mentre con quella sensi della
prossimità o del contatto ci si riferisce rispettivamente all’olfatto, al tatto e
al gusto.
49
5) L'olografia è una tecnologia ottica che attraverso l'uso della luce
coerente laser permette la registrazione del fronte d'onda riflesso da un
oggetto. Contemporaneamente essa consente la riproduzione
tridimensionale dello stesso su un supporto fotografico tridimensionale
chiamato ologramma. Teorizzata dallo scienziato ungherese Dennis
Gabor come metodo da applicare in microscopia e da lui battezzata nel
1949 (Nobel 1971) non ebbe applicazioni significative fino all'introduzione
di sorgenti di luce coerente negli anni sessanta. Con l'introduzione delle
sorgenti laser iniziò lo sviluppo di varie tecniche di registrazione olografica
dovute ai contributi di Emmeth Leith, Juris Denisyuk, Steven Benton ed
altri. La tecnica olografica si basa sul fenomeno dell'interferenza ottica.
Nella registrazione di un ologramma la luce proveniente da un laser viene
divisa da uno specchio semitrasparente (beam-splitter), i due raggi
risultanti sono quindi espansi e convogliati mediante specchi uno ad
illuminare il soggetto (raggio dell'oggetto) ed il secondo (raggio di
riferimento) ad illuminare uniformemente la lastra fotografica. Nella zona in
cui i due raggi si rincontrano, grazie alla coerenza spaziale e temporale
della luce laser, interferiscono producendo un banco di onde stazionarie
chiaro scure; la lastra fotografica inserita in questa zona registra una
sezione del banco di onde stazionarie costituito da linee chiare e linee
scure disposte in un fitto array di cerchi concentrici (migliaia di linee/mm).
La lastra così esposta e sviluppata (ologramma) acquista la capacità di
riprodurre il raggio dell'oggetto allorquando le sia fornito, con l'angolo
corretto, un raggio di riferimento.
50
II. I SISTEMI DI GRAFICA
IMMERSIVA
1
Cfr. Ivan Sutherland The Ultimate Display, 1965, p. 2.
51
sociologia, le teorie sui media, ma arrivando anche ad interessare attività
di ben altra natura come la ricerca dell’industria aerospaziale, informatica
e medica.
Oggi la straordinaria diffusione dei sistemi computerizzati che
permettono una rappresentazione sintetica del mondo reale ha
determinato una singolare situazione per cui in moltissimi eventi quali
fiere, mostre e convegni e in moltissimi contesti, come quelli relativi al
mondo dell’intrattenimento, dei musei e della visualizzazione scientifica,
siano presentate al pubblico straordinarie tecnologie in grado di far
accedere chi vi è collegato ad un universo modellato artificialmente.
Risulta, quindi, indispensabile tentare di fornire una definizione precisa
ed efficace che aiuti a comprendere che cosa sia effettivamente la realtà
virtuale, concetto a cui d’ora in avanti ci riferiremo con il termine
abbreviato VR.
I primi sistemi, basati sull’utilizzo di pesanti e poco versatili HMD,
come quelli progettati da Ivan Sutherland, lasciavano all’utente poco più
che la possibilità di ruotare la testa ed osservare, al posto delle immagini
di oggetti concreti, un insieme di forme sintetiche che non mutavano la
loro posizione al variare del punto di vista dell’osservatore come avviene
in effetti nel mondo reale.
La loro evoluzione ha permesso, nel tempo, la creazione di dispositivi
sempre più complessi ed efficaci, come CAVEs, teatri virtuali, e simulatori
i quali forniscono all’utente una tipologia di fruizione che coinvolge
apparati percettivi differenti.
Quali sono le caratteristiche di un sistema che permettono di
annoverarlo tra le tecnologie che riguardano la VR?
Per rispondere a questo quesito utilizzeremo le parole di John Vince2,
il quale definisce in modo chiaro e semplice la questione: “Basically, VR is
about using a computer to create images of 3D scenes with witch one can
3
navigate and interact. ”
2
John Vince è Emeritus Professor di computer grafica, animazione 3D e media digitali
presso la Bournemouth University e fondatore della Virtual Reality Society e coeditore del
Virtual Reality Journal (1).
3
John Vince, Introduction to virtual reality, 1999, p. 6.
52
Diventa, quindi, possibile prendere i concetti di navigazione e
interazione come marche di distinzione tra VR e semplice 3D computer
graphics.
Ovviamente illustreremo con maggior precisione tali concetti nella
terza sezione di questo saggio, ma è necessario sin da ora definirne
alcuni aspetti.
La navigazione nell’ambito della VR si può intendere come la
possibilità fornita all’utente di muoversi all’interno di un modello
tridimensionale e quindi di esplorarlo e conoscerlo.
L’interazione si può, invece, considerare come la possibilità di
selezionare oggetti virtuali e compiere con essi azioni semplici, come
sollevarli da terra, o più complesse come utilizzarli in qualità di strumenti
per interagire con l’ambiente circostante.
Giunti a questo punto diventa possibile fornire un breve elenco dei
sistemi computerizzati che si possono definire VR: naturalmente tutti quelli
basati su tecnologie quali HMDs, CAVEs, proiezioni stereo e ampi
schermi, simulatori e virtual tables, ma anche più comuni personal
computer (PC). Proprio la posizione su questi ultimi sistemi ha, negli anni,
diviso chi si occupa di questi argomenti in due opposte fazioni: chi li
accetta nel mondo della VR e chi non lo fa.
Per sciogliere la questione è fondamentale riferirsi ad un ulteriore
elemento che distingue un sistema di VR dalle altre forme di grafica
computerizzata. Stiamo alludendo alla possibilità di generare le immagini
ed i dati che costituiscono il modello tridimensionale effettuando i calcoli in
tempo reale; questa caratteristica è definita realtime rendering e necessita
di un computer in grado di elaborare qualcosa come venti o trenta
immagini al secondo.
Con tale presupposto possiamo, quindi, sostenere con sicurezza che
molti aspetti della computer graphics non possono essere considerati
sistemi di realtà virtuale.
Questa situazione si verifica nonostante oggi gli standard qualitativi
dei software di modellazione e animazione 3D abbiano ormai raggiunto un
livello molto elevato soprattutto per quanto riguarda la gestione dei
materiali, dei dettagli, delle luci e dei colori. Validi esempi sono gli effetti
53
speciali usati negli ultimi anni dagli studios hollywoodiani; sempre più
spesso il cinema ha utilizzato sequenze create integrando elementi ripresi
dal vivo e strabilianti immagini sintetiche. Questa operazione di
compositing, però, non prevede l’elaborazione delle immagini in tempo
reale poiché è effettuata durante la fase di post-produzione di un film.
E che dire invece dei videogiochi? I recenti sviluppi dell’industria dei
videogame nell’ambito dell’intrattenimento offline e online hanno, di fatto,
interrotto la diatriba sugli ambienti desktop di realtà virtuale, detti anche
sistemi non immersivi.
Prodotti come le fortunatissime serie di Grand Theft Auto, Metal Gear
Solid e The Sims sono soltanto alcuni esempi di sistemi che mettono in
pratica la navigazione tridimensionale e l’interazione con i mondi
rappresentati utilizzando una tecnologia in realtime; questo tipo di
approccio è messo in pratica anche in numerosi giochi online tra i quali
citeremo soltanto World of Warcraft (2) e SecondLife (3), vista la rilevanza
degli investimenti e il vasto numero di utenti e soggetti coinvolti.
Lo stesso John Vince dichiara in proposito “I’m quite happy to
embrace them as VR systems. Computer games technology is evolving
4
very fast, and games will probably become a major sector of VR.”
4
John Vince Introduction to virtual reality, 1999, p. 6.
54
II.2 Descrizione di un sistema di Realtà
Virtuale
55
La trasmissione delle informazioni dal sistema di VR all’utente è
un'altra importantissima funzione gestita da apposite apparecchiature di
output.
Esistono moltissime tipologie di dispositivi di output che gestiscono la
rappresentazione audiovisiva del modello 3D e la trasmissione di elementi
olfattivi e tattili all’utente.
Il computer è parte di un sistema di VR cui spetta il compito più
complesso; ad esso è infatti affidata la gestione dell’enorme quantità di
dati di input e la successiva trasformazione di essi in eventi di movimento
ed interazione con l’ambiente virtuale.
Un'altra mansione critica dell’elaboratore è quella di calcolare e
trasmettere all’utente i dati visivi (venti o trenta frame per secondo), sonori
e tattili relativi alla navigazione e aggiornare il modello 3D e le sue
componenti.
E’ da tener presente che questo insieme di operazioni devono essere
eseguite in un loop (5) perpetuo ed in tempo reale facendo inoltre in modo
che l’intervallo di tempo, detto time lag, che intercorre tra il momento in
cui l’utente effettua un’azione e il suo verificarsi nella scena virtuale non
può superare il decimo di secondo, altrimenti il sistema di VR perde
efficacia e funzionalità.
Per queste ragioni le applicazioni più evolute, basate su proiettori
multipli e complessi dispositivi di input/output, richiedono workstation o
supercalcolatori dedicati.
Non bisogna, però, credere che sia obbligatorio possedere un sistema
ad alte prestazioni per poter provare l’esperienza di navigare ed interagire
con un modello tridimensionale. I sistemi di Desktop VR che tratteremo nel
paragrafo II.2.4, permettono di esperire forme non immersive di realtà
virtuale.
L’immensa complessità di un sistema di VR necessita, quindi, di un
software che permetta alle varie parti di interagire e cooperare tra loro in
modo efficace ed efficiente.
Il software è inoltre l’ambiente in cui viene caricato il modello, è il
gestore delle librerie grafiche e del L.O.D.5, è il responsabile delle
5
L.O.D. è l’acronimo dell’espressione inglese Level of Detail.
56
animazioni degli oggetti e degli elementi del modello tridimensionale, della
navigazione e dell’interazione e praticamente di tutto ciò che succede nel
mondo virtuale.
Data la grande varietà di configurazioni e la forte diversità tra le varie
tecnologie che permettono la realtà virtuale esistono sul mercato un
numero molto elevato di VR software che presentano caratteristiche
profondamente differenti tra loro.
Per terminare questa breve descrizione delle parti che costituiscono il
mondo della VR riteniamo necessario sottolineare che nei sistemi
multiutente e nella Network VR bisogna annoverare tra le componenti
principali anche la rete; essa permette la comunicazione e l’interazione tra
le persone che stanno utilizzando lo stesso sistema oppure la navigazione
e l’interazione online dell’ambiente 3D.
6
John Vince Introduction to virtual reality, 1999, p. 150
57
Dopo aver fornito questa breve definizione inizieremo a descrivere le
principali tipologie di VEs indicando brevemente le caratteristiche degli
apparati tecnologici che appartengono alle varie categorie.
58
Mediante un sistema di lenti l’apparato visivo mette a fuoco le
immagini stereoscopiche rappresentate in modo che il VE venga percepito
in scala uno a uno con il suo corrispondente materiale.
Elementi fondamentali per garantire l’immersione dell’utente sono, la
visuale in prima persona e la copertura del suo intero campo visivo, detto
FOV 7, con le immagini del VE.
Questa situazione oltre che con i già citati HMD è possibile ottenerla
con dispositivi più complessi
come i CAVEs e i simulatori.
CAVE è l’acronimo di Cave
Automation Virtual Environment e
si può considerare come il più
avanzato sistema di realtà virtuale
oggi disponibile.
7
FOV è l’acronimo del termine anglosassone Field of View.
8
Gli specchi sono usati per ridurre la distanza necessaria tra la fonte di luce e il pannello
su cui è visualizzata l’immagine.
59
La sensazione è quella di essere circondati completamente dagli
oggetti e dagli elementi tridimensionali che costituiscono il VE; l’effetto è
quindi di immersione totale nello spazio virtuale.
I particolari dispositivi di output visivo del CAVE lasciano all’utente la
possibilità di percepire correttamente gli oggetti o le persone reali che
sono presenti all’interno della stanza. Questa importante caratteristica
apre la strada a nuove forme di VR: la prima è la cosiddetta Mixed Reality
(MR), ovvero una tipologia di simulazione in cui elementi reali sono
integrati con rappresentazioni virtuali in modo da ottenere un contesto
comunicativo basato sia su risorse materiali che digitali.
L’altra opportunità offerta dai CAVEs è quella di permettere la
presenza di più persone all’interno della simulazione e quindi fornire
un’esperienza virtuale multiutente. Tale prospettiva è molto interessante
poiché descrive nuove possibilità di interazione all’interno del mondo
virtuale, focalizzando l’attenzione sulle relazioni che si instaurano tra gli
utilizzatori. Torneremo a parlare di VE multi-users nel paragrafo III.6.3.2,
adesso passiamo alle altre forme di VR immersiva.
Nella categoria dei sistemi immersivi bisogna annoverare anche i
cosiddetti simulatori. Essi sono complessi macchinari utilizzati nella
simulazione di tutte quelle attività in cui sarebbe troppo dispendioso o
troppo rischioso effettuare una ricostruzione con ambienti e persone reali.
Un simulatore, di solito, è
composto da una cabina chiusa
dotata di display panoramici che
permettono di visualizzare il
Virtual Environment.
In questo modo chi sta
all’interno è completamente
isolato dal mondo esterno ed è
Figura 3
immerso nella simulazione.
Per incrementare l’effetto di realtà della simulazione la cabina è
costruita su una piattaforma dotata di potenti pompe idrauliche che
permettono di imitare il movimento, l’accelerazione, la frenata e
60
praticamente di tutti quei fenomeni fisici che determinano un feedback
replicabile con un mezzo meccanico.
I principali utilizzatori dei simulatori sono i militari e l’industria
aeronautica e navale; com’è facilmente ipotizzabile in questi settori creare
dei modelli reali da utilizzare per l’addestramento del personale o per il
testing dei veicoli comporterebbe un impiego di risorse economiche,
spaziali e umane molto più consistente di quello richiesto da un sistema di
VR.
Situazioni complesse come quelle relative all’atterraggio di un aereo,
all’attacco di un carro armato o alla verifica delle componenti del motore di
un sottomarino vengono simulate attraverso realistici modelli
tridimensionali e poi rappresentate in tempo reale con sofisticati dispositivi
hardware. Ci stiamo riferendo agli Image Generators (IGs) che sono posti
all’esterno del simulatore per non renderne troppo pesante la struttura.
In questo modo non è richiesto un ampio spazio fisico e neppure
l’utilizzo di un gran numero di esperti che costruiscano il modellino in
scala. Tutto è contenuto nel database del modello digitale, archiviato in un
potente computer.
Oggi, probabilmente, i simulatori sono i sistemi immersivi che
permettono la migliore esperienza di realtà virtuale dal punto di vista del
realismo e dell’analogia con il mondo reale.
Il costo di un simulatore di volo può essere di diversi milioni di euro,
cifra che ovviamente risulta molto inferiore al costo del veicolo, della nave
o dell’aereo che vengono simulati.
Un altro dispositivo che permette la fruizione immersiva, anche
multiutente, è il Virtual Table; questa tecnologia è costituita da un ripiano
di materiale plastico o di vetro che funge da schermo per la
retroproiezione.
Un proiettore visualizza su tale superficie immagini stereo delle quali
l’utente, dotato di shutterglasses, riesce a percepire anche la profondità.
Tramite un sistema di tracciamento posto negli occhiali è possibile
calcolare il punto di vista ed ottimizzare la visualizzazione della zona dello
schermo verso cui l’utente sta guardando.
61
Questa tecnologia, sviluppata dal German National Computer Science
e dal Mathematics Research Institute della Stanford University, è utilizzata
soprattutto nell’ambito della progettazione industriale, architettonica e
nelle applicazioni mediche.
Riteniamo necessario ricordare che esistono tipologie di sistemi di VR
che presentano peculiarità differenti da quelli appena descritti.
Ci stiamo riferendo ai sistemi semi immersivi che permettono,
mediante la proiezione su ampie superfici poste frontalmente all’utente, di
coprire il suo intero campo visivo. Tali sistemi non generano un senso di
immersione e presenza molto elevato ma garantiscono un’esperienza
virtuale ad un’utenza che può arrivare anche a venticinque unità
contemporaneamente, nei teatri virtuali più grandi.
Un sistema semi immersivo semplice può essere composto da un
singolo proiettore e uno schermo piatto, ma configurazioni più performanti
prevedono la multiproiezione su superfici curve, semiellittiche o a cupola
che coprono l’intero FOV del pubblico permettendogli di muovere la testa
e guardare in varie direzioni.
Figura 4
Ovviamente in questi teatri
virtuali sono necessari almeno tre proiettori per coprire rispettivamente la
zona sinistra, centrale e destra dello schermo; nel caso di proiezioni
stereo tale numero va raddoppiato e gli utenti devono essere dotati di
shutterglasses.
Un altro esempio di tecnologie semi immersive di VR è costituito
dall’augmented reality. Questo termine indica un sistema che combina dati
digitali ed immagini reali, che possono così essere “aumentate” di
qualunque tipo di informazioni vengano caricate nel dispositivo.
Tramite uno speciale visore computerizzato, dotato di un complesso
sistema di lenti ottiche, è possibile vedere in trasparenza le immagini
virtuali sovrapposte a quelle che provengono dall’ambiente in cui ci si
trova.
E’ necessario, però, utilizzare un sofisticato sistema di tracciamento
della direzione in cui l’utente sta guardando in modo da allineare
perfettamente gli elementi virtuali e quelli reali.
62
In questo modo diventa possibile trasformare il luogo con cui si sta
interagendo integrandolo con informazioni sugli oggetti e gli ambienti che
si stanno visitando. La medesima interazione con il sistema di VR non è
più vincolata ad un luogo specifico ma si può espandere all’intero
ambiente in cui ci si trova.
L’interazione uomo-computer è, così, svincolata dalle caratteristiche di
intenzionalità e fruizione cosciente proprie di un sistema in cui lo schermo
è posto di fronte all’utente.
Le potenzialità dell’augmented reality (AR) possono essere sfruttate
in molti ambiti; un esempio è quello di aiutare e guidare gli individui a
compiere incarichi complessi come la sostituzione delle componenti di un
motore oppure la riparazione di parti di un impianto industriale.
Un’altra possibilità di applicazioni è in campo militare. Il pilota di un
aereo da caccia che sta guardando il territorio su cui si trova in volo, vede
attraverso i dispositivi di AR, integrati nel casco o nell'abitacolo dell'aereo,
informazioni digitali quali la classificazione dei mezzi amici e nemici che
sta sorvolando.
9
Non mancano, però, le sperimentazioni in altri settori come quello
dei beni culturali, in cui l’AR può diventare un importante strumento di
ausilio nella visita dei musei e nella presentazione di informazioni e
contenuti relativi a siti di elevato valore artistico e culturale.
Per questa ragione gli studi più recenti stanno sperimentando la
possibilità di utilizzare l’AR all’aperto, integrando al sistema dati GIS (6),
coordinate GPS (7) e sensori di orientamento; la ricerca in questa
direzione sta di fatto dando vita ad un’incredibile varietà di applicazioni per
questa tipologia di VR.
9
Cfr. par. II.3.3.
63
Il principale elemento di discrepanza è costituito dai dispositivi usati
per la visualizzazione del VE. Nella maggior parte dei sistemi immersivi le
immagini occupano l’intero campo visivo e sono proiettate o visualizzate
mediante dispositivi che permettono la visione stereoscopica.
I sistemi non immersivi, definiti anche Desktop VR, propongono
modelli tridimensionali interattivi mediante semplici schermi desktop, per
intenderci quelli in dotazione ad ogni comune personal computer.
Il loro costo risulta, quindi, molto contenuto rispetto a quello dei
sistemi immersivi e permette a soggetti con budget non elevati di disporre
della realtà virtuale.
E’ da tener presente che nei Desktop VR non sono presenti sofisticati
sistemi di tracciamento dell’utente ed inoltre la visione periferica (8) non è
occupata dal VE. Il livello di immersione e presenza offerto da questi
sistemi è decisamente inferiore rispetto a quello di un CAVE o di un teatro
virtuale.
Se si considera, però, più liberamente il concetto di immersione e lo si
intende come uno stato mentale di profondo coinvolgimento in un dato
fenomeno, allora è possibile riscontrare questa caratteristica nei desktop
10
VR. Validi esempi di questa considerazione sono i videogiochi in cui
l’animazione interattiva e la navigazione tridimensionale coinvolgono il
giocatore a tal punto da “trasportarlo” nel mondo 3D rappresentato.
Questa tipologia di immersione non è quindi determinata da stimoli al
sistema visivo e percettivo, ma bensì da processi mentali ed emozionali
che coinvolgono in maniera intensiva l’utente. Ci riserviamo di
approfondire quest’aspetto dell’immersività in un VE nella terza parte del
saggio.
Il concetto di navigazione permette di rilevare profonde differenze tra
sistemi immersivi e non immersivi. Se nei primi i dati relativi al movimento
dell’utente sono trasmessi al computer dai sensori di movimento posti nel
HMD o negli shutterglasses, nei secondi il discorso si fa più complicato.
Essi, infatti, essendo privi di tali dispositivi, necessitano di appositi
apparecchi che interpretino il movimento nello spazio 3D e lo comunichino
al sistema.
10
Cfr. par. II.1.1.
64
“Spacemice, spaceballs and cyberpucks are the names given to some
of the six degrees of freedom desktop input devices, whilst joysticks have
two or three degrees of freedom. A degree of freedom is a direction in
which an object can move or rotate […] In VR (as in reality) there are three
degrees of freedom for translation (moving from one point to another) and
11
three for rotation.”
Secondo quanto sostenuto da Roy C. Davies, Professor of Machine
Vision e direttore del Machine Vision Group at Royal Holloway presso la
London University, un dispositivo di input con sei gradi di libertà permette
una perfetta navigazione nello spazio virtuale anche se, ovviamente,
necessità di un periodo di apprendimento all’uso.
Nel caso in cui un sistema di Desktop VR non sia fornito di tali
apparecchiature di input diventa necessario inserire nella sua interfaccia
grafica una barra di navigazione dotata di icone o bottoni che permettano,
con un semplice click del mouse, tutte le tipologie di traslazione e
rotazione attorno agli assi X,Y e Z.
I sistemi non immersivi di VR sono utilizzati oltre che dalla fiorente
industria dei videogiochi anche nel virtual prototyping basato su sistemi
CAD.
11
Roy C. Davies in Communications through virtual technologies, a cura di Gianni Riva e
Fabrizio Davide, Amsterdam, IOS Press, 2001, p. 13.
65
II.3 Finalità e utilizzo dei VEs
66
Attività fondamentali per l’industria come la progettazione e il design
utilizzano ormai da parecchio tempo i sistemi di Computer Aided Design,
il cui acronimo è CAD.
Il CAD permette la realizzazione vettoriale di disegni 2D, la
modellazione e la visualizzazione tridimensionale di solidi e la gestione dei
database relativi. Questa tecnologia si può considerare come un utilissimo
strumento per lo studio e la realizzazione delle componenti fisiche di
oggetti, edifici, e veicoli perché permette di rappresentarli nella loro
complessità ancor prima che essi vengano costruiti, comportando quindi
una riduzione notevole dei costi e delle possibilità di errore.
A questo punto intervengono le tecnologie di VR che consentono il
virtual prototyping ovvero la possibilità di ispezionare e testare in tempo
reale un prodotto mediante appositi dispositivi di visualizzazione come gli
HMDs e di interazione come i datagloves.
L’uso della realtà virtuale permette di non dover realizzare un modello
fisico dell’oggetto reale; nel caso dell’industria aeronautica o navale, i cui
prodotti hanno costi considerevoli, questa possibilità si concretizza in un
risparmio enorme di risorse e personale.
Lo studio stesso dell’ergonomia di un oggetto o di un veicolo in molti
casi è effettuato mediante l’interazione di un avatar con un VE.
Il personaggio virtuale è utilizzato, ad esempio, come pilota di un
aereo. In questo modo è possibile individuare la corretta posizione del
sedile, la disposizione della strumentazione, la visibilità attraverso il vetro
della cabina, l’interazione dei compiti dei piloti e molto altro ancora.
Avatar e VEs sono utilizzati anche per studiare la disposizione dei
macchinari di un impianto industriale ed ottimizzare le operazioni di
manutenzione e utilizzo delle varie parti. La VR permette di basare la loro
progettazione sui dati reali che corrispondono alle misure anatomiche
degli operai che andranno a compiere tali operazioni.
Sistemi di questo tipo sono commercializzati rispettivamente da
Division Ltd e Transom Corporation con il nome di Manikin Fred e
Transom Jack.
La VR viene, quindi, utilizzata per simulare l’interazione delle parti di
un macchinario complesso, per simulare la dinamica di strutture composte
67
oppure l’azione di forze sui loro materiali, per visualizzare i processi di
produzione e rappresentare dinamicamente molto altre attività che
riguardano la progettazione.
Alla luce di questa situazione è probabile che nei futuri sistemi CAD
saranno integrate direttamente le componenti che permettono la
visualizzazione dei progetti mediante VEs. Così facendo sarà possibile
ovviare i numerosi problemi che oggi si verificano a causa delle eccessive
dimensioni dei database e a causa della scarsa compatibilità dei sistemi
CAD con i software di navigazione dei modelli.
68
Diventa quindi necessario ricorrere all’utilizzo di una sonda con
telecamera e relativo display; il chirurgo deve quindi operare maneggiando
sofisticati dispositivi e guardando lo schermo.
Non è difficile immaginare la complessità delle operazioni appena
descritte e il relativo livello di preparazione e competenze che esse
richiedono. Nel passato, per preparare il personale medico a questo tipo
d’interventi, venivano usati esseri viventi oppure modelli fisici preparati
utilizzando tessuti provenienti dagli animali stessi.
Oggi è possibile sperimentare le tecniche chirurgiche in modo virtuale
e allenare il personale ad eseguire i più svariati compiti. Il sistema guida il
medico nell’interazione con il modello virtuale visualizzato sullo schermo;
mediante particolari dispositivi, che simulano i ferri chirurgici, è possibile
farlo esercitare nelle più complicate manovre.
Per rendere il training più efficace è utile fornire all’utente un feedback
delle forze fisiche che producono le sensazioni tattili provate durante
un’operazione reale. Siccome le parti del VE con cui si sta interagendo
non hanno una materialità, le forze che essi generano sono ricreate
utilizzando tecnologie haptic che incrementano l’effetto di realismo e
garantiscono una maggior immersione dell’utente.
Un esempio di MIST (Minimal Invasive Surgery Training) è il sistema
progettato dalla Virtual Presence Ltd che comprende due strumenti di
laparoscopia e un computer ad alte prestazioni; l’elaboratore calcola la
posizione dei ferri chirurgici e il loro movimento all’interno del VE
visualizzando, in tempo reale, l’interazione del medico con essi.
69
L’integrazione in essi di elementi appartenenti al mondo della
conoscenza, della rappresentazione e della comunicazione rappresenta il
12
punto di forza dell’utilizzo della VR nell’ambito del Cultural Heritage .
La terminologia anglosassone utilizzata per indicare l’impiego dei
sistemi di VR in quest'ambito è Virtual Cultural Heritage, per brevità
Virtual Heritage.
Con questa definizione ci si
riferisce all’utilizzo dei VEs per
generare, navigare, esplorare ed
indagare scenari storici e culturali
connessi a database e simulazioni.
L’importanza della simulazione
nel Virtual Heritage è costituita dalla
Figura 5
possibilità di rappresentare simultaneamente informazioni che
provengono da una pluralità di fonti diverse; in questo modo si riescono ad
integrare in un unico sistema di visualizzazione fotografie di opere d’arte,
testi antichi, indicazioni geografico-archeologiche e informazioni
storiografiche ed estetiche.
Data l’eterogeneità del materiale utilizzato nella realizzazione dei
progetti di Virtual Heritage, diventa necessario coinvolgere nella loro
ideazione gruppi di specialisti che garantiscano un approccio
multidisciplinare. Soltanto l’interazione tra esperti di applicazioni realtime e
di comunicazione, tra modellatori 3D e designer di interfacce permette la
creazione di efficaci ed efficienti sistemi di realtà virtuale.
Ovviamente questi devono essere basati su modelli e fonti autenticate
da storici e archeologi in modo da evitare la trasmissione di informazioni
culturali superficiali o fuorvianti
Il punto di forza del Virtual Cultural Heritage è l’innovativa modalità di
ricostruzione, di proposta e di fruizione dei beni culturali incentrata
sull’esplorazione di spazi ricostruiti in tre dimensioni.
In questo modo è possibile fornire all’utente un tipo di esperienza
cognitiva e formativa che non sottovaluti la dimensione ludica ed estetica.
12
L’espressione cultural heritage si riferisce al patrimonio collettivo di oggetti, resti e siti
che posseggono un valore archeologico, estetico e storico.
70
Le caratteristiche dei VEs permettono di vivere la ricostruzione del
patrimonio storico e culturale come un fatto straordinario collegato a fattori
emotivi e percettivi.
L’obiettivo dei progetti di Virtual Heritage si potrebbe sintetizzare
proprio nella ricerca di un
incremento percettivo e cognitivo
delle attività di accesso ai beni
culturali e di loro fruizione.
Un progetto di VR in questo
settore prevede due fondamentali
fasi di realizzazione: la prima
consiste nell’acquisizione sul campo
dei dati e nel reperimento delle fonti
Figura 6
storiografiche. Attività quali i rilevamenti topografici e satellitari,
la documentazione delle strutture architettoniche mediante laserscanner
(9) e fotocamere digitali e la predisposizione di database relazionali sono
quindi essenziali.
La seconda fase, invece, prevede le operazioni necessarie alla
digitalizzazione dei materiali, come fotogrammetria (10), fotomodellazione
(11) e computer vision (12), seguite da quelle di creazione e
ottimizzazione dei modelli 3D.
La realizzazione di un VE realistico è un obiettivo non trascurabile
poiché nei virtual heritage tale qualità è percepita da utenti ed addetti ai
lavori come garanzia di attendibilità della ricostruzione storica.
In questo discorso riguardante l’utilizzo delle nuove tecnologie nel
mondo dei beni culturali bisogna, infine, sottolineare l’importante ruolo
che stanno assumendo le tecnologie di simulazione e di fruizione
interattiva nella progettazione di mostre e musei.
13
Secondo quanto sostenuto da Flavia Sparacino le tecnologie
multimediali rappresentano un importante strumento che i musei possono
impiegare per attrarre il grande pubblico. Le principali applicazioni che
13
Cfr. Flavia Sparacino, Scenographies of the Past and Museum of the Future: From the
Wunderkammer to Body-Driven Interactive Spaces, Sensing Places, Cambridge,
Massachusetts, U.S.A., 2004.
71
oggi sono utilizzate riguardano il settore dell’augmented reality, dei video
digitali, dell’animazione 3D e degli strumenti interattivi.
Le strategie di comunicazione che derivano dall’utilizzo di queste
tecnologie permettono di incrementare l’efficienza educativa e l’intensità
dell’esperienza cognitiva dell’esibizione.
I sistemi di realtà virtuale permettono, infatti, di creare spazi narrativi in
cui la fruizione delle opere è interattiva. A loro interno è il visitatore stesso,
con i movimenti del suo corpo e con i percorsi scelti per la visita del
museo, ad attivare proiezioni, contenuti audio ed animazioni
tridimensionali sincronizzati con le immagini dell’augmented reality
generate dal dispositivo che sta indossando.
L’effetto ottenuto è quello di creare un’esperienza straordinaria che
interessi gran parte del sistema percettivo e cognitivo del visitatore in
modo da permettere una più profonda e coinvolgente fruizione delle opere
esposte.
Alcuni esempi di applicazione dei sistemi di VR in ambito museale
sono la mostra Puccini Set Designer organizzata da Sensing Places e il
teatro dell’opera La Scala di Milano oppure i progetti Il Museo Virtuale
della Certosa e Monte Sole realizzati dal CINECA per le istituzioni museali
bolognesi e ancora i progetti offline e online del CNR-ITABC Appia Antica
e Flaminia.
II.3.4 Entertainment
Nel 1995 Nicholas Negroponte affermò che “[...] Le aziende di giochi
elettronici stanno facendo tali sforzi nella tecnologia degli schermi video
che la realtà virtuale diventerà anche una realtà effettiva a basso costo,
mentre la NASA è stata capace di usarli, con successi solo marginali, al
costo di 200.000 dollari.” 14
14
Nicholas Negroponte, Being Digital, U.S.A., First Vintage Book Edition, 1995 (tr. it. di
Franco e Giuliana Filippazzi, Essere Digitali, 3ªed., Milano, Sperling Kupfer Editori
s.p.a., 2004, p. 81).
72
Oggi sono in molti ad essere convinti che in un futuro prossimo
venturo le tecnologie di VR e i sistemi di grafica immersiva diventeranno il
settore più importante e redditizio dell’industria dell’intrattenimento.
Per quanto riguarda la situazione attuale, se si escludono il mercato
dei videogiochi, i sistemi di Desktop VR e i mondi virtuali online trattati nel
paragrafo II.2.4. bisogna constatare che nel mondo dell’intrattenimento
l’utilizzo dei VEs sia ancora limitato ad alcune applicazioni specifiche e sia
condizionato da una concezione semplicistica che sminuisce le loro
potenzialità comunicative.
In analogia con quanto accaduto al cinema delle origini e a moltissime
altre tecnologie in fase di sviluppo, la VR è spesso considerata
nell’immaginario collettivo come un fenomeno da baraccone da esibire nei
parchi di divertimento e nelle fiere per catturare l’attenzione del pubblico.
Questa prospettiva evidentemente sottovaluta i sistemi di grafica
immersiva non concependoli come strumenti in grado di creare e
trasmettere significati profondi.
Tuttavia anche nel settore dell’entertainment esistono, già oggi,
numerosi tentativi ed esperimenti che cercano di individuare e sfruttare al
meglio le caratteristiche di queste nuove forme mediali.
E’ soprattutto il mondo dei grandi network televisivi, come BBC e FOX,
che sta tentando di integrare la realtà virtuale con le tecnologie già in loro
possesso con il fine di realizzare la televisione del futuro.
Un esempio di applicazione dei VEs nel mondo del broadcasting
televisivo è costituito dai programmi di ITV News, canale tematico della
rete britannica ITV1; i notiziari dell’emittente televisiva in questione sono
prodotti in avveneristiche strutture dotate delle più evolute tecnologie che
prendono il nome di virtual studios.
Un virtual studio è uno studio televisivo che permette la combinazione
di ambienti generati al computer e di attori o conduttori in carne ed ossa
che vengono integrati in real-time da un software di rendering.
Quest’applicazione utilizza un sistema di tracciamento delle
telecamere e genera immagine sintetiche dell’ambiente proprio come nei
sistemi di VR. La principale differenza tra la tecnologie del virtual studio e
quelle del bluescreen utilizzato per gli effetti speciali cinematografici è
73
costituita dal real-time rendering che elimina la necessità di effettuare il
processo di combinazione tra immagini referenziali e non referenziali in
post produzione.
Un’ulteriore applicazione della VR nella TV di oggi riguarda l’impiego
di personaggi e conduttori virtuali nelle trasmissioni dedicate ai più piccoli;
celebri in Italia sono quelli dei programmi RAI “Melevisione” e andati in
onda negli ultimi anni.
In questa breve parentesi sui VEs nel settore intrattenimento non
possiamo evitare di sottolineare che nel 2005 il ministero giapponese delle
Telecomunicazioni ha creato un gruppo di ricerca con l’intento di
15
realizzare entro il 2020 la VR TV , ovvero una tecnologia avanzata che
sarà in grado di visualizzare immagini tridimensionali guardabili da
qualunque punto di vista.
Questa tecnologia presenterà immagini con una qualità paragonabile
a quella della HD TV e permetterà allo spettatore di godere di
un’esperienza multisensoriale di fruizione.
II.3.5 Medicina
Il mondo della VR entra in contatto con la medicina seguendo una
16
duplice direzione: la prima, definita VRT , consiste nel fare ricorso alla
realtà virtuale per curare patologie e disturbi psichici, mentre la seconda
riguarda la telemedicina e la messa a punto di strumenti chirurgici
avanzati per compiere interventi in particolari e complesse situazioni.
La VRT si può considerare come un metodo psicoterapico che utilizza
le tecnologie di VR e il potere dell’immaginazione per curare pazienti
affetti da stati d’ansia, disturbi post traumatici e altre fobie.
17
I primi esperimenti di VRT furono effettuati negli anni Novanta e
secondo quanto affermato da Giuseppe Riva, Enrico Molinari e Francesco
15
Virtual Reality Television
16
VRT è l’acronimo di Virtual Reality Therapy.
17
Da ricercatori e psicoterapisti quali L.F. Hodges, B.O. Rothbaum, R. Lamson, M.M.
North.
74
18
Vincelli permisero subito di capire l’importanza della VR nella messa a
punto di terapie in cui l’immaginazione e la memoria hanno un ruolo
determinante.
Queste due funzioni mentali rappresentano uno strumento
fondamentale nel processo cognitivo umano, ma allo stesso tempo
impongono dei limiti agli individui. La VRT è lo strumento che permette di
superarli con esperienze percettive che in modo illusorio paiono non
mediate e garantendo la possibilità di interagire collettivamente con un
ambiente ricostruito, utilizzato per condividere significati comuni.
Nell’ultimo decennio per curare patologie quali l’acrofobia, la paura di
volare, la claustrofobia e l’agorafobia si sono ottenuti importanti
miglioramenti delle condizioni dei pazienti.
Nelle terapie in questione si è fatto ricorso ad esperienze virtuali che
simulassero, attraverso un VE, l’immersione dei pazienti nelle situazioni
reali che inducono in essi tali disturbi. In questo modo è risultato possibile
aiutare il malato a tentare di superare le proprie fobie garantendo però la
possibilità di effettuare la terapia in un contesto sicuro e totalmente
controllato dallo staff medico.
La seconda modalità di applicazione della VR, in ambito medico,
riguarda la telemedicina ed è basata su tecnologie sviluppate dai militari
ed in seguito utilizzate in ospedali e centri di ricerca definite TeSS 19.
Nei sistemi TeSS le tecnologie di VR sono utilizzate per praticare
operazioni chirurgiche in telepresenza (13) che permettono ai medici di
utilizzare, attraverso una connessione a banda larga, apparecchiature e
dispositivi situati in un luogo diverso da quello in cui si trovano.
Le applicazioni ed i vantaggi di queste tecnologie sono evidenti: è
possibile permettere ad uno specialista di guidare un altro medico in un
intervento effettuato in un contesto non convenzionale come un aereo in
volo o una nave in mare aperto, è possibile comandare apparecchiature
operatorie automatiche che si trovano in un ospedale presso un campo di
battaglia o in una zona difficilmente accessibile.
18
Cfr. Giuseppe Riva, Enrico Molinari, V.R. as communicative medium between patient
and therapist in Communications through virtual technologies, a cura di Gianni Riva e
Fabrizio Davide, Amsterdam, IOS Press, 2001.
19
TeSS è l’acronimo di Telepresence Surgery System.
75
I TeSS permettono, quindi, di non esporre il chirurgo a rischi di
infezioni o situazioni pericolose e al contempo di garantire la
collaborazione di uno staff medico i cui membri si trovano in luoghi distanti
tra loro.
Ovviamente queste sofisticate apparecchiature sono utilizzate anche
nel training dei medici e nelle università dato che permettono agli studenti
di medicina, privi di ogni esperienza pratica, di effettuare operazioni ed
essere guidati dai docenti situati in altre stanze.
76
II.4 Forme e Convenzioni nei VEs
20
Cfr. Philippe Quéau, Eloge de la simulation, Seyssel, Champ Vallon, INA, 1986.
77
dell’intelligenza) e permette ai gruppi di condividere, negoziare e precisare
modelli mentali comuni, quale sia la complessità di tali modelli (aumento
dell’intelligenza collettiva).” 21
Non mancano tuttavia coloro che, trascurando il potere conoscitivo
della simulazione tecnologica, demonizzano il suo impiego in nome di una
più tradizionale e antropocentrica concezione del sapere.
Senza abbandonarsi ad un inutile ottimismo tecnofilo è, però, possibile
affermare che il ricorso alle pratiche di simulazione non ha l’intento di
sostituirsi alla conoscenza diretta della realtà e ai ragionamenti che ne
derivano, ma al contrario si pone l’obiettivo di ampliare il potenziale
epistemologico umano integrando ad esso nuove tipologie di
rappresentazione e di immaginazione, codificate su supporti tradizionali o
digitali.
Un riscontro di quanto appena sostenuto, è una considerazione che
Pierre Lévy compie a proposito delle capacità mnemoniche umane.22
La memoria a lungo termine è in grado di codificare, conservare e
reperire una mole impressionante di informazioni relative ad esperienze
vissute e nozioni apprese nel corso di un’intera vita. Al contrario la
memoria a breve termine, quella cioè che fa ricorso ai simboli e quindi
alle rappresentazioni per conservare intenzionalmente le informazioni,
permette di ricordare un numero molto ridotto di dati, non più di una
decina di oggetti alla volta, per un periodo piuttosto limitato.
Ad esempio se proviamo a raffigurarci mentalmente la navata di una
cattedrale che abbiamo visitato soltanto qualche decina di minuti prima,
possiamo costruire una visione generale di essa, ma non siamo in grado
di “mettere a fuoco” in dettaglio gli elementi di cui è costituita, ad esempio
il numero delle colonne. Per fare ciò è necessario ricorrere ad una
“tipologia di memoria” esterna a noi, quale una fotografia, un quadro o un
modello tridimensionale della suddetta cattedrale.
21
Pierre Lévy, Cyberculture. Rapport au Conseil de l’Europe, Parìs, Edition Odile Jacob,
1997 (tr. it. di Donata Ferodi/Shake, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie,
Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1999, p. 151).
22
Ibidem.
78
La simulazione si può considerare, in questo caso, una preziosa
attività conoscitiva, che integra il pensiero razionale e l’esperienza diretta
diventando un’estensione della nostra memoria.
Durante la sua storia, la cultura umana ha prodotto moltissime
tipologie di simulazione: si parte da modelli molto rudimentali, ma
comunque cruciali per lo sviluppo dell’uomo, come la cosiddetta “roccia
dei campi” di Bedolina, ovvero un petroglifo rinvenuto in Valcamonica che
è considerato il più antico modello di rappresentazione geografica in
23
Europa , per arrivare alla messa a punto di schemi articolati e dinamici
che consentono di valutare e prevedere fenomeni complessi come quelli
meteorologici o astronomici.
Come abbiamo già affermato la realtà virtuale si può considerare una
fra le più sviluppate forme di simulazione che siano mai state realizzate.
Per arrivare a tale risultato è stato necessario integrare, nei sistemi di
grafica immersiva, innumerevoli tipologie di modelli e tradurli in termini
matematici, comprensibili ed elaborabili in tempo reale dal computer che
gestisce la simulazione.
Alla base di un sistema di grafica immersiva, come del resto di
qualunque altro sistema informatico, vi è dunque un processo di
simulazione digitale. Essa si può considerare come la trasposizione in
termini logico-matematico-procedurali di un modello della realtà; tale
modello concettuale può essere definito come la rappresentazione di un
oggetto o di un fenomeno, che corrisponde alla cosa modellata per il fatto
di riprodurne (eventualmente alla luce di una certa interpretazione) alcune
caratteristiche o comportamenti fondamentali.
Le caratteristiche di un modello digitale, che si può semplicemente
definire come un modello con base numerica, rendono interattivo il
processo di simulazione.
Chi interagisce con tale tipologia di modelli, infatti, non compie una
tradizionale attività di lettura di dati statici, ma bensì esplora in modo
dinamico e partecipativo il materiale che costituisce la simulazione,
23
Cfr. Franco Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi,
2003.
79
arrivando ad intuire le relazioni causa-effetto che soggiacciono al modello
stesso.
Nel momento in cui l’esito della simulazione non è più rappresentato
da una sequenza di numeri, ma bensì da immagini, si inizia a parlare di
simulazione grafica.
Nella realtà virtuale la simulazione grafica è basata su modelli
tridimensionali che si appoggiano su enormi database. In essi sono
contenute le informazioni relative a qualunque elemento presente nel VE.
La possibilità di aggiornare in tempo reale tali basi di dati e ritornare
automaticamente al sistema le nuove variabili ottenute, rende la realtà
virtuale un medium interattivo e permette a chi la utilizza di muoversi
all’interno del modello avendo sempre una corretta percezione
dell’ambiente virtuale in cui è immerso.
Il VE, pur essendo per definizione un contesto virtuale, è un mondo
costituito da oggetti, “forme di vita”, fenomeni con una propria specificità.
Se l’intento del sistema di realtà virtuale è quello di simulare
realisticamente un ambiente o uno spazio, è necessario inserire al suo
interno la simulazione di fenomeni fisici e, di conseguenza, attribuire agli
oggetti presenti determinati comportamenti.
Per spiegare in modo più chiaro la simulazione fisica in un VE
ricorreremo ad un semplice esempio: se un utente sta viaggiando su
un’automobile bisognerà implementare le forze virtuali di accelerazione e
attrito che agiscono su tale mezzo. Inoltre se durante una curva egli
perde il controllo dell’auto, bisognerà calcolare la forza centrifuga a cui
essa è sottoposta, e nel caso di una collisione stabilire cosa succederà al
veicolo una volta che ha “impattato” contro un ostacolo virtuale.
Operazioni quali la collision detection e il calcolo dei costraints degli
oggetti sono operazioni computazionalmente effettuabili dalla maggior
parte dei motori fisici dei videogiochi e dei sistemi di grafica immersiva.
Quello che, ancora oggi, non è possibile fare è calcolare in tempo
reale gli effetti di fenomeni fisici complessi e rappresentare in modo
realistico le loro conseguenze sull’ambiente virtuale.
Da questa considerazione è possibile dedurre che, allo stato attuale, il
vero limite della realtà virtuale è raggiungere una capacità di calcolo tale
80
da gestire l’enorme quantità di equazioni matematiche che stanno alla
base dei modelli.
Un ulteriore livello di simulazione, connesso con i sistemi di grafica
immersiva, è quello che riguarda la percezione sensoriale degli utenti.
Per garantire un’esperienza virtuale davvero coinvolgente è
necessario creare una simulazione con un elevato livello di immersività;
tale concetto presuppone che non si privilegino soltanto il senso della vista
e quello dell’udito, ma che si organizzino modelli percettivi olistici che
permettano di coinvolgere anche il tatto, l’olfatto e il gusto. Tratteremo il
tema dei fattori umani nella realtà virtuale nel paragrafo II.5.
Per terminare questa panoramica sulle tipologie di simulazione
coinvolte in un sistema di VR è necessario compiere un’ultima
precisazione. Nei VEs in cui sono presenti “esseri viventi virtuali” è
necessario procedere con un’ulteriore attività di simulazione che assegni a
tali entità comportamenti e caratteristiche che le rendano verosimili.
Non è questa la sede idonea a trattare argomenti così complessi
come quelli inerenti alle ricerche sull’intelligenza artificiale, d’ora in avanti
AI, oppure alla vita artificiale (AL), tuttavia vogliamo fornire alcune
informazioni in proposito.
Il campo della ricerca sulla vita artificiale si è evoluto molto negli
ultimi trenta anni; se inizialmente le ricerche in tale ambito si sovrapposero
allo studio dell'intelligenza artificiale, i due campi sono molto differenti
nella loro storia e nel loro approccio.
La ricerca organizzata sull'AI è cominciata presto nella storia degli
elaboratori digitali, ed in quegli anni è stata spesso caratterizzata da un
approccio dall'alto verso il basso, basato su complicati insiemi di regole.
Gli studiosi di vita artificiale, invece, non hanno avuto alcuna
organizzazione fino ai tardi anni Ottanta, e hanno spesso lavorato isolati
concentrandosi sulla natura dal basso verso l’alto dei comportamenti
emergenti negli esseri viventi.
Oggi le simulazioni che utilizzano la vita artificiale sono caratterizzate
dall'uso estensivo di programmi e simulazioni al computer, che includono il
calcolo evolutivo, quindi algoritmi evolutivi, algoritmi genetici, modelli di
81
intelligenza di sciame (swarm intelligence) e l’ottimizzazione basata sui
formicai, ovvero Ant Colony Optimization.
Ovviamente le simulazioni di vita artificiale non trascurano i dettami
della chimica artificiale e i modelli basati su agenti e automi cellulari.
24
Gianfranco Bettetini, La simulazione visiva, Milano, Bompiani, 1991, p.52.
82
composta da tanti elementi puntiformi, i pixel, le cui informazioni relative
alla posizione, profondità del colore, luminosità sono rappresentate da
valori binari conservati nel dispositivo di memorizzazione che “contiene”
l’immagine stessa.
La struttura a pixel dell’immagine sintetica fa sì che essa si possa
definire modulare. Il concetto di modularità stabilisce che un elemento sia
formato da entità più piccole ed indipendenti, la cui combinazione
costituisce la struttura dell’oggetto stesso; a sua volta tale oggetto può
essere assemblato in sistema più complesso, sempre conservando la
propria identità autonoma. Un esempio di quanto sostenuto può essere il
seguente: un Virtual Environment è costituito da una pluralità di oggetti
tridimensionali indipendenti fra loro. Le informazioni relative ad essi sono
contenute nel complesso database su cui è costruito il modello navigabile.
A loro volta tali oggetti sono composti di un numero molto elevato di voxel,
che analogamente ai pixel, rappresentano le informazioni di intensità di
segnale e di colore di quell’oggetto nello spazio tridimensionale.
L’immagine sintetica presenta, dunque, una duplice conformazione:
da una parte essa è una rappresentazione simbolica percepibile ed
interpretabile da chi la guarda, dall’altra è una sequenza di informazioni
numeriche comprensibili solamente da un computer.
Secondo Lev Manovich questa sua caratteristica permette
all’immagine digitale di assolvere svariate funzioni 25.
Essa è un’interfaccia nel momento in cui permette all’utente di un
ambiente desktop di lanciare un’applicazione, di avviare un servizio, di
collegarsi ad altri oggetti mediali, insomma di entrare in contatto con un
mondo digitale sottostante. Secondo tale prospettiva l’immagine sintetica
è inoltre “strumento immagine” poiché “permette all’utente d’incidere a
26
distanza sulla realtà fisica, in tempo reale” come avviene nei sistemi di
telepresenza.
Per terminare questa sezione dedicata all’immagine sintetica è
necessario ricordare che questa tipologia di rappresentazione, essendo il
risultato di un processo digitale di elaborazione, è soggetta anche agli altri
25
Cfr. Lev Manovich, op. cit.
26
Op. cit. p. 358.
83
principi che regolano i nuovi media, quali la transcodifica, l’automazione e
la variabilità.
II.4.3 Lo Schermo e la VR
Le considerazioni compiute nel paragrafo I.1.4 hanno posto l’accento
sulle caratteristiche dello schermo dinamico, inteso come “finestra” su un
mondo in divenire, come interfaccia per una rappresentazione visiva che
cambia nel tempo. Abbiamo indicato il cinema e la televisione come i
principali mezzi di comunicazione in cui tale convenzione trova la sua
naturale ragion d’essere.
La diffusione dei personal computer durante gli anni Ottanta e
Novanta ha, però, provocato una ridefinizione del concetto di schermo;
esso, infatti, diventa monitor ovvero uno schermo in cui le immagini
visualizzate possono essere modificate in tempo reale.
La principale differenza tra il monitor e lo schermo dinamico risiede,
quindi, nella capacità del primo di mostrare più di un immagine alla volta.
Tale situazione si può verificare poiché le interfacce dei personal
computer sono interattive e permettono all’utente di aprire più “finestre”
simultaneamente e compiere svariate operazioni su ciò che è
rappresentato all’interno.
Le tecnologie della realtà virtuale possono essere considerate come
un ulteriore stadio evolutivo dell’originale idea di schermo nata nel
Rinascimento.
Nei sistemi di grafica immersiva, infatti, la simulazione è priva di
confini dimensionali e le immagini occupano l’intero campo visivo di chi
guarda.
La stessa metafora di “finestra” sul mondo della rappresentazione, con
la quale lo schermo classico era identificato, viene meno.
L’utente di un sistema di realtà virtuale non è posto di fronte ad una
superficie piatta e rettangolare in cui si manifesta la simulazione di un
mondo altro, differente da quello in cui si trova. Egli è inserito in prima
persona nel mondo fittizio che viene simulato e modificato in tempo reale
da un calcolatore. Tale spazio virtuale è dotato di una forte
84
verosimiglianza con l’ambiente rappresentato ed è basato su forme solide
tridimensionali modellate in modo da apparire analoghe alle loro
corrispondenti materiali.
Dal momento che la scala dimensionale del mondo reale e quella del
mondo rappresentato sono uguali, è possibile sostenere che all’interno dei
sistemi di grafica immersiva lo spazio fisico e quello virtuale coincidano e
l’utente abbia l’illusione di trovarsi realmente in prossimità di ciò che viene
simulato.
La simulazione della realtà virtuale riesce a determinare un livello di
immersione e presenza nel modello tridimensionale tale che l’individuo
che interagisce con l’ambiente tridimensionale non è più, come avviene al
cinema, al limite del mondo che può percepire, bensì è totalmente
coinvolto ed inserito in esso.
Uno dei principali effetti di questa situazione è, dunque, la scomparsa
del concetto di schermo e di molte convenzioni ad esso collegate. Su tutte
intendiamo ricordare il dissolversi del regime di visione frontale, tipico
delle rappresentazioni prospettiche, e la condizione di immobilità imposta
alla spettatore.
L’utente di un sistema di grafica immersiva è, infatti, libero di spostare
il proprio punto di vista e muoversi all’interno dello spazio virtuale
percorrendo strade e percorsi non predeterminati; egli ha inoltre la
possibilità di interagire con ciò che si trova davanti ed accedere ai
contenuti in base alle proprie preferenze e curiosità. Ovviamente siamo
lontani dall’affermare che egli non sappia di trovarsi solo virtualmente
all’interno del mondo simulato.
85
Tutte le tipologie di simulazione che appartengono alla storia della
rappresentazione hanno escogitato tecniche ed espedienti volti ad
“ingannare” il pubblico e celare i meccanismi che stanno dietro il processo
di comunicazione.
La pittura, a partire dal Rinascimento, ha fatto ricorso alla prospettiva
lineare per descrivere lo spazio con strutture matematiche e creare
l’illusione di tridimensionalità all’interno di un’immagine bidimensionale.
Il cinema classico ha tentato di nascondere la propria natura illusoria
attraverso convenzioni linguistiche come il sistema dei 180°, la proibizione
dello sguardo in macchina o le varie tipologie di raccordi tra le sequenze.
Il montaggio cinematografico stesso si può considerare come una
delle principali tecniche di creazione di realtà artificiali con cui nel
Novecento si è tentato di simulare spazi narrativi coerenti e nascondere
l’artificialità del set o dello studio in cui sono filmate le immagini.
La realtà virtuale è considerata, per sua stessa natura, un mezzo di
comunicazione anomalo. Il suo obiettivo è, infatti, quello di fornire al
pubblico un’esperienza percettiva priva di mediazioni, attraverso la quale
interagire in prima persona col mondo virtuale che si sta esplorando.
Questo avviene perché le sensazioni di immersione e presenza
generate dal modello 3D portano l’utente a sentirsi parte integrante della
realtà artificiale che sta percependo, e allo stesso tempo, tendono ad
occultare la natura mediale del VE.
Per spiegare le caratteristiche che differenziano i sistemi di grafica
immersiva dai media tradizionali ricorreremo ai concetti di trasparenza
(immediacy) e ipermediazione (hypermediacy) introdotti nel campo delle
teorie sui media da Jay David Bolter e Richard Grusin 27.
Secondo gli autori di Remediation la comunicazione dell’epoca della
digitalizzazione si articola seguendo una doppia logica: “La cultura
contemporanea vuole allo stesso tempo moltiplicare i propri media ed
eliminare ogni traccia di mediazione: idealmente, vorrebbe cancellare i
28
propri media nel momento stesso in cui li moltiplica.”
27
Cfr. Jay David Bolter e Richard Grusin, Remediation. Understanding New Media,
Cambridge, Massachusetts, The MIT Press, 1999 (tr. it. di Benedetta Gennaro,
Remediation, 2ªed., Milano, Guerini e Associati s.p.a., 2002).
28
Op. cit. p. 29.
86
La realtà virtuale è l’epitome di questa situazione; essa costruisce
nuove modalità di creazione e trasmissione dei significati facendo proprie
e ridefinendo le forme dei media che la hanno preceduta, dei quali il
cinema è l’esempio più lampante, ma contemporaneamente tenta di
nascondere se stessa attraverso un’interfaccia trasparente.
Nei sistemi di grafica immersiva, infatti, è lo spazio virtuale stesso,
ovvero il messaggio, il contenuto della comunicazione, a ricoprire il ruolo
di interfaccia. Fra l’utente e la base di dati su cui si sviluppa il sistema di
realtà virtuale non vi è altro che il modello tridimensionale che egli sta
navigando.
Anche se la volontà di immediatezza è riscontrabile nei media
tradizionali, come la pittura, le dirette televisive e alcune produzioni
cinematografiche, i VEs sono il contesto mediale in cui tale logica
comunicativa si sviluppa con più evidenza.
Negli ambienti virtuali l’utente è posto “nello stesso spazio visivo
29
dell’oggetto osservato” e può percepire il mondo circostante mediante
una percezione in soggettiva che ha l’intento di risultare il più possibile
analoga all’esperienza quotidiana di interazione con la realtà.
La trasparenza e l’immediatezza dei VEs si concretizzano nella
possibilità di “afferrare” un oggetto di cui si vogliono conoscere le
caratteristiche, di “entrare” in una stanza del museo virtuale che si sta
visitando, quindi nell’interagire con il contenuto del mezzo di
comunicazione compiendo atti naturali.
Questa situazione è possibile perché la VR ha ridefinito la
comunicazione digitale facendo in modo che le persone che navigano un
VE tendano a dimenticare di avere a che fare con un medium e credano di
poter accedere direttamente ai contenuti.
Ovviamente, allo stato attuale dei sistemi di grafica immersiva,
esistono alcuni limiti tecnologici, quali l’utilizzo di pesanti dispositivi di
input/output e l’impossibilità di realizzare simulazioni in “alta definizione”,
che non permettono agli utenti di paragonare il mondo virtuale alla realtà
con cui si confrontano quotidianamente.
29
Op. cit. p 37.
87
In un futuro prossimo il rapido progresso tecnologico e lo sviluppo di
nuove forme di interazione con i VEs permetterà alla realtà virtuale di
superare tali limiti tecnici e cambiare radicalmente il mondo dei media, nel
senso in cui lo consideriamo oggi.
Ora andiamo a vedere nello specifico alcune delle soluzioni estetiche
e tecnologiche che gli sviluppatori utilizzano per nascondere la finzione
degli ambienti virtuali.
30
Cfr. Lev Manovich, op. cit.
88
L’effetto che gli sviluppatori di VEs vogliono causare è proprio quello
di simulare la continuità tipica dell’esperienza umana di esplorazione di un
luogo o di un ambiente e incrementare dunque il realismo della
simulazione.
Nei nuovi media l’estetica della continuità è resa possibile dalla già
citata tecnica della composizione digitale o compositing.
Come abbiamo visto nel paragrafo I.1.7, il compositing permette di
integrare in un unico VE elementi che appartengono a media differenti
quali testo, video e grafica 3D, facendoli apparire all’utente in modo
univoco e dunque esperire come un’unica realtà.
Le forme espressive che soggiacciono a questa nuova categoria
estetica sono percepite dall’utente come un unico continuum in cui le varie
componenti mediali stratificate si amalgamano e vengono interpretate
come nuove modalità di creatività e comunicazione.
L’estetica della realtà virtuale si pone, dunque, nei confronti del
montaggio, che è ancora oggi il fondamento primario del linguaggio
cinematografico, in modo antitetico.
L’editing cinematografico, inteso come soluzione linguistica che crea
stacchi, disgiunzioni, differenze semantiche e sintattiche tra le varie forme
del cinema, ha dominato la rappresentazione audiovisiva del XX secolo.
Oggi la composizione digitale, basata sulla creazione di un flusso unitario
di oggetti mediali provenienti da sequenze differenti, si può considerare
come il paradigma dominante riscontrabile nelle maggior parte delle forme
di simulazione.
La continuità derivante dal compositing è senza dubbio la principale
tecnica che permette di far apparire come reale lo spazio virtuale dei nuovi
media e che si può impiegare per nascondere l’artificialità e la finzione
della simulazione digitale.
89
Tale caratteristica si può considerare come un particolare aspetto
della variabilità tipica dei nuovi media.
Lev Manovich inserisce quest’ultima proprietà tra i principi ispiratori
dei nuovi media e la descrive dicendo che: “Un nuovo oggetto mediale
non è qualcosa che rimane identico a se stesso all’infinito, ma è qualcosa
che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro” . 31
Nelle telecomunicazioni e nell’ingegneria del software il termine
scalabilità si riferisce alla capacità di un sistema di crescere o decrescere,
ovvero aumentare o diminuire di scala, in funzione delle necessità e delle
disponibilità che insorgono in un dato momento.
Gli sviluppatori dei nuovi media hanno fatto proprio il principio di
scalabilità prevedendo la possibilità di implementare diverse versioni di
uno stesso contenuto; quest’ultimo può assumere determinate dimensioni
o qualità in base alle caratteristiche del sistema che andrà a leggere
quell’oggetto mediale.
La simulazione tridimensionale, come abbiamo visto, è uno degli
aspetti più importanti di un VE.
Durante la navigazione di un modello 3D più l’effetto di realismo è
elevato più l’utente riesce ad interpretare ciò che sta percependo come
parte del mondo in cui è abituato a muoversi; se la simulazione diventerà
totalmente immersiva si potrà, forse, arrivare per un attimo a dimenticare
di essere in uno spazio virtuale costruito con le tecnologie digitali.
Uno scenario di questo tipo richiede l’utilizzo di costosissime
apparecchiature e di computer molto potenti per eseguire in tempo reale il
rendering dell’enorme mole di dati relativi alle informazioni percettive di un
ambiente complesso e ricco di particolari.
Solo in questo modo sarà possibile evitare che si creino delle latenze
(time lags) nell’interazione dell’utente con il modello e delle aberrazioni
che interrompano l’immersione.
In attesa di sistemi hardware che riescano ad eseguire rapidi loop di
calcoli e gestire VEs in altissima risoluzione, già da parecchi anni sono
stati sviluppati algoritmi e soluzioni ad hoc che sfruttano il principio di
scalabilità.
31
Op. cit. p. 57.
90
Un esempio sono gli algoritmi che permettono di diminuire la
complessità dei modelli e quindi alleggerire l’attività computazionale del
sistema basandosi sulla tecnica dei livelli di dettaglio (L.O.D.).
I L.O.D. incrementano l’efficienza del rendering facendo diminuire il
carico di lavoro nei vari passaggi di cui è costituita la pipeline grafica,
solitamente attuando una semplificazione del numero dei vertici di cui
sono costituiti i poligoni alla base del modello.
La finzione digitale è nascosta creando una simulazione
dettagliatissima nel punto che costituisce il fuoco dell’attenzione percettiva
e cognitiva dell’utente. Ad esempio le geometrie e le texture di oggetto
vicino all’utente sono generate con la più alta qualità disponibile. Nel
momento in cui l’individuo si allontana da ciò che ha di fronte oppure
inizia a muoversi automaticamente il sistema passa ad un livello di
dettaglio minore. Solitamente la qualità visiva del VE non diminuisce
perché attraverso la scalabilità del modello è possibile sfruttare alcuni limiti
fisiologici del sistema percettivo umano che non permettono di percepire
in modo nitido un oggetto quando siamo in movimento o ci troviamo molto
lontani da esso.
Il principio di scalabilità viene utilizzato anche per la rappresentazione
di oggetti complessi come una vasta foresta di alberi che presentano molti
rami e migliaia di foglie. Nella VR tali vegetali non sono oggetti
tridimensionali veri e propri, ma bensì billboard ossia superfici piatte
rivestite da semplici immagini di alberi. Nel momento in cui l’utente decide
di esaminare una singola pianta essa verrà automaticamente sostituita
con un modello tridimensionale complesso, non appena egli le sarà
abbastanza vicino.
Seguendo la stessa logica progettuale risulta molto più conveniente
sostituire la tridimensionalità delle rocce, delle montagne e praticamente di
tutto ciò che è visualizzato come una zona uniforme di colore, quando
visto in lontananza, con una semplice superficie colorata.
Ad oggi praticamente nessun sistema di VR contempla la possibilità di
renderizzare ombre e luci in modo realistico, sarebbe davvero troppo
gravoso per il sistema. Per ovviare a questo limite, il principio di scalabilità
ha permesso di fare in modo che nel caso in cui degli oggetti debbano
91
necessariamente essere presentati in modo molto realistico, siano
sostituiti da rappresentazioni non dinamiche precedentemente
renderizzate che vengono inserite nel VE al momento opportuno.
Un’ulteriore applicazione del concetto di scalabilità dei modelli può
essere sfruttata dai progettisti di un VE nel momento in cui essi devono
prevedere diverse versioni dello stesso ambiente virtuale da utilizzare su
sistemi con caratteristiche differenti.
La soluzione comunemente più adottata è quella che prevede la
creazione di più versioni di uno stesso VE, ciascuna delle quali è più
semplificata rispetto alla precedente.
Se la simulazione sarà fruita in un CAVE la qualità del modello
tridimensionale e sensoriale sarà la più elevata possibile, se al contrario
essa dovrà essere fruita online e quindi “girare” su un web server si
utilizzerà la versione più semplificata e meno ricca di particolari in modo
da garantire l’usabilità anche nei casi di una connessione non molto
veloce.
92
II.5 Fattori Umani
Prima di descrivere in dettaglio le strutture formali che stanno alla
base dei sistemi di grafica immersiva, è importante approfondire alcuni
aspetti dell’apparato percettivo umano che essi coinvolgono.
Il processo simulatorio messo in atto dalle tecnologie di realtà virtuale
si basa, infatti, oltre che sui complessi dispositivi tecnologici che abbiamo
descritto nel corso del capitolo, anche su alcune importanti proprietà
sensoriali definite fattori umani.
Quest’ultima definizione, a dire il vero, comprende anche altre funzioni
proprie del cervello dell’uomo, quali la cognizione spaziale, le modalità di
apprendimento in un ambiente tridimensionale, la costruzione di modelli
cognitivi e tanti altri temi connessi alla psicologia il cui approfondimento
esce, però, dal raggio di azione di questo saggio.
Parlare di fattori umani nei sistemi di grafica immersiva ci porta,
innanzitutto, a compiere una precisazione. Molte ricerche e molti progetti
che riguardano la realtà virtuale hanno posto l’attenzione prevalentemente
su quei sensi che nella storia della rappresentazione hanno avuto un ruolo
privilegiato: la vista e l’udito.
Oggi lo sviluppo tecnologico e la creazione di dispositivi hardware
sempre più avanzati permettono di coinvolgere nell’attività di simulazione
anche i sensi cosiddetti della prossimità e del contatto, ovvero olfatto,
gusto e tatto.
Tali specificità dell’apparato percettivo umano, per ragioni culturali e
tecniche, sono da sempre posti in secondo piano nel panorama della
comunicazione mediata.
Tratteremo le caratteristiche dell’udito e le soluzioni individuate per la
rappresentazione spaziale dei segnali sonori nel paragrafo II.8. Ora ci
occuperemo nuovamente della simulazione visiva, analizzandola però dal
punto di vista sensoriale, per poi descrivere le simulazioni relative agli altri
sensi.
Introdurremo, infine, una riflessione sulla necessità di progettare
sistemi di realtà virtuale che non trascurino l’unitarietà del sistema
percettivo umano e permettano, dunque, esperienze virtuali polisensoriali.
93
La vista
Semplificando molto, l’occhio umano si può considerare come una
sfera composta di diverse parti: le principali sono retina, fovea, coroide,
sclera, cornea, pupilla, iride e cristallino.
La loro azione combinata permette di inviare, attraverso il nervo ottico,
stimoli sensoriali al cervello, il quale ha il compito di interpretarli e
trasformarli in informazioni visive.
Le caratteristiche fisiologiche dell’apparato visivo umano sfruttate dalle
tecnologie di simulazione visiva sono molte. Quelle che interessano la
nostra riflessione sui sistemi di grafica immersiva sono la visione
binoculare, la parallasse di movimento e la profondità prospettica.
Alla base della simulazione visiva dei sistemi di grafica immersiva vi è
l’illusione di profondità della scena che si sta guardando e la conseguente
percezione di tridimensionalità dell’ambiente virtuale.
Nell’uomo e in altre specie animali gli occhi osservano la medesima
scena, ma da due punti di vista diversi, corrispondenti alla distanza
interpupillare.
Quando ci muoviamo attorno ad un oggetto, i corpi ciliari modificano la
forma del cristallino per rifrangere la luce che proviene da tale oggetto
sempre allo stesso modo. Così facendo è possibile mantenere a fuoco la
sua immagine sulla retina e percepirla con nitidezza. Gli occhi, inoltre,
convergono autonomamente in modo tale che le immagini riflesse dal
cristallino si formino sulla medesima area retinica in ciascun occhio.
Il processo di mappatura dell’immagine appena descritto sta alla base
della visione stereoscopica tipica della realtà virtuale.
La differenza tra le due immagini retiniche è chiamata stereopsi
binoculare, o più semplicemente stereopsi.
La stereopsi è quella capacità percettiva che consente di unire le
immagini provenienti dai due occhi, che a causa del loro diverso
spostamento strutturale, presentano uno spostamento laterale, detto
parallasse oculare.
Attraverso questo processo percettivo, definito percezione binoculare,
il cervello trae informazioni sulla profondità della scena che si sta
94
guardando e deriva il senso di tridimensionalità dell’oggetto messo a fuoco
e la sua posizione nello spazio.
La percezione binoculare è possibile perché i nostri occhi producono
due differenti campi visivi (FOVs) che sovrapponendosi creano il
cosiddetto campo visivo binoculare, le cui misure angolari sono circa 90°
in orizzontale e 60° in verticale. L’area in cui i FOV si sovrappongono è di
circa 120° ed è la zona in cui avviene la stereognosi, ossia l’operazione
cognitiva che permette al cervello di determinare la tridimensionalità degli
oggetti o degli ambienti che si stanno vedendo.
Un altro importante concetto per la simulazione visiva è quello di
profondità prospettica. Le funzioni cognitive volte ad interpretare le
indicazioni di profondità prospettica fanno in modo che un oggetto vicino
all’osservatore appaia molto più grande del medesimo oggetto situato in
lontananza. Esse vengono utilizzate dall’apparato visivo per determinare
la distanza di ciò che ci sta di fronte.
Un esempio di interpretazione delle informazioni di profondità
prospettica è la situazione in cui si guarda un traghetto in navigazione
all’orizzonte. La sua piccola dimensione conferma che la distanza che ci
separa da esso è molto grande; ovviamente è necessario conoscere, per
esperienza diretta, le dimensioni reali di una nave.
Nel caso di un oggetto in movimento il sistema percettivo umano
preferisce sfruttare le informazioni derivanti dall’effetto di parallasse del
movimento. Esso fa in modo che l’immagine di un oggetto in movimento
vicino all’occhio, si muova sulla retina coprendo una distanza angolare
maggiore rispetto a quella di un altro oggetto più distante che, non solo
sembrerà più piccolo, ma si sposterà in un angolo minore. Il risultato della
parallasse del movimento è quello per cui gli oggetti più distanti sembrano
muoversi più lentamente degli oggetti più vicini, a parità di movimento
assoluto.
È necessario ribadire che il cervello umano non si affida ad un’unica
modalità di percezione della tridimensionalità di un oggetto, ma integra le
informazioni che derivano da ciascuna delle proprietà sopra descritte.
I dispositivi di visualizzazione dei sistemi di grafica immersiva sono
progettati per sfruttare al meglio le caratteristiche dell’apparato visivo e
95
garantire all’utente un senso di prossimità nei confronti dell’ambiente che
sta vedendo.
Andiamo, ora, a descrivere alcune caratteristiche proprie di quei sensi
che la cultura occidentale ha messo in disparte, ideando e sviluppando
mezzi di comunicazione fondati sulla percezione a distanza, tipica di vista
e udito.
Oggi, attraverso la complessa tecnologia dei sistemi di realtà virtuale,
gli stimoli provenienti dai sensi della prossimità e del contatto
probabilmente potranno ritrovare una nuova identità nel mondo della
rappresentazione.
L’olfatto
96
Nell'uomo, le correnti d'aria trasportano le sostanze volatili
direttamente a contatto con le cellule olfattive, ma poiché la cavità nasale
è poco ventilata, per aumentare la quantità d'aria che circola al suo
interno, si annusa. Tale atto semiriflesso si verifica normalmente quando
si avverte un odore nuovo o inusuale.
Attraverso quest’ultima considerazione è possibile individuare
un’importante caratteristica della percezione olfattiva, che insieme a quella
gustativa e tattile, è basata sulla matericità del medium che trasporta
l’informazione sensoriale, nel caso specifico le molecole d’aria.
La persistenza dell’informazione olfattiva dipende, dunque dalle
caratteristiche materiali degli elementi chimici presenti nell’aria.
Essi sono soggetti ai tipici processi di trasformazione delle sostanze
chimiche, quali l’ossidazione e la reazione con altre particelle, che
tendono a far affievolire nel tempo l’intensità dell’informazione stessa.
Le tecniche di simulazione olfattiva hanno tentato di sfruttare tali
proprietà materiali delle molecole ed hanno sperimentato soluzioni molto
diverse fra loro.
Il mondo del cinema hollywoodiano, con i suoi ampi budget e la sua
cronica esigenza di individuare sempre nuove forme di fascinazione e
spettacolarizzazione dell’esperienza cinematografica, è stato il settore in
cui sono stati effettuati i primi esperimenti di rappresentazione olfattiva.
Negli anni Cinquanta vennero ideate diverse tecnologie, quali Smell-
O-Rama, Smell-O-Vision, ARoma Rama che permettevano di arricchire la
proiezione cinematografica con stimoli olfattivi diffusi in sala tramite
dispositivi installati nelle poltrone.
Terminato l’iniziale entusiasmo, che solitamente accompagna ogni
innovazione tecnologica rivolta al mondo dello spettacolo, tali esperimenti
non incontrarono il successo sperato e furono presto accantonati.
Fra i principali problemi che insorsero, citiamo l’elevato costo dei
dispositivi da installare e la persistenza in sala degli odori.
Questa caratteristica delle sostanze chimiche utilizzate produsse
confusione fra gli stimoli olfattivi e rese difficile la gestione di tali
informazioni se poste in relazione con l’immaterialità, la rapidità e la
sfuggevolezza tipiche dell’immagine cinematografica e del suono.
97
In tempi più recenti furono messe a punto nuove tecnologie come
l’Odorama utilizzato negli anni Ottanta oppure l’Ambianceur.
Ad essi va riconosciuto il merito di aver superato il problema della
persistenza degli odori attraverso l’utilizzo di stimoli olfattivi circoscritti a
determinati momenti della rappresentazione oppure il ricorso a supporti
programmabili, attivati dall’utente stesso.
Ciò che accumuna tutti i dispositivi di simulazione olfattiva appena
descritti è l’aver permesso all’olfatto di ricoprire un ruolo attivo nel
processo di costruzione del significato che, nella storia della
rappresentazione moderna, è stato appannaggio dei soli sensi della vista
e dell’udito.
Nelle più recenti ricerche sulla percezione all’interno dei VEs è
emersa, quindi, la necessità di dotare i sistemi immersivi di VR di
dispositivi che simulino gli odori.
Il lavoro di chimici, ingegneri e medici ha portato alla creazione dei
cosiddetti virtual olfactory display (VOD), ovvero interfacce olfattive in cui
sono presenti componenti hardware e software in grado di trasdurre
l’informazione digitale in odoranti (14) allo stato gassoso che vengono poi
diffusi e percepiti dagli utenti.
Il motivo principale per cui è importante dotare un VE di dispositivi
VOD è che il mondo reale è permeato di una miriade di odori che
influiscono anche a livello inconscio sugli esseri umani. Per garantire ai
partecipanti alla simulazione un’avventura davvero immersiva, diventa
necessario incrementare il senso di presenza all’interno del VE rendendo
la comunicazione tra utente e mondo virtuale un’esperienza polisensoriale
che si avvicina il più possibile all’esplorazione reale di un luogo.
Lo sviluppo dei VOD rende possibile sperimentare nuove modalità
espressive che utilizzino l’intenso potere comunicativo ed emozionale dei
profumi e degli odori.
La realtà virtuale è sicuramente il “terreno” adatto a sviluppare inedite
forme di rappresentazione che considerino il sistema percettivo umano
come una struttura articolata e stratificata, ma che allo stesso tempo
valorizzino l’unitarietà dell’esperienza percettiva.
98
Il gusto
Il senso del gusto utilizza come recettori sensoriali i cosiddetti calici
gustativi presenti nelle papille gustative della lingua, nel palato molle, nella
faringe, nelle guance e nell'epiglottide.
A livello anatomico, nell'uomo, sono presenti tre differenti tipi di papille
gustative. Esse contengono le cellule specializzate nella ricezione delle
molecole gustative.
Queste papille presentano una disposizione elettiva. Nel terzo
anteriore della lingua si trovano le papille fungiformi, la cui parte centrale
sporge slargandosi; nel terzo posteriore sono presenti le papille
circumvallate, davanti al solco terminale della lingua e nella parte laterale
di essa sono presenti le papille fogliate.
Ogni tipologia di papilla contiene dei bottoni gustativi dove sono
localizzate le cellule recettoriali. Il bottone gustativo ha una forma
grossomodo sferica al cui apice si trova un'apertura che prende il nome di
poro gustativo da cui protrudono i microvilli delle cellule gustative. Alla
base di essi si trovano connessioni sinaptiche e chimiche con le fibre
sensitive afferenti.
In ognuno di questi bottoni è possibile identificare quattro tipologie
cellulari: le cellule chiare, scure, intermedie e le cellule basali.
Le cellule basali sono cellule staminali che prendono parte al rapido
turnover delle cellule del bottone gustativo, mentre le altre tipologie
cellulari si pensa siano tre diversi stati di sviluppo della cellula gustativa.
Vi sono altre ipotesi che credono che le differenti tipologie di cellule
siano elementi appartenenti a linee cellulari diverse. In ogni bottone si
trovano dalle cinquanta alle centocinquanta cellule, definite neuroni
bipolari.
Il sistema gustativo umano è capace di discriminare quattro tipologie
di gusto: dolce, amaro, salato ed aspro (studi recenti identificano anche un
quinto tipo, l'umami). Ognuna di queste tipologie sta sotto ad una
particolare via di traduzione, la cui spiegazione si addentra in complessi
concetti fisiologici che trascendono dagli obiettivi della nostra riflessione.
Ciò che è fondamentale sottolineare è che il gusto, implicando
99
un’interazione diretta dei recettori con le sostanze di cui si intendono
percepire le qualità, è un senso del contatto.
Il gusto, come del resto l’olfatto, è basato sull’analisi chimica delle
caratteristiche della materia introdotta nel corpo. Quest’analogia non
implica soltanto una relazione formale tra i due sensi, ma bensì comporta
anche una stretta collaborazione fra essi.
La comunicazione articolata attraverso i media tradizionali non ha mai
dimostrato di interessarsi alle proprietà del senso del gusto.
È, tuttavia auspicabile, che con l’avvento di nuove forme di
comunicazione, come appunto i sistemi di grafica immersiva, si
sperimentino nuove modalità di rappresentazione che contemplino tutte le
proprietà percettive dell’uomo e sfruttino la loro interazione.
Il tatto
100
La capacità discriminativa è direttamente proporzionale al numero di
recettori presenti per unità di superficie cutanea, e raggiunge il massimo
sul palmo della mano e sui polpastrelli. La sensibilità tattile della mano è
più sviluppata quando il soggetto muove l'arto attivamente.
Questo dimostra che l'esperienza somatica più sofisticata consta
nell'esplorazione attiva e manuale dell'ambiente in cui viviamo.
Il sistema tattile non ha, dunque, solo un ruolo passivo, di apparato
che riceve ed elabora gli stimoli. Esso è parte integrante della catena dei
meccanismi nervosi che controllano le contrazioni muscolari, i movimenti
ed in generale l'esplorazione tattile.
Il tatto è il senso del contatto per eccellenza; la percezione ad esso
relativa è possibile tramite l’interazione diretta dei recettori con la materia
che produce lo stimolo. La particolarità di questa tipologia di percezione è
quella di essere in grado di adattarsi a qualunque tipologia di stimolo da
percepire, sia esso proveniente da materiale allo stato liquido, solido o
gassoso.
Il tatto, quindi, essendo in grado di interpretare la consistenza, la
temperatura, la pressione esercitata e la forma relative agli oggetti che
costituiscono il mondo in cui viviamo, può essere considerato il più
articolato dispositivo di percezione a disposizione dell’uomo.
Nei sistemi di grafica immersiva la cognizione spaziale è
fondamentale e quindi la sensazione tattile può diventare un validissimo
strumento per incrementare il senso di realtà della simulazione.
Dispositivi di output, quali datagloves e datasuites, permettono
all’utente di interagire con il mondo virtuale utilizzando le caratteristiche
fisiche del proprio corpo e ricevere come feedback stimoli tattili.
Tali apparecchiature sono costituite da imbottiture che esercitano una
pressione meccanica e stimolano i recettori della pelle. In questo modo è
possibile simulare e comunicare molte delle sensazioni che costituiscono
la nostra esperienza quotidiana dell’ambiente in cui viviamo.
La ruvidità delle pagine di un libro, la sensazione delle raffiche di
vento sul viso oppure le vibrazioni che il corpo percepisce durante
l’atterraggio di un aereo o la frenata di un’automobile, diventano elementi
per arricchire la comunicazione in un VE. Essa può inoltre sfruttare
101
un’altra importante funzione tattile, ovvero quella che permette di simulare
il peso degli oggetti e la forza che essi esercitano sulle mani e sulle piante
dei piedi dell’utente, conferendo realismo e “solidità” al modello
tridimensionale.
Le caratteristiche del mondo in cui viviamo sono, però, molto più
complesse di quelle che oggi è possibile emulare poiché coinvolgono in
modo sinestesico la totalità dei nostri cinque sensi.
Se è vero che l’efficacia di una simulazione deriva dal livello di
analogia e verosimiglianza fra i suoi modelli e l’ambiente che si vuole
rappresentare, non si può costruire dunque un’esperienza virtuale senza
tener conto dell’aspetto unitario dell’apparato percettivo umano.
Per ottenere forme più evolute di rappresentazione bisogna, quindi,
interrompere il primato dell’informazione visiva e uditiva attribuendo la
giusta importanza alle altre forme di simulazione sensoriale.
In questo modo sarà possibile rendere il flusso comunicativo più ricco
di modalità di significazione.
Siamo d’accordo con Capucci quando afferma che “Non si tratta solo
di produrre una comunicazione quantitativamente più consistente, di
aggiungere gradienti informativi supplementari, quanto invece di operare
32
con una comunicazione qualitativamente più articolata.”
In questo modo la realtà virtuale diventerà davvero un medium
innovativo e polisensoriale.
I VEs permetteranno, quindi, di sperimentare nuove modalità di
comunicazione e creazione di significato, concorrendo in modo attivo alla
trasformazione e alla ridefinizione del concetto stesso di
rappresentazione.
32
Pier Luigi Capucci, op. cit., p. 62.
102
II.6 Il design progettuale degli Ambienti
Virtuali
103
Il designer deve quindi assegnare funzioni precise agli elementi che
costituiscono il VE poiché ogni oggetto virtuale presente in esso si può
considerare come un potenziale strumento di trasmissione di informazioni
tra la base di dati e l’utente finale.
A questo punto è necessario porre l’accento sulla principale
differenza che esiste tra lo spazio reale e quello virtuale: se il primo è il
contesto naturale in cui viviamo e quindi può assumere una pluralità di
funzioni in base alle necessità quotidiane, il secondo è un spazio mediale
che esiste principalmente per comunicare dei contenuti, per trasmettere
dei messaggi all’utente attraverso la percezione sensoriale.
Lo spazio virtuale si deve intendere come un contesto comunicativo.
33
Roberto Diodato lo considera un evento ed afferma che “Lo spazio
virtuale è in questo caso soprattutto uno spazio informativo, comunicativo,
connettivo, spazio in cui vicinanza e lontananza sono concetti che si
svincolano dai loro presupposti materiali, si svuotano dal loro aspetto
34
formale per far emergere il loro contenuto comunicativo.”
Il progettista non deve, dunque, compiere l’errore di considerare in
modo semplicistico il VE intendendolo solamente come lo spazio con cui
gli individui entrano in relazione; sarà necessario progettare un sistema
con una forte adattabilità alle varie tipologie di utenti in modo da
permettere all’ambiente virtuale di adattarsi in modo automatico all’elevato
numero di scelte che l’utilizzatore finale può effettuare in esso.
Andiamo a proporre alcuni concetti ed alcune idee necessarie alla
progettazione di un VE.
33
Roberto Diodato è professore di Estetica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
e al Bachelor di Filosofia applicata della Facoltà di teologia di Lugano.
34
Roberto Diodato, Estetica del virtuale, Milano, Bruno Mondadori Editori, 2005, p.119.
104
raggiungerà elevati standard di efficienza ed efficacia e permetterà
all’utente di partecipare ad un’avventura virtuale stimolante ed
interessante.
Lo scopo principale nella progettazione di un VE è quello di creare
sistemi altamente immersivi a livello sensoriale e motorio nei quali si
possano determinare flussi informativi orientati all’utente finale.
La progettazione efficace di un sistema di VR è in grado di ridurre gli
elementi alla loro essenza, regolarizzarli in modo da favorire la loro
interpretazione da parte degli utilizzatori e organizzarli in modo da
sfruttare al massimo le loro potenzialità.
Dal punto di vista della fruizione il designer deve quindi individuare
soluzioni chiare, convincenti e soprattutto facilmente apprendibili
dall’utente; il maggior problema dell’interazione tra un individuo e un
sistema di realtà virtuale è infatti l’iniziale complessità e inusualità del
contesto informativo con cui ci si deve relazionare.
La miglior soluzione per ovviare a questa problematica è sicuramente
il ricorso a dispositivi di interfacciamento che sfruttino le tecnologie più
avanzate nel campo delle interfacce naturali e multimodali; descriveremo
le tecnologie e le dinamiche comunicative inerenti a tali dispositivi nel
paragrafo II.7.
Per quanto riguarda la specificità informatica degli strumenti di VR non
va trascurato il fatto che essi sono sistemi di calcolo in realtime e quindi
l’attività di progettazione e modellazione devono essere calibrate ed
ottimizzate in modo da non sovraccaricare di lavoro il computer o la
workstation che permettono il funzionamento del VE.
La strada da perseguire è sicuramente quella che individua soluzioni
semplici ma al contempo che garantiscano accuratezza ed efficacia.
Riteniamo necessario indicare nella naturalità dell’ambiente virtuale e
nell’analogia che le sue componenti devono presentare con il mondo reale
le migliori strategie di comunicazione che si possono impiegare in un
sistema di grafica immersiva.
Abbiamo già indicato il realismo del modello come una delle principali
modalità per rendere più naturale l’esperienza virtuale.
105
Lo stile realistico, però, da solo non basta a raggiungere gli obiettivi di
una buona progettazione. Sicuramente il ricorso a metafore chiare e già
consolidate nel campo dell’informatica tradizionale, quali desktop
environment, finestre e cartelle di dati, può aiutare l’utente a non sentirsi
spaesato in un contesto virtuale, ma l’individuazione di nuove soluzioni è
quanto mai auspicabile. La linea da seguire, a nostro avviso, è quella che
considera il corpo dell’utente come il principale strumento conoscitivo e
relazionale all’interno della realtà virtuale.
Quindi a livello progettuale si dovranno implementare ambienti virtuali
basati sull’analogia funzionale con il mondo reale, che siano costituiti da
oggetti che appartengono alla vita quotidiana e con cui l’utente sa a priori
come relazionarsi.
Bisogna tener conto che l’esperienza polisensoriale di un sistema di
grafica immersiva può avvenire sia in uno spazio con fattezze e scala
usuali per l’utente come ad esempio una stanza arredata con mobili e
suppellettili comuni, ma può allo stesso tempo visualizzare un fenomeno
scientifico, come un flusso di particelle, che appartiene ad una realtà altra,
di cui non si ha mai avuto esperienza.
Diventa fondamentale avere il pieno controllo di tutte le componenti
della simulazione e stabilire, durante la sua progettazione, l’esatta
funzione di ogni elemento.
Molto spesso i designer optano per soluzioni sensazionalistiche volte
a suscitare meraviglia e curiosità nell’utente. Nella progettazione degli
ambienti virtuali questa scelta può essere molto rischiosa poiché la
tecnologia stessa su cui si basa la realtà virtuale possiede già di per sé
caratteristiche affascinanti ed innovative per l’utente che non necessitano
di un ulteriore sovraccarico di emozioni per essere apprezzate.
Il principale obiettivo di un sistema di realtà virtuale è quello di
raggiungere un elevato livello di interattività.
Per questo motivo la struttura che sta alla base di un VE deve
necessariamente essere ramificata e non sequenziale in modo da favorire
in ogni momento le scelte dinamiche dell’utente ed adattarsi ad esse in
modo automatico.
106
La tipica conformazione ad albero appartenente agli ipermedia può
costituire un valido spunto su cui basarsi per elaborare la navigazione di
ambienti complessi; essa però non deve impedire lo sviluppo di nuove
forme di organizzazione dei contenuti che devono essere studiate e
messe a punto in base al contesto in cui il VE verrà fruito e agli scopi
specifici che si vogliono ottenere scegliendo di installare un sistema di
realtà virtuale.
35
ISO 9241, 1998, Ergonomics requirements for office work with visual display terminals
(VDTs), Part 11 Guidance on usability, in
http://www.stud.fernunihagen.de/q4428161/health/ISO9241.html, 2000.
107
e il livello di difficoltà che quest’ultimo presenta per chi lo utilizza la prima
volta e per chi deve imparare e ricordare i comandi.
Ricorrere al modello REAL permette di realizzare un VE usabile
poiché questa modalità di progettazione è volta a creare un sistema la cui
funzionalità è quella di permettere agli utenti sia di agire liberamente sia
di eseguire in modo efficiente i task che si sono prefissati.
Allo stesso tempo il funzionamento del sistema potrà facilmente
essere imparato da chi usa in modo sporadico o casuale la VR oppure
ricordato a dovere dagli utenti che navigano abitualmente. Lo scopo
principale di un buon design orientato all’utente è quello di garantire che il
VE venga utilizzato volentieri dal pubblico.
In fase di progettazione è fondamentale stabilire quali sono i task che
si possono realizzare all’interno del mondo 3D e quali strumenti si
possono utilizzare per farlo. Si devono, inoltre, individuare le varie
tipologie di gruppi di utenti che utilizzeranno il sistema e i loro scopi,
ovviamente non trascurando la facilità di utilizzo dell’interfaccia e i costi
complessivi di realizzazione del VE.
Un buon design applicato alla VR sarà, dunque, quello che sfrutta la
natura del medium stesso e quindi la sua capacità di simulazione del
reale; agendo in questo modo il progettista renderà disponibile agli utenti
un’esperienza sensoriale affascinante, basata su una tecnologia semplice
ed intuitiva da usare, tanto quanto lo sono gli oggetti e gli strumenti che si
usano quotidianamente.
Se non si pone, invece, la necessaria attenzione al design di un VE è
possibile ottenere come risultato che le persone che lo utilizzeranno non
comprendano le enormi potenzialità della realtà virtuale e considerino
sprecati il lavoro e gli investimenti che stanno dietro a questa nuova forma
di comunicazione.
108
II.7 Le Interfacce dei VEs
36
Pierre Lévy, Les technologies de l’intelligence. L’avenir de la pensée à l’ére informatique,
Parìs, Éditions La Découverte, 1990 (tr. it. di Franco Berardi e Gianfranco Morosato, Le
tecnologie dell’intelligenza. Il futuro del pensiero nell’era dell’informatica , Verona, Ombre
Corte Edizioni, 2000, p. 181).
109
Nel corso di questo capitolo abbiamo descritto i principali dispositivi
che permettono lo scambio di informazioni fra l’utente e il sistema di VR e
abbiamo sostenuto che l’interfaccia in un VE è lo spazio virtuale stesso in
cui l’utente si avvale del proprio corpo come strumento per interagire e
comunicare.
Vediamo adesso nel dettaglio quali sono le caratteristiche delle
interfacce più appropriate per i sistemi di grafica immersiva.
110
L’obiettivo di un’interfaccia naturale è quello di rendere diretta
l’interazione uomo-computer tentando di ridurre al minimo la presenza di
dispositivi situati tra il contenuto e chi lo fruisce.
Quest’ultimo fattore è molto importante poiché il ruolo dell’interfaccia
non è passivo nei confronti del processo comunicativo; essa infatti
influisce sul sistema sensoriale dell’utente condizionando il modo in cui la
macchina stessa è percepita.
Contemporaneamente l’interfaccia stabilisce le logiche attraverso le
quali si articolano i diversi media e, di conseguenza, i contenuti che questi
trasmettono.
Presentando tali caratteristiche, le interfacce naturali appaiono le più
appropriate per i sistemi di grafica immersiva in cui l’individuo è immerso
totalmente nella simulazione e può utilizzare il proprio corpo come uno
strumento di conoscenza del mondo virtuale.
Ancora oggi molti individui che hanno sperimentato la realtà virtuale
ritengono che sia più semplice interagire con un ambiente non immersivo
rispetto che con uno altamente immersivo.
Questa situazione si verifica perché i sistemi desktop VR utilizzano il
dispositivo di interfacciamento più diffuso e conosciuto, il mouse, e molto
spesso limitano il ventaglio di azioni utente al semplice point and click
sull’oggetto che si vuole sollevare e spostare.
Le interfacce tattili dei sistemi immersivi di VR, ovvero datagloves e
datasuites permettono di manipolare gli oggetti virtuali avendo un
feedback sensoriale elevato, ma molto spesso non garantiscono all’utente
alle prime armi di sentirsi a proprio agio e interagire con il VE in modo
naturale.
Questo è il motivo principale per cui oggi le più impegnative ricerche
nel campo della VR si stanno concentrando sull’usabilità delle interfacce.
Nei laboratori dei centri di ricerca più evoluti del mondo si sta tentando
di mettere a punto sofisticati dispositivi di riconoscimento vocale e sensori
di body ed object tracking che rendano il sistema in grado di riconoscere i
gesti, i movimenti, la voce e le espressioni degli uomini oltre che la
posizione degli oggetti materiali e il loro utilizzo per poi tradurre il tutto in
informazioni digitali comprensibili dall’elaboratore.
111
In un futuro non troppo remoto sarà possibile impartire istruzioni vocali
al proprio laptop, selezionare i contenuti di un menù semplicemente
guardandoli, spostare o ridimensionare una finestra con semplici gesti di
puntamento eseguiti a mani nude, camminare invece che usare le
scrollbars, interagire con un VE attraverso strumenti e oggetti reali che si
trovano fisicamente all’interno di un CAVE, dialogare con l’avatar di una
persona distante migliaia di chilometri all’interno di un mondo virtuale.
Un importante ambito di ricerca che già oggi sta portando
all’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori la problematica di
un’interazione totale e naturale tra macchine ed esseri umani è quello
dello sviluppo di dispositivi di I/O multimodali.
Un sistema multimodale processa e combina due o più modalità di
input, quali voce, gesti, movimenti della testa, del corpo e delle mani, in
modo coordinato con il sistema di output multimodale.
Lo scopo è quello di creare una comunicazione ridondante tra
computer e utente in modo da permettere a quest’ultimo di avere
simultaneamente più canali attraverso i quali ricevere e trasmettere le
informazioni e di farlo attraverso una pluralità di dispositivi sensoriali.
Con questa tipologia di interfacce la ridondanza, solitamente stimata
in modo negativo dall’informatica, viene rivalutata e diventa la
caratteristica primaria del flusso comunicativo; la comunicazione vocale è
sommata a quella corporea, il computer fornisce output visivi, sonori e
tattili, l’utente può pronunciare frasi, gesticolare e guardare il risultato delle
proprie azioni.
Un esempio di quanto sostenuto è un sistema di riconoscimento visivo
e vocale che non si limita a comprendere le singole parole pronunciate,
ma che è programmato per considerare l’insieme delle informazioni che la
voce può veicolare, come ad esempio il tono della conversazione.
Contemporaneamente il calcolatore analizza, tramite telecamere, la
gestualità e l’espressione di colui che sta parlando in modo da ottenere
molte più informazioni sul contesto in cui dovrà agire e fornire in output
informazioni ricche ed adeguate.
I limiti delle attuali interfacce sono una conseguenza di ciò che
avvenne negli anni Sessanta e Settanta; in quel periodo gli sviluppatori
112
delle prime interfacce uomo-macchina crearono differenti modalità di
interazione, ma decisero di portare avanti ciascun progetto in modo
autonomo e stabilirono che per assolvere un dato compito era sufficiente
un solo tipo di interfaccia.
Tale situazione si verificò poiché in quegli anni la logica che guidava
le ricerche nel campo della computer science prevedeva, data la scarsità
di risorse computazionali, che si dedicasse la maggior parte di esse alla
risoluzione dei problemi e degli algoritmi e una parte piccolissima alla
comunicazione tra utenti ed elaboratore.
La conseguenza di questo atteggiamento, quasi denigratorio nei
confronti delle interfacce, fu quello per cui i progettisti si abituarono a
decidere tra una modalità di interazione e l’altra, senza mai contemplare
l’ipotesi di sviluppare interfacce basate sull’integrazione di più canali e
dispositivi di comunicazione.
La multimodalità dei dispositivi di I/O si può considerare con un
definitivo cambio di tendenza che porterà ad individuare e realizzare
nuove forme di interazione fra l’uomo e i computer che risultino più facili
da usare e da imparare, ma che allo stesso tempo siano efficienti, robuste
e in grado di adattarsi alle diverse tipologie di utenti.
I sistemi che sfruttano le interfacce multimodali sono basati sull’utilizzo
di forme di interazione che avvengono in modo naturale e che incorporano
almeno una tecnologia di riconoscimento vocale oppure di visione o
gestuale.
Questa tipologia di interfacce renderà possibile nel giro di qualche
anno la creazione di sistemi di calcolo che siano in grado di analizzare e
interpretare, tramite appositi sensori, il comportamento di chi li utilizza.
Il primo esperimento, in questo senso, fu compiuto nel 1980 presso il
MIT da Dick Bolt e Chris Schmandt e prese il nome di “Put that there. Il
programma permetteva di comunicare, tramite parole e gesti, con un
grande schermo, e di spostare semplici oggetti, ovvero delle navi,
all’interno di un altro schermo raffigurante il Mare dei Carabi.
Oggi i principali campi di applicazione dei sistemi multimodali sono la
gestione di dati geografici (GIS), i VE dedicati al Virtual Heritage e alle
esposizioni fieristiche e museali e le applicazioni mediche.
113
Ben presto, però, la loro influenza si allargherà a tutti quei settori in cui
l’interazione uomo-macchina è determinante e porterà ad una totale
ridefinizione dei dispositivi di interfacciamento e delle logiche stesse su cui
si basa il mondo della Human Computer Interaction (16).
Da questa riflessione emerge, quindi, che l’interazione nei sistemi di
VR deve essere necessariamente user-oriented nel senso che la
comunicazione tra uomo e computer deve avvenire sempre in modo
trasparente, ovvero deve creare armonia tra le funzioni della macchina e
le funzioni mentali di chi la utilizza.
37
Gianni Riva e Fabrizio Davide, Prefazione di AA.VV., Communication through virtual
technologies, a cura di Gianni Riva e Fabrizio Davide, Amsterdam, IOS Press 2001.
114
Il VE, considerato in questi termini, diventa un metamedium che
permette di gestire in tempo reale i flussi di informazioni che provengono
e si dirigono verso l’universo gestito dai computer.
Ricollegandoci alle parole di Pierre Lévy con le quali abbiamo aperto
questo discorso sulle interfacce, è dunque possibile considerare un VE
come quella dimensione in cui avviene la comunicazione fra individui e fra
dispositivi tecnologici e come il punto di contatto tra media molto differenti
tra loro.
In questi termini la VR diventa un medium di media e lo spazio virtuale
al suo interno assume il ruolo di interfaccia uomo-macchina per
eccellenza; la simulazione tridimensionale interattiva non si può più
considerare come una tecnologia a sé stante, ma invece come il punto di
arrivo di moltissimi studi e ricerche nei settori dell’informatica,
dell’ingegneria, della psicologia cognitiva e della comunicazione.
Allo stesso tempo i VEs si possono considerare come luoghi in cui le
attività di cognizione e interazione riescono finalmente ad entrare in
relazione, determinando un modello comunicativo elettronico basato non
soltanto sul trasferimento di semplici informazioni digitali, ma sullo
scambio di sensazioni ed emozioni che trasformano la conoscenza
mediata in un’esperienza straordinaria.
È, dunque, ipotizzabile che in un futuro prossimo le tecnologie di VR
rendano possibile una radicale evoluzione dei sistemi di comunicazione
comportando una totale integrazione ed ibridazione tra i vari modelli
mediali a cui oggi siamo abituati; se il canale comune su cui tutti i media
convergeranno è ormai identificabile con la tecnologia digitale, lo spazio in
cui tale evoluzione avverrà è probabile che sia quello dei VEs.
115
II.8 Il sonoro nei sistemi di grafica
immersiva
38
Nicholas Negroponte, op. cit. p. 127.
39
Michael W. Eysenck e Mark T. Keane sono importanti autori e ricercatori nel settore
della psicologia cognitiva nonché membri autorevoli del dipartimento di Psicologia al
Royal Holloway University of London.
40
Cfr. Michael W. Eysenck e Mark .T. Keane, Cognitive Psychology, a student’s
handbook, Psychology Press, Taylor and Francis, United Kingdom, 1995.
116
all’individuazione di soluzioni che riguardano la rappresentazione della
realtà mediante le immagini.
La prima esperienza di navigazione e interazione con un VE
immersivo risulta strabiliante e spettacolare soprattutto da una prospettiva
visuale perché la realtà virtuale appare subito come un qualcosa di
totalmente differente rispetto alle altre modalità di rappresentazione della
realtà proprie del contesto culturale a cui apparteniamo.
Rispetto alle più recenti tecniche di rappresentazione sintetica la VR
fornisce allo spettatore un’esperienza profondamente coinvolgente basata
su una sensazione di presenza alla scena alla quale si sta assistendo.
Un’altra spiegazione plausibile riguarda i limiti tecnici dei dispositivi
hardware e software disponibili sul mercato; infatti le tecnologie che fino
ad oggi sono state ideate per garantire un’eccellente connotazione
spaziale degli effetti sonori si trovano, sicuramente, in una fase di sviluppo
meno avanzata rispetto alle corrispondenti apparecchiature di
rappresentazione visiva. Rimandiamo una descrizione più approfondita di
tali tecnologie alla fine del paragrafo.
117
elementi che hanno il compito di amplificare e trasmettere le vibrazioni
provenienti dalla membrana timpanica.
L’orecchio interno è costituito, invece, da coclea e vestibolo. La prima,
con le sue cellule cigliate, trasduce i suoni in impulsi elettrici che tramite le
fibre del nervo acustico arrivano al cervello. Il vestibolo è quella parte del
sistema uditivo che contiene i ricettori dell’equilibrio.
118
che provengono dal mondo esterno. Andiamo a descrivere nel dettaglio le
caratteristiche degli effetti uditivi nei sistemi di grafica immersiva.
119
momento che permette di incrementare in modo consistente i livelli relativi
all’immersività ed al senso di presenza nell’ambiente virtuale stesso.
Prima di descrivere le soluzioni individuate dall’ingegneria acustica
che hanno permesso di sviluppare alcuni validi sistemi per simulare la
presenza di fonti sonore spazializzate nell’ambiente virtuale, riteniamo
necessario fornire qualche informazione aggiuntiva sull’audio 3D.
Bisogna innanzi tutto premettere che la spazializzazione del suono è
una proprietà che deriva dalla percezione monoaurale o binaurale di una
fonte sonora.
La localizzazione monoaurale di un suono dipende dall’effetto filtrante
di molte componenti del corpo umano come la testa, il busto, le spalle e il
padiglione auricolare e può essere descritta brevemente con il concetto di
Head-Related Transfer Function (HRTF).
Attraverso l’HRTF è possibile descrivere il modo in cui un onda sonora
è filtrata dalle proprietà di diffrazione e riflessione
della testa e del padiglione auricolare prima
ancora di entrare in contatto con le componenti
dell’orecchio medio. L’entità dell’HRTF dipende
dall’angolo con cui le onde entrano in contatto
con le parti del corpo che fungono da filtro, come
descritto nella figura qui a fianco.
Tale funzione dell’apparato uditivo è
utilizzata dal cervello per determinare
Figura 7
l’elevazione della fonte delle onde.
Per la nostra riflessione è utile anche il concetto di binauralità della
percezione perché riguarda un sistema uditivo come quello umano in cui
esistono due separati apparati di ricezione, in sintesi l’orecchio destro e
quello sinistro.
I relativi padiglioni auricolari sono situati ad una distanza di circa venti
centimetri l’uno dall’altro e quindi ricevono la pressione delle onde sonore
con una differenza temporale 41 di 0.63 ms che è subito rilevata dalla zona
della corteccia celebrale dedicata all’interpretazione del suono; inoltre
l’intensità stessa delle onde che raggiungono l’orecchio più distante,
41
Questo valore è definito Inter-aural Time Difference il cui acronimo è ITD.
120
42
rispetto al loro punto di origine, è minore . Il cervello utilizza questi dati
per localizzare la distanza e la posizione orizzontale della fonte degli
impulsi sonori e per ottenere informazioni azimuthali su di essa.
Il modo più semplice per dimostrare le teorie che abbiamo esposto è
quello di provare a tappare un orecchio con il palmo della mano e sentire
la differenza nella percezione dei suoni dell’ambiente circostante.
Per creare effetti sonori spazializzati viene utilizzata un’altra
importante caratteristica fisica del suono: l’ampiezza.
Indirizzare uno stesso suono, ma con ampiezza differente, verso chi
ascolta significa fargli percepire una distanza differente rispetto al punto di
origine dell’onde sonore, dal momento che l’entità di tale proprietà
decresce con l’aumentare della distanza.
42
Questa proprietà è definita Inter-aural Amplitude Difference il cui acronimo è IAD.
121
apparecchiature ed effetti audio a costo contenuto che permettano di
incrementare il realismo e la spettacolarità dei propri prodotti.
Le soluzioni più evolute e costose sono, invece, usate nelle sale
cinematografiche e nei sistemi avanzati di VR in cui si installano
tecnologie che permettono una rappresentazione altamente immersiva del
suono.
I sistemi più evoluti di sound surrounding sono in grado di ricostruire le
onde sonore di un ambiente mediante l’utilizzo di audio ologrammi che si
“dispongono” tridimensionalmente nello spazio d’ascolto.
Impianti avanzati, come quelli commercializzati da Sonic Emotion
oppure da Iosono, sfruttano la cosiddetta Wave Field Syntesis (WFS) che
genera un campo uditivo tridimensionale molto accurato che, pur non
essendo totalmente esatto in tutte le sue parti, ha il pregio di presentare in
tutto il VE un livello uniforme di segnale sonoro. Tali sistemi sono molto
costosi e richiedono tantissimi altoparlanti e una potenza di calcolo
davvero considerevole.
Nei VEs in cui non è possibile utilizzare un sistema di sound
sourrounding basato su molte casse acustiche, come in quelli basati su
HMDs o realizzati senza enormi investimenti, diventa utilissimo ricorrere a
tecnologie che sfruttino l’HRTF dell’apparato uditivo dell’utente e simulino
effetti audio tridimensionali semplicemente utilizzando cuffie stereo oppure
le medesime cuffie annesse ai dispositivi portatili di visualizzazione.
122
II.9 La Realtà Virtuale attraverso la rete
123
Le informazioni VRML possono essere scaricate e interpretate da un
browser che, utilizzando appositi plug-in, ricrea l’ambiente virtuale e
gestisce l’animazione dei modelli.
A partire dal VRML 2.0 è diventato possibile permettere all’utente di
navigare e interagire con i modelli relazionandosi con altri utenti sparsi per
il mondo.
Oggi utilizzando un semplice PC è, dunque, possibile entrare in un
complesso ambiente virtuale online, come ad esempio Sims Online o
SecondLife, e intraprendere insieme a migliaia di altri utenti attività virtuali
come arredare una casa, andare dal parrucchiere, chiacchierare e
incontrare amici.
Gli ambienti virtuali online permettono la creazione di comunità virtuali
e quindi nuove modalità di interazione; i sistemi più evoluti danno la
possibilità ad individui che si trovano a migliaia di chilometri di distanza di
condividere le medesime esperienze, come guardare film o ascoltare
musica “insieme” oppure incontrarsi ad una determinata ora in un luogo
virtuale prefissato.
I possibili sviluppi di tali tecnologie renderanno il cyberspazio sempre
più simile ai mondi immaginari a cui ci ha abituato la tradizione
fantascientifica, ma già oggi permettono nuove forme di comunicazione a
distanza.
Un architetto può mostrare ai suoi possibili clienti come intende
progettare gli interni della loro abitazione, uno stilista può organizzare
sfilate virtuali con le sue ultime creazioni, uno sviluppatore di videogiochi
è in grado di rendere pubbliche le sue idee riguardo la creazione di nuovi
ambienti e livelli, un corso in e-learning riesce a potenziare gli strumenti di
comunicazione e interazione messi a disposizione degli studenti.
124
Note al Capitolo II
125
(7) GPS è l’acronimo di Global Positioning System (a sua volta
abbreviazione di NAVSTAR GPS, acronimo di Navigation System with
Time And Ranging Global Positioning System). Il GPS è un sistema
satellitare, basato sull'algoritmo di Dijkstra, a copertura globale e continua
gestito dal dipartimento della difesa (Department of Defence, DoD)
statunitense, che consente ad un utente posto a contatto o in prossimità
della superficie terrestre di conoscere la propria posizione geografica ed,
eventualmente, l'altitudine dal livello del mare.
(8) La visione periferica è una parte della visione che avviene fuori del
centro stesso dello sguardo fisso. Esiste un vasto insieme di punti non
centrali nel campo visivo che è incluso nella nozione della visione
periferica. La visione periferica è più debole negli esseri umani, rispetto ad
altri animali, particolarmente in relazione alla percezione del colore e delle
figure. Ciò avviene perché nell’uomo la densità delle cellule sensoriali
sulla retina è più alta al centro e più bassa ai bordi. La visione periferica è
adatta a rilevare il movimento, tuttavia è utilizzata la notte o nell'oscurità,
quando la mancanza di indicazioni e di illuminazione di colore rende i coni,
ossia le cellule della visione periferica molto utili. Essa diventa quindi
indispensabile per evitare i predatori, che tendono a cacciare di notte e
attaccare improvvisamente.
126
(11) La fotomodellazione è una tecnica che permette la restituzione di
modelli metrici 3D per mezzo di fotografie bidimensionali sfruttando i
principi della fotogrammetria monoscopica digitale. Questa tecnica
permette di ricostruire strutture architettoniche attraverso la proiezione, in
uno spazio tridimensionale, di punti e linee generate dal calcolo
dell'intersezione delle linee ottiche provenienti da ogni foto. Il risultato
ottenuto dall'impiego di queste tecniche è la costruzione di modelli
geometrici scalati completi di texture ortorettificate, esportabili in
qualunque formato digitale.
(14) Gli odoranti sono sostanze chimiche volatili che provengono dagli
oggetti e dagli altri esseri viventi e vanno a stimolare i recettori olfattivi,
presenti nel nostro naso, che le percepiscono e trasmettono gli stimoli
sensoriali corrispondenti al cervello.
127
(16) Esempi e progetti relativi alle interfacce naturali e multimodali si
possono trovare sul sito dell’HITLab della Washington University
http://www.hitl.washington.edu/projects/ , su quello del Media Lab del MIT
http://www.media.mimt.edu oppure senza allontanarsi troppo dal nostro
paese sulla pagina web della toscana Natural Interaction
http://www.naturalinteraction.org .
128
III. CINEMA VS SISTEMI DI
GRAFICA IMMERSIVA
1
Cfr. Jay David Bolter e Richard Grusin, op. cit.
129
La storia delle immagini in movimento iniziò con la lanterna magica
alla fine del 1600. Essa si può considerare come un ancestrale proiettore
di diapositive dotato di una struttura molto semplice.
Il meccanismo di funzionamento era intuitivo: bastava inserire dei
disegni nella macchina perché
questa li proiettasse, utilizzando le
proprietà della luce, su una parete o
su uno schermo appositamente
preparato.
La paternità di questa
tecnologia di illusione della realtà
Figura 8
viene attribuita a Christiaan Huygens (14 aprile 1629 - 8 luglio
1695) matematico, astronomo e fisico olandese. In un suo manoscritto del
1659 si trova un riferimento, fra le altre sue invenzioni, ad uno strumento
che egli stesso definì lanterna magica. Tale scoperta fu utilizzata sia per
scopi di intrattenimento che con finalità educative, come ad esempio
narrare le parabole della Bibbia accompagnate da grandi immagini
colorate.
Ben presto fu chiaro che, oltre la semplice proiezione, il mezzo
avrebbe permesso di riprodurre il movimento; bastava, infatti, far scorrere
davanti all'obiettivo una serie di disegni uno dopo l’altro per ottenere una
sequenza di immagini in movimento. Si ottennero così le prime animazioni
della storia.
L'invenzione della fotografia effettuata nel 1826 da Joseph Nicéphore
Niepce pose le premesse per un ulteriore sviluppo. Se si fosse trovato il
modo di far passare davanti all'obiettivo della lanterna magica delle
fotografie in rapida successione, sarebbe stato possibile riprodurre la
realtà nel suo divenire.
La tappa seguente nel cammino verso il cinematografo è
rappresentata dal Taumatropio che fu inventato nel 1826. Tale tecnologia
ebbe un’architettura assai semplice poiché era composta solamente da
due cerchi di cartone disegnati su un solo lato e poi incollati fra loro sul
lato vuoto. Alle estremità laterali si praticava un foro attraverso cui si
130
faceva passare un filo. Muovendo il filo e facendo girare su se stesso lo
strumento così ottenuto si otteneva l'illusione di movimento.
Pochi anni dopo, più precisamente nel 1832, fu inventato il
Fenachistiscopio. Esso consisteva in una ruota, fissata a un manico e in
grado di ruotare su se stessa. Sulla ruota, a intervalli regolari, venivano
praticate delle fessure attraverso cui poter guardare e sul lato opposto a
quello da cui si guardava venivano disegnate delle immagini, anche
queste a intervalli regolari; uno specchio su cui proiettare le immagini
completava il tutto. Il movimento veloce della ruota e gli spazi vuoti
creavano, anche in questo caso, l'illusione del movimento.
La grande novità del Fenachistiscopio fu quella di introdurre nelle
pratiche di illusione della realtà la capacità di sfruttare il fenomeno della
persistenza della visione.
Lo Zootropio rappresentò un altro passo in avanti nel processo
evolutivo delle immagini in movimento. L’inventore William George Corner
stabilì che si disegnasse una serie di immagini su un foglio di carta. La
striscia così ottenuta era posta all'interno di un tamburo il cui movimento
rotatorio, al solito, dava l'illusione di movimento. Come per il
Fenachistiscopio, anche in questo apparecchio erano praticate delle
fessure a intervalli regolari per sfruttare il fenomeno della persistenza
retinica.
Due furono i vantaggi di questa scoperta: innanzitutto il fatto che non
fu più necessario avvicinarsi troppo allo strumento per vedere le immagini
in movimento e quindi si poté assistere a una sorta di visione collettiva,
per quanto limitata. Un secondo vantaggio fu legato all’evoluzione di
questa tecnologia, quindi alla possibilità proiettare, attraverso un sistema
di specchi e un'opportuna illuminazione, le immagini su uno schermo. Lo
svantaggio più grande derivò dalla lunghezza delle strisce di immagini;
esse erano necessariamente brevi e quindi si poterono soltanto fare degli
esperimenti, ma non costruire degli impianti narrativi.
Nel 1878 Emile Reynaud apportò una modifica di non poco conto allo
Zootropio e diede vita al Praxinoscopio. Egli inserì al centro del
marchingegno un prisma di specchi su cui si riflettevano le immagini.
131
Come per lo Zootropio le immagini erano intervallate da spazi vuoti
che l'occhio umano non può cogliere. In questo modo Reynaud migliorò
molto la qualità delle immagini. Egli, però, non si limitò a questo. Capì,
infatti, che se avesse proiettato le immagini del prisma su uno specchio e
poi su uno schermo avrebbe potuto ottenere una rappresentazione con
dimensioni uguali a quelle del soggetto originale. Inventò così il teatro
ottico, il precursore diretto del cinema così come lo intendiamo oggi.
Come abbiamo già anticipato, l'invenzione della fotografia determinò
una possibilità del tutto nuova, la simulazione referenziale della realtà.
Se la tecnologia fotografica aveva reso possibile riprodurre su una
lastra fotografica la realtà, era lecito pensare ad uno strumento in grado di
scattare una serie di foto così vicine nel tempo da registrare il movimento.
La pellicola così ottenuta si sarebbe potuta utilizzare, al posto delle strisce
di carta, per proiettare quanto ripreso in precedenza.
Quest'idea ispirò Etienne-Jules Marey che, sfruttando la meccanica
utilizzata a quel tempo dai fucili più moderni, riuscì a scattare fino a dodici
fotografie al secondo. Fu proprio il curioso apparecchio di Marey, definito
fucile fotografico, ad imporre nel gergo degli addetti ai lavori il termine
scattare una fotografia; il verbo scattare era, infatti, usato a quel tempo dai
cacciatori.
L’intuizione di Marey, tuttavia, non contribuì a risolvere il problema di
fondo che affliggeva tutte le altre tecnologie pre-cinematografiche.
La difficoltà non consisteva tanto nel riuscire a scattare fotografie in
rapida sequenza, quanto nel trovare il meccanismo adatto a riprodurre
l’illusione di movimento ottenuta con la rapida successione delle immagini.
Tale situazione fu risolta da Thomas Alva Edison e William Dickson
con l’invenzione del Kinetoscopio. La nascita di questa tecnologia
permette di tenere in vita ancora oggi il dibattito relativo a chi sia stato
veramente l'inventore del cinema; se per la maggior parte degli storici è
indiscutibile attribuire ai fratelli Lumière la paternità della tecnologia
cinematografica, non cessano di esistere posizioni alternative che
attribuiscono ad Edison tale scoperta.
Il celebre inventore statunitense, in effetti, fu in grado, prima dei
Lumière, di riprendere su una pellicola il movimento della realtà e di
132
renderlo poi visibile attraverso il Kinetoscopio. Si trattava di una sorta di
grande cassa di legno sulla cui sommità si
trovava una lente; lo spettatore poggiava
l'occhio su di essa, girava la manovella e
poteva guardare il film, nel senso di
pellicola, montato nella macchina.
L'invenzione di Edison venne esposta in molte fiere dove i visitatori
potevano utilizzarla, dietro il pagamento di un biglietto. Per suscitare la
curiosità di un pubblico sempre più vasto, Edison intuì che non bisognava
riproporre sempre le stesse pellicole e iniziò una vera e propria
produzione di simulazioni con soggetti differenti.
Il Kinetoscopio sembra possedere tutti gli elementi che
caratterizzano la tecnologia cinematografica Figura 9
133
hanno premuto l’acceleratore tanto sul versante della spettacolarizzazione
quanto su quello del realismo.
Per brevità citeremo, qui di seguito, solo quelle che riteniamo più
significative: la standardizzazione delle pellicole a trentacinque millimetri
del 1909, le ricerche effettuate per migliorare la qualità dei supporti iniziate
con le pellicole pancromatiche degli anni Venti, l’introduzione del sonoro
nei Trenta, il passaggio al Technicolor e la nascita del Cinemascope degli
anni Cinquanta, l’invenzione del sistema IMAX negli anni Settanta e il
passaggio al digitale e all’alta definizione iniziato negli anni Novanta e
tuttora in atto.
Consideriamo importante evidenziare che nel XX secolo la storia della
tecnologie di simulazione è stata, inoltre, caratterizzata dalla tendenza a
fornire rappresentazioni sempre più realistiche e immersive; l’intento era
quello di coinvolgere al massimo gli spettatori in un’esperienza artificiale
che fosse il più simile possibile alla realtà
La simulazione tipica dei film stereoscopici degli anni Cinquanta e del
cinema dell’esperienza basato sulla simulazione multisensoriale del
Sensorama di Morton Heilig sicuramente furono esempi di tale logica.
Essa contribuì a rendere fertile il terreno per la simulazione
tridimensionale che sarebbe iniziata da lì a pochi anni, con lo sviluppo dei
primi sistemi computerizzati.
Nell’ambito della storia dei VEs l’evento che può essere equiparato
alla prima proiezione pubblica dei Lumière è la presentazione del
dispositivo di visualizzazione ideato da Ivan Sutherland tenutasi nel 1968
presso il MIT di Boston. Egli, con l’aiuto del suo studente Bob Sproull, creò
il primo sistema immersivo di VR che, per quanto primitivo in interfaccia e
realismo, permise di integrare immagini provenienti dalla realtà ad altre
forme sintetiche generate da un computer.
L’Head Mounted Display di Sutherland lasciava libero l’utilizzatore di
ruotare la testa ed ammirare uno spazio virtuale molto semplice costituito
solamente da stanze rappresentate mediante wireframes; la principale
innovazione fu quella di dare all’utente la possibilità di determinare il punto
di vista tramite l’utilizzo manuale di specifici congegni di input.
134
Dato il considerevole peso del dispositivo, l’HMD dovette essere
appeso al soffitto e fu, quindi, ironicamente definito La Spada di Damocle.
In quegli anni venne realizzato un altro progetto molto importante
definito Artificial Reality. La paternità è di Myron W. Kruger ovvero di una
delle figure chiave nel mondo della ricerca sulla VR; egli nei primi anni
Sessanta mise a punto un ambiente virtuale interattivo e immersivo basato
su tecniche di riconoscimento visivo. All’interno di tale dispositivo l’utente
era posto a diretto contatto con il mondo della simulazione digitale
Negli anni Settanta numerosi laboratori, quali l’Ames Research Center
della NASA, l’ARPA del Dipartimento della difesa statunitense e il Tele-
existence Project del MITI in Giappone, si dedicarono allo sviluppo di
sistemi di grafica immersiva. Tali enti di ricerca andarono incontro a
situazioni complesse a causa dei limiti tecnici imposti da un contesto
tecnologico ancora in fase embrionale e dagli elevatissimi costi delle
apparecchiature.
Fra i tanti progetti realizzati è da menzionare il progetto Aspen Movie
Map realizzato nel 1977 sempre dal MIT di Boston. Mediante un sistema
basato su videodischi e su telecamere montate su alcuni furgoni, il Media
Lab creò una simulazione della cittadina di Aspen, Colorado in cui l’utente
era libero di muoversi come se vi transitasse con la propria automobile.
Le riprese durarono parecchie settimane poiché ogni strada ed ogni
curva dovettero essere filmate, in entrambe le direzioni, scattando un
fotogramma ogni metro. All’interno di un videodisco vennero poste tutte le
immagini delle strade e in un altro quelle delle svolte; al computer venne
affidato l’incarico di collegare ed integrare in tempo reale i dati provenienti
da ciascun disco in base alle scelte dell’utente. Per arricchire l’esperienza
della simulazione furono previste tre modalità di navigazione. Le prime
due, rispettivamente ambientate in inverno e in estate, erano basate sulle
immagini scattate dal vero, la terza invece era una semplice ricostruzione
3D di Aspen.
Gli anni Ottanta furono caratterizzati dalla diffusione dei personal
computer e dalla rivoluzione che essi portarono nel mondo della computer
grafica, introducendo componenti a basso costo con prestazioni sempre
più elevate. Agli inizi del decennio, come abbiamo già visto nel capitolo II,
135
un giovane ricercatore americano di nome Jaron Lanier iniziò le sue
ricerche sui VEs e nel 1989 coniò il termine Realtà Virtuale. Quegli anni
rappresentano un punto di svolta nel campo dei VEs e della computer
graphics dal momento che i notevoli progressi tecnologici resero
finalmente possibile applicare la simulazione digitale agli effetti speciali
cinematografici, all’animazione e alla creazione di scenari virtuali più
complessi.
Bisogna, però, aspettare gli anni Novanta per vedere realizzati i primi
sistemi di VR davvero immersivi, quali i CAVEs e i simulatori più evoluti.
Nel 1993 nacque il linguaggio VRML che finalmente rese concreta la
possibilità di utilizzare i VEs attraverso la rete e sfruttare l’enorme
ventaglio di possibilità consentite da Internet. Su tutte citiamo la gestione
della comunicazione tra più utenti all’interno del medesimo spazio virtuale
oppure l’interfacciamento tra sistemi di VR non fisicamente attigui.
Nell’ultimo decennio del XX secolo il termine realtà virtuale divenne
molto in voga tanto da apparire ben presto troppo inflazionato ed essere
sostituito, già verso la fine del decennio, dalla dicitura Virtual
Environments.
Le principali innovazioni di quel periodo riguardarono gli studi su
mixed reality ed augmented reality, lo sviluppo di sistemi non immersivi nel
settore dell’intrattenimento e la possibilità di realizzare sistemi multiutente,
ovvero sistemi di grafica immersiva in cui la fruizione dell’ambiente virtuale
può essere condivisa e collettiva.
Con l’inizio del nuovo millennio l’attenzione della comunità scientifica
si è spostata proprio su tale aspetto dell’esperienza virtuale.
L’effetto di realismo che guidò, nei Novanta, lo sviluppo e la ricerca nel
campo della grafica 3D e delle sue applicazioni è, finalmente, messo da
parte in nome di una maggiore immersività e multisensorialità
dell’esperienza virtuale.
Oggi i principali filoni di ricerca nel campo dei VEs riguardano lo
possibilità di migliorare l’interazione degli utenti con il sistema attraverso la
realizzazione di interfacce naturali e il perfezionamento dei dispositivi di
comunicazione tra gli utenti stessi all’interno di ambienti multiusers.
136
Questa sintetica panoramica sul percorso evolutivo che ha portato
all’affermazione della tecnologia cinematografica e poi di quella dei VEs
ha permesso di individuare alcune chiare analogie, che a nostro avviso
sono rivelatrici di quello che sarà il possibile sviluppo dei sistemi di VR.
Innanzi tutto è evidente che la storia della simulazione visiva degli
ultimi duecento anni sia caratterizzata da una costante ricerca di tipologie
di finzione sempre più verosimili e realistiche; tale prerogativa è la molla
che ha spinto in avanti tutte le tecnologie di rappresentazione, dalla
lanterna magica ai VEs, quasi fosse opinione unanime quella per cui la
legittimazione di ogni nuova tecnologia dovesse passare attraverso una
simulazione oggettiva e realistica della realtà. Anche l’epoca del digitale
non è riuscita a non cedere al fascino del realismo; l’evoluzione dei mezzi
informatici ed eidomatici (1) degli ultimi tre decenni del Novecento è
l’esempio di questa tendenza verso una simulazione grafica fortemente
orientata a creare effetti di realtà o iper realtà.
Nonostante le numerosissime possibilità espressive offerte dalla
computer graphics l’estetica che si è andata ad imporre in questo ambito è
quella fotorealistica. Questa situazione è sicuramente molto particolare
poiché viste le innumerevoli differenze che separano il mondo del cinema
e della fotografia dalle forme non referenziali di simulazione è difficile
comprendere come mai la produzione di grafica 3D sia appiattita su un
unico canone estetico, per lo più derivato da precedenti tecnologie della
comunicazione visiva. È come se una tra le forme più avanzate di
espressione del XXI secolo non riuscisse ad emanciparsi da un sapere
mimetico che promuove soltanto quelle tipologie di simulazione che
riescono a rappresentare in modo perfetto l’oggetto del loro discorso.
Un'altra importante analogia che si può dedurre da questa breve
descrizione del processo evolutivo dei dispositivi di illusione è identificabile
con quella caratteristica della tecnologia cinematografica che permise
l’affermazione dell’invenzione dei fratelli Lumière su quelle concorrenti,
ovvero la possibilità di passare da una modalità di fruizione individuale ad
una di tipo collettivo.
Analogamente alle tecnologie pre-cinematografiche anche i sistemi di
grafica immersiva nacquero come dispositivi di simulazione della realtà
137
che potevano essere utilizzati da un solo fruitore alla volta e con notevoli
limiti linguistici ed espressivi.
L’evoluzione tecnica e il progressivo emanciparsi del linguaggio dei
VEs dalle strutture formali dei media che lo hanno preceduto hanno fatto
sì che la simulazione di mondi virtuali diventasse un medium a sé stante e
che gli sviluppatori di navigazioni interattive potessero individuare modalità
espressive e comunicative sempre più specifiche da utilizzare nei loro
progetti .
Dedicheremo i prossimi paragrafi ad analizzare le caratteristiche e le
particolarità dell’enunciazione all’interno dei VEs, ora desideriamo
concludere questa dissertazione sulla storia dei sistemi di grafica
immersiva lanciando un appello ai progettisti e agli sviluppatori di questi
nuovi media.
Alla luce delle affinità tra la storia e il linguaggio del cinema e quelli
della realtà virtuale non bisogna trascurare la possibilità di rendere i VEs
un’esperienza collettiva in grado di mettere in contatto un numero sempre
più ampio di persone e di mezzi di comunicazione differenti.
Il fine deve essere quello di estendere l’utilizzo di queste tecnologie ai
più svariati ambiti della cultura umana. L’invito è quello di considerare la
VR sotto una nuova prospettiva e ridefinire la qualità principale dei sistemi
immersivi. Nel nuovo millennio, dunque, l’interattività che fino ad oggi è
stata considerata la struttura formale privilegiata nel nuovo panorama
mediale, dovrà sempre più lasciare spazio all’interazione.
138
III.2 Il Linguaggio cinematografico nei VEs
2
Op. cit. pag. 98.
139
Lo stesso autore indica il cinema come l’interfaccia culturale per
eccellenza dal momento che la società di oggi è connotata da una
tendenza sempre più radicale a rappresentare le informazioni sotto forma
di contenuti audiovisivi dinamici e a considerare l’ approccio alla cultura
sempre più attraverso un punto di vista cinematografico.
Questa situazione moltiplica i livelli attraverso cui è possibile studiare
le analogie tra il linguaggio del cinema e quello della realtà virtuale.
Abbiamo, dunque, dovuto scegliere di illustrare qui di seguito soltanto
quei punti di contatto o di dissonanza che riteniamo più significativi.
140
motion (2) per introdurre e contestualizzare le informazioni inerenti al
luogo oggetto della ricostruzione 3D e per rendere più avvincente la
fruizione.
In questo il linguaggio del cinema potrà fornire un valido aiuto
fungendo da grammatica indispensabile nella creazione di contributi video
analoghi a quelli che nei videogiochi sono chiamate cut scenes, ovvero
scene di intermezzo.
Le cut scenes si possono considerare come dei veri e propri stacchi
fra due sessioni in cui l’interattività è l’obiettivo primario. Esse permettono
di arricchire la rappresentazione all’interno del VE e renderla più
cinematografica. La loro funzione può essere quella di connettere due
ambienti separati da uno spazio privo di elementi interessanti per l’utente,
e quindi noioso da attraversare, oppure quella di partecipare al processo
di produzione di senso attivando delle contrapposizioni e delle
discontinuità significanti nell’esplorazione del modello.
Federica Grigoletto si sofferma sul ruolo delle cut scenes nella
simulazione 3D dei videogiochi: “La funzione delle scene di intermezzo ( e
di introduzione) è quella di rendere il mondo simulato del gioco più
credibile, non solo attraverso la narrazione di una storia ma anche
reagendo all’azione del giocatore in un certo qual modo, mostrandogli gli
effetti delle sue decisioni e azioni sul mondo in cui è calato e accrescendo
3
in questo modo la sua importanza.”
Il ricorso ad una simulazione di tipo cinematografico può essere inoltre
utilizzata per introdurre un nuovo ambiente o per sottolineare l’importanza
di un oggetto 3D su cui tornare nella modalità interattiva; ovviamente sarà
compito dei progettisti calibrare l’utilizzo, l’intensità e la durata delle cut
scenes in modo da non fraintendere i task che guidano l’utente nella
navigazione e in modo da non mancare l’obiettivo primario della realtà
virtuale che resta comunque l’interazione tra uomo e sistema.
Un altro fenomeno riscontrabile nei VEs che si può considerare
analogo ad alcuni aspetti del montaggio cinematografico è quello che
prevede la possibilità per i progettisti di stabilire un certo numero di punti
“notevoli”. Quest’ultimi sono utilizzati per descrivere luoghi oppure oggetti
3
Federica Grigoletto, Videogiochi e cinema. Interattività, temporalità, tecniche narrative e
modalità di fruizione, Bologna, CLUEB, 2006, p.89.
141
virtuali presenti nel modello che sono degni di particolare interesse e che
dunque possono essere inseriti in un particolare menù di selezione che
funge da collegamento tra essi e gli utenti.
Questi specifici punti di vista permettono al partecipante della
simulazione di “saltare” da una parte all’altra del mondo virtuale in un solo
istante e allo stesso tempo agli sviluppatori di scegliere un insieme di
“inquadrature” privilegiate da mostrare al pubblico.
La tecnologia digitale permette di sfruttare questo sistema di punti
notevoli attraverso la predisposizione di appositi script che permettono di
automatizzare gli spostamenti tra di essi.
Questa eventualità ha una duplice conseguenza che ci può
interessare: da un lato rende l’utente dei VEs un po’ più simile allo
spettatore cinematografico, dall’altro permette al designer di ambienti
virtuali di assumere il ruolo di regista e dunque di responsabile della
messa in scena all’interno della simulazione di realtà virtuale.
142
4
simulazione fisica, un sito architettonico, la struttura di una Rete [...] ” e
ovviamente, aggiungiamo noi, i Virtual Environments.
In questa mutata prospettiva la macchina da presa vede trasformarsi il
proprio statuto ontologico: da dispositivo meccanico utilizzato per fissare
la dinamicità della realtà su una pellicola cinematografica essa diventa
uno strumento virtuale a cui si fa ricorso per accedere ai dati presenti nello
spazio tridimensionale simulato al computer.
Intesa in questi termini, all’interno dei VEs, la macchina da presa
virtuale (MDPV) assume il ruolo di interfaccia, di dispositivo di
collegamento tra le informazioni presenti nel modello e l’utente.
La nuova macchina da presa permette ai partecipanti all’esperienza
virtuale tutta una serie di operazioni che influiscono in modo diretto sul
punto di vista che essi hanno rispetto allo spazio in cui sono immersi.
Opzioni quali lo zoom, l’inclinazione dello sguardo, la panoramica su
un ambiente 3D diventano operazioni comuni a tutti gli utilizzatori dei VEs.
La macchina da presa virtuale è dunque il dispositivo che permette il
passaggio dalla condizione di spettatore a quella di utente all’interno del
processo di rappresentazione visiva.
Sono in molti, però, a considerare questa nuova condizione, in cui il
destinatario della simulazione può decidere in prima persona come
costruire il punto di vista sul mondo interattivo a cui partecipa, come la fine
del concetto stesso di ripresa. Federica Grigoletto sostiene in proposito:
“Cade il concetto di effettuare una ripresa che, nel suo significato
originale, corrispondeva a un prelevare da un contesto esistente, naturale
o riprodotto artificialmente che fosse, fornendo un’inquadratura precisa
della situazione che il regista voleva rappresentare.”
Le tecnologie digitali convertono la macchina da presa, icona
dell’enunciazione cinematografica e dunque della forma di
rappresentazione non interattiva per eccellenza, in uno dei principali
veicoli dell’interattività dei nuovi media, assegnandole nuove funzionalità e
possibilità.
Allo stesso tempo la cinepresa, diventando virtuale, viene privata di
una sua qualità fondamentale: essa cessa di essere lo strumento principe
4
Op. cit. p. 110.
143
attraverso cui si potevano esprimere le istanze autoriali all’interno del
mondo della simulazione visiva del XX secolo.
5
Barbara Maio e Christian Uva sono dottori di ricerca e ricercatori presso l’Università di
Roma 3.
144
specialmente ad Hollywood dove lo star system ha un peso notevole in
questo rincaro. Niente di meglio, allora, che sostituire i vari Tom Hanks e
Julia Roberts con i loro equivalenti digitali: niente stipendio, niente diritti,
6
niente agenti, niente imprevisti.”
Questo scenario che soltanto qualche anno fa pareva iperbolico oggi
non sembra più molto distante.
Il mondo del cinema sotto la spinta dei nuovi media si sta
smaterializzando ed entra sempre più nell’ambito del virtuale. Gli stili e le
tecniche di recitazione che si usano oggi nei nuovi film digitali sono quelli
tradizionali, quello che sta cambiando sono proprio i soggetti che devono
compiere l’interpretazione. Non più soggetti reali ma attori virtuali in grado
di soddisfare al massimo le esigenze di registi e produttori.
Il corpo umano, inteso come principale fonte di significato nella
rappresentazione cinematografica, esce dunque dal processo di
enunciazione filmica e lascia posto al suo alter ego digitale, l’avatar,
ponendo diversi interrogativi di ordine etico all’intero universo del cinema.
La simulazione utilizzata nei VEs si pone nei confronti di questa
rivoluzione in una duplice maniera: da un lato è essa stessa ad aver
contribuito alla trasformazione del cinema degli ultimi anni in un luogo di
negoziazione tra reale e virtuale, tra natura e tecnologia; dall’altro essa
trae un forte impulso dalla rappresentazione cinematografica digitale che
sposta l’attenzione del grande pubblico su nuove modalità di
rappresentazione e simulazione, rendendo familiari e più “umani” i
personaggi costituiti di soli bit che popolano i mondi virtuali.
6
Barbara Maio e Christian Uva, L’estetica dell’ibrido. Il cinema contemporaneo tra reale e
digitale, Roma, Bulzoni Editore, 2003, p. 42.
145
III.3 Da spettatore ad utente
146
Con i nuovi media i processi di conoscenza e di interpretazione delle
informazioni si arricchiscono di un’ulteriore qualità e diventano interattivi.
Andiamo a vedere in dettaglio le caratteristiche e le possibilità che
questa nuova condizione comporta.
147
L’interazione è il mezzo che permette agli utenti di realizzare le
aspettative che hanno riposto nella navigazione dell’ambiente virtuale e gli
obiettivi ad essa collegati.
148
Culture and Technology dell’Università di Toronto, afferma in proposito
che “Il punto di vista, in quanto fondazione del soggetto, verrebbe
sostituito dal point d’être: la realtà artificiale diverrebbe allora presenza sul
corpo, in contatto con la realtà esistente e con l’indivisibilità
7
psicosensoriale del soggetto.”
Le opzioni con cui il punto di vista può essere gestito dai
programmatori e dagli sviluppatori dei VEs e le modalità di significazione
che derivano dal suo utilizzo permettono di individuare delle analogie tra il
mondo della VR e la simulazione cinematografica. Tali affinità risultano
importanti soprattutto per quanto riguarda la capacità di entrambi i media
di supportare una forma narrativa basata sulle immagini e di determinare il
coinvolgimento e l’identificazione dei soggetti da essi coinvolti.
7
Dal Convegno Art visuel et illusion, Tolosa, 1989, citato in Pier Luigi Capucci, Realtà del
virtuale. Rappresentazioni tecnologiche, comunicazione, arte, Bologna, CLUEB, 1993,
p.98.
149
Gli sviluppatori di videogiochi hanno compreso, ormai da tempo,
l’importanza della componente cinematografica nei loro progetti.
Nel settore dei videogame si è potuto verificare che il successo di un
prodotto interattivo deriva dalla sua capacità di far partecipare attivamente
il giocatore allo svolgimento della storia attraverso tecniche ed espedienti
che determinano un’interpellazione continua dei partecipanti e una loro
forte identificazione in uno o più personaggi.
Interpellazione e identificazione sono due importanti componenti
dell’enunciazione cinematografica che possono essere sfruttate con ottimi
risultati anche nei VEs.
Stimoli sensoriali che richiamino l’attenzione dell’utente su un
particolare oggetto o luogo 3D, la possibilità frequente di compiere delle
scelte che diano al destinatario l’impressione di influire sullo svolgimento
del processo comunicativo oppure la consultazione diretta dell’individuo
tramite le parole o le espressioni di un personaggio virtuale sono risorse
fondamentali per fare in modo che l’attenzione dei partecipanti alla
simulazione rimanga alta e che le loro aspettative non vengano tradite.
Nel cinema l’identificazione del pubblico con i personaggi è ottenuta
sia mediante elementi semantici che sintattici: ai primi appartengono i
contenuti narrativi ed emozionali con i quali la storia e l’intreccio del film
riescono a catturare e coinvolgere lo spettatore.
I secondi, invece, derivano dalle scelte stilistiche con cui l’istanza
enunciatrice decide di utilizzare la macchina da presa e comporre le
inquadrature.
Il punto di vista delle immagini cinematografiche e il rapporto che esso
intrattiene con i personaggi e gli spettatori diventano, quindi, elementi
fondamentali dell’identificazione.
Un esempio è quello delle inquadrature, che comunemente sono
definite soggettive. In esse ciò che si vede non è più soltanto quello che
l’enunciatore sta descrivendo, ma anche ciò che un personaggio stesso
sta guardando. In questo modo il punto di vista del narratore, del
personaggio e del pubblico coincidono. L’effetto ottenuto è quello di creare
un regime di soggettività che porta lo spettatore a riconosce quello sta
vedendo il personaggio come se fosse il proprio sguardo, quindi a sentirsi
150
presenti alla scena e vivere in prima persona le emozioni che tale
prospettiva comporta.
Questa considerazione ci aiuta a comprendere l’importanza della
dimensione del punto di vista per il meccanismo dell’identificazione.
La soggettiva non si può considerare soltanto come il modo di vedere
di un personaggio poiché essa permette di rappresentare anche una
particolare prospettiva emotiva sul mondo diegetico. Essa permette, a chi
si identifica con quella particolare visione, di provare le emozioni e i
sentimenti del protagonista della rappresentazione, quindi di qualcuno che
si trova immerso nel mondo del film.
Nelle precedenti riflessioni abbiamo posto l’accento sul passaggio
dallo status di spettatore a quello di utente nelle più recenti forme di
simulazione; da esse si può dedurre che il processo di identificazione
all’interno di un VE è ulteriormente complicato dalla possibilità di interagire
con il mondo rappresentato ed essere presenti in esso in modo immersivo.
Nei VEs la tipologia di esperienza virtuale è vincolata al modo in cui il
punto di vista influisce sulla navigazione. Come nelle altre forme di
rappresentazione visiva anche nella VR esistono diverse categorie di punti
di vista e altrettante modalità di percezione dello spazio virtuale. Fra le
principali menzioniamo la navigazione in prima persona che coincide con
una dimensione soggettiva dello sguardo, quella in terza persona in cui la
macchina da presa virtuale (MDPV) segue costantemente da dietro le
spalle (camera tracking) il personaggio che raffigura l’utente, ovvero
l’avatar, e poi una prospettiva di tipo oggettivo che si avvicina, dal punto di
vista linguistico, alle modalità di rappresentazione più frequenti nel
cinema, ossia quelle in cui la macchina da presa descrive la scena con
inquadrature statiche, rotazioni sul proprio asse o carrelli.
8
Riprendendo le considerazioni che Federica Grigoletto ,
collaboratrice del Media Integration and Communication Center
dell’Università di Firenze ed esperta in cinema e nuove tecnologie, compie
in merito all’identificazione dei giocatori dei videogiochi, abbiamo deciso di
schematizzare il rapporto tra il punto di vista e il livello di identificazione in
8
Cfr. Grigoletto Federica, Videogiochi e cinema. Interattività, temporalità, tecniche
narrative e modalità di fruizione, Bologna, CLUEB, 2006.
151
un VE in modo da rendere più evidenti le relazioni che legano questi due
importanti concetti.
TIPOLOGIA DI LIVELLO DI
PUNTO DI VISTA NAVIGAZIONE DEL VE IDENTIFICAZIONE
IN 1ª PERSONA
SOGGETTIVO Esplorazione ELEVATO
IN 3ª PERSONA
SEMISOGGETTIVO Camera tracking e MEDIO
navigazione mediante avatar
IN 3ª PERSONA
OGGETTIVO Uso cinematografico MDPV QUASI NULLO
152
empatico che permette di incrementare la loro identificazione fino ad
ottenere un livello discreto.
L’ultima tipologia di punto di vista presente nel nostro schema è quella
che determina una navigazione in terza persona e che permette di
importare all’interno dello spazio simulato in 3D le tecniche e gli stili della
regia cinematografica.
Nel proporre questa poco consueta dimensione di fruizione ci
ispiriamo al mondo dei videogame, ovvero il settore della computer
graphics che negli ultimi anni ha sperimentato le tecniche di
rappresentazione tridimensionale in realtime più avanzate.
L’oggettività del punto di vista ricollega l’enunciazione dei VEs a quella
cinematografica, permettendo alla prima di acquisire una valenza narrativa
di cui altrimenti sarebbe priva.
Questa possibilità è determinata dal fatto che la navigazione in terza
persona non deve obbedire all’estetica della continuità vista nel paragrafo
II.4.5.1 e può quindi lasciare il designer dell’esperienza virtuale libero di
utilizzare più angolazioni di ripresa su una medesima scena, effettuare
stacchi e quindi compiere una vera propria attività di messa in scena
dell’ambiente che si vuole simulare.
Gli svantaggi di questa modalità di navigazione sono lo scarso senso
di identificazione dell’utente dovuto ad una drastica diminuzione del senso
di presenza alla scena percepita e l’allontanamento dalle convenzioni più
classiche della realtà virtuale.
In questo discorso sull’identificazione dell’utente nella simulazione
tipica dei VEs è necessario introdurre un ulteriore schema che permetta di
valutare il coinvolgimento dei partecipanti sulla base delle relazioni che il
punto di vista adottato sviluppa in relazione alla narratività.
Il seguente modello, sviluppato a partire dalle teorie proposte da Andy
9
Clarke e Grethe Mitchell , permette di valutare la capacità di una
simulazione tridimensionale di raccontare una storia in base al tipo di
navigazione che viene usata.
9
Cfr. Andy Clarke e Grethe Mitchell, Playing with Film Language, Londra, 1999.
153
TIPOLOGIA DI LIVELLO DI
PUNTO DI VISTA NAVIGAZIONE DEL VE NARRATIVITÁ
IN 1ª PERSONA
SOGGETTIVO Esplorazione DEBOLE
IN 3ª PERSONA
SEMISOGGETTIVO Camera tracking e MEDIO
navigazione mediante avatar
IN 3ª PERSONA MOLTO
OGGETTIVO Uso cinematografico MDPV ELEVATO
154
Quest’ultima tipologia di navigazione consente di arricchire con
informazioni aggiuntive la simulazione dal momento che può integrare ad
essa contenuti extra quali video con attori reali, finestre di testo ed
immagini; ovviamente il progettista, potendo scegliere le angolazioni
attraverso cui si articola la percezione del VE ha la possibilità di mettere in
evidenza alcuni aspetti del modello utilizzando punti di vista e inconsueti in
una tradizionale fruizione interattiva.
155
III.4 Interattività vs Narrazione
10
Gianfranco Bettetini, op. cit. p. 124.
156
considerata come un sistema complesso di gestione, rappresentazione e
trasmissione delle informazioni che riveste un ruolo chiave nelle attività di
accesso, esplorazione ed azione che l’utente compie in relazione ai dati
presenti nel sistema comunicativo informatizzato.
Massimo Botta 11 propone tre diverse tipologie di interazione diretta tra
utente e computer: la prima è la selezione, “ossia quei metodi e quelle
tecniche che consentono di individuare e operare una scelta mirata delle
sorgenti informative, utilizzando principalmente un impianto e degli
strumenti di tipo indicale”. La seconda è l’esplorazione, “ossia quei metodi
e quelle tecniche basate sulla libera ricognizione di uno spazio o ambiente
informativo, in cui la distribuzione topologica dell’informazione è unita a
dei dispositivi funzionali che manifestano una coerenza almeno locale” e
la terza è la manipolazione, “ossia quei metodi e quelle tecniche applicati
a quei casi dove la stessa rappresentazione è concepita come sorgente
12
informativa predisposta ad essere rielaborata e modificata dall’utente” .
Dopo questa breve serie di considerazioni generali riguardanti
l’interazione con un qualsiasi sistema computerizzato andiamo ad
esaminare nello specifico il caso dell’interattività all’interno dei sistemi di
grafica immersiva.
11
Massimo Botta è architetto, designer e dottore di ricerca in Disegno Industriale e
Comunicazione Multimediale; si occupa di teoria e ricerca nel campo di design
dell’informazione e della comunicazione visiva presso il Politecnico di Milano e lo IUAV di
Venezia.
12
Massimo Botta, Design dell’informazione, Trento, Artimedia, Valentina Trentini Editore,
2006, p. 135-136.
157
significato è stratificato nei tre livelli di presenza, immersione e
navigazione che andremo ad approfondire nel corso di questa riflessione.
Prima di passare ad una loro analisi specifica vogliamo ricordare che
esistono alcune condizioni necessarie affinché nella progettazione di un
VE si ottengano risultati soddisfacenti in termini di interattività.
Innanzi tutto bisogna ricordare che la strada da compiere per
raggiungere una vera interattività in un sistema di grafica immersiva è
quella di creare un flusso informativo che interessi il numero più alto
possibile di dispositivi sensoriali; in questo modo coinvolgendo e
interpellando le varie componenti del sistema percettivo dell’utente si
raggiungeranno standard elevati in termini di efficienza della
comunicazione tra sistema e partecipante all’esperienza virtuale.
Un'altra importante condizione è quella che impone ai progettisti di
predisporre il VE in modo da garantire, nel processo di significazione
messo in atto dalla simulazione, un’ampia libertà di interazione tra l’utente
finale e il sistema sia a livello fisico, sia a livello sociale. Così facendo si
potrà rendere la fruizione dell’ambiente virtuale davvero interattiva e
conferire un senso forte alle scelte dei partecipanti e alle relazioni che essi
instaurano fra loro.
In fase di progettazione bisognerà, inoltre, sforzarsi al massimo di
sfruttare al meglio ed ottimizzare l’utilizzo delle componenti hardware che
gestiscono la simulazione. Riteniamo fondamentale ridurre al minimo i
tempi di attesa di ogni feedback emesso dal sistema e le già citate time
lags ovvero gli intervalli di tempo che separano le cause, cioè le scelte e le
azioni dell’utente, dagli effetti, quindi il loro manifestarsi nel mondo
virtuale. Se si vuole rendere efficiente il processo interattivo di simulazione
le time lags non devono superare il decimo di secondo.
Un esempio concreto di quanto affermato, che si verifica con molta
frequenza in un sistema immersivo, è la situazione in cui l’utente sposta
lateralmente la testa per osservare la totalità dell’ambiente virtuale in cui è
immerso. Il sistema, dopo aver calcolato lo spostamento del suo volto
deve adattare la simulazione al nuovo punto di vista. Se si verifica un
ritardo nel feedback il partecipante inizierà a dubitare dell’efficienza del
sistema e della possibilità di interagire con esso.
158
III.4.3.1 Presenza
13
Wijnand Ijsselsteijn, Being There; The experience of presence in mediated
environments, in Being There: Concepts, Effects and Measurement of User Presence in
Synthetic Environments, a cura di Gianni Riva, Fabrizio Davide e W.A.IJsselsteijn,
Amsterdam, IOS Press, 2003, p. 3.
14
Matthew Lombard e Theresa Ditton, At the Hearth of It All: The Concept of Presence,
in Journal of computer-mediated communication, 1997, 2, p.5.
159
contesto comunicativo dei nuovi media; infatti “If Virtual Environments are
technologies of the mind [...] Presence is not just about the illusion of
being there, but also about how the simulation of future, past, or imaginary
15
space can sharpen the mind’s performance [...] ” in tutte quelle attività
interattive che si possono compiere in un VE.
Essendo, dunque, il senso di presenza un fatto principalmente
mentale e percettivo i creatori di VEs che vogliono ottenere un elevato
livello di esso devono coinvolgere al massimo la principale interfaccia che
collega la nostra mente e l’ambiente con cui essa si relazione: il corpo.
In un contesto interattivo, ovvero l’unico ambiente in cui si può parlare
di presenza, per chiamare in causa il corpo dell’utente sarà necessario
predisporre un cospicuo numero di eventi-azione attraverso i quali
garantire ai partecipanti alla simulazione un’ampia libertà di intervento
diretto sui contenuti della CMC; l’interattività è infatti la condizione primaria
del senso di presenza.
La quasi totalità degli studi sul senso di presenza condivide l’assunto
secondo cui l’argomento in questione si possa considerare un fattore
percettivo complesso. Quest’ultimo risulta composto da una pluralità di
dimensioni in cui si articolano insiemi di dati plurisensoriali e processi
cognitivi. É, dunque, opinione condivisa che nel determinare la presenza
in un ambiente virtuale i fattori dell’attenzione ricoprano una posizione di
assoluto rilievo.
16
Wijnand Ijsselsteijn propone due differenti categorie di variabili che
influiscono nel determinare il senso di presenza di un utente in un VE:
esse sono riconducibili alle caratteristiche del medium (A) ed alle
caratteristiche dell’utente (B).
La categoria A può a sua volta essere suddivisa in due sottoinsiemi a
cui appartengono rispettivamente variabili relative alla forma mediale (A1),
considerate le proprietà fisiche ed oggettive del mezzo, e al contenuto
mediale (A2), ovvero gli elementi, i soggetti e gli ambienti rappresentati dal
15
Frank Biocca, Preface of Being There: Concepts, Effects and Measurement of User
Presence in Synthetic Environments, a cura di Gianni Riva, Fabrizio Davide e
W.A.IJsselsteijn, Amsterdam, IOS Press, 2003.
16
Wijnand Ijsselsteijn è Ph. D. in Media Psichology/HCI presso la Eindhoven University
of Technology ed esperto in psicologia e intelligenza artificiale presso lo Human
Technology Interaction Group del Dipartimento di Technology Management di
Eindhoven
160
mezzo. Ciascuno dei due sottoinsiemi ha una notevole influenza sugli
utenti e fa in modo che si possano creare differenti livelli di presenza.
17
Riprendendo T.B. Sheridan , Ijsselsteijn afferma che esistono tre
categorie di determinanti del senso di presenza attribuibili ad A1: la
dimensione delle informazioni sensoriali presentate all’utente, il livello di
controllo che egli ha sui vari dispositivi sensoriali e la capacità del
partecipante di modificare l’ambiente in cui agisce.
Le variabili relative ad A2 assumono un’importanza critica nel
determinare il coinvolgimento e l’interesse dell’utente verso la simulazione
poiché concorrono alla creazione di flussi causali di eventi, meglio
conosciuti con il nome di struttura narrativa.
Come abbiamo già evidenziato la presenza in un VE è un fatto
mentale e dunque come tale è probabile che essa cambi da individuo a
individuo; è per questo motivo che nell’esaminare il senso di presenza si
parla di caratteristiche dell’utente ovvero di un insieme di variabili che
derivano dalle diverse capacità percettive e motorie, dai gusti, dalle
necessità e dagli stati mentali che appartengono a ciascuna persona.
Nella già citata teoria di Lombard e Ditton vengono identificate sei
differenti tipologie di presenza: realism, immersion, transportation, social
richness, social actor within medium, medium as social actor 18.
I due ricercatori americani pongono l’accento sulla capacità dei VEs di
apparire come sistemi mediali in cui vi è assenza di mediazione; l’utente
ha l’impressione di trovarsi nel medesimo ambiente in cui riesce a
percepire gli oggetti che costituiscono il modello 3D e non all’interno di un
sistema computerizzato di VR.
Presenza, quindi, come illusione spazio-temporale che determina
situazioni differenti: la prima “Tu sei là” rientra nell’ambito della
telepresenza e indica una situazione in cui l’utente interagisce e si sente
presente in un ambiente a lui remoto, la seconda “È qui” indica che lo
spazio virtuale e i suoi elementi vengono portati in presenza dell’utente, e
la terza “Siamo insieme” è attuabile soltanto in un sistemi multiusers in cui
17
T.B. Sheridan Musins on telepresence and virtual presence in Presence: Teleoperators
and Virtuale Environments 1, 1992, p. 120-125.
18
Cfr. Matthew Lombard e Theresa B. Ditton, op. cit.
161
due o più utenti condividono la sensazione di presenza e l’ambiente
virtuale.
Da queste considerazioni è possibile dedurre che la presenza ha
quindi un aspetto fisico ed un aspetto relazionale. Il primo riguarda la
sensazione di sentirsi presenti fisicamente in un determinato ambiente
mediale e il secondo si riferisce alla sensazione di prossimità con altri
individui collocati nel medesimo ambiente mediale oppure in un altro
spazio virtuale remoto.
Wijnand Ijsselsteijn parla dunque di “co-presence, or a sense of being
together in a shared space, combining significant characteristics of both
19
physical and social presence.” e introduce un ulteriore livello di indagine
sul concetto di presenza nell’ambito dei VEs multi utente.
Il concetto di co-presenza diventa la principale forma dei sistemi di VR
multi utente e contribuisce al processo evolutivo con cui le dinamiche
comunicative di tali sistemi stanno rapidamente trasformando il concetto
stesso di interattività; come abbiamo più volte sostenuto il panorama dei
nuovi VEs sta spostando il paradigma che domina la ricerca sui sistemi di
VR dall’idea di interattività a quella di interazione.
III.4.3.2 Immersione
162
Eliminando i fattori di disturbo si determina una situazione in cui i
sensi sono stimolati a riconfigurare l’immaginazione, a fornire esperienze
nuove e migliorare la conoscenza e la consapevolezza di sé.
L’individuo immerso nell’ambiente virtuale concentra il fuoco della
propria attenzione soltanto sullo spazio simulato ed ha, di conseguenza, la
possibilità di interagire con un VE percependo quell’ambiente come
contesto cognitivo primario. Ovviamente questa condizione impone
l’isolamento dell’utente dal luogo in cui egli si trova fisicamente. A questo
vincolo corrisponde però la possibilità per l’utente di relazionarsi con il
sistema di VR utilizzando il proprio corpo come strumento primario di
accesso, selezione ed esplorazione delle informazioni.
Il fenomeno illusorio, attivato dal sistema immersivo di VR, permette di
mantenere sospesa l’incredulità del fruitore nei confronti della
rappresentazione; l’immersività può essere considerata dal progettista di
ambienti virtuali come una risorsa critica che permette di far dimenticare al
fruitore di stare partecipando soltanto ad una simulazione.
Al momento non è possibile mantenere a lungo tale condizione poiché
esistono ancora troppi limiti tecnici che impediscono di creare una
simulazione così perfetta ed articolata da essere totalmente verosimile a
livello percettivo e cognitivo, tanto da porre gli individui nella condizione
descritta dal filosofo Daniel Dennet in un saggio del 1978 20.
Egli tramite un curioso ed illusorio aneddoto su sé stesso riflette sulla
condizione in cui l’individuo, una volta che il suo corpo e la sua mente,
dopo un intervento chirurgico, sono separati e portati in due ambienti
differenti collegati tramite impulsi radio, tenta di stabilire dove si trova;
Dennet dice di aver visto il proprio corpo in un ambiente estraneo a quello
in cui stanno verificandosi i suoi processi cognitivi e di aver iniziato a
dubitare del livello di realtà in cui era immerso.
20
Cfr. Daniel Dennet, Where am I?, in Brainstorms, Brighton, UK, Harvester Press, 1978.
163
III.4.3.3 Navigazione
Per poter affrontare l’ultimo dei tre livelli di cui si compone l’interattività
nei sistemi di grafica immersiva, ovvero il concetto di navigazione, è
necessario fare una premessa.
Un qualunque sistema informatizzato si può definire interattivo
quando il suo comportamento è dinamico, dunque, cambia al variare
dell’input dell’utente.
Molto spesso capita di sentir celebrare il concetto di interattività e
tessere le lodi di un determinato sistema computerizzato facendo proprio
leva sulla sue componenti interattive. Niente di più sbagliato poiché una
buona parte dei dispositivi elettronici, compresi molti degli elettrodomestici
di casa, possono rientrare nella categoria dell’interattività appena citata,
figurarsi i computer dotati di sistema operativo e le workstation per la
realtà virtuale.
Il semplice spostamento del cursore del mouse in un ambiente
desktop così come il movimento della macchina da presa virtuale, e quindi
del punto di vista, da parte dell’utente di un videogioco sono indici di
interattività.
Circoscrivendo la portata della nostra riflessione e tornando ai VEs
possiamo tentare di fornire una prima descrizione del concetto di
navigazione di uno spazio virtuale. Se il soggetto per il quale è stato
predisposto il sistema di VR si sposta nel mondo simulato egli compie già
un’operazione di navigazione. Nel paragrafo III.3 abbiamo assegnato a
tale soggetto il ruolo di utente, e abbiamo specificato che una delle
operazioni che caratterizzano questa figura è proprio quella di poter
variare a proprio piacimento il punto di vista sullo spazio virtuale.
Questa semplice operazione impone al sistema di VR, sia esso
immersivo o non immersivo, di adattarsi continuamente alle nuove
posizioni assunte dell’utente e quindi cambiare il proprio stato in modo
dinamico, diventando quindi interattivo.
Da queste prime considerazioni è emerso che navigazione nei VEs
significa movimento all’interno dello spazio virtuale che in questo caso si
può definire in modo più specifico spazio navigabile.
164
Lo spazio navigabile, pur essendo una fondamentale caratteristica
degli ambienti virtuali, non è una loro esclusiva. Tale concetto nacque,
infatti molto prima dei sistemi computerizzati stessi e si può considerare
come una forma culturale più vasta che interessa tutte gli ambiti espressivi
che hanno a che fare con il visibile.
Nei nuovi media lo spazio navigabile diventa terreno comune per la
trasmissione delle informazioni, uno strumento utilizzato in larga scala per
rappresentare dati di qualunque tipo.
Analogamente a quanto sostenuto nel caso della macchina da presa
virtuale, anche lo spazio navigabile si può considerare, dunque, una
convenzione rappresentativa primaria nell’era dei nuovi media.
Essendo molto duttile lo spazio navigabile può essere utilizzato per
simulare tanto spazi reali quanto per rappresentare informazioni astratte.
Per queste ragioni lo spazio navigabile è diventato uno dei concetti chiave
nel campo delle GUI e di conseguenza una forma primaria per i mezzi di
comunicazione che si basano su di esse.
Lo spazio navigabile è dunque quell’elemento che permette la
navigazione e quindi l’interattività. Tale dinamicità presuppone che lo
spazio dei VEs sia una struttura composta da molti stadi che mutano in
continuazione; questa condizione introduce il concetto di spazio
transizionale proposto da George Lagrady con l’installazione Transitional
Spaces realizzata nel 1999 presso la sede della Siemens di Monaco.
La navigazione di questa tipologia di spazio può essere intesa come
una transizione, un passaggio da uno stadio al successivo.
Esiste tuttavia un ulteriore aspetto della navigazione nei VEs che non
abbiamo ancora trattato. Se, come anticipato nel paragrafo II.4.5.1, la
logica dominante nelle simulazioni di VR è l’estetica della continuità, allora
la navigazione, ovvero il principale strumento per raggiungere le
informazioni presenti nel VE, si può considerare come la possibilità di
relazionarsi con lo spazio virtuale tracciando una traiettoria continua,
potenzialmente infinita.
L’utente di un VE ha, dunque, la capacità di muoversi liberamente
attraverso lo spazio navigabile. Questo estremo grado di libertà può, però,
determinare delle conseguenze impreviste. Un eccesso di libertà nella
165
navigazione distoglie l’attenzione dell’utente dagli scopi dell’esperienza
virtuale e può quindi causare una situazione in cui l’individuo “si perde” nel
mondo virtuale e la simulazione tradisce i suoi obiettivi.
È dunque una buona abitudine quella di predisporre già in fase di
progettazione una tipologia di navigazione che definiamo user-oriented,
ovvero una modalità di relazione tra utente e spazio simulato basata
sull’attraversamento di una vera e propria “corsia preferenziale” che si può
considerare come una traccia che guida l’individuo nei suoi passi
attraverso l’ambiente virtuale.
Navigazione user-oriented non significa privare l’utente della libertà di
muoversi come vuole, infatti questa possibilità rimane tale, ma invece vuol
dire avere un occhio di riguardo per il soggetto partecipante alla
simulazione e per le sue sensazioni ed emozioni.
Tutto ciò si concretizza nella progettazione di uno spazio navigabile
che presenta alcuni vincoli, quali oggetti 3D posti ad ostruire l’accesso a
zone di non immediato interesse oppure la creazione di passaggi e
collegamenti che mettono in contatto un luogo virtuale dotato di particolare
importanza con un altro dello stesso livello, situato a distanza.
Porre alcuni vincoli alla navigazione significa considerare la
soggettività dell’utente come una delle principali istanze che concorrono
nel processo di negoziazione del significato tra il sistema di VR e il suo
utilizzatore.
166
La simulazione tridimensionale in realtime messa in pratica dai sistemi
di VR è soprattutto un fatto percettivo e dunque genera un effetto che
principalmente è quello del darsi a percepire; questa peculiarità non
pregiudica però la possibilità all’interno dei mondi virtuali di raccontare
storie e predisporre impianti narrativi che coinvolgano gli utenti a livello
emotivo e cognitivo in un percorso causale tra le informazioni
rappresentate.
Risulta quindi importante per questo saggio tentare di capire il ruolo
che gioca la narratività nel processo di creazione del senso all’interno dei
VEs, e gli elementi che permettono di considerare i mondi virtuali tanto
luoghi di rappresentazione spettacolare ed interattiva quanto terreni fertili
per la narrazione.
Le funzioni fondamentali di ogni struttura narrativa ovvero regime
causale, temporalità e spazialità sono elementi che possono essere
integrati nella struttura interattiva della VR con il fine di costruire un
esperienza virtuale più ricca a livello informativo ed emozionale.
La causalità in un ambiente virtuale corrisponde alla possibilità di
costruire un determinato percorso di fruizione che colleghi i diversi nuclei
informativi, presenti nel database del modello.
L’obiettivo è quello di guidare gli utenti nella costruzione del senso
concentrando la loro attenzione non tanto sui singoli ambienti ed oggetti
3D con cui stanno interagendo, quanto sulle relazioni che intercorrono tra
di essi.
In questo modo diventa possibile allargare la capacità di
interpretazione che i fruitori hanno nei confronti dei dati e fornire loro una
visione d’insieme dei messaggi e dei contenuti.
Il regime causale può allora essere utilizzato per circoscrivere gli
obiettivi dell’esperienza virtuale ed evitare possibili dispersioni nell’utilizzo
del sistema di VR.
La narratività in un VE può allora essere considerata come un
tentativo di convogliare gli sforzi cognitivi degli utenti verso un’unica
grande meta: l’attribuzione di uno specifico significato al mondo virtuale.
Per quanto riguarda la spazialità si può agevolmente affermare che la
simulazione dei sistemi immersivi di VR attribuisce molti significati diversi
167
al concetto di spazio; esso è l’interfaccia con cui l’utente si relaziona con
la macchina e allo stesso tempo è il medium che permette la
comunicazione delle informazioni tra i vari soggetti partecipanti.
Lo spazio virtuale, essendo uno spazio navigabile, è anche un
elemento fondamentale per la narratività. Esso, poiché è il terreno digitale
su cui agisce la navigazione, diventa un sentiero, un percorso da seguire
in cui i partecipanti alla simulazione riescono ad esprimere la propria
soggettività e dunque le proprie emozioni.
La narratività nei VEs attribuisce allo spazio virtuale una nuova
valenza psicologica poiché riesce ad inserire nella fruizione di un modello,
costituito principalmente da formule e strutture matematiche, una
componente emozionale.
La struttura spaziale tridimensionale può essere, dunque, sfruttata dai
creatori di ambienti virtuali per conferire un certo “taglio” alla navigazione.
Ciò può avvenire mediante precise scelte stilistiche che trasformano lo
spazio virtuale da una risorsa informativa fatta di coordinate cartesiane in
una risorsa emozionale che crea aspettative ed è in grado di parlare
direttamente all’immaginario degli utenti.
La narratività assume, inoltre, un’importanza fondamentale nell’ambito
della VR poiché introduce all’interno del mondo virtuale la variabile
temporale e segna, dunque, la fine dell’egemonia della dimensione
spaziale, intesa come unica fonte di produzione del senso.
La temporalità nei VEs si può considerare una struttura formale
specifica che stabilisce la progressione degli eventi che vengono simulati.
Il tempo indefinito della realtà virtuale viene finalmente declinato in
un’architettura organizzata che diventa funzionale al racconto attraverso il
quale si articola l’esperienza di fruizione.
La temporalità permette di descrivere il modo in cui l’oggetto della
simulazione è stato trasformato dal tempo e dunque presentare
un’evoluzione cronologica del modello.
Gli autori della struttura narrativa del VE avranno così la possibilità di
giocare con la temporalità della simulazione per caricare di particolare
significato gli eventi in essa rappresentati. Questo aspetto è molto
importante soprattutto nel settore del Virtual Heritage in cui la sincronicità
168
che caratterizza l’attività simulatoria tipica dei sistemi di VR, molto spesso
non rende giustizia alla ricostruzione storica delle situazioni e delle epoche
che si vogliono mostrare al pubblico.
III.4.4.1 VR Storytelling
169
che partecipa alla simulazione avranno conseguenze significanti all’interno
dell’impianto narrativo.
Solo in questo modo sarà possibile compensare la perdita di potere
dell’utente, seguita alla limitazione dell’interattività, e rinvigorire l’interesse
del pubblico verso l’esperienza virtuale narrativa.
L’aspetto che, però, non deve essere trascurato è quello emozionale.
Kristopher Blom e Steffi Beckhaus, docenti e ricercatori presso Interactive
Media/ Virtual Environments dell’Università di Amburgo propongono a
21
riguardo il concetto di Emotional Storytelling che consente al sistema
che gestisce la simulazione di tenere conto dei fattori emotivi degli utenti e
renderli una componente essenziale della navigazione interattiva.
I due ricercatori tedeschi propongono di sviluppare sistemi di
Interactive Storytelling in cui la narrazione sia basata su un’esperienza
emozionale e interattiva costituita da una storia modulare suddivisa in
tante unità significanti.
L’insieme di tali unità costituisce la totalità delle varianti a cui la storia
potrà andare incontro. La scelta di eseguire un’unità narrativa, piuttosto
che un’altra, è compiuta in realtime dal sistema di VR.
Per creare il prosieguo della storia ad ogni punto di svolta il computer
si baserà sulla struttura narrativa precostituita e la integrerà con le
decisioni degli utenti.
In fase di progettazione devono essere necessariamente previste e
testate tutte le possibilità di connessione tra i vari segmenti narrativi; al
contempo questi dovranno essere ideati in modo da potersi connettere in
qualunque ordine e portare sempre al compimento della narrazione.
L’importanza dell’elemento emozionale scaturisce proprio
dall’accostamento in tempo reale di tutte le componenti.
“More specifically, we are proposing that the IS system should
explicitly parametrize the emotion of the user and use this as guiding
feature for on-line construction story.“ 22
Ovviamente l’aspetto emozionale è un fattore che varia molto sia a
livello individuale, che culturale, ma anche in base alle condizione emotive
che l’utente presenta in un determinato momento. Partendo da questo
21
Cfr. Kristopher Blom e Steffi Beckhaus, Emotional Storytelling, Hamburg, 2005.
22
Kristopher Blom, Steffi Beckhaus, Emotional Storytelling, Hamburg, 2005, p. 2.
170
presupposto bisogna fare in modo che il sistema di VR verifichi in
continuazione lo stato emotivo dell’utente ed in base a quello possa
adattarsi ad ogni nuova situazione.
Tenendo sempre presenti i fattori emozionali dei partecipanti alla
simulazione il sistema che gestisce la narrazione potrà individuare al
meglio quale nuova unità significante introdurre per rendere coeso il senso
complessivo di ciò che si vuole comunicare e mantenere alto il livello di
coinvolgimento del partecipante all’avventura virtuale.
171
Un algoritmo si può definire come un procedimento che consente ad
un calcolatore di ottenere un risultato atteso eseguendo, in un determinato
ordine, un insieme di passi semplici corrispondenti ad azioni scelte
solitamente da un insieme finito.
L’utente di un sistema di VR può esplorare il mondo virtuale
ricomponendo le tappe e i passaggi di cui è composto l’algoritmo narrativo
alla base del VR Storytelling, ma allo stesso tempo può interagire con i
contenuti in modo casuale e senza seguire schemi.
La logica che soggiace ai VEs racchiude in se stessa entrambi i
principi che guidano i nuovi media. La classica distinzione tra la logica
dell’algoritmo e quella del database viene meno prefigurando per questo
nuovo medium ibrido, a metà fra narrazione e interattività, molte potenziali
modalità di significazione che rimangono ancora tutte da scoprire.
172
III.5 Nuove forme di interazione nel
cyberspazio
173
Nelle nuove forme digitali di simulazione della realtà il concetto di
fotorealismo è relativizzato e adattato alle possibilità dei nuovi mezzi.
In molti autori questo fenomeno è identificato con una categoria
estetica specifica definita fotorealismo sintetico. Essa impone che le
immagini virtuali generate al computer non siano distinguibili da quelle
ottenute mediante strumenti ottici, come la macchina fotografica o la
macchina da presa cinematografica.
A detta di molti questa sudditanza della simulazione nei confronti
della fotografia costituisce, nei nuovi media, un vero e proprio paradosso;
pur essendosi sviluppata moltissimo la tecnologia che permette la
simulazione non referenziale, il mondo della rappresentazione appare
ancora legato in modo consistente alle forme ed ai cliché dei media che lo
hanno preceduto.
La situazione è talmente paradossale che in molti casi risulta
seriamente complicato distinguere se un’immagine che compare sul
monitor del nostro computer sia una fotografia digitale o il risultato di una
simulazione visiva digitale.
La simulazione dei sistemi di VR complica ulteriormente la nostra
riflessione, infatti oltre al problema del realismo, essa impone di analizzare
il livello di veridicità di quanto viene simulato.
Se la questione del realismo si può ridurre al solo livello di iconicità
della rappresentazione, in breve a quanto il rappresentante assomiglia al
rappresentato, nei VEs non esistono informazioni attendibili che indichino
che ciò che si sta percependo abbia un corrispondente nella realtà.
L’utente deve necessariamente fidarsi dei propri sensi ed accettare quanto
simulato, accontentandosi che esso sia verosimile e dunque coerente.
Diciamo che la riflessione si fa più difficile poiché le sofisticate
tecnologie dei VEs riescono a far percepire come verosimili, e quindi per
induzione reali, scenari ed eventi che possono essere totalmente al di
fuori delle regole che governano la realtà, come ad esempio le leggi
fisiche.
Nella VR è, dunque, possibile mostrare come veri elementi che sono
totalmente frutto della fantasia di coloro che progettano il sistema e il
modello. Ad esempio già oggi si può simulare in modo verosimile un
174
viaggio nello spazio in una navicella totalmente inventata ma modellata in
modo realistico, in cui l’accelerazione e la velocità del velivolo superano di
gran lunga i valori possibili con le tecnologie che attualmente esistono
nella realtà.
Ovviamente tali livelli di fotorealismo e verosimiglianza richiedono
tecnologie hardware e simulatori di ottimo livello e di conseguenza enormi
sforzi produttivi.
Quello che ci preme sottolineare, dopo questo lungo discorso
introduttivo, è che la tendenza più diffusa tra coloro che si occupano di
grafica 3D ed ambienti virtuali è quella di impiegare moltissime risorse, in
termini economici e di capitale umano, per conferire verosimiglianza e
fotorealismo ai propri progetti.
Quello che, secondo noi, viene spesso tralasciato è un
approfondimento critico degli scopi e delle necessità della simulazione;
soltanto con un’analisi di questo tipo diventa possibile individuare le strade
migliori per ottenere un prodotto che sia accattivante e spettacolare, ma
che sappia anche sfruttare le possibilità offerte da tipologie estetiche
alternative. Così facendo siamo convinti che si potrebbero ottenere dei
risultati soddisfacenti in termini di coinvolgimento ed immersione degli
utenti, e contemporaneamente esplorare la quasi totalità dei sistemi
significanti che appartengono al mondo della rappresentazione e della
percezione.
L’estetica dell’iper-realtà, che sta imperversando attualmente nel
mondo del cinema e della computer graphics, ci sembra un appiattimento
del mondo della creatività cinematografica ed eidomatica su alcuni
standard e convenzioni che sono sì largamente accettati e diffusi, ma che
di fatto stanno soffocando tutte le altre varianti della ricerca estetica nel
campo del visibile.
In un contesto produttivo in cui la quasi totalità degli strumenti
software di grafica e di modellazione 3D sono pensati per ottenere effetti
fotorealistici è difficile che i creativi ed i designer decidano di non sfruttare
le potenzialità offerte da tali tools e scelgano di abbandonare ricche
librerie e menù di effetti in nome della ricerca di un qualcosa di alternativo
175
che però richiede grossi sforzi cognitivi già a livello di implementazione
della tecnologia per realizzarlo.
Accade molto di rado vedere progetti che contrappongano al
fotorealismo un’estetica ragionata e creata ad hoc per il contesto e l’uso
specifico che avrà la simulazione. Se per legittimare la simulazione della
VR è necessaria la verosimiglianza del modello in modo da conferire
oggettività a quanto simulato, non è detto che non si riesca ad ottenere
tale risultato utilizzando ad esempio effetti di tipo impressionistico,
astratto, surreale o caricaturale che permettono allo stesso tempo di
incrementare il livello di partecipazione emotiva degli utenti ed appagare il
loro senso estetico. Capita spesso che un’esperienza virtuale volta al solo
iper-realismo del modello non riesca a trasmettere emozioni o significati
complessi poiché il mondo così simulato, che appare più vero di quello
reale, risulta freddo, asettico, troppo definito e nitido e tradisce fin troppo
bene la sua natura artificiale, fatta di soli bit.
In nome del fotorealismo sintetico molto spesso si trascurano le
particolarità specifiche dei VEs, come la possibilità di coinvolgere nella
simulazione la totalità del sistema percettivo umano oppure la capacità di
fornire esperienze virtuali in cui interagiscano più utenti
contemporaneamente. Per questa ragione ci apprestiamo ad analizzare
alcune soluzioni che, a nostro avviso, possono conferire un forte impulso
alla realizzazione di nuove forme di simulazione. Esse potranno essere
veramente significative poiché sfruttano elementi cognitivi ed emozionali
che consentono di avvicinare l’esperienza della VR alla percezione
naturale e simultaneamente permettono di completare il panorama della
simulazione digitale con quei particolari indispensabili che arricchiscono
ogni esperienza umana: i sentimenti e le emozioni.
176
fluorescenti, così densi che bastava cercare di andare oltre il contorno per
cortocircuitare il sistema nervoso [...] Okay disse Bobby, che cominciava a
capire qualcosa e allora cos'è la matrice? Se lei è il deck e Dambala il
24
programma, cos'è il cyberspazio? Il mondo disse Lucas. “
Abbiamo deciso di partire dalle parole di William Gibson per introdurre
il concetto di cyberspazio (3) proprio perché tale autore, simbolo del
movimento cyberpunk (4), coniò il concetto di matrice e fu il primo negli
anni Ottanta a descrivere quel mondo virtuale che permette ai computer di
tutto il mondo di collegarsi tra loro e costituire un unico, grande network.
Da allora, soprattutto sotto la spinta di Internet, il contesto tecnologico
e mediale in cui viviamo si è trasformato molto. Le fantasie della science
fiction relative ai mondi virtuali hanno iniziato gradualmente a trasformarsi
nella realtà con cui sempre più persone si confrontano tutti i giorni.
Come già avevano profeticamente anticipato Gibson e compagni il
cyberspazio, lo spazio virtuale oggi meglio conosciuto come la Rete, non
sarebbe stato soltanto un canale ultra rapido di comunicazione tra
calcolatori.
Negli anni Novanta attraverso quelle che furono definite autostrade
dell’informazione iniziarono ben presto a circolare idee, ricordi, sentimenti
ed emozioni; moltissime persone interessate ad argomenti comuni
iniziarono a scambiarsi informazioni, dati e lettere, a giocare insieme, a
conoscersi, a sviluppare progetti collettivi o anche semplicemente a
comunicare senza uno scopo preciso.
Seguendo queste indicazioni si può considerare il cyberspazio come
quel luogo virtuale in cui avviene la comunicazione a distanza.
“In quest’ottica tutte le comunicazioni fra individui che non condividono
lo stesso spazio locale costituiscono istanze di cyberspazio, e certamente
appartengono a questa classificazione le video conferenze, le chat, i
25
forum e addirittura le semplici telefonate.“
L’incredibile sviluppo che negli ultimi anni ha accompagnato fenomeni
quali le comunità virtuali, le chat room, l’instant messaging ed i sistemi di
24
William Gibson, Count Zero, 1986 (tr.it. di Delio Zinoni, Giù nel cyberspazio, 1ª ed. I
cinque, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996, pp.50-51).
25
Emanuele Spagnolo, Avatar, Robots e Ambienti Virtuali Condivisi, in
http://www.noemalab.org/sections/specials/tetcm/2002-03/avatar/main.htm, 2002, p. 2.
177
Desktop VR online è soltanto uno degli esempi che si potrebbero citare in
un discorso sul ruolo del cyberspazio inteso come luogo virtuale di
aggregazione e relazione tra gli individui.
La nostra riflessione, dopo essersi concentrata a lungo sul valore dello
spazio virtuale inteso come interfaccia, medium oppure ambiente della
narrazione interattiva, ci porterà ad interrogarci sui VEs e a considerarli
come cyberspazi tridimensionali in cui avviene l’interazione tra gli individui.
Il cyberspazio, declinato nel mondo della realtà virtuale, si può
considerare come quello spazio non attuale ma esistente, appunto in
modo virtuale, in cui avviene la comunicazione e dunque l’interazione tra
l’utente e il sistema oppure tra un utente ed altre persone.
Più volte abbiamo sostenuto che le ultime frontiere nel mondo della
VR si possono considerare gli ambienti multiusers ed i cosiddetti CVEs,
Collaborative Virtual Environments. Prima di passare alla descrizione di
queste nuove tipologie di realtà virtuale è necessario compiere una breve
riflessione su quelle forme che consentono la rappresentazione degli
individui nello spazio virtuale.
178
Tali situazioni si verificano quando i progettisti di VEs si concentrano
troppo sulla componente grafico-espressiva e trascurano quella
emozionale-relazionale, celebrando la navigazione in prima persona come
l’unica condizione possibile per accedere allo spazio virtuale.
La capacità di risolvere il problema della solitudine nel cyberspazio è
nata nel mondo di Internet, come tentativo di rendere la fruizione della
Rete un fatto collettivo che rendesse gli utenti in grado di relazionarsi e
cooperare tra loro all’interno di comunità virtuali.
Ci stiamo riferendo al concetto di avatar e alle novità che questa figura
ha introdotto nel settore della Computer Mediated Communication.
La necessità di essere riconosciuti e differenziarsi dagli altri utenti,
unita alla capacità di proiettare la propria individualità nel cyberspazio ha
determinato il ricorso sempre più massiccio, da parte degli fruitori di
Internet e dei nuovi media, agli avatar.
Il termine avatar viene usato nella tradizione Induista per definire le
diverse incarnazioni di Visnu ed indicare, quindi, l’assunzione di un corpo
fisico da parte di un dio.
Per estensione il significato di avatar passa dalla dimensione religiosa
e mitica all’universo della simulazione in cui viene utilizzato per descrivere
“[...] una figura con la relativa origine in un mondo, proiettata, passando
26
attraverso una forma della rappresentazione, in un mondo parallelo. “
L’ avatar è dunque l’immagine del nostro corpo nel cyberspazio, il
simulacro di ogni utente che entra in una comunità virtuale oppure in un
VE in cui è prevista la presenza di più persone nello stesso momento.
Il principale motivo per cui sono nati gli avatar è quello di aiutare gli
individui ad interagire con lo spazio virtuale autodefinendo la propria
identità. Prerogativa di ogni sistema basato sugli avatar è infatti la
possibilità da parte dell’utente di scegliere autonomamente il modo in cui
apparire nel cyberspazio; diventa, quindi, consuetudine definire la
morfologia del proprio alter ego digitale, mutando il suo aspetto in base
allo stato psicologico in cui ci si trova oppure semplicemente in base ai
gusti ed agli interessi personali di quel momento.
26
Emanuele Spagnolo, Avatar, Robots e Ambienti Virtuali Condivisi, in
http://www.noemalab.org/sections/specials/tetcm/2002-03/avatar/main.htm, 2002, p. 2.
179
Inizialmente gli avatar erano semplici rappresentazioni bidimensionali
inserite nei profili personali degli appartenenti ad una comunità virtuale;
con il progredire della computer graphics essi sono divenuti elaborati
simulacri tridimensionali con le più svariate sembianze, in grado quindi di
interessare tanto il settore dei videogiochi quanto quello della VR.
In quei contesti, come i CVEs, in cui è necessario mettere in contatto
utente e spazio virtuale attraverso una navigazione in terza persona
l’avatar diventa una figura centrale del processo enunciativo e il sistema
stesso può essere definito Avatar Image-Based Virtual Reality.
L’avatar diventa il referente virtuale da seguire attraverso il dispositivo
di camera tracking e dunque il personaggio che rende possibile
l’identificazione e il coinvolgimento dei partecipanti all’interno dei sistemi
che consentono una navigazione narrativa interattiva.
La navigazione basata sugli avatar è fondamentale nei sistemi di
grafica immersiva nei quali l’aspetto narrativo è considerato importante ma
anche in tutti i recenti sistemi Desktop VR, come i già citati World of
Warcraft oppure SecondLife, in cui la forza della simulazione è proprio
incentrata sull’interazione tra i partecipanti e sulla dinamiche da essa
generate; in questi VE multiusers è necessario inserire l’utente nello
spazio virtuale e al contempo fornirgli la possibilità di avere una visione
d’insieme su quanto accade nella simulazione. L’unica strada che fino ad
ora è stata ritenuta possibile è quella che di ricorrere agli avatar.
Tra le varie tecnologie che generano VEs esistono anche sistemi
misti, in grado di mettere in contatto l’utente con l'ambiente virtuale sia con
una visuale in prima persona che ricorrendo ad un avatar.
Queste tipologie di sistemi possono, dunque, gestire in
contemporanea due categorie di utenti. Si può partecipare alla
simulazione 3D sotto forma di un doppio virtuale, l’avatar, oppure
navigando in prima persona. Ciascun utente può scegliere la modalità con
cui intende partecipare all’esperienza virtuale.
La fortuna dell’Avatar Image-Based Virtual Reality è dovuta al fatto
che i sistemi di VR che supportano questa tipologia di esperienza virtuale
si possono considerare come un contesto di interazione fra l'essere
umano ed il calcolatore che va molto oltre le convenzioni dei sistemi di
180
elaborazione desktop convenzionali, poiché permette un maggior
coinvolgimento dell’utente mediante l’attivazione di articolati processi
cognitivi ed emozionali.
27
Giuseppe Mantovani è Professore Ordinario di Psicologia Culturale presso l’Università
degli Studi di Padova e celebre ricercatore nei settori della psicologia sociale, della
comunicazione e dei nuovi media.
181
“Il nuovo approccio vede la comunicazione non più come il
trasferimento di un messaggio da un emittente a un ricevente, con il
ritorno dell’informazione all’emittente a chiudere il ciclo, secondo il
classico modello lineare di Shannon, ma come un processo di
negoziazione del senso da dare alle varie situazioni [Stasser 1992] tra un
28
insieme di attori all’interno di una relazione strutturata. “
La possibilità di comunicare ed interagire con altri soggetti umani
conferisce un nuovo significato allo spazio virtuale rendendo il modello 3D
non soltanto il medium attraverso il quale sono trasmesse le informazioni,
ma anche l’ambiente relazionale in cui diversi individui possono
comunicare tra loro.
Il cyberspazio in un MUVE si può, dunque, considerare come quel
paesaggio digitale attraverso il quale gli individui riescono a condividere le
informazioni tramite pratiche di interazione reciproca e tramite l’interazione
individuale e collettiva con il modello tridimensionale.
La situazione appena descritta rappresenta un notevole passo in
avanti nel campo della HCI; qui di seguito è possibile valutare in forma
schematica la rappresentazione del nuovo paradigma che si sta
affermando nella Computer Mediated Communication e per estensione nel
settore della realtà virtuale.
28
Cfr. Giuseppe Mantovani, Comunicazione e identità. Dalle situazioni quotidiane agli
ambienti virtuali, 3ªed., Bologna, Il Mulino, 1995.
182
Solitamente la dicitura MUVEs viene utilizzata per riferirsi ad ambienti
virtuali fruibili online e quindi appartenenti alla categoria dei sistemi
Desktop VR. Se inizialmente il termine MUVEs venne utilizzato per
descrivere il cambio generazionale che la grafica 3D impose nel mondo
dei MUDs (5) oggi si fa ricorso ad esso in modo più generico per intendere
un qualsiasi Mass Multiplayer Online Role Play Game (MMORPG) (6).
World of Warcraft, Second Life, There, ActiveWorlds, and Neverwinter
Nights sono i più conosciuti ed utilizzati MUVEs, ma ovviamente in rete se
ne possono trovare molti altri.
I MUVEs più recenti hanno una grafica 3D di tipo isometrico e
permettono una navigazione in terza persona, basata sugli avatar. In
questi particolari VEs migliaia di utenti possono interagire
simultaneamente con un mondo virtuale di tipo persistente ed in continua
evoluzione.
Da quanto abbiamo appena esposto appare evidente che il concetto
di MUVE è profondamente legato al settore videoludico e quindi oggetto di
una forte connotazione da esso derivante.
Per ovviare a questa situazione la comunità scientifica ha deciso di
coniare un termine alternativo che potesse essere usato per descrivere un
VE multiutente e che allo stesso tempo permettesse di sottolineare
l’aspetto relazionale dell’esperienza virtuale.
Il concetto di Collaborative Virtual Environment (CVEs) è quello che
ha dimostrato di possedere entrambe le caratteristiche sopra descritte ed
è quindi stato scelto tra i molti possibili già a partire da metà anni Novanta.
Un CVE è, dunque, una forma di cyberspazio che supporta
attivamente la comunicazione tra uomo e uomo oltre che la più volte citata
HCI.
I CVEs utilizzano principalmente un’interfaccia di tipo spaziale, come
nella VR tradizionale, ma al contempo permettono di integrare ad essa
ambienti MUD testuali per garantire l’interazione tra i partecipanti.
La possibilità, consentita agli utenti, di relazionarsi gli uni con gli altri
in un luogo che fisicamente non esiste si può considerare l’aspetto
principale di un CVE. La collaborazione tra i soggetti coinvolti nella
simulazione permette di condividere informazioni e modificare di comune
183
accordo lo spazio virtuale; quest’ultimo, diventando plasmabile e
modificabile da parte di coloro che si trovano immersi al suo interno, inizia
ad essere uno spazio “abitabile” in cui le persone cominciano a provare un
senso di appartenenza ad una comunità.
All’interno di questa tipologia di ambienti virtuali i fruitori della
simulazione possono, dunque, proiettare se stessi in un luogo virtuale su
cui si ha la possibilità di intervenire in modo diretto per compiere modifiche
ed adattarlo ai propri gusti o interessi.
In un CVE le azioni compiute da un utente producono effetti immediati
sul cyberspazio che possono essere immediatamente percepiti dagli altri
soggetti coinvolti.
Gli utenti hanno, quindi, la possibilità di esplorare il VE sotto forma di
avatar e interagire tra loro comunicando liberamente attraverso sistemi di
comunicazione verbale e non verbale.
In un CVE il senso di presenza, caratteristica fondamentale di ogni
sistema di VR, assume una connotazione specifica trasformandosi in una
sensazione di co-presenza, ovvero la percezione di “essere insieme” nel
cyberspazio.
Questo concetto evidenzia l’importanza degli aspetti collettivi e
relazionali dell’esperienza virtuale dal momento che la prossimità che
l’utente percepisce durante la simulazione, non è più soltanto una
sensazione riferita al VE ma è soprattutto un sentimento rivolto agli altri
individui con cui condivide informazioni ed emozioni.
I CVEs pongono, dunque, nuove sfide al mondo della simulazione
affermando con vigore l’importanza e la necessità della dimensione
sociale all’interno del cyberspazio e della VR.
Interessando ingegneri, sociologi, psicologi, designer, informatici ed
esperti in comunicazione il settore dei CVEs risulta essere un campo di
studi molto promettente e fino ad oggi abbondantemente non ancora
esplorato; per queste ragioni un approccio multidisciplinare all’argomento
consentirebbe di analizzare le dinamiche e le logiche che soggiacciono a
queste forme di VEs ed individuare loro possibili sviluppi.
184
Questa breve riflessione sui sistemi di realtà virtuale multiutente ci
permette di individuare una caratteristica importante che guida
l’evoluzione delle tecnologie di simulazione.
Ancora una volta l’idea di una fruizione collettiva è risultata vincente
ed ha iniziato ad imporsi sulle altre forme concorrenti. Così come il
cinematografo dei fratelli Lumière riuscì a sbaragliare la concorrenza degli
altri dispositivi che permettevano la simulazione visiva, allo stesso modo la
fruizione collettiva dei VEs ha dimostrato di essere la strada per allargare
l’interesse pubblico verso i progetti di realtà virtuale.
Questa situazione non dovrebbe destare stupore o meraviglia poiché
già dai tempi antichi è opinione condivisa considerare l’uomo come un
animale sociale e per quanto la sua natura possa essere celata o
trasformata dal ricorso a strumenti e conoscenze sempre più avanzate,
legate a fenomeni artificiali ed effimeri, probabilmente nulla riuscirà a
cambiare la caratteristica essenziale della nostra esistenza.
185
III.6 Estetica della liquidità
29
Cfr. Zygmunt Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity Press, 2000 (tr. it. Sergio
Minucci, Modernità Liquida, Roma, GLF Editori Laterza, 2002)
30
Cfr. Marcos Novak, Liquid Architectures in Cyberspace, in Michael L. Benedickt,
Cyberspace. First Step, TheMit Press, Cambridge, Massachessets, 1991.
186
VEs poiché consente di descrivere con precisione la condizione in cui si
trova l’utente di un’esperienza narrativa-interattiva. Egli si trova
costantemente a passare dalla posizione di spettatore a quella di utente, e
poi ancora ad essere spettatore e ancora utente e così via fino ad
immergersi totalmente nell’illusione.
Lev Manovich afferma in proposito “Le oscillazioni cicliche tra
l’illusione e la sua decostruzione non sembrano né distrarlo, né avvicinarlo
ad essa. Possiamo paragonare queste modificazioni temporali alla
struttura campo/controcampo del cinema e intenderle come un nuovo
meccanismo di sutura. Dovendo completare periodicamente la narrazione
interattiva con una partecipazione attiva, il soggetto viene intrappolato in
31
essa” quindi, aggiungiamo noi, coinvolto nella forma liquida del
cyberspazio.
Allo stesso modo il sistema narrativo-interattivo che genera la VR non
è mai statico, continua a modificarsi, ad aggiornarsi, a mantenersi in un
loop infinito per rilevare le variazioni dell’ambiente virtuale, elaborarle in
tempo reale e rappresentarle in modo dinamico.
Le forme stesse della realtà virtuale non sono altro che informazioni
inconsistenti, dati digitali in continuo mutamento che vengono scritti e letti
nella memoria del sistema.
I database e gli algoritmi attraverso i quali è organizzata la
navigazione narrativa-interattiva reagiscono tra loro in un alternarsi
perpetuo di narrazione ed interattività, di racconto ed azione che si
sovrappongono fino a connotare uno spazio virtuale in costante divenire,
conferendo a questa tipologia di simulazione una conformazione liquida.
Evitando di addentrarsi in un’eccessivamente complicata riflessione
filosofica, passiamo a questo punto a descrivere la principale forma
caratterizzata dall’estetica della liquidità: lo spazio virtuale narrativo-
interattivo.
31
Op. cit. p. 262.
187
III.6.1 Per uno spazio narrativo-interattivo
32
Cfr. Brenda Laurel, Computer as Theatre, Massachusetts, Addison-Wesley Longman,
Inc.
188
contemporaneamente convogliare ed interpretare le emozioni ed i
sentimenti di coloro che si relazionano con esso.
Gli aspetti narrativi e drammaturgici dello spazio narrativo-interattivo ci
portano immediatamente a riflettere sulle modalità e sugli stili di
organizzazione del mondo virtuale e quindi a riferirci al concetto di regia
dell’informazione proposto da Massimo Botta.
Egli sostiene che “Per regia dell’informazione intendiamo il progetto
registico del rapporto di azione e reazione fra utente e sistema, dove la
costruzione di una serie di coreografie dell’interazione consente di
coordinare i ruoli, i rapporti e le singole funzioni giocate da ogni
componente informativa, con l’obiettivo di rendere evidenti i meccanismi
d’uso, gli effetti sperati e le produzioni di senso che l’utente determinerà
33
interagendo con il sistema.”
Nello spazio narrativo-interattivo sono le relazioni causa-effetto che si
sviluppano tra i vari nuclei di informazioni a determinare le modalità
attraverso le quali si svolgerà l’interazione con il sistema; per il progettista-
regista diventa, quindi, fondamentale ragionare a fondo sull’impianto
narrativo dell’avventura virtuale che si sta accingendo a preparare poiché
proprio dal giusto bilanciamento delle sue varie componenti di narratività
ed interattività egli riuscirà a costruire un’esperienza efficace, coinvolgente
e pregna di senso.
Lo spazio narrativo-interattivo è quindi il luogo della negoziazione tra i
saperi che riguardano la narratività e l’interattività, ma anche il luogo di un
nuovo saper fare che da essi è determinato: la messa in scena di un
ambiente virtuale interattivo.
La produzione del senso in questa nuova forma mediale è attivata dal
continuo passaggio da una dimensione di fruizione all’altra, dal
mutamento significante del punto di vista che alterna uno sguardo
oggettivo sul VE ad uno di tipo soggettivo, dall’oscillazione costante tra
una prospettiva, e dunque una tipologia di navigazione, interattiva ed una
narrativa.
33
Massimo Botta, Design dell’informazione, Trento, Artimedia, Valentina Trentini Editore,
2006, p. 207.
189
Quest’ultima considerazione è ciò che ci permette di considerare lo
spazio virtuale narrativo-interattivo come una delle principali forme
dell’estetica della liquidità che caratterizza il mondo dei nuovi media.
L’utente entrando in contatto con questa particolare modalità di
organizzazione delle informazioni si trova in una condizione di continuo
mutamento, in uno stato liquido che gli permette di sentirsi presente e
coinvolto nello spazio virtuale in cui è immerso.
In questa riflessione sullo spazio narrativo-interattivo non possiamo
evitare di menzionare gli studi compiuti da Flavia Sparacino, interactive
technology and experience designer presso il MIT di Boston nonché
direttrice di Sensing Places, la quale da diversi anni è impegnata con il
suo team di ricerca nella realizzazione di nuove modalità di fruizione degli
spazi museali e di progetti di augmented reality.
Al centro della prospettiva di Flavia Sparacino e colleghi vi è l’utilizzo
di nuovi strumenti tecnologici che rendono il visitatore del museo qualcosa
in più di un semplice esploratore dello spazio espositivo. La struttura
narrativa del percorso di fruizione della mostra, unita all’interazione con le
opere stesse, catturano l’attenzione del visitatore conferendogli un ruolo
attivo nell’organizzazione e nella rappresentazione dei contenuti.
L’effetto che si vuole ottenere è quello di coinvolgere emotivamente il
pubblico, stimolando la sua curiosità e la sua passione per le collezioni
esposte.
Secondo la direttrice di Sensing Places il corpo deve diventare il
principale strumento di interazione che l’utente dello spazio narrativo-
interattivo ha a disposizione. L’interazione con l’esposizione può avvenire
così in modo naturale, con gesti armoniosi e facili da eseguire come
camminare e occupare determinate posizioni per attivare i contributi
multimediali oppure semplicemente rivolgendo lo sguardo verso un display
per attivare in esso la rappresentazione dei contenuti; la tecnologia che
rende possibile questo tipo di interazione è la già citata computer vision.
Nei progetti di spazio narrativo-interattivo realizzati da Sensing Places
il pubblico può aggirarsi per il museo indossando un cosiddetto wearable
computer (7) che permette di avere sempre disposizione un ampio
ventaglio di opzioni multimediali il cui scopo è quello di “aumentare” la
190
tradizionale visita delle collezioni con una serie di contenuti ad alto impatto
emotivo.
Consideriamo fondamentale applicare le importanti soluzioni
individuate dai ricercatori del MIT nel mondo dei VEs.
Lo sviluppo di spazi virtuali narrativi-interattivi si può considerare,
infatti, come la principale direttrice di sviluppo che guiderà la ricerca sulla
simulazione tridimensionale e plurisensoriale dei prossimi anni.
La prospettiva che abbiamo adottato in questa terza parte del saggio
si può intendere come un tentativo di muoversi in quella direzione, ma
soprattutto come la manifestazione della volontà di dare il via ad un nuovo
approccio al mondo dei nuovi media che si ponga come obiettivo quello di
conferire il giusto peso alle due principali modalità di creazione del senso
della società contemporanea: la narrazione e l’interattività.
191
Note al Capitolo III
(2) Il significato di full motion video nasce nel settore videoludico e per
estensione si applica a tutti i prodotti interattivi in cui sono presenti
sequenze interamente filmate, e che dunque non permettono l’interazione.
Lo scopo dei full motion video è quello di introdurre nella fruizione di
prodotti di computer graphics elementi narrativi che permettano di
articolare maggiormente le storie presentate al pubblico, e rappresentare
alcune parti dei contenuti con una veste grafica di qualità maggiore, che
per la mole di dati richiesti non può essere realizzata nelle parti in realtime
del prodotto.
(4) Il cyberpunk è una corrente letteraria e artistica nata nella prima metà
degli anni Ottanta, prevalentemente nell'ambito della fantascienza. I
fondatori vengono comunemente considerati William Gibson, per i racconti
e romanzi fortemente innovativi e caratteristici dal punto di vista stilistico e
delle tematiche, e Bruce Sterling, per aver scritto il Manifesto poetico-
politico della nuova fantascienza. Bruce Sterling ha definito il cyberpunk
come «l'integrazione del mondo hightech e della cultura pop,
specialmente nel suo aspetto underground».
193
IV. INTERAZIONI TRA IL CINEMA
E LA GRAFICA IMMERSIVA:
VIRTUAL CULTURAL HERITAGE
194
IV.1 Necessità di tecnologie Open Source
34
Cfr. Richard Stallman, Free Software, Free Society: Selected Essays of Richard
Stallman, Boston, Free Software Foundation, 2002.
35
Cfr. Open Source Iniziative, The Open Source Definition, 1998.
195
È noto che le suddette tecnologie siano rimaste, per lungo tempo,
utilizzabili soltanto su costosi sistemi computerizzati accessibili solamente
per ristrette realtà, identificabili con i grandi centri di ricerca e le strutture
private più all’avanguardia.
Oggi è opinione diffusa considerare inaccettabile una situazione per
cui gli investimenti per approntare i progetti di Virtual Heritage o per
installare le apparecchiature di VR necessarie alla loro fruizione pubblica
siano più elevati rispetto alle risorse disponibili nel settore dell’archeologia
e dei beni culturali.
Diventa, quindi, improrogabile l’implementazione di sistemi di Virtual
Heritage maggiormente interattivi che rendano possibile una più capillare
diffusione e condivisione della conoscenza, determinando un controllo
comunitario sulle informazioni e un processo di installazione ed
aggiornamento più semplice e meno oneroso.
Le tecnologie Open Source non solo permettono tutto questo, ma
garantiscono elevati standard di qualità ed usabilità degli strumenti
utilizzati ed una loro sempre maggiore diffusione.
Il dibattito che vogliamo sollevare non riguarda, però, soltanto gli
strumenti e le tecnologie da impiegare.
Quello che deve cambiare nel settore del Virtual Heritage, e più in
generale in tutti i progetti di ricerca che si possono fregiare di tale nome,
sono i modelli di lavoro e di sviluppo dei progetti; essi devono passare da
una situazione in cui la ricerca è affidata a singoli o ristretti gruppi che
detengono l’autorità e l’esclusiva sull’accesso alle informazioni e sulla loro
diffusione, ad una nuova condizione in cui la produzione della conoscenza
e dei significati avvengano in modo collettivo, attraverso processi di
sviluppo condiviso caratterizzati dalla trasparenza delle fonti e dalla
diffusione delle informazioni critiche.
Ciò che stiamo auspicando è, dunque, il passaggio da un modello che
36
Eric Steven Richmond definisce “a cattedrale” ad un'altra forma di
creazione della cultura detta dallo stesso autore “a bazaar”.
Siamo sicuri nel diffondere una prospettiva Open Source nei confronti
del mondo della cultura perché oggi i sistemi aperti stanno ormai
36
Cfr. Eric Steven Raymond, The Cathedral and the Bazaar, tratto dal Linux Kongress
del 27/5/1997.
196
penetrando in moltissimi settori e producendo un rinnovamento e una
ridefinizione delle pratiche di grandi compagnie private ed importanti
istituzioni di ricerca, in nome di un approccio meno gerarchico e più
innovativo alla Conoscenza.
Le ipotesi di sviluppo dei sistemi aperti sono quindi tanto più rosee in
quegli ambiti, come il Cultural Heritage, in cui l’utilizzo delle risorse
economiche deve necessariamente avvenire in modo consapevole e
controllato.
Adottare un modello di sviluppo aperto, “a bazaar”, permette di
ottenere svariati vantaggi quali costi contenuti delle applicazioni e delle
tecnologie, sostenibilità dei progetti, condivisione delle risorse con altri
soggetti o istituzioni, semplicità nel riutilizzo di dati già processati ed
integrati con metodologie valide e ben ideate, valorizzazione
dell’investimento in risorse umane piuttosto che di quello in dispositivi
hardware.
A nostro avviso, soltanto in questo modo nel futuro sarà ancora
possibile parlare di ricerca e di progresso, passando da una situazione in
cui la cultura e le risorse sono un’esclusiva di pochi ad un’utopica,
ovviamente in senso positivo, condizione in cui il Cultural Heritage diventi
Open Heritage e la Conoscenza sia davvero un’opportunità
epistemologica globale, alla portata di tutta l’umanità.
197
IV.2 Descrizione di Visman e della sua
interfaccia
198
Il nome di quest’applicazione è Visman, ovvero l’acronimo di Virtual
Scenarios Manager. Si è scelto di sviluppare tale software interamente in
C++ poiché questo linguaggio di programmazione consente di effettuare
quelle operazioni di basso livello che spesso sono necessarie nella
gestione della grafica 3D, ed inoltre rimane il linguaggio con la maggiore
efficienza del codice generato.
La libreria grafica utilizzata è Open Scene Graph, completamente
OpenSource e, poiché basata su OpenGL, multipiattaforma.
Alla luce delle considerazioni compiute nel paragrafo precedente
questa caratteristica risulta fondamentale poiché permette, attraverso
l’utilizzo di Cmake, la compilazione di Visman in vari ambienti di sviluppo e
sistemi operativi differenti. Allo stato attuale il visualizzatore del CINECA è
disponibile per Microsoft Visual Studio per Windows e Kdevelop e Make
per GNU/Linux.
Un’altra caratteristica importante del software in questione sono la
possibilità di creare una navigazione semplice ed intuitiva, simile a quelle
dei videogiochi, che contempli differenti modalità di spostamento, ad
esempio “a piedi” oppure “a volo d’uccello”; inoltre è possibile salvare una
serie di punti di vista “notevoli”, assegnare loro dei nomi e creare un
percorso automatico tra di essi. La navigazione diventa quindi totalmente
automatizzabile mediante degli script di azioni eseguibili dal software
stesso.
Consideriamo cruciale un’ulteriore opzione presente in Visman e cioè
la possibilità di creare connessioni tra gli oggetti 3D della scena ricostruita
e un database relazionale, quali quelli sviluppati in Microsoft Access,
Oracle e SQL Server.
Questa caratteristica si può considerare come una notevole
innovazione nel campo della fruizione di ricostruzioni grafiche poiché
consente di aprire una nuova frontiera nel processo di conoscenza messo
in atto dalla simulazione tridimensionale.
Visman permette all’utente di accedere a tutte le informazioni
disponibili per ogni particolare oggetto ricostruito in 3D e catalogate nella
base di dati. Queste informazioni possono appartenere alle più svariate
199
forme mediali e presentarsi sotto forma di testo, immagini, filmati, suoni, e
computer graphics.
Si è deciso di implementare questa caratteristica poiché un software di
visualizzazione applicato ai beni culturali e alla simulazione del paesaggio
non può evitare di rappresentare informazioni provenienti dalla più ampia
varietà di fonti, altrimenti la ricostruzione risulterebbe priva di contenuti
divulgativi e scientifici, potendo contare sulla sola ricostruzione 3D dei
modelli.
Le informazioni collegate ai modelli testimoniano, inoltre, il gravoso
lavoro di ricerca che soggiace all’intera attività di simulazione, e
permettono di fornire tanto informazioni sensoriali quanto contenuti
scientifici, storici, culturali e archeologici. I database utilizzabili in Visman
sono quelli comunemente più utilizzati, come Access, in modo da
garantire ai ricercatori l’utilizzo di strutture dati compilate in anni di attività.
La modellazione 3D è una tipologia di rappresentazione che può
valorizzare al massimo tali informazioni dal momento che consente una
contestualizzazione visiva degli oggetti a cui essi si riferiscono.
Quindi all’interno di Visman, con un semplice click del mouse, si può
far apparire una scheda informativa che contiene tutti i link multimediali
che si desiderano collegare all’oggetto interrogato.
La scheda che si apre al click dell’oggetto può far riferimento ad altre
informazioni, contenute nel database, che possono portare l’utente a tutta
una serie di record ad essa collegati; ad esempio nel caso di un museo
virtuale sarebbe possibile avere una scheda per ogni opera d’arte
presente al suo interno. Tale scheda può conservare informazioni
sull’opera stessa (anno di realizzazione, autore, periodo e stile nel quale si
inserisce, ecc.) e presentare, inoltre, un riferimento alle schede degli autori
le cui opere sono esposte nel museo stesso.
In questo modo Visman rende l’oggetto ricostruito virtualmente il punto
di partenza di una lunga serie di approfondimenti che riguardano sia
l’oggetto che il suo contesto.
Questa possibilità è altamente innovativa e consente di andare oltre
alla semplice ricostruzione tridimensionale dei siti di interesse storico,
permettendo una fruizione dei contenuti molto più completa rispetto alle
200
classiche applicazioni di realtà virtuale che consentono soltanto attività di
visualizzazione e navigazione di modelli 3D.
Dato l’elevato numero di funzionalità presenti in Visman è possibile
individuare varie tipologie di utilizzatori per questo framework.
Innanzi tutto i turisti che devono ancora visitare il sito di interesse
storico e che possono dunque venire a conoscenza della sua esistenza
tramite la consultazione di postazioni presenti nella zona oggetto della
ricostruzione virtuale; questi dispositivi di Desktop VR, detti totem,
contengono dei personal computer in cui viene installato Visman e che
permettono di mostrare al pubblico le informazioni più rilevanti
dell’ambiente simulato. Un’altra categoria di utenti, ai quali questa
tecnologia può essere rivolta, sono i visitatori dei musei e gli studenti.
A questi fruitori Visman si presenta in una duplice forma; da un lato è
una potente interfaccia di accesso a contenuti scientifici o di alto interesse
culturale con un elevato valore divulgativo ed educativo, dall’altro è uno
strumento semplice da usare e di immediato apprendimento.
Il pubblico accademico, che si avvicinerà a Visman con un interesse
prettamente più scientifico, potrà invece apprezzare e sfruttare la capacità
del software di collegare gli oggetti 3D rappresentati a database relazionali
e quindi di semplificare molto il lavoro di comparazione e ricerca delle
informazioni.
Allo scopo di raggiungere un pubblico di riferimento così eterogeneo
per competenze e formazione, è stato necessario dotare Visman di
un’interfaccia grafica semplice nel funzionamento e intuitiva nell’uso degli
strumenti.
In fase di progettazione si è deciso di optare per una struttura grafica
che garantisse efficienza e accuratezza nell’attività di reperimento delle
informazioni presenti nella base di dati e che permettesse allo stesso
tempo di rendere stimolante l’esperienza di navigazione dello spazio 3D.
201
Al centro dello schermo é collocato il riquadro di fruizione dello spazio
simulato. Per evitare sovrapposizioni di informazioni che potrebbero
complicare e appesantire il processo di fruizione, in particolare
nell’attivazione dei percorsi tematici, gli strumenti di navigazione sono stati
posti all’esterno del quadro.
Figura 11
202
IV.3 Descrizione di una navigazione
narrativa-interattiva di un ambiente
storico ricostruito
203
La sezione più narrativa e cinematografica del lavoro è incentrata appunto
sulla messa in evidenza di quei luoghi che riteniamo più interessanti e
stimolanti per il visitatore ovvero il Monumento-Ossario dedicato ai
Partigiani caduti durante la Liberazione di Bologna dall’occupazione
nazifascista, il Monumento-Ossario dei militari caduti nella Prima Guerra
Mondiale e il Chiostro della Cappella che saranno mostrati attraverso
riprese aeree, piani sequenza, panoramiche e carrelli effettuati dalla
macchina da presa virtuale.
La seconda parte della navigazione è volta a valorizzare l’interattività della
ricostruzione virtuale; l’utente sarà infatti in grado di soddisfare le proprie
curiosità sui luoghi visitabili oppure ottenere notizie ed informazioni
approfondite, in merito ai
monumenti ed alle opere
presenti nella Certosa. Con
un semplice click del mouse
è possibile accedere alle
schede contenute nel
database collegato al
modello 3D, che costituisce
un valido strumento di
supporto al lavoro degli
storici e degli archeologi
Figura 13
interessati al sito ed ai suoi
contenuti.
204
CONCLUSIONI
“Il corpo del celebre cyborg Motoko è composto da drive attivi, e la
sua memoria è costituita da sorgenti attive. Questi elementi sono soggetti
a variazioni, ma i componenti biologici esigono periodicamente carburante
e riposo, in modo da rammentarle la sua vera natura. I fenomeni fisici e le
informazioni fanno parte della realtà della sua vita, ma non è dato sapere
37
quanto potrà durare.”
Abbiamo scelto di iniziare questa parte conclusiva del saggio con una
citazione da uno dei più interessanti autori giapponesi di manga degli
ultimi decenni, Shirow Masamune. Parlare di forme di vita ibride, come i
cyborg, ovvero esseri la cui natura è situata a metà tra il mondo umano e
quello artificiale, ci permette di introdurre un’ultima riflessione riguardante
una tematica molto controversa che divide l’opinione pubblica ed i
ricercatori: succederà davvero che le nuove tecnologie sostituiranno le
precedenti, che nuove forme di vita frutto di un’evoluzione ibrida tra
tecnologia e natura sostituiranno gli uomini, che la società del terzo
38
millennio diventerà postumana , che i Virtual Environments sostituiranno
le altre forme di simulazione ed illusione della realtà a cui oggi siamo
abituati?
Il problema della sostituzione è un argomento che ha accompagnato
da sempre l’evoluzione dell’uomo e della sua cultura. L’invenzione di
qualunque innovazione tecnica di grande impatto ha portato a pensare ad
una totale ridefinizione del contesto tecnologico e culturale legato alle
forme precedenti. Ogni nuova svolta nella storia dei mezzi di
comunicazione ha radicalmente trasformato il modo di riflettere e di
esprimersi, ma ha anche sicuramente introdotto nuove funzioni e
potenzialità, magari già presenti in potenza nelle precedenti forme di
espressione e nei precedenti strumenti artistici.
37
Shirow Masamune, Ghost in the shell 2. Man Machine Interface, Edizioni Star Comics,
Bologna, 2004, p.1.
38
Cfr. Giuseppe O. Longo, L’imperialismo del codice, in Dentro la matrice. Filosofia,
scienza e spiritualità in Matrix, a cura di Massimiliano Cappuccio, Milano, AlboVersorio,
2004.
205
“Non si rilegge forse la pittura antica a partire dall’attuale esperienza
della fotografia, del cinema e della pittura, oppure il cinema a partire dalla
realtà virtuale? Si tratta dunque di una continuità di crescita e di
approfondimento e, al contempo, di un processo di emergenza e di
apertura radicale. [...] L’innovazione tecnica comporta fenomeni di
crescita, di attualizzazione di virtualità latenti. Essa contribuisce anche alla
creazione di nuovi piani di esistenza. Rende più complessa la
39
stratificazione degli spazi estetici, pratici e sociali.”
Quello di cui siamo sicuri è che per quanto perfette e realistiche
diventeranno le capacità di rappresentazione e simulazione della realtà,
tanto da generare forme totalmente analoghe a quelle reali, i mondi virtuali
e il cyberspazio non riusciranno a sostituirsi all’esperienza in prima
persona della realtà, che resta e resterà sempre il principale metodo di
relazione tra un essere umano e l’ambiente in cui vive.
Contemporaneamente non possiamo e, forse non desideriamo
sapere, se l’epoca dell’uomo stia volgendo al termine e se l’umanità, così
come adesso la conosciamo, stia lasciando spazio a nuove entità che da
essa hanno tratto origine; ciò di cui, però, siamo sicuri è di essere riusciti
con questo saggio a riflettere su tutti gli aspetti e gli argomenti relativi ai
nuovi media che ci eravamo prefissati nelle fasi iniziali di questo lavoro e
di aver tentato di proporre una prospettiva alternativa riguardante il mondo
dei Virtual Environments volta a spostare l’attenzione del pubblico e degli
addetti ai lavori sui fattori umani, sulle componenti emozionali e sugli
aspetti narrativi di queste innovative tecnologie della comunicazione, in cui
troppo spesso tali fondamentali caratteristiche sono state poste in
disparte.
39
Pierre Lévy, Cyberculture. Rapport au Conseil de l’Europe, Parìs, Edition Odile Jacob,
1997 (tr. it. di Donata Ferodi/Shake, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie,
Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1999, p. 216).
206
GLOSSARIO
Color correction: è una funzione del montaggio non lineare che permette
di uniformare le varie fonti di luce di una scena filmata. Utilizzando appositi
filtri e software di alterazione delle temperature dei colori consente di
intervenire ed ottimizzare il materiale video girato.
207
rappresentazione referenziale e quello della rappresentazione non
referenziale.
208
Modularità: gli elementi che costituiscono i nuovi media sono contenuti in
strutture separate, indipendenti tra loro e che a loro volta possono essere
suddivise in altre parti indipendenti fino ad arrivare alle unità minime quali
pixel, sample sonori e caratteri di testo. Alla base di quest’ultimi vi sono
semplici bit di informazioni.
Transcodifica: i dati digitali che stanno alla base dei nuovi media sono
codificati in formati precisi in base alla loro funzione o al software con cui
devono interagire. Ciascun formato può essere “tradotto”, quindi
transcodificato in altri formati.
Constraints degli oggetti 3D: vincoli imposti agli elementi del modello 3D
per conferire una maggior verosimiglianza allo stesso. Ad esempio un
oggetto virtuale che viene afferrato e lasciato cadere dall’utente non può
attraversare il pavimento dell’ambiente virtuale oppure una utente non può
attraversare i muri e gli oggetti solidi.
209
della modellazione 3D o del video editing. Solitamente prevede uno o più
processori a 64 bit, dischi SCSI uniti in un sistema RAID, più schede
grafiche molto potenti.
Pixel: l’unità grafica minima di uno schermo che può essere indirizzata
oppure l’unità minima di cui si compone un oggetto di computer graphics.
210
Primitive grafiche: oggetti geometrici di base, quali punti, linee e triangoli
che un sistema di computer graphics può maneggiare, quindi disegnare,
modificare e memorizzare.
211
Voxel: sono i pixel della grafica 3D.
Motion sickness: insieme dei disturbi che l’utente subisce nella fruizione
dei Virtual Environments dovuti alla ricezione da parte del cervello di
informazioni visive e di movimento che entrano in conflitto tra loro.
Periferiche di input
Body tracking system: sistema di rilevamento del movimento dell’utente,
può essere di tipo meccanico, ottico, elettromagnetico, ultrasonico,
infrarosso.
212
3D mouse: una periferica di puntamento in grado di lavorare nello spazio
tridimensionale.
Data glove: periferica utilizzata per interagire con gli oggetti del Virtual
Environment.
Periferiche di output
CAVE: il termine è l’acronimo di Cave Automation Virtual Environment ed
indica il sistema immersivo più avanzato di realtà virtuale. Un CAVE è
composto da un gruppo di schermi opachi per la retroproiezione che sono
installati su una struttura non metallica in modo da formare una stanza di
circa tre metri per tre chiusa nella parte superiore. Su tali schermi vengono
proiettate, mediante specchi, le immagini stereo del VE.
213
Teatro Virtuale: sistema semi immersivo di realtà virtuale in cui il campo
visivo dell’utente è coperto dalle immagini del modello poiché la
simulazione viene proiettata su uno schermo di grandi dimensioni che può
anche essere curvo. Permette la fruizione simultanea ad un largo numero
di persone e supporta la visione stereoscopica.
214
INDICE DELLE FIGURE
215
FILMOGRAFIA
VERTOV, Dziga
LEROY, Mervyn
WELLES, Orson
KUROSAWA, Akira
GERONIMI, Clyde
HITCHCOCK, Alfred
HOOPER, Tobe
216
CAMERON, James
SPIELBERG, Steven
1997 The Lost World: Jurassic Park (The Lost World: Jurassic
Park).
BAY, Michael
LUCAS, George
2005 Star Wars: Episode III – Revenge of the Sith (Star Wars:
Episodio III – La vendetta dei sith)
LINKLATER, Richard
NISPEL, MARCUS
EMMERICH, Roland
217
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
BAZIN, André
BETTETINI, Gianfranco
BORDWELL, David
218
GARDIES, André
METZ, Christian
MÜNSTERBERG, Hugo
PESCATORE, Guglielmo
219
THOMAS, Deborah
VEZZOLI, P. Giuseppe
AA.VV.
AA.VV.
220
EYSENCK, Michael W. , KEANE, Mark T.
NEGROPONTE, Nicholas
QUÉAU, Philippe
VINCE, John
WATT, Alan H.
221
III. CINEMA VS SISTEMI DI GRAFICA IMMERSIVA
AA.VV.
AA.VV.
BAUMAN, Zygmunt
BOTTA, Massimo
DIODATO, Roberto
GRIGOLETTO, Federica
222
LÉVY, Pierre
LAUREL, Brenda
MALDONADO, Tomàs
MANOVICH, Lev
223
MANTOVANI, Giuseppe
NORMAN, Donald A.
STALLMAN, Richard
224
ARTICOLI E SAGGI CONSULTATI:
BOTTA, Massimo
225
DENNET, Daniel
GAUDREAULT, André
MANOVICH, Lev
MARINI, Daniele
NOVAK, Marcos
SPARACINO, Flavia
226
SPAGNOLO, Emanuele
SUTHERLAND, Ivan E.
TETI, Vitaliano
THORNTON, Mia
WERTHEIMER, Max
227
WEBOGRAFIA
http://commons.wikimedia.org
http://en.wikipedia.org/wiki
http://human-factors.arc.nasa.gov/ihh/spatial/personnel/begault.php
www.icinema.unsw.edu.au
http://imve.informatik.uni-hamburg.de
http://it.wikipedia.org/wiki
http://web.mit.edu
http://wikimediafoundation.org
http://www.alessandrovalli.com
http://www.certosadibologna.it
http://www.cineca.it/bdp/progetti/progetti_ris
http://www.exhibits.it
http://www.hitl.washington.edu/scivw/EVE
http://www.ime.usp.br/~mcabral
http://www.itabc.cnr.it
http://www.ix.de/tp
http://www.jaronlanier.com
http://www.kinonet.com/theory/vnm/vnm_paper.html
http://www.mediamente.rai.it
http://www.mediadigitali.polimi.it
http://www.mia.id.au
228
http://www.mrl.nyu.edu/mprov
http://www.naturalinteraction.org
http://www.ndparking.com/serve.php?lid=508592&dn=vrs.org.uk
http://www.noemalab.org
http://www.opengl.org
http://www.opensource.org/docs/definition.php
http://www.panebarco.it
http://www.rhizome.org
http://www.trax.it
http://www.sgi.com
http://www.sensingplaces.com
http://www.siggraph.org
http://www.vepsy.com/communication
http://www.vrmmp.it
http://www.zkm.de/
229
LICENZA
230