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Angoli Di Roma. Guida Inconsueta Alla Città PDF
Angoli Di Roma. Guida Inconsueta Alla Città PDF
Robinson / Letture
Andrea Carandini
Angoli di Roma
Guida inconsueta alla città antica
Editori Laterza
© 2016, Gius. Laterza & Figli
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per chiedere la debita autorizzazione.
In volo e in picchiata
1. Le capanne di Romolo e di Marte con Ops (Fig. 1)
2. Dove dormivano le vestali? (Fig. 2)
3. La casa dei re-auguri (Fig. 3)
4. Il culto dei Lari (Fig. 4)
5. Le case del re dei sacrifici e di Tarquinio Prisco (Fig. 5)
6. La casa dei re-tiranni e poi del pontefice massimo (Fig. 6)
7. Porta Mugonia, Remo ucciso, Tito Tazio respinto, adulti sacrificati (Fig. 7)
8. Ingrandirsi invadendo case altrui (Fig. 8)
9. Due templa del divo Augusto, a due angoli del Palatino (Fig. 9)
10. Abitare dove Roma è nata (Figg. 10 e 11)
11. Rilievi, quasi fotografie (Figg. 12 e 13)
12. Stanze per liberti e schiavi e balconata sul Circo (Fig. 14)
13. Il quartiere più chic del Palatino (Figg. 15 e 16)
14. La casa di Cicerone (Figg. 15 e 16)
15. Avere una basilica in casa (Fig. 17)
16. La casa di Caligola, presso la quale è stato ucciso (Fig. 18)
17. Dove abitava il bibliotecario di Domiziano? (Fig. 19, A)
18. Grandi aule e parte intima della domus Augustiana (Fig. 19, B)
19. Per due Augusti, un ippodromo ciascuno (Fig. 20)
20. Grandissime corti porticate (Fig. 21)
21. Saloni da pranzo della domus Aurea (Fig. 22)
22. Biblioteche con auditoria (Fig. 23)
23. La Velia, dove era? (Fig. 24)
24. Giove Statore, prima e dopo l’incendio (Figg. 25 e 26)
25. Il prefetto alla città: casa e bottega (Fig. 24)
26. Case a confronto, nel tempo lontane (Fig. 27)
27. La tomba di un fornaio (Fig. 28)
28. Templi ritrovati (Fig. 29)
29. Il maggiore tempio di Roma e dell’Impero (Fig. 30)
30. Banchine sul Tevere (Fig. 31)
31. Vivere in appartamenti (Fig. 32)
32. Dove la plebe riceveva il grano (Fig. 33)
33. Curia di Pompeo, Cesare trucidato (Fig. 34)
34. Dai comizi centuriati agli spettacoli di Caligola (Fig. 35)
35. Teatro di Marcello, come nuovo (Fig. 36)
36. L’ara Pacis e il suo ligneo recinto (Fig. 37)
37. I mausolei di Augusto e di Adriano (Fig. 38)
38. La nave di Enea e il suo ricovero (Fig. 39)
39. Il Pantheon di Augusto ricostruito da Adriano (Fig. 40)
40. Pire dei principi, altari dei divi (Fig. 41)
41. Stalle per cavalli del Circo (Fig. 42)
42. Abitare d’estate al fresco (Fig. 43)
43. Suites di sale (Figg. 10, 14, 17, 20, 22 e 26)
44. Giardini in forma di teatro e d’ippodromo (Fig. 44)
45. Saloni da pranzo, con séparés (Fig. 45)
46. L’archivio di casa (Fig. 46)
47. Edifici disegnati, infine ricostruiti (Figg. 25 e 47)
48. Elevati elevatissimi (Fig. 48)
49. Rilievi entro pareti decorate (Fig. 49)
50. Capolavori che ritrovano il contesto (Figg. 50 e 51)
51. Roma misurata e smisurata (Fig. 52)
Illustrazioni
Referenze iconografiche
Breve glossario dei termini latini
Riferimenti bibliografici
In volo e in picchiata
1 G. Urbani, La scienza e l’arte della conservazione dei beni culturali, 1981, in «Ricerche di Storia
dell’arte», 16, 1982; Id., Intorno al restauro, Skira, Milano 2000, pp. 43-48.
2 Adelphi, Milano 2015.
1.
Le capanne di Romolo e di Marte
con Ops
(FIG. 1)
Intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., sul versante opposto del Palatino rivolto
al monte Velia, ai limiti di un bosco inviolabile che si trovava tra il murus e le
pietre del promoerium, è stata ricavata una radura, o lucus, che è stata consacrata
a Vesta, la dea del fuoco pubblico di Roma.
Dell’aedes più antica di Vesta, presumibilmente una capanna circolare, nulla
resta, essendo stata distrutta, insieme alle sue fasi successive, dall’opera
cementizia di quel luogo di culto databile agli inizi del I secolo a.C. Ma
davanti a dove era sorta la capanna sacra alla dea è stata rinvenuta la prima casa
o capanna delle vestali, databile intorno al 750 a.C. È dunque nell’epoca di
Romolo che il culto del fuoco pubblico è stato istituito ed è stato affidato a
nuove sacerdotesse chiamate vestales, completando così, in modo greco, la
fondazione latino-etrusca della città-stato. Infatti le città greche nascevano
quando il primo fuoco veniva acceso nel focolare di Hestia, dea equivalente a
Vesta, di cui i Romani potrebbero aver appreso l’esistenza tramite la più
occidentale e più antica delle colonie greche di Occidente: Cuma, che in linea
d’aria distava da Roma solo 175 chilometri.
I culti legati al fuoco di Vesta e di Volcanus hanno segnato fin dall’origine i
limiti del Foro Romano. Come ai rioni federati dei Quirites Romolo ha
aggiunto il Palatino inaugurato, così al Palatino inaugurato Romolo e il sabino
Tito Tazio, regnanti insieme, hanno aggiunto il centro sacrale e politico della
città-stato accolto nel Foro, sull’Arce e sul Campidoglio. Si trattava di un
distretto neutrale, esterno tanto ai rioni dei Quirites che all’urbs Roma, adatto a
essere considerato come un luogo comune a tutti. È in esso che è stato
istituito il culto di Vesta, entro un lembo sottratto al Palatino, esterno al murus
e al promoerium dell’Urbs.
La capanna delle vestali era rettangolare, con estensione della falda del tetto a
meridione, in corrispondenza della porta, retto da stipiti e fiancheggiato da
pali. Dentro la capanna erano altri due pali per sostenere la copertura fatta di
strame di paglia (come i thatched roofs ancora usati in Inghilterra). Al centro
della capanna era una fossa scavata in terra, di forma ovale, coperta
probabilmente da tavole: era la dispensa o penus delle vestali. Verso il fondo
della capanna era il focolare, il cui fumo fuoriusciva da due aperture poste alle
sue estremità della copertura straminea. Dietro il focus e ai lati del penus vi era
posto per i sei giacigli riservati alle sei sacerdotesse.
Anche la capanna circolare dell’aedes Vestae doveva avere, dietro al focus, un
penus, dove erano conservati, non già le cibarie, ma i talismani della città-stato,
come il divino fallo o fascinus, probabilmente sacro a Mars, il dio della
fecondazione e della primavera che a martius (marzo) entrava in azione.
Conosciamo questo penus solo in una versione tarda, che si data tra il 60 a.C. e
il 64 d.C. È un pertugio stretto (m 2,30 x 2,50) e profondo (m 2,25-2,94, a
seconda dei periodi), nel quale si penetrava probabilmente tramite una scaletta
di legno.
Vicino al lucus, oltre il vicus Vestae, in un terreno appartenente probabilmente
anch’esso alle vestali, era in questo tempo una dozzina di capannette per
attrezzi, cibarie e animali domestici. Tra queste capannette e il Foro, allora in
allestimento, poteva trovarsi la casa del flamen Quirinalis, il sommo sacerdote di
Quirinus, il dio locale dei rioni o curiae e dei Quirites, venerato sul collis
Quirinalis (si veda l’Angolo 28).
Nel VII secolo a.C. le vestali abitavano probabilmente già in una prima domus,
di cui conosciamo l’ingombro ma non i dettagli, assai mal conservati. Dal 530
a.C. circa le sacerdotesse disponevano di una domus più ampia e meglio
costruita, disposta su tre lati della corte dell’aedes Vestae. È probabile che lungo
il lato meridionale della domus si trovassero, fin da ora, i sei cubicula delle
vestali, aperti probabilmente su una corte piccola e interna (come avverrà più
tardi). Questo impianto in seguito sarà variato ma non alterato, fino alla domus
a “L” che delimitava su due lati la corte dell’aedes attestata dalla metà del II
secolo a.C. Nella parte orientale di questa casa erano stanzette che fanno
pensare a magazzini e ad ambienti di servizio, mentre nella parte meridionale
erano i sei cubicula delle sacerdotesse, aperti su un cortiletto a loro riservato.
Per la fase giulio-claudia conosciamo anche i mosaici di queste camerelle.
Dopo l’incendio del 64 d.C. la domus viene trasformata in un nuovo atrium
Vestae, riorientato, ristrutturato e ampliato, gravitante intorno a un grande
giardino porticato o peristylium (fig. 2b). Nella fase tra il 64 e il 96 d.C., lungo
il lato meridionale della dimora, era un sontuoso insieme di tre sale, che
ricorda quello della casa privata già di Ortensio e poi di Ottaviano (si veda
l’Angolo 10). Lungo il lato nord della casa erano probabilmente le stanze di
servizio, mentre lungo quello est, ai lati di una sala centrale o oecus, erano sei
coppie di stanzette composte da una anticamera e da un cubicum. Erano le
camere delle vestali. Dietro i cubicula e separato dalla casa era un magazzino o
horreum, che per la posizione sembra rientrare nella proprietà delle vestali.
Con Traiano la dimora viene estesa ulteriormente a est, obliterando l’horreum
e spostando, per l’ultima volta, ciò che restava del clivo Palatino A, che era
stato fino a Nerone la strada più importante che portava al Cermalus. Il lato est
del complesso viene ora occupato da un grandioso oecus, splendidamente
pavimentato con tarsie marmoree (opus sectile) e circondato su due lati da sei
nuovi cubicula delle sacerdotesse. Al primo piano un misterioso ambiente di
servizio, lungo e stretto e aperto sul clivo Palatino A, aveva una finestra che
dava sul grande oedus. Veniva forse usato per calare materiali necessari alla vita
e ai riti delle vestali, senza dover entrare nell’atrium.
Nel IV secolo d.C., al centro del peristylium, viene edificato un elegante
padiglione ottagonale. L’ingresso aveva di fronte una nicchia – per un
nymphaeum? –, mentre sui lati erano, ancora una volta, sei cubicula, disposti
questa volta intorno a una sala rotonda, probabilmente una cenatio o sala da
pranzo. Si trattava probabilmente di un complesso per banchettare e riposare
al fresco d’estate.
Abbiamo seguito, seppure in breve, il diverso modo di vivere delle
sacerdotesse nel corso di 1150 anni, durante i quali il fuoco di Roma è stato
costantemente spento e riacceso il 1° marzo e alimentato nel corso dell’anno.
L’aedes Vestae aveva davanti un altare ed è da esso che padri di famiglia e
sacerdoti traevano il fuoco per i riti sacrificali domestici e per quelli rionali e
pubblici.
Nel 394 d.C. il fuoco di Vesta è stato spento per disposizione imperiale e
così il politeismo romano ha avuto in Roma la sua fine. Dal pluralismo
pagano si è passati al monismo cristiano, da una religione comunitaria a una
religione che credeva nell’uguaglianza morale di tutti gli uomini e nella
salvezza individuale. Un funzionario dei palazzi imperiali, addetto
probabilmente alla vicina domus Tiberiana (fig. 20), era stato allora accolto
nell’atrium Vestae, destinato oramai a un uso profano.
Atlas, tavv. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 14, 15, 23, 44. – Arvanitis 2010. – Arvanitis c.s.(a).
– Bossi c.s. – Carandini 2015. – Carandini, Carafa, Filippi, D’Alessio c.s.
3.
La casa dei re-auguri
(FIG. 3)
Nel settore orientale del lucus Vestae era un lotto riservato alla domus dei re-
auguri latino-sabini: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio e Anco Marcio.
Benché eretta in tecnica capannicola, essa ha l’aspetto di una prima dimora
aristocratica.
Sotto la grande sala posta al centro della domus è stata rinvenuta una
precedente piccola capanna rettangolare che aveva davanti a sé altre tracce di
pali. Si trattava di una taberna o meglio di un tabernaculum: la capannetta
provvisoria che il re-augure erigeva davanti allo spazio rettangolare (templum),
segnato dalle altre tracce di pali, necessario osservatorio per interpretare i segni
provenienti dal cielo, come i tuoni. Immaginiamo il re seduto sul trono
(solium) posto davanti alla porta e sotto il tettuccio o “protiro” che la
proteggeva. Si trattava in questo caso, probabilmente, di un augurium stativum,
volto cioè a ottenere l’autorizzazione divina per stabilire in quel luogo la domus
Regia e forse anche lo stesso lucus Vestae che la accoglieva. Secondo la
leggenda, la volontà favorevole di Giove si sarebbe manifestata con fulmini e
con uno scudo (ancile) caduto dal cielo (Ovidio, Fasti, 3.351 sgg.), considerato
il massimo talismano di Roma.
Compiuto il rito, ottenuto il divino assenso e obliterati il tabernaculum con il
suo templum – strutture entrambi provvisorie – è stata eretta, al di sopra, la
domus Regia nella quale abiteranno ufficialmente i re-auguri, i quali ospitavano
il prodigioso scudo chiamato ancile insieme a undici sue copie volte a
proteggerlo.
Alla domus Regia si accedeva dalla summa Nova via, tramite un’ampia corte. La
Sacra via scorreva in quel tempo sul retro della casa, situata ancora al fondo del
fossato che correva tra Velia e Palatium, per cui poco serviva per accedere al
lucus Vestae. Al centro della dimora era una grande sala (mq 40), dotata di
ampia falda prominente del tetto o “protiro” sorretta da due grandi pali. Altri
due pali reggevano la copertura straminea. Possiamo immaginare alle pareti i
talismani legati alla sovranità: le hastae di Mars e l’ancile caduto dal cielo con le
sue undici repliche; questa sala/sacrarium poteva contenere anche il
praefericulum e la secespita di Ops, cioè il vassoio e il coltello sacrificali usati nel
rito di questa dea. Alla base delle pareti era un bancone, che poteva accogliere
una trentina di persone; 30 erano i rioni o curiae della città e i loro
rappresentanti. La sala doveva ospitare le riunioni del consiglio regio e
banchetti ancora da seduti, ché l’abitudine di cibarsi sdraiati è più tarda (dalla
fine del VII secolo a.C.). Ai lati della sala erano: a ovest un grande ambiente
(un cucinone?), dotato di recesso (per il focolare?), e a est altri due ambienti
(cubicula?). I pali del protiro e altri pali posti davanti alle altre stanze reggevano
le falde del tetto.
In corrispondenza del tratto di muro conservato al limite sud dell’ambiente 7
è stato rinvenuto un deposito di fondazione, costituito da una tomba infantile,
creato mentre si costruiva la dimora. I depositi fatti durante la costruzione o
l’obliterazione non sembrano tombe normali, che pure esistono se però
connesse alla vita della casa. Potrebbe trattarsi di sacrifici umani reali o in
diverso modo simulati. Nelle necropoli esterne all’abitato erano inumati, a
partire dal secondo quarto del IX secolo a.C., solamente gli adulti, mentre gli
infanti potevano essere seppelliti nella abitazione o presso di essa.
Per il culto dei Lares nel lotto a occidente della domus Regia, probabilmente
comunicante con essa, anche per le fasi che seguono, si veda l’Angolo 4.
A poco dopo, tra il 730 e il 720 a.C., si datano i primi rifacimenti della domus
Regia. La sala dispone ora di un “protiro” sorretto da tre grandi pali e contiene
una tomba di infante, relativa alla vita di questa casa, che verrebbe a trovarsi
sotto il bancone, ipotizzato anche per questa fase. Nella stanza a ovest della
sala il recesso è stato ampliato e nel primo ambiente a est figura ora un
focolare.
Tra il 720 e il 700 a.C. la domus si ingrandisce e assume una forma a “L”.
Nella stanza a est, dotata di focolare, viene allestito un recesso per accoglierlo.
Nell’ala aggiunta lungo il limite est del lucus viene apprestata una seconda sala
fronteggiata da una porticus. Si trattava forse del sacrarium di Mars e Ops, dove
sono stati probabilmente spostati anche le hastae Martis e gli ancilia. Se così è
stato, la sala centrale deve aver visto ridurre il proprio significato sacrale,
rimanendo il luogo del consiglio e del banchetto. Un deposito di
obliterazione segna la fine di questa fase.
Tra il 700 e il 650 a.C. la sala centrale viene ridotta, per creare sul retro due
stanze, forse cubicula; in una è presente una tomba infantile, relativa alla vita
della casa. A est l’ambiente con recesso per il focolare viene articolato in due
grandi stanze e a ovest la stanza viene ingrandita. È come se due altre sale
affiancassero ora quella centrale. La sala/sacrarium di Marte e Ops, dotata di
porticus, appare ridotta, ma acquista un focolare. Nel cortile era una canaletta,
probabilmente per drenare le acque.
Tra 650 e 600 a.C. la stanza della casa più a ovest si ingrandisce e si protende
verso la corte; qui era sia un deposito di fondazione, una tomba di infante, sia
un deposito di obliterazione, un’altra tomba di infante e di un dolio. Una
delle stanze sul retro si estende verso est diventando un corridoio, per cui
sopravvive solamente un cubiculum. La stanza d’angolo a est viene tramezzata e
la sala/sacrarium perde probabilmente la porticus ma occupa oramai l’intero lato
est della corte. Solo in questa ultima fase della domus Regia viene abbandonata
la tecnica capannicola: i muri di argilla hanno ora uno zoccolo in scaglie di
tufo e la copertura dispone di tegole (è la prima casa come anche noi la
intendiamo). Potrebbe trattarsi della casa di Anco Marcio, che sappiamo
essere connessa al culto dei Lari (si veda l’Angolo 4). In questa casa Anco ha
accolto Tarquinio Prisco, giunto da Tarquinia con sua moglie Tanaquil per
trovare fortuna in Roma, città aperta (si veda l’Angolo 6).
Nel complesso la domus Regia mantiene per un secolo e mezzo il suo
carattere originario, che va gradualmente arricchendosi, ma senza troppo
alterare il modello iniziale, anche quando la tecnica capannicola viene
abbandonata, come accade nell’ultima fase. Caratterizzano questo
monumento i depositi di fondazione e di obliterazione, consistenti in tombe
di infanti e depositi di reperti, che non sono relativi alla vita della casa, per cui
non si tratta di sepolture normali di bambini, dal momento che chiudono o
aprono una fase edilizia.
Questa domus Regia è il prototipo delle prime case aristocratiche di Roma,
con sala per banchetti seduti, che nulla hanno a che fare con l’edilizia signorile
successiva, la quale a partire dalla metà del VI secolo a.C. si incentrerà
sull’atrium e sul tablinum, la sala principale della casa in cui si conserveranno le
tabulae, cioè l’archivio di famiglia (si veda l’Angolo 6).
Atlas, tavv. 1, 2, 3. – Filippi c.s.(a).
4.
Il culto dei Lari
(FIG. 4)
Tra la casa delle vestali e la domus Regia era un’area a carattere sacrale,
presumibilmente un fanum, che ha accolto all’inizio focolari probabilmente
circondati da recinti o sacella (Atlas, tav. 2) e poi una aedes, attestata da tegole.
Quest’ultima era connessa a una cisterna sotterranea, raggiungibile da un locale
sotterraneo o penetrale (Atlas, tav. 6). Segue una aedes più cospicua, anch’essa
collegata alla medesima cisterna e a una mensa, ora certamente accolte entro un
penetrale (Atlas, tavv. 14 F e 15 A).
Nella nostra interpretazione, sono strutture legate al culto dei Lares, prima i
Grundiles (di Romolo e dei tre re-auguri suoi successori), poi i Familiares (dei
Tarquini) e infine i Publici (della libera res publica), ai quali si sono aggiunti poi
quelli di Augusto. Come i culti di Mars e Ops, anche quello dei Lares era stato
strettamente connesso alla sfera domestica dei re, similmente al culto di Vesta,
che nei primordi era anch’esso un culto domestico, elevato alla dimensione
pubblica soltanto con la nascita di Roma. La tradizione ha considerato il culto
dei Lares legato alla casa di Anco Marcio, che è stato l’ultimo re-augure,
ultimo anche ad abitare nella domus Regia. I Tarquini hanno abitato invece lì
accanto, ma già fuori del lucus, in un terreno che Anco Marcio aveva donato a
Tarquinio Prisco. Con la prima e unica dinastia regale di Roma, quella dei
Tarquini, una nuova dea protegge ormai la casa dei sovrani, Fortuna, protettrice
e disfacitrice dei tyrannoi della città-stato, per cui i Lares hanno avuto in lei una
potente concorrente.
Dalla seconda metà del VI secolo a.C., più probabilmente da quando nel 509
a.C. viene istituita la libera res publica, si è passati da focolari per lo più entro
sacella alla prima aedes, distrutta poi da quella tardo-repubblicana, ma di essa
rimane un importante indizio stratigrafico: le tegole di età arcaica. La bocca
della cisterna, vicina e coeva, si trovava m 1,88 al di sotto del pavimento
presunto dell’aedes, per cui si può ipotizzare che per raggiungerla si dovesse
scendere, forse già fin da allora, in un penetrale immaginabile davanti all’aedes
stessa, come sicuramente avverrà dalla tarda Repubblica. Tra la cisterna e il
limo naturale scavato per costruirla è stata interposta argilla depurata (Atlas,
tav. 6 A), come è avvenuto anche nelle cisterne rinvenute sul Cermalus (Atlas,
tav. 62 D). A partire dal tardo VI secolo a.C. il culto non appare più in
comunicazione con la casa del sovrano, che abita ormai più a est, per cui ci
appare indipendente anche dalla annessa casa del re dei sacrifici: i Lares sono
ormai publici.
Come le case del 530 a.C. circa, durate fino a quasi tutto il III secolo a.C.,
anche questa aedes, con la sua sobria decorazione architettonica (fregio,
antefisse), è durata fino alla tarda Repubblica. Possiamo quindi immaginare
Fabio Pittore, primo storico di Roma, passeggiare in una Roma che ancora
conservava l’aspetto dell’ultimo terzo del VI secolo a.C.
Dopo l’incendio del 210 a.C., intorno al 200 a.C., l’aedes viene ricostruita in
blocchi di tufo (Atlas, 14 F) entro un complesso più articolato ma ugualmente
chiuso in sé, che si evolve intorno al 125 a.C. apportando piccole modifiche e
che raggiunge la fase più matura e monumentale tra il 31 e il 12 a.C., l’anno in
cui Augusto diventa pontefice massimo.
Dalla Sacra via, dove erano sei tabernae occupate probabilmente dai
fabbricatori di ghirlande o coronarii (fig. 4.1, 14-19; Ovidio, Fasti, 6.701-702;
Plinio il Vecchio, Storia naturale, 21.11), si entrava, tramite un corridoio
scoperto e un ambiente d’ingresso (fig. 4.1, 13), nell’area sacra (fig. 4.1, 3).
Qui era l’aedes con il suo penetrale (fig. 4.1, 1-2), al quale si accedeva tramite
una scala (fig. 4.1, 20). Solo tra il 31 e il 12 a.C. sorge, accanto all’aedes, una
stanza isolata dotata di armadio (Atlas, tav. 33, 21), forse un archivio. Di
fronte all’aedes era un’ampia porticus (fig. 4.1, 4) e su questa si aprivano le stanze
(fig. 4.1, 6, 9-10) riservate agli ammessi al culto nel giorno festivo, il 27
giugno, che era anche il dies natalis della vicina aedes Iovis Statoris (Carandini
2016). Infatti sia i Lares che Iuppiter Stator erano custodi di Roma e quindi
delle sue mura palatine. Sul retro erano stanzette più minute, di servizio al
culto (fig. 4.1, 7, 11-12), probabilmente magazzini, a giudicare da quelli della
fase giulio-claudia. Al centro di queste stanze era un ingresso dalla casa delle
vestali (fig. 4.1, 8), che da sempre aveva avuto un muro in comune con questo
luogo sacro. Il culto dei Lares ha conservato attraverso il tempo il suo carattere
riservato, quasi domestico, assumendo alla fine l’aspetto di un tempio entro
insula oppure “collegiale”, tipologia ben nota agli archeologi (si vedano il
tempio di Tinia a Marzabotto, il c.d. tempio di Vespasiano e il c.d. tempio dei
Lari Pubblici a Pompei, il tempio della Bona Dea a Ostia e i templi collegiali
dei fabri navales, dei fabri tignuarii e degli stuppatores a Ostia). Aspettarsi nel lucus
culti di diverso aspetto, più regolare e più monumentale, significa non aver
compreso la natura peculiare dei culti accolti in un tale particolarissimo
contesto.
I topografi non hanno riconosciuto in questo monumento un luogo di culto,
pensando che si trattasse di una parte della casa delle vestali. Eppure lo schema
architettonico non ricorda affatto quello di una domus. Questi studiosi sono
andati alla ricerca di un tempio con pronao, eminente sulla Sacra via, ma la
complessa edilizia sacrale di Roma non rientra in una visione semplificata e
standardizzata.
Davanti all’aedes, in corrispondenza con il suo asse, era un’apertura ovale o
oculus che gettava luce nel sottostante penetrale (Atlas, tav. 33). È da ricordare a
questo proposito il Lararium sotterraneo di Caere, del III secolo a.C. (Carandini
2015, p. 74). Il penetrale (fig. 4, A), perfettamente conservato salvo la scala
ricostruita in fase successiva, conteneva la mensa (fig. 4, A, 21) e la cisterna
tardo-arcaica (fig. 4, A, 24). Le mense erano un genere di altari che
prevedevano offerte da non esporre al fuoco, tanto che si trovavano
generalmente all’interno degli ambienti di culto, mentre le arae e i loro fuochi
si trovavano all’esterno. Sopra la mensa era una mensola (fig. 4, A, 23) lunga e
stretta – per sostenere strumenti per il rito e forse anche simulacri divini – e
una vaschetta profonda cm 77 (fig. 4, A, 22) per accogliere le offerte. La
vaschetta era collegata a una canaletta in forma di una ancora più profonda
fenditura (m 1,05), cioè uno scrobiculus, in cui defluivano le offerte. La
canaletta, raggiunta la mensola, scompariva come inabissandosi nel sottosuolo.
L’oculus, aperto sulla volticella del penetrale, veniva a trovarsi proprio sopra la
vaschetta per le offerte, per cui poteva servire, oltre che per dare luce al
penetrale, anche per calare da sopra le offerte nell’apposito ricettacolo
sotterraneo. La cisterna si trovava a sinistra della mensa. A questo apprestamento
tanto speciale della tarda Repubblica, ma che poteva replicare uno analogo
tardo-arcaico, viene ad aggiungersi, tra il 31 e il 12 a.C. (fig. 4.2), una cella
sotterranea bipartita – per i due Lares, per i Penates? (fig. 4, A, 25) –, ricavata
sotto la parte antistante dell’aedes. Il culto si svolgeva pertanto a due livelli,
terrestre e ipogeo, ma le offerte erano accolte forse solamente nel penetrale;
infatti i Lares erano divinità infere. Non vi era quindi alcun bisogno, davanti
all’aedes, di un’ara.
Questo complesso e interessante Lararium sotterraneo prova il carattere
sacrale dell’intero complesso e indica quanto sia impoverente una visione del
mondo antico ridotta all’uniformità delle più ovvie realtà accolte nei manuali.
Il penetrale viene soppresso intorno al 12 a.C. (fig. 4.2), quando Augusto
riallestisce l’aedes in modo più sontuoso, dotandola di una abside, di un
pavimento a mosaico geometrico e della seconda cella, più piccola ma
ugualmente mosaicata, destinata probabilmente ad accogliere i Lares Augusti
che il princeps aveva consegnato alle vestali – come si osserva nell’ara del
Belvedere (si veda anche l’Angolo 50) – rendendo così pubblici anche i propri
Lari privati. Come nel lucus il culto dei Lares era associato a quello di Vesta,
così nella dimora di Augusto il culto dei Lares/Penates nella casa del princeps era
associato a quello di Vesta nella casa di lui pontifex maximus. Solo che nella
dimora di Augusto l’aedes Apollinis interrompeva la replica sul Cermalus del
lucus Vestae, separando i culti simmetrici dei Lares e di Vesta (Carandini 2015;
si veda anche l’Angolo 10, fig. 11).
Allora la corte davanti all’aedes riceve due porticus (fig. 4.2, 24 e 26) lungo i
due lati lunghi. Si entrava dalla Sacra via, tramite un vestibulum (fig. 4.2, 25), si
passava in uno spazio scoperto dal centro del quale si accedeva alla prima
porticus, quindi alla corte (fig. 4.2, 23) e infine alla seconda porticus (fig. 4.2, 32)
dietro la quale era l’aedes (fig. 4.2, 22). Quest’ultima porticus era più stretta e il
suo muro di fondo era rappresentato dall’aedes stessa; la porticus poteva
proseguire anche ai lati dell’aedes, magari sostenuta sul retro da travi, in modo
da non interrompere con muri gli accessi alle due aree scoperte (fig. 4.2, 3)
poste ai fianchi dell’edificio sacro. Le offerte potevano essere deposte su mense
accolte entro le due cellae (fig. 4.2, 22), visto che nel frattempo il penetrale era
stato abolito (non è facile intendere perché). Dietro il tempio e le aree sacre
era un modesto appartamento, articolato in tre ambienti (fig. 4.2, 27-29), uno
dei quali dotato di impluvium e decorato da affreschi che rappresentano un
giardino (fig. 4.2, 27); l’appartamento poteva disporre di un secondo piano.
Poteva servire in parte al sacerdote che celebrava il rito e anche all’aedituus
custode del luogo. Manca ogni connessione con la casa del re dei sacrifici. Mai
come in questa fase il complesso appare straordinariamente lontano dal
modello di una domus, mancandovi stanze, salvo che nell’appartamentino
dietro l’aedes. Sulla Sacra via si aprivano otto tabernae, che probabilmente
accoglievano ancora i coronarii.
Nell’ultima fase, databile tra il 14 e il 64 d.C. (Atlas, tav. 40 N), la parte
dell’ingresso si complica, anche per l’inserimento di due magazzini, la cui
funzione si ritrova probabilmente nelle precedenti stanzette. Le due porticus
affrontate vengono ora malamente interrotte verso il nemus Vestae,
diminuendo considerevolmente la dignità del monumento. Nella corte,
ridotta in dimensione, viene allestito un recinto a tre lati con angoli smussati,
aperto verso l’ingresso, entro il quale viene inserita una vasca rettangolare, che
verso i lati brevi del recinto risparmiava due spazi, forse riservati ad abluzioni e
aspersioni. Come che sia, si tratta di un apprestamento nuovo, che
riconduceva all’acqua, come già la cisterna tardo-arcaica. Infatti i Lares, figli di
Larunda, erano nati negli inferi, che a Roma erano identificati con le acque
interne del Velabrum, presso le quali era anche il sepolcro di Acca, la Mater
Larum.
È possibile che il culto dei Lares venisse accolto, dopo l’incendio del 64 d.C.,
nell’aula absidata posta in un angolo dell’atrium Vestae, il quale accoglierà
anche l’aedicula dei Lares Praestites (fig. 2b). Nell’affidare la casa del re dei
sacrifici alle vestali, Augusto non aveva fatto che ufficializzare una realtà già
affermatasi tra la dinastia dei Tarquini e la libera res publica: in primo luogo
l’autonomia del culto dei Lares dalla domus Regia, già dei re-auguri e abitata
ormai dai re dei sacrifici; in secondo luogo il nesso stretto di questo luogo di
culto con la casa delle vestali, con la quale ha sempre avuto un muro in
comune. Dove fosse andato ad abitare il re dei sacrifici dopo il 64 d.C. resta
un mistero.
Atlas, tavv. 1, 2 C, 4-6, 11, 14 F, 15 A, 31 B, 33, 40 N, 277. – Carandini
2010. – Carandini 2014a, pp. 50-53. – Cupitò 2004, pp. 123-124. – Cupitò
c.s. – Filippi c.s.
5.
Le case del re dei sacrifici e di Tarquinio Prisco
(FIG. 5)
I due templa del divus Augustus – il secondo distinto dal primo – si trovavano
simmetricamente ai due limiti del lato settentrionale del Palatino, segnati a
nord-est dalle Curiae (veteres) e a nord-ovest dal sacellum Larundae (Tacito,
Annali, 12.24). Un templum si trovava entro una porzione della casa paterna e
natale del princeps, sul Palatino, ad capita Bubula (ai crani di bue o bucrani).
L’altro templum si trovava subito oltre il monte, nel Velabrum, comunque
vicino alla seconda casa palatina di Ottaviano, che si trovava ad scalas Anularias
o dei Gioiellieri: quelle che salivano alla porta Romanula.
Il templum esastilo del Velabrum è stato chiamato novum probabilmente fin da
Claudio, perché non si confondesse con l’altro, che aveva una origine più
antica. Infatti era stato edificato da Livia moglie di Augusto e da Tiberio suo
successore, che gli aveva aggiunto una biblioteca. Ma era stato Caligola a
dedicarlo; lo aveva utilizzato per sostenere il ponte che collegava la sua domus,
lì vicino, con quella che si trovava probabilmente di fronte all’aedes di Giove
Capitolino. Il templum novum, distrutto da incendio, è stato poi ricostruito
ottastilo da Domiziano e ripristinato infine da Antonino Pio.
Assai più complessa è la storia della casa natale di Augusto, ai palatini capita
Bubula. In essa era un primo luogo di culto voluto dal princeps nel 12 a.C. (si
veda oltre), cui poi Livia ha aggiunto il sacrarium divi Augusti, eretto qualche
anno dopo la sua morte e poi distrutto da un incendio. Ricostruito da
Claudio come templum divi Augusti e nuovamente distrutto dall’incendio del
64 d.C., il luogo è stato infine ricostruito da Nerone, tenendo conto
dell’assetto complessivo della domus Aurea, in una posizione simmetrica
rispetto al lucus/saellum Streniae, ma il tempio in sé è stato eretto solamente da
Vespasiano, per poi durare fino alla tarda antichità (Atlas, tavv. 74, 80, 110 e
tavola fuori testo 20).
La casa avita doveva essere composta di due lotti. Il primo culto era stato
voluto nel lotto settentrionale, corrispondente all’angolo nord-est del
Palatino, marcato da un qualche monumento, rilievo o pittura in cui
figuravano teste di bue, probabilmente dei bucrania appesi al muro. Possiamo
immaginare che questo culto fosse costituito da un’ara a cui portava un’ampia
pavimentazione con gradoni in salita, ben conservata e nella quale il collegio
degli aenatores, i suonatori di strumenti a fiato, aveva dedicato probabilmente
una statua di Augusto del 12 a.C. e sicuramente una statua di Tiberio del 7
a.C. Il progetto augusteo è stato completato e coronato da Livia, nei primi
anni ’20, quando ha eretto il sacrarium, di cui abbiamo notizie dalle fonti
letterarie (Svetonio, Vita di Augusto, 5; Servio, Commentario all’Eneide, 8.361;
Plinio il Vecchio, Storia naturale, 12.94) e da alcune terrecotte “Campana”
incluse nelle murature del tempio di Claudio. Il tutto si trovava non nei pressi
ma entro uno dei lotti della casa nella quale Augusto era nato.
Fino a una nostra recente riflessione, stimolata da una osservazione di
Daniela Bruno (studiosa che conosce come nessun altro il Palatino), la casa
natale di Augusto veniva posta lungo il vicus Curiarum, a ovest delle curiae
Veteres, visto che queste sono state sempre immaginate all’angolo nord-est del
Palatino, per cui esse “dovevano” raggiungere il vicus Fabricius che delimitava
quel monte a oriente.
Eppure il ritrovamento da parte di Clementina Panella di una fondazione
curva del V secolo a.C. ha imposto una più accurata e dettagliata riflessione sul
luogo. Si tratta, probabilmente, di una riproposizione, in tecnica evoluta del V
secolo a.C., della capanna originaria delle curiae, probabilmente databile tra la
metà dell’VIII e la metà del VI secolo a.C. L’ampia capanna rinvenuta (Atlas,
tavv. 60 e 62 F), facilmente ricostruibile, si trovava all’angolo delle mura
palatine, tratti delle quali hanno cominciato a essere demoliti a partire dal 550
a.C. circa, quando Servio Tullio ha rivoluzionato pomerium e murus/agger. È
forse al tempo di questo tyrannus che a sud della capanna (dove non si è
scavato) è stata edificata una piccola aedes, probabilmente consacrata a Iuno
Curitis, la dea delle curiae, le cui terrecotte sono state rinvenute deposte
nell’area della capanna e sono databili soprattutto tra la seconda metà del VI e il
V secolo a.C. Molto più incerto è come fosse strutturato questo luogo tra IV e
II secolo a.C. Come che sia, la posizione della capanna e poi dell’ipotizzato
tempietto – tipo quelli di Fortuna e Mater Matuta (Atlas, tav. 9) – consente
finalmente di ricostruire l’area sacra delle curiae più a ovest di quanto prima si
pensasse, quindi non all’angolo del Palatino nella versione a noi nota. Eppure
per la testimonianza di Tacito le curiae dovevano stare all’angolo del Palatino,
ma di un Palatino alto-arcaico e arcaico, più ristretto di quello della seconda
metà del VI secolo a.C. e successivo. Tracce della viabilità successiva
consentono di ipotizzare, almeno per le origini, un vicus predecessore del
Fabricius, che correva più a occidente, delimitando il monte su questo lato.
Non si sa quando, ma sicuramente dagli anni ’80 a.C., il tempietto delle curiae
è stato eliminato, così come già la capanna, sostituito da una fila di sale
tricliniari, probabilmente sette quante le curiae Veteres, che hanno occupato per
intero uno spazio più ristretto.
È intorno al 540/530 a.C. che il Palatino si è esteso verso est, cioè verso il
Celio, fino a raggiungere una strada ora creata: il vicus Fabricius. Lo spazio
aggiunto al monte non è mai appartenuto alle curiae Veteres, situate più a ovest,
salvo l’eccezione che vedremo. I muri di limite lungo il vicus Curiarum
appartengono non alle mura palatine (come un tempo si poteva ritenere), né
al muro di cinta o temenos delle curiae Veteres, ma a una domus d’angolo.
L’estensione palatina era dovuta alla volontà di poter disporre di una fila di
case lungo il vicus Fabricius, per le quali abbiamo indizi letterari e archeologici
(scavi statunitensi e di Clementina Panella), la prima in fila delle quali sarà la
casa natale di Augusto.
Mentre il limite tra le curiae Veteres e la casa dell’ignoto signore posta a ovest
non è mai cambiato, per cui quella casa sempre si è trovata fuori da quell’area
sacra, il suo limite a est, prima più ampio, è stato poi leggermente arretrato,
almeno dal tempo di Silla. La parte persa dalle curiae è andata a vantaggio di
due lotti abitativi affacciati sul vicus Fabricius, il cui retro confinava appunto
con le curiae stesse. Questi due lotti formavano dal tempo di Silla un’unica
dimora, quella degli Octavii. Erano pertanto i soli a trovarsi per una grande
parte in uno spazio da sempre esclusivamente abitativo e per una parte minore
sopra un suolo che prima di Silla era appartenuto alle curiae. Ciò spiega perché
secondo Servio (Commentario all’Eneide, 8.361) Augusto era nato non presso
ma “nelle” curiae Veteres, il che non potrebbe darsi, ove si immaginasse altrove
la casa natale di Augusto, sia più a ovest che più a sud. Il lotto a nord misurava
mq 807,8 e quello a sud 676,3, per un totale di mq 1484,1, di cui solo il 21
per cento, disposto sul retro della casa, era appartenuto alle curiae. In
particolare, del lotto settentrionale della casa mq 221,8, pari al 27,4 per cento,
erano appartenuti alle curiae, ed è proprio in questa parte di questo lotto che
Augusto era nato.
Presa coscienza di ciò, appariva ormai inaccettabile che la casa di Augusto
con il sacrarium di lui divus si trovasse a ovest delle curiae, mentre le statue di
Augusto e Tiberio, erette tra il 12 e il 7 a.C., e il templum divi Augusti di
Claudio e poi di Nerone/Vespasiano si trovassero a est delle curiae stesse.
Troppi due luoghi tra loro separati per una realtà evidentemente unica: la casa,
le statue, il sacrarium e i templa di Augusto.
Inoltre, il lotto più settentrionale si trovava proprio all’angolo tra il vicus
Curiarium e il vicus Fabricius, angolo nel quale possiamo identificare i capita
Bubula. All’angolo di fronte, sul versante veliense del vicus Curiarum, Augusto
aveva eretto una fontana dotata di meta, fulcro generatore della nuova
divisione della città in 14 regiones e 265 vici, dove le regioni IV, III, II, I e X fra
loro si incontravano. Questo lotto non presentava più le strutture domestiche,
che Augusto aveva fatto rasare per allestirvi un’area riservata probabilmente al
culto del suo Genius. Casa natale e culto del Genius, riorganizzazione dei
Compitalia come feste rionali ai Lares e al Genius di Augusto, meta e città divisa
in regiones sono luoghi e avvenimenti, culti e riti strettamente interrelati, sui
quali è stata fondata dal princeps la rigenerazione di Roma.
La casa di Ottavio padre deve essere passata, alla sua morte nel 59 a.C., al
figlio (Ottavio/Ottaviano/Augusto), che già nel 58 a.C. – quando aveva
cinque anni – ha lasciato la casa natale, che però ha mantenuto in proprietà,
forse affittando il lotto meridionale, sempre riservato ad abitazione, e
destinando invece quello settentrionale e d’angolo al culto del proprio Genius.
Si pensi alle arae del Genius e del Numen Augusti e alla statua del Genius seduto
nel vestibulum e davanti a questo della domus Augusti sul Cermalus (Atlas, tav.
72, nn. 30-35; qui, figg. 11 e 12, 9-10).
Per una decisione del senato che risaliva al 30 a.C., al Genius di Augusto si
libava e attorno si banchettava celebrando il natale, avvenuto il 23 settembre
del 63 a.C. Inoltre, dal 13 a.C. il Genius di Augusto era stato aggiunto alle
divinità invocate nei giuramenti e dal 12 a.C. sono stati dal princeps
riautorizzati i ludi Compitales, ora associati al culto dei Lares e del Genius
propri. Probabilmente il primo compitum in cui a gennaio del 12 a.C., festa dei
Compitalia, è stato celebrato il nuovo rito è stato proprio il compitum Fabricii,
ricostruito poco dopo il 7 a.C. accanto alla meta. Quindi la parte della casa
dove Augusto era nato e dove si venerava il suo Genius, meta e compitum
Fabricii, epicentri della riforma urbana, formavano una unità topografica e
concettuale.
Nel 14 d.C. Augusto muore e la casa paterna viene venduta ai patrizi Laetorii,
probabilmente con il vincolo di preservare nel lotto d’angolo il culto del divo
Augusto, e infatti l’allestimento cultuale del luogo è stato preservato. Nel lotto
subito più a sud della stessa casa abitava allora il giovane C. Letorio. Si
considerava il custode o aedituus del primo suolo che Augusto nascendo aveva
toccato e lui lo rispettava, come se il divo Augusto fosse stato il suo nume
domestico. Qualche anno dopo il 14 d.C., probabilmente intorno al 20, il
Senato ha accusato Letorio di adulterio e in cambio di una riduzione della
pena inflittagli gli ha espropriato proprio il lotto d’angolo e lo ha fatto
consacrare dai pontefici al divo Augusto. Intorno agli anni 20-22 d.C. Livia –
ormai adottata e quindi una Iulia, nonché nominata Augusta – ha eretto in
quel lotto consacrato il sacrarium divi Augusti (Svetonio, Vita di Augusto, 5).
Sono gli anni in cui Livia dedica un signum del marito nel teatro di Marcello e
ottiene l’uso in città del carpentum – un carro a due ruote e coperto – in quanto
sacerdos divi Augusti. Il sacrarium viene custodito oramai, non più da Letorio che
continuava ad abitare nel lotto annesso ancora di sua proprietà, bensì da un
aedituus servus publicus. Questo servo poteva abitare in due stanzette poste
nell’angolo nord-ovest del lotto, dietro a una aedicula per statue, già
interpretata come ninfeo, di età tiberiana o claudia. Nel sacrarium, controllato
da Livia in quanto vedova e sacerdotessa, l’Augusta aveva trasferito la
corrispondenza personale del marito morto. In un giorno del 26 d.C. Livia,
adirata con Tiberio, aveva consultato e letto nel sacrarium alcune lettere di
Augusto, per mettere in difficoltà il nuovo princeps con passi imbarazzanti
scritti da Augusto su di lui. Quale perfidia!
Un incendio ha distrutto poi il sacrarium. Nel 42 d.C. Claudio ha divinizzato
Livia, ne ha associato il culto a quello di Augusto e ha ricostruito l’edificio di
culto nello stesso luogo, ma questa volta su un rettangolo di suolo inaugurato
dagli auguri, quindi su di un templum, per cui anche l’edificio sacro costruito
sopra è stato definito templum. Gli aeditui sono oramai di un rango superiore,
cioè liberti imperiali. Allo stesso tempo viene eretta accanto al tempio una
seconda aedicula, nella quale il collegio degli aenatores ha fatto erigere statue dei
Cesari.
L’incendio del 64 d.C. ha distrutto anche questo templum e il luogo di culto,
spostato e ristrutturato, viene apprestato da Nerone ma edificato da
Vespasiano e durerà fino alla tarda antichità. Nel 312 d.C., in un ambiente
delle curiae Veteres, vengono nascoste le insegne di Massenzio morto nella
battaglia di Ponte Milvio da lui perduta.
Sul sacrarium/templum divi Augusti: Atlas, tavv. 64 H, 70 C, 74, fig. 34. – Bruno
2014a. – Hostetter, Rasmus Brandt 2009. – Panella, Zeggio, Ferrandes 2014.
Sul templum novum divi Augusti: Atlas, tavv. 40-41 D, 269A, fig. 34.
10.
Abitare dove Roma è nata
(FIGG. 10 E 11)
Nato in una casa all’angolo nord-est del Palatino (si veda l’Angolo 9),
Ottaviano era andato ad abitare, dopo un interludio sulle Carinae, sopra le
scalae Anulariae, quelle che portavano alla porta Romanula. Eppure questa era
solamente la seconda tappa del suo avvicinamento alla meta agognata. Non
poteva apparire troppo evidentemente come un novello Romulus: un re ucciso
dai propri consiglieri, come suo padre adottivo, il divo Cesare, pugnalato da
alcuni senatori. Aveva accettato tuttavia di chiamarsi Augustus, che vuol dire
l’inaugurato, cioè il benedetto da Giove, proprio come Romolo che si era
auto-inaugurato re di Roma. Nel 42 a.C. Ottaviano ha raggiunto finalmente
la meta, acquistando la casa di Q. Ortensio Ortalo, che Svetonio (Vita di
Augusto, 72) al tempo di Adriano giudicherà modesta.
La casa aveva due vantaggi strepitosi. Si ergeva sopra la parete tufacea del
Cermalus entro la quale erano le grotte del Lupercal, quella della fonte e quella
che accoglieva la scultura della lupa con i gemelli, davanti alla quale era l’ara di
Faunus Lupus/Hircus (Lupercus). Era il luogo dove Remo e Romolo erano stati
nutriti dai loro totemici antenati, il picchio e la lupa. Il Lupercal era stato poi
restaurato da Ottaviano che lo aveva trasformato in un sontuoso ninfeo (fig.
11, F). Inoltre la casa aveva l’entrata davanti al recinto o sacellum dove erano
una riproposizione della casa/aedes Romuli e la fossa con una versione più tarda
dell’altare dove Roma era stata fondata e dove era stato acceso il primo fuoco
regio della città (si veda l’Angolo 1). La collocazione, apparentemente
eccentrica perché esterna ai dodici lotti più famosi del Palatino (si veda
l’Angolo 13, figg. 15 e 16) –, era invece al centro gravitazionale della prima
Roma, tra Lupercal e Casa Romuli con fossa e ara della fondazione di Roma,
diventando così anche il centro di gravità del principato di Augusto.
Si trattava di una casa di medie dimensioni, probabilmente con atrium da
immaginare a ovest e che precedeva il peristylium, in parte conservato e dotato
di due altari relativi a un culto domestico. Sul lato nord, con vista
sull’Aventino erano un triclinium con banconi in muratura per i letti e una
exedra antistante, con ai lati due salette e due biblioteche. Altre stanze erano ai
lati e dietro. Sul lato est del peristylium era un oecus affiancato da due cubicula e
un piccolo nymphaeum con mosaico raffigurante remi. Sul lato sud erano forse
tre sale e in basso, su un lato, le stanze per i servi. Qui il tufo del monte
precipitava nella bassura della vallis Murcia e del circus Maximus. Ottaviano ha
ingrandito la dimora di Ortensio e l’ha ridecorata; eppure rimane un resto
della decorazione più antica (Carandini, Bruno, Fraioli 2010, fig. 72). Ha
esteso il peristylium, ora sicuramente a due ordini, ornati da metope e da un
fregio in terracotta. Il maggior complesso di sale rivolto all’Aventino esclusi i
cubicula di lato, il peristylium e l’oecus fra i due cubicula trasformato in tetrastylus –
cioè in sala retta da quattro colonne – sono stati pavimentati con tarsie
marmoree. Al di sopra di uno dei cubicula su lato est è stata allestita
un’ulteriore camera da letto – più che uno studiolo –, mentre l’altro cubiculum
è stato trasformato nella rampa che portava a nuovi tablinum e atrium.
Era questa la parte privata della casa, ampliata e riallestita per prima. Ma il
progetto della dimora era assai più ambizioso, al punto che Ottaviano in
seguito se ne è pentito, obliterando il sogno megalomane che per qualche
tempo lo aveva incantato. Questo sogno, in parte realizzato, aveva implicato
l’acquisto di case vicine per edificare una vera e propria reggia ellenistica,
dotata di due peristylia, il secondo fulcro di un quartiere a carattere pubblico,
come nei complessi di Demetriade, Vergina e Pella (si veda Carandini, Bruno
2008, fig. 78). Al centro di tutto il complesso era probabilmente un enorme
atrium di mq 600, mentre quello di Scauro, che era stato un tempo il maggiore
di Roma, aveva raggiunto i mq 456. Questo atrium, ora il massimo, era dotato
verosimilmente di grande tablinum, al quale si perveniva tramite la rampa che
aveva inizio dal peristylium privato della casa. Una galleria collegava al piano
terreno i due peristylia. Sopra di essa era una ambulatio, lunga m 88,68 (cioè
300 piedi corrispondenti a mezzo stadio) – quella che era stata di Clodio
(Atlas, tav. 281a) era stata di m 82,22 –, che aveva davanti un hortus pensilis, la
cui terra copriva le suspensurae di una intercapedine volta a isolarla dagli
ambienti sottostanti, come poi si vedrà nella domus Tiberiana (Atlas, tav. 77).
Nel secondo peristylium, anch’esso aperto sull’Aventino, si affacciavano
solamente saloni, notevolmente più grandi e fastosi delle sale che si aprivano
sul peristylium privato, per cui formavano un vasto complesso cerimoniale di
carattere pubblico. Sul lato ovest era un oecus Cyzicenus, fatto di una sala
principale comunicante con due triclinia; ne vedremo altri esempi nella domus
Gai (Atlas, tav. 47; qui, fig. 18) e nella domus Proculi (fig. 19, A). Sul lato nord
era un grande triclinium dotato di sale laterali. Sul lato est era un oecus
Corinthius, colonnato su tre lati, accanto al quale si accedeva a una seconda
rampa. A ridosso della parete tufacea erano, anche da questa parte della casa,
ambienti per i servi. Purtroppo neppure in coincidenza del bi-millenario di
Ottaviano il secondo peristylium è stato completamente scavato e restaurato,
come da tempo avrebbe meritato.
D’un tratto accade qualcosa che definire bizzarro è poco e che ricorda
l’arbitrio dei despoti. Tutta questa seconda parte della casa a carattere pubblico
– atrium al centro e secondo peristylium – è stata costruita ma non decorata, per
cui mai è stata usata, se non nei sogni del troppo ambizioso committente. Di
colpo l’intera dimora, compresa la parte privata, invece terminata e vissuta, è
stata seppellita sotto un nuovo complesso edilizio oppure è stata riusata come
cantina. Cosa era accaduto? Una notte del 37 a.C. un fulmine aveva colpito la
casa e Ottaviano aveva interpretato quel segno come il desiderio di Apollo di
abitare con lui in quello stesso luogo. In realtà Ottaviano, reso d’un tratto
lungimirante, cioè prefigurando la prossima conquista di un potere immenso
e indiviso, si era pentito della troppo magniloquente dimora in costruzione –
equivaleva a vivere in una reggia come un re, ambizione che a Roma non era
sostenibile –, per cui aveva concepito un progetto molto più adatto al futuro
prefigurato che puntualmente si sarebbe verificato.
Il progetto era assai più modesto riguardo all’abitare, ma molto più grandioso
riguardo all’abitare insieme ad Apollo. Si trattava dell’enorme palazzo e
santuario dal quale Augusto, protetto da Apollo, avrebbe governato l’Impero
per quattro decenni. L’abitare di Augusto si articolava in due case, quella
privata di lui come princeps e quella pubblica di lui come pontifex maximus. Le
due case, poste ai lati del tempio di Apollo, erano di dimensioni ragionevoli
(circa il doppio delle normali case palatine, che raggiungevano in media i mq
1159), quindi molto più piccole della delirante reggia oramai seppellita sotto il
palazzo-santuario. Esso ospitava, oltre le due case, l’arco in onore del padre
terreno Ottavio, il tempio di Apollo, suo padre mitico, che nei sotterranei
custodiva i libri sibyllini, e la porticus delle Danaidi che accoglieva la grande ara
di Apollo, il tetrastylum di Augusto e la curia/bibliotheca.
Solo in seguito il progetto è stato completato aggiungendo la porticus
inferiore della silva Apollinis, dotata di un’ara – della Roma Quadrata? – e di una
balconata o maenianum da cui si osservavano le gare del Circo. Le due porticus,
su due livelli, formavano insieme un quadrato: quello della Roma Quadrata,
che coincideva con l’area Apollinis. Il princeps con i Lares e i Penates, il pontifex
maximus con Vesta e l’Atena del Palladium e Apollo con Latona e Diana nella
aedes formavano un triplice complesso in cui Augusto era il condomino di
varie divinità all’interno di un unico e scenografico santuario a terrazze
degradanti, sul genere di quelli del Lazio. L’aedes Apollinis al centro era
l’equivalente del Capitolium, mentre i compluvia delle due abitazioni, con i culti
simmetrici del Lares/Penates e di Vesta col Palladium, rappresentavano
l’equivalente del lucus Vestae, per cui l’intero centro sacrale di Roma, tra
Campidoglio e Foro, e lo stesso Palatino romuleo erano riproposti nel
microcosmo urbano del palazzo-santuario di Augusto sul Cermalus.
Della parte pubblica della casa quasi nulla sappiamo, oltre al culto di Vesta,
perché è stata modificata da Claudio e perché si è partiti da essa per innestare
nella domus Augusti l’enorme domus Augustiana. Così la domus Publica di
Augusto è stata distrutta e quel che resta è sovrastato da sontuose rovine.
Invece della parte privata della casa sappiamo moltissimo, anche se nessuno se
ne è accorto.
A nord della casa dell’oratore Q. Ortensio Ortalo, affacciate sul clivo
Palatino A, erano tre case. Della casa più a sud, separata dalle altre da due
strade, ignoriamo il proprietario. Si entrava da est in un atrium dotato di
tablinum e di due sale più strette ai suoi lati, forse triclinia; su un lato era un
corridoio di servizio. Sul retro tre stanze, corrispondenti a quelle aperte
sull’atrium, forse una exedra centrale e due cubicula, si aprivano su una piccola
corte/hortus, dotato di vasca che disponeva di anfore per alloggiare murene; su
di essa si aprivano altre sei stanze, forse di servizio.
La casa più a nord, di cui nulla sappiamo, era certamente di Q. Cecilio
Metello Celere, console nel 60 a.C. e marito della terribile Clodia, sorella di
Clodio il demagogo, nota come Medea Palatina (Cicerone, In difesa di Celio,
18), dalla quale era stato avvelenato nel 59 a.C. Mentre nella sua stanza
agonizzava, assistito da Cicerone, batteva con la mano sulla parete che la sua
casa aveva in comune con quella di Catulo, per invocare l’aiuto dell’amico. Se
i muri potessero parlare!
In posizione intermedia era dunque la casa di Q. Lutazio Catulo, console nel
102 a.C., che l’anno seguente aveva vinto con Mario Cimbri e Teutoni e che
aveva eretto alla Fortuna huiusce diei la vicina porticus Catuli. Era un poeta e un
appassionato delle memorie romulee, fulcro di un circolo letterario a cui
partecipava il costosissimo schiavo e grammatico Dafni ch’egli aveva comprato
da M. Emilio Scauro, finito suicida nell’87 a.C. Allora la casa passata a suo
figlio, console nel 78 a.C., il ricostruttore del tempio di Giove Capitolino e
l’edificatore del c.d. Tabularium, morto nel 61 o nel 60 a.C.
Di questa casa è conservata la parte interrata, dalla quale si ricava per intero la
pianta del piano nobile: un vestibulum, dotato di ingresso al seminterrato,
immetteva in un atrium tetrastylum con tablinum e sale ai fianchi, forse triclinia, a
cui nel seminterrato corrispondeva un atrium testudinatum con altrettante sale.
Dietro l’atrium era un atriolum con vestibulum e cubicula ai lati, trasformato poi
in peristylium. Al di sotto nel seminterrato erano tredici cellae (ciascuna di mq
7) destinate ai servi. A meridione della casa erano, su due piani, un lungo
corridoio e nove stanze, tra le quali, al seminterrato, un triclinium e una cucina
o culina.
La casa privata di Augusto ha riutilizzato le due strade, interrate, e le due case
più vicine, a partire dall’atrium ridecorato della Catulina domus, dove il liberto
ed erudito M. Verrio Flacco, assunto come precettore, farà scuola ai nipoti del
princeps Gaio e Lucio Cesari (Svetonio, Vita dei grammatici, 17.2). Il peristylium è
stato allora trasformato in stanze di servizio, una delle quali immetteva nel
corridoio sotterraneo che portava alla domus Publica di Augusto pontefice
massimo. Vengono riutilizzati e ristrutturati i sette ambienti laterali e uno dei
vici seppelliti diventa un corridoio; sopra la casa dell’allevatore di murene e
sopra il vicus successivo viene edificato un nuovo peristylium. Su due lati di
questo davano ambienti di servizio, tra cui una culina dotata di bancone; altri
ambienti si trovavano al piano superiore, dove dopo il 25 a.C. possono aver
vissuto Giulia e Agrippa, genitori dei giovani Cesari. Sul terzo lato, il
principale, era una sala lunga e stretta che comunicava sul retro con una
exedra. Sopra a questi ultimi due ambienti è ricostruibile lo studio/laboratorio
di Augusto, alto e isolato, chiamato Syracusae (Svetonio, Vita di Augusto, 72.2).
L’exedra e le due coppie di cubicula che aveva ai lati si affacciavano su uno
spazio aperto, una corte, che insisteva su una parte della casa che era stata
dell’oratore Ortensio e poi di Ottaviano: è il compluvium dei Lares e dei Penates
(Svetonio, Vita di Augusto, 92.2), accolti in una aedicula, ben conservata, il cui
altare era probabilmente l’ara del Belvedere (si veda l’Angolo 50, fig. 4). Uno
dei suddetti cubicula poteva accogliere la scala, attestata in un rilievo a soggetto
dionisiaco di cui conosciamo repliche al Museo Nazionale di Napoli, al
Louvre di Parigi e al British Museum di Londra (fig. 12, d) la quale portava
allo studio/laboratorio chiamato Syracusae (fig. 12, 14), la cui immagine
esterna è attestata sui citati rilievi. Il cubiculum accanto alla scaletta, l’unico
raggiungibile direttamente dall’atrium, era probabilmente quello nel quale
Augusto aveva dormito per oltre quarant’anni (Svetonio, Vita di Augusto,
72.1). Questa stanza distava assai poco (m 27) dalla casa Romuli e dalla fossa/ara
della fondazione di Roma (si veda l’Angolo 1). Settecentotrenta anni di
distanza fra il re fondatore e il principe rifondatore, ridotti a pochi passi.
Riepilogando, la casa privata di Augusto ha occupato due case (di Catulo e
dell’allevatore di murene), due strade interrate e parte di un’altra casa (già
dell’oratore Ortensio e poi di Ottaviano). L’atrium, che era stato di Catulo e
poi di Augusto, sarà infine di Livia Giulia Augusta, come si legge in una fistula
iscritta (cil, XV 7276b), sacerdotessa del culto del divo Augusto, di cui Claudio,
figlio del fratello di Tiberio, era flamine. L’atrium sarà utilizzato anche come
sede dei sodales Augustales, i sacerdoti del divo Augusto, dal momento che la
loro sede di Ercolano (VI, 21, 24) era una replica perfetta dell’atrium di Livia
(Atlas, tav. 68; si veda anche l’Angolo 42, fig. 11).
Atlas, tavv. 64 E, 69, 70 A-72, 281-282, ill. 10-12. – Bruno 2014b, pp. 364-
368, 369-374. – Carandini, Bruno 2008. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010,
pp. 151-225. – Tomei 2014.
11.
Rilievi, quasi fotografie
(FIGG. 12 E 13)
Abbiamo visto che i servi domestici erano alloggiati in città entro singole
camerette, in cui poteva entrare al massimo un lettino. Questi quartieri servili
o ergastula si trovavano per lo più nei seminterrati delle domus, sovente al di
sotto degli atria e comunque nei piani bassi, come si vede appunto nella casa di
Ottaviano (Atlas, tav. 69; si veda l’Angolo 10, fig. 10). L’esempio più famoso si
trova nella casa attribuita a Scauro, le cui 62 camerette sono state attribuite,
erroneamente, a un postribolo, e lo prova la casa di Augusto che al di sotto
non ha una casa per il vizio ma una sorta di ministero (Atlas, tav. 282). Si veda
anche la casa dei Domizi Enobarbi sulla Velia, in cui sono 48 stanzette sui due
piani del lato lungo settentrionale del peristilio e del criptoportico (Atlas, tav.
91; qui, fig. 43).
Dopo l’8 a.C. il princeps ha aggiunto sul fronte del suo palazzo-santuario –
che era rimasto ancora quello alquanto incongruo della domus Octaviani – un
corpo rettangolare enorme e dall’organica e impressionante facciata rivolta al
Circo. Sopra di esso era un terrazzo porticato, contenente probabilmente una
serie di alberelli di alloro, la silva Apollinis che al centro aveva un’ara,
probabilmente quella definitiva della Roma Quadrata (Atlas, tav. 71; qui, fig.
11). Come la porticus delle Danaidi, anche questa, a livello più basso, rientrava
nell’area Apollinis, formando entrambe un quadrato di 360 piedi,
corrispondente alla Roma Quadrata intesa come un’area che alludeva alla
Roma quadrangolare romulea sul Palatino. Sul fronte e al centro di questo
corpo era una balconata o maenianum che leggermente protrudeva e dalla
quale si potevano osservare le corse nel Circo.
Al di sotto erano tre piani di sostruzioni, la ima pars Palatii, che ospitava
probabilmente i numerosi liberti e schiavi della familia Caesaris e in particolare
quelli addetti al Fiscus, cioè ai proventi dalle province comandate da Augusto,
e al Patrimonium, cioè ai proventi dai beni suoi personali, congiuntamente
amministrati (Atlas, tavv. 72 e 282). In questa ima pars del palazzo hanno poi
operato, sotto Claudio ormai perfettamente strutturati, i liberti che
svolgevano le funzioni di segretari di stato: Callistus a libellis, cioè alle
petizioni, Narcissus ab epistulis, cioè alla corrispondenza, Pallas a rationibus, cioè
alle finanze, Polibius a studiis, cioè alla biblioteca, e il segretario a cognitionibus,
cioè alla giustizia (Dione Cassio, 60.5.14, 30.6b, 31.2-5; Tacito, Annali,
12.53; Svetonio, Vita di Claudio, 28).
Ai margini esterni di questa sostruzione erano numerose stanze (44 x 3 =
132), che prendevano luce dalle finestre: probabilmente gli uffici. Dietro di
essi erano ambienti maggiori (26 x 3 = 78), che al piano superiore prendevano
luce dall’alto e nei piani inferiori dalle stanze con finestre ai margini del corpo:
erano probabilmente gli alloggi del personale. L’ergastulum domestico
sotterraneo proprio dei nobili e magistrati repubblicani era diventato nel
palazzo-santuario di Augusto un gigantesco ministero, composto da 210
stanze, nel quale ha operato la prima burocrazia dell’Occidente. Al centro
della sostruzione era il nucleo interno, composto di ambienti meno vivibili,
lunghi, stretti e bui, usati forse come depositi e magazzini e al bisogno anche
come prigione (Tacito, Annali, 20.40; Dione Cassio, 58.11.4; Svetonio, Vita
di Tiberio, 54, 65). Al piano terra questo nucleo interno era riservato
probabilmente al Lupercal, santuario che fino all’8 a.C. è stato descritto da
Dionigi di Alicarnasso all’aperto e ai piedi della parete tufacea del Cermalus. La
fonte del Lupercal è identificabile nel sontuoso ninfeo rotondo e lì accanto
doveva essere anche la grotta, forse oramai un’elegante abside, che conteneva
l’immagine della lupa e dei gemelli. Ma dopo l’8 a.C. il santuario è stato
inglobato nella sostruzione e l’abside, che si trovava in fondo, è stata inclusa in
un ambiente rettangolare in forma di basilica. Vi si poteva accedere
dall’ingresso principale, alla base e al centro del maenianum, il quale si trovava a
sua volta nell’asse del sovrastante tempio di Apollo, sul quale l’intero
complesso palaziale era stato strutturato. Marte e Fauno Luperco (lupo e
capro) erano gli antenati mitici di Romolo e Apollo era il padre mitico di
Augusto, il principe e pontefice massimo che aveva rifondato Roma,
governandola da un palazzo-santuario di Apollo che si trovava tra il Lupercal e
la casa Romuli.
Con Domiziano (Atlas, tav. 80) gli spazi per la burocrazia si estendono. Nel
complesso intorno all’aedes Iovis Victoris erano disponibili ormai una settantina
di stanzette al piano terra e lungo il c.d. clivo Palatino B, per non dire delle
altre 20 stanze distribuite su quattro o cinque piani rivolte al vicus Curiarum.
Insomma, una possibile caserma di burocrati composta di 450 ambienti, più
del doppio della ima pars Palatii.
Atlas, tavv. 66, 70-72, 282, ill. 10. – Carandini 2014b, pp. 11-27. – Bruno
2014b.
13.
Il quartiere più chic del Palatino
(FIGG. 15 E 16)
La strada (clivo Palatino A) che univa due delle porte delle mura palatine – la
Mugonia e quella di cui ignoriamo il nome che si trovava probabilmente alle
salae Caci – e il vicus huiusce diei, che si trovava lungo il bordo del Palatino
rivolto al Velabrum e che prendeva il nome dall’annesso culto di Fortuna huiusce
diei o “di oggi giorno” accolto nella porticus Catuli, hanno delimitato una zona
stretta e lunga del monte che dall’alto vedeva la Velia, il Quirinale, il Foro,
l’Arce e il Campidoglio: una posizione davvero straordinaria.
Alle estremità brevi di questa zona erano due importantissimi luoghi di
carattere cultuale e regio: a meridione, l’area sacra a Iuno Sospita/Victoria e la
casa Romuli/Martis con la fossa e l’ara della fondazione di Roma e, a
settentrione, il lucus Vestae, dove era stato acceso il primo fuoco pubblico di
Roma (si veda l’Angolo 1 e 2), dove erano i culti di Vesta, dei Lari, di Marte e
di Ops e quello vicino di Iuppiter Stator e dove erano le domus delle vestali, dei
re e dei sommi sacerdoti della città.
La casa Romuli, che stava alta sul Cermalus, era stata poi duplicata, in quanto
sede regia, nella domus dei re-auguri eretta nella bassura del complesso del
Foro. Un fenomeno analogo si era verificato anche ad Atene, dove la sede
regia era stata spostata dall’Acropoli alla pianura della prima agorà.
In questa zona eletta del Palatino stavano, in età tardo-repubblicana, 12 lotti
abitativi, ampi in media mq 1159, che hanno svolto un ruolo storico
d’importanza rilevantissima. Era questo il quartiere più elegante e più famoso
dell’intera Roma e forse di tutto il mondo romano, a noi ben noto grazie alle
numerose fonti letterarie che lo hanno descritto e grazie alla conoscenza ormai
sistematica che abbiamo degli indizi e degli scavi archeologici in questo luogo.
La casa 1. Partendo dalla Sacra via e salendo per il clivo Palatino A s’incontrava
a occidente la domus Publica dove risiedeva il pontefice massimo, si varcava poi
la porta Mugonia e subito oltre, in un lotto di forma triangolare al limite del
nemus Vestae, era una prima casa privata. Può essere identificata con la domus
Liciniana, verosimilmente la dimora più antica dei Licini, tra le varie che si
addensavano in questa parte di Roma. Al tempo di Cicerone qui abitava L.
Calpurnio Pisone Cesonino, il console del 58 a.C. che aveva proposto l’esilio
dell’oratore, che aveva partecipato con Clodio alla distruzione della sua casa
(6) e alla rapina del mobilio e delle colonne (probabilmente della palaestra) e
che aveva fatto trasportare quel bottino in casa sua (le due case distavano
solamente m 166). Un tipaccio! La casa era appartenuta a Licinia, suocera di
Pisone e probabilmente sorella di M. Licinio Crasso, triumviro insieme a
Pompeo e a Cesare. Da suo marito, P. Rutilio Nudo, Licinia aveva avuto una
figlia, Rutilia, che aveva sposato appunto il terribile Pisone.
La casa 5/6. Crasso era stato l’esecutore delle confische volute da Silla e grazie
a esse e ad astute speculazioni edilizie aveva accumulato una grande fortuna.
Rientrato a Roma nel 78 a.C., aveva comprato una casa prestigiosa nel lotto 6
da M. Porcio Catone Uticense, che l’aveva ereditata da M. Livio Druso,
assassinato nel 91 a.C. nell’atrio di questa stessa casa. In essa era stata ordita la
congiura di Catilina ed era stato poi Crasso, uomo quanto mai ambiguo, a
denunciarla a Cicerone, console nel 63 a.C., recandosi nella notte tra il 20 e il
21 ottobre nella sua casa alle Carinae. Nel 62 a.C. la casa di Crasso è stata
venduta dal suo secondogenito Publio a Cicerone, che l’ha pagata 3 milioni e
500 mila sesterzi, prezzo notevolmente al di sotto del valore di mercato.
Crasso figlio aveva accettato di svenderla confidando che l’oratore avrebbe
potuto riconquistargli il perduto favore di Pompeo. La casa si trovava
all’angolo nord-ovest del pomerium romuleo, luogo considerato pulcherrimus e
clarissimus, perché in conspectu totius urbis. Crasso figlio morirà nel 53 a.C. a
Carre in Siria, combattendo i Parti.
La casa 3. Sotto la casa 6 era la casa 3, con vista su lucus Vestae e Velia. Si
trovava in cima alle scalae Anulariae o dei Gioiellieri. È attribuibile anch’essa ai
Licini, probabilmente all’annalista G. Licinio Macro Clavo, morto suicida nel
66 a.C. Gli era succeduto suo figlio, oratore e letterato, amico intimo di
Catullo, morto nel 47 a.C. A quel tempo la casa è stata acquistata da
Ottaviano, tornato ad abitare sul Palatino dopo un breve periodo passato alle
Carinae. Infatti era nato nella casa paterna che si trovava ad capita bubula,
all’angolo nord-est del Palatino (si veda l’Angolo 9, fig. 9, A). Nella casa alle
scalae Anulariae Ottaviano ha abitato fino al 42 a.C., quando ha ottenuto
quello che più desiderava: essere il dirimpettaio della casa/aedes Romuli, cioè
del re che aveva fondato Roma (si veda l’Angolo 10).
La casa 3 è rimasta probabilmente vuota tra il 42 e il 25 a.C., quando Giulia,
figlia di Ottaviano, ha sposato M. Marcello e vi è andata forse ad abitare.
Questa casa diventerà la dimora preferita delle donne della famiglia Giulia,
altezzose se non per nobiltà per il sangue divino di Venere e di Giulio Cesare,
padre adottivo di Ottaviano, che scorreva nelle loro vene. Marcello è morto
presto, nel 23 a.C., e nel 21 Giulia si è risposata con Agrippa, l’artefice della
vittoria su Antonio e Cleopatra ad Azio. Agrippa aveva lasciato la casa nel
lotto 8, già concessagli da Augusto, perché colpita da incendio nel 25 a.C., ed
era stato accolto come genero nella domus Augusti. Giulia ha accompagnato poi
Agrippa in Oriente fra il 16 e il 13 a.C. Nel palazzo del principe sono forse
nati e cresciuti anche i loro figli, Gaio e Lucio Cesari, affidati all’erudito
Verrio Flacco, che li istruiva nell’atrium di Augusto, che prima era stato di Q.
Lutazio Catulo, di cui aveva conservato il nome; altri loro figli erano Iuliola,
Agrippina I, che sposerà Germanico figlio di Antonia a sua volta figlia di
Antonio, e Agrippa Postumo. Agrippa è morto nel 12 a.C.
La casa 3 è rimasta vuota tra il 21 e l’11, anno in cui Giulia ha sposato
Tiberio, nobilissimo Claudio Nerone figlio di Livia, anche lei della famiglia
Claudia, privo tuttavia del sangue divino dei Giuli e da Giulia forse anche per
questo deriso e disprezzato. Forse tra l’11 e il 2 a.C. la coppia ha abitato nella
casa 3, dove Giulia aveva vissuto con Marcello tra il 25 e il 23 a.C. e poi come
vedova tra il 23 e il 21 a.C.; oppure, più probabilmente, ha abitato già nella
casa 10, attribuibile ai Claudii Nerones, dove Tiberio era nato e che è diventata
poi la domus Tiberi (si veda l’Angolo 15).
Nel 6 a.C. Tiberio si era ritirato nell’isola di Rodi, anche per allontanarsi
dalla lasciva Giulia, bandita nel 2 a.C. per adulterio prima a
Pandataria/Ventotene, dove l’aveva accompagnata sua madre Scribonia, e
infine a Reggio in Calabria, dove nel 14 d.C. morirà. Nel 2 d.C. è morto a
Marsiglia Lucio Cesare, forse avvelenato da Livia. Nel 4 d.C. è morto in Licia
anche Gaio Cesare. Agrippa Postumo, nato dopo la fine del padre, adottato
insieme a Tiberio da Augusto nel 4 d.C. in quanto unico erede diretto
rimasto del sangue Giulio, è stato relegato nel 7 d.C. a Sorrento e poi a
Planasia/Pianosa, dove nel 14, morto Augusto, è stato sgozzato. Iuliola,
accusata di congiurare col marito L. Emilio Paolo, è stata relegata nell’8 d.C.
nelle Tremiti dove è morta nel 28 d.C. Agrippina I è la sola erede dei Giuli a
essersi salvata da questa strage.
La casa 3 è stata e sarà la sede del partito di opposizione nella guerra scatenata
in famiglia riguardo all’avvenire dinastico dei propri giovani. Questo partito
era avverso alla res publica restituta di Augusto, cioè alla collaborazione del
principe con la vecchia classe dirigente, alla quale si era ispirato in parte anche
Tiberio. Esso mirava, invece, a instaurare una monarchia assoluta di tipo
ellenistico, che escludeva limiti prefissati alla conquista del mondo. Aveva a
modello un’autocrazia di sangue divino, legata strettamente al popolo, che
aborriva l’opera mediatrice del Senato. Confinava con la casa 3 la casa 2, dove
viveva Antonia, dove prevaleva il partito opposto, quello favorevole ad
Augusto e a Tiberio, tanto che nel 30 era stata proprio Antonia ad avvertire
Tiberio, allora a Capri, delle mire eversive del famigerato prefetto al pretorio
Seiano, condannato a morte l’anno seguente.
Tra il 14 e il 16 d.C. Agrippina aveva guidato alla rivolta contro Tiberio le
legioni del Reno, che prediligevano Germanico, figlio di Antonia e di Druso,
fratello di Tiberio. Negli anni 15 e 16 d.C. Germanico aveva vendicato la
sconfitta – tre legioni annientate – subita da Varo nel 9 d.C. nella foresta di
Teutoburgo (Bassa Sassonia) invadendo il territorio tra il Reno e l’Elba e
riconquistando le insegne perdute, ma non era riuscito a catturare Arminio,
capo della resistenza. Seguendo il fiume Amisia, Germanico aveva raggiunto
poi l’Oceano settentrionale, come Alessandro Magno che tramite l’Indo aveva
raggiunto l’Oceano meridionale. Nel 17 Germanico, amatissimo dal popolo,
ha celebrato il trionfo. Sul cocchio erano i cinque figli di Agrippina, nei quali i
sangui Giulio (di Agrippina), Claudio e Antonio (di Germanico) si erano
mescolati felicemente. Dal 18 d.C. in Oriente, Germanico e Agrippina hanno
visitato Troia, come l’avevano visitata Alessandro e poi Giulia e Agrippa. Sono
andati infine anche in Egitto – senza il permesso di Tiberio – e di lì
Germanico si è avventurato alla ricerca delle fonti del Nilo. Nel 19
Germanico è morto ad Antiochia, avvelenato da Plancina, moglie del
governatore di Siria Gn. Calpurnio Pisone, donna legata a Livia fino a
seguirne le capacità di avvelenatrice, visto che probabilmente aveva fatto
avvelenare Lucio Cesare e forse anche lo stesso Augusto; per non dire
dell’esempio di Clodia, che aveva avvelenato il marito Q. Cecilio Metello
Celere (si veda l’Angolo 10).
Le case 10-12. Nel 2 d.C. Gaio Cesare è morto e Tiberio ha lasciato Rodi per
Roma. Nel 4 d.C. è morto anche L. Cesare e Agrippa Postumo è stato
adottato da Augusto insieme a Tiberio, che a sua volta ha adottato
Germanico; in questo volgere di tempo Giulia è stata trasferita a Reggio
Calabria. Nello stesso anno Agrippina I ha sposato Germanico e la coppia va a
vivere nella casa 3, ora diventata la domus Germanici. Sua sorella Livilla I aveva
sposato prima Gaio Cesare e poi Druso II, figlio di Tiberio e di Vipsania
Agrippina, morto nel 23 d.C. avvelenato probabilmente da sua moglie,
sedotta da Seiano. Si apriva così la successione ai figli di Germanico.
Il correggente di Augusto, Tiberio, va a vivere da solo nella casa 10, dove era
nato, passata nel 38 a.C. a Ottaviano che da Tiberio Claudio Nerone era stato
nominato tutore dei figli avuti da Livia, Tiberio e Druso. Dunque, in questa
casa, vuota da quattro decenni, ha abitato Tiberio fino alla nomina al
principato nel 14 d.C. (Tacito, Annali, 6.51.2): è la domus Tiberi. A quel
tempo la casa era congiunta ad altre due vicine (11-12), la prima delle quali era
stata di Clodia. Il vestibulum della discussa signora potrebbe essere stato
riutilizzato da Tiberio come ingresso all’intera magione. A spingerci verso
questa soluzione è la notizia che nel 38 d.C. Gaio Caligola, in domo sua quae
fuit Ti. Caesaris avi, sub divo in ara sacrificium deae Diae concepit, “(Caligola) aveva
compiuto un sacrificio con formula rituale alla dea Dia su un altare all’aria
aperta, nella sua casa, che era stata del nonno (per adozione) Tiberio Cesare”
(Acta fratrum Arvalium, 40-42). L’evento dimostra che Caligola aveva ereditato
la casa già di Tiberio e prima ancora di suo padre. D’altra parte è da
presupporre che la domus Tiberi, identificata con la casa 10, avesse generato
accanto a sé la domus Tiberiana, come la domus Augusti ha generato poi la domus
Augustiana, come la domus Germanici infine ha generato la domus Gai Caligolae e
come la domus dei Domizi Neroni ha generato infine la residenza sulla Velia
appartenente alla domus Aurea di Nerone.
Nel 14 d.C. Tiberio, novello princeps, lascia la casa avita e va ad abitare nella
parte pubblica della casa di Augusto, perché quella privata era occupata da
Livia e fungeva probabilmente anche da sede centrale dei sodales Augustales (si
veda l’Angolo 10 e 19). Nel frattempo Tiberio, stufo della madre assai
invadente, aveva cominciato a costruire la domus Tiberiana, prosecuzione verso
settentrione della domus Tiberi (case 10-12), ma mai però inglobata
architettonicamente nel nuovo palazzo.
Le case 7-9. La domus Tiberiana, nota anche come Tibereia aula (Stazio, Le selve,
3.3.67), è stata edificata: sopra le case 7-8 bruciate nel 25 a.C., sopra la porticus
Catuli trasformata ancora una volta – dopo Clodio – in amplissimum peristylium,
ora dotato di grande piscina (lotto 9) e sopra i fronti di altre case vicine (5, 6a,
10-12). Questi spazi avevano costituito la insula di Clodio, il nobilissimo
Claudio Pulchro dal nome plebeizzato. Era diventata poi la casa di Antonio,
passata, dopo la sua morte, a Ottaviano e poi da lui concessa per il lotto 8 ad
Agrippa, al di sopra degli horrea Agrippiana, e per il lotto 7 a M. Valerio
Messalla Corvino, che a suo tempo era stato maestro di Tiberio. Queste case,
distrutte da un incendio nel 25 a.C., potrebbero aver accolto, una volta
ristrutturate, più che Vipsania Agrippina figlia di Agrippa che aveva sposato
Tiberio nel 20 a.C., da immaginare nella casa già di Pompeo e di Antonio alle
Carinae, Agrippa e Giulia, ove a un certo momento avessero lasciato la domus
Augusti. Insomma, tra fine anni ’10 e inizi anni ’20 Tiberio è stato il primo
principe a possedere due palazzi sul Palatino: la domus Augusti e la domus Tiberi
unita al primo nucleo della domus Tiberiana. Nel 27 d.C. il principe si ritirerà a
Capri, dove nel 37 morirà.
La casa 3 (tempo dopo). Caligola aveva smantellato la domus Augusti, vendendone
miserabilmente gli arredi, probabilmente si era disinteressato della domus
Tiberiana e nei suoi pochi anni di principato ha edificato solamente la propria
domus Gai, che si trovava subito al di sotto della domus Germanici, quasi un suo
prolungamento verso il Foro. Claudio, al contrario, ha ripreso a vivere da
principe nella parte pubblica della domus Augusti, già abitata da Tiberio, ch’egli
ha completamente ristrutturato. Inoltre, aveva proseguito i lavori di Tiberio
nella domus Tiberiana (come indica una fistula bollata), dotando entrambe le
residenze sul Palatino di una basilica (si veda l’Angolo 15).
Gli Statili, terza grande famiglia della corte augustea ospitata nel sommo
quartiere del Palatino, avevano occupato la casa 6, che era stata di Cicerone, e
forse anche la casa 4, già di suo fratello Quinto, sicuramente fino al 30 d.C.,
ma forse anche negli anni di Claudio. Infatti Tauro Statilio Corvino, nipote di
Statilio Sisenna, che in quella casa aveva abitato, è stato spinto al suicidio nel
53 d.C. da una accusa mossa da Agrippina II, che voleva impossessarsi dei suoi
giardini. Tolto di mezzo dal luogo più splendido del monte l’ultimo
rimasuglio ancora radicato nella corte augustea, Nerone ha disposto dello
spazio necessario per ingrandire la domus Tiberiana dopo l’incendio del 64.
Così la casa degli Statili è stata inglobata sotto l’angolo nord-occidentale
dell’ormai vastissimo palazzo; mentre il giardino nella pars inferior della stessa
casa (6) e la casa sottostante (5) sono finiti sotto la nuova magniloquente
scalinata che dava accesso alla domus Tiberiana dalla Sacra via. Da questo
momento il clivo Palatino A è stato chiuso per sempre al pubblico, per cui il
clivo Palatino B è diventato per la prima volta il percorso principale del
monte. Le case 2 e 3 sono state distrutte per dar luogo agli annessi della domus
Tiberiana disposti lungo il fronte settentrionale del palazzo. Infine la casa 1 è
stata sepolta sotto l’area porticata di Nerone che poi conterrà gli horrea
Vespasiani. In conclusione, i 12 lotti, già dimore storiche del quartiere più
elegante del Palatino, sono scomparsi tutti sotto la domus Tiberiana, salvo la
domus Tiberi che l’aveva generata. Fine di un mondo!
Nel 5 d.C. Germanico ha lasciato la dimora di sua madre Antonia e forse già
di sua nonna Ottavia, identificabile con la casa 2, ed è andato ad abitare con la
moglie Agrippina I nella casa 3, diventata la domus Germanici. Dominava le
case sopra le quali sorgerà la domus Gai, cioè di Caligola o “Stivaletto”.
Quest’ultima ci appare come una sorta di domus Germaniciana, generata cioè
dalla domus Germanici. Tra Nerone e Domiziano la domus Germanici
ristrutturata e la domus Gai verranno assorbite nella domus Tiberiana, oramai
prolungata verso il Foro grazie a una enorme aula di ricevimento, volta a
controbilanciare quella, anch’essa suntuosissima, della domus Augustiana (fig.
19). Essendo la posizione della domus Gai archeologicamente nota e sapendo
da Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, 19.74 sgg.) che era contigua alla domus
Germanici, finiamo per sapere anche dove quest’ultima si trovava, cioè nel
lotto 3. In questa casa, tra il 6 e il 18 d.C., sono nati, da Agrippina I e da
Germanico, numerosi figli, tra i quali Caligola e Agrippina II, madre di
Nerone e futura sposa di Claudio.
Nel 19 d.C. Agrippina, vedova di Germanico, ha continuato ad abitare nella
domus Germanici fino al 27 d.C. In quell’anno lei e suo figlio Nerone sono stati
arrestati e mandati due anni dopo in esilio: lei a Pandataria o Pianosa, dove nel
33 d.C. morirà di frustate, che le avevano anche cavato un occhio, e di stenti
(contemporaneamente è stata eliminata anche Plancina, che aveva fatto
avvelenare suo marito); lui, a Pontia/Ponza, costretto a suicidarsi nel 31 d.C.
Ah, se si fosse conservata l’autobiografia di Agrippina!
Dal 27 Caligola, le sorelle Drusilla e Livilla II e lo zio Claudio hanno trovato
riparo nella domus Augusti, protetti da Livia fino al 29, anno in cui l’Augusta
ottantaseienne è morta. Tra il 29 e il 37 d.C. il palazzo di Augusto è rimasto
vuoto, poi anche spogliato da Caligola. Nel 31 d.C., nella sua ima pars, è stato
imprigionato il prefetto al pretorio Seiano prima della condanna a morte, e tra
il 30 e il 33 d.C., sempre nella ima pars, è stato imprigionato, percosso e
lasciato morire di fame (aveva divorato la paglia del materasso) il povero Druso
III. Dal 29 d.C. Gaio/Caligola e Claudio hanno trovato riparo da Antonia
nella casa 2, ma dal 32 d.C. Gaio è stato convocato a Capri da Tiberio. Dei
figli di Agrippina I erano sopravvissuti solamente Drusilla (morirà e verrà
eccezionalmente consacrata nel 38 d.C.), Gaio/Caligola (morirà trucidato nel
41 d.C.) e Livilla II (morirà di inedia a Pandataria o Ventotene nel 41 d.C.).
Le ceneri di Agrippina saranno accolte nel mausoleo di Augusto solamente da
suo figlio Gaio/Caligola, una volta ottenuto il principato.
L’intera progenie maschile di Agrippina era stata sterminata tra il 27 e il 33,
tranne Gaio/Caligola, salvato da Tiberio a Capri forse per lealtà ad Augusto, il
quale aveva voluto che a succedergli fosse un discendente di Germanico;
d’altra parte di Tiberio Gemello, figlio di Livilla sorella di Germanico, si
ignorava il padre: Druso II o l’orribile Seiano?
Nominato al principato nel 37 d.C., Gaio/Caligola ha vissuto probabilmente
prima nella vuota domus Germanici, poi nel 39 nel suburbio e infine nel 40 e 41
nella nuova domus Gai, di cui la domus Germanici era diventata una dépendance.
La casa 2. Accanto alla domus Germanici (casa 3) era la casa 2, che diventerà
infine la domus Claudi. Si trovava lungo la “strada diretta” descritta da
Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, 19.74 sgg.), identificabile con il
drittissimo clivo Palatino A. Si affacciava anch’essa su lucus Vestae e Velia,
subito al di sopra della casa 1. Era entrata a far parte della proprietà di
Ottaviano forse già nel 32 a.C., quando potrebbe essere stata occupata da sua
sorella Ottavia dopo che, ripudiata, aveva lasciato la casa di Antonio (7-8). Si
era portata con sé in quella casa un seguito largo di giovinetti: M. Marcello,
che sposerà Giulia figlia di Ottaviano e Scribonia; Marcella II, che sposerà
Agrippa; Marcella I; Giuba II, figlio del re di Numidia e futuro re della
Mauretania; il liberto Igino, che diventerà bibliotecario del palazzo; i figli di
Antonio e Fausta Antillo e Iullo Antonio, che diventerà amante di Giulia e
cospiratore con lei contro Augusto; dal 30 a.C. i figli di Antonio e Cleopatra,
Alessandro Elio, Cleopatra Selene e Tolemeo Filadelfo. Seguiranno i
matrimoni fra Giuba II e Cleopatra Selene, fra Iullo Antonio e Marcella (già
moglie di Agrippa) e fra M. Marcello e Giulia. L’ospitalità internazionale di
Ottavia verrà in seguito ripresa da Antonia, figlia di Antonio, sempre nella
stessa casa 2.
Nel 16 a.C. Antonia, figlia di Ottavia e di Antonio, aveva sposato Druso
fratello di Tiberio, principe al quale rimarrà fedele, contro le trame ordite
nella vicina casa 2. Potrebbe aver continuato a vivere con Druso nella casa 2,
dove sua madre Ottavia, ripudiata da Antonio nel 32 a.C., era andata
probabilmente ad abitare fino a quando è stata relegata a
Pandataria/Ventotene, dove intorno all’11 a.C. morirà. In questa dimora sono
nati nel 15 a.C. Germanico e nel 10 a.C. Claudio. Nel 9 a.C. Druso muore e
Antonia lascia la casa 2 e va a vivere, con ampio seguito familiare, nella domus
Augusti, ospite di Livia (nell’appartamento al primo piano dove già potevano
aver abitato Agrippa e Giulia?). Dal 29 d.C. Antonia torna a vivere nella casa
2, portando con sé Claudio e Gaio/Caligola con le sue due sorelle. Qui essa ha
abitato fino al 37 d.C., quando la grande e ospitale vedova di Druso – la più
importante signora di Roma, dopo la morte di Livia – muore, costretta forse a
suicidarsi. Antonia, figlia di Antonio, aveva stabilito numerosi nessi e
parentele con varie case regnanti dell’Oriente, i cui membri erano stati suoi
ospiti, alla maniera inaugurata da Ottavia: Giulio Agrippa poi diventato re di
Giudea, Antioco IV Epifane poi divenuto re di Commagene e i principi figli
di Coti re dei Traci, a cui sono andati poi i regni tra il Mar Nero e l’Armenia
Minore. È da personaggi di tal fatta, oltre che dalla tradizione delle donne
Giulie, che Caligola ha appreso il gusto per il dispotismo, che i suoi
predecessori avevano saputo evitare.
Dal 37 d.C. Claudio ha vissuto nella domus Claudi, che era stata della madre e
forse anche della nonna, oramai insieme alla terza moglie, Valeria Messalina,
da cui ha avuto Ottavia, futura moglie di Nerone, e lo sventurato Britannico.
È da questa domus che nel 41 d.C. Claudio è stato prelevato per essere
nominato successore di Caligola trucidato (si veda l’Angolo 16). È andato allora
ad abitare nella casa pubblica di Augusto, dotata ora di una piscina-ninfeo e di
una basilica, probabilmente da identificare con la aedes Caesarum (cil, VI 7265),
se teniamo conto che nella basilica vitruviana era prevista una aedes Augusti (si
veda l’Angolo 15). Era questo il monumento dinastico dei Cesari sul Palatino,
a cui corrispondeva quello nella casa natale di Augusto (si veda l’Angolo 9). Nel
44 d.C. Claudio ha fatto appendere al fastigium del vestibulum della domus
Augusti una corona navale in occasione del suo trionfo sulla Britannia. In
questa stessa casa ha celebrato nel 47 d.C. i ludi Saeculares, otto secoli dopo la
fondazione di Roma e venti anni dopo la rifondazione di Roma da parte di
Augusto. Sui gradini del vestibulum della domus Augusti farà la sua prima
comparsa Nerone, successore di Claudio, morto avvelenato da sua moglie
Agrippina II.
Nel 48 d.C. Messalina, insieme all’amante G. Silio che nel frattempo aveva
sposato, aveva inscenato, pensiamo proprio nella domus Augusti, una
vendemmia in stile dionisiaco, tra mosto che scorreva e baccanti scatenate. La
scena può essere ricostruita davanti alla fontana di Bacco, che si trovava sul
fronte della domus Augusti (si veda l’Angolo 11, fig. 12, 11-12).
Claudio ha poi ristrutturato anche la domus Tiberiana (lo attesta una fistula con
il suo nome trovata in un rifacimento delle sostruzioni, per cui il primo
nucleo del palazzo precede), dotando anch’essa di una basilica. Intanto la domus
Gai, scissa finalmente dal tempio dei Castori e dal ponte rivolto al
Campidoglio evidentemente eliminato, viene ristrutturata, ma non si sa a qual
fine; essa verrà distrutta da Domiziano quando estenderà domus Tiberiana verso
il Foro. Morta Messalina, Claudio ha sposato Agrippina II e nel 50 d.C. ha
adottato suo figlio Nerone, anteponendolo a Britannico. Nel 54 d.C.
Agrippina II fa avvelenare il liberto Narcisso e infine lo stesso Claudio,
ricorrendo ai funghi ch’egli prediligeva e diventando poi la sacerdotessa del
marito divinizzato. Quale incredibile famiglia, che ha superato in aberrazioni
perfino la decadenza e la caduta dell’aristocrazia britannica.
Nel 55 d.C. la casa 2 accoglierà probabilmente – ultima ospite della famiglia
Giulia – Agrippina II, quando suo figlio Nerone l’aveva estromessa dal
palazzo. In questa dimora la signora in disgrazia rimarrà fino al 59 d.C., anno
in cui verrà fatta uccidere dal figlio nella sua villa di Bacoli. Dopo il 64 d.C. la
casa 2 e la casa 3 vengono distrutte e seppellite sotto gli edifici di servizio che
erano venuti a interporsi tra la facciata nord della domus Tiberiana e la Sacra via.
Così le due postazioni domestiche, sedi dei due opposti partiti, uno
favorevole al principato voluto da Augusto e l’altro favorevole al dispotismo,
scompaiono sotto la reggia del despota supremo, l’anti-Cristo che è anche
l’ultimo dei Cesari, Nerone.
Atlas, tavv. 64, 70, 76, 77, 79, 281. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 78-
138.
14.
La casa di Cicerone
(FIGG. 15 E 16)
La casa di Cicerone occupava due lotti (6a). In quello più a sud-est era
l’entrata. Lo immaginiamo composto dal quartiere dell’atrio, con dietro quello
di un piccolo hortus o cortile. Il cubiculum dell’oratore si trovava entrando a
destra, visto che in una notte del 57 a.C. l’oratore aveva sentito russare M.
Claudio Marcello nell’unica casa annessa (5); quindi il cubiculum del russatore
doveva trovarsi entrando in questa casa a sinistra. Il lotto più a nord-ovest
costituiva il cuore rappresentativo della casa: la palaestra ornata da una statua di
Minerva (portata in seguito dall’oratore in Campidoglio): una Academia
ateniese trasferita in Roma; la villa di Tusculum dell’oratore era dotata sia di
una Academia che di un Lycaeum, probabilmente su due livelli, come i due
giardini nella villa di Settefinestre (Carandini 1985). La palestra era dotata
probabilmente su un lato di due biblioteche, una greca e l’altra latina,
affiancate al triclinium, come nella casa di Ortensio/Ottaviano e soprattutto
come sarà nella dimora ricostruita di Cicerone. Sull’altro lato erano invece
stanze contenenti un balneum con laconicum, la stanzetta per sudare. Così la
palaestra aveva un settore riservato a banchetti e alla vita dell’intelletto e un
altro riservato alla vita sportiva e termale, come era conseguente in un
gymnasium. Nella palaestra dell’ultima fase era un praticello o pratulus, con una
statua di Platone e una panchina, da immaginarsi nella parte scoperta della
palaestra. Un’ambulatio/xystus, cioè uno spazio lungo e stretto per correre o
passeggiare, era stata aggiunta sui due lati della casa, quelli liberi e con vista,
parte della quale era posta al di sopra di un vicus tectus, lo stesso in cui
probabilmente verrà ucciso Caligola (si veda l’Angolo 16).
L’ambulatio si affacciava nel lato lungo sulla casa 4 del fratello Quinto, con la
quale aveva appunto un muro in comune, e su un hortus (fig. 15, 6b), situati
entrambi a un livello inferiore (con un dislivello di m 7,5). All’hortus della pars
inferior si poteva scendere probabilmente tramite una rampa, che poteva partire
dall’ambulatio. Nel 58 a.C. Cicerone è stato costretto all’esilio per aver
condannato a morte senza processo i seguaci di Catilina. Di conseguenza la
sua casa è stata confiscata. La palaestra con triclinium e bibliothecae è stata allora
distrutta, le colonne, recuperate da L. Calpurnio Pisone Cesonino; si sono
salvati invece i conclavia dove era il balneum e probabilmente tutto il lotto
dell’entrata, ormai a disposizione di Clodio, che nel frattempo aveva inglobato
anche la porticus Catuli, dove era il culto di Fortuna huiusce diei. Il tufo naturale
imminente, su cui erano state erette la palaestra e le sale, è stato allora scavato,
lungo il limite del lotto, fino al livello del vicus huiusce diei e lo spazio che ne è
risultato è stato consacrato alla Libertas, alla quale viene eretta allora una statua,
un altare e alcune stanze per il culto, tracce delle quali sono state rinvenute,
consentendo in tal modo di identificare e ricostruire la casa dell’oratore.
Nel 57 a.C. Cicerone torna dall’esilio, rientra in possesso della casa e riceve 2
milioni di sesterzi per l’indispensabile ripristino. L’area della Libertas viene
sconsacrata e viene trasformata in un balneum, dotato di laconicum rettangolare
per sudare e di sale scaldate e altri spazi coperti a volte. Tutti questi spazi erano
destinati a sostenere la nuova palaestra, le sue nuove sale corrispondono a
quelle scaldate sottostanti. I conclavia già andati a Clodio sono ora tornati in
possesso dell’oratore (privati si può pensare di ogni attrezzatura balneare,
ormai prevista al piano inferiore). Nel frattempo la porticus Catuli (lotto 9),
inglobata anch’essa nella casa di Clodio, era stata restituta, restituita cioè al
culto pubblico e questi lavori di ripristino erano terminati nel 54 a.C. Tra le
sale aperte sulla palaestra era al centro un triclinium, probabilmente affiancato da
due bibliothecae, una greca e l’altra latina. È nell’ambulatio e nella palaestra, dotata
di statua di Platone, praticello e panchina, che Cicerone ha ambientato la sua
opera Brutus (46 a.C.). Nel 45 a.C. muoiono la figlia Tullia e il suo bambino e
Cicerone, disperato, abbandona la casa. Nel 43 a.C., prima di venire
proscritto e ucciso, l’oratore aveva fantasticato di recarsi nella casa di
Ottaviano e lì di suicidarsi sul focolare per attirarvi il demone della vendetta.
Questa casa (3) si trovava subito al di sotto dell’hortus dell’oratore accolto nella
pars inferior della sua casa.
Atlas, tavv. 64, 70, 281. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 128-137.
15.
Avere una basilica in casa
(FIG. 17)
Dopo il 14 d.C. Tiberio ha edificato, a partire dalla sua avita domus Tiberii, la
prima versione della domus Tiberiana, che finirà per inghiottire gran parte delle
precedenti case del quartiere più bello del Palatino (Atlas, tavv. 70 e 76; si
veda l’Angolo 8 e 13). Lungo il clivo Palatino A è sorto un palazzo nuovo e
rettangolare, che aveva sul fronte rivolto al Velabrum, al Foro, all’Arce e al
Campidoglio un hortus pensilis (fig. 17, 1), bordato da un triportico (fig. 17, 2)
e dotato di una grande piscina (fig. 17, 3). A questo giardino si perveniva dal
palazzo tramite due corridoi (fig. 17, 4) e due sale alle sue estremità si aprivano
su di esso (fig. 17, 5). Invece le tre sale centrali – oecus (fig. 17, 6) con triclinia
(fig. 17, 7) ai lati – e i quattro cubicula accanto ai triclinia (fig. 17, 8) erano
rivolti al peristylium (fig. 17, 9), sul quale si aprivano anche due appartamenti
secondari, composti da un oecus, due corridoi e quattro cubicula. Si trattava di
coppie di cubicula indipendenti oppure di un cubiculum dotato di anticamera,
come sarà dopo il 64 d.C. nell’atrium delle vestali (Atlas, tav. 44; si veda
l’Angolo 2) e nel complesso del nymphaeum aggiunto subito al di fuori della
domus Augusti (Atlas, tav. 75).
Claudio si è accontentato dei due appartamenti secondari della domus
Tiberiana e al posto delle tre sale e dei quattro cubicula centrali ha edificato una
basilica, cioè un salone grandissimo sostenuto da 12 colonne (mq 610,5, poco
più di un quarto della basilica Paulli, di mq 2317,5). Già Vitruvio
(Sull’architettura, 4) aveva previsto “per i nobili, che nella gestione di cariche e
magistrature devono adempiere ai loro obblighi..., biblioteche, pinacoteche e
basiliche, costruite con la stessa magnificenza delle opere pubbliche, perché
nelle loro case si tengono spesso pubblici consigli, giudizi privati e arbitrati”.
Con Claudio, o al più tardi con Nerone, comunque prima del 64 d.C., anche
la domus Publica di Augusto viene ristrutturata. Al posto del compluvium di Vesta
viene eretta una basilica absidata, maggiore di quella della domus Tiberiana,
sostenuta da 14 colonne (mq 722,8, poco più di un terzo della basilica Paulli)
–, dopo il 64 d.C. dotata di un pavimento in tarsie marmoree e al suo interno
di un’ampia piscina. Il portico delle Danaidi, con il tempio di Apollo, la curia
per il senato e la basilica rassomigliava sempre più a un foro. Già Claudio era
ricorso a giudizi segreti, come quello intentato a Valerio Asiatico, che era stato
interrogato davanti a Valeria Messalina (Tacito, Annali, 11.3). Sorge in
seguito, davanti alla basilica, uno straordinario e complicato nymphaeum,
affiancato da due appartamenti, su due piani, composti da triclinium (fig. 17, 7),
anticamera e cubiculum (fig. 17, 8). Si è trattato di un primo e poco organico
raccordo fra le domus Augusti e Augustiana (Atlas, tavv. 70-72, 80-83; qui, figg.
11 e 19).
Dopo il 69 d.C. Vespasiano abolisce piscina e ninfeo, estende su un lato la
basilica per includervi sette basi di statue imperiali, trasformandola così in
Augusteum, e davanti alla basilica allestisce una piscina/vivarium rotonda, che al
centro aveva un’isola, tonda anch’essa, sulla quale erigeva probabilmente una
cenatio rotunda, collegata a terra da quattro ponticelli; questa invenzione ha
rappresentato un più organico ma sempre insoddisfacente raccordo fra le
domus Augusti e Augustiana (Atlas, tavv. 70-72, 80-83; qui, figg. 11 e 19).
Atlas, tavv. 70, 75-76. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 273-284.
16.
La casa di Caligola, presso la quale è stato ucciso
(FIG. 18)
Caligola ha voluto costruire una propria casa al di sotto delle case palatine che
si trovavano a settentrione della domus Tiberiana, più precisamente tra il vicus
huiusce diei, la infima Nova via, il vicus Tuscus e gli horrea Agrippiana, obliterando
in quello spazio due o tre precedenti case. Vi si entrava dall’alto del Palatino
tramite due rampe, una maggiore e una minore, che conducevano al
peristylium. Vi si accedeva soprattutto dal basso, tramite l’aedes Castoris
trasformata in vestibulum della casa, alla quale era collegata tramite un
ponticello sopra l’infima Nova via. La casa aveva un piano interrato, riservato
soprattutto a servizi e ad ambienti freschi per la stagione estiva, il quale
formava il basamento variamente voltato della dimora. Sul fronte della casa,
rivolto al vicus Tuscus, al Velabrum e al templum novum divi Augusti, era un
maenianum, basato su un ambiente voltato sottostante, dietro il quale era una
corte con al centro, su un podio, il templum numinis Gai, che conteneva la
statua dorata del principe. Sotto la corte era una cryptoporticus, dalla quale si
entrava nel basamento del tempio. L’ambiente d’ingresso, un oecus preceduto
da piccola anticamera, e un’altra sala si aprivano sulla corte. Scale
conducevano al piano di sopra. Sul retro della casa, era il peristylium con
sottostante cryptoporticus collegata a quella sotto la corte, dotato forse fin da ora
di una piscina, con due ambienti, forse grandi cubicula, che si aprivano da un
lato su di esso, mentre di fronte era un oecus Cyzicenus, con gli abituali due
triclinia ai lati: il complesso di sale principale, sorretto anch’esso da ambienti
voltati sottostanti. La casa era collegata non solo con l’aedes Castoris, ma anche
con il tempio di Giove sul Campidoglio tramite un alto ponte, che partiva
probabilmente dall’oecus affacciato sulla corte, che passava sopra il templum
novum divi Augusti e che raggiungeva l’area davanti al tempio capitolino, nella
quale era una seconda casa del principe, quasi ch’egli volesse coabitare con la
divinità ottima e massima. Questo era l’assetto della casa intorno al 40 e 41
d.C. (si veda fig. 9).
Dopo l’uccisione di Caligola, nel 41, il peristylium viene ingrandito e dotato
di una ampia piscina, riducendo così lo spazio per la rampa maggiore, che
allora deve essere stata ristrutturata. Così si è creato anche lo spazio per dar
luogo verso sud-ovest a tre nuove sale, quella centrale dotata di un padiglione
che si protendeva avanti sia nel basamento che nel piano principale,
interrompendo la porticus del peristylium, onde consentirle di affacciarsi
scenograficamente sulla piscina. Altre piccole modifiche hanno riguardato gli
ambienti della corte. Dunque, la dimora è stata ingrandita, molto
probabilmente da Claudio, che potrebbe averla usata come diversivo rispetto
alla ormai troppo angusta casa pubblica di Augusto invasa dalla basilica e
durante la ristrutturazione della domus Tiberiana attestata da una sua fistula
bollata. Si può immaginare che il templum numinis Gai sia stato trasformato
allora nel Lararium del successore.
È possibile individuare anche il luogo dove Caligola è stato ucciso. Il 24
gennaio del 41 d.C. Caligola ha approfittato di un intervallo dei ludi Palatini,
che si svolgevano tra la casa di Augusto e il tempio della Magna Mater, per fare
un bagno e rifocillarsi in casa sua. Dal vicus retrostante il tempio di Magna
Mater, Caligola e Claudio avevano imboccato la “strada diretta (alla Sacra via)”
di Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, 19.117), cioè il clivo Palatino A, la
quale costeggiava il “palazzo”, cioè la domus Tiberiana. Subito dopo, Caligola
aveva piegato a sinistra, per una scorciatoia solitaria e tecta, detta crypta, entro la
quale giovani dall’Asia stavano provando canti e balli (Svetonio, Vita di
Caligola, 58) per gli stessi ludi. Si trattava probabilmente del vicus tectus che
passava sotto le ambulationes delle case 5 e 6a (si veda l’Angolo 13, fig. 16).
Questa stradina coperta portava al vicus huiusce Diei, in un punto che si trovava
a m 19 dall’ingresso alla rampa principale che scendeva alla domus Gai. È in
questa crypta che Caligola è stato bloccato e trucidato. Subito dopo sono state
uccise sua moglie e sua figlia nella vicina loro dimora. Al contrario di Caligola,
Claudio aveva proseguito lungo la “strada diretta”, fino a raggiungere la sua
casa, la domus Claudi da identificare nella casa 2, che sulla “strada dritta”, cioè
sul clivo Palatino A, aveva il suo ingresso. In questa casa Claudio era andato,
ma appena saputo della uccisione del principe si era rifugiato spaventato in
una sala o diaeta ornata di erme, chiamata Hermaeum. La sala doveva essere
ornata anche da nicchie – forse alternate alle erme – se in una di esse Claudio
si era nascosto. Sappiamo anche che questo Hermaeum si apriva su un terrazzo
o solarium, facilmente immaginabile sopra la fila di tabernae aperte sul vicus che
passava sopra il nemus Vestae (si veda l’Angolo 13, casa 2).
È possibile che la casa già di Caligola fosse usata, poi, da liberti ultrapotenti,
quali Pallante, il segretario a rationibus di Claudio devoto ad Agrippina e
mandato a morte nel 62 d.C., e quale Elio, che governava Roma mentre
Nerone era in Grecia. La casa dovette pertanto decadere ulteriormente sotto
Vespasiano, quando, tra il 69 d.C. e il 70 d.C., G. Licinio Muciano governava
Roma impegnato nei lavori della domus Augustiana e dintorni. La dimora è
stata infine obliterata dalle costruzioni di Domiziano, a partire dalla grande
aula di ricevimento, che potrebbe essere stata nominata Germaniciana, come
poi gli horrea che vi si installeranno nel IV secolo d.C., in memoria dei tre
principi nominati, oltre che Caesar Augustus, Germanicus e cioè a dire Gaio,
Claudio e Nerone.
Atlas, tavv. 47, 76. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 266-271.
17.
Dove abitava il bibliotecario di Domiziano?
(FIG. 19, A)
Le case belle, ma ancora per certi versi normali, avevano peristylia che non
superavano i mq 633 circa. Tra i maggiori fra i normali erano quelli delle case
di Cicerone (mq 477; si veda l’Angolo 13, fig. 21, a), della domus Tiberi
(identico al precedente), di Ortensio (mq 505; si veda l’Angolo 10, fig. 21, b),
di una casa sull’Arce (mq 515; Atlas, tav. 30, VIII 108; qui, fig. 21, c), di una
casa sul Fagutal (mq 534; Atlas, tav. 107, III 31; qui, fig. 21, d) e di una casa
con balneum in zona Vigna Barberini sul Palatino (mq 633; Atlas, tav. 70, X
115; qui, fig. 21, e). In età adrianea Svetonio (Vita di Augusto, 72) aveva
giudicato modica la casa di Ortensio/Ottaviano, il cui peristilio misurava mq
829 (fig. 11).
Le case più belle e insieme al di fuori dalla norma, per lo più anteriori a
Caligola, avevano peristylia amplia che oscillavano tra i mq 688 e i 1728 circa,
come quelli delle case di Ottaviano (mq 814, fig. 21, g; più mq 832; totale mq
1646; fig. 10), della grande casa adrianea sulla Velia probabile sede del praefectus
Urbi (mq 835; Atlas, tav. 104; qui, fig. 21, h), della casa con pitture
dell’Odissea (peristilio A: mq 1556; Atlas, tav. 125b; peristilio B: mq 1383;
qui, fig. 21, i), della casa dei Domizi Enobarbi che si apriva sulla Sacra via (mq
1534; Atlas, tav. 91; qui, fig. 21, n) e della casa di Clodio (mq 1728; Atlas, tav.
281a; qui, fig. 21, m). Quest’ultimo è stato definito peristylium amplissimum, al
punto che era superiore ai due peristylia di Ottaviano uniti insieme!
Dalla stradina che scendeva alle Carinae si entrava, probabilmente
direttamente, in un altro grande peristilio (mq 688), a cui seguiva un
gymnasium che su un lato aveva un balneum. Si tratta probabilmente della casa
di Pompeo, poi passata ad Antonio (fig. 21, f). Gli arredi di questa casa
verranno messi all’asta pubblica dei beni di Pompeo (Cicerone, Filippiche,
2.39.62-64), avvenuta nella sede deputata, cioè l’edificio delle auctiones
inglobato nel fanum/templum di Giove Statore (si veda l’Angolo 24); l’edificio
che si trovava a m 340 di distanza dalla casa. A comprare i beni confiscati di
Pompeo era stato Antonio (Cicerone, Filippiche, 2.64-69; Dione Cassio,
45.28.3-4; Carandini 2016).
Fino a Traiano le misure di queste corti permangono entro misure che si
possono considerare ancora ragionevoli, come quelli dell’atrium Vestae
neroniano (mq 977; si veda l’Angolo 2; Atlas, tav. 44; qui, fig. 21, n1) e
traianeo (mq 1578, Atlas, tav. 45; qui, fig. 21, n2), della domus Gai (mq 992;
qui, fig. 21, o1), della domus Gai ristrutturata al tempo di Claudio (mq 982;
Atlas, tav. 47; si veda l’Angolo 16, fig. 18 e fig. 21, o2) e della domus Tiberiana
tiberiano-claudia (mq 1303; Atlas, tav. 75; si veda l’Angolo 15, fig. 17 e fig. 21,
p) e della casa tardo-antica dei Simmaci (mq 1321; Atlas, tav. 141; qui, fig. 21,
q).
L’espansione dei quadriportici con giardino si conclude con i peristylia
spropositati, che hanno dimensioni tra i mq 1728 e i mq 15.522 circa. Sono i
peristylia della domus Transitoria sull’Oppio (mq 2126; fig. 21, r), del vestibulum
della residenza sulla Velia della domus Aurea (mq 15.522; Atlas, tav. 96; qui, fig.
21, u), della parte pubblica della domus Augustiana (mq 3057, Atlas, tav. 81;
qui, fig. 19, 15 e fig. 21, s1) e della sua parte privata (mq 3006; Atlas, tav. 81;
qui, fig. 19, 19 e fig. 21, s2) e infine dell’imperiale Sessorium sull’Esquilino
(mq 6079; Atlas, tav. 132; qui, fig. 21, t). È dunque con Nerone e con i Flavi
che si apre l’ultima stagione della insaziabile megalomania.
Atlas, tav. 44-46, 47, 64, 69, 70, 76, 81, 90-91, 96, 101, 107, 111, 125b, 132,
141, 281a. – Bruno 2014c. – Carafa 2014a. – Cavallero 2014.
21.
Saloni da pranzo della domus Aurea
(FIG. 22)
Quando si tratta della domus Aurea, si pensa generalmente – per inerzia più che
per forza di studi – a una unica dimora: quella ben conservata sull’Oppius (si
veda anche l’Angolo 43, fig. 21, r) perché finita seppellita sotto le terme di
Traiano, le cui “grottesche” hanno fatto sognare generazioni di artisti: una
Pompei prima della sua scoperta proprio nel centro del potere,
straordinariamente ben conservata e quindi evidente. Eppure la verità non ha
rapporto con gli stati della conservazione. Infatti la domus Octaviani sul
Cermalus è stata scambiata per la domus Augusti, dimenticando che la casa di
Augusto è quella edificata al di sopra della casa di Ottaviano, quest’ultima ben
conservata per essere stata seppellita, mentre quella di Augusto, esposta a
intemperie e spogli per oltre 1600 anni, è stata gravemente danneggiata, per
cui non appare evidente. È grave quando gli archeologi si inchinano soltanto
davanti a ciò che più appare, perché dovrebbero essere invece i chiarificatori
di ciò che meno appare, più oscuro per l’ingiuria del tempo.
Si dimentica poi che, come la domus Augusti si articolava in due case poste ai
fianchi dell’aedes Apollinis una privata e l’altra pubblica, e come la domus
Augustiana era composta di due case affiancate, una privata e l’altra pubblica,
così anche la domus Aurea poteva articolarsi in due residenze, all’interno di un
unico grande parco: una a carattere pubblico sulla Velia, in grande parte
distrutta, ma con fondazioni sotto l’Amphitheatrum, e una a carattere privato
sull’Oppius, che invece spicca.
Ancora più difficile è ragionare sulla sala più famosa della intera domus Aurea,
la cenatio praecipua rotunda di Svetonio (Vita di Nerone, 31) e ciò a causa della
mancanza di una sufficiente scrupolosità nell’interpretare Svetonio, la fonte
principale. A quale delle due residenze attribuire proprio quella cenatio? Essa
viene generalmente identificata o con la sala principale della residenza
dell’Oppio, che però è ottagonale e non tonda, o con la turris recentemente
scoperta sul Palatino, che è rotonda, ma poteva sostenere un padiglione
alquanto piccolo, per non dire ch’essa non rientra nell’ambito della domus
Aurea. Sappiamo che lo spazio occupato da questo complesso era ritenuto
“transitorio”, perché era quello che avrebbe consentito di congiungere due
parti della proprietà imperiale separate: le domus sul Palatium e gli horti
Maecenatis sulle Esquiliae. Quindi, se doveva trovarsi nel parco transitorio, la
sala non poteva stare sul Palatium, dove di fatto si trova la turris.
L’unico resto clamoroso sopravvissuto della residenza sulla Velia della domus
Aurea è il basamento del suo vestibulum, nel quale Vespasiano ha poi eretto il
colossus di Sol e sul quale poi Adriano, spostato il colossus con elefanti, ha
edificato i templi congiunti di Roma e di Venere. Ma il vestibulum di questa
residenza sulla Velia, appena ammesso, è stato poi subito negato, almeno in
quanto ingresso a una domus che si apriva su di una strada – questo infatti era
un vestibulum –, dal momento ch’esso portava a un nulla che si interponeva tra
il vestibulum e lo stagnum, invece che una domus lunga e stretta, analoga a quella
sull’Oppio. È come se una cosa non visibile, perché distrutta da Vespasiano,
fosse inesistente e come se una unica domus non potesse contenere due
residenze, come negli esempi sopra citati. Gli archeologi hanno spesso paura
di immaginare quanto dovrebbero essere più allenati a ricostruire, e cioè ciò
che oggi non è dato più vedere, ma di cui restano indizi monumentali e
letterari.
Infatti Svetonio tratta non della residenza secondaria e privata dell’Oppio,
ma di quella principale e pubblica della Velia, a cui pertanto doveva
appartenere la sala da pranzo principale e rotonda, unica nell’intero
complesso, in quanto dimora di Sol/Nero edificata sulla domus avita dei Domitii
Ahenobarbi. Per Marziale (Gli spettacoli, 2) “dove il raggiante colosso (del Sole)
vede le costellazioni da vicino..., splendevano gli atri odiosi di un re crudele
(Nerone)”. Ma questi invidiosa atria svaniscono se la domus proprio qui viene
negata!
Svetonio (Vita di Nerone, 31) descrive uno spatium diviso in partes e lo fa in
due momenti. In un primo momento descrive il contesto generale: il
vestibulum destinato al colossus, la porticus triplex lunga complessivamente un
miglio, lo stagnum circondato da aedificia in forma di città e campi, vigneti e
pascoli, selve e animali domestici: il parco. Solo in un secondo momento egli
si focalizza sul fulcro del sistema, cioè sugli atria (di Marziale), descrivendo
così finalmente cosa vi era “nelle parti restanti” di questo complesso
residenziale, poste tra vestibulum e stagnum ed evidentemente le più importanti,
se erano rivestite d’oro, gemme e madreperla. Altro che nulla! Qui erano
infatti le cenationes o sale da banchetto dai soffitti eburnei e mobili per riversare
fiori e profumi sugli invitati, la cenatio praecipua rotunda fatta ruotare
perpetuamente come l’universo – perfetta dimora per Sol – e infine il balneum
dotato di acqua normale e solfurea. Così finalmente riappaiono, dopo che li
avevamo quasi perduti, le “parti restanti”, gli invidiosa atria di Marziale. Così il
vestibulum riacquista la sua funzione inevitabile di accesso da una strada che
immette in una casa e perde quell’imbarazzante portare ad un nulla, da tutti
previsto salvo che da noi. Il fronte della residenza della Velia si affacciava sul
lato occidentale dello stagnum. Doveva apparire come una scenografica villa
affacciata sul mare nel quale si rispecchiava. E, come nelle villae si entrava
tramite un peristylium (Varrone, Lingua Latina, 6.7: “in città gli atri sono vicini
alle porte di ingresso mentre in campagna si trovano subito i peristili”), così
sulla Velia un vestibulum in forma di gigantesco peristylium introduceva a una
villa marittima scenografica sul genere di quelle di Baia, ma tutto ciò nel bel
mezzo dell’Urbs. Cenationes varie e cenatio praecipua rotunda probabilmente
protrudevano dalla facciata della residenza lunga e stretta, movimentandola,
come ben si osserva nelle ville marittime raffigurate negli affreschi dell’epoca.
Atlas, tavv. 96, 110-112, figg. 76, 90-91, ill. 17, 21. – Carandini, Bruno,
Fraioli 2010, pp. 239-259, 273, 284.
22.
Biblioteche con auditoria
(FIG. 23)
Nel costruire il tempio di Traiano e Plotina, Adriano non ha fatto che portare
a termine il progetto di foro che era stato elaborato da Traiano e Apollodoro
di Damasco. Siamo stati i primi a rivalutare la presenza di questo tempio sulla
base di due cellae delle sei che formavano il podio del tempio, ben conservate
sotto il palazzo della Provincia, e della notizia di enormi colonne crollate
rinvenute nel XVIII secolo, di cui una ora ai piedi della colonna coclide,
felicemente ritrovate da un recente scavo al di sotto del medesimo palazzo.
Forse anche i tre auditoria o sale per conferenze rientravano idealmente nel
progetto originario, connessi com’erano al colonnato che rivestiva la piazza
curveggiante ai lati del tempio; al momento della costruzione contestualizzate
da Adriano nell’ambito di una nuova concezione, quella dell’Athenaeum di
Adriano (133 d. C.), una scuola delle arti liberali in cui si cimentavano
letterati, retori e filosofi (fig. 23, 12, 2). In questo modo anche le biblioteche
del foro di Traiano finivano per essere associate agli auditoria (Atlas, tav. 54),
come avveniva nel templum Pacis (Atlas, tav. 99; qui, fig. 23), nella porticus
Octavia (Atlas, tav. 225) e nella bibliotheca di Adriano ad Atene.
Tra le due bibliothecae del templum Pacis e le due sale, una delle quali riservata
alla Forma Urbis e al relativo archivio di cui restano gli indizi degli armadi,
sono altre due sale di cui fino ad ora si è ignorata la funzione. La rivela un
passo di Galeno (I miei libri, 3.13): “Gli amici... insistettero perché mostrassi
pubblicamente in qualche grande auditorium... la verità delle osservazioni
anatomiche che avevo descritto. I calunniatori... non si trattenevano dal
mettermi in ridicolo al tempio della Pace dove, prima dell’incendio (del 192
d.C.), avevano l’abitudine di riunirsi quelli che si occupavano di saperi
razionali”. Altri ambienti per questi auditoria nel tempio della Pace non vi
sono, salvo i due in questione. All’unico di questi che in parte conosciamo si
accedeva sia dalla porticus del templum che dalla retrostante scorciatoia per le
Carinae. Possiamo facilmente immaginarlo come un auditorium, con gli
abituali gradini per gli uditori, posto accanto a una biblioteca, come in quella
di Adriano ad Atene. Galeno aveva raccolto e chiuso libri e oggetti negli horrea
Piperataria (si veda anche la fig. 26), i magazzini delle spezie, probabilmente
quelli mai riconosciuti e ricostruiti tra il tempio di Antonino e Faustina e il
tempio Flavio di Giove Statore (Atlas, tavv. 97 e 100a), vicino
all’infiammabilissima biblioteca del tempio della Pace. Dopo l’incendio del
192 d.C., gli ambienti degli auditoria del templum Pacis sono stati tramezzati, il
che indica un loro diverso uso, e il descritto settore degli horrea Piperataria, in
parte distrutti verso la Sacra via, riceve al posto un bagno, la cui pianta risulta
interamente errata e da rifare. Forse erano qui i locali usati da Galeno. La Sacra
via, impasticciata da questo bagno e da per lo meno dieci stationes di città
orientali, oltre che da almeno due fontane, somiglia sempre più a un grande
suk.
A volte bibliotheca e auditorium formano un tutt’uno, come nelle biblioteche
semicircolari delle terme di Traiano (Atlas, tav. 119, 19) e forse anche in
quelle di Diocleziano (Atlas, tav. 195, 18; qui, fig. 23). Edifici semicircolari
possono essere ninfei, latrine, esedre e anche biblioteche. Nella biblioteca
delle terme di Traiano, che è la meglio conservata, vi era al centro una grande
nicchia, per una grande statua, e ve ne erano altre cinque ai lati, scandite da
colonne e su due piani, quindi venti nicchie in tutto, destinate ad accogliere
tabulae e volumina. Scale sul retro consentivano di salire alla balconata
superiore, come nelle biblioteche tra domus Augusti e Augustiana (fig. 19, A).
La luce penetrava tra le colonne che si aprivano sulla porticus e dal finestrone
che la ricostruzione ha ipotizzato. La copertura era a semicupola. Ai lati della
nicchia centrale e ai piedi di quelle minori laterali erano i tre gradini di questo
auditorium incorporato nella biblioteca stessa. Il pavimento era a tarsie
marmoree di pavonazzetto e giallo antico.
Atlas, tavv. 54, 99, 97, 119-120a, 195, 271-272, ill. 7, 14. – Carandini,
Carafa, Cavallero 2011.
23.
La Velia, dove era?
(FIG. 24)
L’aedes di Giove Statore – dio invocato da Romolo che aveva difeso dal sabino
Tito Tazio la Roma sul Palatino – ha avuto la ventura di essere spostata, in
seguito all’incendio del 64 d.C., dalla X alla IV regione augustea (Fasti di
Priverno, Notitia Urbis Romae), cioè dal Palatium alla Velia, a una distanza di m
68,9, segno che con Nerone la mitistoria di Roma aveva smesso di
condizionare il paesaggio di Roma.
Infatti prima dell’incendio il tempio si trovava sul lato est della domus Publica
e del cosiddetto clivo Palatino A, quindi sul Palatium. Si trattava dell’aedes
degli inizi del II secolo a.C. con antistante recinto o sacellum per l’ara, che
l’incendio aveva provveduto a distruggere. Questa aedes in opera quadrata di
tufo era stata edificata sopra poderosissime fondazioni in cementizio (m 1,90
di larghezza), le cui fosse hanno fatto opera di distruzione. Infatti, la prima
aedes, degli inizi del III secolo a.C., anch’essa probabilmente in opera quadrata
ma senza fondazioni in cementizio, è stata forse smontata prima dei lavori
degli inizi del II secolo a.C., che ne hanno riutilizzato i blocchi nella
ricostruzione identica e sullo stesso luogo, ma finalmente resa solida
dall’essere stata posta finalmente sopra i caementa (spoliazioni medievali hanno
poi distrutto un’altra porzione della stratigrafia). Permane invece l’ara
utilizzata dall’aedes degli inizi del III secolo a.C.
Sotto questa aedes sono state rinvenute ben 17 fasi di arae racchiuse in sacella,
di cui la più antica risale alla metà dell’VIII secolo, la quale può dunque essere
considerata, a buona ragione, un’opera romulea. Era stata costruita su un
riempimento, che ha sigillato l’abitato proto-urbano del Septimontium, di cui
abbiamo rinvenuto resti di capanne e all’interno tombe d’infanti entro tronchi
d’albero e vasi che si datano tra l’ultimo quarto del X secolo a.C. e il secondo
quarto dell’VIII secolo a.C.
È questo il primo caso a Roma in cui si può descrivere e datare il passaggio
dalla proto-città alla città e la istituzione di un culto romuleo. Forse l’aedes del
III secolo a.C. e sicuramente quella del II secolo a.C. si accompagnavano a un
edificio per le auctiones pubbliche, dove nel 48 a.C. erano stati messi all’asta i
beni di Pompeo. È nell’aedes e nel suolo inaugurato antistante del suddetto
edificio che il console Cicerone aveva riunito il Senato per spingere Catilina e
i suoi a lasciare una Roma simbolicamente rappresentata dalla riproposizione
tardo-repubblicana della porta Mugonia, di un tratto di murus Romuli e
probabilmente anche di un memoriale di Remo, percepiti ancora come le
prime e impenetrabili difese di Roma. Come Romolo aveva difeso mura e
porta da Remo e da Tito Tazio, così Cicerone intendeva respingere da quelle
medesime mura e quella medesima porta Catilina.
Con l’incendio del 64 d.C. tutte queste realtà vengono distrutte e il culto di
Giove Statore viene spostato – per dar luogo alla Sacra via ingrandita, rettificata
e affiancata da portici – a settentrione di quell’enorme viale di regime in stile
alessandrino. Dell’aedes di Giove Statore di età flavia non conosciamo per ora
tracce archeologiche, perché vi è stato costruito al di sopra il cosiddetto
tempio di Romolo, che va probabilmente interpretato come la aedes Iovis
Statoris del tempo di Massenzio, che i Cataloghi Regionari attribuiscono
appunto alla IV regione e quindi alla Velia.
Anche l’aedes di Giove Statore di età neroniano-flavia doveva addossarsi alla
biblioteca meridionale del templum Pacis, come poi il cosiddetto tempio di
Romolo, e doveva assumere sul fronte un orientamento consono alla nuova
Sacra via e ai suoi portici che il tempio fiancheggiavano, come indica il rilievo
degli Haterii che rappresenta tempio e portici (fig. 26). Il tempio aveva la cella
larga quanto il portico e pronao a sei colonne o esastilo largo quanto il
marciapiede lungo la Sacra via. Al di sopra del frontone dell’aedes si osservano,
sempre sullo stesso rilievo, quattro lesene, del tutto incongrue rispetto
all’edificio templare, private del tetto che doveva coprirle, per il quale non vi
era spazio, data la forma stretta e lunga del rilievo. Queste lesene
appartenevano evidentemente a un altro edificio, annesso, più alto e
retrostante rispetto all’aedes, in cui è possibile riconoscere una delle tre facciate
della biblioteca del templum Pacis, la quale proprio dalle aperture tra le lesene
veniva illuminata.
L’ambiente della biblioteca sussisteva anche al tempo del c.d. tempio di
Romolo, ricostruito nella parte alta dopo l’incendio della biblioteca. A questa
seconda fase appartengono i quattro o cinque finestroni voltati che appaiono
in una incisione di Giacomo Lauro del 1612 e ancora oggi in parte conservati
(del quarto finestrone rimane una metà).
Atlas, tavv. 19 C, 61 A, 73, 100. – Arvanitis c.s.(b). – Carandini 2016 –
Ippoliti c.s.(a). – Ippoliti c.s.(b).
25.
Il prefetto alla città:
casa e bottega
(FIG. 24)
La casa che era stata di Pompeo (fig. 21, f) era passata poi ad Antonio, che ne
aveva comprato i beni all’asta nel vicino templum/fanum di Giove Statore.
Potrebbe essere andata, in seguito, ad Agrippa, essere stata abitata dal 19 al 13
a.C. da Tiberio, sposo di Vipsania Agrippina, figlia di Agrippa. E potrebbe
infine aver accolto un grande amico di Tiberio, L. Calpurnio Pisone, primo
prefetto urbano, rimasto in carica per venti anni dal 13 d.C., diventando alla
fine la sedes/officium del praefectus Urbi.
A partire da Adriano i resti della casa tardo-repubblicana sopra descritta
hanno dato luogo ad altri edifici e soprattutto a una sontuosa dimora a
peristylium, con oecus fiancheggiato da due ambienti più stretti, tre cubicula sui
lati brevi e altre stanze sui due lati lunghi. Al piano interrato era una
cryptoporticus dotata di nymphaeum decorato da statue e che fronteggiava una
sala absidata (fig. 21, h). A occidente di questa casa si svilupperà, dopo il 192
d.C., il quartiere esteso della praefectura Urbi – tribunal, scrinia, templum
Telluris/Secretarium Tellurense, horrea Chartaria (fig. 24, 1-4, 9-10) – ricostruibile
grazie a disegni del ’500 attribuiti a Sangallo e a Ligorio (si veda l’Angolo 23).
L’erezione della basilica di Massenzio ha comportato la perdita dei tre cubicula
della dimora adrianea e la creazione, intorno alla fine del IV secolo d.C., di un
ingresso a questa residenza che consentiva al praefectus Urbi di raggiungere
direttamente l’aula basilicale, in cui lui giudicava e che da lui evidentemente
dipendeva (fig. 24, A). Contemporaneamente il vicus retrostante la basilica è
stato riempito di strutture, che hanno reso possibile una connessione
immediata tra la domus e la basilica, eloquente al punto da farci intendere la
natura della relazione fra il risiedere sulla cima della Velia e l’agire nel colossale
edificio pubblico tardo-antico, venuto ad aggiungersi alle altre costruzioni
pubbliche poste tra il templum Pacis e gli horrea Chartaria, il magazzino dei
papiri. Questi collegamenti, seppure tardi, sono essenziali per capire le
suddette architetture, come lo stretto passaggio tra la domus
Tarquiniorum/Publica e il nemus/lucus Vestae (Atlas, tav. 6), che ha dimostrato la
pertinenza di questa prima casa a grande atrio ai tyrannoi e ai pontifices Maximi
(si veda l’Angolo 6, fig. 6). Non ha pertanto senso studiare i monumenti come
entità isolate, al di fuori dei loro legami di contesto, cioè delle connessioni
significative tra gli edifici. Va infine osservato che gli officia erano accolti a
Roma in edifici a carattere domestico, come quello a studiis posto dietro le
biblioteche palatine (si veda l’Angolo 17).
Atlas, tavv. 89, 101, 104-106. – Amoroso 2007.
26.
Case a confronto,
nel tempo lontane
(FIG. 27)
La casa detta della Farnesina (Atlas, tavv. 248 e 249; qui, fig. 27, A), affacciata
sul Tevere in Trastevere, si presentava come una villa marittima sul fiume, ma
in realtà era una casa di città, seppure al di fuori del cuore residenziale più
esclusivo di Roma. Trattandosi di un monumento simmetrico scavato per
oltre la metà, di cui sono note pitture e mosaici del piano terreno, l’unico a
essersi conservato, si presta facilmente a essere ricostruito nella sua interezza,
onde poter finalmente disporre di una interpretazione e di una visione di
insieme di questa straordinaria architettura, su cui, come al solito, si è assai
pigramente lavorato.
Si accedeva alla casa dall’hortus triangolare sul retro (fig. 27, A, 1), dotato di
due passaggi che portavano al Tevere e che comunicavano con l’ambulatio tecta
(fig. 27, A, 2) e con due horti secondari (fig. 27, A, 3). Al centro della domus
erano le scale, che portavano al piano superiore; alle estremità erano due
ingressi (fig. 27, A, 4) all’ambulatio tecta del piano terreno, lunga precisamente
mezzo stadio. Tra quegli ingressi erano quattro entrate al corridoio del
quartiere servile o ergastulum (fig. 27, A, 5), illuminato da finestrelle, grazie al
quale si accedeva alle 20 celle che dovevano accogliere due decine o decuriae di
servi – un terzo delle cellae servili di Scauro (si veda l’Angolo 12) – e anche ad
altre stanze, di uso comune, due delle quali occupate forse dal Lararium (fig.
27, A, 6) di ogni decuria. Un solo ambiente (fig. 27, A, 7), posto dietro la scala
e dotato di porta, metteva l’ergastulum in comunicazione con la parte signorile
della casa. Due corridoi (fig. 27, A, 8) portavano dall’ambulatio tecta
all’appartamento principale di questo piano e due porte introducevano,
sempre dall’ambulatio, nei due horti minori (fig. 27, A, 9) afferenti ai due
appartamenti secondari, riservati probabilmente ai figli del padrone di casa.
L’appartamento principale aveva al centro l’oecus (fig. 27, A, 10), preceduto da
un’anticamera affacciata direttamente sull’hortus principale; casi analoghi si
avranno nella casa di Caligola rielaborata da Claudio (figg. 18 e 21, o) e della
parte intima della domus Augustiana (fig. 19, B). L’hortus principale, di forma
curiosamente semicircolare (fig. 27, A, 11) dava impronta e luce a tutto il
cuore della casa. Ai lati dell’oecus erano due triclinia (fig. 27, A, 12) preceduti
dai due cubicula (fig. 27, A, 13), che formavano gli appartamenti dei padroni di
casa. Dietro alle tre sale padronali era un corridoio di servizio. Corridoi
laterali portavano ai quattro cubicula accolti nelle turres (fig. 27, A, 14), forse
per gli ospiti.
Gli appartamenti secondari erano dotati di triclinia (fig. 27, A, 15), affiancati
da ambienti laterali di servizio, dotati anche di scale (fig. 27, A, 16), che erano
preceduti da un’anticamera (fig. 27, A, 17) ai lati della quale erano due cubicula
(fig. 27, A, 18), tutti affacciati sui rispettivi giardinetti. Altri horti circondavano
le turres (fig. 27, A, 14), comunicavano con i giardini secondari (fig. 27, A, 3) e
terminavano con un pergolato per lato (fig. 27, A, 19), ciascuno lungo 10
piedi, poco oltre i quali era la banchina del Tevere (fig. 27, A, 20). Tra le turres
erano due gallerie semicircolari (fig. 27, A, 21), sul genere delle cryptoporticus.
Non erano previste aperture verso il Tevere, per proteggersi dalle piene. Il
piano terra era usato soprattutto per frescheggiare d’estate.
Al piano superiore si accedeva tramite la ricordata scala centrale che portava a
un’ambulatio (fig. 27, A, 22) e a una porticus duplex (fig. 27, A, 23), lunghe
entrambe mezzo stadio. I vari appartamenti erano planimetricamente identici
a quelli del piano terra, ma al piano superiore erano più grandiosi se non altro
in altezza e luminosità. Le turres potevano accogliere, sopra ai cubicula per gli
ospiti, stanze di servizio. Dalla porticus duplex in forma di “D” (fig. 27, A, 24) e
dalle turres si godeva la vista, probabilmente attraverso finestroni rivolti al
Tevere e alla riva opposta, cioè al campo Marzio. Il fronte della casa era assai
mosso e doveva dare bella vista di sé a chi navigava lungo il fiume. Questa
casa, tipo villa sul mare (fig. 22) rappresenta un modello di dimora signorile
databile agli anni 40-30 a.C.
È possibile attribuire questa casa agli Arruntii: si vedano le annesse cellae
vinariae Arruntianae, la cui attribuzione è resa certa dal rinvenimento di una
iscrizione collegiale (CIL, VI 8826). A costruire la casa potrebbe essere stato L.
Arruntius padre, homo novus, console nel 22 a.C. e XV vir sacris faciundis ai ludi
Saeculares del 17 a.C. L. Arruntius figlio, ben connesso con i discendenti di
Silla e di Pompeo, verrà considerato da Augusto morente uno dei tre
consolari capax imperii (Tacito, Annali, 1.13).
È affascinante confrontare questa casa degli ultimi anni della libera res publica
con una casa molto più tarda, del IV secolo d.C., edificata sull’Esquilino al di
sopra della enorme cisterna delle Sette Sale (Atlas, tav. 121). Nella parte
orientale della dimora, di forma rettangolare, erano le grandi sale. Quasi al
centro si trovava la basilica (fig. 27, B, 1) a cui si accedeva tramite scale – la
parte alta della cisterna serviva da basis alla casa – e il relativo nartece (fig. 27,
B, 2). A destra era la sontuosa cenatio esagonale (fig. 27, B, 3), posta entro un
hortus quadrangolare (fig. 27, B, 4) dotato di fontana semicircolare (fig. 27, B,
5). Il salone da pranzo si articolava in due sale rettangolari contrapposte che
immettevano nell’esagono centrale e in quattro altre salette, probabilmente
triclinia, disposte a coppie sugli altri due lati dell’esagono, tutte sul fondo
semicircolari, forse per accogliere letti tricliniari ricurvi o stibadia (fig. 27, B,
6). Da ciascuna di questi triclinia si accedeva lateralmente a un ambiente
circolare con recesso triangolare di cui non è chiara la funzione, forse
altrettanti laconica per sudare e lavarsi prima della grande bouffe (fig. 27, B, 7)? A
sinistra, oltre la basilica, era un oecus (fig. 27, B, 8) con ambienti di servizio
retrostanti (fig. 27, B, 9) e con ai lati altre stanze, probabilmente triclinia e
cubicula accoppiati e formanti gli appartamenti principali (fig. 27, B, 10, 11).
Oecus e cubicula erano fronteggiati da una porticus (fig. 27, B, 12) aperta su un
hortus rettangolare (fig. 27, B, 4) dotato di un ricurvo nymphaeum (fig. 27, B,
13) e del solito ambiente circolare, forse il laconicum padronale (fig. 27, B, 7),
antistante il cubiculum del proprietario. Nella parte occidentale della dimora era
un lungo corridoio (fig. 27, B, 14) che immetteva in un balneum (fig. 27, B,
15) e in stanzette che paiono cubicula (fig. 27, B, 11), forse per figlio e ospiti.
In corrispondenza con la cenatio erano sul retro due ambienti assai grandi (fig.
27, B, 16), a cui ne corrispondevano altri analoghi a sinistra del nartece, di cui
non è facile ricostruire la funzione. La parte settentrionale della casa, la più
fredda, poteva essere dotata di un secondo piano, usato magari per stanze di
servizio. La dimora si chiudeva con una porticus rivolta a occidente (fig. 27, B,
17), simmetrica al retrostante corridoio, dalla quale si osservavano le terme di
Traiano. Dominano nella dimora i saloni grandiosi, posti a sud-est, ma poi
alcuni ambienti dal carattere più privato appaiono alquanto mal configurati e
quindi difficilmente identificabili nella loro funzione. I rigorosi stilemi
architettonici di un tempo si stavano disgregando. È questo il modo tardo-
antico di abitare signorilmente, diversissimo da quello della fine della
Repubblica e che suscita pochi ricordi, come l’appartamento imperiale di
Diocleziano a Spalato, semmai introducendo ai palazzi del futuro. Verrebbe
da pensare che la casa sia stata costruita per un alto funzionario che
sovraintendeva alle terme di Traiano; forse anche al servizio delle acque nella
città.
Atlas, tavv. 121, 248-249. – De Stefano 2014a. – Papi 1999.
27.
La tomba di un fornaio
(FIG. 28)
Subito oltre il limite della regione V augustea, dove in seguito sorgerà la porta
Praenestina e Labicana delle mura Aureliane (Atlas, tav. 126 P e tavola fuori
testo 22), è la tomba del fornaio Eurisace e di sua moglie Antistia (30-20 a.C.;
Atlas, tav. 283). A illustrare i due sono un rilievo con i defunti stanti, due
iscrizioni e tre fregi. Questi ultimi mostrano (1) la consegna del grano, la
macinazione e la setacciatura della farina, (2) l’impasto e la cottura e (3) la
pesatura dei pani. Fin qui nulla d’insolito, basti ricordare il finale della cena di
Trimalcione (Petronio Arbitro, Satyricon, 27-31). Ma in questo monumento
vi è qualcosa di più ed è la trasformazione in decorazione architettonica dello
strumento ritenuto principale per fare il pane: l’impastatrice. Al livello III del
sepolcro si notano 9 + 15 + 6 = 30 impastatrici. Il pane deve aver reso bene a
Eurisace, che è vissuto e morto per e nel suo mestiere, che lo ha soddisfatto al
punto da tradurlo in scrittura, in figurazioni, in rappresentazioni delle
impastatrici e in monumento alla panificazione.
Atlas, tav. 283. – De Stefano 2014b.
28.
Templi ritrovati
(FIG. 29)
Se si vuole capire la grandezza della città di Londra, che New York ha poi
fatto tramontare, bisogna recarsi ancora oggi a visitare i suoi docks. L’Howland
Great Dock (costruito nel 1696 e successivamente divenuto il centro dei Surrey
Commercial Docks) è stato progettato per fornire un sicuro attracco a 120
grandi navi e di conseguenza risolvere i problemi di stoccaggio. Questo
grande progetto è stato realizzato in circa duecento anni, con maggiore
intensità nell’ultimo trentennio dell’età georgiana e in quella vittoriana. Il
primo dock (1802) è stato il West India, cui sono seguiti: the London (1805), the
East India (1805), the Surrey (1807), St. Katharine (1828) e the West India South
(1829). Più a est sono stati poi realizzati i docks vittoriani: the Royal Victoria
(1855), Millwall (1868) e Royal Albert (1880); infine nel 1921 si aggiunse il
King George V.
Grandioso precedente antico sono le banchine del medio e del tardo Impero
sul Tevere, a Testaccio e in Trastevere, con i quartieri commerciali
retrostanti, questi ultimi a sud del pons Fabricius, quindi innanzi all’Aventino e
a Testaccio. Davanti ai navalia, diventati poi horrea, era il forum Pistorum o dei
Panettieri e davanti a quest’ultimo erano le installazioni portuali, con la
banchina inferiore (di magra) più stretta e più avanzata – al cui livello
sbucavano le cloache – e con la banchina superiore più larga e più arretrata;
dalla banchina inferiore rampe e gradini portavano alla banchina superiore; a
livello superiore della rampa e a quello della banchina superiore spuntavano gli
ormeggi in travertino. Dalla banchina superiore si accedeva sia al piano
interrato dei magazzini, che avevano probabilmente due piani sopra il livello
di terra segnato da un retrostante vicus, e sia alle due cryptoporticus, una delle
quali si trovava sotto il vicus. Le darsene intaccavano sia la banchina inferiore
che parte di quella superiore. Fotografie dei vecchi scavi mostrano
l’imponenza straordinaria delle strutture.
Atlas, tavv. 165-167, 250.
31.
Vivere in appartamenti
(FIG. 32)
Sotto quella che è oggi la Galleria Alberto Sordi sono stati rinvenuti i resti di
sette isolati (insulae) del tempo di Adriano, uno dei quali particolarmente ben
conservato. Tre isolati davano sulla via Lata – attuale via del Corso –, erano
separati da una viabilità parallela e perpendicolare alla strada principale ed
erano fronteggiati da una porticus coperta a terrazzo. L’isolato al centro era
probabilmente a quattro piani e illustra ottimamente il nuovo modo di
abitazioni, che aveva sostituito la precedente basato sulle case ad atrio e a
peristilio (Atlas, tav. 191 L).
L’insula si articolava in due cortili. Al piano terreno erano le tabernae e gli
ingressi che davano nei cortili. Gli appartamenti ai vari piani erano costituiti
da infilate di stanze, dotate a volte di corridoi. Si trattava ormai di un abitare
in serie, in modo assai più compatto e su più piani, che ricorda quello degli
edifici ad appartamenti delle nostre città: i condomini. Le insulae meglio
conservate sono quelle di Ostia e quella di Roma sotto la scalinata che
conduce alla chiesa di Santa Maria in Aracoeli, la quale conserva, seppur
rimaneggiati, quattro piani e moltissime stanzette (Atlas, tav. 57).
Atlas, tavv. 199, 204. – Cavallero 2011.
32.
Dove la plebe riceveva il grano
(FIG. 33)
Il grano veniva distribuito alla plebe davanti ai templi che oggi si vedono al
centro di piazza Argentina e che in antico si trovavano dietro il teatro e la
curia di Pompeo (fig. 34). Tra il 100 e il 41 a.C. ciò avveniva davanti ai templi
dei Lares Permarini, di Feronia, di Fortuna huiusce diei cioè di oggi giorno – è
conservata la testa in marmo della statua di culto che era in materiale
deperibile – e di Giuturna, quest’ultimo circondato su due lati da 22 cellette
per il frumento. La distribuzione avveniva più precisamente lungo la strada
che collegava l’Ovile o Saepta (fig. 35) al circus Flaminius, nel settore
prospiciente i suddetti templi. La strada, davanti all’area sacra, era coperta da
un tetto sostenuto da 22 coppie di pilastri: era questa la porticus Minucia vetus. I
pilastri formavano, ai due lati della strada, 44 ostia, le aperture tramite le quali
avveniva la distribuzione del frumento misurato in modii, come illustrata in un
mosaico di Ostia (il modius equivaleva a 8,7 litri).
A partire dall’80 d.C. le cellette per il frumento al tempio di Giuturna sono
obliterate e la porticus Minucia vetus viene monumentalizzata e dotata di una
grande iscrizione (Atlas, tav. 217), ma nel frattempo essa aveva perso la
funzione frumentaria, trasferita oramai alla annessa porticus Minucia
Frumentaria, il quadriportico che circondava la aedes Nympharum (Atlas, tav.
239) nel quale erano conservate le tavole pubbliche del censimento (l’archivio
di coloro che avevano diritto alle frumentationes). Per un tratto questa porticus
era dotata di magazzinetti, magari a più piani, necessari forse a rifornire la
distribuzione del frumento nel quadriportico. Dietro la porticus Minucia
frumentaria era un grande horreum articolato in 22 ambienti, probabilmente su
due piani (Atlas, tav. 232 R). Era il magazzino che riforniva all’ingrosso il
frumento per le frumentationes, che poi avvenivano tramite magazzini più
piccoli.
Atlas, tavv. 215b-217.
33.
Curia di Pompeo, Cesare trucidato
(FIG. 34)
I saepta Iulia (26 a.C.) erano composti da due porticus affrontate ornate da
nicchie – Argonautarum, Meleagri –, con al centro un vasto spazio rettangolare
che serviva per le elezioni, diviso in 35 corsie per suddividere i votanti delle
35 tribus. Dalla parte opposta all’ingresso erano i pontes che servivano a
raggiungere il tribunal dei magistrati, i quali controllavano la votazione (un suo
dettaglio è conservato nella Forma Urbis Severiana). Dietro il tribunal, i saepta
terminavano a un vicus oltre il quale era il Diribitorium, cioè il complesso
aggiunto nel 7 a.C. da Agrippa, nella cui grande aula si scrutinavano i voti. Era
costituito da un vestibulum, da una grande area scoperta circondata da una
porticus e infine da una grande aula, la più grande mai costruita fino ad allora,
coperta da un unico tetto, secondo Dione Cassio; Plinio il Vecchio racconta
che uno dei travi di larice, lungo 100 piedi, era custodito nella porticus
Meleagri.
Secondo Dione Cassio, nel 37 d.C. Caligola aveva allestito palchi nel
Diribitorium, come per trasformarlo in un odeum, al riparo dalla calura estiva;
per non dire degli stessi Saepta, scavati al centro per accogliere acqua e una
nave, su cui probabilmente il principe banchettava. Ecco il destino del luogo
in cui si eleggevano i consoli: tradotto da Caligola in un complesso per
spettacoli!
Atlas, tav. 227.
35.
Teatro di Marcello, come nuovo
(FIG. 36)
I Greci per molto tempo hanno ignorato la leggenda di Roma e così si erano
figurati che la città fosse stata fondata da Enea. Al contrario, nessuno storico
romano ha mai creduto ciò, salvo Sallustio in una sua punta ellenizzante.
Quindi, mentre Enea era venerato a Lavinio, dove in una tomba di un re
locale era stata riconosciuta intorno al 575 a.C. la sua tomba, a Roma si
venerava Romolo, forse alla sua casa sul Cermalus, nel Volcanal al foro, dove il
re era stato ucciso e squartato dai suoi consiglieri, e sul Quirinale, dove era il
culto del dio Quirino al quale il fondatore era stato assimilato. Invece nessun
culto di Enea fondatore esiste a Roma! Esisteva tuttavia una sua memoria: la
nave con la quale sarebbe approdato nel sito di Roma. Procopio (La guerra
Gotica, 4.22.8) racconta di aver visto, lungo il Tevere e in mezzo alla città, un
ricovero navale in cui era ospitata la reliquia integra della nave di Enea, nella
descrizione della quale (un ordine di remi, lunga 120 e larga 25 piedi, ecc.) è
possibile riconoscere una pentecontoros, cioè una nave di tipo arcaico. Nei prata
Flaminia, tra la aedes Castoris e il teatro di Marcello, davanti a magazzini
porticati affacciati sul Tevere, era un edificio strano, lungo e stretto (Atlas, tav.
222Q). Verso est era un’area di accesso circondato su tre lati da colonne, una
scalinata affiancata da muri che culminavano in una esedra semicircolare, che
forse conteneva una statua dell’eroe: un heroon di Enea? Dietro l’esedra era il
ricovero in cui era conservata la nave attribuita all’eroe. Abbiamo ricostruito il
monumento, integrando la Forma Urbis Severiana, solo in parte conservata,
immaginando un edificio sul genere dei navalia (Atlas, tav. 211), anche perché
in questa zona prospicente l’isola Tiberina erano stati un tempo i primi navalia
(Livio, 3.26.8, 45.42.12; Valerio Massimo, 1.8.2). Lì vicino, nel 291 a.C.,
aveva attraccato anche la trireme che aveva trasportato il serpente sacro da
Epidauro, come mostra un medaglione di Antonino Pio. L’edificio da noi
identificato come il ricovero della nave di Enea, disposto in uno spazio non
rettilineo, dove il Tevere piegava, fa pensare a un assetto non anteriore alla
seconda metà del I secolo a.C., quando i navalia erano stati qui in gran parte
smantellati. Potrebbe trattarsi di una riviviscenza della leggenda di Enea a
Roma, che bene si inquadrerebbe al tempo di Augusto, quando Virgilio nel
libro VIII dell’Eneide (29-19 a.C.) ha descritto Evandro che accoglie Enea
approdato a Roma.
Atlas, tav. 222Q – Coarelli 1996.
39.
Il Pantheon di Augusto ricostruito da Adriano
(FIG. 40)
Il Pantheon di Agrippa (25 a.C.) era una rotonda con colonnato interno,
sormontato da cariatidi (Plinio il Vecchio, Storia naturale, 36.38), le quali
reggevano un tetto nascosto nell’anello esterno da cassettoni e nella parte
interna da una volta, anch’essa a cassettoni, dotata di oculus, forse perché
s’immaginava che proprio in questo luogo – siamo presso la palus Caprae –
Romolo fosse asceso in cielo in una apoteosi che aveva comportato
l’assimilazione a Quirino, dio locale dei rioni di Roma (si veda l’Angolo 28,
fig. 29). Il pronao, articolato al suo interno in tre parti da otto colonne
disposte a coppie, presentava una facciata a dieci colonne o decastila,
sormontata da un frontone, di cui abbiamo forse la riproduzione in un rilievo
che mostra un tempio decastilo con Marte e Rhea Silvia, la lupa, i gemelli
Remo e Romolo e due pastori. Ciò confermerebbe il carattere romuleo del
primo edificio di Agrippa.
Il Pantheon ricostruito da Adriano mantiene l’impianto originario, ma è
ottastilo e coperto a cupola. Interessante è il fatto che il frontone realizzato sia
più basso di quello che appare impostato al di sopra. Probabilmente una delle
colonne più alte si era spezzata e così si era dovuti ricorrere a un set di colonne
di misura inferiore. È utile mettere le due facciate a confronto, per intendere
quanto più grandioso fosse il progetto originario, modificato per forza di cose
in corso d’opera. Dietro il Pantheon adrianeo era la basilica Neptuni, collegata al
frigidarium delle terme di Agrippa, seguendo il tutto un medesimo asse.
L’oculus del pantheon e il Volcanal nel Foro (Atlas, tav. 19B; qui, fig. 40) erano
luoghi equidistanti dal tempio di Quirino sul Quirinale, nei cui frontoni
venivano celebrati gli auspicia di Remo e Romolo per la fondazione di Roma
e forse anche l’apoteosi di Romolo assimilato a Quirino e venerato con lui nel
suo luogo tradizionale di culto sul Quirinale.
Atlas, tavv. 242, 276, ill. 31. – Carafa 2014b. – Virgili 1999.
40.
Pire dei principi, altari dei divi
(FIG. 41)
In Campo Marzio, lungo la via Lata (attuale via del Corso) e a settentrione del
tempio di Adriano e Matidia e della colonna di Marco Aurelio, erano alcuni
ustrina o luoghi delle pire funerarie, tre dei quali a noi noti, uno dei quali di
Antonino Pio. La pira imperiale era formata da quattro camere sovrapposte e
decrescenti sormontate da una quadriga, di cui la seconda conteneva il letto
funerario (si vedano Erodiano, Storie 4.2, e la pira di Antonino Pio riprodotta
in un sesterzio di Marco Aurelio: fig. 41). Sui luoghi delle pire imperiali
venivano poi edificate le arae della consacrazione. Dentro una balaustra in
travertino e metallo, di forma quadrata con lato di 100 piedi, era il recinto o
sacellum dell’ara Consecrationis, dotato di un solo ingresso e due nicchie ai lati;
l’ara era posta su un basamento a cui si accedeva tramite una scala.
Atlas, tav. 245. – Danti 1993.
41.
Stalle per cavalli del Circo
(FIG. 42)
La casa detta dei Grifi sul Palatino (Atlas, tav. 67), ad atrio e probabilmente
anche con peristilio, databile al I secolo a.C., presenta sotto il quartiere
dell’atrio triclinia e cubicula. La casa della Farnesina (Atlas, tavv. 248 e 249)
aveva un piano interrato basso, oscuro e affrescato che abbiamo già descritto
(si veda l’Angolo 26, fig. 27, A). La domus, detta casa Bellezza sull’Aventino (40
a.C.-II secolo d.C.), aveva tre sale che si affacciavano sul peristilio e nel piano
interrato una cryptoporticus e tre sale di cui quella centrale era un oecus
Corynthius (Atlas, tav. 163a). La casa dei Domizi Enobarbi (27 a.C.-64 d.C.),
che aveva l’ingresso dove il clivus Sacer girava per raggiungere le Carinae,
possedeva un enorme peristilio affiancato su un lato da 24 cellette servili.
Lungo l’asse di questa corte erano aperture che davano luce a due cenationes
circolari sotterranee, dotate ciascuna di due sale rettangolari colonnate e di
altre due più semplici, oltre che di un ambiente con vasca, il tutto circondato
da una cryptoporticus dotata di altre 24 cellette servili – simili a quelle della casa
della Farnesina – che fanno in totale 48 cellette (Atlas, tav. 91; qui, fig. 43).
Anche la casona sulla Velia, in cui riconosciamo l’officium/sedes del praefectus
Urbi di età adrianea, con ingresso sulla stradina che portava al vicus Cuprius,
aveva una cryptoporticus e una sala con due ambienti a fianco fronteggiata da un
nymphaeum, con vasca antistante e tre ambienti sul lato orientale, con Atena,
Artemide e una ninfa inserite nelle nicchie del ninfeo (Atlas, tav. 101; qui, fig.
24). Una casa sull’Oppio, con ingresso dal vicus Sabuci, affiancata alla casa già
di Servio Tullio e di Seiano, forse l’officium/sedes del praefectus Praetorio, databile
tra il 14 e il 117 d.C., presenta nel sotterraneo una cryptoporticus con ninfeo e
due salette laterali, di difficile accesso, una con un muretto che potrebbe
appartenere a un letto tricliniare (Atlas, tav. 120b). Anche l’atrio della casa di
Q. Lutazio Catulo, che diventerà l’atrio di Augusto e poi di Livia, aveva nel
piano interrato un atrium testudinatum, cioè coperto con tre sale, un triclinium a
lato e diverse altre stanze (è la cosiddetta casa di Livia: Atlas, tav. 68; qui, fig.
11). Per non dire del grandiosissimo piano interrato della parte privata della
domus Augustiana, che abbiamo già descritto (si veda l’Angolo 18, fig. 19, B). A
Roma d’estate faceva caldo, per cui si viveva al fresco nei sotterranei. E poi il
terreno era carissimo al centro della città e lo spazio andava sfruttato al
massimo. E quando faceva molto freddo, si stava più caldi nei seminterrati.
Atlas, tavv. 67, 89, 91, 107, 120b, 163a, 248-249. – Carandini, Bruno, Fraioli
2010, pp. 71-72; 113-128.
43.
Suites di sale
(FIGG. 10, 14, 17, 20, 22 E 26)
Roma era circondata da horti, cioè da residenze e parchi in origine fuori dal
centro storico e cioè dalle mura Serviane, ma poi inclusi da Augusto nelle
regiones della città. Lo spazio lì non mancava per le follie architettoniche.
Le porticus connesse ai nymphaea semicircolari erano numerose. Si pensi a
quella in via degli Annibaldi (Atlas, tav. 107B; qui, fig. 44, a), a quella a sud
della c.d. via Tusculana (Atlas tav. 110; qui, fig. 44, b), al grande ninfeo degli
horti Lamiani, con cisterna sovrastata da ambulatio, forse da identificare con la
diaeta Apollinis (cil, VI 29774; Atlas, tav. 126; qui, fig. 44, c) e a quello coevo
degli horti Sallustiani (Atlas, tav. 182; qui, fig. 44, d). Probabilmente altro non
sono che ambulationes curve, tipo di attrezzatura sportiva che rimanda alle
ambulationes diritte con estremità circolari o rettangolari di cui si conoscono
numerosi esempi, come quella della casa della Farnesina (Atlas, tavv. 248 e
249; qui, fig. 27, A, 4), l’ambulatio della casa di Ottaviano (si veda l’Angolo 10,
fig. 10, 2), il pergolato di viti della porticus Liviae (Atlas, tav. 107; qui, fig. 44,
e), l’ambulatio di due stadi del Sessorium (Atlas, tav. 132; qui, fig. 44, f),
l’ambulatio sovrastante una cisterna lungo il lato settentrionale dell’Alta semita
(Atlas, tav. 191 D; qui, fig. 44, g), tre ambulationes degli horti dell’Esquilino
(Atlas, tav. 126; qui, fig. 44, h-l), la porticus Lentulorum, poi Hecatostylum del
teatro di Pompeo (Atlas, tavv. 220 e 221; qui, fig. 44, l).
Il culmine della forma semicircolare è raggiunto negli horti Luculliani (Atlas,
tav. 200; qui, fig. 44, A), cioè di L. Licinio Lucullo, trionfatore nel 63 a.C.
Questi horti erano situati tra Trinità dei Monti e Villa Medici e di questi più
nulla resta, compreso il triclinio di Apollo dove Lucullo aveva invitato a cena
Pompeo e Cicerone (Plutarco, Vita di Lucullo, 41.6-7). Gli horti sono passati in
età augustea a M. Valerio Messalla Corvino – il passaggio di proprietà è
attestato da un cippo rinvenuto nei giardini di Villa Medici (cil, VI 29789) – e
poi a Valerio Asiatico, che li aveva completamente ristrutturati, con insigne
magnificenza (Tacito, Annali, 11.1), intorno al 20 d.C. Costretto nel 47 d.C.
a suicidarsi, proprio nei suoi horti, per aver complottato contro il principe,
secondo l’accusa di Messalina (Tacito, Annali, 11.3), la sua proprietà è passata
al fisco imperiale, tanto che Messalina, lì ritiratasi, vi è stata uccisa nel 48 d.C.
(Tacito, Annali, 11.32), per cui i lavori agli horti potrebbero essere stati
completati da Claudio. Sulla vetta del Pincio e sulla sua pendice rivolta al
Campo Marzio era l’enorme parco che l’ambizioso Asiatico – patito di
spettacoli scenici (cil, XII 1929) – aveva ristrutturato in una forma teatrale che
appunto culminava in una porticus semicircolare che aveva al centro un
tempio/ninfeo. Qui è stato rinvenuto un capitello con aquile e fulmini, che
fanno pensare al nymphaeum Iovis attestato per la VII regione dai Cataloghi
Regionari. Un disegno di Ligorio e vari resti ci informano sul complesso, ma
la sua vera forma si evince grazie a un ragionare sulla sua ricostruzione,
tenendo presente ogni possibile confronto e soprattutto avendo l’intuizione
del teatro di Pompeo.
Alla fronte del monumento si arrivava tramite una strada proveniente dalla
via Lata e che perveniva a un giardino (fig. 44, A, 1) dotato di 8 fontane con
canalette (fig. 44, A, 2). Nella parte ovest del monumento erano due corpi
rettangolari, uno sul fronte costituito da due piani di dieci stanzoni (fig. 44, A,
3), con tre ingressi, e un altro corpo sul retro, che conteneva una doppia
rampa di scale (fig. 44, A, 5). Al di sopra del corpo costituito dai dieci stanzoni
era forse un giardino pensile (fig. 44, A, 4), ombreggiato probabilmente da
alberi; Asiatico eviterà la propria pira funeraria nel parco per non danneggiare i
suoi alberi (Tacito, Annali, 11.3). A questa ipotizzata silva si perveniva tramite
la prima rampa cui si è accennato. Al centro del corpo frontale si apriva una
scalinata (fig. 44, A, 6), probabilmente coperta, che portava a una corte lunga
e stretta, cui si perveniva anche tramite la prima rampa. Il corpo sul retro
conteneva una doppia rampa, che portava probabilmente in cima a una grande
ambulatio (fig. 44, A, 7), lunga uno stadio, affacciata sul sottostante
giardino/silva. Dietro ancora era la nominata corte lunga e stretta (fig. 44, A,
8), sotto la quale passava l’acquedotto Vergine, in grado di accogliere, nel
centro, una scena provvisoria larga quanto la doppia scala ivi attestata (fig. 44,
A, 9), che portava a un vasto giardino in forma di cavea teatrale (fig. 44, A,
10), immaginabile a prato, il cui pendio era sorretto ritmicamente da muretti
semicircolari (fig. 44, A, 11), in corrispondenza dei quali si possono
immaginare i sentieri che scandivano orizzontalmente la cavea – come
avveniva nei teatri – e che conducevano alle due palazzine poste ai lati della
cavea (fig. 44, A, 12), dotate di piano interrato (conosciamo quello della
palazzina meridionale) e di due piani nobili, gli unici luoghi abitabili di questo
parco. Queste palazzine erano probabilmente connesse, tramite due ponti (fig.
44, A, 13), alle estremità della grande ambulatio. Sentieri nella direzione
opposta articolavano la cavea in cunei. Davanti alla doppia scala attestata nella
corte, quindi già nello spazio dell’orchestra, aveva inizio un viale assiale (fig.
44, A, 14), attestato in Ligorio, che portava al culmine del monumento e del
Pincio, dove era una fontana (fig. 44, A, 15). Qui si trovava la terza parte del
complesso: il tempio/ninfeo (fig. 44, A, 16) preceduto da quattro colonne in
doppia fila, analogamente al templum Pacis (Atlas, tav. 99; qui, fig. 23), che sul
fondo e al centro aveva una fontana-ninfeo alimentata da una conduttura
proveniente dal retro (fig. 44, A, 17). L’acqua defluiva poi in una grande
cisterna sottostante (fig. 44, A, 18). Ai lati era la porticus curvilinea (fig. 44, A,
19), ininterrotta, lunga uno stadio, quanto la grande ambulatio; il muro di
fondo della porticus aveva nicchie e sul retro erano due spazi lunghi, stretti e
chiusi, che potevano essere utilizzati come cisterne (fig. 44, A, 20). Davanti
alla porticus ricurva era probabilmente un altro giardino alberato, con la
menzionata fontana al centro (fig. 44, A, 21).
Se si sovrappone il teatro di Pompeo (fig. 44, A, 22) – completato da
Caligola (Svetonio, Vita di Caligola, 21.1) – su questi horti di Asiatico si osserva
come lo spazio scenico corrisponda perfettamente alla corte lunga e stretta,
come la duplice scala sia larga quanto scena e proscenio, come la cavea
coincida con la conformazione teatrale del pendio, mentre oltre la cavea,
similmente al tempio di Venere, si trovava il tempio/nymphaeum Iovis. Il
complesso pare insomma conformato combinando la struttura dei santuari del
Lazio (si veda il santuario di Fortuna a Palestrina, quello di Ercole a Tivoli e
quello di Giunone a Gabii) con il teatro di Pompeo. Che in occasione di feste
la scena potesse essere provvisoriamente montata non stupisce. Infatti teatri ed
edifici per spettacoli provvisori sono stati montati anche in età imperiale, per
esempio da Caligola nel Diribitorium, il salone in cui si spogliavano i voti (si
veda l’Angolo 34, fig. 35). Fu la ricchezza di questi horti ad aver contribuito alla
fine di Asiatico (Dione Cassio, 60.27).
Questa fine ricorda quella di Nicolas Fouquet, che nell’estate del 1661
ricevette la Corte nel suo castello di Vaux. Si trattava di un evento sontuoso,
con giochi d’acqua, fuochi d’artificio e buffet di oltre 1000 coperti. Luigi XIV
divenne furioso nel vedere tanto splendore, la cui origine gli parve sospetta.
L’offerta di Fouquet di cedergli Vaux non fece che irritarlo maggiormente,
accelerando la sua fine.
Come i giardini di Asiatico sono stati una trasposizione a verde del teatro di
Pompeo, così la valle Sallustiana – cuore degli orti di Cesare prima, dello
storico Sallustio e di suo nipote poi e infine degli imperatori a partire da
Tiberio –, conformata naturalmente in forma di circo e quindi bisognosa di
potenti sostruzioni (fig. 44, B), è stata utilizzata all’occasione come un
ippodromo già in età repubblicana, come nel 202 a.C. quando vi si sono
tenuti i ludi Apollinares, perché il Circo Massimo era stato inondato da una
piena del Tevere (Livio, 30.38.10).
La parte più profonda della valle, destinata all’arena, era larga quanto quella
del Circo Massimo (circa m 75) ma più corta (circa m 325), mentre il Circo
era lungo quasi il doppio (circa m 550). A partire dall’età di Augusto l’area è
stata resa monumentale, fino ad apparire simile nella forma e nelle proporzioni
al più tardo e piccolo stadio di Domiziano, la cui arena misurava m 55 x 239
(Atlas, tav. 235). L’aqua Sallustiana, che scorreva sul fondo, veniva contenuta
in un lussuoso canale marmoreo che poteva anche fungere da spina,
l’elemento lungo e stretto al centro dei circhi composta da fontane e vari
monumenti. Sulle pendici basse potevano essere allestite gradinate lignee dalle
quali assistere ai giochi, in una fascia larga quanto quella in muratura dello
stadio di Domiziano. Al centro dei lati lunghi, come nel suddetto stadio, era
probabilmente il pulvinar, la tribuna riservata all’imperatore. A meno di m 100
da questa tribuna sono stati rinvenuti tre frammenti di plutei marmorei che
permettono di ricostruirne le dimensioni (m 10 x 20). Queste transenne
marmoree sono decorate con fregi a girali e sfingi. Numerose statue rinvenute
nell’area – un Apollo colossale, una Nike, barbari vinti... – potevano ornare i
portici retrostanti le gradinate, testimoniando l’intenzione del proprietario – il
nipote di Sallustio – di onorare Augusto.
Sugli horti Luculliani: Atlas, tav. 200.
Sugli horti Sallustiani: Atlas, tavv. 180 L, 182.
45.
Saloni da pranzo, con séparés
(FIG. 45)
È notissima la cenatio rotonda degli horti Liciniani (Atlas, tav. 133; qui, fig. 45,
a) dotata di nove rientranze per accogliere altrettanti letti semicircolari o
stibadia. La si vede sempre arrivando a Roma in treno, ma pochi sanno di cosa
si tratta. Rientranze di questo genere, curve e rettangolari, si trovavano già nei
lati lunghi dei triportici che affiancavano la cenatio Iovis della domus Augustiana
(Atlas, tav. 81; qui, fig. 45, b). In un grande triclinio rettangolare degli horti
Sallustiani (Atlas, tav. 186; fig. 45, c) vi è una rientranza in fondo al centro per
il triclinio principale e i due lati lunghi sono scanditi da pilastri in cinque
spazi, probabilmente per accogliere altrettanti letti. Inoltre, sempre negli horti
Sallustiani, sul lato settentrionale dell’Alta Semita, era un ambiente rettangolare
che aveva sul fondo una nicchia semicircolare tra due altre rettangolari e lungo
la parete lunga settentrionale tre nicchie rettangolari (Atlas, tav. 182 M; qui,
fig. 45, d).
Le medesime rientranze si ritrovano anche in quelle sale da pranzo
rettangolari e absidate che erano le basiliche e i mitrei, come quello presso San
Saba (Atlas, tav. 153 A; qui, fig. 45, e). Sono da ricordare, in particolare, la
basilica della domus Cilonis, con abside per stibadium o letto tricliniare
semicircolare e dieci rientranze per altri letti, alternatamente rettangolari e
semicircolari, con al centro uno spazio per spettacoli (Atlas, tav. 158b; qui, fig.
45, f), la basilica della domus Albini, non lontana dal Foro di Nerva, con abside
e otto rientranze, alternativamente rettangolari e semicircolari (Atlas, tav.
198b; qui, fig. 45, g), l’enorme basilica degli horti Lamiani sull’Esquilino,
preceduta da nartece e con dodici rientranze per triclini (Atlas, tav. 126; qui,
fig. 45, h). Vi è poi lungo il clivus Curiarum sul Palatino la basilica tardo-antica
con stibadium acquatico, che ai lati aveva due ambienti destinati a triclinia
(Atlas, tav. 88b; qui, fig. 45, i). All’Emmanuel College di Cambridge ho
cenato a una tavola, in una galleria di ritratti lunga e stretta, alla quale
potevano sedersi 100 persone. Ciò a Roma non accadeva, perché si
ammettevano soltanto piccoli gruppi, generalmente di nove persone.
Evidentemente si teneva in gran conto la conversazione face to face.
Atlas, tavv. 81, 88b, 126, 133, 153, 158b, 186, 198b. – Carandini, Bruno,
Fraioli 2010, pp. 311-322.
46.
L’archivio di casa
(FIG. 46)
Fra i grandissimi elevati di Roma rifulge a partire dal 78 a.C. il complesso del
cosiddetto Tabularium (Atlas, tav. 22) sul Campidoglio, che rappresentava lo
sfondo scenografico del Foro Romano (fig. 48). In basso era il muraglione,
che nascondeva un mezzanino; al di sopra era una prima porticus/vicus tectus;
sopra ancora era una seconda porticus; in cima erano i templi di Venere
Vincitrice, della Fausta Felicità e del Genio Pubblico. Dietro stavano il tempio
di Veiove e forse l’atrium Publicum. Davanti erano l’aerarium Saturni, la basilica
Opimia e il tempio di Concordia e, in epoca successiva, il tempio degli Dei
Consenti, quello del divo Vespasiano e quello della Concordia. L’altezza
complessiva, esclusi i templi sovrastanti, raggiungeva i m 33.
Elevati di straordinaria potenza erano quelli del fronte bugnato del Claudium
(54 d.C.) e quello del suo retro, foderato da Nerone con il monumentale
nymphaeum che allietava la vista dalla residenza dell’Oppio della domus Aurea (si
veda l’Angolo 21). In cima era il tempio del divo Claudio. I due elevati, senza il
tempio, raggiungevano rispettivamente m 17,70 e m 23,90.
Impressionante è poi l’elevato della domus Tiberiana al tempo di Domiziano
(Atlas, tav. 78), quello rivolto al Velabro, con in basso le tabernae che si
aprivano sul vicus huiusce diei o della Fortuna di oggi giorno, quindi un piano
interrato e sopra le strutture che circondavano il grande giardino: le arcate a
pilastri colonnati del piano terra e sopra la porticus con finestre del primo
piano. Altezza massima, m 26. Sul retro trasparivano, sopravanzando il resto, i
terzi piani delle due turres e tra di esse la parte alta e fenestrata della basilica.
Un altro elevato che colpisce è quello dell’Heliogabalium (218-222 d.C.) sul
Palatino, nel lato rivolto verso il vicus Curiarum (fig. 48). Al di sotto sono le
sostruzioni, su tre piani, che contenevano almeno 170 ambienti di servizio,
con sopra la porticus che su tre lati circondava il tempio, il quale da dietro
spicca. Altezza complessiva, tempio escluso, m 16,60.
Atlas, tavv. 22, 48, 78, 87, 113, 136, 282.
49.
Rilievi entro pareti decorate
(FIG. 49)
I sacraria di Marte e Ops (Atlas, tav. 34; qui, fig. 49) contenuti nel fanum/regia
che si trovava fra la Sacra via e il vicus Vestae hanno subito un importante
restauro nel 36 a.C., che ha ornato l’esterno dell’edificio con un fregio di
ghirlande e bucrani. Il vestibulum si apriva su un piccolo atrium tetrastylum,
poco oltre dotato di un’ara e che aveva su un lato l’anticamera che immetteva
nei sacraria dei due dèi, quello di Marte maggiore, con focolare rotondo e
comunicante con una stanzetta, dove forse venivano conservate le hastae
Martis, le lance immagini aniconiche del dio. I dodici scudi chiamati ancilia
erano conservati probabilmente nel sacrarium di Marte, dotato di focolare.
Nell’edificio sono stati rinvenuti frammenti di un fregio interno che
rappresentava gli ancilia appesi a una pertica orizzontale portata da sacerdoti di
Marte chiamati salii, come si vede in una gemma di Berlino del III secolo a.C.
Ove si volesse tentare di ricostruire la decorazione del sacrarium Martis, il
fregio andrebbe immaginato inserito nella parte alta di una parete decorata nel
“II stile pompeiano” (come quello della domus c.d. dell’Odissea: si veda
l’Angolo 20; figg. 21 e 49).
Qualcosa di analogo può essere tentato anche per i pannelli che
rappresentavano le origini di Roma e che decoravano la parete interna
meridionale della basilica Paulli, sia nella versione del 55/34-14 a.C. che in
quella posteriore al 14 a.C. Si può ipotizzare uno schema decorativo
marmoreo sul genere dello “stile pompeiano IIb”, tratto dalla villa della
Farnesina, con i fregi scultorei che decoravano gli intercolumni. La
ricostruzione da noi proposta prevede un totale di 21 pannelli, se si contano
anche i tre ingressi (fig. 49).
Sull’Esquilino era una domus ad atrio c.d. dell’Odissea, attribuibile ai Papirii e
databile attorno alla metà del I secolo a.C. La casa, cui si accedeva dal vicus
Patricius, era dotata di due grandi peristili. La parete sud-orientale del peristilio
A era decorata da affreschi raffiguranti scene tratte dall’Odissea. Queste scene
appartenevano al fregio di una parete di “II stile pompeiano” avanzato (fig.
49).
Atlas, tavv. 34, 93, 125b. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, p. 301.
50.
Capolavori che ritrovano il contesto
(FIGG. 50 E 51)
1. Ludus Dacicus, 4.348, Atlas of ancient Rome, tav. 118. – 2. Thermae Decianae, 4.407, 170b. – 3. Horreum
(per frumentationes?), 4.491, 232 R. – 4. Castra Ravennatium, 4.496, 250 H. – 5. Atrium Vestae, 4508, 44-
46, 279. – 6. Aedes Iovis Optimi Maximi, 4.561, 7-8, 20. – 7. Basilica Iulia, 4.744, 24. – 8. Domus (V 602),
4.799, 126. – 9. Basilica Salvatoris, 4.859, 134. – 10. Area Candidi?/C.d. Palatium Deci, 4.926, 187. – 11.
Horrea Vespasiani, 5.076, 85. – 12. Amphitheatrum Castrense, 5.271, 132. – 13. Theatrum Balbi, 5.324, 228.
– 14. Thermae? (XIV 258), 5.355, 250H. – 15. Porticus Philippi, 5.521, 224. – 16. Forum Romanum
Magnum, 5.522, 31. – 17. Nymphaeum (VI 342), 5.493, 190. – 18. Domus Servii Tullii, 5.500, 107D. –.
19. Horreum (XIV 280), 5.620, 250F. – 20. Domus Seiani/praefectus Urbi, 5.790, 107. – 21. Templum
Herculis et Dionysi, 5.840, 193-194. –. 22. Sepulcrum Hadriani, 6.149, 251. – 23. Odeum, 6.247, 233. –
24. Forum Nervae, Aedes Minervae, 6.294, 51. – 25. Mausoleum Augusti, 6.350, 231, 284. – 26. Domus
Palis?, 6.497, f.t. 14. –. 27. Horrea Lolliana, 6.589, 159. – 28. C.d. Mercati di Traiano, 6.749, 55-56. –
29. Horreum (XIII 37), 6.808, 165. – 30. Basilica (Maxentii)/Constantiniana, 6.856, 106. – 31. Horrea
Piperataria, 6.945, 97-98. – 32. Thermae Agrippae (fase 1), 7.146, 223. – 33. Macellum Magnum, 7.691,
138. – 34. Domus Clodii, 7.838, 281a. – 35. Horreum (XIV 274), 7.927, 250H. – 36. Horrea Galbana,
8.210, 165. – 37. Domus Symmachorum, 8.280, 141. – 38. Domus C. Iulii Caesaris Octaviani, 8.469, 69. –
39. Aedes e, 8.470, 161. - 40. Amphitheatrum Statilii Tauri, 8.504, 222. – 41. Balneum Surae, 8.953, 170a.
– 42. Macellum Liviae, 9.005, 125a. – 43. Forum Pistorum, 9.086, 165. – 44. Domus L. Arruntii? C.d. Villa
della Farnesina, 9.123, 248-249. – 45. Porticus Liviae, 9.232, 109. – 46. Domus Tiberiana (post 2 d.C.),
9.238. – 47. Domus Maecenatis, 9.303, 124, 126. – 48. Horreum (XIII 305) 9.388, 165. – 49. Aedes
Quirini, 9.484, 181. – 50. Sacra via (post 64 d.C.), 9.783, 110. – 51. Templa Fortunae, Solis, 10.164, 205. –
52. Domus (V 510), 11.511, 126. – 53. Forum Iulium, 11.763, 29. – 54. Templum gentis Flaviae, 12.117,
185. – 55. Templum Matidiae, basilicae Matidiae et Marcianae, 12.193, 241. – 56. Domus c.d. dell’Odissea,
12.202, 125b. – 57. Theatrum, crypta Balbi, 12.282, 228. – 58. Forum Augusti, 12.644, 38-39. – 59.
Theatrum Marcelli, 12.681, 229. – 60. Thermae Titianae, 13.150, 117. – 61. Teatro della domus D. Valerii
Asiatici, 13.397, 200. – 62. Ludus Magnus, 13.423, 115. – 63. Templum divi Hadriani (Hadrianeum),
13.581, 244. – 64. Amphitheatrum Neronis, 13.763, 222. – 65. Basilica Neptuni, Thermae Agrippae, 14.053,
243. – 66. Gymnasium di Nerone, 14.547, 223. – 67. Theatrum Pompei, 14.668, 220-221. – 68. Divorum,
15.177, 237. – 69. Porticus Octaviae, 16.411, 225. – 70. Templum Veneris et Romae, 16.507, 102. – 71.
Porticus Minucia Frumentaria, 16.601, 239. – 72. Domus T. Flavii Claudii Claudiani, 16.851, 190L. – 73.
Basilica Sancti Petri, 17.134, 258. – 74. Iseum et Serapeum 17.318, 236. – 75. 41. Complesso dell’aedes Iovis
Victoris, 17.394, 80. – 76. Porticus Boni Eventi, 18.165, 232. – 77. Heliogabalium, 18.948, 87. – 78. Castra
Urbana, 19.164, 199. – 79. Domus Tiberiana (post 2 d.C.), 19.330, 77. – 80. Iseum Metellinum, 19.684,
108. – 81. Domus Augusti, 20.715, 71-72. – 82. Templum Pacis, 21272, 99. – 83. Domus Tiberiana (post 64
d.C.), 22.446, 76. – 84. Stagnum Agrippae, 22.759, 226. – 85. Thermae Constantinianae, 23.360, 196. –
86. Palatium Sessorianum, 23.446, 132. – 87. Thermae Alexandrinae, 24.149, 246. – 88. Circus Flaminius,
24.174, 223. – 89. Amphitheatrum, 24.445, 113-114, 274. – 90. Templa Herculis et Dionysi, Serapidis,
25.066, 192-194. – 91. Cohortes tres horreorum Galbanorum, 25.827, 165. – 92. Porticus Aemilia/Navalia,
29.012, 165. – 93. Stadium Domitiani, 29.019, 235. – 94. Domus Aurea (residenza dell’Oppio), 29.402,
111-112. – 95. Trigarium, 29.949, 207. – 96. Domus C. Fulvii Plautiani, 32.000, 197. – 97. Castra priora
Equitum Singularium, 34.135, 126. – 98. Forum Traiani, 34.391, 52-53. – 99. Castra Equitum Singularium,
39156, 126. – 100. Horti (Luculliani) D. Valerii Asiatici 39.164, 200. – 101. Claudium, 39.702, 136. –
102. Saepta Iulia (37.785) e Diribitorium (5.945), 42.566, 227. – 103. Valle Sallustiana/Ippodromo
45.395, 182. – 104. Theatrum, porticus Pompei, 46.228, 220-221. – 105. Domus Augustiana (post 123
d.C.), 52.434, 81. – 106. Stagnum della domus Aurea, 65.823, 96. – 107. Naumachia Traiani, 65.930,
250E. – 108. Circo degli Horti Spei Veteris, 76.145, 132. – 109. Circus Maximus, 80.401, 175-176. – 110.
Thermae Traiani, 83.607, 119-120a. – 111. Naumachia Augusti, 94.369, 247. – 112. Domus Aurea
(residenza della Velia), 111.415, 96. – 113. Thermae Diocletianae, 119.340, 195. – 114. Thermae
Antoniniane 127.442, 155-157. – 115. Castra Praetoria 176.626, 184.
Referenze iconografiche
Fig. 4: (A) Ara del Belvedere, Roma, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano [da Atlante, tav. 33];
(B) Mosaico della cella dei Lares publici, Roma, Museo Nazionale Romano, Museo Palatino
(magazzini?) [da Atlante, tav. 33]; (C) Resti del Portico, in situ, Roma, Area Archeologica del Foro
Romano e Palatino, Capitello della semicolonna (accanto al tempio del divo Giulio) [da Atlante, tav.
33].
Fig. 9: (21) Scettro con sfera di vetro verde, nel ripostiglio, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo
Massimo alle Terme [da Atlante, fig. 71]; (A) Sesterzio di Caligola, 37-38 d.C., templum divi Augusti
esastilo [da Atlante, tav. 41D]; (B) Sesterzio di Antonino Pio, 158-159 d.C., templum divi Augusti
ottastilo [da Atlante, tav. 41D].
Fig. 10: (A) Antefissa fittile con protome elefantina a rilievo, Roma, Museo Nazionale Romano, Museo
Palatino [da Atlante, tav. 69]; (B) Lastra “Campana” di terracotta dipinta, a rilievo betilo adornato da
fanciulle, Roma, Museo Nazionale Romano, Museo Palatino [da Atlas, fig. 59].
Fig. 11: (a) Danaide in marmo nero, Roma, Museo Nazionale Romano, Museo Palatino [da Atlante,
tav. 72]; (b) Cupola del Lupercal, in situ, Roma, Area Archeologica del Foro Romano e Palatino [da
Atlante, fig. 50].
Fig. 12: (a) Base di Sorrento, età augustea, Sorrento, Museo Correale di Terranova; (c) Urna cineraria di
L. Cacius Cinnamus, Roma, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano; (d) Rilievo, Bacchus madidus e
parte privata della domus Augusti, London, British Museum, Townley Collection; (e) Rilievo, cerimonia
alla corte di Vesta, Palermo, Museo Nazionale; (g) Base di Sorrento, Sorrento, Museo Correale di
Terranova.
Fig. 13: (a) Rilievo, Apollo, Diana, Latona sacrificano con Vittoria all’altare di Apollo, età augustea,
Berlino, Staatliche Museen [da Atlante, fig. 53]; (b) Base di Sorrento, età augustea, Sorrento, Museo
Correale di Terranova; (c) Aureo di L. Mescinio Rufo [da Atlante, tav. 72].
Fig. 14: Disegno di Anonimo, XVII secolo, concamerazioni voltate sottostanti l’Area/Silva Apollinis [da
Atlas, tav. 282].
Fig. 17: (B) Basilica, opus sectile, in situ, Roma, Area Archeologica del Foro Romano e Palatino [foto da
Atlante, tav. 75].
Fig. 19: (a) Sesterzio di Domiziano (95-96 d.C.) [da Atlante, tav. 82]; (b) Statua colossale di Ercole in
marmo verde, Parma, Galleria Nazionale [da Atlante, fig. 67].
Fig. 22: (a) Stabia, affresco di villa marittima con altana, Napoli, Museo Archeologico Nazionale [da
Atlante, fig. 76]; (b) Pompei, casa di M. Lucretius Fronto, villa con sala rotonda centrale e con avancorpi
laterali, in situ.
Fig. 23: Templum Pacis, statua bronzea di Crisippo, Roma, Mercati di Traiano, Museo dei Fori
Imperiali.
Fig. 24: (a) Planimetria e decorazione architettonica dell’aedes Telluris di P. Ligorio (1513-1583) [da
Atlante, fig. 83]; (b) Planimetria e decorazione architettonica dell’aedes Telluris di P. Ligorio (1513-1583)
[da Atlante, fig. 81]; (c) Planimetria di F. da Sangallo (?), 1494-1576 [da Atlante, fig. 82].
Fig. 26: Disegno del rilievo con cinque edifici dalla tomba degli Haterii [da Christian Hülsen, The Roman
Forum: Its History and Its Monuments, tradotto da J.B. Carter, Loescher-G.E. Stechert, Roma-New York
19092, fig. 150, p. 249].
Fig. 27: Pavimento a mosaico del cubiculum, D. Marchetti, disegno a matita, inchiostro e acquarello,
1879 [da Atlante, tav. 249].
Fig. 28: Fregi in situ, Roma, Sovraintendenza Comunale di Roma [da Atlas, tav. 283]; (A) Rilievo con
ritratto dei defunti, Roma, Musei Capitolini [da Atlas, tav. 283]; (B) Capitello di lesena in situ, Roma,
Sovraintendenza Comunale di Roma [da Atlas, tav. 283].
Fig. 29: (a) Anfora attica a figure rosse, 480-470 a.C., dal deposito votivo del tempio, Parigi, Musée du
Louvre [da Atlante, fig. 142]; (b) Torso di kore, replica della statua di culto, età augustea [da Atlante, fig.
143a]; (c) Tripode, disegno di G.B. Piranesi [da Atlante, tav. 161]; (1) Rilievo Hartwig, frammento con
la rappresentazione dell’aedes Quirini, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme,
Dono Hartwig [da Atlante, tav. 185]; (7) Testa colossale dell’imperatore Tito, Napoli, Museo Nazionale
Archeologico [da Atlante, tav. 185].
Fig. 31: Sterri ottocenteschi, banchina, con rampe e ormeggi di travertino (117-138 d.C.), foto P.
Bruzza (foto Archivio SSBAR).
Fig. 33: Mosaico con la distribuzione del grano alla plebe, in situ, Ostia, Aula dei mensores, Regio I,
Insula XIX, Aula dei Mensores (I,XIX,1.3) [da Atlante, tav. 216].
Fig. 34: (A) Statua di Pompeo/Nettuno, Roma, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano [da Atlante,
tav. 220].
Fig. 36: (A) Resti della Basilica, in situ, Roma, Sovraintendenza Comunale di Roma [da Atlas, tav. 229];
Teatro di Orange, in situ, scaene frons [da Atlas, tav. 229]; Teatro di Orange, in situ, postscaenium [da Atlas,
tav. 229]; (B) Maschere [Atlas, tav. 229]; (C) Dettaglio primo ordine, in situ, Roma, Sovraintendenza
Comunale di Roma [da Atlas, tav. 229]; (D) Dettaglio secondo ordine, in situ, Roma, Sovraintendenza
Comunale di Roma [da Atlas, tav. 229].
Fig. 37: (A) Foto dell’interno dell’ara Pacis, Roma, Museo dell’ara Pacis.
Fig. 42: Algeria, Tebessa, stalla, pianta e sezione [da Christern von Jürgen, Das frühchristliche
Pilgerheiligtum von Tebessa. Architektur und Ornamentik einer spätantiken Bauhütte in Nordafrika, Franz
Steiner Verlag GmbH, Wiesbaden 1976].
Fig. 43: Triclinium, affresco in secondo stile e grifi in stucco (100 a.C. circa), Roma, Area Archeologica
del Colosseo, Foro Romano e Palatino.
Fig. 44: Plutei marmorei degli horti Sallustiani, Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
Fig. 47: FUR http://formaurbis.stanford.edu/fragment.php?
record=2&field0=stanford&search0=157&op0=and&field1=all, Disegno di Baldassarre Peruzzi, Uffizi,
arch. 484r.
Fig. 49: Fregio della Basilica Emilia, Roma, Museo Nazionale Romano, sezione di Palazzo Massimo
alle Terme; Pitture della domus dell’Odissea, Roma, Musei Vaticani, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Fig. 50: Toro Farnese, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Fig. 51: (9) Deditio, Roma, Musei Capitolini; (12) Adlocutio?, frammento, Copenhagen, Ny Carlsberg
Glyptotek.
Breve glossario dei termini latini
Amoroso 2007: A. Amoroso, Il tempio di ‘Tellus’ e il quartiere della ‘Praefectura Urbana’, in «Workshop di
Archeologia Classica», 4, 2007, pp. 53-84.
Arvanitis 2010: N. Arvanitis (a cura di), La Casa delle Vestali e il Tempio di Vesta dall’VIII sec. a.C. fino al
64 d.C. Rapporto Preliminare, in «Workshop di Archeologia Classica», Quaderni, 3, 2010.
Arvanitis c.s.(a): N. Arvanitis, ‘Aedes Vestae’ e ‘casa/domus’ delle vestali, in Carandini, Carafa, Filippi,
D’Alessio c.s.
Arvanitis c.s.(b): N. Arvanitis, ‘Fanum’ e ‘sacellum’ (775 a.C. circa - 530 a.C.), in Carandini, Carafa,
Filippi, D’Alessio c.s.
Atlas: A. Carandini, P. Carafa (a cura di), Atlas of Ancient Rome, Princeton University Press, Princeton
(N.J.) c.s. (edizione tradotta e aggiornata di Atlante: Atlante di Roma antica, Electa, Milano 2012).
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