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ISSN 0035-6093

ANNO LVI N. 4 LUGLIO-AGOSTO 2010

FONDATA E RETTA DA

WALTER BIGIAVI
(1955-1968)

E DA

ALBERTO TRABUCCHI
(1968-1998)

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VITTORIO COLUSSI

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CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI
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Pubbl. bimestrale - Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D. L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Vincenzo Barba
Prof. ass. dell’Università di Roma « La Sapienza »

APPUNTI PER UNO STUDIO SUI CONTRATTI


PLURILATERALI DI SCAMBIO

Sommario: 1. Tema e problema. — 2. I contratti plurilaterali tra codice civile e dottrina. —


3. I contratti plurilaterali non associativi. — 4. I contratti plurilaterali di scambio. — 5.
La disciplina dei contratti plurilaterali e il diritto comune. — 6. I contratti plurilaterali
di scambio tra regole ed eccezioni. — 7. Variazioni sul procedimento di formazione dei
contratti plurilaterali di scambio. — 8. Sull’interpretazione del contratto plurilaterale di
scambio. — 9. Sui vizî di volontà del contratto plurilaterale di scambio. — 10. Il senso
della ricerca di una disciplina per i contratti plurilaterali di scambio.

1. — Il riconoscimento normativo dei contratti plurilaterali (1) nell’ordi-


namento giuridico italiano si è compiuto solo col codice civile vigente, al qua-
( 1 ) Sul tema dei contratti plurilaterali: T. Ascarelli, La liceità dei sindacati azionari,
in R. d. comm., 1931, II, p. 258 ss.; Id., Contratto plurilaterale e negozio plurilaterale, in F.
lomb., 1932, p. 439 ss.; Id., Appunti di diritto commerciale, Roma 1933, spec. p. 145; Id.,
Note preliminari sulle intese industriali, in R. it. sc. giur., 1933, p. 106 ss.; Id., Le unioni di
imprese, in R. d. comm., 1935, II, pp. 152 ss., spec. 178 ss.; Id., I consorzi volontari tra im-
prenditori, Milano 1937, spec. p. 37; Id., Il contratto plurilaterale, in Id., Saggi giuridici,
Milano 1949, p. 259 ss.; ora anche in Id., Studi in tema di contratti, Milano 1952, p. 97 ss.
(da cui le successive citazioni); Id., Contratto plurilaterale e totalizzatore, in R. d. comm.,
1949, I, p. 169 ss.; ora anche in Id., Studi in tema di contratti, cit., p. 169 ss.; Id., Notarel-
le critiche in tema contratti plurilaterali, in R. d. comm., 1950, I, p. 265 ss.; ora anche in
Id., Studi in tema di contratti, cit., p. 157 ss.; Id., Occhio ai concetti, in R. d. comm., 1951,
I, p. 71 ss.; ora anche in Id., Studi in tema di contratti, cit., p. 175 ss.; Id., Contratto pluri-
laterale; comunione di interessi; società di due soci; morte di un socio in una società perso-
nale di due soci, in R. trim. d. proc. civ., 1953, p. 727 ss.; Id., Teoria della concorrenza e
dei beni materiali, Milano 1960, spec. p. 86 ss.; V. Salandra, Il contratto plurilaterale e la
società di due soci, in R. trim. d. proc. civ., 1949, p. 836 ss.; F. Carnelutti, Occhio ai con-
cetti!, in R. d. comm., 1950, I, p. 450 ss.; G. Ferri, La società di due soci, in R. trim. d.
proc. civ., 1952, p. 609 ss.; Id., voce Contratto plurilaterale, in Nov. D. it., IV, Torino
1959, p. 678 ss.; F. Carresi, Gli atti plurisoggettivi, in R. trim. d. proc. civ., 1957, p. 1241
ss.; F. Messineo, Il negozio giuridico plurilaterale, Milano 1927; Id., voce Contratto plurila-
terale, in Enc. dir., X, Milano 1962, p. 140 ss.; Id., Il contratto in genere, 2, in Tratt. Cicu-
Messineo, XXI, 1, Milano 1973, p. 589 ss.; A. Carlo, Il contratto plurilaterale associativo,
Napoli 1967; A. Belvedere, La categoria contrattuale di cui agli artt. 1420, 1446, 1459,
1466 c.c., in R. trim. d. proc. civ., 1971, p. 660 ss.; Id., voce Contratto plurilaterale, in Dig.
disc. priv. — sez. civ., IV, Torino 1989, p. 270 ss.; B. Inzitari, Riflessioni sul contratto plu-
rilaterale, in R. trim. d. proc. civ., 1973, p. 476 ss.; F. Galgano, Il negozio giuridico, in
Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, III, 1, Milano 1988, pp. 169 ss. e 465 ss.; G. Villa, Ina-
dempimento e contratto plurilaterale, Milano 1999.
Tradizionalmente, la dottrina usa distinguere tra contratti bilaterali e plurilaterali, mo-
vendo dalla nozione di parte. Quest’ultima, infatti, oltre a rappresentare un’evidente novità
del codice attuale, il quale ricorre a tale formula linguistica, in sostituzione di quella di per-
sona, utilizzata nel vecchio all’art. 1098, sembra essere l’elemento fondante la distinzione.
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le è dovuta una disciplina che non trova riscontro nel codice civile del ’65 né
in quello di commercio del 1882. Il dibattito sulla loro ammissibilità ha, però,
radici storiche ben più antiche (2): per quanto le associazioni e le società, così
come la delegazione di pagamento, fossero figure già pervenute ad emersione
positiva, mancava il convincimento o la franca ammissione che le une come

Così, a seconda della presenza di due o tre o più parti, è plausibile concludere che il con-
tratto sia bilaterale, trilaterale o plurilaterale. Secondo i risultati acquisiti dalla letteratura,
i quali non possono certamente essere ripercorsi — ma sui quali si rinvia a G.B. Ferri, voce
Parte del negozio giuridico, in Enc. dir., XXXI, Milano 1981, p. 901 ss.; e alle osservazioni
di N. Irti, La ripetizione del negozio giuridico, Milano 1970, p. 21 ss. — con l’espressione
« parte » ci si riferisce a un centro di imputazione di interessi. Di diverso avviso C.M. Bian-
ca, Il contratto, 3, 2a ed., Milano 2000, p. 53 ss., il quale, avverso la ricostruzione tradizio-
nale leva il proprio dissenso, avvertendo che il codice quando ricorre al concetto di parte
« fa riferimento ai soggetti che costituiscono e assumono il rapporto contrattuale e non ad
un astratto “centro di interessi” che non è come tale destinatario di imputazione giuridi-
che ». Tali considerazioni inducono l’A. ad affermare che sia giustificato « reputare che se
più persone assumono in proprio la titolarità del rapporto contrattuale, ciascuna di esse è
parte sostanziale del contratto ». In forza di tali conclusioni, l’A. afferma che una vendita
posta in essere da coniugi in comunione e relativa a un bene comune è una vendita con tre
parti: moglie, marito e compratore. Nonostante l’autorevolezza della tesi, ci sia consentito
osservare che un’adesione a essa, per un verso, non giustifica, nonostante la puntuale preci-
sazione che l’A. svolge alla p. 54, il motivo per cui il legislatore del 1942 abbia sostituito al-
la parola « persona » quella di « parte » e abbia utilizzato la nozione di persona e di parte
in modo rigoroso (es. art. 1798) e, per altro verso, di là di ogni questione prettamente ter-
minologica, giungerebbe al risultato di qualificare un medesimo contratto (es. vendita o ap-
palto) ora bilaterale ora trilaterale a seconda che in esso vi siano due o più « persone ». In
tale ottica, quindi, il dato strutturale soggettivo, che secondo il metodo tipologico — G. De
Nova, Il tipo contrattuale, Padova 1974 — è un indice importante ai fini della qualificazio-
ne e riconduzione al tipo, perderebbe la sua capacità distintiva. G. Villa, op. cit., p. 3, pur
avvertendo la differenza tra contratto a parte complessa e contratto plurilaterale, osserva
che il fenomeno dei contratti plurilaterali emergerebbe anche « nella parte del codice intito-
lata ai singoli contratti » (artt. 1507, 1726, 1730, 1758, 1772, 1840, 1854, 1874, 1798,
1911, 1946, 1977 c.c.). A ben osservare nessuna di queste ipotesi ci sembra che possa ra-
gionevolmente riferirsi a contratti plurilaterali, trattandosi, piuttosto, di norme che prendo-
no in considerazione il diverso problema del contratto con parte soggettivamente complessa
— sul quale tema si rinvia, anche per le indicazioni bibliografiche, a S. D’Andrea, La parte
soggettivamente complessa. Profili di disciplina, Milano 2002 — le quali denoterebbero
problemi di disciplina diversi da quelli posti dal contratto plurilaterale.
( 2 ) Per un’ampia ricognizione della situazione nel diritto romano, nel diritto intermedio
e nel sistema italiano previgente al 1942, si rinvia agli ampî riferimenti di dottrina in A.
Belvedere, op. cit., p. 662 ss., spec. nt. 8 ss. Per una rassegna delle posizioni dottrinali an-
teriori al codice civile vigente cfr. F. Messineo, Il contratto in genere, 2, cit., spec. p. 592 ss.
Singolare la posizione di F. Carnelutti, Teoria giuridica della circolazione, Padova 1933,
p. 19 ss., secondo il quale il concetto di bilateralità e plurilateralità prescinderebbe dal nu-
mero delle parti del contratto e riguarderebbe, esclusivamente, lo spostamento nell’apparte-
nenza dei beni. Così, infatti, scrive l’A. « vendita e donazione hanno sempre due parti, ma
la donazione è un contratto unilaterale perché si modifica solo il rapporto esistente tra do-
nante e donatario rispetto alla cosa donata, mentre con la vendita si modifica altresì il rap-
porto corrente tra venditore e compratore rispetto al danaro di quest’ultimo, donde la sua
bilateralità ».
PARTE I - DOTTRINA 533

l’altra trovassero la loro fonte in un contratto (3). E anzi, proprio al fine di


evitare un tale risultato, non consono alla storia politica di quel tempo e al
valore giuridico che al contratto era predicato (4), si escludeva la natura con-
venzionale di tutte queste ipotesi, ora discorrendo genericamente di negozî,
quasi che essi fossero altro, o atti di natura radicalmente diversa, dai contrat-
ti, ora, con maggior rigore e segnando al contempo un più intenso distacco
dal contratto, di atti collettivi (5).
Queste premesse hanno inevitabilmente condizionato il dibattito moder-
no, che, pur a fronte di nuove regole, esplicitamente poste per i contratti plu-
rilaterali, si muove lungo un crinale volto a comprimere e quasi annullare la
categoria del contratto plurilaterale, al punto che l’associazione e la società, a
dispetto dell’univoca qualificazione normativa, sono da taluni ridotte a ipotesi
di atto collettivo (6) sulla base del rilievo che le parti non si troverebbero
l’una di fronte all’altra, come una certa idea di contratto reclamerebbe, bensì
l’una accanto all’altra (7).

( 3 ) I primi a porre in dubbio la natura contrattuale dell’atto costitutivo di società e di


associazione sono i giuristi tedeschi. In particolare, Otto von Gierke, Die Genossenschaft-
theorie und die deutsche Rechtsprechung, Berlin 1887, p. 124 ss.; Id., Deutsches Pri-
vatrecht, I, Leipzig 1895, p. 484, ha sostenuto la teoria « dell’atto costitutivo sociale », se-
condo la quale l’atto costitutivo dell’ente è un atto non negoziale dell’ente che pone se stes-
so.
( 4 ) B. Inzitari, op. cit., p. 508 s., osserva, in un ampio quadro storico politico, che se
nel codice previgente « il contratto era espressione di un “vincolo” stretto tra due o più per-
sone, nel c.c. 1942 è espressione della pozione di “parti”, cioè di entità diverse e più ampie
delle persone che pongono in essere un rapporto giuridico, cioè una relazione tra soggetti
diversi, disciplinata dall’ordinamento ».
( 5 ) Così, F. Ferrara sen., Teoria delle persone giuridiche, Milano 1923, p. 786; F. Mes-
sineo, Il negozio giuridico plurilaterale, in Annali dell’Università Cattolica del S.C., IV, Mi-
lano 1927, p. 48; W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, in R. it. sc. giur., 1929, p. 882.
Propendevano, invece, per la teoria contrattualistica: B. Scorza, Gli statuti degli enti a tipo
associativo: con particolare riguardo alle società di commercio, Roma 1934, p. 81; A. Dal-
martello, I rapporti giuridici interni nelle società commerciali, Milano 1937, p. 13; Id., So-
cietà e sinallagma, in questa Rivista, 1937, p. 504; T. Ascarelli, Appunti di diritto com-
merciale, cit., p. 145; G. Auletta, Il contratto di società commerciale, Milano 1937, p. 3; P.
Greco, Le società di comodo e il negozio indiretto, in R. d. comm., 1932, I, p. 757; S. Sot-
gia, Apparenza giuridica e dichiarazione alla generalità, Roma 1930, p. 150, negava, ad-
dirittura, che si trattasse di atto negoziale; V. Salandra, Le società irregolari nel diritto vi-
gente, Roma 1935, p. 37, ha sostenuto che l’atto costitutivo di società e associazione è, in-
sieme, atto collettivo verso l’esterno e contratto nei rapporti interni.
( 6 ) F. Messineo, Contratto plurilaterale, cit., p. 140 ss., e ivi ampî riferimenti alla nota
querelle che aveva contrapposto il contratto plurilaterale all’atto complesso.
( 7 ) La posizione delle parti e il modo di composizione dei loro interessi escluderebbe,
secondo questa impostazione di pensiero, la natura contrattuale degli atti, i quali dovrebbe-
ro essere considerati atti collettivi. F. Carresi, op. cit., p. 1255 ss., distingue gli atti colletti-
vi dai contratti, proprio sulla base di un dato di struttura, ossia in ragione dell’esistenza di
uno o più centri di interesse. « Il contratto [...] impegna [...] due centri di interessi e, sol-
tanto correlativamente, due sfere giuridiche; se la pluralità di centri di interesse viene me-
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Per l’autorevolezza dei maestri che le hanno assecondate e suggerite, da


queste premesse consegue, dunque, una chiara diffidenza verso la categoria
generale dei contratti plurilaterali, i quali, a tutt’oggi, vivono, in linea di mas-
sima, confinati nel solo territorio dei contratti associativi, quasi come se non
possano darsi contratti plurilaterali senza comunione di scopo.
E ciò porta con sé tutte le ricadute concettuali e metodologiche che una
tale scelta di campo necessariamente implica. Prima tra tutte, la difficoltà
d’individuare la comune natura contrattuale della maggior parte delle figure
provenienti dalla moderna economia, spesso tralatiziamente qualificate attra-
verso la dubbia scomposizione in una molteplicità di contratti bilaterali artifi-
ciosamente collegati tra loro (8).

2. — Il codice vigente mostra di non essere riuscito a neutralizzare il peso


di queste resistenze culturali, sicché ai contratti plurilaterali è toccata una
considerazione normativa alquanto marginale. Se la nozione di contratto
s’identifica con « l’accordo di due o più parti », legittima dovrebbe apparire
l’aspettativa di una regolazione generale dei contratti plurilaterali tout court,
indipendentemente dalla posizione che le parti assumano nel dare assetto ai
proprî interessi. Al contrario, gli artt. 1420, 1446, 1459, 1466 c.c. (9), nono-
stante il tratto generale delle loro rubriche, si limitano a regolare esclusiva-

no, anche il contratto, necessariamente si estingue ». E ancóra: « Manca, nell’atto collettivo,


la pluralità di centri di interessi perché gli effetti (dell’atto) si indirizzano, omogenei, verso
un unico lato anche se poi, essendo il lato impersonato da più parti, si rifrangono concreta-
mente nella sfera di ciascuna di esse, e quindi, in definitiva, in più direzioni ». Contrario F.
Messineo, op. ult. cit., p. 647 ss., il quale precisa come nell’atto collettivo i centri di interes-
se possono essere più d’uno e gli interessi sono di eguale contenuto e paralleli e capaci di es-
sere percepiti all’esterno come uniti.
( 8 ) Sul punto le nostre considerazioni in La connessione tra negozi e il collegamento
contrattuale, in Studi in onore di Giuseppe Benedetti, I, Napoli 2008, pp. 25-67; ora anche
in R. trim. d. proc. civ., 2008, pp. 791-818 e 1167-1188.
( 9 ) A. Carlo, op. cit., p. 6, non dubita della natura contrattuale dell’atto costitutivo di
società e associazione e si prova nella dimostrazione che questi contratti presentano caratte-
ristiche e principî di disciplina che li distinguono nettamente dai contratti di scambio. L’A.,
affermata l’unità concettuale degli enti, intesi come persone giuridiche a struttura essen-
zialmente cooperativa, esclude che possano opportunamente farsi distinzioni in base al tipo
di ente che i contratti sono volti a costituire e individua come unico criterio discretivo quel-
lo basato sulla natura altruistica o egoistica dello scopo perseguito. Questa distinzione con-
sente all’A. di ritagliare una disciplina: ai negozî associativi altruistici (comitato fondazio-
ne) si applicano i principî in tema di contratti a titolo gratuito, mentre ai contratti associa-
tivi egoistici (società, consorzio, comunione e associazione) i principî in tema di negozi a ti-
tolo oneroso (p. 219). La caratteristica peculiare dei contratti plurilaterali associativi ri-
guarda, secondo l’A., il piano della causa, la quale consiste, appunto, nella costituzione di
un ente con uno scopo o altruistico o egoistico. Da quest’ultimo rilievo l’A. indica i principî
di disciplina: « a) ogni socio assume i suoi obblighi nei confronti dell’ente e non degli altri
soci con cui non è in rapporto diretto; b) avendo l’ente la funzione ma non l’obbligo di rea-
lizzare lo scopo comune non esiste per il socio alcun diritto corrispettivo (in senso tecnico)
del suo sacrificio » (pp. 242-243).
PARTE I - DOTTRINA 535

mente il profilo patologico (10), genetico o funzionale, dei soli contratti con
comunione di scopo (11): vale a dire l’invalidità e la risoluzione dei contratti
plurilaterali in cui l’interesse delle parti si dispone lungo una medesima dire-
zione (12).

( 10 ) Ma sull’importanza della disciplina ben oltre il profilo della patologia si veda F.


Messineo, Contratto plurilaterale, cit., p. 156 ss. Id., Il contratto in genere, 2, cit., p. 629
ss., il quale pone interessanti problemi attinenti al procedimento di formazione del contrat-
to plurilaterale; e, in chiave problematica, T. Ascarelli, Il contratto plurilaterale, cit., p.
111 ss., il quale, tuttavia, riduce i problemi, così risolvendoli, nella disciplina dettata in te-
ma di contratto di società.
( 11 ) V. Salandra, op. cit., p. 837, osserva che, da un lato, il legislatore si è riferito ai so-
li contratti associativi e, dall’altro, l’erroneità dell’impostazione che identifica i contratti
plurilaterali con il contratto di società, atteso che quest’ultimo ben potrebbe essere bilatera-
le. V. Auletta, La comunione di scopo e la causa del contratto di società, in questa Rivista,
1937, p. 1 ss., osserva che la comunione di scopo consisterebbe in ciò: le parti, nel conclu-
dere il contratto, mirano ad un unico risultato, il raggiungimento del quale consente la sod-
disfazione degli interessi di ciascuna. Così anche T. Ascarelli, Le unioni di imprese, cit.,
pp. 178-179 ss., in polemica con Salandra, osserva che anche nella società e nel consorzio
« c’è quella contrappostone di interessi che permette di parlare di contratto; con la conclu-
sione del contratto di società questa contrapposizione di interessi viene superata, così come
viene superata nei contratti di scambio ». Il fine comune che caratterizzerebbe i contratti
plurilaterali, allora, potrebbe consistere ora nello svolgimento di una attività economica or-
ganizzata al fine della produzione di un utile (V. Auletta, op. loc. ult. cit.), ora nella crea-
zione di una organizzazione (T. Ascarelli, Contrato plurilatarele, cit., p. 121), ora nello
scioglimento della comunione (T. Ascarelli, Occhio ai concetti, cit., p. 176), ora nella ri-
partizione tra i vincitori del monte premi (T. Ascarelli, Contratto plurilaterale e totalizza-
tore, cit., p. 170).
( 12 ) F. Messineo, Contratto plurilaterale, cit., p. 141 ss., ha cura di avvertire come la
nozione legale di contratto plurilaterale non è tanto connotata dal profilo strutturale della
presenza di più parti, quanto, invece, dalla comunione di scopo. E, infatti, una conferma di
ciò potrebbe rinvenirsi proprio nell’art. 1332 c.c., il quale, consentendo la possibilità del-
l’adesione di altre parti ad un contratto, non dovrebbe legittimare un giudizio capace di de-
terminare una diversa valutazione circa la natura del contratto a seconda del numero delle
parti. Ossia, un contratto tra due parti, il quale, per effetto dell’art. 1332 c.c., si apra, in un
secondo momento, all’adesione di un’altra parte, non muta, da bilaterale a plurilaterale e,
viceversa, un contratto, originariamente plurilaterale, nel quale venga meno una parte, non
muta da plurilaterale a bilaterale, nel senso che, secondo il lessico del legislatore, la plurali-
tà atterrebbe, piuttosto, all’idoneità del contratto ad essere aperto. Il legislatore, infatti,
quando discorre di contratti plurilaterali intende riferirsi a quei contratti nei quali « i detti
coefficienti [pluralità delle parti e comunione di scopo] devono ricorrere cumulativamen-
te ». Id., Il contratto in genere, 2, cit., spec. p. 606 ss., precisa che il significato di comunio-
ne di scopo è dialettico rispetto a quello di scambio. Nei contratti con comunione di scopo
le prestazioni, ma prima ancóra le dichiarazioni, non sono in situazione di corrispettività,
ma si trovano disposte in un’unica direzione. Il parallelismo degli scopi delle parti « costi-
tuisce una plastica rappresentazione della direzione di tali interessi; ed è assai appropriata
a significare che, all’atto del costituirsi del contratto, si è già composto l’iniziale conflitto (o
divergenza) d’interessi, prendendo il sopravvento l’interesse comune: o, quanto meno,
l’omogeneità degli interessi ». Tale posizione lascia perplessi in quanto probabilmente non
spiega in modo convincente come sia possibile che il conflitto di interessi possa comporsi
prima e fuori del contratto. Soltanto immaginando il contratto come una sovrastruttura
formale, posteriore ad un naturale accordo delle parti, si potrebbe giungere alla soluzione
536 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

Il principio giuridico che all’interno si agita, espressione soggettiva del


più generale principio d’invalidità parziale, è chiaro: nel caso di contratto
plurilaterale l’invalidità o l’inefficacia che colpisce il vincolo di una sola delle
parti non determina l’invalidità o l’inefficacia (13) dell’intero contratto, salvo
che la partecipazione della parte, il cui vincolo è affetto da invalidità o ineffi-
cacia, non ha da considerarsi essenziale (14).
Il principio che sostanzia queste regole non meno che il tenore letterale
delle richiamate disposizioni di legge hanno suggerito, in linea con la storia
della categoria e, soprattutto, con l’esperienza pratica elaborata fino a quel
tempo, l’angusta prospettiva che riduce la categoria dei contratti plurilaterali
ai soli contratti associativi (15).

indicata da Messineo. Ma, fin tanto che si creda che il contratto non sia altro dall’accordo,
tale idea, supponendo un’originaria composizione del conflitto, è difficilmente giustificabile
sul piano positivo. Contrario F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., p. 174 s., il quale esclu-
de che la comunione di scopo possa costituire un tratto di differenziazione dei contratti dal
quale far discendere un differente statuto normativo. Il merito della dottrina del contratto
con comunione di scopo si consuma, quindi, nell’avere sottolineato « come il contratto, lun-
gi dall’esaurire la propria funzione nel comporre interessi contrastanti, sia anche strumento
idoneo per la realizzazione di interessi comuni a più soggetti ». Ma deve considerarsi esclu-
sa la possibilità di enucleare principî di disciplina comuni valevoli soltanto per i contratti
con comunione di scopo e, quindi, la possibilità di costruire, oltre che per un omaggio stori-
co, per un’esigenza dommatica, la categoria dei contratti di associazione o con comunione
di scopo.
( 13 ) In senso contrario si consideri T. Ascarelli, Notarelle critiche, cit., p. 274, ma, più
ampiamente, Id., Il contratto plurilaterale, cit., p. 97 ss., secondo cui non si può parlare,
come la lettera della legge vorrebbe, di mera trasmissibilità del vizio, ma di risoluzione. In-
fatti, l’invalidità del vincolo di una parte non potrebbe determinare, secondo l’A., l’invalidi-
tà dell’intero contratto, ma al più la sua risoluzione, dipendente, appunto, dall’impossibilità
di conseguire lo scopo comune o dall’essenzialità della partecipazione di quella singola e in-
dividua persona. Sicché la nullità o l’annullabilità del vizio della partecipazione di una sola
parte si tradurrebbe in una causa di scioglimento del contratto plurilaterale. L’obiezione
sollevata dall’A. circa la possibilità di configurare un’autonoma ipotesi di nullità o annulla-
bilità del contratto plurilaterale, dipendente dall’invalidità della partecipazione di una par-
te essenziale, sembrerebbe vinta dalla scelta del legislatore, che ha voluto ricollegare a que-
ste ipotesi rispettivamente la nullità e l’annullabilità. Saremmo in presenza di due casi di
nullità e annullabilità testuali.
( 14 ) B. Inzitari, op. cit., p. 521, pur reputando che siano inesistenti spazî per una disci-
plina generale dell’invalidità dei contratti plurilaterali, non può far a meno di osservare che
le norme in contestazione offrono, quanto meno, « rilevanti elementi ai fini della compren-
sione e della valutazione degli interessi secondo l’ottica causale dello “scopo comune” ». In
particolare, l’A. osserva che, diversamente da quanto accade nei contratti di scambio, nei
contratti con comunione di scopo la realizzazione degli interessi delle parti non coincide con
la realizzazione della funzione del negozio, in quanto passa attraverso il medio, il « dia-
framma » dello scopo comune.
( 15 ) F. Messineo, op. ult. cit., p. 150, conclude che il legislatore con tali norme ha disci-
plinato, piuttosto, il contratto associativo a più di due parti. Precisa l’A., in critica alla posi-
zione di G. Ferri, Contratto plurilaterale, cit., p. 681, che il rapporto tra contratto plurila-
terale e contratto associativo non è di identità, ma di genere a specie, nel senso che il con-
tratto associativo è il genere e il contratto plurilaterale la specie. Ne segue che nel contratto
PARTE I - DOTTRINA 537

A ciò hanno contribuito anche alcune impostazioni dottrinali che — ora


sul piano tecnico-giuridico, ora su quello politico-legislativo — hanno avalla-
to letture restrittive, volte a ridurre significativamente la reale portata precet-
tiva della categoria.
A tal stregua, autorevole dottrina (16), attraverso due scanditi e lineari
passaggi logici, l’uno costruito sul dato letterale e l’altro su un profilo discipli-
nare, ha finito con lo svuotare del tutto la categoria, riducendola a una mera
descrizione di quei contratti che, indipendentemente dal numero delle parti,
risultano caratterizzati dalla comunione di scopo. E ciò è avvenuto facendo
passare questa soluzione, pur ricca di implicazioni speculative e di feconde
scelte di metodo, quasi inosservata, mercé l’esaltazione del diverso risultato
esegetico di cui essa è stata foriera: l’affermazione della natura contrattuale
della società (17).
Appannata dal dichiarato intento di vincere l’anticontrattualismo dei
cc.dd. atti associativi, imperante nel vigore del previgente sistema, tale dottri-
na ha impoverito la categoria dei contratti plurilaterali, ristretti ai soli con-
tratti associativi. Con la ragguardevole conseguenza, talora rimasta inavverti-
ta, che tutti gli altri accordi plurilaterali difformi da quelli associativi, così
fuoriusciti dalla cerchia contrattuale, devono allora trovar posto all’interno di
altre e diverse categorie dommatiche.

plurilaterale non c’è spazio per il contratto associativo con due sole parti, al quale, quindi,
non si applica la disciplina dettata per i cc.dd. contratti plurilaterali di cui all’art. 1420 c.c.
( 16 ) Il riferimento è alla posizione di Ascarelli. Si osservi al riguardo che nella sua pri-
ma formulazione (Id., Il contratto plurilaterale, cit., p. 97 ss.) l’A. aveva posto l’attenzione,
per un verso, sulla pluralità, intesa come eventualità, ma non necessità, della presenza di
più di due parti e, per altro verso, sulla mancanza di un oggetto tipico nelle prestazioni di
ciascuna parte e sull’identità del tipo dei diritti delle parti in ragione di quello scopo comu-
ne per il cui conseguimento le varie prestazioni si ponevano come strumentali. Secondo
questa impostazione, quindi, l’A. distingueva dal contratto plurilaterale (ad es., con riscon-
tri giurisprudenziali, il caso del totalizzatore nel gioco) il contratto associativo. Su questa li-
nea l’A., in Contratto plurilaterale; comunione di interessi; società di due soci; morte di un
socio in una società personale di due soci, cit., p. 728, afferma che il contratto plurilaterale
in tanto ha senso in quanto oltre a comprendere la società comprenda gli altri contratti a
numero indeterminato di parti e in quanto distingua da sé i contratti bilaterali associativi.
« Su questo terreno, caratteristica dei contratti plurilaterali è la mancanza di una contrap-
posizione tipica delle varie prestazioni ed è nei confronti di questa mancanza che lo scopo
di ciascuna parte è giuridicamente quello stesso che è a tutte comune ». Resta indifferente
secondo l’A. — sulla qualificazione che tale scopo comporti, o meno, lo svolgimento di
un’attività comune.
( 17 ) T. Ascarelli, Notarelle critiche, cit., p. 265, « È bene chiarire che la prima e più
importante affermazione di chi, come me, sostiene che la società costituisce un contratto
plurilaterale è naturalmente quella della natura contrattuale della società ed è difatti nei ri-
guardi di questa affermazione che altri autori seguono un orientamento diverso ravvisando
nella costituzione della società un atto complesso o un atto di fondazione o almeno enun-
ciando queste tesi nei riguardi delle società che costituiscono persone giuridiche ». Id., Oc-
chio ai concetti, cit., p. 73, si pone il problema del coordinamento della nozione di « comu-
nione di scopo » e di « contratto ».
538 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

Facendo leva sulla lettera della legge, tale dottrina ha ricondotto alle pa-
role « contratti plurilaterali » soltanto quelli con comunione di scopo, con ciò
lasciando fuori tutte le altre ipotesi non contraddistinte da tale requisito (18).
Movendo, poi, dall’osservazione dell’astratta irrilevanza sul piano disci-
plinare del numero concreto delle parti (19), in quanto le regole della società
non sarebbero diverse se i soci fossero « due o mille » (20), ha finito col com-
primere ulteriormente la formula, siccome capace di raccogliere al suo interno
i soli contratti idonei, anche solo astrattamente, a stringere insieme più di due
parti, includendovi, così, anche i contratti bilaterali aperti all’adesione di ter-
zi (21).
Limitata la categoria ai soli contratti nei quali possono, ma non debbono,

( 18 ) T. Ascarelli, op. ult. cit., p. 723, osserva il forte legame che corre tra comunione
di scopo e plurilateralità: il contratto plurilaterale metterebbe capo sempre alla costituzione
o all’organizzazione di una comunione di scopo, anche se quest’ultima potrebbe trovare la
propria fonte finanche in contratti non plurilaterali. Sarebbe come a dire, svolgendo il pen-
siero dell’A., che l’unico effetto di cui è capace il contratto plurilaterale è la creazione di
una comunione di scopo; mentre non sarebbe vero il contrario. In senso critico F. Carne-
lutti, Occhio ai concetti!, cit., p. 450 ss., il quale osserva che Ascarelli sarebbe incorso in
un errore di metodo e avrebbe confuso il termine scopo con quello di mezzo, sicché sarebbe
possibile replicargli che « non si rinvengono contratti (neanche non plurilaterali) senza co-
munione di scopo o meglio senza il quid a cui egli dà codesto nome ». In particolare Carne-
lutti così argomenta: « che il conflitto determini una solidarietà di interessi tra gli avversari,
nel senso che ambedue hanno interesse a determinare il mezzo per risolverlo è una notissi-
ma verità, il cui esempio più noto sta nel comune interesse dei duellanti a eludere la polizia,
quando cerca di impedire il duello [...] Ma l’interesse comune è il mezzo per soddisfare l’in-
teresse individuale e a nessuno verrà in mente di dire che trovare un luogo appartato per
cercare di ammazzarsi a vicenda sia lo scopo del duello ». Sulla base di questo argomenta-
re, l’A. afferma che ciò che Ascarelli chiama comunione di scopo non è altro che il mezzo, il
quale, in quanto tale, sarebbe proprio di qualunque contratto. L’idea che la comunione, co-
sì intesa, sia propria di tutti i contratti è già in G. Ferri, La fusione delle società commer-
ciali, Roma 1936, p. 89; Id., La società come contratto, in Studi in memoria di Francesco
Ferrara, I, Milano 1943, p. 263; Id., La società di due soci, cit., p. 613: « quando la legge
parla di prestazioni dirette al conseguimento di uno scopo comune non ha riguardo allo
scopo contrattuale complessivo che è necessariamente comune a tutti i contraenti in ogni
categoria di contratti, ma ha riguardo a quella attività comune che costituisce il mezzo per
la realizzazione dell’interesse individuale dei contraenti e nella quale si pone, come ha mes-
so in luce il Mossa, l’essenza stessa della società e degli altri contratti associativi ».
( 19 ) Questa osservazione lascia, tuttavia, perplessi se solo si consideri, a esempio, la di-
sciplina dettata con riguardo alle società di persone per il caso in cui venga meno la plurali-
tà dei soci. Le conseguenze dell’eventuale mancanza di un socio sono, infatti, sensibilmente
diverse a seconda che la società sia composta da una pluralità di soci ovvero da due soli so-
ci.
( 20 ) Critico G. Ferri, op. ult. cit., p. 610, secondo il quale sovente l’astratta possibilità
di costruire un’autonoma figura del contratto plurilaterale ha costituito « la premessa e non
il risultato dell’indagine » con la conseguenza « che, ponendosi l’essenza del contratto plu-
rilaterale nella cosiddetta comunione di scopo e considerandosi invece come mera acciden-
talità la dualità o pluralità dei contraenti, si è finito per assoggettare entrambe le ipotesi ad
una stessa disciplina ».
( 21 ) T. Ascarelli, Notarelle critiche, cit., p. 267.
PARTE I - DOTTRINA 539

partecipare più di due parti, ne sono seguìti due importanti corollari: l’assen-
za di uno spazio per postulare la configurabilità di contratti plurilaterali sen-
za comunione di scopo (22) e, soprattutto, l’inutilità di una categoria dai con-
fini più ampî, capace di comprendere al suo interno contratti associativi e
no (23).
Per altro verso, su valutazioni giuridico-politiche e su precise scelte ideo-
logiche, volte a dimostrare che il modello del contratto plurilaterale è espres-
sione della concezione economica fascista e che il c.d. « scopo comune » altro
non è che un sapiente strumento di tecnica giuridica architettato dal legislato-
re per giustificare un insanabile conflitto giuridico tra i capitalisti (24), si è ri-
levato che esse sarebbero disadatte a esprimere principî universali idonei alla
costruzione di una teoria del contratto plurilaterale (25), sicché dovrebbe ridi-

( 22 ) Vale la pena di segnalare che Ascarelli non nega l’esistenza di contratti trilaterali,
diversi dai cc.dd. contratti plurilaterali (quelli associativi con comunione di scopo), così
come non nega l’esistenza di contratti bilaterali con comunione di scopo. Sarebbero esem-
pî della prima ipotesi il contratto di costituzione di dote da parte del terzo, ma non la de-
legazione e il riporto indiretto; sarebbero esempi della seconda classe la mezzadria e l’as-
sociazione in partecipazione. Così in Notarelle critiche, cit., p. 267 ss., ma più diffusa-
mente in Il contratto plurilaterale, cit., p. 97 ss. Queste considerazioni ci sembrano molto
importanti quanto al metodo. Ascarelli, infatti, pur avvertendo il problema dell’esistenza
di contratti plurilaterali non caratterizzati dalla comunione di scopo e, viceversa, di con-
tratti bilaterali con comunione di scopo, rifiuta la costruzione concettuale di contratti bi-
laterali e contratti plurilaterali fondata su un mero dato di struttura e preferisce, in una
prospettiva funzionalistica, rinvenire il tratto fondante la categoria proprio nella comunio-
ne di scopo. Solo sulla base di questa osservazione si riesce a comprendere e rendere com-
patibile l’affermazione più volte ricorrente secondo cui « tutti i contratti plurilaterali sono
caratterizzati dalla comunione di scopo » con quella secondo cui esistono contratti trilate-
rali (costituzione di dote da parte del terzo): solo ai primi, e non anche ai secondi, si ri-
serva il nome di contratti plurilaterali e a essi si applica la disciplina dettata agli artt.
1420, 1446, 1459 e 1466 c.c. Crediamo che, a questo punto, possa risultare chiara la di-
versa impostazione che si preferisce seguire nel testo, che, ben lungi dal fare della funzio-
ne l’angolo privilegiato di osservazione, esalta i profili di struttura e su di essi tenta di co-
struire il sistema concettuale.
( 23 ) T. Ascarelli, Notarelle critiche, cit., p. 267; Id., Contratto plurilaterale; comunio-
ne di interessi; società di due soci; morte di un socio in una società personale di due soci,
cit., p. 727, nega la configurabilità di contratti plurilaterali senza comunione di scopo per il
fatto che « la stessa mancanza di tipicità delle prestazioni e l’identità del tipo dei diritti del-
le varie parti si coordini con la comunione di scopo ».
( 24 ) B. Inzitari, op. cit., p. 524: « In questo concetto di scopo comune e nel conseguente
legame contrattuale, unificate tutte le più varie posizioni individuali delle parti, ritroviamo
alcuni degli elementi più emblematici della concezione fascista dell’attività economica ». E
ancóra, una pagina dopo: « Contratto plurilaterale, quindi, come momento di sintesi tra lo
strumento del contratto e l’aggregazione corporativa degli interessi individuali. Il procedi-
mento è analogo a quello con cui l’impresa viene assunta come una istituzione, dove l’inte-
resse dei prestatori di lavoro si fonde con quello dell’imprenditore nella comune collabora-
zione per l’interesse dell’impresa e della comunità nazionale ».
( 25 ) B. Inzitari, op. cit., p. 519 ss.
540 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

mensionarsi l’ambizioso proposito tendente « ad identificarli come cardini di


una figura generale » (26).
Quelle norme, riconducibili al principio generale di conservazione, avreb-
bero la sola funzione di estendere quest’ultimo ai contratti associativi (27). Di
conseguenza, il riconoscimento della categoria dei contratti plurilaterali, non
potendosi positivamente costruire su esse, risponderebbe a un chiaro signifi-
cato politico, legato a quel definito momento storico ma privo di una concreta
consistenza dommatica (28).

3. — Istituita l’equazione che risolve i contratti plurilaterali nei soli con-


tratti associativi, agli accordi con più di due parti ma non caratterizzati dalla
comunione di scopo (29) si riserva un approccio che, per garantirsi coerenza di
pensiero e rigore nel metodo, deve ripiegare sull’occupazione di nuovi territorî
o cedere al fragile fascino dell’eccezionalità.
Così, da un lato, una dottrina (30) ha ricondotto le ipotesi in questione al-
la generale (e generica) figura del negozio plurilaterale (31), affermando che
quest’ultimo costituirebbe un libero spazio popolato dalle strutture che resi-
duano rispetto al contratto bilaterale di scambio e al contratto plurilaterale
associativo (32). Secondo questa impostazione, mentre il negozio plurilaterale

( 26 ) B. Inzitari, op. loc. ult. cit.


( 27 ) B. Inzitari, op. cit., p. 520.
( 28 ) B. Inzitari, op. cit., p. 524, osserva come lo scopo comune è stato lo strumento tec-
nico con cui il legislatore ha tentato di occultare il conflitto non tra imprenditori e lavorato-
ri, bensì tra soggetti parti della stessa classe capitalistica. Ed infine, nella chiusa del contri-
buto, in una proposizione sintetica, che piace riportare per la sua incisività, l’A. osserva co-
me la categoria del contratto plurilaterale, svelata la sua inconsistenza regolamentare, « va
considerata come supporto dommatico di un più ampio disegno, chiaramente politico, ten-
dente ad “occultare” — come del resto è già accaduto a proposito della presunta eguaglian-
za delle parti nel contratto di scambio — le reali ineguaglianze e le “non libertà” che strut-
turalmente si pongono nell’àmbito dei rapporti di produzione capitalistici ».
( 29 ) Le ipotesi non sono né sconosciute né ignorate. Con riguardo al contratto di lea-
sing, ad esempio, si pone il problema R. Clarizia, La locazione finanziaria, Torino 1996.
( 30 ) F. Messineo, Contratto plurilaterale, cit., p. 154, avverte la possibilità che si diano
figure che presentino insieme pluralità di parti e eterogeneità di scopo fra esse parti. A tali
ipotesi viene riservata la categoria del negozio plurilaterale. « Infatti la causa del negozio
plurilaterale si plasma sul fatto che le prestazioni sono fra loro contrapposte (e non concor-
renti, o convergenti, come nel contratto plurilaterale): a un dipresso, come nel contratto di
scambio (a due parti) ». Il negozio plurilaterale, dunque, secondo il ragionamento dell’A.,
sarebbe l’equivalente « [...] di quello che sarebbe il contratto di scambio a più di due parti,
se questo fosse ammissibile ».
( 31 ) F. Messineo, Il negozio giuridico plurilaterale, cit.; Id., Il contratto in genere, 2,
cit., p. 620, dichiara che la configurabilità di un contratto trilaterale di scambio viene ne-
gata sulla base di una convinzione, che meglio sarebbe chiamare pregiudizio, piuttosto che
sulla base di un’indagine positiva: il contratto « non comporta più di due parti ».
( 32 ) Contratto plurilaterale e contratto associativo, tuttavia, non coincidono secondo
Messineo, il quale osserva come il contratto associativo può, talvolta, essere anche bilatera-
PARTE I - DOTTRINA 541

servirebbe « ad inquadrare alcune figure di negozio a più parti, che non pos-
sono rientrare nella figura del contratto plurilaterale, poiché questo è necessa-
riamente, un caso di contratto associativo [...] » (33), il contratto plurilaterale
descriverebbe le sole ipotesi di contratti a struttura aperta, caratterizzati dalla
presenza di una pluralità di prestazioni, parallele, simmetriche rispetto alla
pluralità delle parti e destinate al conseguimento dello scopo comune (34).
D’altra parte, si è affermato che gli accordi plurilaterali non associativi o
costituiscono « un particolare modo di essere dei contratti sinallagmati-
ci » (35) oppure, trattandosi di limitate e circoscritte ipotesi eccezionali, prive
le, sicché non sarebbe possibile istituire l’equazione secondo cui tutti i contratti associativi
sono contratti plurilaterali. Così, una società costituita da due parti sarebbe nondimeno
contratto associativo, ma non plurilaterale. Al più sarebbe potenzialmente idoneo a divenire
plurilaterale, perché questo contratto associativo è aperto alla possibile adesione di terzi.
Non vale però neppure l’equazione secondo cui tutti i contratti associativi sono a struttura
aperta, perché secondo l’A. possono darsi ipotesi di contratti associativi non aperti all’ade-
sione, come il caso della mezzadria. Sicché contratti plurilaterali e contratti associativi co-
stituiscono due figure che presentano certamente punti di contatto, ma che non debbono
essere identificate.
( 33 ) F. Messineo, Contratto plurilaterale, cit., p. 154. Tuttavia, ci sia consentito di pre-
cisare che l’affermazione dell’A. non spiega quale debba essere la disciplina da applicare a
tali presunti negozî plurilaterali senza comunione di scopo, ai quali nega il riconoscimento
della natura contrattuale.
( 34 ) F. Messineo, op. ult. cit., spec. p. 595 ss., osserva che proprio le difficoltà concet-
tuali che risiedono nel primo requisito del contratto plurilaterale (pluralità di parti), indu-
cono l’esaltazione del secondo (comunione di scopo), il quale, in quanto « costante e imma-
nente », contribuisce in modo determinante e rassicurante, al contempo, alla qualificazione.
Si avverte che secondo l’A. la comunione di scopo indicherebbe l’identità di scopo per cia-
scuno dei partecipanti; si tratterebbe di un requisito che attiene al profilo funzionalistico
del contratto e che vi inciderebbe al punto da costituirne la causa.
( 35 ) F. Galgano, Obbligazioni in generale, Padova 1990, p. 262. Id., Il negozio giuridi-
co, cit., p. 173, spec. nt. 14, osserva come non sia possibile negare (come invece ha tentato,
a dire dell’A., senza successo A. Pino, Il contratto a prestazioni corrispettive, Milano 1962,
p. 162 ss.) che ai contratti con comunione di scopo si applichi la disciplina dei contratti a
prestazioni corrispettive. N. Irti, Appunti per una classificazione dei contratti agrari, in R.
d. agr., 1961, I, p. 685, osserva, pur al di fuori della prospettiva del contratto plurilaterale,
che la distinzione tra la categoria dei contratti di scambio e quella dei contratti con comu-
nione di scopo attiene proprio al diverso atteggiarsi del rapporto sinallagmatico « [...] che,
nella prima, è immediato e diretto, talché ogni parte acquista proprio ciò che l’altra parte
presta; e, invece, nella seconda, mediato e indiretto, talché ciò che una parte acquista non è
mai identico a ciò che l’altra parte presta ». Tali osservazioni si trovano già in M. Allara,
La vendita, Torino, s.d. (ma 1958), p. 75, il quale, con consueta raffinatezza di pensiero,
ha osservato come i contratti plurilaterali si risolvono in quei contratti caratterizzati dalla
« pluribilateralità a cerchio chiuso tra i contraenti ». Utilizza questa formula, sottoponen-
dola ad un vaglio critico onde si evitino facili assonanze, A. Belvedere, Contratto plurilate-
rale, cit., p. 272. Di diverso avviso era stato T. Ascarelli, Il contratto plurilaterale, cit., p.
115, il quale restituisce alla parola « scopo » il senso soggettivistico, sicché l’A. afferma che
nei contratti di scambio lo scopo o fine « si identifica con la funzione tipica dello stesso con-
tratto [...]; rimane, in genere, nel campo dei motivi », mentre nei contratti plurilaterali lo
scopo diviene giuridicamente rilevante e « costituisce l’elemento “comune”, “unificatore”
delle varie adesioni, e concorre nel determinare i limiti dei diritti e dei doveri delle parti ».
542 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

di autonoma rilevanza, sono incapaci di costituire la base sulla quale edificare


una categoria autonoma.
Facendo leva su questa considerazione, pur asseverando l’esistenza di
contratti nei quali le parti assumono compiti diversi o assumono prestazioni
« a circolo chiuso », si conclude nel senso che « il grande sforzo condotto per
dare un’identità al contratto plurilaterale forse si palesa sproporzionato ri-
spetto all’importanza delle questioni pratiche cui dànno vita i rapporti in
questione » (36).
Così ripercorso l’orientamento della dottrina maggioritaria e accertata
l’idea di un’ipotesi residuale, ora risolta nel generico negozio plurilaterale, ora
sacrificata nei tratti dell’eccezionalità, sembra obbligato verificare, anche alla
luce del tempo presente e delle esigenze concrete di disciplina, se una tale
scelta culturale possa considerarsi conforme all’attuale ordinamento — e
dunque meritevole di condivisione — ovvero se non debba affermarsi accanto
alla figura generale dei contratti plurilaterali associativi quella dei contratti
plurilaterali sinallagmatici o di scambio (37), così elevando quella dei contratti
plurilaterali tout court a figura descrittiva ancor più generale (e generica). La
quale, comprendendo la prima e la seconda, perderebbe la sua originaria va-
lenza di categoria, non essendo più capace di esprimere una disciplina comu-
ne a entrambe le figure: quella dei contratti plurilaterali associativi e quella
dei contratti plurilaterali di scambio.
Il compimento di questa indagine suggerisce, siccome accertamento pre-
giudiziale, di acclarare se possa coscientemente predicarsi l’esistenza di con-
tratti plurilaterali di scambio ovvero se il concetto di scambio, ripudiata la
multilateralità, reclami, di necessità, l’esclusiva bilateralità, con ciò definiti-
vamente legandosi a quest’ultima e respingendo in un « altrove giuridico » gli
accordi plurilaterali non associativi.

4. — Affermare che esistano nel nostro ordinamento giuridico contratti


plurilaterali non associativi impone di provare la giuridica compatibilità di
multilateralità e scambio. Una risposta di segno negativo, infatti, renderebbe
impossibile — come in effetti è sembrato a molti — predicare il tratto della

( 36 ) R. Sacco, La qualificazione, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, II, Torino 1990,


pp. 464-465.
( 37 ) Così F. Galgano, Obbligazioni, cit., p. 262. La configurazione di tali contratti co-
me ipotesi la cui caratteristica risiede nella particolare modulazione del sinallagma e, per
conseguenza, l’accostamento di pluralità e sinallagma ci sembra che legittimi, nell’ipotesi
ricostruttiva dell’A., l’ammissibilità di un contratto trilaterale di scambio. Interessanti sono
anche le considerazioni di G.B. Ferri, op. ult. cit., p. 34: « nei contratti di scambio l’opera-
zione economica nella sua interezza rimane assorbita nel contratto, che costituisce la fonte
unica e diretta del rapporto e il mezzo di realizzazione dell’interesse contrattuale delle par-
ti. Nel fenomeno associativo, il contratto assume una posizione strumentale rispetto alla
operazione economica cui le parti intendono dar vita e che pur sempre rimane l’esercizio in
comune di una attività in vista di un fine comune ».
PARTE I - DOTTRINA 543

contrattualità a quegli accordi, i quali, pertanto, attenderebbero di esser so-


spinti verso altre o nuove categorie dommatiche.
La parola « scambio » appartiene tanto alla scienza economica quanto a
quella giuridica: nell’una e nell’altra acquista significati diversi tra loro,
ognuno dei quali profila un autonomo e distinto grado di compatibilità con il
concetto giuridico di plurilateralità.
Se si attinge il senso della parola « scambio » dalla scienza economica,
intendendo con essa il dare o pretendere qualcosa in cambio di un’altra, è ob-
bligata la conclusione: lo scambio è necessariamente bilaterale e biunivo-
co (38).
La domanda se sia ammissibile l’esistenza di uno scambio economico
plurilaterale diventa visibilmente retorica.
Ciò solo, però, né deve indurre a ritrovare tanti contratti quanti siano gli
scambî economici, né può impedire di predicare natura contrattuale a quel-
l’accordo plurilaterale che realizzi nessuno o più d’uno scambio economico,
dal momento che non pare che possa istituirsi alcuna fissa relazione tra i due
termini.
Scambio economico e contratto possono combinarsi nel modo più vario,
sicché un singolo contratto, come può realizzare un solo scambio economico
(permuta, vendita), può non realizzarne alcuno (donazione, deposito gratuito,
mandato gratuito) o realizzarne più d’uno (leasing) (39). Senza considerare,
poi, che secondo una discussa e tormentata ricostruzione, si potrebbero dare
scambî senza accordo (40), cioè scambî che hanno la loro fonte determinativa
nella convergenza di due atti unilaterali autonomi, e che taluni contratti plu-
rilaterali associativi sono idonei a determinare uno scambio economico (41),
( 38 ) Anche lo scambio triangolare si risolve, economicamente, in una duplicità di scam-
bî. Così K. Wicksell, Lezioni di economia politica, I, Torino 1996.
( 39 ) Non solo, ma secondo lo studio di G. Castiglia, Negozi collegati in funzione di
scambio (Su alcuni problemi del collegamento negoziale e della forma giuridica delle ope-
razioni economiche di scambio), in questa Rivista, 1979, II, pp. 397-439, lo scambio po-
trebbe derivare da un’ipotesi di un collegamento contrattuale (spec. p. 401, nt. 6).
( 40 ) N. Irti, Scambi senza accordo, in R. trim. d. proc. civ., 1998, p. 347 ss.; Id., È vero
ma... (replica a G. Oppo), in questa Rivista, 1999, I, p. 273 ss.; Id., Lo scambio dei foulards
(replica semiseria al prof. Bianca), in R. trim. d. proc. civ., 2000, p. 601. In senso contrario
G. Oppo, Disumanizzazione del contratto?, in questa Rivista, 1998, I, p. 347 ss.; G. Bene-
detti, Diritto e linguaggio. Variazioni sul « diritto muto », in Europ. d. priv., 1999, p. 137;
C.M. Bianca, Il contratto, cit., pp. 43-44; Id., Acontrattualità dei contratti di massa, in Vita
not., 2002, p. 1120 ss.
( 41 ) Pur non facendo riferimento al concetto di scambio in senso economico, perviene a
una conclusione non dissimile Bolaffi, Società semplice, Milano 1947, p. 93, secondo il
quale anche nella società si realizza uno scambio perché in tanto ciascuno dei contraenti si
obbliga a eseguire o esegue una determinata prestazione in quanto viene chiamato a parte-
cipare al risultato delle prestazioni degli altri contraenti. Contrario V. Salandra, op. ult.
cit., p. 840, il quale, movendo dall’idea che la plurilateralità debba essere riguardata sotto
un profilo funzionale, e cioè sul come si pongono le prestazioni delle parti, osserva che nella
società le prestazioni delle parti non sono corrispettive « essendo le prestazioni di tutti de-
544 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

sicché quelli secondo questa convenzione linguistica verrebbero, paradossal-


mente, ad essere al contempo contratti con comunione di scopo e contratti di
scambio.
Diversa, invece, sembra la conclusione quando ci si riferisca alla parola
« scambio » secondo il significato che vi attribuisce la scienza giuridica.
Pur non appartenendo al linguaggio « oggetto », nel quale compare in ra-
re occasioni e senza un disegno strutturato o preordinato (42), la parola
« scambio » ricorre nel metalinguaggio giuridico (43) almeno con due diversi
significati: uno meramente classificatorio, volto a raccogliere taluni modelli di
contratto in ragione della loro funzione economica (44); l’altro, prescrittivo,
con funzione antagonista alla locuzione « comunione di scopo » (45).
Se quest’ultima espressione indica l’esistenza di uno scopo condiviso da
tutte le parti e tale da collocare queste in posizioni tra loro parallele (46), lo
scambio, ove antagonista di quella, varrebbe a indicare proprio l’inesistenza

stinate ad essere utilizzate in comune per il conseguimento di un comune vantaggio, e in-


tendendosi perciò fatte, anziché ai singoli, direttamente alla collettività, che ne è creditrice
verso i singoli ».
( 42 ) La parola scambio ricorre, infatti, senza che essa assuma un significato tecnico
preciso negli artt. 179, 2082 e 2139 c.c., nei quali il legislatore sembra mutuare l’espressio-
ne e il suo significato dal linguaggio comune.
( 43 ) Così F. Messineo, Il contratto in genere, 2, cit., p. 795 ss., il quale osserva che que-
sta classificazione serve più che altro per offrire misura della varietà delle funzioni pratiche
di cui il contratto è capace.
( 44 ) Questa sembra la posizione di F. Carnelutti, Teoria giuridica della circolazione,
cit., p. 22 ss., al quale può ascriversi l’uso della categoria in questi termini: rientrerebbero
nei cc.dd. contratti di scambio tanto i modelli onerosi, quanto quelli gratuiti. I primi si la-
scerebbero, poi, ordinare in tre tipologie diverse: la vendita, la permuta e l’assicurazione.
Nell’ultimo, certamente peculiare rispetto ai due precedenti, si realizzerebbe uno scambio
tra « il poco certo e il molto incerto ».
( 45 ) Sul punto ci sia consentito di rilevare che pur essendo stata affacciata l’idea del-
l’esistenza di un terzium genus fra negozî di scambio e negozî con comunione di scopo da
V. Breglia, Il negozio giuridico parziario, Napoli 1916, tale risultato concettuale non ha in-
contrato il parere favorevole della dottrina. N. Irti, Appunti per una classificazione dei
contratti agrari, cit., p. 685, rileva: « Si tratterebbe di negozî caratterizzati dal contenuto
parziario, da un atteggiarsi delle economie individuali, lontano sia dalle convergenze in uno
scopo comune sia dalla contrapposizione antagonistica. Ma l’idea urta nella incompatibilità
logica fra lo scambiare e l’unire; ed incorre nell’assurdo, che taluno possa disporre di una
cosa in due modi diversi: dandola in godimento esclusivo a un terzo e destinandola ad uno
scopo comune a sé ed al terzo ». L’A. conclude quindi il suo discorso avvertendo che la pre-
tesa categoria, proprio per avere un carattere ibrido, non sarebbe giuridicamente utile:
« Gli schemi dogmatici non sono da adottare se non quando possano utilizzarsi come stru-
menti operativi ai fini della retta interpretazione e della applicabilità di determinate nor-
me ».
( 46 ) G.B. Ferri, op. ult. cit., p. 391, osserva: « nei contratti associativi la struttura è più
complessa: la situazione finale alla quale le parti mirano non è l’effetto immediato del con-
tratto, ma è il risultato di una attività che, sulla base del contratto, dovrà essere esercitata e
dalla quale soltanto dipenderà la realizzazione dell’interesse che le parti perseguono ».
PARTE I - DOTTRINA 545

di questo unitario scopo e, perciò, l’esistenza di diversi scopi delle parti, tra
loro confliggenti, raccolti in unità nel programma contrattuale (47).
In questa prospettiva, l’espressione scambio non coglierebbe il profilo
della vicenda economica generata, come nella prima accezione, bensì della vi-
cenda giuridica generatrice (48). Non riguarderebbe tanto l’effetto, giuridico o

( 47 ) Significativa la pagina di G. Ferri, La società di due soci, cit., p. 612, il quale


osserva, in una chiave certamente funzionalistica, che la differenza tra scambio e comu-
nione di scopo è proprio nel rapporto che si istituisce tra prestazione e realizzazione del-
l’interesse individuale delle singole parti. « Nello scambio l’interesse di una parte si realiz-
za giuridicamente con l’obbligazione dell’altra parte: il che non avviene nel contratto di
società e in genere nei contratti associativi, nei quali l’interesse dei singoli soci o delle sin-
gole parti presuppone lo svolgimento di una attività, che attraverso l’obbligazione dei
contraenti viene ad essere consentita ». Non diversa la posizione di A. Belvedere, op. cit.,
p. 685 s., secondo cui la differenza tra scambio e comunione di scopo risiederebbe nella
direzione della prestazione: nei contratti di scambio la prestazione di una parte è a esclu-
sivo vantaggio dell’altra, mentre nei contratti con comunione di scopo la prestazione di
ciascuna parte è, anche, a vantaggio della stessa parte che le compie. Così l’A. ferma il
suo pensiero: « Infatti nei primi [contratti con comunione di scopo] la prestazione avvan-
taggia la parte che la esegue perché, nel caso in cui la sua prestazione mancasse e le stes-
se parti eseguissero lo stesso la loro, il suo interesse non verrebbe soddisfatto o lo sarebbe
in maniera minore, mentre nei contratti di scambio il vantaggio di ciascuna parte deriva
unicamente dalla prestazione dell’altra, sì che non verrebbe danneggiata, ma caso mai av-
vantaggiata, nel caso in cui non eseguisse la propria prestazione e l’altra eseguisse lo stes-
so la sua ». Sulla base di queste considerazioni l’A. conclude che il contratto di divisione
sarebbe un contratto con comunione di scopo, perché il sacrificio di ogni parte torna, in
un certo senso, a vantaggio anche della parte che lo ha sopportato; mentre sarebbero di
scambio il contratto di giuoco, la transazione e la costituzione di dote da parte del terzo.
A. Mora, Il contratto di divisione, Milano 1995, p. 241 ss., conclude nel senso che non ha
molta importanza stabilire se il contratto di divisione rientri, o meno, tra quelli con co-
munione di scopo — per inciso si osservi che secondo l’A. i contratti plurilaterali non sa-
rebbero soltanto quelli caratterizzati dalla presenza di più parti, ma quelli caratterizzati
anche dalla comunione di scopo — perché comunque non potrebbe postularsi l’applicabi-
lità ad esso delle norme di cui agli artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 c.c. e ciò non tanto
perché si deve negare l’esistenza di un eventuale scopo comune, quanto perché si è repu-
tata la partecipazione di tutti i comunisti un elemento strutturale tipico del modello con-
trattuale, di talché il contratto non potrebbe rimanere valido o efficace in difetto della
partecipazione di taluno dei comunisti. In prospettiva diversa (e riprendendo le considera-
zioni di M. Allara, Teoria generale del contratto, cit., p. 66), N. Irti, Testo e contesto,
Padova 1997, p. 26, osserva che, movendo da punti di vista unilaterali « [...] cioè da in-
tenzioni parziali, i soggetti pervengono ad una intenzione comune, destinata a tradursi
nell’adozione di un testo linguistico (detto o scritto) ».
( 48 ) F. Messineo, Il contratto in genere, 2, cit., p. 615, implicitamente accogliendo la
nozione di scambio in senso economico, esclude che si possano dare contratti di scambio
con più di due parti: « Nel contratto di scambio, le parti non possono essere più di due; ciò,
per la ragione, eminentemente tecnica, che “scambio” implica prestazioni (consistenti in un
dare, o in un facere, o non facere) o da un solo lato, o reciproche; la reciprocità si dà fra
due parti: non fra più parti. In quest’ultimo caso, dovrebbe parlarsi, piuttosto, di interdi-
pendenza fra le prestazioni — come vedremo essere elemento contenutistico del negozio
plurilaterale — e non di reciprocità. Epperò, scambio e pluralità di parti (prestazioni) sono
termini tra loro inconciliabili ».
546 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

economico che sia, ma il fatto, cioè il porsi delle parti in un certo modo ri-
spetto al risultato programmato nel contratto (49).
Scambio e comunione di scopo, allora, lasciandosi apprezzare non già
quali elementi di funzione (50), bensì di struttura, diventano lo strumento di
misura della posizione delle parti rispetto allo scopo o agli scopi perseguiti (51).
I contratti associativi, ovvero quelli con comunione di scopo, sarebbero
quelli nei quali v’è convergenza nello scopo, mentre i contratti di scambio
quelli nei quali v’è divergenza di scopi. Il con — o di — vergere, pur attenen-
do allo scopo, non si risolverebbe in esso, essendo, piuttosto, il punto di riferi-
mento della posizione delle parti (52).
In quest’accezione, pertanto, lo scambio, quale formula antagonista di
« comunione di scopo », nel mentre nulla ha a che vedere con l’accordo, che
indica, semplicemente, la consonanza di decisioni (53), manifesta la propria
compatibilità con la pluralità (54).

( 49 ) N. Irti, Appunti per una classificazione dei contratti agrari, cit., p. 685: « [...] l’ul-
teriore qualifica (associativi o di scambio) coglie l’aspetto strutturale ».
( 50 ) In prospettiva funzionalistica, ad esempio, si veda Ferri e anche Belvedere, secondo
i quali la valutazione dell’esistenza dello scopo comune finisce con l’essere una valutazione
sul componimento degli interessi delle parti e sugli scopi che le parti tendono a realizzare
con quel determinato contratto.
( 51 ) Deve segnalarsi che secondo R. Sacco, La formazione del contratto plurilaterale, in
Sacco-De Nova, Il contratto, I, in Tratt. Sacco, Torino 1993, p. 271, la plurilateralità « è
connotato del contenuto del contratto ».
( 52 ) Interessante, anche se giunge a risultati opposti a quelli prospettati nel testo, l’idea
di A. Carlo, op. cit., p. 301, il quale rileva che l’unica differenza tra contratto bilaterale di
scambio e quello plurilaterale di scambio « sta in ciò che il rapporto si articola tra più par-
ti ». L’A., quindi, finisce coll’indicare con la parola « scambio » il porsi delle parti in un
certo modo. Tuttavia, non ci sembra condivisibile la soluzione finale, in forza della quale
postula che le norme dettate per i contratti plurilaterali, in quanto espressione di uno ius
generale, possano trovare applicazione anche ai contratti plurilaterali di scambio. Tornia-
mo a ripetere che questa soluzione non sembra coerente con la premessa. La giustificazione
dell’opinione dell’A. può forse trarsi solo se si pensi che i casi concreti di contratti plurilate-
rali di scambio immaginati sono limitati ai patti parasociali e ai patti para associativi.
( 53 ) Sono da considerare largamente superate e tramontate le concezioni dell’accordo
come incontro di volontà o fusione di volontà, tacciate, già da Gorla, di mistica. Accordo al-
tro non è che consonanza di decisioni, che nel mondo giuridico ha da considerarsi consegui-
ta quando uno dei molteplici procedimenti di formazione descritti dal legislatore nella se-
zione dedicata all’accordo può dirsi concluso.
( 54 ) Contrario F. Messineo, Contratto plurilaterale, cit., p. 153: « Epperò, scambio e
pluralità di parti (o di prestazioni) sono termini fra loro inconciliabili »; Id., voce Contratto
(dir. priv.), in Enc. dir., IX, Milano 1961, p. 905, avverte che nel contratto di scambio le
parti debbono necessariamente essere due. Tale dualità, tuttavia, non implica necessaria-
mente l’esistenza di due prestazioni, sicché possono darsi contratti di scambio « con presta-
zione a carico di una sola parte ». Tuttavia, appare evidente come l’A., in questa pagina,
pensa allo scambio in senso economico, sicché sotto questo profilo non vi è dissonanza con
la posizione segnalata nel testo, atteso che facciamo riferimento non allo scambio economi-
co, ma a quello giuridico.
PARTE I - DOTTRINA 547

Gli accordi plurilaterali di scambio, cioè quegli accordi nei quali le parti,
ponendosi l’una di fronte all’altra e perseguendo scopi tra loro antagonisti,
composti proprio nell’unità dell’accordo, non per il fatto di realizzare più
d’uno scambio economico o per il fatto di essere posti in essere da più di due
parti, dovrebbero allora essere « esiliati » dal territorio del contratto, al quale,
invece, ci pare che meritino di appartenere.
Non soltanto risultano tramontate, alla luce della recente prassi contrat-
tuale e del rinnovato clima culturale nel quale versa l’ordinamento civilistico
italiano moderno, le ragioni socio-politiche che hanno ostacolato e decelerato
la ricostruzione volta a riconoscere l’ammissibilità di contratti plurilaterali
non associativi, ma non sussistono neppure valide ragioni tecniche, dal mo-
mento che lo scambio giuridico né ripudia né avversa la multilateralità, con la
quale mostra di potersi ben coniugare.
Figure classiche quali la delegazione di pagamento o la cessione del con-
tratto, come figure d’avanguardia tolte dalla moderna macroeconomia, quali
il leasing o il leveraged buyout, possono consapevolmente ricondursi all’inter-
no di un medesimo modello generale, il quale, restituito al settore del contrat-
to, consente di postulare l’ammissibilità di contratti plurilaterali di scambio.

5. — L’affermata esistenza di contratti plurilaterali di scambio, mentre


differenzia questi ultimi da quelli associativi, arricchendo, per un verso, la
ancor più generale figura dei contratti plurilaterali tout court, che gli uni e gli
altri comprende e, per altro verso, sacrificandone la stessa valenza di catego-
ria ordinante capace di esprimere una disciplina comune, segnala, sin da su-
bito, il problema della disciplina loro applicabile.
Il diritto comune dei contratti, diviso tra regole espressamente congegna-
te sui contratti bilaterali di scambio e regole dichiaratamente pensate per i
contratti plurilaterali associativi, non può trovare una piana applicazione ai
contratti plurilaterali di scambio, che, quindi, si presentano in cerca di una
loro disciplina.
Le poche norme che pure il legislatore ha raccolto sotto la generale rubri-
ca « contratti plurilaterali » sono rivolte, infatti, ai soli contratti associativi,
trovando il loro tratto essenziale, idoneo a giustificarne la specialità, non sol-
tanto nella presenza di « più di due parti », quanto, piuttosto, nell’essere le
prestazioni di ciascuna parte dirette al conseguimento dello scopo comune.
Del resto anche il principio giuridico che esse anima, svolgimento sogget-
tivo del principio dell’invalidità parziale, in tanto si giustifica in quanto si
ponga mente non già alla semplice plurilateralità del contratto, bensì alla giu-
ridica posizione che ciascuna delle parti assume al suo interno.
Se è pur vero, infatti, che la presenza di una parte potrebbe caratteriz-
zarsi siccome essenziale nell’economia complessiva del divisato regolamento
di interessi, non è men vero che la partecipazione di altra potrebbe anche es-
sere non determinante.
Una disciplina che volesse prevedere la trasmissione dell’invalidità della
548 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

partecipazione di una all’intero contratto, mentre sarebbe giustificata nel pri-


mo caso, non potrebbe esserlo nel secondo, al pari di come, sul piano pura-
mente oggettivo, l’invalidità di una clausola o di una parte si ripercuote sul-
l’intero contratto soltanto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso
senza quella parte del suo contenuto che è colpita da invalidità.
L’esito di questa considerazione appare, invero, evidente: si deve negare
l’applicabilità della disciplina dettata per i contratti plurilaterali associativi ai
contratti plurilaterali di scambio, escludendo, perciò, che le regole dettate per
i primi possano trovare applicazione diretta o analogica ai secondi.
Se l’applicazione diretta risulta incompatibile sulla base della sola, ma
largamente sufficiente, diversità tra il caso regolato e quello considerato, cioè
per la rottura tra fatto e fattispecie, l’applicazione analogica, che pure potreb-
be postularsi in ragione dell’affermata lacuna (resa ancor più evidente dalla
negazione dell’applicazione diretta), è preclusa in conseguenza del difetto di
somiglianza rilevante.
Contratti plurilaterali associativi e contratti plurilaterali di scambio, infat-
ti, pur quantitativamente simili sotto il profilo strutturale, perché plurilaterali,
e, in questo senso, species di un genus più ampio, si scoprono, qualora la somi-
glianza venga vagliata (55) alla luce delle norme poste dagli artt. 1420, 1446,
1459, 1466 c.c., affatto diversi. Il profilo di disciplina che fonda la ratio (co-
munanza di scopo) delle regole della cui estensione si tratta convince che una
somiglianza tra gli uni e gli altri non può consapevolmente essere istituita.
Negata l’applicazione di queste norme — al contempo generali e speciali
—, le quali, pur disciplinando un limitato aspetto del contratto associativo, ci
sembrano, in quanto espressione di un principio generale, dotate di una forza
capace di una trasformazione isoentropica del sistema, la ricerca di disciplina
dei contratti plurilaterali di scambio deve orientarsi in altra direzione. I punti
cardinali sono qui offerti dal diritto comune dei contratti (56), il quale, espres-
samente pensato per i contratti bilaterali di scambio, richiede, in alcuni casi,
( 55 ) Sembra da preferire l’idea secondo la quale il concetto di somiglianza rilevante ai
fini dell’applicazione analogica sia in realtà un giudizio che, lungi dal volere verificare la
generica somiglianza tra caso regolato e caso non regolato, va piuttosto compiuto nell’oriz-
zonte euristico segnato proprio dalla ratio della norma che disciplina il caso regolato. Come
a dire che il giudizio di somiglianza analogica deve sempre essere un giudizio teleologica-
mente orientato dalla norma di riferimento. Con la conseguenza della massima relativizza-
zione, ma non per questo arbitrarietà o imprevedibilità, del giudizio. L’esito di una tale af-
fermazione è che un certo fatto potrebbe alternativamente doversi considerare ora simile
ora dissimile rispetto a un identico caso regolato dalla legge, nell’ipotesi in cui differenti
siano le norme giuridiche che quell’identico caso regolato mirino a disciplinare.
( 56 ) La formula si deve a G. Benedetti, La categoria generale del contratto, in questa
Rivista, 1991, I, pp. 649-687; e in Id., ll diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali
tra vivi aventi contenuto patrimoniale. Studi, Napoli 1991, p. 25 ss.; e in Lezioni di diritto
civile, Camerino-Napoli 1992; e in Il contratto. Silloge in onore di Giorgio Oppo, I, profili
generali, Padova 1992, p. 51 ss. (il saggio, integrato e arricchito di nuovi paragrafi, ora in
Id., ll diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimo-
niale, 2, Napoli 1997).
PARTE I - DOTTRINA 549

numerosi adattamenti, rivelandosi, in difetto, inadeguato a regolare i casi


concreti che, mano a mano, si profilano all’interprete.
Tutto ciò richiede una precisazione e un’avvertenza.
La precisazione: una tale ricostruzione non vizia né inficia la comune na-
tura (57) che, insieme, avvince contratti bilaterali, contratti plurilaterali e ne-
gozi unilaterali, la cui disciplina, perciò, merita di restare ed essere considera-
ta, sotto questo profilo, comune, dal momento che i richiamati arrangiamenti,
lungi dal generare gruppi di norme di contenuto identico (58), si limitano a ri-
tagliare, per ciascuno e nell’unità del comune diritto, meri statuti speciali di
disciplina di atti che conservano la medesima natura negoziale.
L’avvertenza: un’eventuale individuazione di una disciplina comune ai
contratti plurilaterali di scambio, la quale si possa raccogliere intorno a prin-
cipî generali, potrebbe, forse, aprire una breccia nell’arduo tentativo di rico-
noscere una categoria dei contratti plurilaterali di scambio.

6. — Aver affermato l’esistenza di contratti plurilaterali associativi e di


scambio e aver riconosciuto negli uni e negli altri, pur nel tratto generale del-
la plurilateralità, caratteristiche strutturali tanto diverse, nel mentre sembre-
rebbe suggerire l’impossibilità di ipotizzare l’esistenza di una disciplina co-
mune, così sacrificando la stessa categoria generale dei contratti plurilaterali
tour court, compromessa dall’esito disciplinare, impone, invece, di dover di-
versamente ricostruire le regole destinate a governare i contratti plurilaterali
con comunione di scopo e di scambio.
Questa ricostruzione sembra, infatti, dover compiersi secondo percorsi e
con esiti affatto diversi, capaci di generare per l’una e per l’altra classe di
contratti statuti disciplinari molto diversificati tra loro. Ciò che cambia, infat-
ti, non è soltanto il tessuto normativo di riferimento, ma soprattutto il metodo
o, meglio sarebbe dire, il percorso logico che il medesimo metodo impone di
seguire nella ricostruzione dell’uno e dell’altro.
La disciplina dei contratti plurilaterali sembrerebbe un territorio tutto da
esplorare.
A seconda della convergenza nello scopo o della divergenza di scopi, ossia
a seconda del loro essere associativi o di scambio, diversi dovranno essere i
percorsi esegetici e ricostruttivi dell’interprete. Il quale, pur dovendo sempre
muovere nella propria indagine dal rilievo fondamentale della multilateralità,

( 57 ) Solo l’identità di natura di questi atti, in quanto espressione dell’autonomia negozia-


le, giustifica la comunanza di disciplina, altrimenti riducibile a una mera estensione. Chiara-
mente G. Benedetti, La categoria generale del contratto, cit., pp. 649-687, e Id., ll diritto co-
mune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, 2, cit.
( 58 ) Il riferimento è alla posizione di N. Irti, Per una lettura dell’art. 1324 c.c., in questa
Rivista, 1994, I, pp. 559-566, il quale, negando l’identità di natura di contratti e atti unilate-
rali, al fine di escludere il rilievo, se non meramente storiografico, del negozio giuridico, attri-
buisce all’art. 1324 c.c. una forza capace di generare, per gli atti unilaterali, un distinto
gruppo di norme che, rispetto a quelle del contratto, mostrano solo un contenuto identico.
550 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

ossia dall’esistenza nel contratto di più di due centri d’interesse, dovrà aver
cura di tarare diversamente il rilievo della presenza di ciascuna parte. La
quale nel caso di contratti di scambio è sempre essenziale, mentre nel caso di
contratti associativi suscettibile di multiforme valutazione.
Nel caso di contratti plurilaterali associativi, bisognerà muovere dalle
quattro disposizioni di legge che, pur apparentemente dedicate ai contratti
plurilaterali, regolano, in verità, soltanto quelli associativi. Tali regole an-
dranno applicate in via immediata e diretta. La restante disciplina dovrà ri-
costruirsi accomodando il diritto comune dei contratti bilaterali di scambio.
Questo lavoro di adattamento andrà compiuto, per un verso, avendo
mente al principio espresso nelle quattro regole speciali, il quale, per la forza
entropica che gli è propria, può indurre significative variazioni ermeneutiche
e, per altro verso, tenendo conto della doppia specificità che contraddistingue
questa classe di contratti, ossia la loro plurilateralità e la comunione di scopo.
La disciplina comune è, dunque, esposta a un adattamento che corre su
un doppio binario e con esiti che dovranno essere, mano a mano, indagati e
sperimentati, perché possano consentire una solida tenuta sistematica.
Nel caso di contratti plurilaterali di scambio, invece, considerata l’inesi-
stenza di precise disposizioni di legge che li regolino e accertata l’impossibilità
logica e giuridica di applicare le norme che il legislatore detta per i contratti
plurilaterali associativi, si dovrà procedere a un continuo adattamento del di-
ritto comune dei contratti.
Il quale, poiché generalmente imbastito sul solo contratto bilaterale di
scambio, pretenderà, per risultare compatibile con questa classe di contratti,
più d’un intervento ortopedico. Nel compimento del quale bisognerà, sempre,
aver riguardo ai due tratti che caratterizzano questa classe di contratti: la
plurilateralità e l’essenzialità di ciascuna parte.
Non soltanto viene in considerazione la necessaria presenza di più di due
centri di interesse, ma soprattutto l’essenzialità di ciascuno, senza possibilità
di ipotizzare la resistenza del contratto in difetto della partecipazione anche
soltanto di una sola parte.
Ne deriva, perciò, che l’intero diritto comune dei contratti reclama di es-
sere ponderato, laddove esso vada applicato ai contratti plurilaterali di scam-
bio (59), la cui disciplina è, dunque, divisa tra regole ed eccezioni.

7. — La disciplina del procedimento (60) di formazione del contratto,


scrupolosamente cucita sul contratto bilaterale, costituisce, senz’altro, un ter-
ritorio eletto per verificare l’inadeguatezza di quelle norme.
( 59 ) Per un ripensamento e adattamento delle norme sull’invalidità, laddove vadano
applicate ai contratti plurilaterali di scambio, ci permettiamo di rinviare al nostro Profili ci-
vilistici del leveraged buy out, Milano 2003, cap. III, sez. I, par. n. 9.
( 60 ) Sull’utilizzo della categoria del procedimento in materia di conclusione del contrat-
to il rinvio è chiaramente a G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano
1969, passim, spec. p. 50 s.
PARTE I - DOTTRINA 551

Raccogliendo e ordinando soltanto talune riflessioni, senza giungere o an-


che solo sperare di giungere a risultati conclusivi o definitivi, i quali attendo-
no uno studio di diversa profondità, la materia dell’accordo costituisce esclu-
sivamente l’occasione per sperimentare, provvisoriamente, il metodo suggeri-
to per compiere quegli assestamenti che, soli, rendono possibile l’applicazione
di quelle regole ai contratti plurilaterali di scambio. Nei quali, come anticipa-
to, non si stringono, insieme, soltanto figure d’avanguardia, ma anche ipotesi
della più classica tradizione.
Nel caso di conclusione di una cessione di contratto o di una delegazione
di pagamento, qualora essa intervenga in difetto di una contestualità tempo-
rale e spaziale delle parti, ossia, come suole dirsi, inter absentes, la mera ap-
plicazione delle regole sulla formazione dell’accordo non consente di scioglie-
re i principali problemi connessi alla tematica del procedimento di formazio-
ne, ossia il se, il come, il dove e il quando il contratto sia stato concluso (61),
perché la multilateralità, rompendo l’ordinato ritmo binario sul quale giocano
quelle regole, le rende insufficienti alla soluzione dei problemi applicativi.
Ciò che ostacola la piana fruibilità di esse è la necessaria presenza di
più di due parti, a una delle quali dovrà competere il ruolo di proponen-
te (62), lasciando a tutte le altre quello di oblati.
( 61 ) Così, ampiamente G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, cit., passim;
e ora anche Id., La formazione del contratto e l’inizio di esecuzione. Dal codice civile ai
principi di diritto europeo dei contratti, in Europ. d. priv., 2005, p. 314.
( 62 ) Nel senso che qualunque soggetto può assumere l’iniziativa di avviare la trattativa
per la conclusione di un contratto, ma una volta accaduto ciò, per definizione, mentre quel-
la parte assume la veste formale di proponente, le altre, di necessità, dovranno assumere
quella di oblati. Questa considerazione, se da un lato né impone che il ruolo di proponente
sia assunto da una piuttosto che da un’altra parte, né impedisce che i ruoli originariamente
configurati possano, successivamente, mutare, a esempio per effetto di una controproposta
proveniente da uno degli oblati, che, perciò solo e a condizione che essa venga rivolta all’in-
dirizzo di tutte le parti, rende l’oblato controproponente il nuovo proponente e l’originario
proponente un nuovo oblato, dall’altro, chiarisce che da un punto di vista formale ci sarà
sempre un solo proponente. Anche nell’ipotesi in cui due soggetti contemporaneamente for-
mulino una proposta, ciascuno rimarrà proponente del rapporto negoziale che con la pro-
pria dichiarazione ha suggerito di concludere alle altre parti, sicché, nell’ipotesi, vi sarebbe-
ro, piuttosto, due distinte trattative, ognuna delle quali volta alla conclusione di un certo
contratto e ciascuna munita di un proprio proponente. Perché si possa immaginare che vi
siano due proponenti bisognerebbe ammettere, ma l’ipotesi davvero surreale e di scuola
può essere emarginata siccome non verificabile nella realtà concreta, che nello stesso istante
temporale due soggetti proponessero la conclusione di un medesimo e identico contratto.
Solo in questo caso i due soggetti assumerebbero, ciascuno, la veste formale di proponenti
del medesimo contratto. La difficoltà di una tale ipotesi dipende dalla duplice circostanza
richiesta: contestualità temporale e identità di contenuto. Il difetto anche di uno solo dei
due requisiti escluderebbe la ricorrenza dell’ipotesi. Così, in difetto della contestualità tem-
porale, foss’anche per la differenza di un solo istante, il soggetto che per primo ha formula-
to la propria dichiarazione sarebbe il proponente, mentre l’altro diventerebbe uno degli
oblati, che, per effetto della dichiarazione emessa (consonante, per definizione, alla prima
proposta) dovrebbe reputarsi accettante. Come a dire che la sua « proposta », poiché di
contenuto identico e quindi consonante con quella formulata dall’altra parte, anche un solo
552 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

Ma, proprio la presenza di più d’uno oblato, almeno per l’ipotesi in cui
costoro siano distanti l’uno dall’altro, amplifica il problema della conclusione
del contratto e rende le regole che fissano tempo e spazio di raggiungimento
dell’accordo spesso manchevoli.
Anche la regola primaria (63), posta nell’art. 1326 c.c., secondo la quale
il contratto è concluso nel momento e nel luogo in cui il proponente ha cono-
scenza dell’accettazione, non consente di definire quando e dove il contratto
plurilaterale di scambio sia concluso, avendo a che fare non già con una sola
accettazione, bensì con due o più accettazioni. Le quali, provenienti ciascuna
da parti diverse e indirizzate ciascuna al proponente e, probabilmente, cia-
scuna dovendo essere indirizzata anche all’altro oblato, possono giungere a
conoscenza del proponente ed eventualmente degli altri oblati in tempi e luo-
ghi diversi.
O ancóra, volendo discendere alla regola posta nell’art. 1327 c.c., essa la-
scia incerto, perfino, il problema del « se » il contratto possa considerarsi con-
cluso, almeno nel caso in cui il proponente, il quale abbia indirizzato la pro-
posta a due oblati, si ritrovi con un solo inizio di esecuzione e con il silenzio
dell’altra ovvero con due inizî di esecuzione collocati in diversi punti dello
spazio e del tempo.
O, e con un grado ancóra maggiore di complessità, si pensi al caso in cui
una parte indirizzi ad altre due una proposta diretta a concludere un contrat-
to, richiedendo a un oblato di accettare con una dichiarazione e all’altro di
dare inizio di esecuzione senza una preventiva risposta o, in termini simili, in-
dirizzi a due parti la proposta diretta a concludere un contratto che rispetto a
uno soltanto degli oblati si caratterizzi come contratto dal quale derivano ob-
bligazioni a carico del solo proponente, mentre imponga all’altro di assumere
specifiche obbligazioni.

istante prima, varrebbe, giuridicamente, quale « accettazione ». In difetto dell’identità di


contenuto, la quale potrebbe dipendere anche dalla differenza di un solo profilo contenuti-
stico del contratto medesimo (sia esso il corrispettivo, piuttosto che un termine o una condi-
zione o una modalità di esecuzione di una prestazione) le due proposte, proprio perché di
contenuto diverso, e quindi, volte ad avviare la trattativa diretta alla conclusione di due di-
stinti contratti, non avvierebbero insieme un medesimo iter procedimentale, bensì due di-
stinti e autonomi, tra loro, diversi procedimenti di formazione del contratto, promossi l’uno
e l’altro dalle due diverse parti. Sicché nell’ipotesi ciascun soggetto assumerebbe nel con-
tempo il ruolo di proponente in quanto autore della dichiarazione diretta alla conclusione
del contratto suggerito e di oblato con riguardo alla proposta rispettivamente formulata
dall’altro.
( 63 ) Deliberatamente si preferisce il vocabolo « primaria », al fine di evitare l’uso della
parola « generale ». La quale, evocando il rapporto di genere a specie, induce, contraria-
mente all’idea che ci pare da condividere per robustezza di impostazione e implicazioni me-
todologiche, nel convincimento che le norme sul procedimento di conclusione del contratto
vadano ordinate in rapporto di genere a specie o, addirittura, in rapporto di regola a ecce-
zione. Piuttosto ci pare che nessuna graduazione o relazione debba porsi tra le norme sul
procedimento di formazione del contratto. Il rinvio è allo studio di G. Benedetti, Dal con-
tratto al negozio unilaterale, cit.
PARTE I - DOTTRINA 553

Ne deriva che la plurilateralità non pone soltanto il problema nel caso in


cui le parti, tra loro assenti, utilizzino il medesimo procedimento di formazio-
ne del contratto, sia quello di proposta-accettazione, piuttosto che quello di
proposta-inizio esecuzione o altro ancóra, ma soprattutto nel caso in cui le
parti utilizzano, componendoli tra loro, più modelli procedimentali per la
conclusione di un unico e solo contratto.
In tale eventualità si dischiude non soltanto il problema dell’ammissibilità
di una concorrenza di diversi schemi procedimentali, volti alla conclusione di
un unico contratto, ma soprattutto, e nel presupposto che si reputi accettabile
una tale confluenza, il problema volto a definire il criterio per determinare se,
dove, come e quando il procedimento di formazione possa dirsi concluso.
Si tratterebbe di verificare se possa considerarsi esistente un modello che
debba reputarsi dominante e prevalente sugli altri, di modo da poter riguar-
dare le parti coinvolte secondo quello schema, o se, invece, non si debba tri-
butare rilievo decisivo, indipendentemente da quale che sia, all’ultimo atto
del procedimento. Considerando prevalente non un aprioristico procedimen-
to, ma quello al quale, di volta in volta, appartiene l’ultimo atto del comples-
sivo procedimento.
Nell’uno e nell’altro caso gli esiti sono opposti.
Appare, dunque, necessario riesaminare l’intero meccanismo di conclu-
sione del contratto, individuando quei correttivi che, nel garantire il consegui-
mento della giuridica consonanza (64) di decisioni di tutte le parti, consentano
di offrire una risposta plausibile, ma certa, ai problemi classici legati al tema
del procedimento di formazione del contratto avendo riguardo ai tratti quali-
ficanti la tipologia in esame: il ruolo necessario di tutte le parti, da un lato, e
il bisogno che tutte condividano il medesimo programma contrattuale, dal-
l’altro.
Definito istante e spazio di conclusione, bisognerà, poi, valutare, nell’otti-
ca procedimentale, il significato giuridico da assegnare ai diversi momenti nei
quali la plurilateralità spezza l’iter del procedimento di formazione, chiaren-
do quale efficacia possa o debba connettersi a quella porzione di atti e situa-
zioni giuridiche che, pur non serrando la sequenza, esprimono, comunque,
un’intesa raggiunta sul divisato regolamento da alcune soltanto delle parti.

( 64 ) Si insiste sulla giuridica consonanza di decisioni, proprio perché tutta la disciplina


giuridica e, in essa, quella del procedimento di formazione del contratto è caratterizzata da
una profonda artificialità, nella quale gli accadimenti del mondo reale possono, talvolta, as-
sumere un significato giuridico difforme da quello proprio naturalistico. Così possono darsi
casi nei quali pur in presenza di decisioni tra loro naturalisticamente incapaci di potere es-
sere considerate consonanti tra loro, esse, per contro, debbono essere considerate giuridica-
mente consonanti. E, a esempio, e nel presupposto che la norma operi sul piano della fatti-
specie e non già su quello degli effetti, il caso dell’inserzione automatica di clausole di cui
all’art. 1339 c.c. Per effetto di queste norme e in base alla supposta premessa, possono con-
siderarsi consonanti le decisioni di due parti l’una intenzionata a vendere un bene il cui
prezzo sia imposto dalla legge per un corrispettivo maggiore di quello stabilito e l’altra in-
tenzionata ad acquistare quel bene, ma al prezzo imposto dalla legge.
554 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

Stabilito ciò, risulteranno appianate anche altre questioni specifiche del


procedimento di formazione del contratto e a questa intrinsecamente con-
giunte.
Tanto è a dirsi per la revoca della proposta. La quale, essendo attuabile
fin tanto che il contratto non sia concluso, rinvia, di necessità, alla determina-
zione di quel momento il termine ultimo entro il quale la medesima è efficace.
Con la precisazione che, quand’anche dovesse ammettersi o sostenersi che un
qualche vincolo giuridico possa o debba discendere da atti intraprocedimen-
tali (65), nondimeno ciò non dovrebbe poter influire sul tempo di efficacia del-
la revoca (66).

( 65 ) Altro è l’affermazione di un vincolo, altro il riconoscimento che un atto intraproce-


dimentale in quanto tale è destinato a instaurare una situazione giuridica definita, la quale
costituisce presupposto indefettibile dell’atto o degli atti successivi. Mentre è innegabile che
ciascun atto intraprocedimentale in quanto si inserisce nella sequenza di atti e situazioni
giuridiche di cui consta il procedimento di formazione è destinato a produrre un proprio ef-
fetto, così come è innegabile che esso, proprio in quanto intraprocedimetale, è inidoneo a
produrre tanto l’effetto sostantivo quanto effetti preliminari all’effetto sostantivo del con-
tratto (così, chiaramente, G. Benedetti, op. ult. cit., spec. p. 56), è discutibile se atti proce-
dimentali, dai quali possa risultare che alcune delle parti abbiano già conseguito un’intesa
di massima, possano costituire un vincolo giuridico che, insieme, astringe le parti al futuro
contratto, quasi come se esso possa valere, tra essi e nei confronti delle altre parti, come at-
to con effetti simili a quello di una proposta ferma. Si tratterebbe, naturalmente, di effetti
simili, perché, in ogni caso, la fermezza non soltanto non potrebbe dipendere da posizioni
giuridiche soggettive ascrivibili al diritto potestativo-soggezione, avendo ammesso, per defi-
nizione, la piana revocabilità della proposta da parte del proponente, quand’anche costui
avesse raggiunto un’intesa parziale con alcune delle parti, né da posizioni giuridiche sogget-
tive ascrivibili al diritto relativo-obbligo, dal momento che abbiamo escluso, in ragione del-
la liceità della condotta consistente nella revoca della proposta, il diritto dell’altra parte a
un risarcimento in senso proprio, postulando, piuttosto il diritto a un indennizzo. Si tratte-
rebbe, piuttosto, di un vincolo con effetti meramente intraprocedimentali, il quale, determi-
nando l’affidamento di una parte nella serietà dell’impegno e nella conclusione dell’accor-
do, dà diritto alla parte che abbia incolpevolmente riposto tale affidamento, il diritto a es-
sere indennizzato per il pregiudizio subito in caso di interruzione della trattativa. Né tale
ultimo riferimento deve indurre ad assimilare questa ipotesi con quella descritta dall’art.
1337 c.c., la quale, fondandosi su un comportamento illecito, vuoi perché determina la vio-
lazione di un obbligo o la violazione di un mero dovere, dà luogo a un vero e proprio risar-
cimento, quand’anche il medesimo sia costruito sul c.d. interesse negativo.
( 66 ) Di opinione difforme R. Sacco, La formazione del contratto plurilaterale, cit., p.
274, secondo il quale l’accordo parziale vincola le parti tra le quali è intercorso, di guisa
che, tra esse, non sarebbe più plausibile la revoca: « E pertanto l’accettazione è irrevocabile
di fronte al proponente, e la proposta è irrevocabile di fronte all’accettante ». Tale irrevoca-
bilità, nella prospettiva suggerita dall’A., opererebbe solo tra le parti tra le quali è raggiun-
ta l’intesa parziale, ma non anche a beneficio degli oblati che non hanno accettato. Con la
conseguenza ulteriore che una tale irrevocabilità, nei rapporti interni, potrebbe essere sciol-
ta soltanto con un comune consenso delle parti interessate. La tesi dell’A., finisce, quindi,
col comprimere il potere di revoca dello stesso proponente, dal momento che costui, una
volta ricevuta l’accettazione anche solo di uno dei vari oblati, non potrebbe più revocare la
proposta, a meno di non ottenere il consenso dell’oblato che abbia accettato.
PARTE I - DOTTRINA 555

8. — Anche la disciplina sull’interpretazione del contratto non si sottrae


a difficoltà di adattamento, le quali si colgono tanto nell’applicazione della
norma primaria e principe, quanto in quella di talune di quelle regole che, se-
condo parte della dottrina, sono da considerare sull’interpretazione oggettiva.
Muoviamo proprio dalla norma principe, la quale, nell’attribuire rilevan-
za interpretativa al comportamento delle parti, schiude, nel caso di contratti
plurilaterali di scambio, ossia in contratti in cui possono darsi comportamenti
anteriori coevi o successivi alla sua stipulazione imputabili a due e non tre
parti o, addirittura, a una sola di esse, problemi di coordinamento e arrangia-
mento di notevole spessore (67).
Stipulato un contratto tra A, B e C, nell’interpretazione di esso il giurista
dovrà servirsi della comune intenzione (68), la quale potrebbe constare non
soltanto del comportamento di A, B e C, ma anche di quello di A e B, di A e
C, e di B e C o addirittura del solo comportamento di A o di B o di C.
Pluralità di parti significa pluralità di comportamenti, imputabili, volta a
volta, a tutte o a ciascuna di esse, sicché deve ragionarsi, per un verso, sul modo
con il quale sia possibile coniugare il comportamento di una o due parti con
quello delle altre e di raccoglierli tutti nell’unità e, per altro verso, sull’eventua-
lità di utilizzare il comportamento di due parti per intendere il significato di
clausole idonee a governare i rapporti tra parti diverse (o parzialmente diverse)
da quelle autrici dei comportamenti. Per esempio: il significato della clausola
Z, il cui precetto (69) riguarda A e B, mediante il comportamento di B e C.
( 67 ) Per un’analisi del problema e per una soluzione si rinvia al nostro Profili civilistici
del leveraged buyout, cit., spec. cap. III, sez. 2.
( 68 ) Resta chiaro che il discorso che stiamo svolgendo presuppone l’accoglimento di
quell’impostazione metodologica — in linea di rottura con la tradizione — secondo la quale
la comune intenzione non rappresenterebbe il fine dell’attività interpretativa, ma semplice-
mente un mezzo, uno strumento con il quale l’interprete può scegliere il significato del testo
e sciogliere, così, la polisemia di esso, riducendola a monosemia. Così, N. Irti, Testo e con-
testo, cit. Qualora, invece, movendosi secondo l’impostazione più classica, la comune inten-
zione si considerasse il fine dell’interpretazione, allora il discorso non avrebbe neppure ra-
gione di porsi.
( 69 ) Sul significato di clausola e precetto si vedano gli interessanti spunti di C. Grasset-
ti, voce Clausola del negozio, in Enc. dir., VII, Milano 1960, p. 184 ss.; M. Casella, Nullità
parziale del contratto e inserzione automatica di clausole, Milano 1974. M. Tamponi, Con-
tributo, cit., p. 136 ss., precisa che la parola « clausola » non è utilizzata dal nostro legisla-
tore sempre con il medesimo significato, sicché essa non è univoca. « Così, dire che la
“clausola” è una “porzione” di atto giuridico che costituisce un’unità, o meglio un’entità, in
sé e per sé considerata, significa offrire una definizione priva di qualsiasi utilità pratica, e
per giunta fondata sull’erroneo presupposto della divisibilità materiale dell’atto in “frazio-
ni” o “sezioni” logiche. È più proficuo, a nostro credere, limitarsi a render conto dei signifi-
cati che il vocabolo assume con maggiore frequenza, per poi illustrare in che senso va inteso
nell’art. 1419 c.c. ». Clausola può significare diverse cose: clausola-proposizione: proposi-
zione in senso sintattico di cui consta il contratto (art. 1363 c.c.); clausola-precetto: precet-
to negoziale autonomo (artt. 1367, 1368, 1370, 1339, 1342, 1679, 1932, 2077 c.c.).
« Quanto abbiamo riferito consente di avvertire agevolmente la differenza tra clausola-pre-
cetto e clausola-proposizione: quella sta a questa come la disposizione legislativa sta all’ar-
556 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

E, nel mentre in linea di prima approssimazione si potrebbe essere indot-


ti a escludere la rilevanza di tali comportamenti, sulla base della semplicistica
considerazione che ciò che non le riguardi tutte non può essere comune (70), e
così omologare il contratto plurilaterale di scambio a quello bilaterale di
scambio, perché nell’uno e nell’altro soltanto i comportamenti imputabili a
tutte le parti dovrebbero considerarsi rilevanti, potrebbe anche seguirsi un
cammino distinto e pervenire ad una conclusione opposta e antitetica.
La disposizione dell’art. 1362 c.c., infatti, mantiene distinti due profili,
che la dottrina tradizionale tende a mescolare insieme: da un lato, l’intenzio-
ne delle parti e, dall’altro, il loro comportamento. Soltanto la prima deve es-
sere comune, mentre il secondo, complessivo; l’ultimo deve essere valutato,
mentre la prima determinata.
Il rapporto tra l’uno e l’altro è di derivazione logica, cronologica e teleo-
logica: la comune intenzione delle parti si ricava dal loro comportamento
complessivo. La prima esiste dopo e all’interno del secondo, il quale serve per
attingere la comune intenzione, imponendo di vagliare alcune delle innumere-
voli condotte anteriori, coeve o successive alla conclusione del contratto.
Se poi si considera che il comportamento, in quanto « manifestazione
esteriore direttamente osservabile », non può essere, insieme, di due soggetti,
ma soltanto di uno (71), dal momento che non esiste in rerum natura un com-

ticolo di legge; se esistono articoli che contengono più norme formulate dal legislatore, così
esistono proposizioni che contengono più “precetti”; e viceversa, come una norma può co-
stituire la risultante di più articoli di legge, di cui taluno abbia la mera funzione esplicatrice
o chiarificatrice, così il “precetto” può risultare da più proposizioni formulate dalla parti:
proposizioni che, prese singolarmente, non esprimerebbero una compiuta volontà degli au-
tori del negozio ». Non diversamente M. Confortini, Clausola, in Aa.Vv., Dizionario del-
l’arbitrato, Torino 1997. Secondo tale impostazione la clausola indica la formula linguisti-
ca, se vogliamo, con terminologia tolta dalle pagine di Betti, la forma rappresentativa, men-
tre il precetto il significato attribuito ad un frammento o ad una o più clausole, le quali sia-
no capaci di esprimere una regola.
( 70 ) In tale senso è orientata la dottrina, la quale, esplicitamente o implicitamente, re-
puta rilevanti soltanto i comportamenti imputabili a più parti, o, addirittura, con riguardo
al comportamento successivo alla conclusione del contratto, soltanto quello « concordemen-
te posto in essere dalle parti nel quadro dell’esecuzione del programma negoziale ». Così,
ad esempio, C. Scognamiglio, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Pado-
va 1992, p. 323.
( 71 ) Si può dare il caso che due soggetti pongano in essere uno stesso comportamento o
comportamenti tra loro conformi, ma ciò non significa che il comportamento sia uno. I
comportamenti restano due identici tra loro o convergenti. Così, il fatto che Tizio e Caio ac-
cettino la proposta di Mevio, ovvero che Tizio e Caio passino sul fondo di proprietà di Me-
vio, non significa che esiste un solo comportamento di Tizio e Caio, bensì due diversi com-
portamenti. La circostanza che l’oggetto della condotta sia il medesimo non può indurre a
reputarli un medesimo comportamento. Perché ontologicamente rimarranno, comunque,
due comportamenti diversi: quello di Tizio che accetta la proposta di Mevio e quello di Caio
che accetta la proposta di Mevio; quello di Tizio che accetta la proposta di Mevio e quello di
Caio che accetta la proposta di Mevio. Per maggiori approfondimenti, sia consentito di rin-
viare al nostro Profili civilistici del leveraged buy out, cit., cap. III, sez. II, spec. par. 3 e 4.
PARTE I - DOTTRINA 557

portamento che sia riferibile a più persone, ci si potrebbe sentir autorizzati ad


affermare la rilevanza, nell’interpretazione del contratto plurilaterale di
scambio, del comportamento di alcune parti. E si potrebbe, perfino, ammet-
terne la rilevanza anche per l’interpretazione di clausole il cui precetto è de-
stinato a regolare rapporti tra parti parzialmente diverse da quelle autrici dei
comportamenti.
I contegni complessivi che l’interprete deve valutare al fine di determina-
re la comune intenzione non sarebbero soltanto quelli tenuti da tutte le parti
insieme, ma quelli capaci di esprimere la comune intenzione, quand’anche
posti in essere da una o da alcune delle parti.
Ne deriverebbe che la stessa norma principe in tema d’interpretazione,
ove applicata ai contratti plurilaterali di scambio, imponendo di valutare i
comportamenti di più di due parti per raccoglierli nell’unità, reclamerebbe
accomodamenti assai importanti e tali da generare esiti applicativi di rag-
guardevole spicco.
Trascorrendo a norme più specifiche, non possono tacersi i dubbî che sol-
levano le norme di cui al comma 2o dell’art. 1368 c.c. e all’art. 1370 c.c.
Muoviamo dalla prima.
L’interpretazione di un contratto concluso da tre parti, due delle quali
imprenditori, la cui sede di ciascuna sia dislocata in diversi punti dello spazio,
apre, con riguardo all’interpretazione di una clausola ambigua, il dilemma
della prevalenza della pratica generale seguìta nel luogo in cui ha sede l’im-
presa dell’una o dell’altra parte, soprattutto qualora le pratiche dei due diver-
si luoghi siano tra loro difformi.
Così, dato il contratto tra A, B e C, qualora fosse ambigua la clausola Z,
il solo richiamo alle pratiche generali commerciali non sarebbe da solo baste-
vole a sciogliere il problema, almeno fin quando non si stabilisca, nell’antago-
nismo di pratiche commerciali diverse, a quale debba darsi preponderanza.
Al punto che potrebbe anche discutersi, in difetto di un criterio di preva-
lenza, della stessa applicabilità della norma. Con il paradossale risultato che
la clausola ambigua non possa essere interpretata né secondo le pratiche ge-
nerali del luogo in cui ha sede la prima impresa, né secondo le pratiche gene-
rali del luogo in cui ha sede la seconda impresa. Ciò con pari svantaggio di
entrambe le parti imprenditrici, che non godrebbero dell’interpretazione della
clausola in conformità alle pratiche del luogo in cui ha sede l’impresa, con
patente disparità di trattamento rispetto all’ipotesi di contratto bilaterale, in
cui la parte non imprenditrice subisce, sempre, l’interpretazione conforme al-
le pratiche generali del luogo in cui ha sede l’impresa dell’altra sola parte.
Considerazioni non dissimili valgono anche per la norma sulla c.d. inter-
pretatio contra proferentem, la quale, con riguardo ai contratti plurilaterali,
ha una portata applicativa di non breve momento, se solo si riflette sulla co-
stante diffusione di moduli e formulari utilizzati nella stipulazione di contratti
di leasing o, in materia bancaria, di delegazione di pagamento.
In queste ipotesi, in caso di dubbio sull’interpretazione di una clausola,
558 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

che possa intendersi in due distinti modi, ciascuno dei quali più favorevole al-
l’una o all’altra delle parti che hanno aderito, non è agevole trovare una solu-
zione.
Rimane dubbio, infatti, quale delle due interpretazioni debba essere pri-
vilegiata, se quella più favorevole per la parte B o quella più favorevole per la
parte C, atteso che sia B che C non hanno confezionato il contenuto del con-
tratto, unilateralmente predisposto dalla parte A.
Il problema potrebbe ulteriormente complicarsi qualora il dubbio riguar-
dasse una clausola, il cui precetto, pur essendo atto a regolare un rapporto tra
A e B, risulti suscettibile di più d’una interpretazione, entrambe indifferenti
per A o B, ma non per C, per il quale una delle due si mostrerebbe più favore-
vole. Sarebbe dubbio se possa o debba preferirsi il significato più favorevole
alla parte che, pur non essendo direttamente riguardata dal precetto, possa,
nell’economia complessiva del rapporto contrattuale, essere favorita da quel-
l’interpretazione.
Sicché, anche in questo caso, dovrebbe discutersi sull’esistenza di un crite-
rio di prevalenza, per stabilire quale delle eventuali concorrenti interpretazioni
più favorevoli vada preferita, o, eventualmente, in difetto dell’esistenza di un
tale criterio, ci si dovrebbe interrogare sulla stessa applicabilità della norma.
Ciò con il patente svantaggio di una o di entrambe le parti che hanno
aderito.
Se si preferisse, infatti, l’interpretazione più vantaggiosa all’una o all’al-
tra, nondimeno una di esse subirebbe un’interpretazione a sé « non più favo-
revole »; ove, poi, si negasse la stessa applicabilità della norma, entrambe sof-
frirebbero la compressione della posizione di vantaggio loro riconosciuta dallo
stesso legislatore.
Ciò, ancóra una volta, configurerebbe un’evidente disparità di trattamen-
to rispetto al caso dei contratti bilaterali di scambio, in cui la parte che non
abbia predisposto le clausole gode sempre del regime interpretativo a sé più
favorevole.

9. — Non meno problematico appare l’adattamento della disciplina dei


vizî della volontà.
Tutte le norme in parola — espressione di una concezione oggettiva che,
pur non disconoscendo il ruolo del consenso, non di meno piega questo al
principio dell’affidamento dell’altra parte — necessitano di più d’un ripensa-
mento, dal momento che il rapporto, cessando di insistere tra due parti, si
svolge tra tre o più parti, una sola della quale può essere incorsa nel vizio.
In tema di errore il problema è legato al carattere della sua riconoscibili-
tà.
Dato il contratto intercorso tra A, B e C, qualora la sola parte A sia incor-
sa in errore, ma l’errore di essa sia stato riconosciuto soltanto da B e non an-
che da C, si tratta di stabilire se debba ugualmente farsi luogo ad annulla-
mento.
PARTE I - DOTTRINA 559

In questa ipotesi, l’equilibrato contemperamento di interessi che il legi-


slatore era riuscito a istituire nella logica del contratto bilaterale non trova
corrispondenza in quello plurilaterale di scambio.
Premesso che la presenza di tutte le parti è necessaria nel contratto pluri-
laterale di scambio, non è facile stabilire se debba attribuirsi o negarsi rile-
vanza all’errore di una parte, quando questo sia riconosciuto soltanto da una
delle controparti.
L’attribuzione di rilevanza all’errore, mentre sarebbe coerente nel rap-
porto tra parte incorsa in errore e parte che abbia riconosciuto l’errore, non
potrebbe esserlo nel rapporto tra parte incorsa in errore e parte che non abbia
riconosciuto né avrebbe potuto riconoscere l’errore.
E poiché, stante il carattere necessario di tutte le parti, non può rompersi
l’unità del vincolo, l’interesse di una parte dovrà necessariamente essere sacri-
ficato.
Sicché al giurista è lasciato di stabilire se sacrificare l’interesse della par-
te incorsa nell’errore riconosciuto da una sola controparte o l’interesse della
controparte che non ha riconosciuto né avrebbe potuto riconoscere l’errore.
Considerazioni non dissimili valgono anche per la disciplina del dolo,
sempre per il caso in cui vi sia una parte del contratto plurilaterale di scam-
bio che né avverte né subisce l’induzione in errore.
Nell’ipotesi in cui una parte induca un’altra in errore, senza che la terza
si sia resa conto dell’induzione in errore, quand’anche ne abbia tratto vantag-
gio, è arduo stabilire se debba sacrificarsi l’interesse della parte che subisce il
dolo o quello della parte che, senza sapere di esso, abbia confidato nel con-
tratto.
La soluzione è ancor più complessa se si pensa alla norma di cui al com-
ma 2o dell’art. 1439 c.c., la quale considera rilevanti anche i raggiri usati dal
terzo nell’ipotesi in cui essi erano noti al contraente che ne ha tratto beneficio.
Le sole regole intorno al dolo come quelle sull’errore non sembrano a tale
riguardo sufficienti in difetto del ritrovamento di un principio più generale. Il
conflitto strutturale tra questi contrapposti interessi pare dunque di impossi-
bile soluzione perché tutte queste norme, essendo costruite sul contratto bila-
terale, che vede antitetici il soggetto caduto in errore o indotto in errore e l’al-
tro, diventano incompatibili, anche in termini analogici, con il caso in cui la
contrapposizione si ponga tra più di due parti, una delle quali risulti total-
mente estranea alla vicenda costitutiva del vizio del consenso.
La soluzione dovrà, quindi, riposare altrove: in un principio generale che,
in linea di prima approssimazione e nella consapevolezza del diverso appro-
fondimento che esso merita, potrebbe, forse, rintracciarsi proprio nella dispo-
sizione di cui all’art. 1446 c.c. L’interpretazione a contrario della quale, in
uno con la premessa in ordine alla necessaria presenza di tutte le parti, po-
trebbe indurre il convincimento che l’interesse da sacrificare sia proprio quel-
lo del terzo estraneo alla vicenda costitutiva del vizio, al quale residuerebbe
l’esercizio dell’azione di responsabilità civile e di responsabilità precontrat-
560 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2010

tuale per il danno, eventualmente patito, per aver confidato sulla validità del
contratto.
Diverso è il discorso in tema di violenza.
Essendo rilevante nel contratto bilaterale di scambio anche se esercitata
da un terzo, dovrebbe risultare determinante anche nel contratto plurilaterale
di scambio, quand’anche una delle parti non si sia resa conto che l’altra ave-
va esercitato violenza nei riguardi dell’altra ancóra.
L’interesse da sacrificare, come nel caso del contratto bilaterale di scam-
bio, sembra dover essere sempre quello della parte che non subisce la violen-
za, quand’anche non ne sia autrice, in conformità, del resto, con un principio
più generale di ordine pubblico sul quale la stessa disciplina della violenza
sembra essere costruita.

10. — Le tre ipotesi indagate, sulle quali abbiamo improvvisato qualche


iniziale riflessione, nel mentre comprovano, senza tema di smentita, che i
contratti plurilaterali di scambio reclamano importanti e significativi adatta-
menti della disciplina generale sul contratto, dall’altro potrebbero porsi quali
prolegomeni a un ben più importante e significativo risultato sistematico.
Perché ove, con ben diversa profondità, si riuscisse a dimostrare, per codesta
classe di contratti, l’esistenza di una disciplina comune, sistematicamente or-
dinata intorno a un principio condiviso, i contratti plurilaterali di scambio
potrebbero aspirare a esser non già una mera sintesi descrittiva, bensì una ve-
ra e propria categoria.
Le norme della disciplina di diritto comune, quando risultino non soltan-
to dettate per il contratto bilaterale di scambio ma anche analiticamente co-
struite nella logica della bilaterale contrapposizione di due interessi, si profi-
lano incapaci di regolare il contratto plurilaterale di scambio, nel quale più di
due parti, ciascuna con le proprie ragioni e i proprî interessi, si fronteggiano
l’un l’altre.
I settori disciplinari in cui la dialettica binaria è, insieme, elemento di
tecnica di costruzione della fattispecie e criterio di composizione degli interes-
si contrapposti, sono quelli che recriminano un ripensamento. Il quale, secon-
do il metodo che ci è sembrato di poter suggerire, potrebbe consentire la solu-
zione dei problemi applicativi evocati.
In difetto si apre una sola alternativa: affidarsi a un’episodica soluzione
del caso concreto, di là della considerazione di princìpî e problemi proprî di
un’intera classe, ovvero tentare la scomposizione del contratto plurilaterale di
scambio in una pluralità di contratti bilaterali di scambio tra loro collegati.
Alternativa con esiti, entrambi, precarî e insoddisfacenti.
Il primo, perché non sfrutta le potenzialità della figura e finisce con
l’ignorarne l’utilità, tutta riposante nell’individuazione dei princìpî regolatori
del proprio statuto disciplinare; il secondo, perché inganna l’ostacolo discipli-
nare, violando il principio dell’autonomia privata e le regole sull’interpreta-
zione e la qualificazione, scomponendo un’unita contrattuale in una pluralità,
PARTE I - DOTTRINA 561

spesso, anche incapace di cogliere e svolgere la complessa trama delle vicende


di rapporti giuridici correnti tra le parti (72).
Il disagio normativo nel quale versano i contratti plurilaterali di scambio
impone, dunque, una vigile riflessione sul loro statuto disciplinare.
Sperimentando la tecnica dell’analogia e operando con criteri d’interpre-
tazione ora restrittivi, ora estensivi, le norme indissolubilmente legate al con-
tratto bilaterale di scambio dovranno essere ortopedicamente riordinate, al
solo fine di renderle idonee a regolare la classe individuata. Alla quale, ove
l’esito dell’indagine sospingesse verso un risultato sistematico positivamente
apprezzabile, non potrebbe essere negata la dignità di vera categoria giuridi-
ca.

( 72 ) Sia consentito rinviare, in ordine al problema della connessione dei negozî, al colle-
gamento contrattuale e al criterio distintivo tra unità e pluralità di contratti, al nostro La
connessione dei negozi e il collegamento contrattuale, cit., p. 51 ss.

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