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Robinson / Letture
Andrea Carandini
Angoli di Roma
Guida inconsueta alla città antica

Editori Laterza
© 2016, Gius. Laterza & Figli


L'Editore è a disposizione di tutti
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per chiedere la debita autorizzazione.

Edizione digitale: novembre 2016


www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)


per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858127261
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Sommario

In volo e in picchiata
1. Le capanne di Romolo e di Marte con Ops (Fig. 1)
2. Dove dormivano le vestali? (Fig. 2)
3. La casa dei re-auguri (Fig. 3)
4. Il culto dei Lari (Fig. 4)
5. Le case del re dei sacrifici e di Tarquinio Prisco (Fig. 5)
6. La casa dei re-tiranni e poi del pontefice massimo (Fig. 6)
7. Porta Mugonia, Remo ucciso, Tito Tazio respinto, adulti sacrificati (Fig. 7)
8. Ingrandirsi invadendo case altrui (Fig. 8)
9. Due templa del divo Augusto, a due angoli del Palatino (Fig. 9)
10. Abitare dove Roma è nata (Figg. 10 e 11)
11. Rilievi, quasi fotografie (Figg. 12 e 13)
12. Stanze per liberti e schiavi e balconata sul Circo (Fig. 14)
13. Il quartiere più chic del Palatino (Figg. 15 e 16)
14. La casa di Cicerone (Figg. 15 e 16)
15. Avere una basilica in casa (Fig. 17)
16. La casa di Caligola, presso la quale è stato ucciso (Fig. 18)
17. Dove abitava il bibliotecario di Domiziano? (Fig. 19, A)
18. Grandi aule e parte intima della domus Augustiana (Fig. 19, B)
19. Per due Augusti, un ippodromo ciascuno (Fig. 20)
20. Grandissime corti porticate (Fig. 21)
21. Saloni da pranzo della domus Aurea (Fig. 22)
22. Biblioteche con auditoria (Fig. 23)
23. La Velia, dove era? (Fig. 24)
24. Giove Statore, prima e dopo l’incendio (Figg. 25 e 26)
25. Il prefetto alla città: casa e bottega (Fig. 24)
26. Case a confronto, nel tempo lontane (Fig. 27)
27. La tomba di un fornaio (Fig. 28)
28. Templi ritrovati (Fig. 29)
29. Il maggiore tempio di Roma e dell’Impero (Fig. 30)
30. Banchine sul Tevere (Fig. 31)
31. Vivere in appartamenti (Fig. 32)
32. Dove la plebe riceveva il grano (Fig. 33)
33. Curia di Pompeo, Cesare trucidato (Fig. 34)
34. Dai comizi centuriati agli spettacoli di Caligola (Fig. 35)
35. Teatro di Marcello, come nuovo (Fig. 36)
36. L’ara Pacis e il suo ligneo recinto (Fig. 37)
37. I mausolei di Augusto e di Adriano (Fig. 38)
38. La nave di Enea e il suo ricovero (Fig. 39)
39. Il Pantheon di Augusto ricostruito da Adriano (Fig. 40)
40. Pire dei principi, altari dei divi (Fig. 41)
41. Stalle per cavalli del Circo (Fig. 42)
42. Abitare d’estate al fresco (Fig. 43)
43. Suites di sale (Figg. 10, 14, 17, 20, 22 e 26)
44. Giardini in forma di teatro e d’ippodromo (Fig. 44)
45. Saloni da pranzo, con séparés (Fig. 45)
46. L’archivio di casa (Fig. 46)
47. Edifici disegnati, infine ricostruiti (Figg. 25 e 47)
48. Elevati elevatissimi (Fig. 48)
49. Rilievi entro pareti decorate (Fig. 49)
50. Capolavori che ritrovano il contesto (Figg. 50 e 51)
51. Roma misurata e smisurata (Fig. 52)
Illustrazioni
Referenze iconografiche
Breve glossario dei termini latini
Riferimenti bibliografici
In volo e in picchiata

C’era, in fondo al mio animo, il ritegno a realizzare il mondo del sogno, a


sostituire immagini precise a quelle ondeggianti...
(Benedetto Croce, Discorso
di Pescasseroli, 1910)

Ho sempre desiderato volare su Roma nei suoi diversi secoli. E ho


immaginato anche di scendere in picchiata su tanti dettagli e di entrare nelle
finestre per scrutare particolari come fossero cellule del pachiderma urbano. È
nelle stanze che si concepiscono e ordiscono le vicende umane, che poi si
attuano collettivamente in luoghi pubblici, oppure solitariamente nei palazzi.
Sono stati sogni di questo genere ad aver generato l’Atlante di Roma antica, sia
nella prima edizione italiana (Electa) sia nella seconda edizione in lingua
inglese, completamente riveduta (Princeton University Press). Procedendo
nel tempo la città cambia per le nuove scoperte, ma anche perché i suoi
indagatori temperano l’acume critico e ricostruttivo. I sogni servono a
ispirarci, a orientarci, a segnalare un desiderio che i mezzi della ragione
permettono poi di attuare, assistiti da principi e passioni.
Per alcuni, l’architettura è vile perché applicata alle necessità della vita,
mentre essa è arte tra le più astratte, nonostante gli apparati decorativi e
figurati, fissi e mobili, pari quasi alla musica, arte per eccellenza
trascendentale. È proprio grazie alla distanza sostanziale da parole e figurazioni
che l’architettura stimola parti essenziali e speciali della mente, sia ragionevoli
che fantasiose, per cui essa immette immediatamente nel mondo straordinario
dei significati sociali, dei mores, delle istituzioni e dei fatti. È l’unica arte che
nella città assume il rango di un intero paesaggio.
Balzac ha scritto: “Gli avvenimenti della vita umana, sia pubblica che privata,
sono a tal punto intimamente legati all’architettura, che la maggior parte degli
osservatori possono ricostruire nazioni oppure individui in tutta la verità delle
loro abitudini grazie all’esame dei resti dei monumenti pubblici e delle
reliquie di quelli domestici. L’archeologo sta alla natura sociale come
l’anatomia comparata alla natura organica” (La ricerca dell’assoluto, 1834).
Le costruzioni rivelano i costumi che compongono la commedia e tragedia
umana e risvegliano nell’artificio, come la melodia, una emozione spontanea.
Gli edifici circondano spazi vuoti ed è nel gioco di pieni, a diverse altezze, e di
vuoti, più o meno ampi, che la città si forma e si trasforma nel respiro dei
secoli e nel precipitarsi dei momenti cruciali, determinando paesaggi che si
alterano, ora gradualmente – piccole costruzioni preparate da piccole
distruzioni – ora vorticosamente – come Roma dopo l’incendio di Nerone o
come Londra dopo quello del ’600.
Vuoti di strade e di piazze e pieni delle costruzioni e delle architetture
s’intersecano tra loro in modo tanto compatto che separare gli uni dagli altri
implica lacerare, ora più gravemente ora in modo più conforme, l’anatomia di
un organismo complicato e interconnesso per gli infiniti e continui
adattamenti avvenuti in una storia lunghissima.
Per questa ragione, l’archeologo, cioè lo studioso che opera sul campo, è
restio a isolare parti singole, come fanno alcuni storici dell’architettura –
influenzati dagli storici dell’arte –, i quali isolano i monumenti pubblici sia dal
tessuto della città e sia dagli arredi interni, in modo che le testimonianze
magniloquenti muoiono appena estratte dalla loro matrice e quasi più nulla
riescono a dirci nell’antipaticissima antologia delle costruzioni più
ragguardevoli.
Al contrario, pure se sollevato dal tavolo e tenuto in mano, un
soprammobile conserva il garbo, perché facilmente può tornare al posto: un
luogo preciso, ben noto ai padroni di casa, i quali sovente passeggiano per le
stanze per rimettere ogni cosa in ordine, in modo che la scena domestica,
modesta o grandiosa, ritrovi la forma abituale, il suo significato.
I monumenti non equivalgono pertanto agli oggetti mobili, perché non si
cammina sopra un fraseggio, su una tela dipinta o su una statua, ma ci si
muove tra di essi, mentre negli edifici si entra e si cammina accolti e avvolti ed
essi rivivono in quanto contenitori di ogni cosa e forma di vita, scenari
dell’essere storicamente nel mondo. Per questa ragione il Colosseo, privato
dagli archeologi scavatori del suo pavimento, è come un San Pietro nel quale
non fosse possibile entrare perché il suolo è stato scavato per mettere in luce la
sottostante necropoli. Insomma, il pavimento è parte imprescindibile di una
rovina, la sola che non può mancare, dato che pareti e coperture possono
essere più o meno conservate, ma se manca la terra sotto i piedi, il
monumento non è più percepibile ed esperibile.
Per noi è possibile “ripetere l’esperienza creativa del passato non in termini
del fare artistico, che ci è definitivamente precluso, ma in termini
d’immaginazione scientifica e d’innovazione tecnica”1.
Eppure perfino l’archeologo, pur così strettamente legato ai contesti, può
essere indotto a prescindere per un momento dai paesaggi nel loro insieme.
Ciò avviene quando è colto da interessi particolari, che vuole svelare e
raccontare in un succedersi di exempla capaci di insegnare a vedere come la
grande totalità del reale sia composta da un oceano di particolari, ora enormi
ora minimi, ma sempre tra loro concatenati. Se pensiamo alla vita e al tempo,
la constatazione è evidente: tutto scorre, ma se si tratta di argille e legni, tufi e
pietre, mattoni e altri materiali questa constatazione risulta meno
comprensibile. Può una città scorrere come un fiume?
Eppure, come un film si svolge fluidamente, pur essendo formato da una
somma di fotogrammi, così anche la città fluisce nel suo incessante aggiustarsi,
adattarsi e rifarsi tramite infinite azioni di mantenimento che conservano, e
innumerevoli alterazioni che trasformano e spostano costruzioni e cose. Tra
gli scatti che colgono la trasformazione si interpongono tante inerzie che non
vengono documentate, ma che fanno parte anch’esse della storia del luogo.
Tuttavia il film scorre comunque veloce e i punti morti, che pure esistono, gli
occhi non li avvertono.
Anche nel film scorrevole di una città può sorgere la necessità di cogliere e
trattenersi su singoli fotogrammi, che sono dettagli, punti di vista, angolature
e zoom nei quali per un momento ci si vuol perdere. È nata così l’idea di
raccogliere, in arbitraria scelta, un insieme di particolari di Roma antica,
slegati tra loro ma capaci di acuire sguardo e comprensione, particolari che
nessuno sguardo d’insieme è in grado di mettere a fuoco per rilevarne il
singolo valore.
Eccoci dunque a questi Angoli di Roma, che rappresentano il contrario
dell’Atlante, anche se da questo sono stati tratti, come fiori ed erbe da un ben
più ricco prato. Quante essenze si tralasciano quando si coglie una margherita
o un trifoglio? Eppure, solo scegliendo possiamo osservare alcune parti da
vicino, in modo distinto e approfondito, come avviene in un erbario che
permette di apprezzare le caratteristiche minime dei vegetali, disegnati nella
loro freschezza e conservati essiccati.
È fatale questo elevarsi per vedere tutto planando e questo scendere poi in
picchiata, come fa il rapace sul serpentello messo a fuoco a distanza e
fulmineamente ghermito dagli artigli. È questo il dondolare, piacevole e
tormentoso, fra le cose che formano la rete dell’esistenza e l’individuazione e
la selezione di singoli nodi, che dobbiamo enucleare se vogliamo conoscerli da
vicino. Restano il primo abisso, che separa un vasto paesaggio dal singolo
monumento, e il secondo abisso, che separa il singolo monumento dalle
infinite cose che lo compongono e arredano, le quali possono muoversi nel
tempo come gli attori su una scena.
Partiamo dunque con incerta fiducia per queste isolette trascelte di Roma,
staccate provvisoriamente dal continente cui appartengono, la cui geografia è
nota. È un modo per avvicinarsi a parti quasi volendole toccare e vedere come
al microscopio. Ma poi il lettore, passando dagli Angoli all’Atlante, potrebbe
scegliersi egli stesso altri dettagli da ingrandire (con lente o espediente
digitale), come si farebbe con un insetto da anatomizzare, imparando così
anche lui sia a planare che a precipitarsi in uno zoom, a seconda delle
curiosità. Perfino l’amore non è che l’ingrandimento di una singola persona.
Ma trarre particolari da una rete contestuale in cui possono essere poi
facilmente reintegrati è diverso che pescare casi singoli da contesti ignoti o
mal studiati; né è sufficiente rimedio ricorrere a serie tipologiche, eradicate
anch’esse dalle matrici. Si tratta insomma, qui, di un’archeologia che parte dai
paesaggi e scende al singolo oggetto mobile o a una particolare tipologia e non
viceversa, come fa l’ottica storico-artistica, che pesca pesci ignorando il mare.
Si potrebbero immaginare paesaggi e monumenti di Roma come casi clinici
dal forte carattere qualitativo, nel senso dato dalla introduzione di Oliver
Sacks a Un mondo perduto e ritrovato del neuropsicologo russo Aleksandr Lurija2.
Il libro di Lurija è tutto un anatomizzare e un ritrarre il suo paziente, come già
aveva fatto Freud, dove la precisione della descrizione della sindrome si
accompagna all’immedesimazione nella persona che la incarna, le quali
conducono dritto alla narrazione, in una sorta di “romanzo neurologico”.
Anche Sacks, allievo di Lurija, compie questo miracolo di fusione nei casi suoi
che hanno avvinto il mondo.
Lurija racconta di Lev A. Zaseckij, tenente dell’Armata rossa, che nel 1943,
all’età di 23 anni, è stato colpito da un proiettile tedesco nella zona occipito-
parietale sinistra del cervello. Da allora Zaseckij è stato affetto da caos visivo,
non riusciva a immaginare il lato destro del proprio corpo e la memoria era
devastata da una frammentazione caotica. Lurija ha assistito Lev per 26 anni.
I lobi frontali del cervello erano intatti, quindi era consapevole del suo stato,
ma doveva riordinare e ricostruire il racconto della propria vita, elaborando
dai frammenti un insieme che avesse un senso. Il ricordo è sempre un
qualcosa di attivo, la costruzione creativa di una esistenza (la memoria, forse,
non è che la riparazione a un danno del tempo). Il Lev di prima era distrutto,
ma quello dell’amnesia e dell’afasia – all’inizio quasi totali – aveva ritrovato sé
medesimo. Avrebbe potuto lasciarsi andare e perdersi per sempre, ma dalla
lotta impari Lev è uscito vincitore.
È riuscito a ricomporre i pezzi sparsi del suo esistere mentale in quadri
contestuali, servendosi delle parti del cervello rimaste intatte. È stato un
detective e al tempo stesso l’oggetto della propria inchiesta. È partito da una
testa vuota, senza ricordi e saperi, piena di un’accozzaglia di residui confusi, e
tra difficoltà indicibili ha recuperato i primi grumi di memoria per ritrovare
infine il corso della vita, come un bambino che deve crescere e svilupparsi una
seconda volta.
Nel cervello di Lev erano rimasti intatti la percezione immediata del mondo,
le intenzioni, i desideri, le emozioni, la consapevolezza e l’entusiasmo, ma era
per lui difficilissimo passare da singoli oggetti a situazioni intere, fatte dei
rapporti tra quegli stessi oggetti: “Mi tocca continuamente immaginare i pezzi
mancanti delle cose... Ora vedo tutto diviso in singole parti..., lo spazio è
disgregato..., la pallottola ha infranto i legami tra le cose”. Così Lev, ferito al
capo, si è salvato trasformandosi in “archeologo della memoria”, basandosi
principalmente su quell’energia che in lui non si era spenta: l’entusiasmo
creativo.
Anche Roma è una mente colpita dai proiettili dei millenni e i danni paiono
irreparabili: disordine, frammentazione, perdita della memoria e spazi
disgregati. Ma la paziente analisi, l’appassionato ardore ricostruttivo e la
costanza pugnace dell’archeologo – che rappresenta la parte illesa del cervello
urbano – consentono a lui di superare i deficit prodottisi nel tempo e di ridare
senso non tanto a monumenti singoli ma a loro insiemi, cioè ai paesaggi vari
di cui la città antica è composta.
Come fare? Ricomponendo i frammenti dispersi in contesti significativi:
uno sforzo simile a quello di Lev, ma quanto meno doloroso! Il racconto mai
è dato ed è sempre il frutto di un impegno capace di riesumare il passato in un
progetto di ricreazione intellettuale grazie al quale il tempo trascorso riprende
a scorrere, come un Lazzaro resuscitato che cammina.
Ridare la vita a Roma antica significa imparare a vivere più compiutamente
il tempo nostro ed è l’esito della digestione euristica di una civiltà osservata nel
suo centro di gravità da un punto di vista attuale. A forza di rammendi, si
diventa ricamatori sempre più destri e anche sempre più incontentabili. La
città così come è esistita nelle diverse epoche è morta, ma l’archeologo, che in
tutt’altro tempo vive e opera, può arricchire il presente e la stessa sua vita
riconquistando e interpretando, grazie ai nuovi mezzi disponibili, le parti
colpite dall’ingiuria dei secoli, avvalendosi di quel poco o di quel molto che il
nulla non è riuscito a dissolvere. Ogni frammento risparmiato, anche il meno
appariscente, serve: è pedana per saltare al frammento successivo e così si
imbastisce una Polinesia di informazioni che equivale a una città antica, pur
essendo anche un costrutto mentale attuale.
Ma l’archeologo riesce a fare ciò solo se segue le tracce morali e scientifiche
di Freud, Lurija e Sacks, non soltanto riguardo a sé stesso ma anche riguardo a
mondi interi che i lustri hanno disperso e che lui può ricondurre,
materialmente, visivamente e spiritualmente, strato dopo strato e periodo
dopo periodo, alla luce del proprio tempo. Servono le filologie delle cose –
tipologia, stratigrafia, topografia –, ma anche un ingrediente meno noto, più
impalpabile ma quanto mai fertile di cui gli scettici radicali (gli ipercritici)
sono privi: l’entusiasmo creativo per i nessi tra le cose – quello che Lev ha
avuto in sommo grado –, il quale consente di riunire quanto è slegato e di
integrare le parti mancanti.
Si tratta di trasformare i vari nodi in reti, che mai perdono tutte le lacune,
per cui rimangono imperfette, ma che risultano sempre più significative mano
a mano che si avanza in quella regia dei documenti più diversi, in quella
rigenerazione umana che è la ricerca storica quando ha come oggetto
principale le rovine. La città è una mente sociale che ha attraversato i millenni,
danneggiandosi in parte fino alla necrosi, ma anche risparmiandosi in modo da
consentire quel recupero che ogni rinascita presuppone.
È stata la pallottola a spiegare a Lurija il funzionamento della mente di Lev;
sono le rovine, gli strati e gli oggetti di Roma antica che hanno consentito di
ricostruire Roma capendone il fluire, fin dai primordi. Per ricostruire servono
storia e scienza, ma anche empatia e sensibilità artistica.
Dedico questo libro alla mia amata moglie, Mara Fazio.

1 G. Urbani, La scienza e l’arte della conservazione dei beni culturali, 1981, in «Ricerche di Storia
dell’arte», 16, 1982; Id., Intorno al restauro, Skira, Milano 2000, pp. 43-48.
2 Adelphi, Milano 2015.
1.
Le capanne di Romolo e di Marte
con Ops
(FIG. 1)

L’approdo sul Tevere al sito di Roma si trovava in origine a una estremità


dell’Aventino, dove era l’ara Massima di Ercole, l’eroe civilizzatore che di
ritorno dalle peripezie nel più estremo Occidente – le Baleari? – aveva
soppresso il capo indigeno sputafuoco chiamato Caco, che aveva avuto il suo
antro lì vicino. Nelle piene il Tevere si insinuava tra Campidoglio e Aventino,
raggiungendo le bassure del Velabrum e della vallis Murcia e il Cermalus, il
versante del Palatino rivolto all’Aventino.
È presso questo approdo che Romolo, ottenuti sull’Aventino gli auspici
favorevoli per fondare la città e inaugurarsi re, ha scagliato l’hasta per prendere
possesso del Palatino. L’hasta era il simbolo del potere, della conquista e della
proprietà in forma di lancia. L’hasta scagliata aveva raggiunto il Cermalus e si
era conficcata davanti alla capanna del capo e porcaro Faustulus e della sua
compagna Acca, la Madre dei Lari e degli Arvali, che erano stati anche i
genitori putativi presso i quali Remo e Romolo erano stati allevati.
Remo e Romolo erano figli di Marte (Mars) e di Rhea Silvia, principessa di
Alba, un villaggio al centro del Lazio dove si venerava il Giove (Iuppiter) di
tutti i Latini (Latiaris). Erano stati esposti al Tevere dal perfido re albano
Amulio. La cesta che li conteneva era stata abbandonata sulla riva del fiume
presso il Lupercal, il santuario/grotta di Mars e di Faunus Lupercus (lupus e
hircus/capro) posto ai piedi del Cermalus. Non potevano capitare in luogo più
propizio. Il Tevere si era prontamente ritirato risparmiandoli e un picchio e
una lupa avevano nutrito i gemelli. Mars era il divino generatore di Picus il
picchio e di Faunus il lupo: gli avi totemici che avevano salvato i gemelli.
In cima al Cermalus, dove era stato il tugurium Faustuli e dove l’hasta di
Romolo si era conficcata, mettendovi radici e tornando a essere vivente
corniolo, il re-augure Romolo edifica la sua casa o capanna. Di fronte a essa
svolge i primi riti per fondare Roma. Nasconde in una fossa – come in un
penus o sotterranea dispensa – terre e primizie dei vari rioni e distretti della
comunità e poi accende lì accanto su un’ara il primo fuoco regio, magari
derivato dal focolare della reggia di Alba che sua madre Rhea Silvia aveva un
tempo accudito. Infine il re-augure fissa con le pietre del pomerium i limiti del
suolo palatino per il quale ottiene da Giove una inaugurazione – potremmo
dire una benedizione – e traccia con l’aratro, al di fuori di quelle pietre, il
sulcus primigenius, per edificarvi poi al di sopra un murus, interrotto da tre porte,
erette dove aveva sollevato l’aratro. Si trattava di un murus sanctus, posto entro
una fascia di suolo non abitabile, non coltivabile, non alterabile e non
violabile, delimitata dietro al murus dalle pietre del postmoerium/pomerium e
davanti a esso da quelle del promoerium.
La benedizione di Giove ottenuta da Romolo, o inaugurazione, aveva dato
al Palatino uno statuto superiore al resto dell’abitato e all’agro dei Quirites.
Solo il Palatino era allora la urbs Roma, tanto che una porta sopravvissuta del
suo murus si chiamava Romanula.
Sul Cermalus gli archeologi hanno rinvenuto una grande capanna ovale
sorretta all’interno da quattro pali, in cui possiamo riconoscere il tugurium
Faustuli, dove Romolo era stato allevato. Questa capanna è stata poi rasata per
edificarvi sopra due capanne associate. Una era di abitazione e vi si può
riconoscere la casa Romuli. L’altra, articolata in due ambienti, il primo
rettangolare con funzione di vestibulum e il secondo tondeggiante, era
probabilmente il sacrarium di Mars e Ops, la coppia generatrice divina nella
quale si possono riconoscere i genitori di Romolo: Mars e Rhea (Silvia), nome
quest’ultimo equivalente a quello di Ops, la dea dell’opulenza. Lì era forse
anche la curia saliorum, cioè la stanza dei sacerdoti di Mars, depositari del lituus
di Romolo, il bastone-tromba di cui il re si era servito per osservare il volo
degli uccelli rivelatori delle volontà di Giove e per inaugurare il Palatino.
Davanti alla capanna di Romolo è stata rinvenuta una cavità rettangolare
(fossa), associata a un’ara lavorata nel tufo. Era probabilmente la fossa utilizzata
dal re per accogliere e unificare terre e primizie dell’abitato e forse anche
dell’agro. Accanto era l’altare sul quale può essere stato acceso il primo fuoco
regio della città. Capanne, fossa e ara si trovavano tra il ciglio o supercilium delle
scalae Caci e il percorso del futuro clivus Victoriae, entro un’area ben definita e
circondata da un recinto. Era forse il recinto che delimitava il fanum di Mars e
Ops, nel quale la casa Romuli era stata accolta, come poi le case dei re-auguri
nella radura o lucus sacra a Vesta, la dea del fuoco comune. Al tempo dei
Tarquini, i sacraria di queste divinità saranno accolti in un edificio regio che
era considerato anch’esso un fanum, cioè un’area delimitata e consacrata a una
divinità.
La doppia capanna, che può essere interpretata come sacrarium di Mars e Ops
e come curia Saiorum, verrà preservata e venerata dai Romani, con nuovi
apprestamenti, nel corso di oltre mezzo millennio – indice della sacralità del
luogo –, fino a quando verrà seppellita sotto l’area antistante il tempio della
Magna Mater, edificato nel 191 a.C. Da allora le memorie romulee saranno
accolte nell’annesso recinto o sacellum, dove si trovano la descritta fossa con ara
della fondazione e dove probabilmente era stata riproposta la capanna del re
fondatore, che Varrone (Lingua Latina 5.54) definisce aedes (al singolare)
Romuli. Il tutto è stato preservato fino alla tarda antichità come un museo del
fondatore e della fondazione di Roma, in una continuità complessiva durata
più di un millennio.
Analoghe conservazioni e riproposizioni si conoscono per il murus e le portae
del Palatino, fatte e rifatte fino all’incendio del 64 d.C., quindi nel corso di
oltre 800 anni. La memoria mitistorica dei Romani si ancorava pertanto a
monumenti alto-arcaici, più volte restaurati e riproposti, la cui secolare
continuità stupisce e condiziona una critica storica informata.
Atlas, tavv. 61, 62, 63, 171, ill. 8, fig. 46. – Bruno 2010, pp. 287-296. –
Carandini 2006.
2.
Dove dormivano le vestali?
(FIG. 2)

Intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., sul versante opposto del Palatino rivolto
al monte Velia, ai limiti di un bosco inviolabile che si trovava tra il murus e le
pietre del promoerium, è stata ricavata una radura, o lucus, che è stata consacrata
a Vesta, la dea del fuoco pubblico di Roma.
Dell’aedes più antica di Vesta, presumibilmente una capanna circolare, nulla
resta, essendo stata distrutta, insieme alle sue fasi successive, dall’opera
cementizia di quel luogo di culto databile agli inizi del I secolo a.C. Ma
davanti a dove era sorta la capanna sacra alla dea è stata rinvenuta la prima casa
o capanna delle vestali, databile intorno al 750 a.C. È dunque nell’epoca di
Romolo che il culto del fuoco pubblico è stato istituito ed è stato affidato a
nuove sacerdotesse chiamate vestales, completando così, in modo greco, la
fondazione latino-etrusca della città-stato. Infatti le città greche nascevano
quando il primo fuoco veniva acceso nel focolare di Hestia, dea equivalente a
Vesta, di cui i Romani potrebbero aver appreso l’esistenza tramite la più
occidentale e più antica delle colonie greche di Occidente: Cuma, che in linea
d’aria distava da Roma solo 175 chilometri.
I culti legati al fuoco di Vesta e di Volcanus hanno segnato fin dall’origine i
limiti del Foro Romano. Come ai rioni federati dei Quirites Romolo ha
aggiunto il Palatino inaugurato, così al Palatino inaugurato Romolo e il sabino
Tito Tazio, regnanti insieme, hanno aggiunto il centro sacrale e politico della
città-stato accolto nel Foro, sull’Arce e sul Campidoglio. Si trattava di un
distretto neutrale, esterno tanto ai rioni dei Quirites che all’urbs Roma, adatto a
essere considerato come un luogo comune a tutti. È in esso che è stato
istituito il culto di Vesta, entro un lembo sottratto al Palatino, esterno al murus
e al promoerium dell’Urbs.
La capanna delle vestali era rettangolare, con estensione della falda del tetto a
meridione, in corrispondenza della porta, retto da stipiti e fiancheggiato da
pali. Dentro la capanna erano altri due pali per sostenere la copertura fatta di
strame di paglia (come i thatched roofs ancora usati in Inghilterra). Al centro
della capanna era una fossa scavata in terra, di forma ovale, coperta
probabilmente da tavole: era la dispensa o penus delle vestali. Verso il fondo
della capanna era il focolare, il cui fumo fuoriusciva da due aperture poste alle
sue estremità della copertura straminea. Dietro il focus e ai lati del penus vi era
posto per i sei giacigli riservati alle sei sacerdotesse.
Anche la capanna circolare dell’aedes Vestae doveva avere, dietro al focus, un
penus, dove erano conservati, non già le cibarie, ma i talismani della città-stato,
come il divino fallo o fascinus, probabilmente sacro a Mars, il dio della
fecondazione e della primavera che a martius (marzo) entrava in azione.
Conosciamo questo penus solo in una versione tarda, che si data tra il 60 a.C. e
il 64 d.C. È un pertugio stretto (m 2,30 x 2,50) e profondo (m 2,25-2,94, a
seconda dei periodi), nel quale si penetrava probabilmente tramite una scaletta
di legno.
Vicino al lucus, oltre il vicus Vestae, in un terreno appartenente probabilmente
anch’esso alle vestali, era in questo tempo una dozzina di capannette per
attrezzi, cibarie e animali domestici. Tra queste capannette e il Foro, allora in
allestimento, poteva trovarsi la casa del flamen Quirinalis, il sommo sacerdote di
Quirinus, il dio locale dei rioni o curiae e dei Quirites, venerato sul collis
Quirinalis (si veda l’Angolo 28).
Nel VII secolo a.C. le vestali abitavano probabilmente già in una prima domus,
di cui conosciamo l’ingombro ma non i dettagli, assai mal conservati. Dal 530
a.C. circa le sacerdotesse disponevano di una domus più ampia e meglio
costruita, disposta su tre lati della corte dell’aedes Vestae. È probabile che lungo
il lato meridionale della domus si trovassero, fin da ora, i sei cubicula delle
vestali, aperti probabilmente su una corte piccola e interna (come avverrà più
tardi). Questo impianto in seguito sarà variato ma non alterato, fino alla domus
a “L” che delimitava su due lati la corte dell’aedes attestata dalla metà del II
secolo a.C. Nella parte orientale di questa casa erano stanzette che fanno
pensare a magazzini e ad ambienti di servizio, mentre nella parte meridionale
erano i sei cubicula delle sacerdotesse, aperti su un cortiletto a loro riservato.
Per la fase giulio-claudia conosciamo anche i mosaici di queste camerelle.
Dopo l’incendio del 64 d.C. la domus viene trasformata in un nuovo atrium
Vestae, riorientato, ristrutturato e ampliato, gravitante intorno a un grande
giardino porticato o peristylium (fig. 2b). Nella fase tra il 64 e il 96 d.C., lungo
il lato meridionale della dimora, era un sontuoso insieme di tre sale, che
ricorda quello della casa privata già di Ortensio e poi di Ottaviano (si veda
l’Angolo 10). Lungo il lato nord della casa erano probabilmente le stanze di
servizio, mentre lungo quello est, ai lati di una sala centrale o oecus, erano sei
coppie di stanzette composte da una anticamera e da un cubicum. Erano le
camere delle vestali. Dietro i cubicula e separato dalla casa era un magazzino o
horreum, che per la posizione sembra rientrare nella proprietà delle vestali.
Con Traiano la dimora viene estesa ulteriormente a est, obliterando l’horreum
e spostando, per l’ultima volta, ciò che restava del clivo Palatino A, che era
stato fino a Nerone la strada più importante che portava al Cermalus. Il lato est
del complesso viene ora occupato da un grandioso oecus, splendidamente
pavimentato con tarsie marmoree (opus sectile) e circondato su due lati da sei
nuovi cubicula delle sacerdotesse. Al primo piano un misterioso ambiente di
servizio, lungo e stretto e aperto sul clivo Palatino A, aveva una finestra che
dava sul grande oedus. Veniva forse usato per calare materiali necessari alla vita
e ai riti delle vestali, senza dover entrare nell’atrium.
Nel IV secolo d.C., al centro del peristylium, viene edificato un elegante
padiglione ottagonale. L’ingresso aveva di fronte una nicchia – per un
nymphaeum? –, mentre sui lati erano, ancora una volta, sei cubicula, disposti
questa volta intorno a una sala rotonda, probabilmente una cenatio o sala da
pranzo. Si trattava probabilmente di un complesso per banchettare e riposare
al fresco d’estate.
Abbiamo seguito, seppure in breve, il diverso modo di vivere delle
sacerdotesse nel corso di 1150 anni, durante i quali il fuoco di Roma è stato
costantemente spento e riacceso il 1° marzo e alimentato nel corso dell’anno.
L’aedes Vestae aveva davanti un altare ed è da esso che padri di famiglia e
sacerdoti traevano il fuoco per i riti sacrificali domestici e per quelli rionali e
pubblici.
Nel 394 d.C. il fuoco di Vesta è stato spento per disposizione imperiale e
così il politeismo romano ha avuto in Roma la sua fine. Dal pluralismo
pagano si è passati al monismo cristiano, da una religione comunitaria a una
religione che credeva nell’uguaglianza morale di tutti gli uomini e nella
salvezza individuale. Un funzionario dei palazzi imperiali, addetto
probabilmente alla vicina domus Tiberiana (fig. 20), era stato allora accolto
nell’atrium Vestae, destinato oramai a un uso profano.
Atlas, tavv. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 14, 15, 23, 44. – Arvanitis 2010. – Arvanitis c.s.(a).
– Bossi c.s. – Carandini 2015. – Carandini, Carafa, Filippi, D’Alessio c.s.
3.
La casa dei re-auguri
(FIG. 3)

Nel settore orientale del lucus Vestae era un lotto riservato alla domus dei re-
auguri latino-sabini: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio e Anco Marcio.
Benché eretta in tecnica capannicola, essa ha l’aspetto di una prima dimora
aristocratica.
Sotto la grande sala posta al centro della domus è stata rinvenuta una
precedente piccola capanna rettangolare che aveva davanti a sé altre tracce di
pali. Si trattava di una taberna o meglio di un tabernaculum: la capannetta
provvisoria che il re-augure erigeva davanti allo spazio rettangolare (templum),
segnato dalle altre tracce di pali, necessario osservatorio per interpretare i segni
provenienti dal cielo, come i tuoni. Immaginiamo il re seduto sul trono
(solium) posto davanti alla porta e sotto il tettuccio o “protiro” che la
proteggeva. Si trattava in questo caso, probabilmente, di un augurium stativum,
volto cioè a ottenere l’autorizzazione divina per stabilire in quel luogo la domus
Regia e forse anche lo stesso lucus Vestae che la accoglieva. Secondo la
leggenda, la volontà favorevole di Giove si sarebbe manifestata con fulmini e
con uno scudo (ancile) caduto dal cielo (Ovidio, Fasti, 3.351 sgg.), considerato
il massimo talismano di Roma.
Compiuto il rito, ottenuto il divino assenso e obliterati il tabernaculum con il
suo templum – strutture entrambi provvisorie – è stata eretta, al di sopra, la
domus Regia nella quale abiteranno ufficialmente i re-auguri, i quali ospitavano
il prodigioso scudo chiamato ancile insieme a undici sue copie volte a
proteggerlo.
Alla domus Regia si accedeva dalla summa Nova via, tramite un’ampia corte. La
Sacra via scorreva in quel tempo sul retro della casa, situata ancora al fondo del
fossato che correva tra Velia e Palatium, per cui poco serviva per accedere al
lucus Vestae. Al centro della dimora era una grande sala (mq 40), dotata di
ampia falda prominente del tetto o “protiro” sorretta da due grandi pali. Altri
due pali reggevano la copertura straminea. Possiamo immaginare alle pareti i
talismani legati alla sovranità: le hastae di Mars e l’ancile caduto dal cielo con le
sue undici repliche; questa sala/sacrarium poteva contenere anche il
praefericulum e la secespita di Ops, cioè il vassoio e il coltello sacrificali usati nel
rito di questa dea. Alla base delle pareti era un bancone, che poteva accogliere
una trentina di persone; 30 erano i rioni o curiae della città e i loro
rappresentanti. La sala doveva ospitare le riunioni del consiglio regio e
banchetti ancora da seduti, ché l’abitudine di cibarsi sdraiati è più tarda (dalla
fine del VII secolo a.C.). Ai lati della sala erano: a ovest un grande ambiente
(un cucinone?), dotato di recesso (per il focolare?), e a est altri due ambienti
(cubicula?). I pali del protiro e altri pali posti davanti alle altre stanze reggevano
le falde del tetto.
In corrispondenza del tratto di muro conservato al limite sud dell’ambiente 7
è stato rinvenuto un deposito di fondazione, costituito da una tomba infantile,
creato mentre si costruiva la dimora. I depositi fatti durante la costruzione o
l’obliterazione non sembrano tombe normali, che pure esistono se però
connesse alla vita della casa. Potrebbe trattarsi di sacrifici umani reali o in
diverso modo simulati. Nelle necropoli esterne all’abitato erano inumati, a
partire dal secondo quarto del IX secolo a.C., solamente gli adulti, mentre gli
infanti potevano essere seppelliti nella abitazione o presso di essa.
Per il culto dei Lares nel lotto a occidente della domus Regia, probabilmente
comunicante con essa, anche per le fasi che seguono, si veda l’Angolo 4.
A poco dopo, tra il 730 e il 720 a.C., si datano i primi rifacimenti della domus
Regia. La sala dispone ora di un “protiro” sorretto da tre grandi pali e contiene
una tomba di infante, relativa alla vita di questa casa, che verrebbe a trovarsi
sotto il bancone, ipotizzato anche per questa fase. Nella stanza a ovest della
sala il recesso è stato ampliato e nel primo ambiente a est figura ora un
focolare.
Tra il 720 e il 700 a.C. la domus si ingrandisce e assume una forma a “L”.
Nella stanza a est, dotata di focolare, viene allestito un recesso per accoglierlo.
Nell’ala aggiunta lungo il limite est del lucus viene apprestata una seconda sala
fronteggiata da una porticus. Si trattava forse del sacrarium di Mars e Ops, dove
sono stati probabilmente spostati anche le hastae Martis e gli ancilia. Se così è
stato, la sala centrale deve aver visto ridurre il proprio significato sacrale,
rimanendo il luogo del consiglio e del banchetto. Un deposito di
obliterazione segna la fine di questa fase.
Tra il 700 e il 650 a.C. la sala centrale viene ridotta, per creare sul retro due
stanze, forse cubicula; in una è presente una tomba infantile, relativa alla vita
della casa. A est l’ambiente con recesso per il focolare viene articolato in due
grandi stanze e a ovest la stanza viene ingrandita. È come se due altre sale
affiancassero ora quella centrale. La sala/sacrarium di Marte e Ops, dotata di
porticus, appare ridotta, ma acquista un focolare. Nel cortile era una canaletta,
probabilmente per drenare le acque.
Tra 650 e 600 a.C. la stanza della casa più a ovest si ingrandisce e si protende
verso la corte; qui era sia un deposito di fondazione, una tomba di infante, sia
un deposito di obliterazione, un’altra tomba di infante e di un dolio. Una
delle stanze sul retro si estende verso est diventando un corridoio, per cui
sopravvive solamente un cubiculum. La stanza d’angolo a est viene tramezzata e
la sala/sacrarium perde probabilmente la porticus ma occupa oramai l’intero lato
est della corte. Solo in questa ultima fase della domus Regia viene abbandonata
la tecnica capannicola: i muri di argilla hanno ora uno zoccolo in scaglie di
tufo e la copertura dispone di tegole (è la prima casa come anche noi la
intendiamo). Potrebbe trattarsi della casa di Anco Marcio, che sappiamo
essere connessa al culto dei Lari (si veda l’Angolo 4). In questa casa Anco ha
accolto Tarquinio Prisco, giunto da Tarquinia con sua moglie Tanaquil per
trovare fortuna in Roma, città aperta (si veda l’Angolo 6).
Nel complesso la domus Regia mantiene per un secolo e mezzo il suo
carattere originario, che va gradualmente arricchendosi, ma senza troppo
alterare il modello iniziale, anche quando la tecnica capannicola viene
abbandonata, come accade nell’ultima fase. Caratterizzano questo
monumento i depositi di fondazione e di obliterazione, consistenti in tombe
di infanti e depositi di reperti, che non sono relativi alla vita della casa, per cui
non si tratta di sepolture normali di bambini, dal momento che chiudono o
aprono una fase edilizia.
Questa domus Regia è il prototipo delle prime case aristocratiche di Roma,
con sala per banchetti seduti, che nulla hanno a che fare con l’edilizia signorile
successiva, la quale a partire dalla metà del VI secolo a.C. si incentrerà
sull’atrium e sul tablinum, la sala principale della casa in cui si conserveranno le
tabulae, cioè l’archivio di famiglia (si veda l’Angolo 6).
Atlas, tavv. 1, 2, 3. – Filippi c.s.(a).
4.
Il culto dei Lari
(FIG. 4)

Tra la casa delle vestali e la domus Regia era un’area a carattere sacrale,
presumibilmente un fanum, che ha accolto all’inizio focolari probabilmente
circondati da recinti o sacella (Atlas, tav. 2) e poi una aedes, attestata da tegole.
Quest’ultima era connessa a una cisterna sotterranea, raggiungibile da un locale
sotterraneo o penetrale (Atlas, tav. 6). Segue una aedes più cospicua, anch’essa
collegata alla medesima cisterna e a una mensa, ora certamente accolte entro un
penetrale (Atlas, tavv. 14 F e 15 A).
Nella nostra interpretazione, sono strutture legate al culto dei Lares, prima i
Grundiles (di Romolo e dei tre re-auguri suoi successori), poi i Familiares (dei
Tarquini) e infine i Publici (della libera res publica), ai quali si sono aggiunti poi
quelli di Augusto. Come i culti di Mars e Ops, anche quello dei Lares era stato
strettamente connesso alla sfera domestica dei re, similmente al culto di Vesta,
che nei primordi era anch’esso un culto domestico, elevato alla dimensione
pubblica soltanto con la nascita di Roma. La tradizione ha considerato il culto
dei Lares legato alla casa di Anco Marcio, che è stato l’ultimo re-augure,
ultimo anche ad abitare nella domus Regia. I Tarquini hanno abitato invece lì
accanto, ma già fuori del lucus, in un terreno che Anco Marcio aveva donato a
Tarquinio Prisco. Con la prima e unica dinastia regale di Roma, quella dei
Tarquini, una nuova dea protegge ormai la casa dei sovrani, Fortuna, protettrice
e disfacitrice dei tyrannoi della città-stato, per cui i Lares hanno avuto in lei una
potente concorrente.
Dalla seconda metà del VI secolo a.C., più probabilmente da quando nel 509
a.C. viene istituita la libera res publica, si è passati da focolari per lo più entro
sacella alla prima aedes, distrutta poi da quella tardo-repubblicana, ma di essa
rimane un importante indizio stratigrafico: le tegole di età arcaica. La bocca
della cisterna, vicina e coeva, si trovava m 1,88 al di sotto del pavimento
presunto dell’aedes, per cui si può ipotizzare che per raggiungerla si dovesse
scendere, forse già fin da allora, in un penetrale immaginabile davanti all’aedes
stessa, come sicuramente avverrà dalla tarda Repubblica. Tra la cisterna e il
limo naturale scavato per costruirla è stata interposta argilla depurata (Atlas,
tav. 6 A), come è avvenuto anche nelle cisterne rinvenute sul Cermalus (Atlas,
tav. 62 D). A partire dal tardo VI secolo a.C. il culto non appare più in
comunicazione con la casa del sovrano, che abita ormai più a est, per cui ci
appare indipendente anche dalla annessa casa del re dei sacrifici: i Lares sono
ormai publici.
Come le case del 530 a.C. circa, durate fino a quasi tutto il III secolo a.C.,
anche questa aedes, con la sua sobria decorazione architettonica (fregio,
antefisse), è durata fino alla tarda Repubblica. Possiamo quindi immaginare
Fabio Pittore, primo storico di Roma, passeggiare in una Roma che ancora
conservava l’aspetto dell’ultimo terzo del VI secolo a.C.
Dopo l’incendio del 210 a.C., intorno al 200 a.C., l’aedes viene ricostruita in
blocchi di tufo (Atlas, 14 F) entro un complesso più articolato ma ugualmente
chiuso in sé, che si evolve intorno al 125 a.C. apportando piccole modifiche e
che raggiunge la fase più matura e monumentale tra il 31 e il 12 a.C., l’anno in
cui Augusto diventa pontefice massimo.
Dalla Sacra via, dove erano sei tabernae occupate probabilmente dai
fabbricatori di ghirlande o coronarii (fig. 4.1, 14-19; Ovidio, Fasti, 6.701-702;
Plinio il Vecchio, Storia naturale, 21.11), si entrava, tramite un corridoio
scoperto e un ambiente d’ingresso (fig. 4.1, 13), nell’area sacra (fig. 4.1, 3).
Qui era l’aedes con il suo penetrale (fig. 4.1, 1-2), al quale si accedeva tramite
una scala (fig. 4.1, 20). Solo tra il 31 e il 12 a.C. sorge, accanto all’aedes, una
stanza isolata dotata di armadio (Atlas, tav. 33, 21), forse un archivio. Di
fronte all’aedes era un’ampia porticus (fig. 4.1, 4) e su questa si aprivano le stanze
(fig. 4.1, 6, 9-10) riservate agli ammessi al culto nel giorno festivo, il 27
giugno, che era anche il dies natalis della vicina aedes Iovis Statoris (Carandini
2016). Infatti sia i Lares che Iuppiter Stator erano custodi di Roma e quindi
delle sue mura palatine. Sul retro erano stanzette più minute, di servizio al
culto (fig. 4.1, 7, 11-12), probabilmente magazzini, a giudicare da quelli della
fase giulio-claudia. Al centro di queste stanze era un ingresso dalla casa delle
vestali (fig. 4.1, 8), che da sempre aveva avuto un muro in comune con questo
luogo sacro. Il culto dei Lares ha conservato attraverso il tempo il suo carattere
riservato, quasi domestico, assumendo alla fine l’aspetto di un tempio entro
insula oppure “collegiale”, tipologia ben nota agli archeologi (si vedano il
tempio di Tinia a Marzabotto, il c.d. tempio di Vespasiano e il c.d. tempio dei
Lari Pubblici a Pompei, il tempio della Bona Dea a Ostia e i templi collegiali
dei fabri navales, dei fabri tignuarii e degli stuppatores a Ostia). Aspettarsi nel lucus
culti di diverso aspetto, più regolare e più monumentale, significa non aver
compreso la natura peculiare dei culti accolti in un tale particolarissimo
contesto.
I topografi non hanno riconosciuto in questo monumento un luogo di culto,
pensando che si trattasse di una parte della casa delle vestali. Eppure lo schema
architettonico non ricorda affatto quello di una domus. Questi studiosi sono
andati alla ricerca di un tempio con pronao, eminente sulla Sacra via, ma la
complessa edilizia sacrale di Roma non rientra in una visione semplificata e
standardizzata.
Davanti all’aedes, in corrispondenza con il suo asse, era un’apertura ovale o
oculus che gettava luce nel sottostante penetrale (Atlas, tav. 33). È da ricordare a
questo proposito il Lararium sotterraneo di Caere, del III secolo a.C. (Carandini
2015, p. 74). Il penetrale (fig. 4, A), perfettamente conservato salvo la scala
ricostruita in fase successiva, conteneva la mensa (fig. 4, A, 21) e la cisterna
tardo-arcaica (fig. 4, A, 24). Le mense erano un genere di altari che
prevedevano offerte da non esporre al fuoco, tanto che si trovavano
generalmente all’interno degli ambienti di culto, mentre le arae e i loro fuochi
si trovavano all’esterno. Sopra la mensa era una mensola (fig. 4, A, 23) lunga e
stretta – per sostenere strumenti per il rito e forse anche simulacri divini – e
una vaschetta profonda cm 77 (fig. 4, A, 22) per accogliere le offerte. La
vaschetta era collegata a una canaletta in forma di una ancora più profonda
fenditura (m 1,05), cioè uno scrobiculus, in cui defluivano le offerte. La
canaletta, raggiunta la mensola, scompariva come inabissandosi nel sottosuolo.
L’oculus, aperto sulla volticella del penetrale, veniva a trovarsi proprio sopra la
vaschetta per le offerte, per cui poteva servire, oltre che per dare luce al
penetrale, anche per calare da sopra le offerte nell’apposito ricettacolo
sotterraneo. La cisterna si trovava a sinistra della mensa. A questo apprestamento
tanto speciale della tarda Repubblica, ma che poteva replicare uno analogo
tardo-arcaico, viene ad aggiungersi, tra il 31 e il 12 a.C. (fig. 4.2), una cella
sotterranea bipartita – per i due Lares, per i Penates? (fig. 4, A, 25) –, ricavata
sotto la parte antistante dell’aedes. Il culto si svolgeva pertanto a due livelli,
terrestre e ipogeo, ma le offerte erano accolte forse solamente nel penetrale;
infatti i Lares erano divinità infere. Non vi era quindi alcun bisogno, davanti
all’aedes, di un’ara.
Questo complesso e interessante Lararium sotterraneo prova il carattere
sacrale dell’intero complesso e indica quanto sia impoverente una visione del
mondo antico ridotta all’uniformità delle più ovvie realtà accolte nei manuali.
Il penetrale viene soppresso intorno al 12 a.C. (fig. 4.2), quando Augusto
riallestisce l’aedes in modo più sontuoso, dotandola di una abside, di un
pavimento a mosaico geometrico e della seconda cella, più piccola ma
ugualmente mosaicata, destinata probabilmente ad accogliere i Lares Augusti
che il princeps aveva consegnato alle vestali – come si osserva nell’ara del
Belvedere (si veda anche l’Angolo 50) – rendendo così pubblici anche i propri
Lari privati. Come nel lucus il culto dei Lares era associato a quello di Vesta,
così nella dimora di Augusto il culto dei Lares/Penates nella casa del princeps era
associato a quello di Vesta nella casa di lui pontifex maximus. Solo che nella
dimora di Augusto l’aedes Apollinis interrompeva la replica sul Cermalus del
lucus Vestae, separando i culti simmetrici dei Lares e di Vesta (Carandini 2015;
si veda anche l’Angolo 10, fig. 11).
Allora la corte davanti all’aedes riceve due porticus (fig. 4.2, 24 e 26) lungo i
due lati lunghi. Si entrava dalla Sacra via, tramite un vestibulum (fig. 4.2, 25), si
passava in uno spazio scoperto dal centro del quale si accedeva alla prima
porticus, quindi alla corte (fig. 4.2, 23) e infine alla seconda porticus (fig. 4.2, 32)
dietro la quale era l’aedes (fig. 4.2, 22). Quest’ultima porticus era più stretta e il
suo muro di fondo era rappresentato dall’aedes stessa; la porticus poteva
proseguire anche ai lati dell’aedes, magari sostenuta sul retro da travi, in modo
da non interrompere con muri gli accessi alle due aree scoperte (fig. 4.2, 3)
poste ai fianchi dell’edificio sacro. Le offerte potevano essere deposte su mense
accolte entro le due cellae (fig. 4.2, 22), visto che nel frattempo il penetrale era
stato abolito (non è facile intendere perché). Dietro il tempio e le aree sacre
era un modesto appartamento, articolato in tre ambienti (fig. 4.2, 27-29), uno
dei quali dotato di impluvium e decorato da affreschi che rappresentano un
giardino (fig. 4.2, 27); l’appartamento poteva disporre di un secondo piano.
Poteva servire in parte al sacerdote che celebrava il rito e anche all’aedituus
custode del luogo. Manca ogni connessione con la casa del re dei sacrifici. Mai
come in questa fase il complesso appare straordinariamente lontano dal
modello di una domus, mancandovi stanze, salvo che nell’appartamentino
dietro l’aedes. Sulla Sacra via si aprivano otto tabernae, che probabilmente
accoglievano ancora i coronarii.
Nell’ultima fase, databile tra il 14 e il 64 d.C. (Atlas, tav. 40 N), la parte
dell’ingresso si complica, anche per l’inserimento di due magazzini, la cui
funzione si ritrova probabilmente nelle precedenti stanzette. Le due porticus
affrontate vengono ora malamente interrotte verso il nemus Vestae,
diminuendo considerevolmente la dignità del monumento. Nella corte,
ridotta in dimensione, viene allestito un recinto a tre lati con angoli smussati,
aperto verso l’ingresso, entro il quale viene inserita una vasca rettangolare, che
verso i lati brevi del recinto risparmiava due spazi, forse riservati ad abluzioni e
aspersioni. Come che sia, si tratta di un apprestamento nuovo, che
riconduceva all’acqua, come già la cisterna tardo-arcaica. Infatti i Lares, figli di
Larunda, erano nati negli inferi, che a Roma erano identificati con le acque
interne del Velabrum, presso le quali era anche il sepolcro di Acca, la Mater
Larum.
È possibile che il culto dei Lares venisse accolto, dopo l’incendio del 64 d.C.,
nell’aula absidata posta in un angolo dell’atrium Vestae, il quale accoglierà
anche l’aedicula dei Lares Praestites (fig. 2b). Nell’affidare la casa del re dei
sacrifici alle vestali, Augusto non aveva fatto che ufficializzare una realtà già
affermatasi tra la dinastia dei Tarquini e la libera res publica: in primo luogo
l’autonomia del culto dei Lares dalla domus Regia, già dei re-auguri e abitata
ormai dai re dei sacrifici; in secondo luogo il nesso stretto di questo luogo di
culto con la casa delle vestali, con la quale ha sempre avuto un muro in
comune. Dove fosse andato ad abitare il re dei sacrifici dopo il 64 d.C. resta
un mistero.
Atlas, tavv. 1, 2 C, 4-6, 11, 14 F, 15 A, 31 B, 33, 40 N, 277. – Carandini
2010. – Carandini 2014a, pp. 50-53. – Cupitò 2004, pp. 123-124. – Cupitò
c.s. – Filippi c.s.
5.
Le case del re dei sacrifici e di Tarquinio Prisco
(FIG. 5)

Tarquinio Prisco era andato ad abitare in una casa posta immediatamente al di


fuori del lucus Vestae, entro un lotto concesso dal predecessore Anco Marcio
subito a est della sua domus Regia. Di conseguenza, la primitiva domus Regia
avrebbe dovuto essere obliterata. Invece questa dimora viene proprio ora
ristrutturata secondo un nuovo modello edilizio che avrà un considerevole
futuro; ma per accogliere quale regia figura, dato che nel lucus Vestae solo i
reges potevano abitare? La dimora non ha più in questo periodo una corte
davanti a sé, bensì circonda e include un cortile tutto interno, che presto si
evolverà in un atrium. Come nuovo abitante di questa casa vi è un unico
candidato: il nuovo sacerdote, creato probabilmente da Tarquinio Prisco,
chiamato rex sacrorum. Era il primo sacerdote della città-stato nella seconda età
regia, la cui casa si trovava in summa Sacra via. Solo un rex, seppure ridotto ad
sacra, poteva abitare nel lucus Vestae, forse condividendo con il rex tyrannus che
gli abitava accanto la patria potestas sulle vestali. Pertanto con i Tarquini
esistono a Roma due figure regali, il re delle cose sacre o dei sacrifici, che vive
nel lucus Vestae, come già i reges augures (si veda l’Angolo 3) e il re/tiranno, che
detiene il potere politico-militare e solo una parte di quello sacrale, che abita lì
accanto, subito al di fuori del lucus, tra la domus Regia e il c.d. clivo Palatino A.
La casa del re dei sacrifici è durata per 664 anni, prima godendo di una
qualche regia autonomia e infine consegnata da Augusto alle vestali, pur
continuando a essere abitata da un sacerdote che a partire dalla libera res publica
è diventato l’ultimo nel rango del collegio sacerdotale, infine ulteriormente
diminuito nella sua influenza a vantaggio delle vestali. La prima domus del re
dei sacrifici circondava il cortile interno sui quattro lati. Per quanto male
conservata, questa casa dà una idea di come potesse presentarsi la annessa e
coeva casa di Tarquinio Prisco, di cui resta ancor meno, ma di cui conosciamo
un importantissimo dettaglio. Infatti sappiamo che le finestre del suo fronte si
aprivano sulla summa Nova via (Livio 1.41). Infatti da una di queste finestre
Tanaquil, moglie di Tarquinio Prisco, aveva arringato il popolo, affollatosi
lungo la Nova via, al fine di preparare la successione di Servio Tullio a
Tarquinio Prisco, ferito a morte.
Servio, figlio della serva Ocrisia e di una figura divina – il padre vero era
probabilmente lo stesso Prisco, come suggerisce Cicerone –, era stato allevato
in questa casa come un figlio del re. Secondo la leggenda, Ocrisia sarebbe stata
indotta dalla coppia regale a unirsi a un fallo, attribuito al Lar Familiaris, sorto
nel focolare regio e avrebbe così generato Servio Tullio, mutuando il modello
mitico della nascita prodigiosa dell’eroe che era stato anche di Romolo. Il
servetto domestico, allevato come un principe, verrà in seguito liberato e
diventerà il primo tyrannus di Roma, favorito da Tanaquil e dalla dea Fortuna
(Carandini 2010).
L’impianto intorno a un cortile della casa del re dei sacrifici durerà fino al
terzo quarto del VI secolo a.C., quando finalmente ha cominciato ad aprirsi
sulla summa Sacra via, ricostruita al di sopra del fossato di fondovalle, ormai
riempito e drenato da una prima fogna. La domus appare ora ingrandita e
diversamente organizzata, per la prima volta intorno a un tablinum e a un
piccolo atrium. Il tablinum era dotato, probabilmente dalla fine del V secolo
a.C., di una stanzetta/armadio, che ritroviamo anche nella coeva villa
dell’Auditorium (si veda l’Angolo 46, fig. 46); dalla metà del II secolo a.C. le
camerette/armadio diventano due, affiancate tra loro. Qui dovevano essere
archiviate le tabulae di questo sacerdozio (tab(u)linum dalle tabulae cerate e
scritte che in origine doveva contenere). Nel quartiere ovest è presente,
probabilmente fin da ora, un cortiletto dotato di ara, che diventerà poi un
atriolo, forse riservato alla regina Sacrorum, moglie del rex sacrorum, che era
solita sacrificare, ogni mese alle calende, una porca o una agna a Giunone,
secondo Macrobio (1.15, 19).
In questa domus del lucus Vestae è riassunta l’evoluzione intera della casa
romana: casa davanti a una corte, casa con corte interna e casa con tablinum e
piccolo atrium: il tutto nel corso di 820 anni. Manca qui il grande tablinum e il
grande atrium attestati probabilmente per la prima volta solamente nella domus
in parte già di Tarquinio Prisco e ingrandita e ristrutturata da Servio Tullio in
una forma canonica, usata poi da Tarquinio il Superbo e imitata
dall’aristocrazia del suo tempo che abitava sulla Sacra via, a est del
fanum/templum di Giove Statore.
Talismani e strumenti rituali connessi ai culti di Marte e di Ops, già connessi
alla casa dei re-auguri, non erano più adatti a stare né nella domus Regia
diminuita a residenza di un re ridotto ad sacra, né nell’altra domus Regia di un re
eminentemente politico e militare come Tarquinio Prisco. Per tali ragioni
questo re ha traslato questi culti in un edificio autonomo, che non era più una
domus Regia ma esclusivamente un fanum regio contenente i sacraria di Mars e
Ops, edificato oltre il vicus Vestae, dove prima erano state le capannette di
servizio delle vestali.
La domus Regia nel lucus Vestae, sede ufficiale dei re-auguri e poi residenza dei
re dei sacrifici, il vicino fanum/templum di Giove Statore, il luogo sul Cermalus
dove Roma è stata fondata davanti alle capanne di Romolo e di Marte e le
mura palatine con le porte Romanula e Mugonia rappresentano i punti speciali
di Roma nei quali meglio si coglie l’origine e la continuità della città-stato per
una durata di circa 825 anni: qualcosa di straordinariamente raro e
significativo per la storia della città-stato. Così la nascita di Roma intorno al
secondo quarto dell’VIII secolo a.C., indicata da tutti gli storici antichi di
Roma, salvo Sallustio, appare in più luoghi e ripetutamente attestata e
confermata dalla documentazione archeologica. Dopo l’incendio del 64 d.C.
questo cuore di Roma viene radicalmente trasformato, per cui rinasce a una
nuova vita, che dura fino alla fine dell’Impero in Occidente, ed è questa anche
la Roma antica su cui oggi è dato passeggiare. Ma prima tutto era diverso!
(Atlas, tavv. 1, 2 e 61).
Atlas, tavv. 6, 277, 278. – Carandini 2010. – Carandini, D’Alessio, Di
Giuseppe 2006. – Filippi c.s.(b). – Ead. c.s.(c).
6.
La casa dei re-tiranni e poi del pontefice massimo
(FIG. 6)

Un tempo si conoscevano case con grande tablinum e grande atrium


cruciforme solamente in Etruria tra il VI e il V secolo a.C., come quelle di
Regae (Montalto di Castro) e di Marzabotto (Atlas, tav. 63). Poi quattro case di
questo tipo, in splendida opera quadrata di tufo e datate al 530 a.C. circa, sono
state da noi scoperte lungo la Sacra via, tra il fanum/templum di Giove Statore e
il c.d. clivo Palatino B (Atlas, tavv. 62 e 63; qui fig. 7). In seguito è stata
individuata la casa gentilizia di Servio Tullio sull’Esquilino, con l’annesso
culto alla Fortuna, grazie alla forma peculiare di un tablinum e di un atrium
attestati nella Forma Urbis del tempo di Settimio Severo (Atlas, tav. 107),
molto simili a quelli delle case arcaiche sulla Sacra via. Probabilmente analoga a
questa dimora doveva essere quella gentilizia di Tarquinio il Superbo sul
Fagutal, di cui però non conosciamo resti. Avendo in mente questo particolare
genere di atrium con tablinum, abbiamo ricostruito la domus Regia edificata
sopra quella di Tarquinio Prisco e ingrandita verso sud, attribuibile a Servio
Tullio e a Tarquinio il Superbo. Si tratta probabilmente della prima dimora
dotata a Roma di un grande cavedio tuscanico (atrium) e di una sala-archivio
(tablinum). Questa domus si trovava tra quella del re dei Sacrifici, la Sacra via, il
clivo Palatino A, il vicus che passava sopra il nemus Vestae e lo stesso nemus con
il sacellum attribuibile a Orbona, dea dei genitori orbati dei figli. La dimora ha
conservato fortunatamente il suo impianto tra il secondo quarto del VI secolo
a.C. e gli inizi della tarda Repubblica, quando è stata ricostruita secondo una
planimetria diversa, aggiornata ai tempi, al punto di disporre di un peristylium
con sottostante cryptoporticus, un corridoio voltato sotterraneo illuminato da
alte feritoie (Atlas, tav. 18; qui, fig. 6). Se combiniamo le testimonianze
diacroniche di questa casa, diventa possibile ricostruire, piuttosto fedelmente,
quello che doveva essere l’aspetto planimetrico originario di questa seconda
domus Regia, eretta su terreno regio e poi pubblico, posta immediatamente
all’esterno del lucus Vestae. La porticus sul retro della casa è l’unico elemento
ricavato da fonte letteraria (Livio, 1.56.4). I due horti sono ricavati dalla
differenza tra lo spazio della casa e quello maggiore del suo lotto. Le
testimonianze plurime e diacroniche non si contraddicono, anzi tra di loro si
confermano, seguendo un modello etrusco di architettura domestica, presto
diffuso anche a Roma tramite i collegamenti con Tarquinia della dinastia di
cui Servio Tullio era parte in quanto probabile bastardo di Tarquinio Prisco e
sicuro suo successore.
La domus Regia di Servio aveva al suo fianco, a cavallo di una delle due
forcelle del clivo Palatino A, la leggendaria porta Fenestella, da interpretare
come rifacimento e riproposizione di una postierla delle mura romulee
dell’VIII e del VII secolo a.C. Le mura palatine di questa epoca sono attestate sia
materialmente che da un ben noto papiro. Secondo la leggenda, dalla
finestrella che dava il nome alla porta Fenestella penetrava nella dimora di Servio
volando la dea Fortuna (Privata), la quale poi scendeva nel tablinum – stanza in
cui generalmente si trovava il lectus Genialis – per amoreggiare con il re suo
protetto, a cui aveva donato una straordinaria e irregolare sovranità, aiutata
dalla regina Tanaquil; è probabilmente nel tablinum che va identificato
l’altisonante thalamos Fortunae (Plutarco, Questioni romane, 36). Oltre a Vesta, ai
Lari e a Giove Statore, anche Fortuna ora proteggeva le mura palatine, dal
valore ormai meramente simbolico, visto che nel frattempo le difese della città
erano state spostate per inglobare tutto l’abitato e il centro politico e sacrale.
La porta Fenestella è stata poi demolita e ricostruita da Tarquinio il Superbo,
insieme a un tratto di murus Romuli, questa volta come una riproposizione
della porta Mugonia originaria, che era stata distrutta e seppellita sotto le case
aristocratiche affacciate sulla Sacra via (Atlas, tav. 63). Questa urbanizzazione
era stata resa possibile dallo spostamento del pomerium, dell’agger e delle relative
fasce della inviolabilità o della sanctitas conseguenti all’inaugurazione
dell’intera città voluta da Servio Tullio ed era stata attuata, intorno al 530 a.C.,
probabilmente da Tarquinio il Superbo. L’antichissimo fanum con templum di
Giove Statore veniva ora a trovarsi davanti al fianco orientale della domus Regia
degli ultimi due re. Che questa dimora di Roma (mq 985) – maggiore delle
quattro case aristocratiche di poco successive e vicine (mq 486-742) – sia stata
la residenza ufficiale degli ultimi tyranni e sia diventata in seguito, abolita la
monarchia, la domus Publica dei pontefici massimi che dai re avevano ereditato
la patria potestas sulle vestali, è dimostrato da un dettaglio importantissimo e
cioè dal fatto che questa domus disponeva di uno stretto passaggio che
collegava il suo tablinum con il nemus e il lucus Vestae e che sboccava dietro al
sacellum attribuibile a Orbona. Nessuna casa esterna al lucus Vestae avrebbe
potuto essere al lucus direttamente collegata, a meno che non si fosse trattato
della residenza di un re o di un sommo sacerdote divenuto con la libera res
publica l’autorità suprema del collegio sacerdotale. Nel vestibulum della casa di
Tarquinio il Superbo poteva essere, magari fino dal tempo di Servio Tullio,
una statua della Fortuna Equestris – seconda manifestazione di questa dea in
questa reggia – statua reinterpretata nella prima Repubblica come una eroina
di civismo, identificata ora con Clelia e ora con Valeria.
Nella seconda metà del II secolo a.C. la domus Publica è stata ricostruita
avvalendosi dell’opera cementizia e occupando il medesimo lotto, sempre a
fianco della porta Mugonia con breve tratto del murus Romuli, entrambi in
quest’epoca ricostruiti. Un grande tablinum affiancato da altre due sale, nelle
quali possiamo immaginare conservati gli Annales di Roma, si affacciava su un
atrium fiancheggiato da cubicula. Dall’atrium si passava, seguendo la moda del
tempo, in un peristylium, dotato di una sala e di varie stanzette, comunicante
infine con un atriolo dotato di vasca o compluvium in travertino. Sotto il
peristylium era una cryptoporticus, dalla quale si poteva, ancora una volta,
penetrare, tramite la riproposizione di uno stretto passaggio, nel nemus e nel
lucus Vestae (Atlas, tav. 18). Insomma, tra Servio Tullio e Lepido, il pontefice
che ha preceduto Augusto, sovrani tirannici e pontefici massimi hanno
disposto di un collegamento diretto che permetteva loro di ispezionare in
qualsiasi momento le sacerdotesse di Vesta. Lo stretto passaggio, riproposto
per quasi 550 anni, è un indizio straordinariamente importante per
comprendere la natura degli edifici che si sono succeduti in questo lotto posto
nel cuore di Roma antica. Ma non tutti gli studiosi danno ai dettagli
l’importanza che meritano, secondo il metodo di Sherlock Holmes e quello di
una seria archeologia sul campo.
Atlas, tavv. 6, 18, ill. 5. – Filippi c.s.(c). – Ead. c.s.(d). – Piganiol 1937.
7.
Porta Mugonia, Remo ucciso, Tito Tazio respinto, adulti
sacrificati
(FIG. 7)

Quanto si è discusso sulla localizzazione della porta Mugonia: un vero giallo,


forse il massimo di Roma! Basti sapere ch’essa veniva posta sul clivo Palatino
B, rilevante solamente a partire da Nerone e dove però manca ogni antica
porta di accesso a quel monte. Noi invece la poniamo più a ovest, a una delle
due forcelle che confluivano nel clivo Palatino A, in origine alla forcella più a
est, dove è stata rinvenuta una porta rilevante delle mura palatine in argilla
cruda e pali, che un deposito di fondazione posto sotto la soglia – probabile
sacrificio di un infante – consente di datare agli anni 775-750 a.C. Si tratta
della prima porta Mugonia. Analoghi depositi di fondazione e di obliterazione
sono stati rinvenuti anche nella domus Regia dei re-auguri latino-sabini (si veda
l’Angolo 3), i quali indicano che ogni distruzione e nuova edificazione
implicava una espiazione. Due bracci delle mura palatine obliquamente
protesi si saldavano in questa prima porta a due bastioni, la quale, a un angolo
delle loro protrusioni verso l’interno si saldavano a due capanne,
evidentemente di guardia.
All’inizio del VII secolo a.C. le prime mura palatine vengono obliterate e
vengono costruite altre mura, sempre in argilla e pali, che prevedono una
seconda porta Mugonia, rinnovata nello stesso luogo della sua costruzione
originaria. Si tratta ora di un varco diviso in due da un pilastro centrale e
almeno su di un lato e all’interno viene riproposta una capanna di guardia.
Intorno al primo quarto del VI secolo a.C. la porta viene nuovamente rifatta,
nel medesimo luogo, usando ora un’opera quadrata in tufo: siamo al tempo di
Tarquinio Prisco (Livio 1.38.3-6). La porta si connette alle mura di VII secolo
a.C. riutilizzate, che solo in parte vengono ora rifatte, anch’esse in opera
quadrata. Questa terza porta Mugonia appare allargata, con al centro un grande
pilastro e con davanti un antemurale.
Servio Tullio aveva esteso il pomerium, in modo da comprendervi tutto
l’abitato e il centro politico e sacrale, e al di fuori di questo pomerium allargato
e nuovo ha eretto l’agger con il suo fossato. Questo re è intervenuto anche
lungo e sulle mura palatine. In primo luogo ha riempito il fossato tra Palatino
e Velia, drenandolo con una fogna che accoglieva i fognoli degli edifici posti ai
lati della Sacra via. In secondo luogo ha edificato la porta Fenestella sulla forcella
occidentale che portava al clivo Palatino A, che ha sostituito una più antica
postierla. In terzo luogo ha riedificato, ingrandendola e modificandola, la
domus Regia di Tarquinio Prisco, la quale ora interrompe le mura palatine,
rendendo oramai evidente che i loro tratti superstiti erano solamente una
memoria delle mura romulee, privata ormai della inviolabilità o sanctitas posta
a protezione della più antica urbs Roma.
La violenza topografica maggiore verrà inferta probabilmente da Tarquinio il
Superbo, quando una grande parte delle mura palatine e la porta Mugonia nella
sua posizione originaria vengono obliterate per edificare quattro case
aristocratiche a grande atrio e quando la porta Fenestella viene ricostruita come
una riproposizione, leggermente spostata, della porta Mugonia originaria, finita
quest’ultima sotto una delle domus aristocratiche. Era oramai quest’ultima la
vetus porta Palatii.
Il fanum con templum di Giove Statore, cioè il sacellum contenente un’ara, si
trovava tra VIII e VII secolo a.C. lungo il clivo Palatino A, il quale portava a una
postierla. Pertanto i Sabini sembrano essere stati respinti da questa postierla e
non dalla porta Mugonia originaria, come attesta invece la vulgata della
leggenda. Ma lo stesso fanum con templum veniva a trovarsi, intorno al 530
a.C., accanto alla porta Mugonia spostata sopra l’unico percorso superstite del
clivo Palatino A. L’idea che il re sabino Tito Tazio avesse attaccato la porta
Mugonia piuttosto che l’anonima postierla sta a indicare che questa versione
della leggenda è coeva o posteriore al 530 a.C. circa. Dal punto di vista dei
Sabini invasori, era logico ch’essi tentassero di penetrare nel Palatino dalla
postierla invece che dalla porta Mugonia originaria, perché la prima era più
vicina al Foro, poco oltre il lucus Vestae. Tentare di penetrare più avanti
avrebbe implicato per i Sabini allontanarsi ulteriormente dalle retrovie che
stavano tra la bassura che sarà del Foro e l’Arce.
Ma torniamo alle mura palatine originarie, del secondo quarto dell’VIII secolo
a.C., per narrare un episodio facile da fraintendere ma di straordinario
interesse se colto nella sua pregnante singolarità. Intorno al primo quarto del
VII secolo a.C. le mura vengono obliterate ed espiate con sacrifici di due
uomini, una donna e un infante, seppelliti proprio sulle mura rasate e
immediatamente al loro interno, tutti gli scheletri comunque contenuti entro
un recinto – un locus saeptus religiosus – costruito su un lato della postierla.
Anche sul suo lato opposto è stato rinvenuto un deposito di obliterazione
contenente i reperti di un corredo femminile. Scambiare queste sepolture, del
tutto eccezionali, con una necropoli, tutta immaginaria, significa nulla
intendere della prima Roma e del Septimontium, dove gli adulti sono stati
regolarmente seppelliti nelle necropoli periferiche dell’Esquilino e del
Quirinale fino dal secondo quarto del IX secolo a.C., quindi un secolo prima
della stessa nascita di Roma. Un fenomeno noto anche nei grandi centri
dell’Etruria e che in Grecia non si riscontra.
I Romani ritenevano di conoscere il luogo in cui Remo aveva violato le
mura palatine, scavalcandole e perdendovi la vita, come dimostrano i quattro
cippi iscritti di età giulio-claudia che rimandano a Mars Pater, a Ferter Resius
difensori delle mura e a Remus e a Anabestas assalitori delle mura. Per il luogo
di questo memoriale dello scavalcamento si è pensato generalmente al clivo
Palatino B, perché si è ritenuto che i cippi provenissero di lì. Ma dopo un
accurato esame del luogo di rinvenimento – al di sotto della uccelliera Farnese
– appare ora più probabile che i cippi provenissero dal clivo Palatino A, dove
li possiamo immaginare su di un lato e sull’altro del tratto di murus Romuli
tardo-repubblicano e proto-imperiale riproposto e connesso alla coeva porta
Mugonia (Carandini 2016). Così il luogo dello scavalcamento di Remo e
quello dell’assalto di Tito Tazio graviterebbero nello stesso contesto
topografico, che è quello del museo di Romolo rappresentato dalla porta
Mugonia, dal murus Romuli e dal fanum e templum con sacellum e poi con aedes di
Iuppiter Stator. Remo, ucciso sulle mura, espia la violazione da lui voluta, così
come i morti anonimi sepolti entro recinto sopra le mura e ai lati di una
postierla espiano l’obliterazione delle mura della fondazione di Roma, oramai
usurate e che agli inizi del VII secolo a.C. sono state ricostruite.
La porta Mugonia, probabilmente la più importante delle mura palatine, è
diventata quindi il simbolo delle mura e della porta romulea che puniscono
con la morte la violazione della sanctitas e che impediscono al nemico di
penetrare nell’Urbs.
Atlas, tavv. 61, 70. – Brocato 2000. – Carafa c.s. – Carandini c.s. – D’Alessio
2000.
8.
Ingrandirsi invadendo case altrui
(FIG. 8)

Il desiderio di accrescere la proprietà – cupido iungendi – non riguardava


solamente le tenute in campagna ma anche i lotti abitativi in città. A est del
fanum/templum con aedes di Giove Statore aveva inizio il tratto meno rilevante
della Sacra via che portava alle Carinae, altro quartiere elegante oltre a quelli
della Velia e del Palatino. Era un tratto meno rilevante perché a monte del
clivo Palatino A la via era affiancata esclusivamente da case private (Carandini
2016). Sul versante palatino del percorso erano case arcaiche durate dal 530
a.C. alla fine del III secolo a.C., per cui in questo tempo si camminava ancora
in una città dall’aspetto tardo-arcaico, con quanto ciò poteva comportare a
livello di archivi per tabulae, d’iscrizioni, di scaffali per imagines maiorum e di
trofei di guerra; ciò vale anche per la domus Publica, che conteneva gli annales
Maximi, la memoria ufficiale di Roma. Dopo, le case in opera quadrata del
tempo di Tarquinio il Superbo sono state sostituite da altre, le prime a
disporre di fondazioni in opera cementizia. Tra queste, le due più a oriente si
aprivano, come le antecedenti, non sulla Sacra via bensì sul clivo Palatino B,
allora una strada di secondaria importanza. La dimora all’angolo tra le due
strade era appartenuta a M. Emilio Scauro, console e trionfatore su popoli
gallici tra Veneto e Friuli nel 115 a.C., un uomo di poca fortuna, poi
arricchitosi tanto da comprare per
700.000 sesterzi lo schiavo grammatico greco Dafni; nel 109 a.C., quando era
censore, aveva fatto costruire un tratto della via Aemilia che aveva collegato il
Tirreno al Po. Subito accanto a questa casa era quella di Gn. Ottavio, homo
novus che aveva raggiunto il consolato nel 165 a.C. Nel 162 a.C. la casa era
passata al figlio omonimo, console nel 128 a.C., e infine al nipote L. Ottavio,
console nel 75 a.C., morto nel 74 a.C.
Il figlio di Scauro, dallo stesso nome, aveva ereditato la casa paterna nell’88
a.C. e a essa aveva aggiunto nel 74 a.C. la casa di L. Ottavio, raddoppiando
così la proprietà. Demolite entrambe le dimore, nel 58 a.C. Scauro figlio
costruisce sopra di esse una grande e unitaria magione. Proprio in quell’anno,
da edile, aveva eretto anche un teatro provvisorio, poco dopo smontato, per
ornare la scena del quale erano state trasportate a Roma 360 colonne: di
marmo al piano terreno, di vetro a quello intermedio e di legno dorato a
quello superiore (Plinio il Vecchio, Storia Naturale, 36.24). Quattro di esse, di
marmo Luculleo (“Africano” dell’isola di Teos) e altissime (38 piedi, m
11,23), avevano decorato la porta centrale o valva Regia della scena del teatro
provvisorio. Smontato questo teatro – il primo teatro stabile di Roma sarà
quello di Pompeo, del 55 a.C. – le quattro enormi colonne sono diventate i
sostegni dell’atrio tetrastilo (sostenuto da quattro colonne) della sua magione,
il maggiore di Roma.
Tra l’82 e il 58 Scauro figlio aveva acquisito una terza casa, per farne un
annesso di servizio. Era stata dell’oratore L. Licinio Crasso, che intorno al 100
a.C. aveva disposto per la prima volta di un atrium sostenuto da sei colonne di
marmo straniero proveniente dal monte Imetto nell’Attica (alte 12 piedi, m
3,5); aveva anche un triclinium con letti di bronzo, coppe argentee opera del
cesellatore greco Mentore del IV secolo a.C. e infine un hortus ombreggiato da
sei bagolari. La casa era stata valutata una enormità, 6 milioni di sesterzi, metà
dei quali erano il valore di quei bagolari: ombra amena e rarissima nel cuore di
Roma. Nel 52 Scauro va in esilio accusato de ambitu, cioè di corruzione
elettorale.
L’atrium ipertrofico di Scauro aveva presupposto un ampio basamento dotato
di strutture in grado di reggere le quattro straordinarie colonne. Questo
basamento, archeologicamente noto, conteneva un ergastulum o alloggio per
gli schiavi dotato di 62 cellette (mq 2,85 ciascuna), ciascuna con due basi in
muratura per sostenere le tavole del letto. Un ambiente di questo quartiere
servile, lungo, stretto e dotato di un bancone, era il Lararium delle sei decine o
decuriae di schiavi. Nei sotterranei della casa era anche un balneum o bagno,
assai bene attrezzato. Varie rampe di servizio portavano a tre diversi piani della
dimora: quello ipogeo, quello nobile dell’atrio e quello rialzato che si trovava
sul retro.
Alcuni hanno attribuito le cellette sotto l’atrium di Scauro a un lupanar, cioè a
un bordello. Eppure conosciamo altri due casi a Roma con cellae sotto l’atrium
e se la prostituzione è il mestiere più antico del mondo, l’alloggio degli schiavi
– guardie del corpo, servitori, contabili e scrivani – era a Roma una necessità
imprescindibile. Ad esempio, la casa attribuita a Gn. Domizio Calvino
disponeva di 16 cellae servili: numero ragionevole, che dà la misura della
megalomania finita male di Scauro (Atlas, tav. 89 B). La dimostrazione che si
tratta di stanze per schiavi e non per prostitute si ha nella sostruzione della casa
di Augusto, che è un enorme quartiere per liberti e schiavi (si veda l’Angolo
12).
Della casa di Scauro conosciamo l’indirizzo approssimativo, visto che a
Roma non esistevano numeri civici: “in quella parte del Palatino che si trova
quando scendi per la Sacra via e prendi la prima strada a sinistra”, cioè il clivo
Palatino B (Asconio, In difesa di Emilio Scauro, commentario, 23). Grazie
all’indirizzo rivelato da una fonte letteraria e all’eccezionalità della dimora
rivelata dagli scavi – unica casa nel quartiere in grado di sostenere colonne
tanto alte – l’identificazione del monumento con la dimora di Scauro può
ritenersi sicura.
Sommerso dai debiti, Scauro aveva venduto nel 53 a.C. la sontuosa magione
a Clodio per 14 milioni e 800 mila sesterzi (quasi 5 milioni per ciascuno dei
tre lotti), ma quest’ultimo e la terribile moglie Fulvia non si sono goduti la
casa, perché nel 52 a.C. Clodio viene ucciso dagli uomini del suo avversario
Milone ed è nell’enorme atrio della dimora che viene esposto il corpo
dell’aristocraticissimo che si voleva plebeo.
La casa di Clodio sul Palatino (figg. 15 e 16, 21, m) – prima reggia tardo-
repubblicana di Roma (mq 7823), di poco inferiore a quella di Ottaviano (mq
8442) – aveva inglobato la casa di Cicerone e la porticus Catuli – luogo di culto
alla Fortuna huiusce diei –, poi toltegli e restituite all’oratore e all’uso pubblico;
grave smacco per il nobile demagogo, che allora si era buttato ad acquistare la
casa di Scauro, di poco più piccola, ma con l’atrio più grande di Roma, il che
lo compensava di quanto aveva perduto: una vera reggia!
Il nucleo originario della casa palatina di Clodio verrà nuovamente abitato da
Fulvia tra il 52 e il 49 con il marito G. Scribonio Curione, poi per tre anni da
lei sola vedova di Scribonio; tra il 46 e il 40 a.C. lo abita ancora con l’ultimo
marito Marco Antonio (d’ora in poi Antonio), il quale per un anno aveva
avuto come vicino il nemico Cicerone, fatto da lui eliminare nel 43. Tra il 40
e il 31 la casa viene abitata da Antonio e dalla nuova moglie Ottavia, sorella di
Ottaviano. Morto Antonio la casa è passata a Ottaviano.
Qualche tempo prima del 17 a.C., la casa grandiosa di Scauro e poi di
Clodio è stata ristrutturata intorno a un atrio finalmente ridotto, ora aperto
sulla Sacra via. Aveva perduto le quattro enormi colonne del grandissimo atrio
per volere di Augusto, che le aveva sottratte a quella casa perché andassero a
decorare nuovamente una valva Regia scenica, questa volta del teatro di
Marcello (si veda l’Angolo 35, fig. 36). In età giulio-claudia la casa è stata
abitata dal volterrano G. Cecina Largo, console nel 42 d.C.
Il quartiere palatino in cui era stata la casa di Scauro, interamente da noi
indagato, dice molto sulla vita politica e sociale di Roma alla fine della
Repubblica. Con queste case negli occhi e con le lettere di Cicerone in mente
si capisce il mondo a cui Augusto ha posto fine, concentrando il potere su di
sé e governando l’Impero dalla sua casa, concepita come un microcosmo del
centro politico e sacrale di Roma. Infatti la cupido iungendi raggiungerà un
culmine con le due mandate di numerosi espropri resisi necessari per erigere
la casa di Ottaviano (fig. 11) e poi per quella ancora più ampia di Augusto (si
veda l’Angolo 10, fig. 11).
Atlas, tavv. 63, 66, 68. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 78-143.
9.
Due templa del divo Augusto, a due angoli del Palatino
(FIG. 9)

I due templa del divus Augustus – il secondo distinto dal primo – si trovavano
simmetricamente ai due limiti del lato settentrionale del Palatino, segnati a
nord-est dalle Curiae (veteres) e a nord-ovest dal sacellum Larundae (Tacito,
Annali, 12.24). Un templum si trovava entro una porzione della casa paterna e
natale del princeps, sul Palatino, ad capita Bubula (ai crani di bue o bucrani).
L’altro templum si trovava subito oltre il monte, nel Velabrum, comunque
vicino alla seconda casa palatina di Ottaviano, che si trovava ad scalas Anularias
o dei Gioiellieri: quelle che salivano alla porta Romanula.
Il templum esastilo del Velabrum è stato chiamato novum probabilmente fin da
Claudio, perché non si confondesse con l’altro, che aveva una origine più
antica. Infatti era stato edificato da Livia moglie di Augusto e da Tiberio suo
successore, che gli aveva aggiunto una biblioteca. Ma era stato Caligola a
dedicarlo; lo aveva utilizzato per sostenere il ponte che collegava la sua domus,
lì vicino, con quella che si trovava probabilmente di fronte all’aedes di Giove
Capitolino. Il templum novum, distrutto da incendio, è stato poi ricostruito
ottastilo da Domiziano e ripristinato infine da Antonino Pio.
Assai più complessa è la storia della casa natale di Augusto, ai palatini capita
Bubula. In essa era un primo luogo di culto voluto dal princeps nel 12 a.C. (si
veda oltre), cui poi Livia ha aggiunto il sacrarium divi Augusti, eretto qualche
anno dopo la sua morte e poi distrutto da un incendio. Ricostruito da
Claudio come templum divi Augusti e nuovamente distrutto dall’incendio del
64 d.C., il luogo è stato infine ricostruito da Nerone, tenendo conto
dell’assetto complessivo della domus Aurea, in una posizione simmetrica
rispetto al lucus/saellum Streniae, ma il tempio in sé è stato eretto solamente da
Vespasiano, per poi durare fino alla tarda antichità (Atlas, tavv. 74, 80, 110 e
tavola fuori testo 20).
La casa avita doveva essere composta di due lotti. Il primo culto era stato
voluto nel lotto settentrionale, corrispondente all’angolo nord-est del
Palatino, marcato da un qualche monumento, rilievo o pittura in cui
figuravano teste di bue, probabilmente dei bucrania appesi al muro. Possiamo
immaginare che questo culto fosse costituito da un’ara a cui portava un’ampia
pavimentazione con gradoni in salita, ben conservata e nella quale il collegio
degli aenatores, i suonatori di strumenti a fiato, aveva dedicato probabilmente
una statua di Augusto del 12 a.C. e sicuramente una statua di Tiberio del 7
a.C. Il progetto augusteo è stato completato e coronato da Livia, nei primi
anni ’20, quando ha eretto il sacrarium, di cui abbiamo notizie dalle fonti
letterarie (Svetonio, Vita di Augusto, 5; Servio, Commentario all’Eneide, 8.361;
Plinio il Vecchio, Storia naturale, 12.94) e da alcune terrecotte “Campana”
incluse nelle murature del tempio di Claudio. Il tutto si trovava non nei pressi
ma entro uno dei lotti della casa nella quale Augusto era nato.
Fino a una nostra recente riflessione, stimolata da una osservazione di
Daniela Bruno (studiosa che conosce come nessun altro il Palatino), la casa
natale di Augusto veniva posta lungo il vicus Curiarum, a ovest delle curiae
Veteres, visto che queste sono state sempre immaginate all’angolo nord-est del
Palatino, per cui esse “dovevano” raggiungere il vicus Fabricius che delimitava
quel monte a oriente.
Eppure il ritrovamento da parte di Clementina Panella di una fondazione
curva del V secolo a.C. ha imposto una più accurata e dettagliata riflessione sul
luogo. Si tratta, probabilmente, di una riproposizione, in tecnica evoluta del V
secolo a.C., della capanna originaria delle curiae, probabilmente databile tra la
metà dell’VIII e la metà del VI secolo a.C. L’ampia capanna rinvenuta (Atlas,
tavv. 60 e 62 F), facilmente ricostruibile, si trovava all’angolo delle mura
palatine, tratti delle quali hanno cominciato a essere demoliti a partire dal 550
a.C. circa, quando Servio Tullio ha rivoluzionato pomerium e murus/agger. È
forse al tempo di questo tyrannus che a sud della capanna (dove non si è
scavato) è stata edificata una piccola aedes, probabilmente consacrata a Iuno
Curitis, la dea delle curiae, le cui terrecotte sono state rinvenute deposte
nell’area della capanna e sono databili soprattutto tra la seconda metà del VI e il
V secolo a.C. Molto più incerto è come fosse strutturato questo luogo tra IV e
II secolo a.C. Come che sia, la posizione della capanna e poi dell’ipotizzato
tempietto – tipo quelli di Fortuna e Mater Matuta (Atlas, tav. 9) – consente
finalmente di ricostruire l’area sacra delle curiae più a ovest di quanto prima si
pensasse, quindi non all’angolo del Palatino nella versione a noi nota. Eppure
per la testimonianza di Tacito le curiae dovevano stare all’angolo del Palatino,
ma di un Palatino alto-arcaico e arcaico, più ristretto di quello della seconda
metà del VI secolo a.C. e successivo. Tracce della viabilità successiva
consentono di ipotizzare, almeno per le origini, un vicus predecessore del
Fabricius, che correva più a occidente, delimitando il monte su questo lato.
Non si sa quando, ma sicuramente dagli anni ’80 a.C., il tempietto delle curiae
è stato eliminato, così come già la capanna, sostituito da una fila di sale
tricliniari, probabilmente sette quante le curiae Veteres, che hanno occupato per
intero uno spazio più ristretto.
È intorno al 540/530 a.C. che il Palatino si è esteso verso est, cioè verso il
Celio, fino a raggiungere una strada ora creata: il vicus Fabricius. Lo spazio
aggiunto al monte non è mai appartenuto alle curiae Veteres, situate più a ovest,
salvo l’eccezione che vedremo. I muri di limite lungo il vicus Curiarum
appartengono non alle mura palatine (come un tempo si poteva ritenere), né
al muro di cinta o temenos delle curiae Veteres, ma a una domus d’angolo.
L’estensione palatina era dovuta alla volontà di poter disporre di una fila di
case lungo il vicus Fabricius, per le quali abbiamo indizi letterari e archeologici
(scavi statunitensi e di Clementina Panella), la prima in fila delle quali sarà la
casa natale di Augusto.
Mentre il limite tra le curiae Veteres e la casa dell’ignoto signore posta a ovest
non è mai cambiato, per cui quella casa sempre si è trovata fuori da quell’area
sacra, il suo limite a est, prima più ampio, è stato poi leggermente arretrato,
almeno dal tempo di Silla. La parte persa dalle curiae è andata a vantaggio di
due lotti abitativi affacciati sul vicus Fabricius, il cui retro confinava appunto
con le curiae stesse. Questi due lotti formavano dal tempo di Silla un’unica
dimora, quella degli Octavii. Erano pertanto i soli a trovarsi per una grande
parte in uno spazio da sempre esclusivamente abitativo e per una parte minore
sopra un suolo che prima di Silla era appartenuto alle curiae. Ciò spiega perché
secondo Servio (Commentario all’Eneide, 8.361) Augusto era nato non presso
ma “nelle” curiae Veteres, il che non potrebbe darsi, ove si immaginasse altrove
la casa natale di Augusto, sia più a ovest che più a sud. Il lotto a nord misurava
mq 807,8 e quello a sud 676,3, per un totale di mq 1484,1, di cui solo il 21
per cento, disposto sul retro della casa, era appartenuto alle curiae. In
particolare, del lotto settentrionale della casa mq 221,8, pari al 27,4 per cento,
erano appartenuti alle curiae, ed è proprio in questa parte di questo lotto che
Augusto era nato.
Presa coscienza di ciò, appariva ormai inaccettabile che la casa di Augusto
con il sacrarium di lui divus si trovasse a ovest delle curiae, mentre le statue di
Augusto e Tiberio, erette tra il 12 e il 7 a.C., e il templum divi Augusti di
Claudio e poi di Nerone/Vespasiano si trovassero a est delle curiae stesse.
Troppi due luoghi tra loro separati per una realtà evidentemente unica: la casa,
le statue, il sacrarium e i templa di Augusto.
Inoltre, il lotto più settentrionale si trovava proprio all’angolo tra il vicus
Curiarium e il vicus Fabricius, angolo nel quale possiamo identificare i capita
Bubula. All’angolo di fronte, sul versante veliense del vicus Curiarum, Augusto
aveva eretto una fontana dotata di meta, fulcro generatore della nuova
divisione della città in 14 regiones e 265 vici, dove le regioni IV, III, II, I e X fra
loro si incontravano. Questo lotto non presentava più le strutture domestiche,
che Augusto aveva fatto rasare per allestirvi un’area riservata probabilmente al
culto del suo Genius. Casa natale e culto del Genius, riorganizzazione dei
Compitalia come feste rionali ai Lares e al Genius di Augusto, meta e città divisa
in regiones sono luoghi e avvenimenti, culti e riti strettamente interrelati, sui
quali è stata fondata dal princeps la rigenerazione di Roma.
La casa di Ottavio padre deve essere passata, alla sua morte nel 59 a.C., al
figlio (Ottavio/Ottaviano/Augusto), che già nel 58 a.C. – quando aveva
cinque anni – ha lasciato la casa natale, che però ha mantenuto in proprietà,
forse affittando il lotto meridionale, sempre riservato ad abitazione, e
destinando invece quello settentrionale e d’angolo al culto del proprio Genius.
Si pensi alle arae del Genius e del Numen Augusti e alla statua del Genius seduto
nel vestibulum e davanti a questo della domus Augusti sul Cermalus (Atlas, tav.
72, nn. 30-35; qui, figg. 11 e 12, 9-10).
Per una decisione del senato che risaliva al 30 a.C., al Genius di Augusto si
libava e attorno si banchettava celebrando il natale, avvenuto il 23 settembre
del 63 a.C. Inoltre, dal 13 a.C. il Genius di Augusto era stato aggiunto alle
divinità invocate nei giuramenti e dal 12 a.C. sono stati dal princeps
riautorizzati i ludi Compitales, ora associati al culto dei Lares e del Genius
propri. Probabilmente il primo compitum in cui a gennaio del 12 a.C., festa dei
Compitalia, è stato celebrato il nuovo rito è stato proprio il compitum Fabricii,
ricostruito poco dopo il 7 a.C. accanto alla meta. Quindi la parte della casa
dove Augusto era nato e dove si venerava il suo Genius, meta e compitum
Fabricii, epicentri della riforma urbana, formavano una unità topografica e
concettuale.
Nel 14 d.C. Augusto muore e la casa paterna viene venduta ai patrizi Laetorii,
probabilmente con il vincolo di preservare nel lotto d’angolo il culto del divo
Augusto, e infatti l’allestimento cultuale del luogo è stato preservato. Nel lotto
subito più a sud della stessa casa abitava allora il giovane C. Letorio. Si
considerava il custode o aedituus del primo suolo che Augusto nascendo aveva
toccato e lui lo rispettava, come se il divo Augusto fosse stato il suo nume
domestico. Qualche anno dopo il 14 d.C., probabilmente intorno al 20, il
Senato ha accusato Letorio di adulterio e in cambio di una riduzione della
pena inflittagli gli ha espropriato proprio il lotto d’angolo e lo ha fatto
consacrare dai pontefici al divo Augusto. Intorno agli anni 20-22 d.C. Livia –
ormai adottata e quindi una Iulia, nonché nominata Augusta – ha eretto in
quel lotto consacrato il sacrarium divi Augusti (Svetonio, Vita di Augusto, 5).
Sono gli anni in cui Livia dedica un signum del marito nel teatro di Marcello e
ottiene l’uso in città del carpentum – un carro a due ruote e coperto – in quanto
sacerdos divi Augusti. Il sacrarium viene custodito oramai, non più da Letorio che
continuava ad abitare nel lotto annesso ancora di sua proprietà, bensì da un
aedituus servus publicus. Questo servo poteva abitare in due stanzette poste
nell’angolo nord-ovest del lotto, dietro a una aedicula per statue, già
interpretata come ninfeo, di età tiberiana o claudia. Nel sacrarium, controllato
da Livia in quanto vedova e sacerdotessa, l’Augusta aveva trasferito la
corrispondenza personale del marito morto. In un giorno del 26 d.C. Livia,
adirata con Tiberio, aveva consultato e letto nel sacrarium alcune lettere di
Augusto, per mettere in difficoltà il nuovo princeps con passi imbarazzanti
scritti da Augusto su di lui. Quale perfidia!
Un incendio ha distrutto poi il sacrarium. Nel 42 d.C. Claudio ha divinizzato
Livia, ne ha associato il culto a quello di Augusto e ha ricostruito l’edificio di
culto nello stesso luogo, ma questa volta su un rettangolo di suolo inaugurato
dagli auguri, quindi su di un templum, per cui anche l’edificio sacro costruito
sopra è stato definito templum. Gli aeditui sono oramai di un rango superiore,
cioè liberti imperiali. Allo stesso tempo viene eretta accanto al tempio una
seconda aedicula, nella quale il collegio degli aenatores ha fatto erigere statue dei
Cesari.
L’incendio del 64 d.C. ha distrutto anche questo templum e il luogo di culto,
spostato e ristrutturato, viene apprestato da Nerone ma edificato da
Vespasiano e durerà fino alla tarda antichità. Nel 312 d.C., in un ambiente
delle curiae Veteres, vengono nascoste le insegne di Massenzio morto nella
battaglia di Ponte Milvio da lui perduta.
Sul sacrarium/templum divi Augusti: Atlas, tavv. 64 H, 70 C, 74, fig. 34. – Bruno
2014a. – Hostetter, Rasmus Brandt 2009. – Panella, Zeggio, Ferrandes 2014.
Sul templum novum divi Augusti: Atlas, tavv. 40-41 D, 269A, fig. 34.
10.
Abitare dove Roma è nata
(FIGG. 10 E 11)

Nato in una casa all’angolo nord-est del Palatino (si veda l’Angolo 9),
Ottaviano era andato ad abitare, dopo un interludio sulle Carinae, sopra le
scalae Anulariae, quelle che portavano alla porta Romanula. Eppure questa era
solamente la seconda tappa del suo avvicinamento alla meta agognata. Non
poteva apparire troppo evidentemente come un novello Romulus: un re ucciso
dai propri consiglieri, come suo padre adottivo, il divo Cesare, pugnalato da
alcuni senatori. Aveva accettato tuttavia di chiamarsi Augustus, che vuol dire
l’inaugurato, cioè il benedetto da Giove, proprio come Romolo che si era
auto-inaugurato re di Roma. Nel 42 a.C. Ottaviano ha raggiunto finalmente
la meta, acquistando la casa di Q. Ortensio Ortalo, che Svetonio (Vita di
Augusto, 72) al tempo di Adriano giudicherà modesta.
La casa aveva due vantaggi strepitosi. Si ergeva sopra la parete tufacea del
Cermalus entro la quale erano le grotte del Lupercal, quella della fonte e quella
che accoglieva la scultura della lupa con i gemelli, davanti alla quale era l’ara di
Faunus Lupus/Hircus (Lupercus). Era il luogo dove Remo e Romolo erano stati
nutriti dai loro totemici antenati, il picchio e la lupa. Il Lupercal era stato poi
restaurato da Ottaviano che lo aveva trasformato in un sontuoso ninfeo (fig.
11, F). Inoltre la casa aveva l’entrata davanti al recinto o sacellum dove erano
una riproposizione della casa/aedes Romuli e la fossa con una versione più tarda
dell’altare dove Roma era stata fondata e dove era stato acceso il primo fuoco
regio della città (si veda l’Angolo 1). La collocazione, apparentemente
eccentrica perché esterna ai dodici lotti più famosi del Palatino (si veda
l’Angolo 13, figg. 15 e 16) –, era invece al centro gravitazionale della prima
Roma, tra Lupercal e Casa Romuli con fossa e ara della fondazione di Roma,
diventando così anche il centro di gravità del principato di Augusto.
Si trattava di una casa di medie dimensioni, probabilmente con atrium da
immaginare a ovest e che precedeva il peristylium, in parte conservato e dotato
di due altari relativi a un culto domestico. Sul lato nord, con vista
sull’Aventino erano un triclinium con banconi in muratura per i letti e una
exedra antistante, con ai lati due salette e due biblioteche. Altre stanze erano ai
lati e dietro. Sul lato est del peristylium era un oecus affiancato da due cubicula e
un piccolo nymphaeum con mosaico raffigurante remi. Sul lato sud erano forse
tre sale e in basso, su un lato, le stanze per i servi. Qui il tufo del monte
precipitava nella bassura della vallis Murcia e del circus Maximus. Ottaviano ha
ingrandito la dimora di Ortensio e l’ha ridecorata; eppure rimane un resto
della decorazione più antica (Carandini, Bruno, Fraioli 2010, fig. 72). Ha
esteso il peristylium, ora sicuramente a due ordini, ornati da metope e da un
fregio in terracotta. Il maggior complesso di sale rivolto all’Aventino esclusi i
cubicula di lato, il peristylium e l’oecus fra i due cubicula trasformato in tetrastylus –
cioè in sala retta da quattro colonne – sono stati pavimentati con tarsie
marmoree. Al di sopra di uno dei cubicula su lato est è stata allestita
un’ulteriore camera da letto – più che uno studiolo –, mentre l’altro cubiculum
è stato trasformato nella rampa che portava a nuovi tablinum e atrium.
Era questa la parte privata della casa, ampliata e riallestita per prima. Ma il
progetto della dimora era assai più ambizioso, al punto che Ottaviano in
seguito se ne è pentito, obliterando il sogno megalomane che per qualche
tempo lo aveva incantato. Questo sogno, in parte realizzato, aveva implicato
l’acquisto di case vicine per edificare una vera e propria reggia ellenistica,
dotata di due peristylia, il secondo fulcro di un quartiere a carattere pubblico,
come nei complessi di Demetriade, Vergina e Pella (si veda Carandini, Bruno
2008, fig. 78). Al centro di tutto il complesso era probabilmente un enorme
atrium di mq 600, mentre quello di Scauro, che era stato un tempo il maggiore
di Roma, aveva raggiunto i mq 456. Questo atrium, ora il massimo, era dotato
verosimilmente di grande tablinum, al quale si perveniva tramite la rampa che
aveva inizio dal peristylium privato della casa. Una galleria collegava al piano
terreno i due peristylia. Sopra di essa era una ambulatio, lunga m 88,68 (cioè
300 piedi corrispondenti a mezzo stadio) – quella che era stata di Clodio
(Atlas, tav. 281a) era stata di m 82,22 –, che aveva davanti un hortus pensilis, la
cui terra copriva le suspensurae di una intercapedine volta a isolarla dagli
ambienti sottostanti, come poi si vedrà nella domus Tiberiana (Atlas, tav. 77).
Nel secondo peristylium, anch’esso aperto sull’Aventino, si affacciavano
solamente saloni, notevolmente più grandi e fastosi delle sale che si aprivano
sul peristylium privato, per cui formavano un vasto complesso cerimoniale di
carattere pubblico. Sul lato ovest era un oecus Cyzicenus, fatto di una sala
principale comunicante con due triclinia; ne vedremo altri esempi nella domus
Gai (Atlas, tav. 47; qui, fig. 18) e nella domus Proculi (fig. 19, A). Sul lato nord
era un grande triclinium dotato di sale laterali. Sul lato est era un oecus
Corinthius, colonnato su tre lati, accanto al quale si accedeva a una seconda
rampa. A ridosso della parete tufacea erano, anche da questa parte della casa,
ambienti per i servi. Purtroppo neppure in coincidenza del bi-millenario di
Ottaviano il secondo peristylium è stato completamente scavato e restaurato,
come da tempo avrebbe meritato.
D’un tratto accade qualcosa che definire bizzarro è poco e che ricorda
l’arbitrio dei despoti. Tutta questa seconda parte della casa a carattere pubblico
– atrium al centro e secondo peristylium – è stata costruita ma non decorata, per
cui mai è stata usata, se non nei sogni del troppo ambizioso committente. Di
colpo l’intera dimora, compresa la parte privata, invece terminata e vissuta, è
stata seppellita sotto un nuovo complesso edilizio oppure è stata riusata come
cantina. Cosa era accaduto? Una notte del 37 a.C. un fulmine aveva colpito la
casa e Ottaviano aveva interpretato quel segno come il desiderio di Apollo di
abitare con lui in quello stesso luogo. In realtà Ottaviano, reso d’un tratto
lungimirante, cioè prefigurando la prossima conquista di un potere immenso
e indiviso, si era pentito della troppo magniloquente dimora in costruzione –
equivaleva a vivere in una reggia come un re, ambizione che a Roma non era
sostenibile –, per cui aveva concepito un progetto molto più adatto al futuro
prefigurato che puntualmente si sarebbe verificato.
Il progetto era assai più modesto riguardo all’abitare, ma molto più grandioso
riguardo all’abitare insieme ad Apollo. Si trattava dell’enorme palazzo e
santuario dal quale Augusto, protetto da Apollo, avrebbe governato l’Impero
per quattro decenni. L’abitare di Augusto si articolava in due case, quella
privata di lui come princeps e quella pubblica di lui come pontifex maximus. Le
due case, poste ai lati del tempio di Apollo, erano di dimensioni ragionevoli
(circa il doppio delle normali case palatine, che raggiungevano in media i mq
1159), quindi molto più piccole della delirante reggia oramai seppellita sotto il
palazzo-santuario. Esso ospitava, oltre le due case, l’arco in onore del padre
terreno Ottavio, il tempio di Apollo, suo padre mitico, che nei sotterranei
custodiva i libri sibyllini, e la porticus delle Danaidi che accoglieva la grande ara
di Apollo, il tetrastylum di Augusto e la curia/bibliotheca.
Solo in seguito il progetto è stato completato aggiungendo la porticus
inferiore della silva Apollinis, dotata di un’ara – della Roma Quadrata? – e di una
balconata o maenianum da cui si osservavano le gare del Circo. Le due porticus,
su due livelli, formavano insieme un quadrato: quello della Roma Quadrata,
che coincideva con l’area Apollinis. Il princeps con i Lares e i Penates, il pontifex
maximus con Vesta e l’Atena del Palladium e Apollo con Latona e Diana nella
aedes formavano un triplice complesso in cui Augusto era il condomino di
varie divinità all’interno di un unico e scenografico santuario a terrazze
degradanti, sul genere di quelli del Lazio. L’aedes Apollinis al centro era
l’equivalente del Capitolium, mentre i compluvia delle due abitazioni, con i culti
simmetrici del Lares/Penates e di Vesta col Palladium, rappresentavano
l’equivalente del lucus Vestae, per cui l’intero centro sacrale di Roma, tra
Campidoglio e Foro, e lo stesso Palatino romuleo erano riproposti nel
microcosmo urbano del palazzo-santuario di Augusto sul Cermalus.
Della parte pubblica della casa quasi nulla sappiamo, oltre al culto di Vesta,
perché è stata modificata da Claudio e perché si è partiti da essa per innestare
nella domus Augusti l’enorme domus Augustiana. Così la domus Publica di
Augusto è stata distrutta e quel che resta è sovrastato da sontuose rovine.
Invece della parte privata della casa sappiamo moltissimo, anche se nessuno se
ne è accorto.
A nord della casa dell’oratore Q. Ortensio Ortalo, affacciate sul clivo
Palatino A, erano tre case. Della casa più a sud, separata dalle altre da due
strade, ignoriamo il proprietario. Si entrava da est in un atrium dotato di
tablinum e di due sale più strette ai suoi lati, forse triclinia; su un lato era un
corridoio di servizio. Sul retro tre stanze, corrispondenti a quelle aperte
sull’atrium, forse una exedra centrale e due cubicula, si aprivano su una piccola
corte/hortus, dotato di vasca che disponeva di anfore per alloggiare murene; su
di essa si aprivano altre sei stanze, forse di servizio.
La casa più a nord, di cui nulla sappiamo, era certamente di Q. Cecilio
Metello Celere, console nel 60 a.C. e marito della terribile Clodia, sorella di
Clodio il demagogo, nota come Medea Palatina (Cicerone, In difesa di Celio,
18), dalla quale era stato avvelenato nel 59 a.C. Mentre nella sua stanza
agonizzava, assistito da Cicerone, batteva con la mano sulla parete che la sua
casa aveva in comune con quella di Catulo, per invocare l’aiuto dell’amico. Se
i muri potessero parlare!
In posizione intermedia era dunque la casa di Q. Lutazio Catulo, console nel
102 a.C., che l’anno seguente aveva vinto con Mario Cimbri e Teutoni e che
aveva eretto alla Fortuna huiusce diei la vicina porticus Catuli. Era un poeta e un
appassionato delle memorie romulee, fulcro di un circolo letterario a cui
partecipava il costosissimo schiavo e grammatico Dafni ch’egli aveva comprato
da M. Emilio Scauro, finito suicida nell’87 a.C. Allora la casa passata a suo
figlio, console nel 78 a.C., il ricostruttore del tempio di Giove Capitolino e
l’edificatore del c.d. Tabularium, morto nel 61 o nel 60 a.C.
Di questa casa è conservata la parte interrata, dalla quale si ricava per intero la
pianta del piano nobile: un vestibulum, dotato di ingresso al seminterrato,
immetteva in un atrium tetrastylum con tablinum e sale ai fianchi, forse triclinia, a
cui nel seminterrato corrispondeva un atrium testudinatum con altrettante sale.
Dietro l’atrium era un atriolum con vestibulum e cubicula ai lati, trasformato poi
in peristylium. Al di sotto nel seminterrato erano tredici cellae (ciascuna di mq
7) destinate ai servi. A meridione della casa erano, su due piani, un lungo
corridoio e nove stanze, tra le quali, al seminterrato, un triclinium e una cucina
o culina.
La casa privata di Augusto ha riutilizzato le due strade, interrate, e le due case
più vicine, a partire dall’atrium ridecorato della Catulina domus, dove il liberto
ed erudito M. Verrio Flacco, assunto come precettore, farà scuola ai nipoti del
princeps Gaio e Lucio Cesari (Svetonio, Vita dei grammatici, 17.2). Il peristylium è
stato allora trasformato in stanze di servizio, una delle quali immetteva nel
corridoio sotterraneo che portava alla domus Publica di Augusto pontefice
massimo. Vengono riutilizzati e ristrutturati i sette ambienti laterali e uno dei
vici seppelliti diventa un corridoio; sopra la casa dell’allevatore di murene e
sopra il vicus successivo viene edificato un nuovo peristylium. Su due lati di
questo davano ambienti di servizio, tra cui una culina dotata di bancone; altri
ambienti si trovavano al piano superiore, dove dopo il 25 a.C. possono aver
vissuto Giulia e Agrippa, genitori dei giovani Cesari. Sul terzo lato, il
principale, era una sala lunga e stretta che comunicava sul retro con una
exedra. Sopra a questi ultimi due ambienti è ricostruibile lo studio/laboratorio
di Augusto, alto e isolato, chiamato Syracusae (Svetonio, Vita di Augusto, 72.2).
L’exedra e le due coppie di cubicula che aveva ai lati si affacciavano su uno
spazio aperto, una corte, che insisteva su una parte della casa che era stata
dell’oratore Ortensio e poi di Ottaviano: è il compluvium dei Lares e dei Penates
(Svetonio, Vita di Augusto, 92.2), accolti in una aedicula, ben conservata, il cui
altare era probabilmente l’ara del Belvedere (si veda l’Angolo 50, fig. 4). Uno
dei suddetti cubicula poteva accogliere la scala, attestata in un rilievo a soggetto
dionisiaco di cui conosciamo repliche al Museo Nazionale di Napoli, al
Louvre di Parigi e al British Museum di Londra (fig. 12, d) la quale portava
allo studio/laboratorio chiamato Syracusae (fig. 12, 14), la cui immagine
esterna è attestata sui citati rilievi. Il cubiculum accanto alla scaletta, l’unico
raggiungibile direttamente dall’atrium, era probabilmente quello nel quale
Augusto aveva dormito per oltre quarant’anni (Svetonio, Vita di Augusto,
72.1). Questa stanza distava assai poco (m 27) dalla casa Romuli e dalla fossa/ara
della fondazione di Roma (si veda l’Angolo 1). Settecentotrenta anni di
distanza fra il re fondatore e il principe rifondatore, ridotti a pochi passi.
Riepilogando, la casa privata di Augusto ha occupato due case (di Catulo e
dell’allevatore di murene), due strade interrate e parte di un’altra casa (già
dell’oratore Ortensio e poi di Ottaviano). L’atrium, che era stato di Catulo e
poi di Augusto, sarà infine di Livia Giulia Augusta, come si legge in una fistula
iscritta (cil, XV 7276b), sacerdotessa del culto del divo Augusto, di cui Claudio,
figlio del fratello di Tiberio, era flamine. L’atrium sarà utilizzato anche come
sede dei sodales Augustales, i sacerdoti del divo Augusto, dal momento che la
loro sede di Ercolano (VI, 21, 24) era una replica perfetta dell’atrium di Livia
(Atlas, tav. 68; si veda anche l’Angolo 42, fig. 11).
Atlas, tavv. 64 E, 69, 70 A-72, 281-282, ill. 10-12. – Bruno 2014b, pp. 364-
368, 369-374. – Carandini, Bruno 2008. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010,
pp. 151-225. – Tomei 2014.
11.
Rilievi, quasi fotografie
(FIGG. 12 E 13)

Nell’antichità le fotografie non esistevano, ma alcuni rilievi e monete del


tempo di Augusto altro non sono che fotografie animate, che molto aiutano a
ricostruire il palazzo del princeps in dettagli significativi come la porta di casa, il
culto di Bacco all’esterno della casa, una veduta di quest’ultima, il culto di
Vesta e infine l’ara di Apollo con il tetrastylum Augusti che stava nella porticus
delle Danaidi.
Entro una parete in finta opera quadrata si apriva la porta di casa
fiancheggiata da allori – come probabilmente anche ai lati dell’ingresso al
mausoleo (si veda l’Angolo 37) – e anche da trofei. Era sovrastata dalla corona
di quercia decretata nel 27 a.C. con l’iscrizione P.P., pater Patriae o patri
Patriae. Claudio vi aggiungerà una corona navale dopo il trionfo sulla
Britannia. Il vestibulum antistante, regale e alto, interamente ricostruito da
Augusto, era retto da colonne ioniche, mentre nel timpano figurava il clipeus
(scudo rotondo) virtutis, analogo a quello che ornava il vestibulum del mausoleo
(Atlas, tavv. 231 e 284; qui, fig. 38). Sotto il vestibulum erano ai lati le statue di
Venus e di Mars con Eros, come probabilmente avveniva anche nelle nicchie ai
lati dell’entrata del mausoleo, mentre al centro era la statua seduta del Genius
Augusti con cornucopia, probabilmente assimilato a Romolo. Ai piedi delle
scale che portavano al vestibulum erano verosimilmente le due arae Numinis et
Genii Augusti, rappresentate in un rilievo di Palermo, proprio come l’ara Divi
Augusti si trovava davanti all’ingresso al mausoleo. Ci aiutano a ricostruire
questo ingresso, degno della casa di Giove, uno dei rilievi di Sorrento (fig. 12,
a), un aureo di Caninio Gallo del 12 a.C. (fig. 12, b), e urne cinerarie, come
quella ostiense di L. Cacius Cinnamus, della fine del I secolo d.C. (cil, XV 308;
fig. 12, c). È possibile che le sculture del Genio, di Marte e di Venere
venissero riproposte nel compluvium dei Penates, in quanto antenati di Enea,
Iulo, Cesare e Augusto.
A destra del vestibulum, il muro perimetrale della casa privata era occupata da
una fontana a cinque vasche, che al centro aveva una nicchia ricavata nella
parete che accoglieva un rilievo di Bacchus madidus (fig. 12, 11), mentre ai lati e
sulla fontana erano erme di Dioniso giovane e vecchio, gli originali trovati in
situ (Atlas, fig. 55; qui, fig. 12, 13). Il luogo è rappresentato in un rilievo
conservato presso il British Museum, Townley Collection (fig. 12, d), in cui
la scena dionisiaca, pur complicandosi e animandosi, documenta fedelmente il
luogo di culto esterno alla casa e anche, sul retro, la casa stessa, rappresentata
accuratamente, dove spicca un ambiente eminente (fig. 11*), posto al secondo
piano, dotato di finestra bipartita (fig. 12, 14) e con al fianco un corpo alto e
stretto, coperto da tettuccio, contenente probabilmente la scala che consentiva
di accedervi (fig. 12, 15); lo stesso ambiente si vede anche in facciata, sulla
quale compare, oltre il contenitore della scaletta, un’altra finestra bipartita e
un frontone ornato da ghirlande, da una testa di medusa e da due tritoni,
come nel tetrastylum Augusti, un tempietto a quattro colonne che si trovava nel
portico delle Danaidi (fig. 11).
La scaletta è quella che abbiamo ipotizzato al fianco del cubiculum di Augusto
e l’ambiente eminente altro non può essere – conoscendo la casa nel suo
insieme – che lo studiolo/laboratorio chiamato Syracusae, di cui il rilievo
conferma l’ubicazione al primo piano e l’appropriato isolamento, simile a
quello di Ortigia (si veda l’Angolo 10, figg. 11* e 12, 14). Sotto la falda del
tetto figurano festoni, applicati da un servo, che stanno a indicare una festa,
probabilmente quella del completamento della casa privata. A sinistra figura
una quercia, che immaginiamo ombreggiasse il peristylium, mentre a destra è
una palma entro recinto (fig. 12, 16), da immaginare nel compluvium dei
Penates e dei Lares (fig. 12, 17). Nel 45 a.C. Ottavio diciottenne aveva
inseguito Cesare in Spagna. A Munda era improvvisamente sbocciato un
germoglio da una palma. Colpito dal prodigio, Cesare avrebbe deciso di
adottare Ottavio, nipote di sua sorella, quindi rinominato Ottaviano
(Svetonio, Vita di Augusto, 94.11). La palma nel compluvium dei Penates e dei
Lares non è che la riproposizione a Roma del germoglio cresciuto di Munda, a
cui Augusto doveva l’essere stato adottato da Cesare, per cui era diventato un
discendente di Iulo, Enea, Anchise e Venere.
Un rilievo conservato a Palermo (fig. 12, e) e un denario di Tiberio (fig. 12,
f) consentono di ricostruire il compluvium di Vesta, simmetrico a quello dei
Lares/Penates, dove era l’aedicula tonda della dea contenente il Palladium. Non
abbiamo invece rappresentazioni dell’aedicula dei Penates e dei Lares, ma ne
sopravvivono in compenso le fondazioni che consentono di ricostruirla nella
sua giusta dimensione. Davanti al tempietto di Vesta erano l’ara e basi che
sostenevano un toro e un ariete, alludenti a segni dello zodiaco. Forse di
fronte all’ara era la statua seduta della dea, probabile replica di quella contenuta
nell’aedes Vestae, affiancata da altre due divinità stanti, probabilmente Cerere e
Flora, come mostra un altro rilievo di Sorrento (fig. 12, g), cui potrebbero
forse corrispondere, nell’altro compluvium, il Genius di Augusto, Enea e
Venere. Se Lares e Penates erano venerati insieme nella casa di Augusto,
potrebbe darsi che ciò avvenisse anche all’aedes Larum nel lucus Vestae (si veda
l’Angolo 4, fig. 4).
Rilievi di Berlino e di Villa Albani (fig. 13, a) rappresentano l’altare eretto al
centro della porticus delle Danaidi, al quale sacrificano – il 9 ottobre del 28
a.C., giorno della dedica del tempio – Apollo, Latona e Diana, coadiuvati da
Vittoria, la quale offre ad Apollo una patera nella quale versa con una
brocchetta un liquido da versare in un sacrificio o libare, per cui abbiamo qui
un dio che sacrifica a sé stesso. L’altare rotondo, fiancheggiato da una statua di
Apollo con patera, è inserito in un recinto o sacellum, accessibile tramite un
invito fatto da due muri leggermente più stretti e bassi ornati da tripodi, che
per via letteraria sappiamo essere stati d’oro (Res Gestae Divi Augusti, 24.2;
Svetonio, Vita di Augusto, 52.1). Dietro al recinto spuntano un albero e un
tempietto, il tetrastylum Augusti, nel quale era ospitata la statua del Genius. Il
fregio dell’edificio presenta animali correnti e svastiche e il frontone, con una
testa di medusa tra due tritoni, i quali rimandano all’ornamento del frontone
dello studiolo chiamato Syracusae. Arae al Genius potevano trovarsi alla base
della scala del vestibulum della casa privata e forse anche in un lotto della casa
natale ad capita Bubula (si veda l’Angolo 9). In un altro rilievo di Sorrento (fig.
13, b) figurano le tre statue di culto del tempio, con Apollo al centro, che con
la destra tiene un tripode, sua madre Latona e sua sorella Diana.
Un aureo di L. Mescinio Rufo del 16 a.C. (fig. 13, c) mostra Augusto che,
in occasione dei ludi saeculares svoltisi il 3 giugno del 17 a.C., distribuisce i
suffimenta, cioè torce con zolfo e bitume per fumigazioni purificatorie
domestiche, da un tribunal, simile a quelli affiancati a un’ara raffigurata nella
Forma Urbis Severiana entro l’area Apollinis (fig. 13, d), da identificare come
l’altare della Roma Quadrata posta al centro della silva Apollinis, dopo l’8 a.C.
(Atlas, tav. 72; qui, fig. 11).
Vi sono anche luoghi realmente fotografabili ma per nulla accessibili, come il
nymphaeum rotondo rinvenuto ai piedi della casa di Ottaviano, da identificare
con la fonte del Lupercal da Ottaviano restaurata (si veda l’Angolo 10, fig. 11,
F). La decorazione è a mosaico di pietruzze colorate, pomici, ciottoli e
conchiglie. L’aquila al centro della cupola, lo stile della decorazione e la
posizione del ninfeo rimandano al triumviro che abitava al di sopra, sul
Cermalus.
Atlas, tavv. 70 F, 71-72; ill. 10-12; figg. 53-54. – Carandini 2016 –
Carandini, Bruno 2008. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 151-225.
12.
Stanze per liberti e schiavi e balconata sul Circo
(FIG. 14)

Abbiamo visto che i servi domestici erano alloggiati in città entro singole
camerette, in cui poteva entrare al massimo un lettino. Questi quartieri servili
o ergastula si trovavano per lo più nei seminterrati delle domus, sovente al di
sotto degli atria e comunque nei piani bassi, come si vede appunto nella casa di
Ottaviano (Atlas, tav. 69; si veda l’Angolo 10, fig. 10). L’esempio più famoso si
trova nella casa attribuita a Scauro, le cui 62 camerette sono state attribuite,
erroneamente, a un postribolo, e lo prova la casa di Augusto che al di sotto
non ha una casa per il vizio ma una sorta di ministero (Atlas, tav. 282). Si veda
anche la casa dei Domizi Enobarbi sulla Velia, in cui sono 48 stanzette sui due
piani del lato lungo settentrionale del peristilio e del criptoportico (Atlas, tav.
91; qui, fig. 43).
Dopo l’8 a.C. il princeps ha aggiunto sul fronte del suo palazzo-santuario –
che era rimasto ancora quello alquanto incongruo della domus Octaviani – un
corpo rettangolare enorme e dall’organica e impressionante facciata rivolta al
Circo. Sopra di esso era un terrazzo porticato, contenente probabilmente una
serie di alberelli di alloro, la silva Apollinis che al centro aveva un’ara,
probabilmente quella definitiva della Roma Quadrata (Atlas, tav. 71; qui, fig.
11). Come la porticus delle Danaidi, anche questa, a livello più basso, rientrava
nell’area Apollinis, formando entrambe un quadrato di 360 piedi,
corrispondente alla Roma Quadrata intesa come un’area che alludeva alla
Roma quadrangolare romulea sul Palatino. Sul fronte e al centro di questo
corpo era una balconata o maenianum che leggermente protrudeva e dalla
quale si potevano osservare le corse nel Circo.
Al di sotto erano tre piani di sostruzioni, la ima pars Palatii, che ospitava
probabilmente i numerosi liberti e schiavi della familia Caesaris e in particolare
quelli addetti al Fiscus, cioè ai proventi dalle province comandate da Augusto,
e al Patrimonium, cioè ai proventi dai beni suoi personali, congiuntamente
amministrati (Atlas, tavv. 72 e 282). In questa ima pars del palazzo hanno poi
operato, sotto Claudio ormai perfettamente strutturati, i liberti che
svolgevano le funzioni di segretari di stato: Callistus a libellis, cioè alle
petizioni, Narcissus ab epistulis, cioè alla corrispondenza, Pallas a rationibus, cioè
alle finanze, Polibius a studiis, cioè alla biblioteca, e il segretario a cognitionibus,
cioè alla giustizia (Dione Cassio, 60.5.14, 30.6b, 31.2-5; Tacito, Annali,
12.53; Svetonio, Vita di Claudio, 28).
Ai margini esterni di questa sostruzione erano numerose stanze (44 x 3 =
132), che prendevano luce dalle finestre: probabilmente gli uffici. Dietro di
essi erano ambienti maggiori (26 x 3 = 78), che al piano superiore prendevano
luce dall’alto e nei piani inferiori dalle stanze con finestre ai margini del corpo:
erano probabilmente gli alloggi del personale. L’ergastulum domestico
sotterraneo proprio dei nobili e magistrati repubblicani era diventato nel
palazzo-santuario di Augusto un gigantesco ministero, composto da 210
stanze, nel quale ha operato la prima burocrazia dell’Occidente. Al centro
della sostruzione era il nucleo interno, composto di ambienti meno vivibili,
lunghi, stretti e bui, usati forse come depositi e magazzini e al bisogno anche
come prigione (Tacito, Annali, 20.40; Dione Cassio, 58.11.4; Svetonio, Vita
di Tiberio, 54, 65). Al piano terra questo nucleo interno era riservato
probabilmente al Lupercal, santuario che fino all’8 a.C. è stato descritto da
Dionigi di Alicarnasso all’aperto e ai piedi della parete tufacea del Cermalus. La
fonte del Lupercal è identificabile nel sontuoso ninfeo rotondo e lì accanto
doveva essere anche la grotta, forse oramai un’elegante abside, che conteneva
l’immagine della lupa e dei gemelli. Ma dopo l’8 a.C. il santuario è stato
inglobato nella sostruzione e l’abside, che si trovava in fondo, è stata inclusa in
un ambiente rettangolare in forma di basilica. Vi si poteva accedere
dall’ingresso principale, alla base e al centro del maenianum, il quale si trovava a
sua volta nell’asse del sovrastante tempio di Apollo, sul quale l’intero
complesso palaziale era stato strutturato. Marte e Fauno Luperco (lupo e
capro) erano gli antenati mitici di Romolo e Apollo era il padre mitico di
Augusto, il principe e pontefice massimo che aveva rifondato Roma,
governandola da un palazzo-santuario di Apollo che si trovava tra il Lupercal e
la casa Romuli.
Con Domiziano (Atlas, tav. 80) gli spazi per la burocrazia si estendono. Nel
complesso intorno all’aedes Iovis Victoris erano disponibili ormai una settantina
di stanzette al piano terra e lungo il c.d. clivo Palatino B, per non dire delle
altre 20 stanze distribuite su quattro o cinque piani rivolte al vicus Curiarum.
Insomma, una possibile caserma di burocrati composta di 450 ambienti, più
del doppio della ima pars Palatii.
Atlas, tavv. 66, 70-72, 282, ill. 10. – Carandini 2014b, pp. 11-27. – Bruno
2014b.
13.
Il quartiere più chic del Palatino
(FIGG. 15 E 16)

La strada (clivo Palatino A) che univa due delle porte delle mura palatine – la
Mugonia e quella di cui ignoriamo il nome che si trovava probabilmente alle
salae Caci – e il vicus huiusce diei, che si trovava lungo il bordo del Palatino
rivolto al Velabrum e che prendeva il nome dall’annesso culto di Fortuna huiusce
diei o “di oggi giorno” accolto nella porticus Catuli, hanno delimitato una zona
stretta e lunga del monte che dall’alto vedeva la Velia, il Quirinale, il Foro,
l’Arce e il Campidoglio: una posizione davvero straordinaria.
Alle estremità brevi di questa zona erano due importantissimi luoghi di
carattere cultuale e regio: a meridione, l’area sacra a Iuno Sospita/Victoria e la
casa Romuli/Martis con la fossa e l’ara della fondazione di Roma e, a
settentrione, il lucus Vestae, dove era stato acceso il primo fuoco pubblico di
Roma (si veda l’Angolo 1 e 2), dove erano i culti di Vesta, dei Lari, di Marte e
di Ops e quello vicino di Iuppiter Stator e dove erano le domus delle vestali, dei
re e dei sommi sacerdoti della città.
La casa Romuli, che stava alta sul Cermalus, era stata poi duplicata, in quanto
sede regia, nella domus dei re-auguri eretta nella bassura del complesso del
Foro. Un fenomeno analogo si era verificato anche ad Atene, dove la sede
regia era stata spostata dall’Acropoli alla pianura della prima agorà.
In questa zona eletta del Palatino stavano, in età tardo-repubblicana, 12 lotti
abitativi, ampi in media mq 1159, che hanno svolto un ruolo storico
d’importanza rilevantissima. Era questo il quartiere più elegante e più famoso
dell’intera Roma e forse di tutto il mondo romano, a noi ben noto grazie alle
numerose fonti letterarie che lo hanno descritto e grazie alla conoscenza ormai
sistematica che abbiamo degli indizi e degli scavi archeologici in questo luogo.
La casa 1. Partendo dalla Sacra via e salendo per il clivo Palatino A s’incontrava
a occidente la domus Publica dove risiedeva il pontefice massimo, si varcava poi
la porta Mugonia e subito oltre, in un lotto di forma triangolare al limite del
nemus Vestae, era una prima casa privata. Può essere identificata con la domus
Liciniana, verosimilmente la dimora più antica dei Licini, tra le varie che si
addensavano in questa parte di Roma. Al tempo di Cicerone qui abitava L.
Calpurnio Pisone Cesonino, il console del 58 a.C. che aveva proposto l’esilio
dell’oratore, che aveva partecipato con Clodio alla distruzione della sua casa
(6) e alla rapina del mobilio e delle colonne (probabilmente della palaestra) e
che aveva fatto trasportare quel bottino in casa sua (le due case distavano
solamente m 166). Un tipaccio! La casa era appartenuta a Licinia, suocera di
Pisone e probabilmente sorella di M. Licinio Crasso, triumviro insieme a
Pompeo e a Cesare. Da suo marito, P. Rutilio Nudo, Licinia aveva avuto una
figlia, Rutilia, che aveva sposato appunto il terribile Pisone.
La casa 5/6. Crasso era stato l’esecutore delle confische volute da Silla e grazie
a esse e ad astute speculazioni edilizie aveva accumulato una grande fortuna.
Rientrato a Roma nel 78 a.C., aveva comprato una casa prestigiosa nel lotto 6
da M. Porcio Catone Uticense, che l’aveva ereditata da M. Livio Druso,
assassinato nel 91 a.C. nell’atrio di questa stessa casa. In essa era stata ordita la
congiura di Catilina ed era stato poi Crasso, uomo quanto mai ambiguo, a
denunciarla a Cicerone, console nel 63 a.C., recandosi nella notte tra il 20 e il
21 ottobre nella sua casa alle Carinae. Nel 62 a.C. la casa di Crasso è stata
venduta dal suo secondogenito Publio a Cicerone, che l’ha pagata 3 milioni e
500 mila sesterzi, prezzo notevolmente al di sotto del valore di mercato.
Crasso figlio aveva accettato di svenderla confidando che l’oratore avrebbe
potuto riconquistargli il perduto favore di Pompeo. La casa si trovava
all’angolo nord-ovest del pomerium romuleo, luogo considerato pulcherrimus e
clarissimus, perché in conspectu totius urbis. Crasso figlio morirà nel 53 a.C. a
Carre in Siria, combattendo i Parti.
La casa 3. Sotto la casa 6 era la casa 3, con vista su lucus Vestae e Velia. Si
trovava in cima alle scalae Anulariae o dei Gioiellieri. È attribuibile anch’essa ai
Licini, probabilmente all’annalista G. Licinio Macro Clavo, morto suicida nel
66 a.C. Gli era succeduto suo figlio, oratore e letterato, amico intimo di
Catullo, morto nel 47 a.C. A quel tempo la casa è stata acquistata da
Ottaviano, tornato ad abitare sul Palatino dopo un breve periodo passato alle
Carinae. Infatti era nato nella casa paterna che si trovava ad capita bubula,
all’angolo nord-est del Palatino (si veda l’Angolo 9, fig. 9, A). Nella casa alle
scalae Anulariae Ottaviano ha abitato fino al 42 a.C., quando ha ottenuto
quello che più desiderava: essere il dirimpettaio della casa/aedes Romuli, cioè
del re che aveva fondato Roma (si veda l’Angolo 10).
La casa 3 è rimasta probabilmente vuota tra il 42 e il 25 a.C., quando Giulia,
figlia di Ottaviano, ha sposato M. Marcello e vi è andata forse ad abitare.
Questa casa diventerà la dimora preferita delle donne della famiglia Giulia,
altezzose se non per nobiltà per il sangue divino di Venere e di Giulio Cesare,
padre adottivo di Ottaviano, che scorreva nelle loro vene. Marcello è morto
presto, nel 23 a.C., e nel 21 Giulia si è risposata con Agrippa, l’artefice della
vittoria su Antonio e Cleopatra ad Azio. Agrippa aveva lasciato la casa nel
lotto 8, già concessagli da Augusto, perché colpita da incendio nel 25 a.C., ed
era stato accolto come genero nella domus Augusti. Giulia ha accompagnato poi
Agrippa in Oriente fra il 16 e il 13 a.C. Nel palazzo del principe sono forse
nati e cresciuti anche i loro figli, Gaio e Lucio Cesari, affidati all’erudito
Verrio Flacco, che li istruiva nell’atrium di Augusto, che prima era stato di Q.
Lutazio Catulo, di cui aveva conservato il nome; altri loro figli erano Iuliola,
Agrippina I, che sposerà Germanico figlio di Antonia a sua volta figlia di
Antonio, e Agrippa Postumo. Agrippa è morto nel 12 a.C.
La casa 3 è rimasta vuota tra il 21 e l’11, anno in cui Giulia ha sposato
Tiberio, nobilissimo Claudio Nerone figlio di Livia, anche lei della famiglia
Claudia, privo tuttavia del sangue divino dei Giuli e da Giulia forse anche per
questo deriso e disprezzato. Forse tra l’11 e il 2 a.C. la coppia ha abitato nella
casa 3, dove Giulia aveva vissuto con Marcello tra il 25 e il 23 a.C. e poi come
vedova tra il 23 e il 21 a.C.; oppure, più probabilmente, ha abitato già nella
casa 10, attribuibile ai Claudii Nerones, dove Tiberio era nato e che è diventata
poi la domus Tiberi (si veda l’Angolo 15).
Nel 6 a.C. Tiberio si era ritirato nell’isola di Rodi, anche per allontanarsi
dalla lasciva Giulia, bandita nel 2 a.C. per adulterio prima a
Pandataria/Ventotene, dove l’aveva accompagnata sua madre Scribonia, e
infine a Reggio in Calabria, dove nel 14 d.C. morirà. Nel 2 d.C. è morto a
Marsiglia Lucio Cesare, forse avvelenato da Livia. Nel 4 d.C. è morto in Licia
anche Gaio Cesare. Agrippa Postumo, nato dopo la fine del padre, adottato
insieme a Tiberio da Augusto nel 4 d.C. in quanto unico erede diretto
rimasto del sangue Giulio, è stato relegato nel 7 d.C. a Sorrento e poi a
Planasia/Pianosa, dove nel 14, morto Augusto, è stato sgozzato. Iuliola,
accusata di congiurare col marito L. Emilio Paolo, è stata relegata nell’8 d.C.
nelle Tremiti dove è morta nel 28 d.C. Agrippina I è la sola erede dei Giuli a
essersi salvata da questa strage.
La casa 3 è stata e sarà la sede del partito di opposizione nella guerra scatenata
in famiglia riguardo all’avvenire dinastico dei propri giovani. Questo partito
era avverso alla res publica restituta di Augusto, cioè alla collaborazione del
principe con la vecchia classe dirigente, alla quale si era ispirato in parte anche
Tiberio. Esso mirava, invece, a instaurare una monarchia assoluta di tipo
ellenistico, che escludeva limiti prefissati alla conquista del mondo. Aveva a
modello un’autocrazia di sangue divino, legata strettamente al popolo, che
aborriva l’opera mediatrice del Senato. Confinava con la casa 3 la casa 2, dove
viveva Antonia, dove prevaleva il partito opposto, quello favorevole ad
Augusto e a Tiberio, tanto che nel 30 era stata proprio Antonia ad avvertire
Tiberio, allora a Capri, delle mire eversive del famigerato prefetto al pretorio
Seiano, condannato a morte l’anno seguente.
Tra il 14 e il 16 d.C. Agrippina aveva guidato alla rivolta contro Tiberio le
legioni del Reno, che prediligevano Germanico, figlio di Antonia e di Druso,
fratello di Tiberio. Negli anni 15 e 16 d.C. Germanico aveva vendicato la
sconfitta – tre legioni annientate – subita da Varo nel 9 d.C. nella foresta di
Teutoburgo (Bassa Sassonia) invadendo il territorio tra il Reno e l’Elba e
riconquistando le insegne perdute, ma non era riuscito a catturare Arminio,
capo della resistenza. Seguendo il fiume Amisia, Germanico aveva raggiunto
poi l’Oceano settentrionale, come Alessandro Magno che tramite l’Indo aveva
raggiunto l’Oceano meridionale. Nel 17 Germanico, amatissimo dal popolo,
ha celebrato il trionfo. Sul cocchio erano i cinque figli di Agrippina, nei quali i
sangui Giulio (di Agrippina), Claudio e Antonio (di Germanico) si erano
mescolati felicemente. Dal 18 d.C. in Oriente, Germanico e Agrippina hanno
visitato Troia, come l’avevano visitata Alessandro e poi Giulia e Agrippa. Sono
andati infine anche in Egitto – senza il permesso di Tiberio – e di lì
Germanico si è avventurato alla ricerca delle fonti del Nilo. Nel 19
Germanico è morto ad Antiochia, avvelenato da Plancina, moglie del
governatore di Siria Gn. Calpurnio Pisone, donna legata a Livia fino a
seguirne le capacità di avvelenatrice, visto che probabilmente aveva fatto
avvelenare Lucio Cesare e forse anche lo stesso Augusto; per non dire
dell’esempio di Clodia, che aveva avvelenato il marito Q. Cecilio Metello
Celere (si veda l’Angolo 10).
Le case 10-12. Nel 2 d.C. Gaio Cesare è morto e Tiberio ha lasciato Rodi per
Roma. Nel 4 d.C. è morto anche L. Cesare e Agrippa Postumo è stato
adottato da Augusto insieme a Tiberio, che a sua volta ha adottato
Germanico; in questo volgere di tempo Giulia è stata trasferita a Reggio
Calabria. Nello stesso anno Agrippina I ha sposato Germanico e la coppia va a
vivere nella casa 3, ora diventata la domus Germanici. Sua sorella Livilla I aveva
sposato prima Gaio Cesare e poi Druso II, figlio di Tiberio e di Vipsania
Agrippina, morto nel 23 d.C. avvelenato probabilmente da sua moglie,
sedotta da Seiano. Si apriva così la successione ai figli di Germanico.
Il correggente di Augusto, Tiberio, va a vivere da solo nella casa 10, dove era
nato, passata nel 38 a.C. a Ottaviano che da Tiberio Claudio Nerone era stato
nominato tutore dei figli avuti da Livia, Tiberio e Druso. Dunque, in questa
casa, vuota da quattro decenni, ha abitato Tiberio fino alla nomina al
principato nel 14 d.C. (Tacito, Annali, 6.51.2): è la domus Tiberi. A quel
tempo la casa era congiunta ad altre due vicine (11-12), la prima delle quali era
stata di Clodia. Il vestibulum della discussa signora potrebbe essere stato
riutilizzato da Tiberio come ingresso all’intera magione. A spingerci verso
questa soluzione è la notizia che nel 38 d.C. Gaio Caligola, in domo sua quae
fuit Ti. Caesaris avi, sub divo in ara sacrificium deae Diae concepit, “(Caligola) aveva
compiuto un sacrificio con formula rituale alla dea Dia su un altare all’aria
aperta, nella sua casa, che era stata del nonno (per adozione) Tiberio Cesare”
(Acta fratrum Arvalium, 40-42). L’evento dimostra che Caligola aveva ereditato
la casa già di Tiberio e prima ancora di suo padre. D’altra parte è da
presupporre che la domus Tiberi, identificata con la casa 10, avesse generato
accanto a sé la domus Tiberiana, come la domus Augusti ha generato poi la domus
Augustiana, come la domus Germanici infine ha generato la domus Gai Caligolae e
come la domus dei Domizi Neroni ha generato infine la residenza sulla Velia
appartenente alla domus Aurea di Nerone.
Nel 14 d.C. Tiberio, novello princeps, lascia la casa avita e va ad abitare nella
parte pubblica della casa di Augusto, perché quella privata era occupata da
Livia e fungeva probabilmente anche da sede centrale dei sodales Augustales (si
veda l’Angolo 10 e 19). Nel frattempo Tiberio, stufo della madre assai
invadente, aveva cominciato a costruire la domus Tiberiana, prosecuzione verso
settentrione della domus Tiberi (case 10-12), ma mai però inglobata
architettonicamente nel nuovo palazzo.
Le case 7-9. La domus Tiberiana, nota anche come Tibereia aula (Stazio, Le selve,
3.3.67), è stata edificata: sopra le case 7-8 bruciate nel 25 a.C., sopra la porticus
Catuli trasformata ancora una volta – dopo Clodio – in amplissimum peristylium,
ora dotato di grande piscina (lotto 9) e sopra i fronti di altre case vicine (5, 6a,
10-12). Questi spazi avevano costituito la insula di Clodio, il nobilissimo
Claudio Pulchro dal nome plebeizzato. Era diventata poi la casa di Antonio,
passata, dopo la sua morte, a Ottaviano e poi da lui concessa per il lotto 8 ad
Agrippa, al di sopra degli horrea Agrippiana, e per il lotto 7 a M. Valerio
Messalla Corvino, che a suo tempo era stato maestro di Tiberio. Queste case,
distrutte da un incendio nel 25 a.C., potrebbero aver accolto, una volta
ristrutturate, più che Vipsania Agrippina figlia di Agrippa che aveva sposato
Tiberio nel 20 a.C., da immaginare nella casa già di Pompeo e di Antonio alle
Carinae, Agrippa e Giulia, ove a un certo momento avessero lasciato la domus
Augusti. Insomma, tra fine anni ’10 e inizi anni ’20 Tiberio è stato il primo
principe a possedere due palazzi sul Palatino: la domus Augusti e la domus Tiberi
unita al primo nucleo della domus Tiberiana. Nel 27 d.C. il principe si ritirerà a
Capri, dove nel 37 morirà.
La casa 3 (tempo dopo). Caligola aveva smantellato la domus Augusti, vendendone
miserabilmente gli arredi, probabilmente si era disinteressato della domus
Tiberiana e nei suoi pochi anni di principato ha edificato solamente la propria
domus Gai, che si trovava subito al di sotto della domus Germanici, quasi un suo
prolungamento verso il Foro. Claudio, al contrario, ha ripreso a vivere da
principe nella parte pubblica della domus Augusti, già abitata da Tiberio, ch’egli
ha completamente ristrutturato. Inoltre, aveva proseguito i lavori di Tiberio
nella domus Tiberiana (come indica una fistula bollata), dotando entrambe le
residenze sul Palatino di una basilica (si veda l’Angolo 15).
Gli Statili, terza grande famiglia della corte augustea ospitata nel sommo
quartiere del Palatino, avevano occupato la casa 6, che era stata di Cicerone, e
forse anche la casa 4, già di suo fratello Quinto, sicuramente fino al 30 d.C.,
ma forse anche negli anni di Claudio. Infatti Tauro Statilio Corvino, nipote di
Statilio Sisenna, che in quella casa aveva abitato, è stato spinto al suicidio nel
53 d.C. da una accusa mossa da Agrippina II, che voleva impossessarsi dei suoi
giardini. Tolto di mezzo dal luogo più splendido del monte l’ultimo
rimasuglio ancora radicato nella corte augustea, Nerone ha disposto dello
spazio necessario per ingrandire la domus Tiberiana dopo l’incendio del 64.
Così la casa degli Statili è stata inglobata sotto l’angolo nord-occidentale
dell’ormai vastissimo palazzo; mentre il giardino nella pars inferior della stessa
casa (6) e la casa sottostante (5) sono finiti sotto la nuova magniloquente
scalinata che dava accesso alla domus Tiberiana dalla Sacra via. Da questo
momento il clivo Palatino A è stato chiuso per sempre al pubblico, per cui il
clivo Palatino B è diventato per la prima volta il percorso principale del
monte. Le case 2 e 3 sono state distrutte per dar luogo agli annessi della domus
Tiberiana disposti lungo il fronte settentrionale del palazzo. Infine la casa 1 è
stata sepolta sotto l’area porticata di Nerone che poi conterrà gli horrea
Vespasiani. In conclusione, i 12 lotti, già dimore storiche del quartiere più
elegante del Palatino, sono scomparsi tutti sotto la domus Tiberiana, salvo la
domus Tiberi che l’aveva generata. Fine di un mondo!
Nel 5 d.C. Germanico ha lasciato la dimora di sua madre Antonia e forse già
di sua nonna Ottavia, identificabile con la casa 2, ed è andato ad abitare con la
moglie Agrippina I nella casa 3, diventata la domus Germanici. Dominava le
case sopra le quali sorgerà la domus Gai, cioè di Caligola o “Stivaletto”.
Quest’ultima ci appare come una sorta di domus Germaniciana, generata cioè
dalla domus Germanici. Tra Nerone e Domiziano la domus Germanici
ristrutturata e la domus Gai verranno assorbite nella domus Tiberiana, oramai
prolungata verso il Foro grazie a una enorme aula di ricevimento, volta a
controbilanciare quella, anch’essa suntuosissima, della domus Augustiana (fig.
19). Essendo la posizione della domus Gai archeologicamente nota e sapendo
da Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, 19.74 sgg.) che era contigua alla domus
Germanici, finiamo per sapere anche dove quest’ultima si trovava, cioè nel
lotto 3. In questa casa, tra il 6 e il 18 d.C., sono nati, da Agrippina I e da
Germanico, numerosi figli, tra i quali Caligola e Agrippina II, madre di
Nerone e futura sposa di Claudio.
Nel 19 d.C. Agrippina, vedova di Germanico, ha continuato ad abitare nella
domus Germanici fino al 27 d.C. In quell’anno lei e suo figlio Nerone sono stati
arrestati e mandati due anni dopo in esilio: lei a Pandataria o Pianosa, dove nel
33 d.C. morirà di frustate, che le avevano anche cavato un occhio, e di stenti
(contemporaneamente è stata eliminata anche Plancina, che aveva fatto
avvelenare suo marito); lui, a Pontia/Ponza, costretto a suicidarsi nel 31 d.C.
Ah, se si fosse conservata l’autobiografia di Agrippina!
Dal 27 Caligola, le sorelle Drusilla e Livilla II e lo zio Claudio hanno trovato
riparo nella domus Augusti, protetti da Livia fino al 29, anno in cui l’Augusta
ottantaseienne è morta. Tra il 29 e il 37 d.C. il palazzo di Augusto è rimasto
vuoto, poi anche spogliato da Caligola. Nel 31 d.C., nella sua ima pars, è stato
imprigionato il prefetto al pretorio Seiano prima della condanna a morte, e tra
il 30 e il 33 d.C., sempre nella ima pars, è stato imprigionato, percosso e
lasciato morire di fame (aveva divorato la paglia del materasso) il povero Druso
III. Dal 29 d.C. Gaio/Caligola e Claudio hanno trovato riparo da Antonia
nella casa 2, ma dal 32 d.C. Gaio è stato convocato a Capri da Tiberio. Dei
figli di Agrippina I erano sopravvissuti solamente Drusilla (morirà e verrà
eccezionalmente consacrata nel 38 d.C.), Gaio/Caligola (morirà trucidato nel
41 d.C.) e Livilla II (morirà di inedia a Pandataria o Ventotene nel 41 d.C.).
Le ceneri di Agrippina saranno accolte nel mausoleo di Augusto solamente da
suo figlio Gaio/Caligola, una volta ottenuto il principato.
L’intera progenie maschile di Agrippina era stata sterminata tra il 27 e il 33,
tranne Gaio/Caligola, salvato da Tiberio a Capri forse per lealtà ad Augusto, il
quale aveva voluto che a succedergli fosse un discendente di Germanico;
d’altra parte di Tiberio Gemello, figlio di Livilla sorella di Germanico, si
ignorava il padre: Druso II o l’orribile Seiano?
Nominato al principato nel 37 d.C., Gaio/Caligola ha vissuto probabilmente
prima nella vuota domus Germanici, poi nel 39 nel suburbio e infine nel 40 e 41
nella nuova domus Gai, di cui la domus Germanici era diventata una dépendance.
La casa 2. Accanto alla domus Germanici (casa 3) era la casa 2, che diventerà
infine la domus Claudi. Si trovava lungo la “strada diretta” descritta da
Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, 19.74 sgg.), identificabile con il
drittissimo clivo Palatino A. Si affacciava anch’essa su lucus Vestae e Velia,
subito al di sopra della casa 1. Era entrata a far parte della proprietà di
Ottaviano forse già nel 32 a.C., quando potrebbe essere stata occupata da sua
sorella Ottavia dopo che, ripudiata, aveva lasciato la casa di Antonio (7-8). Si
era portata con sé in quella casa un seguito largo di giovinetti: M. Marcello,
che sposerà Giulia figlia di Ottaviano e Scribonia; Marcella II, che sposerà
Agrippa; Marcella I; Giuba II, figlio del re di Numidia e futuro re della
Mauretania; il liberto Igino, che diventerà bibliotecario del palazzo; i figli di
Antonio e Fausta Antillo e Iullo Antonio, che diventerà amante di Giulia e
cospiratore con lei contro Augusto; dal 30 a.C. i figli di Antonio e Cleopatra,
Alessandro Elio, Cleopatra Selene e Tolemeo Filadelfo. Seguiranno i
matrimoni fra Giuba II e Cleopatra Selene, fra Iullo Antonio e Marcella (già
moglie di Agrippa) e fra M. Marcello e Giulia. L’ospitalità internazionale di
Ottavia verrà in seguito ripresa da Antonia, figlia di Antonio, sempre nella
stessa casa 2.
Nel 16 a.C. Antonia, figlia di Ottavia e di Antonio, aveva sposato Druso
fratello di Tiberio, principe al quale rimarrà fedele, contro le trame ordite
nella vicina casa 2. Potrebbe aver continuato a vivere con Druso nella casa 2,
dove sua madre Ottavia, ripudiata da Antonio nel 32 a.C., era andata
probabilmente ad abitare fino a quando è stata relegata a
Pandataria/Ventotene, dove intorno all’11 a.C. morirà. In questa dimora sono
nati nel 15 a.C. Germanico e nel 10 a.C. Claudio. Nel 9 a.C. Druso muore e
Antonia lascia la casa 2 e va a vivere, con ampio seguito familiare, nella domus
Augusti, ospite di Livia (nell’appartamento al primo piano dove già potevano
aver abitato Agrippa e Giulia?). Dal 29 d.C. Antonia torna a vivere nella casa
2, portando con sé Claudio e Gaio/Caligola con le sue due sorelle. Qui essa ha
abitato fino al 37 d.C., quando la grande e ospitale vedova di Druso – la più
importante signora di Roma, dopo la morte di Livia – muore, costretta forse a
suicidarsi. Antonia, figlia di Antonio, aveva stabilito numerosi nessi e
parentele con varie case regnanti dell’Oriente, i cui membri erano stati suoi
ospiti, alla maniera inaugurata da Ottavia: Giulio Agrippa poi diventato re di
Giudea, Antioco IV Epifane poi divenuto re di Commagene e i principi figli
di Coti re dei Traci, a cui sono andati poi i regni tra il Mar Nero e l’Armenia
Minore. È da personaggi di tal fatta, oltre che dalla tradizione delle donne
Giulie, che Caligola ha appreso il gusto per il dispotismo, che i suoi
predecessori avevano saputo evitare.
Dal 37 d.C. Claudio ha vissuto nella domus Claudi, che era stata della madre e
forse anche della nonna, oramai insieme alla terza moglie, Valeria Messalina,
da cui ha avuto Ottavia, futura moglie di Nerone, e lo sventurato Britannico.
È da questa domus che nel 41 d.C. Claudio è stato prelevato per essere
nominato successore di Caligola trucidato (si veda l’Angolo 16). È andato allora
ad abitare nella casa pubblica di Augusto, dotata ora di una piscina-ninfeo e di
una basilica, probabilmente da identificare con la aedes Caesarum (cil, VI 7265),
se teniamo conto che nella basilica vitruviana era prevista una aedes Augusti (si
veda l’Angolo 15). Era questo il monumento dinastico dei Cesari sul Palatino,
a cui corrispondeva quello nella casa natale di Augusto (si veda l’Angolo 9). Nel
44 d.C. Claudio ha fatto appendere al fastigium del vestibulum della domus
Augusti una corona navale in occasione del suo trionfo sulla Britannia. In
questa stessa casa ha celebrato nel 47 d.C. i ludi Saeculares, otto secoli dopo la
fondazione di Roma e venti anni dopo la rifondazione di Roma da parte di
Augusto. Sui gradini del vestibulum della domus Augusti farà la sua prima
comparsa Nerone, successore di Claudio, morto avvelenato da sua moglie
Agrippina II.
Nel 48 d.C. Messalina, insieme all’amante G. Silio che nel frattempo aveva
sposato, aveva inscenato, pensiamo proprio nella domus Augusti, una
vendemmia in stile dionisiaco, tra mosto che scorreva e baccanti scatenate. La
scena può essere ricostruita davanti alla fontana di Bacco, che si trovava sul
fronte della domus Augusti (si veda l’Angolo 11, fig. 12, 11-12).
Claudio ha poi ristrutturato anche la domus Tiberiana (lo attesta una fistula con
il suo nome trovata in un rifacimento delle sostruzioni, per cui il primo
nucleo del palazzo precede), dotando anch’essa di una basilica. Intanto la domus
Gai, scissa finalmente dal tempio dei Castori e dal ponte rivolto al
Campidoglio evidentemente eliminato, viene ristrutturata, ma non si sa a qual
fine; essa verrà distrutta da Domiziano quando estenderà domus Tiberiana verso
il Foro. Morta Messalina, Claudio ha sposato Agrippina II e nel 50 d.C. ha
adottato suo figlio Nerone, anteponendolo a Britannico. Nel 54 d.C.
Agrippina II fa avvelenare il liberto Narcisso e infine lo stesso Claudio,
ricorrendo ai funghi ch’egli prediligeva e diventando poi la sacerdotessa del
marito divinizzato. Quale incredibile famiglia, che ha superato in aberrazioni
perfino la decadenza e la caduta dell’aristocrazia britannica.
Nel 55 d.C. la casa 2 accoglierà probabilmente – ultima ospite della famiglia
Giulia – Agrippina II, quando suo figlio Nerone l’aveva estromessa dal
palazzo. In questa dimora la signora in disgrazia rimarrà fino al 59 d.C., anno
in cui verrà fatta uccidere dal figlio nella sua villa di Bacoli. Dopo il 64 d.C. la
casa 2 e la casa 3 vengono distrutte e seppellite sotto gli edifici di servizio che
erano venuti a interporsi tra la facciata nord della domus Tiberiana e la Sacra via.
Così le due postazioni domestiche, sedi dei due opposti partiti, uno
favorevole al principato voluto da Augusto e l’altro favorevole al dispotismo,
scompaiono sotto la reggia del despota supremo, l’anti-Cristo che è anche
l’ultimo dei Cesari, Nerone.
Atlas, tavv. 64, 70, 76, 77, 79, 281. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 78-
138.
14.
La casa di Cicerone
(FIGG. 15 E 16)

La casa di Cicerone occupava due lotti (6a). In quello più a sud-est era
l’entrata. Lo immaginiamo composto dal quartiere dell’atrio, con dietro quello
di un piccolo hortus o cortile. Il cubiculum dell’oratore si trovava entrando a
destra, visto che in una notte del 57 a.C. l’oratore aveva sentito russare M.
Claudio Marcello nell’unica casa annessa (5); quindi il cubiculum del russatore
doveva trovarsi entrando in questa casa a sinistra. Il lotto più a nord-ovest
costituiva il cuore rappresentativo della casa: la palaestra ornata da una statua di
Minerva (portata in seguito dall’oratore in Campidoglio): una Academia
ateniese trasferita in Roma; la villa di Tusculum dell’oratore era dotata sia di
una Academia che di un Lycaeum, probabilmente su due livelli, come i due
giardini nella villa di Settefinestre (Carandini 1985). La palestra era dotata
probabilmente su un lato di due biblioteche, una greca e l’altra latina,
affiancate al triclinium, come nella casa di Ortensio/Ottaviano e soprattutto
come sarà nella dimora ricostruita di Cicerone. Sull’altro lato erano invece
stanze contenenti un balneum con laconicum, la stanzetta per sudare. Così la
palaestra aveva un settore riservato a banchetti e alla vita dell’intelletto e un
altro riservato alla vita sportiva e termale, come era conseguente in un
gymnasium. Nella palaestra dell’ultima fase era un praticello o pratulus, con una
statua di Platone e una panchina, da immaginarsi nella parte scoperta della
palaestra. Un’ambulatio/xystus, cioè uno spazio lungo e stretto per correre o
passeggiare, era stata aggiunta sui due lati della casa, quelli liberi e con vista,
parte della quale era posta al di sopra di un vicus tectus, lo stesso in cui
probabilmente verrà ucciso Caligola (si veda l’Angolo 16).
L’ambulatio si affacciava nel lato lungo sulla casa 4 del fratello Quinto, con la
quale aveva appunto un muro in comune, e su un hortus (fig. 15, 6b), situati
entrambi a un livello inferiore (con un dislivello di m 7,5). All’hortus della pars
inferior si poteva scendere probabilmente tramite una rampa, che poteva partire
dall’ambulatio. Nel 58 a.C. Cicerone è stato costretto all’esilio per aver
condannato a morte senza processo i seguaci di Catilina. Di conseguenza la
sua casa è stata confiscata. La palaestra con triclinium e bibliothecae è stata allora
distrutta, le colonne, recuperate da L. Calpurnio Pisone Cesonino; si sono
salvati invece i conclavia dove era il balneum e probabilmente tutto il lotto
dell’entrata, ormai a disposizione di Clodio, che nel frattempo aveva inglobato
anche la porticus Catuli, dove era il culto di Fortuna huiusce diei. Il tufo naturale
imminente, su cui erano state erette la palaestra e le sale, è stato allora scavato,
lungo il limite del lotto, fino al livello del vicus huiusce diei e lo spazio che ne è
risultato è stato consacrato alla Libertas, alla quale viene eretta allora una statua,
un altare e alcune stanze per il culto, tracce delle quali sono state rinvenute,
consentendo in tal modo di identificare e ricostruire la casa dell’oratore.
Nel 57 a.C. Cicerone torna dall’esilio, rientra in possesso della casa e riceve 2
milioni di sesterzi per l’indispensabile ripristino. L’area della Libertas viene
sconsacrata e viene trasformata in un balneum, dotato di laconicum rettangolare
per sudare e di sale scaldate e altri spazi coperti a volte. Tutti questi spazi erano
destinati a sostenere la nuova palaestra, le sue nuove sale corrispondono a
quelle scaldate sottostanti. I conclavia già andati a Clodio sono ora tornati in
possesso dell’oratore (privati si può pensare di ogni attrezzatura balneare,
ormai prevista al piano inferiore). Nel frattempo la porticus Catuli (lotto 9),
inglobata anch’essa nella casa di Clodio, era stata restituta, restituita cioè al
culto pubblico e questi lavori di ripristino erano terminati nel 54 a.C. Tra le
sale aperte sulla palaestra era al centro un triclinium, probabilmente affiancato da
due bibliothecae, una greca e l’altra latina. È nell’ambulatio e nella palaestra, dotata
di statua di Platone, praticello e panchina, che Cicerone ha ambientato la sua
opera Brutus (46 a.C.). Nel 45 a.C. muoiono la figlia Tullia e il suo bambino e
Cicerone, disperato, abbandona la casa. Nel 43 a.C., prima di venire
proscritto e ucciso, l’oratore aveva fantasticato di recarsi nella casa di
Ottaviano e lì di suicidarsi sul focolare per attirarvi il demone della vendetta.
Questa casa (3) si trovava subito al di sotto dell’hortus dell’oratore accolto nella
pars inferior della sua casa.
Atlas, tavv. 64, 70, 281. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 128-137.
15.
Avere una basilica in casa
(FIG. 17)

Dopo il 14 d.C. Tiberio ha edificato, a partire dalla sua avita domus Tiberii, la
prima versione della domus Tiberiana, che finirà per inghiottire gran parte delle
precedenti case del quartiere più bello del Palatino (Atlas, tavv. 70 e 76; si
veda l’Angolo 8 e 13). Lungo il clivo Palatino A è sorto un palazzo nuovo e
rettangolare, che aveva sul fronte rivolto al Velabrum, al Foro, all’Arce e al
Campidoglio un hortus pensilis (fig. 17, 1), bordato da un triportico (fig. 17, 2)
e dotato di una grande piscina (fig. 17, 3). A questo giardino si perveniva dal
palazzo tramite due corridoi (fig. 17, 4) e due sale alle sue estremità si aprivano
su di esso (fig. 17, 5). Invece le tre sale centrali – oecus (fig. 17, 6) con triclinia
(fig. 17, 7) ai lati – e i quattro cubicula accanto ai triclinia (fig. 17, 8) erano
rivolti al peristylium (fig. 17, 9), sul quale si aprivano anche due appartamenti
secondari, composti da un oecus, due corridoi e quattro cubicula. Si trattava di
coppie di cubicula indipendenti oppure di un cubiculum dotato di anticamera,
come sarà dopo il 64 d.C. nell’atrium delle vestali (Atlas, tav. 44; si veda
l’Angolo 2) e nel complesso del nymphaeum aggiunto subito al di fuori della
domus Augusti (Atlas, tav. 75).
Claudio si è accontentato dei due appartamenti secondari della domus
Tiberiana e al posto delle tre sale e dei quattro cubicula centrali ha edificato una
basilica, cioè un salone grandissimo sostenuto da 12 colonne (mq 610,5, poco
più di un quarto della basilica Paulli, di mq 2317,5). Già Vitruvio
(Sull’architettura, 4) aveva previsto “per i nobili, che nella gestione di cariche e
magistrature devono adempiere ai loro obblighi..., biblioteche, pinacoteche e
basiliche, costruite con la stessa magnificenza delle opere pubbliche, perché
nelle loro case si tengono spesso pubblici consigli, giudizi privati e arbitrati”.
Con Claudio, o al più tardi con Nerone, comunque prima del 64 d.C., anche
la domus Publica di Augusto viene ristrutturata. Al posto del compluvium di Vesta
viene eretta una basilica absidata, maggiore di quella della domus Tiberiana,
sostenuta da 14 colonne (mq 722,8, poco più di un terzo della basilica Paulli)
–, dopo il 64 d.C. dotata di un pavimento in tarsie marmoree e al suo interno
di un’ampia piscina. Il portico delle Danaidi, con il tempio di Apollo, la curia
per il senato e la basilica rassomigliava sempre più a un foro. Già Claudio era
ricorso a giudizi segreti, come quello intentato a Valerio Asiatico, che era stato
interrogato davanti a Valeria Messalina (Tacito, Annali, 11.3). Sorge in
seguito, davanti alla basilica, uno straordinario e complicato nymphaeum,
affiancato da due appartamenti, su due piani, composti da triclinium (fig. 17, 7),
anticamera e cubiculum (fig. 17, 8). Si è trattato di un primo e poco organico
raccordo fra le domus Augusti e Augustiana (Atlas, tavv. 70-72, 80-83; qui, figg.
11 e 19).
Dopo il 69 d.C. Vespasiano abolisce piscina e ninfeo, estende su un lato la
basilica per includervi sette basi di statue imperiali, trasformandola così in
Augusteum, e davanti alla basilica allestisce una piscina/vivarium rotonda, che al
centro aveva un’isola, tonda anch’essa, sulla quale erigeva probabilmente una
cenatio rotunda, collegata a terra da quattro ponticelli; questa invenzione ha
rappresentato un più organico ma sempre insoddisfacente raccordo fra le
domus Augusti e Augustiana (Atlas, tavv. 70-72, 80-83; qui, figg. 11 e 19).
Atlas, tavv. 70, 75-76. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 273-284.
16.
La casa di Caligola, presso la quale è stato ucciso
(FIG. 18)

Caligola ha voluto costruire una propria casa al di sotto delle case palatine che
si trovavano a settentrione della domus Tiberiana, più precisamente tra il vicus
huiusce diei, la infima Nova via, il vicus Tuscus e gli horrea Agrippiana, obliterando
in quello spazio due o tre precedenti case. Vi si entrava dall’alto del Palatino
tramite due rampe, una maggiore e una minore, che conducevano al
peristylium. Vi si accedeva soprattutto dal basso, tramite l’aedes Castoris
trasformata in vestibulum della casa, alla quale era collegata tramite un
ponticello sopra l’infima Nova via. La casa aveva un piano interrato, riservato
soprattutto a servizi e ad ambienti freschi per la stagione estiva, il quale
formava il basamento variamente voltato della dimora. Sul fronte della casa,
rivolto al vicus Tuscus, al Velabrum e al templum novum divi Augusti, era un
maenianum, basato su un ambiente voltato sottostante, dietro il quale era una
corte con al centro, su un podio, il templum numinis Gai, che conteneva la
statua dorata del principe. Sotto la corte era una cryptoporticus, dalla quale si
entrava nel basamento del tempio. L’ambiente d’ingresso, un oecus preceduto
da piccola anticamera, e un’altra sala si aprivano sulla corte. Scale
conducevano al piano di sopra. Sul retro della casa, era il peristylium con
sottostante cryptoporticus collegata a quella sotto la corte, dotato forse fin da ora
di una piscina, con due ambienti, forse grandi cubicula, che si aprivano da un
lato su di esso, mentre di fronte era un oecus Cyzicenus, con gli abituali due
triclinia ai lati: il complesso di sale principale, sorretto anch’esso da ambienti
voltati sottostanti. La casa era collegata non solo con l’aedes Castoris, ma anche
con il tempio di Giove sul Campidoglio tramite un alto ponte, che partiva
probabilmente dall’oecus affacciato sulla corte, che passava sopra il templum
novum divi Augusti e che raggiungeva l’area davanti al tempio capitolino, nella
quale era una seconda casa del principe, quasi ch’egli volesse coabitare con la
divinità ottima e massima. Questo era l’assetto della casa intorno al 40 e 41
d.C. (si veda fig. 9).
Dopo l’uccisione di Caligola, nel 41, il peristylium viene ingrandito e dotato
di una ampia piscina, riducendo così lo spazio per la rampa maggiore, che
allora deve essere stata ristrutturata. Così si è creato anche lo spazio per dar
luogo verso sud-ovest a tre nuove sale, quella centrale dotata di un padiglione
che si protendeva avanti sia nel basamento che nel piano principale,
interrompendo la porticus del peristylium, onde consentirle di affacciarsi
scenograficamente sulla piscina. Altre piccole modifiche hanno riguardato gli
ambienti della corte. Dunque, la dimora è stata ingrandita, molto
probabilmente da Claudio, che potrebbe averla usata come diversivo rispetto
alla ormai troppo angusta casa pubblica di Augusto invasa dalla basilica e
durante la ristrutturazione della domus Tiberiana attestata da una sua fistula
bollata. Si può immaginare che il templum numinis Gai sia stato trasformato
allora nel Lararium del successore.
È possibile individuare anche il luogo dove Caligola è stato ucciso. Il 24
gennaio del 41 d.C. Caligola ha approfittato di un intervallo dei ludi Palatini,
che si svolgevano tra la casa di Augusto e il tempio della Magna Mater, per fare
un bagno e rifocillarsi in casa sua. Dal vicus retrostante il tempio di Magna
Mater, Caligola e Claudio avevano imboccato la “strada diretta (alla Sacra via)”
di Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, 19.117), cioè il clivo Palatino A, la
quale costeggiava il “palazzo”, cioè la domus Tiberiana. Subito dopo, Caligola
aveva piegato a sinistra, per una scorciatoia solitaria e tecta, detta crypta, entro la
quale giovani dall’Asia stavano provando canti e balli (Svetonio, Vita di
Caligola, 58) per gli stessi ludi. Si trattava probabilmente del vicus tectus che
passava sotto le ambulationes delle case 5 e 6a (si veda l’Angolo 13, fig. 16).
Questa stradina coperta portava al vicus huiusce Diei, in un punto che si trovava
a m 19 dall’ingresso alla rampa principale che scendeva alla domus Gai. È in
questa crypta che Caligola è stato bloccato e trucidato. Subito dopo sono state
uccise sua moglie e sua figlia nella vicina loro dimora. Al contrario di Caligola,
Claudio aveva proseguito lungo la “strada diretta”, fino a raggiungere la sua
casa, la domus Claudi da identificare nella casa 2, che sulla “strada dritta”, cioè
sul clivo Palatino A, aveva il suo ingresso. In questa casa Claudio era andato,
ma appena saputo della uccisione del principe si era rifugiato spaventato in
una sala o diaeta ornata di erme, chiamata Hermaeum. La sala doveva essere
ornata anche da nicchie – forse alternate alle erme – se in una di esse Claudio
si era nascosto. Sappiamo anche che questo Hermaeum si apriva su un terrazzo
o solarium, facilmente immaginabile sopra la fila di tabernae aperte sul vicus che
passava sopra il nemus Vestae (si veda l’Angolo 13, casa 2).
È possibile che la casa già di Caligola fosse usata, poi, da liberti ultrapotenti,
quali Pallante, il segretario a rationibus di Claudio devoto ad Agrippina e
mandato a morte nel 62 d.C., e quale Elio, che governava Roma mentre
Nerone era in Grecia. La casa dovette pertanto decadere ulteriormente sotto
Vespasiano, quando, tra il 69 d.C. e il 70 d.C., G. Licinio Muciano governava
Roma impegnato nei lavori della domus Augustiana e dintorni. La dimora è
stata infine obliterata dalle costruzioni di Domiziano, a partire dalla grande
aula di ricevimento, che potrebbe essere stata nominata Germaniciana, come
poi gli horrea che vi si installeranno nel IV secolo d.C., in memoria dei tre
principi nominati, oltre che Caesar Augustus, Germanicus e cioè a dire Gaio,
Claudio e Nerone.
Atlas, tavv. 47, 76. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 266-271.
17.
Dove abitava il bibliotecario di Domiziano?
(FIG. 19, A)

Marziale ha chiesto al libro primo dei suoi Epigrammi, da lui personificato, di


portare i propri saluti alla splendida dimora in cui abitava G. Giulio Proculo
(Epigramma, 1.70). Era una casa all’interno della domus Augustiana e Proculo
era forse a quel tempo un potente liberto a studiis o comunque un
bibliotecario, allo stesso modo in cui lo erano stati Igino al tempo di Augusto
e il suo successore Modesto (Svetonio, Vita dei grammatici, 20).
Il poeta ha descritto l’itinerario che il libro nella sua fantasia ha seguito per
raggiungere quella meta, l’unico a quel tempo possibile (Atlas, tav. 272).
Articoliamo l’itinerario in tappe: (a) la aedes Castoris nel foro; (b) il clivo Sacro
o Sacra via, percorso salendo in direzione del Palatino; (c) il colossus Solis
(eretto da Vespasiano nel 75 d.C. entro il vestibulum della domus Aurea,
demolita per il resto onde dar luogo all’amphitheatrum); (d) pervenuto in cima
al clivo Sacro, il libro voltava a destra e imboccava, sempre salendo, il c.d.
clivo Palatino B; (e) doveva incontrare le statue di Domiziano (quelle ornanti
l’arcus che immetteva nell’area Palatina); (f) doveva imboccare e percorrere il
vicus tectus che si interponeva tra la domus Tiberiana e l’area Palatina, per
sboccare all’estremità sud di quello che era stato il c.d. clivo Palatino A; (g)
doveva quindi girare a sinistra, verso le scalae Caci; (h) doveva pervenire
all’atrium della casa privata di Augusto, dove erano (i) il culto di Bacco
(addossato alla parete esterna della casa) e (l) il vicino culto di Cibele o della
Magna Mater; (m) raggiungere quindi l’ultima tappa, cioè la bibliotheca Apollinis
(fig. 19, 1), alla quale Domiziano aveva aggiunto una seconda bibliotheca (fig.
19, 2), dalle quali si poteva penetrare – siamo qui già nella splendida domus
Augustiana – nella casa del bibliotecario Proculo.
I bibliotecari Igino e Modesto potevano aver abitato nella ima pars Palatii, al
di sotto della silva Apollinis e dell’ara della Roma Quadrata, dove era alloggiata la
familia Caesaris (fig. 14). Con Domiziano la biblioteca era stata raddoppiata e
tra i loro retri, la parte intima della domus Augustiana (si veda l’Angolo 18, fig.
19, B), la cenatio Iovis/aedes Divorum (fig. 19, 4) e gli ambienti a est delle rampe
(fig. 19, 52), era stata edificata una residenza importante, incentrata su un oecus
Cyzicenus (fig. 19, 5) e sui triclinia ai suoi lati (fig. 19, 6), di cui uno
comunicava direttamente con la bibliotheca Apollinis (fig. 19, 7). L’oecus
Cyzicenus dava su un piccolo peristylium (fig. 19, 8), affiancato forse da due
cubicula (fig. 19, 9), mentre altri due peristylia (fig. 19, 10) affiancavano e
delimitavano il complesso. Tra le biblioteche e questa casa era un irregolare
cortiletto di servizio (fig. 19, 3), comunicante da una parte con le due
bibliothecae e dall’altra con una scala che portava al piano superiore della casa di
Proculo, che immaginiamo analogo a quello sottostante e in comunicazione
con il ballatoio della bibliotheca Apollinis. Non afferivano invece a questa casa le
tre stanze poste a nord delle biblioteche (fig. 19, 11), dedicate al servizio della
cenatio Iovis, come indicano i due ingressi che portano a quel complesso. Per la
collocazione e la posizione a parte e in un ritaglio di spazio, al di fuori dei
palazzi imperiali seppure con questi comunicante, questa casa degli studia
poteva accogliere l’imperatore, alti funzionari e ospiti illustri, che intendevano
comodamente consultare tavolette e rotoli provenienti dai due piani delle
biblioteche e poteva alloggiare altresì – forse proprio al piano superiore – il
bibliotecario di palazzo Proculo e i suoi successori. I due peristylia ai lati della
casa potevano servire a personaggi meno importanti, per consultazioni e
letture. Immaginare il bibliotecario vivere immediatamente sul retro della
bibliotheca Apollinis, si potrebbe dire proprio all’ombra delle loro due moli, pare
del tutto congruo. Il raddoppio della biblioteca deve essersi accompagnato a
una elevazione del rango del bibliotecario.
Atlas, tavv. 80-81, 83, 273, ill. 13. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 220-
221.
18.
Grandi aule e parte intima della domus Augustiana
(FIG. 19, B)

È stato Nerone a inventarsi una estensione della domus Augusti, un palazzo


nuovo chiamato domus Augustiana, che aveva un salone principale di
accoglienza affacciato per la prima volta sul c.d. clivo Palatino B, diventata
allora la strada principale di accesso ai palazzi legati alla memoria di Augusto.
Tanto ormai valeva questa strada, che il palazzo di Nerone ne aveva assunto
l’orientamento, il quale cozzava con quello della domus Augusti, tanto che la
nuova reggia ne rasentava un angolo (Atlas, tav. 110). Dopo il 64 d.C. questo
clivo di recente importanza è stato rettificato e una rinnovata domus Augustiana
ha potuto finalmente armonizzarsi con l’orientamento solo leggermente
divergente della domus Augusti. In tale modo si è venuta a creare l’area Palatina,
alla confluenza dei due palazzi, luogo usato per le esternazioni pubbliche del
principe. È su questa area che affacciavano ormai le grandi aule di
accoglimento nelle tre differenti versioni di Nerone, Vespasiano e Domiziano
(Atlas, tav. 82). Dietro a scalinate e a una porticus a “L” (fig. 19, 11) spiccava il
salone definitivo di Domiziano – la cosiddetta “aula regia” (fig. 19, 12) –
affiancato da due altre aule minori: una basilica absidata con scalette sul retro
che consentivano di salire agli stretti spazi del secondo ordine (fig. 19, 13) e
un’aula più piccola e bassa, che accoglieva probabilmente una statua colossale
di Domiziano (fig. 19, 14). L’aula di accoglimento era una sorta di atrium
coperto, eppure luminosissimo come un’aula celeste, grazie al sovrastante
claristorio, fortunatamente rappresentato in una moneta (si veda oltre), che
gettava fasci di sole. L’aula immetteva poi nel peristylium (fig. 19, 15),
affiancato e concluso da un sistema di triclinia, minori sui due lati (fig. 19, 16)
e che culminavano nel maggiore: la cenatio Iovis, identificabile anche con le
aedes Divorum (fig. 19, 4), l’edificio dei principi divinizzati dei Cesari e dei
Flavi, la quale aveva, al centro e sul fondo, il letto tricliniare del principe.
Proprio questo luogo del nuovo palazzo era stato innestato di proposito nella
domus Publica di Augusto, dotata da Claudio e da Nerone della basilica/aedes
Caesarum, trasformata da Domiziano in aedes Divorum quasi a rappresentarne la
gemmazione dal luogo più altamente simbolico del primo principato. In
questo palazzo, anch’esso tutto pubblico, il principe riceveva ma non viveva.
Domiziano amava le aule enormi che introducevano nei suoi palazzi. Erano
due, quella presso il Foro che introduceva alla domus Tiberiana (Atlas, tav. 48) e
questa della domus Augustiana (fig. 19, 12; si veda anche Atlas, tavv. 80-83; qui,
fig. 20).
A svelare il segreto dell’elevato dell’aula/atrium è, come si è accennato, un
sesterzio di Domiziano del 95-96 d.C. (fig. 19, 12), il quale riproduce la
facciata di questa aula. Essa appare coperta da un claristorium di tipo basilicale
ornato da statue, il quale aveva la forma di un tempio con dieci colonne
frontali o decastilo, coperto da un tetto ma vuoto all’interno, per cui dalle
colonne penetrava scandito lo splendore del cielo. Decastilo era il Pantheon
augusteo e anche questa aula palaziale conteneva le statue degli dèi, come
convocati nella corte olimpica dal dio sovrano Giove. La sala era rivestita da
due ordini architettonici, sui lati lunghi e al primo ordine con sei grandi
nicchie e edicole per accogliere statue colossali su podi e altrettante
leggermente più piccole sui lati lunghi del secondo ordine. Sul lato
dell’entrata le nicchie/edicole erano due sotto e due sopra, mentre sul lato di
fondo e in basso ve ne era una sola grande e in alto due. Al centro del primo
ordine e di fronte all’entrata stava Giove, come se fosse lui il padrone di casa.
Degli altri dèi si sono conservati solo Ercole (fig. 19, 12) e Dioniso; sono in
marmo verde e di misura colossale (alti m 3,9), adatta al primo ordine. La
decorazione architettonica era massimamente fastosa (Atlas, figg. 65-66): basi
finemente lavorate, colonne di giallo antico e pavonazzetto, colonnine di
porfido, capitelli in marmo bianco, una sontuosa cornice e un fregio con
cataste di armi tolte a Germani vinti. Pareva la casa di Giove e degli altri dèi,
ma era in realtà quella del dominus et deus, lo stesso che aveva restaurato il
tempio di Giove ottimo Massimo. Al Museo Nazionale di Napoli frammenti
della decorazione di quest’aula di ricevimento sono presentati dal punto di
vista meramente collezionistico; manca ogni ricostruzione del contesto e
quindi ogni comprensione di cosa quei pezzi hanno significato in origine nel
loro insieme, una tipica perversione culturale italiana (l’unione di tutela e
valorizzazione nelle soprintendenze tradizionali non ha raramente garantito il
legame dei pezzi esposti con i monumenti e con i paesaggi da cui
provenivano).
Con il tempo, istituzioni e cerimonie erano mutati in questo palazzo. Dopo
il 306 d.C. all’aula di ricevimento domizianea è stata aggiunta una basilica,
inserita dove prima era stato il giardino o la corte d’ingresso (fig. 19, 17) alla
parte privata della domus Augustiana, ingresso ora abolito (si veda oltre). Ai lati
della basilica sono state conservate due aree verdi e al centro è stata edificata
una basilica ducenaria (fig. 19, 18) – lunga cioè 200 piedi, come le basiliche
costantiniane di Treviri e a Roma del Sessorium (Atlas, tav. 132). Questa
nuova basilica del palazzo era scaldata tramite la circolazione d’aria calda tra le
suspensurae che sostenevano il pavimento. L’abside, limitata da quattro
colonne, disponeva di un bancone per sedersi e aveva al centro un posto per il
trono imperiale. Si tratta probabilmente dell’auditorium o consistorium, un misto
di consiglio di stato e di corte di cassazione. Il lato nord dell’antistante
peristylium (fig. 19, 19) è stato ora rettificato, per somigliare a un nartece. La
piscina centrale viene in questo momento dotata di un ponte e di un
tempietto, posto in asse con la basilica ma non col peristilio stesso.
Architettonicamente un pasticcio, ma siamo agli esordi della tarda antichità. Il
palazzo appare oramai meno diviso nelle due parti in cui prima erano
confinate le funzioni pubbliche e private, per cui ha assunto ormai un
carattere più unitario.
La parte privata della domus Augustiana, di dimensioni meno grandiose
rispetto a quelle della parte pubblica, si apriva con un grande triportico (fig.
19, 17) che aveva uno spazio aperto, in un angolo del quale era un tempietto
(fig. 19, 20), forse consacrato a Minerva, la dea prediletta da Domiziano (è la
zona sopra descritta dove sorgerà la basilica ducenaria). Si passava poi a un
peristylium che aveva un lato ricurvo (fig. 19, 19). A ovest erano triclinia, in
comune con il peristylium della parte pubblica (fig. 19, 16): un oecus (fig. 19,
21) con ai lati due corridoi e due coppie di stanzette che parrebbero cubicula
ma che sono più probabilmente salette comunicanti tra di loro. Altri tre
triclinia sono a sud, dei quali quello al centro era anche rivolto verso la parte
più intima del palazzo (fig. 19, 22). A est erano una sala (fig. 19, 23) con due
triclinia a specchio (fig. 19, 24), aperti sul giardino in forma d’ippodromo o
gestatio (fig. 19, 25), dotato di enorme exedra semicircolare (fig. 19, 26) e di un
appartamentino fra le due turres dell’ippodromo (fig. 19, a sud di 27), dietro il
quale, verso nord, era una prima dépendance del palazzo (fig. 19, 28) rinfrescata
da un ninfeo, forse gli hospitalia oppure la casa di un alto funzionario. Una
seconda dépendance sorgeva dietro l’ippodromo (fig. 19, 29-30).
La parte più privata e più intima della domus Augustiana si trovava tra la zona
intorno al primo peristylium (fig. 19, 19), riservata ai triclinia (fig. 19, 22) e
pertanto a ricevimenti e feste – si direbbe una parte di carattere sia pubblico
che privato – e la zona riservatissima, con triclinia ed exedrae (fig. 19, 31)
annessi alla porticus o maenianum (fig. 19, 32) dalla quale il principe e i suoi
intimi osservavano le corse nel Circo. La parte intima della casa si disponeva
intorno al secondo peristylium (fig. 19, 33), il cui manierato giardino acquatico,
con isolette in forma di peltae (scudi a crescente), si trovava al livello
seminterrato degli interiora o penetralia Palatii. Solo una scala e una rampa con
scala collegavano i due piani (fig. 19, 47 e tra 41 e 50).
Questa parte intima del palazzo si apriva con due triclinia privati, quello a
ovest (fig. 19, 22) collegato a due cubicula (fig. 19, 36) aperti su un piccolo
peristilio affacciato su un bacino d’acqua posto al piano seminterrato (fig. 19,
37), e quello a est (fig. 19, 22) connesso a uno o due cubicula, forse aperti
anch’essi su un analogo piccolo peristilio. Tra i cubicula era una stanzetta che
poteva servire da Lararium oppure da camera-armadio (fig. 19, 39). Si trattava,
a ovest dell’appartamento dell’Augusto a partire da Domiziano, e a est, forse,
di quello della Augusta, a partire dalla poco amata sua moglie Domizia
Longina. Lungo i lati lunghi del peristylium erano a est il balneum (fig. 19, 40),
probabilmente quello usato da Domiziano prima d’essere ucciso (Svetonio,
Vita di Domiziano, 17), mentre a ovest erano al centro l’oecus o studio
dell’Augusto (fig. 19, a est di 42), preceduto da un’anticamera/exedra (fig. 19,
42) comunicante con il peristylium in modo da affacciarsi sul sottostante
giardino acquatico: un luogo non facile da ricostruire, ma ci aiuta la pianta del
seminterrato. L’oecus con exedra doveva accogliere la statua della Minerva
Palatina, dea di cui, al tempo di Domiziano, era cultor lo schiavo Sextus
(Marziale, Epigramma 5.5). L’oecus/exedra era affiancato da due portichetti
aperti su bacini d’acqua (fig. 19, 43), anch’essi posti al piano seminterrato e
l’exedra aveva ai lati due studioli. Era, se vogliamo, la Syracusae (fig. 12, 14) di
Domiziano, che comunicava con la domus del bibliotecario Proculo (fig. 19,
10; si veda inoltre l’Angolo 17), con le due bibliothecae (fig. 19, 1-2), con la
domus Augusti (fig. 19, 44-46) e con la cenatio Iovis/aedes Divorum (fig. 19, 4),
tutte strutture vicinissime tra loro. E centrali per l’esercizio del potere.
Nei penetralia si scendeva principalmente tramite una scala (fig. 19, 34) che
aveva al di sotto una latrina (fig. 19, 47). Accanto era il bacino d’acqua del
piccolo peristilio (fig. 19, 37), arricchito da un prezioso nymphaeum (fig. 19,
48). Proprio su questi ambienti si aprivano i due cubicula estivi dell’Augusto,
che tra di loro avevano, anche qui, il Lararium o la camera-armadio (fig. 19,
36, 39). Al tempo di Domiziano, un cubiculum era riservato a lui (mq 61,6) e
l’altro magari a una delle sue depilate concubine (Svetonio, Vita di Domiziano,
22) o a chiunque il principe amasse accompagnarsi, compresa la nipote Giulia.
Questi cubicula si affacciavano anche sul triclinium privato posto a ovest (fig. 19,
35); altri due cubicula (fig. 19, 36) si aprivano sul triclinium centrale (fig. 19,
49), mentre solo un cubiculum si affacciava anche sul triclinium a est (fig. 19,
38); gli stessi triclinia si aprivano sul peristylium e sul suo giardino acquatico (fig.
19, 33). Sempre qui in basso e sul lato ovest del peristylium era un oecus il quale
si affacciava direttamente sul giardino acquatico; sul suo retro i lati erano due
studioli rivolti invece verso i bacini d’acqua dei piccoli peristili. Sul retro
erano altre stanzette, forse uffici, che gravitavano anch’esse sui due bacini
d’acqua dei piccoli peristili. Era questo lo studio estivo del principe, che
comunicava con il portico inferiore del maenianum, dotato a questo livello di
altri triclinia e di un giardino semicircolare. In uno dei cubicula riservati
all’Augusto in questo seminterrato, forse il 36 vicinissimo alla latrina e al
ninfeo, è stato probabilmente ucciso Domiziano il 18 settembre del 96
(Svetonio, Vita di Domiziano, 16-17; Dione Cassio, 67.15.1, 17.1.), mese,
questo, in cui a Roma ancora si boccheggia. La statua di Minerva, che
l’Augusto teneva in camera o nell’annesso Lararium, non era riuscita a
proteggerlo. Domiziano è stato colpito da sette pugnalate, aveva quasi 45 anni
e aveva regnato per 15 anni. La nutrice Fillide ne ha cremato poi il corpo in
una sua tenuta suburbana sulla via Latina e ha portato le ceneri nel tempio
della Gente Flavia (si veda l’Angolo 28), versandole nell’urna di Giulia figlia di
Tito, di cui lei era stata la nutrice (Cassio Dione, 67.18) e di cui lo zio
Domiziano era stato forse l’amante. La congiura era stata ordita dall’Augusta
Domizia Longina e da un dipendente (procurator) della nipote Domitilla, da un
funzionario (cornicularius), da addetti alla camera da letto (praepositi cubiculo), da
una guardia (decurio) della camera da letto e da alcuni gladiatori, cioè la gente
che Domiziano aveva più intorno e che maggiormente temeva.
Atlas, tavv. 48, 80-84a, 273, ill. 13.
19.
Per due Augusti,
un ippodromo ciascuno
(FIG. 20)

Osserviamo i palazzi palatini intorno al 180 d.C., nell’aurea età degli


Antonini. La domus privata di Augusto era una sorta di museo del primo
principe (Svetonio, Vita di Augusto, 73): l’atrium privato era probabilmente la
sede dei sodales Augustales, ai piedi del vestibulum erano le arae del Genius e del
Numen Augusti, dove si sacrificava nei ludi Palatini e l’intera casa era una sorta
di museo del primo principe. La domus Publica di Augusto era scomparsa,
grazie alla basilica/aedes Caesarum variamente modificata tra Claudio/Nerone e
Vespasiano, e finita infine sotto la fabbrica della cenatio Iovis e della aedes
Divorum (fig. 19, 4). Nella domus Augusti sopravviveva, oltre la domus privata,
l’aedes Apollinis con l’area sacra al dio, la biblioteca e la ima pars del palazzo: le
sostruzioni in cui era ospitata probabilmente ancora parte
dell’amministrazione, accolta forse per il resto nelle stanze numerosissime su
due lati dell’aedes Iovis Victoris, seconda caserma per burocrati di Roma (si veda
l’Angolo 12, fig. 14). Il maenianum da cui si osservavano le corse era stato
intanto prolungato verso il Circo Massimo. Aveva finito per essere la
balconata più imminente sul Circo e sopra di essa – immane scandalo – verrà
edificata per volere di Costantino la chiesa di Anastasia (Atlas, tav. 88b),
sorellastra cristiana dell’imperatore, probabilmente tra le ultime abitatrici della
domus Augusti. L’abitazione del bibliotecario, invece, era stata inclusa nella
parte pubblica della domus Augustiana, tra le bibliothecae, l’aedes Divorum e il
cosiddetto Pedagogium. La domus Augustiana era la sola grandiosa e duplice sede
ufficiale del principe aperta sul Circo. La domus Tiberiana, che aveva incluso la
domus Tiberi, rappresentava una seconda e meno sontuosa residenza privata
dell’imperatore, che non si apriva sul Circo e il cui ingresso principale era
rappresentato dalla grande aula domizianea sorta accanto alla bibliotheca e ai
penetralia di Minerva, che avevano obliterato la casa di Caligola e poi forse
anche di Claudio (si veda l’Angolo 16, fig. 18). In particolare, la domus Tiberiana
era composta ora dall’appartamento del principe, disposto intorno al grande
peristylium, da due palazzine secondarie o dépendances e da un balneum.
Nessuna fabbrica nuova ed eccezionale si data al II secolo d.C., salvo l’angolo
settentrionale della domus Tiberiana – particolare vistosissimo –, che viene
prolungato fino a raggiungere il vicus sopra l’atrium Vestae, angolo sostenuto da
sostruzioni colossali che hanno incluso un vicus tectus tramite il quale si
accedeva alla rampa che portava al sovrastante palazzo. Il perché di questo
grandioso sommovimento edilizio è stato scoperto solo di recente da Daniela
Bruno. Nel frattempo la basilica della domus Tiberiana (fig. 17) era stata distrutta
e il suo spazio, unito a quello del giardino antistante, era stato occupato da un
hortus pensilis in forma di ippodromo o gestatio (mq 9355,8): un luogo per
passeggiare, correre ed esercitarsi a cavallo all’aria aperta (si veda Plinio il
Giovane, Lettere, 5.6.17), che era venuto ad aggiungersi alla assai simile gestatio
della domus Augustiana, che occupava uno spazio inferiore (mq 8002,5). Altro
particolare: mentre il percorso subito al di fuori della porticus augustiana non
raggiungeva i due stadi, il percorso della nuova gestatio tiberiana era più ampio
e i due stadi regolamentari li raggiungeva.
Risulta da ciò che, al momento di questa costruzione, la domus Augustiana e
quella Tiberiana afferivano non più a un solo principe bensì a due. Ciò
corrisponde alla realtà venutasi a creare alla morte di Antonino Pio, nel 161
d.C., quando il primo Augusto era Marco Aurelio, insediato nella domus
Augustiana, e il secondo Augusto, coreggente, era Lucio Vero, insediato nella
domus Tiberiana, fratello di adozione del primo Augusto. Un fatto prima mai
avvenuto!
Lucio Vero non poteva fare a meno di una gestatio propria e ha voluto ch’essa
superasse la prima, tanto era fanatico di cavalli e di corse. È questo il tempo
del massimo sviluppo dei palazzi palatini.
Lucio Vero era stato educato nella domus Tiberiana, amava la caccia, la palestra
e ogni esercizio sportivo e circense. Si era fatto fare una scultura in oro di un
cavallo dei Verdi (i Verdi erano una delle quattro fazioni delle gare circensi)
chiamato Volucer, che portava con sé. Aveva anche un calice di cristallo cui
aveva dato lo stesso nome. Faceva nutrire il cavallo prediletto con uva passa e
nocciole, se lo faceva condurre – su per la rampa – nella domus Tiberiana,
coperto di un sontuoso drappo purpureo e gli aveva costruito addirittura una
tomba in Vaticano (Storia Augusta, Lucio Vero, 6.2, 10.9). Viene in mente la
passione analoga di Caligola per il cavallo dei Verdi Incitatus, al quale aveva
procurato una casa con schiavi, una scuderia di marmo con mangiatoia
eburnea, drappi purpurei e un collare di gemme, e aveva immaginato perfino
di farlo console (Dione Cassio 59.14.7; Svetonio, Vita di Caligola, 55). Volucer
disponeva pertanto di una gestatio a palazzo.
Atlas, tav. 273.
20.
Grandissime corti porticate
(FIG. 21)

Le case belle, ma ancora per certi versi normali, avevano peristylia che non
superavano i mq 633 circa. Tra i maggiori fra i normali erano quelli delle case
di Cicerone (mq 477; si veda l’Angolo 13, fig. 21, a), della domus Tiberi
(identico al precedente), di Ortensio (mq 505; si veda l’Angolo 10, fig. 21, b),
di una casa sull’Arce (mq 515; Atlas, tav. 30, VIII 108; qui, fig. 21, c), di una
casa sul Fagutal (mq 534; Atlas, tav. 107, III 31; qui, fig. 21, d) e di una casa
con balneum in zona Vigna Barberini sul Palatino (mq 633; Atlas, tav. 70, X
115; qui, fig. 21, e). In età adrianea Svetonio (Vita di Augusto, 72) aveva
giudicato modica la casa di Ortensio/Ottaviano, il cui peristilio misurava mq
829 (fig. 11).
Le case più belle e insieme al di fuori dalla norma, per lo più anteriori a
Caligola, avevano peristylia amplia che oscillavano tra i mq 688 e i 1728 circa,
come quelli delle case di Ottaviano (mq 814, fig. 21, g; più mq 832; totale mq
1646; fig. 10), della grande casa adrianea sulla Velia probabile sede del praefectus
Urbi (mq 835; Atlas, tav. 104; qui, fig. 21, h), della casa con pitture
dell’Odissea (peristilio A: mq 1556; Atlas, tav. 125b; peristilio B: mq 1383;
qui, fig. 21, i), della casa dei Domizi Enobarbi che si apriva sulla Sacra via (mq
1534; Atlas, tav. 91; qui, fig. 21, n) e della casa di Clodio (mq 1728; Atlas, tav.
281a; qui, fig. 21, m). Quest’ultimo è stato definito peristylium amplissimum, al
punto che era superiore ai due peristylia di Ottaviano uniti insieme!
Dalla stradina che scendeva alle Carinae si entrava, probabilmente
direttamente, in un altro grande peristilio (mq 688), a cui seguiva un
gymnasium che su un lato aveva un balneum. Si tratta probabilmente della casa
di Pompeo, poi passata ad Antonio (fig. 21, f). Gli arredi di questa casa
verranno messi all’asta pubblica dei beni di Pompeo (Cicerone, Filippiche,
2.39.62-64), avvenuta nella sede deputata, cioè l’edificio delle auctiones
inglobato nel fanum/templum di Giove Statore (si veda l’Angolo 24); l’edificio
che si trovava a m 340 di distanza dalla casa. A comprare i beni confiscati di
Pompeo era stato Antonio (Cicerone, Filippiche, 2.64-69; Dione Cassio,
45.28.3-4; Carandini 2016).
Fino a Traiano le misure di queste corti permangono entro misure che si
possono considerare ancora ragionevoli, come quelli dell’atrium Vestae
neroniano (mq 977; si veda l’Angolo 2; Atlas, tav. 44; qui, fig. 21, n1) e
traianeo (mq 1578, Atlas, tav. 45; qui, fig. 21, n2), della domus Gai (mq 992;
qui, fig. 21, o1), della domus Gai ristrutturata al tempo di Claudio (mq 982;
Atlas, tav. 47; si veda l’Angolo 16, fig. 18 e fig. 21, o2) e della domus Tiberiana
tiberiano-claudia (mq 1303; Atlas, tav. 75; si veda l’Angolo 15, fig. 17 e fig. 21,
p) e della casa tardo-antica dei Simmaci (mq 1321; Atlas, tav. 141; qui, fig. 21,
q).
L’espansione dei quadriportici con giardino si conclude con i peristylia
spropositati, che hanno dimensioni tra i mq 1728 e i mq 15.522 circa. Sono i
peristylia della domus Transitoria sull’Oppio (mq 2126; fig. 21, r), del vestibulum
della residenza sulla Velia della domus Aurea (mq 15.522; Atlas, tav. 96; qui, fig.
21, u), della parte pubblica della domus Augustiana (mq 3057, Atlas, tav. 81;
qui, fig. 19, 15 e fig. 21, s1) e della sua parte privata (mq 3006; Atlas, tav. 81;
qui, fig. 19, 19 e fig. 21, s2) e infine dell’imperiale Sessorium sull’Esquilino
(mq 6079; Atlas, tav. 132; qui, fig. 21, t). È dunque con Nerone e con i Flavi
che si apre l’ultima stagione della insaziabile megalomania.
Atlas, tav. 44-46, 47, 64, 69, 70, 76, 81, 90-91, 96, 101, 107, 111, 125b, 132,
141, 281a. – Bruno 2014c. – Carafa 2014a. – Cavallero 2014.
21.
Saloni da pranzo della domus Aurea
(FIG. 22)

Quando si tratta della domus Aurea, si pensa generalmente – per inerzia più che
per forza di studi – a una unica dimora: quella ben conservata sull’Oppius (si
veda anche l’Angolo 43, fig. 21, r) perché finita seppellita sotto le terme di
Traiano, le cui “grottesche” hanno fatto sognare generazioni di artisti: una
Pompei prima della sua scoperta proprio nel centro del potere,
straordinariamente ben conservata e quindi evidente. Eppure la verità non ha
rapporto con gli stati della conservazione. Infatti la domus Octaviani sul
Cermalus è stata scambiata per la domus Augusti, dimenticando che la casa di
Augusto è quella edificata al di sopra della casa di Ottaviano, quest’ultima ben
conservata per essere stata seppellita, mentre quella di Augusto, esposta a
intemperie e spogli per oltre 1600 anni, è stata gravemente danneggiata, per
cui non appare evidente. È grave quando gli archeologi si inchinano soltanto
davanti a ciò che più appare, perché dovrebbero essere invece i chiarificatori
di ciò che meno appare, più oscuro per l’ingiuria del tempo.
Si dimentica poi che, come la domus Augusti si articolava in due case poste ai
fianchi dell’aedes Apollinis una privata e l’altra pubblica, e come la domus
Augustiana era composta di due case affiancate, una privata e l’altra pubblica,
così anche la domus Aurea poteva articolarsi in due residenze, all’interno di un
unico grande parco: una a carattere pubblico sulla Velia, in grande parte
distrutta, ma con fondazioni sotto l’Amphitheatrum, e una a carattere privato
sull’Oppius, che invece spicca.
Ancora più difficile è ragionare sulla sala più famosa della intera domus Aurea,
la cenatio praecipua rotunda di Svetonio (Vita di Nerone, 31) e ciò a causa della
mancanza di una sufficiente scrupolosità nell’interpretare Svetonio, la fonte
principale. A quale delle due residenze attribuire proprio quella cenatio? Essa
viene generalmente identificata o con la sala principale della residenza
dell’Oppio, che però è ottagonale e non tonda, o con la turris recentemente
scoperta sul Palatino, che è rotonda, ma poteva sostenere un padiglione
alquanto piccolo, per non dire ch’essa non rientra nell’ambito della domus
Aurea. Sappiamo che lo spazio occupato da questo complesso era ritenuto
“transitorio”, perché era quello che avrebbe consentito di congiungere due
parti della proprietà imperiale separate: le domus sul Palatium e gli horti
Maecenatis sulle Esquiliae. Quindi, se doveva trovarsi nel parco transitorio, la
sala non poteva stare sul Palatium, dove di fatto si trova la turris.
L’unico resto clamoroso sopravvissuto della residenza sulla Velia della domus
Aurea è il basamento del suo vestibulum, nel quale Vespasiano ha poi eretto il
colossus di Sol e sul quale poi Adriano, spostato il colossus con elefanti, ha
edificato i templi congiunti di Roma e di Venere. Ma il vestibulum di questa
residenza sulla Velia, appena ammesso, è stato poi subito negato, almeno in
quanto ingresso a una domus che si apriva su di una strada – questo infatti era
un vestibulum –, dal momento ch’esso portava a un nulla che si interponeva tra
il vestibulum e lo stagnum, invece che una domus lunga e stretta, analoga a quella
sull’Oppio. È come se una cosa non visibile, perché distrutta da Vespasiano,
fosse inesistente e come se una unica domus non potesse contenere due
residenze, come negli esempi sopra citati. Gli archeologi hanno spesso paura
di immaginare quanto dovrebbero essere più allenati a ricostruire, e cioè ciò
che oggi non è dato più vedere, ma di cui restano indizi monumentali e
letterari.
Infatti Svetonio tratta non della residenza secondaria e privata dell’Oppio,
ma di quella principale e pubblica della Velia, a cui pertanto doveva
appartenere la sala da pranzo principale e rotonda, unica nell’intero
complesso, in quanto dimora di Sol/Nero edificata sulla domus avita dei Domitii
Ahenobarbi. Per Marziale (Gli spettacoli, 2) “dove il raggiante colosso (del Sole)
vede le costellazioni da vicino..., splendevano gli atri odiosi di un re crudele
(Nerone)”. Ma questi invidiosa atria svaniscono se la domus proprio qui viene
negata!
Svetonio (Vita di Nerone, 31) descrive uno spatium diviso in partes e lo fa in
due momenti. In un primo momento descrive il contesto generale: il
vestibulum destinato al colossus, la porticus triplex lunga complessivamente un
miglio, lo stagnum circondato da aedificia in forma di città e campi, vigneti e
pascoli, selve e animali domestici: il parco. Solo in un secondo momento egli
si focalizza sul fulcro del sistema, cioè sugli atria (di Marziale), descrivendo
così finalmente cosa vi era “nelle parti restanti” di questo complesso
residenziale, poste tra vestibulum e stagnum ed evidentemente le più importanti,
se erano rivestite d’oro, gemme e madreperla. Altro che nulla! Qui erano
infatti le cenationes o sale da banchetto dai soffitti eburnei e mobili per riversare
fiori e profumi sugli invitati, la cenatio praecipua rotunda fatta ruotare
perpetuamente come l’universo – perfetta dimora per Sol – e infine il balneum
dotato di acqua normale e solfurea. Così finalmente riappaiono, dopo che li
avevamo quasi perduti, le “parti restanti”, gli invidiosa atria di Marziale. Così il
vestibulum riacquista la sua funzione inevitabile di accesso da una strada che
immette in una casa e perde quell’imbarazzante portare ad un nulla, da tutti
previsto salvo che da noi. Il fronte della residenza della Velia si affacciava sul
lato occidentale dello stagnum. Doveva apparire come una scenografica villa
affacciata sul mare nel quale si rispecchiava. E, come nelle villae si entrava
tramite un peristylium (Varrone, Lingua Latina, 6.7: “in città gli atri sono vicini
alle porte di ingresso mentre in campagna si trovano subito i peristili”), così
sulla Velia un vestibulum in forma di gigantesco peristylium introduceva a una
villa marittima scenografica sul genere di quelle di Baia, ma tutto ciò nel bel
mezzo dell’Urbs. Cenationes varie e cenatio praecipua rotunda probabilmente
protrudevano dalla facciata della residenza lunga e stretta, movimentandola,
come ben si osserva nelle ville marittime raffigurate negli affreschi dell’epoca.
Atlas, tavv. 96, 110-112, figg. 76, 90-91, ill. 17, 21. – Carandini, Bruno,
Fraioli 2010, pp. 239-259, 273, 284.
22.
Biblioteche con auditoria
(FIG. 23)

Nel costruire il tempio di Traiano e Plotina, Adriano non ha fatto che portare
a termine il progetto di foro che era stato elaborato da Traiano e Apollodoro
di Damasco. Siamo stati i primi a rivalutare la presenza di questo tempio sulla
base di due cellae delle sei che formavano il podio del tempio, ben conservate
sotto il palazzo della Provincia, e della notizia di enormi colonne crollate
rinvenute nel XVIII secolo, di cui una ora ai piedi della colonna coclide,
felicemente ritrovate da un recente scavo al di sotto del medesimo palazzo.
Forse anche i tre auditoria o sale per conferenze rientravano idealmente nel
progetto originario, connessi com’erano al colonnato che rivestiva la piazza
curveggiante ai lati del tempio; al momento della costruzione contestualizzate
da Adriano nell’ambito di una nuova concezione, quella dell’Athenaeum di
Adriano (133 d. C.), una scuola delle arti liberali in cui si cimentavano
letterati, retori e filosofi (fig. 23, 12, 2). In questo modo anche le biblioteche
del foro di Traiano finivano per essere associate agli auditoria (Atlas, tav. 54),
come avveniva nel templum Pacis (Atlas, tav. 99; qui, fig. 23), nella porticus
Octavia (Atlas, tav. 225) e nella bibliotheca di Adriano ad Atene.
Tra le due bibliothecae del templum Pacis e le due sale, una delle quali riservata
alla Forma Urbis e al relativo archivio di cui restano gli indizi degli armadi,
sono altre due sale di cui fino ad ora si è ignorata la funzione. La rivela un
passo di Galeno (I miei libri, 3.13): “Gli amici... insistettero perché mostrassi
pubblicamente in qualche grande auditorium... la verità delle osservazioni
anatomiche che avevo descritto. I calunniatori... non si trattenevano dal
mettermi in ridicolo al tempio della Pace dove, prima dell’incendio (del 192
d.C.), avevano l’abitudine di riunirsi quelli che si occupavano di saperi
razionali”. Altri ambienti per questi auditoria nel tempio della Pace non vi
sono, salvo i due in questione. All’unico di questi che in parte conosciamo si
accedeva sia dalla porticus del templum che dalla retrostante scorciatoia per le
Carinae. Possiamo facilmente immaginarlo come un auditorium, con gli
abituali gradini per gli uditori, posto accanto a una biblioteca, come in quella
di Adriano ad Atene. Galeno aveva raccolto e chiuso libri e oggetti negli horrea
Piperataria (si veda anche la fig. 26), i magazzini delle spezie, probabilmente
quelli mai riconosciuti e ricostruiti tra il tempio di Antonino e Faustina e il
tempio Flavio di Giove Statore (Atlas, tavv. 97 e 100a), vicino
all’infiammabilissima biblioteca del tempio della Pace. Dopo l’incendio del
192 d.C., gli ambienti degli auditoria del templum Pacis sono stati tramezzati, il
che indica un loro diverso uso, e il descritto settore degli horrea Piperataria, in
parte distrutti verso la Sacra via, riceve al posto un bagno, la cui pianta risulta
interamente errata e da rifare. Forse erano qui i locali usati da Galeno. La Sacra
via, impasticciata da questo bagno e da per lo meno dieci stationes di città
orientali, oltre che da almeno due fontane, somiglia sempre più a un grande
suk.
A volte bibliotheca e auditorium formano un tutt’uno, come nelle biblioteche
semicircolari delle terme di Traiano (Atlas, tav. 119, 19) e forse anche in
quelle di Diocleziano (Atlas, tav. 195, 18; qui, fig. 23). Edifici semicircolari
possono essere ninfei, latrine, esedre e anche biblioteche. Nella biblioteca
delle terme di Traiano, che è la meglio conservata, vi era al centro una grande
nicchia, per una grande statua, e ve ne erano altre cinque ai lati, scandite da
colonne e su due piani, quindi venti nicchie in tutto, destinate ad accogliere
tabulae e volumina. Scale sul retro consentivano di salire alla balconata
superiore, come nelle biblioteche tra domus Augusti e Augustiana (fig. 19, A).
La luce penetrava tra le colonne che si aprivano sulla porticus e dal finestrone
che la ricostruzione ha ipotizzato. La copertura era a semicupola. Ai lati della
nicchia centrale e ai piedi di quelle minori laterali erano i tre gradini di questo
auditorium incorporato nella biblioteca stessa. Il pavimento era a tarsie
marmoree di pavonazzetto e giallo antico.
Atlas, tavv. 54, 99, 97, 119-120a, 195, 271-272, ill. 7, 14. – Carandini,
Carafa, Cavallero 2011.
23.
La Velia, dove era?
(FIG. 24)

La topografia di Roma è grandemente facilitata dal fatto che si articola in


monti/colli e in bassure/valli, le quali hanno conservato ancora oggi i loro
nomi antichi, per cui la conformazione dei luoghi aiuta a comprendere i limiti
degli stessi rilievi e valli. Ciò non si verificherebbe se la città fosse stata in
pianura, nella quale i toponimi vagherebbero, rendendo tutto assai incerto. Vi
è però un’eccezione rappresentata dal monte Velia, il secondo in grado
d’importanza dopo il Palatium nel contesto del Septimontium. Si trattava di un
monte piccolino, sede degli antichissimi Velienses, uno dei populi Albenses,
villaggio che deve aver svolto un ruolo preminente, al tempo dei primi Latini,
anteriormente al Septimontium e quindi ai centri/centro proto-urbano, quando
probabilmente questo monte è sceso al secondo posto. Allora è cominciata la
fortuna del Palatium e del Cermalus, cioè del Palatino.
Di questo monticello della Velia, interposto tra il Palatium e il
Fagutal/Esquiliae (l’Esquilino) – pertanto centralissimo – non resta quasi più
nulla, salvo il lembo della villa Rivaldi. Gli altri tre lembi sono stati asportati,
soprattutto da Nerone e dai Flavi, per dar luogo ai portici racchiudenti edifici
pubblici e principeschi disposti lungo la nuova Sacra via tra i quali gli horrea
flavi, la basilica di Massenzio, il vestibulum della residenza veliense della domus
Aurea e il templum Pacis. Per contenere le parti superstiti del monte erano
servite, fin d’allora, cospicue opere murarie di contenimento (fig. 22). A
completare la distruzione del monte è stato infine Mussolini con la sua
pomposa via dell’Impero, la quale ha scassato sia la grande domus che sorgeva
sulla sua cima, probabile residenza del praefectus Urbi, sia l’aedes/secretarium
Telluris con edifici annessi (fig. 24, A, 1-2, 9), che chiudeva a est il complesso
della prefettura urbana, aperto a ovest dal templum Pacis.
Per questa parte importantissima di Roma possediamo solamente disegni del
’500 attribuiti a Francesco da Sangallo (fig. 24, c) e a Pirro Ligorio (fig. 24, a-
b). Solo essi consentono di ricostruire la topografia di questa zona
importantissima della città a partire dalla fine del II secolo d.C. Dunque, la
Velia è stata sbocconcellata dai maggiori demolitori urbani. Un monticello è
un inno alla varietà e non all’uniformità, dote noiosissima che i despoti, da
Nerone a Mussolini, prediligono. Ma i resti sopravvissuti e le testimonianze di
rinvenimenti poi scomparsi, ma agganciabili a luoghi certi come il nartece
della basilica di Massenzio, consentono di ricucire e ricostruire la deliziosa e
provocante irregolarità del rilievo e di resuscitare la storia di un quartiere.
Mussolini non poteva ammettere che tra Palazzo Venezia e il Colosseo si
interponesse un rilievo, inteso ottusamente come un intralcio visivo alla
prospettiva. È la solita cultura selettiva dei monumenti isolati che contrasta
con la contestualità satura di varietà di ogni vita (di qui anche la tutela
impostata in Italia soprattutto su vincoli puntiformi).
Amoroso 2007. – Atlas, tav. I. – Capanna, Amoroso 2006.
24.
Giove Statore, prima e dopo l’incendio
(FIGG. 25 E 26)

L’aedes di Giove Statore – dio invocato da Romolo che aveva difeso dal sabino
Tito Tazio la Roma sul Palatino – ha avuto la ventura di essere spostata, in
seguito all’incendio del 64 d.C., dalla X alla IV regione augustea (Fasti di
Priverno, Notitia Urbis Romae), cioè dal Palatium alla Velia, a una distanza di m
68,9, segno che con Nerone la mitistoria di Roma aveva smesso di
condizionare il paesaggio di Roma.
Infatti prima dell’incendio il tempio si trovava sul lato est della domus Publica
e del cosiddetto clivo Palatino A, quindi sul Palatium. Si trattava dell’aedes
degli inizi del II secolo a.C. con antistante recinto o sacellum per l’ara, che
l’incendio aveva provveduto a distruggere. Questa aedes in opera quadrata di
tufo era stata edificata sopra poderosissime fondazioni in cementizio (m 1,90
di larghezza), le cui fosse hanno fatto opera di distruzione. Infatti, la prima
aedes, degli inizi del III secolo a.C., anch’essa probabilmente in opera quadrata
ma senza fondazioni in cementizio, è stata forse smontata prima dei lavori
degli inizi del II secolo a.C., che ne hanno riutilizzato i blocchi nella
ricostruzione identica e sullo stesso luogo, ma finalmente resa solida
dall’essere stata posta finalmente sopra i caementa (spoliazioni medievali hanno
poi distrutto un’altra porzione della stratigrafia). Permane invece l’ara
utilizzata dall’aedes degli inizi del III secolo a.C.
Sotto questa aedes sono state rinvenute ben 17 fasi di arae racchiuse in sacella,
di cui la più antica risale alla metà dell’VIII secolo, la quale può dunque essere
considerata, a buona ragione, un’opera romulea. Era stata costruita su un
riempimento, che ha sigillato l’abitato proto-urbano del Septimontium, di cui
abbiamo rinvenuto resti di capanne e all’interno tombe d’infanti entro tronchi
d’albero e vasi che si datano tra l’ultimo quarto del X secolo a.C. e il secondo
quarto dell’VIII secolo a.C.
È questo il primo caso a Roma in cui si può descrivere e datare il passaggio
dalla proto-città alla città e la istituzione di un culto romuleo. Forse l’aedes del
III secolo a.C. e sicuramente quella del II secolo a.C. si accompagnavano a un
edificio per le auctiones pubbliche, dove nel 48 a.C. erano stati messi all’asta i
beni di Pompeo. È nell’aedes e nel suolo inaugurato antistante del suddetto
edificio che il console Cicerone aveva riunito il Senato per spingere Catilina e
i suoi a lasciare una Roma simbolicamente rappresentata dalla riproposizione
tardo-repubblicana della porta Mugonia, di un tratto di murus Romuli e
probabilmente anche di un memoriale di Remo, percepiti ancora come le
prime e impenetrabili difese di Roma. Come Romolo aveva difeso mura e
porta da Remo e da Tito Tazio, così Cicerone intendeva respingere da quelle
medesime mura e quella medesima porta Catilina.
Con l’incendio del 64 d.C. tutte queste realtà vengono distrutte e il culto di
Giove Statore viene spostato – per dar luogo alla Sacra via ingrandita, rettificata
e affiancata da portici – a settentrione di quell’enorme viale di regime in stile
alessandrino. Dell’aedes di Giove Statore di età flavia non conosciamo per ora
tracce archeologiche, perché vi è stato costruito al di sopra il cosiddetto
tempio di Romolo, che va probabilmente interpretato come la aedes Iovis
Statoris del tempo di Massenzio, che i Cataloghi Regionari attribuiscono
appunto alla IV regione e quindi alla Velia.
Anche l’aedes di Giove Statore di età neroniano-flavia doveva addossarsi alla
biblioteca meridionale del templum Pacis, come poi il cosiddetto tempio di
Romolo, e doveva assumere sul fronte un orientamento consono alla nuova
Sacra via e ai suoi portici che il tempio fiancheggiavano, come indica il rilievo
degli Haterii che rappresenta tempio e portici (fig. 26). Il tempio aveva la cella
larga quanto il portico e pronao a sei colonne o esastilo largo quanto il
marciapiede lungo la Sacra via. Al di sopra del frontone dell’aedes si osservano,
sempre sullo stesso rilievo, quattro lesene, del tutto incongrue rispetto
all’edificio templare, private del tetto che doveva coprirle, per il quale non vi
era spazio, data la forma stretta e lunga del rilievo. Queste lesene
appartenevano evidentemente a un altro edificio, annesso, più alto e
retrostante rispetto all’aedes, in cui è possibile riconoscere una delle tre facciate
della biblioteca del templum Pacis, la quale proprio dalle aperture tra le lesene
veniva illuminata.
L’ambiente della biblioteca sussisteva anche al tempo del c.d. tempio di
Romolo, ricostruito nella parte alta dopo l’incendio della biblioteca. A questa
seconda fase appartengono i quattro o cinque finestroni voltati che appaiono
in una incisione di Giacomo Lauro del 1612 e ancora oggi in parte conservati
(del quarto finestrone rimane una metà).
Atlas, tavv. 19 C, 61 A, 73, 100. – Arvanitis c.s.(b). – Carandini 2016 –
Ippoliti c.s.(a). – Ippoliti c.s.(b).
25.
Il prefetto alla città:
casa e bottega
(FIG. 24)

La casa che era stata di Pompeo (fig. 21, f) era passata poi ad Antonio, che ne
aveva comprato i beni all’asta nel vicino templum/fanum di Giove Statore.
Potrebbe essere andata, in seguito, ad Agrippa, essere stata abitata dal 19 al 13
a.C. da Tiberio, sposo di Vipsania Agrippina, figlia di Agrippa. E potrebbe
infine aver accolto un grande amico di Tiberio, L. Calpurnio Pisone, primo
prefetto urbano, rimasto in carica per venti anni dal 13 d.C., diventando alla
fine la sedes/officium del praefectus Urbi.
A partire da Adriano i resti della casa tardo-repubblicana sopra descritta
hanno dato luogo ad altri edifici e soprattutto a una sontuosa dimora a
peristylium, con oecus fiancheggiato da due ambienti più stretti, tre cubicula sui
lati brevi e altre stanze sui due lati lunghi. Al piano interrato era una
cryptoporticus dotata di nymphaeum decorato da statue e che fronteggiava una
sala absidata (fig. 21, h). A occidente di questa casa si svilupperà, dopo il 192
d.C., il quartiere esteso della praefectura Urbi – tribunal, scrinia, templum
Telluris/Secretarium Tellurense, horrea Chartaria (fig. 24, 1-4, 9-10) – ricostruibile
grazie a disegni del ’500 attribuiti a Sangallo e a Ligorio (si veda l’Angolo 23).
L’erezione della basilica di Massenzio ha comportato la perdita dei tre cubicula
della dimora adrianea e la creazione, intorno alla fine del IV secolo d.C., di un
ingresso a questa residenza che consentiva al praefectus Urbi di raggiungere
direttamente l’aula basilicale, in cui lui giudicava e che da lui evidentemente
dipendeva (fig. 24, A). Contemporaneamente il vicus retrostante la basilica è
stato riempito di strutture, che hanno reso possibile una connessione
immediata tra la domus e la basilica, eloquente al punto da farci intendere la
natura della relazione fra il risiedere sulla cima della Velia e l’agire nel colossale
edificio pubblico tardo-antico, venuto ad aggiungersi alle altre costruzioni
pubbliche poste tra il templum Pacis e gli horrea Chartaria, il magazzino dei
papiri. Questi collegamenti, seppure tardi, sono essenziali per capire le
suddette architetture, come lo stretto passaggio tra la domus
Tarquiniorum/Publica e il nemus/lucus Vestae (Atlas, tav. 6), che ha dimostrato la
pertinenza di questa prima casa a grande atrio ai tyrannoi e ai pontifices Maximi
(si veda l’Angolo 6, fig. 6). Non ha pertanto senso studiare i monumenti come
entità isolate, al di fuori dei loro legami di contesto, cioè delle connessioni
significative tra gli edifici. Va infine osservato che gli officia erano accolti a
Roma in edifici a carattere domestico, come quello a studiis posto dietro le
biblioteche palatine (si veda l’Angolo 17).
Atlas, tavv. 89, 101, 104-106. – Amoroso 2007.
26.
Case a confronto,
nel tempo lontane
(FIG. 27)

La casa detta della Farnesina (Atlas, tavv. 248 e 249; qui, fig. 27, A), affacciata
sul Tevere in Trastevere, si presentava come una villa marittima sul fiume, ma
in realtà era una casa di città, seppure al di fuori del cuore residenziale più
esclusivo di Roma. Trattandosi di un monumento simmetrico scavato per
oltre la metà, di cui sono note pitture e mosaici del piano terreno, l’unico a
essersi conservato, si presta facilmente a essere ricostruito nella sua interezza,
onde poter finalmente disporre di una interpretazione e di una visione di
insieme di questa straordinaria architettura, su cui, come al solito, si è assai
pigramente lavorato.
Si accedeva alla casa dall’hortus triangolare sul retro (fig. 27, A, 1), dotato di
due passaggi che portavano al Tevere e che comunicavano con l’ambulatio tecta
(fig. 27, A, 2) e con due horti secondari (fig. 27, A, 3). Al centro della domus
erano le scale, che portavano al piano superiore; alle estremità erano due
ingressi (fig. 27, A, 4) all’ambulatio tecta del piano terreno, lunga precisamente
mezzo stadio. Tra quegli ingressi erano quattro entrate al corridoio del
quartiere servile o ergastulum (fig. 27, A, 5), illuminato da finestrelle, grazie al
quale si accedeva alle 20 celle che dovevano accogliere due decine o decuriae di
servi – un terzo delle cellae servili di Scauro (si veda l’Angolo 12) – e anche ad
altre stanze, di uso comune, due delle quali occupate forse dal Lararium (fig.
27, A, 6) di ogni decuria. Un solo ambiente (fig. 27, A, 7), posto dietro la scala
e dotato di porta, metteva l’ergastulum in comunicazione con la parte signorile
della casa. Due corridoi (fig. 27, A, 8) portavano dall’ambulatio tecta
all’appartamento principale di questo piano e due porte introducevano,
sempre dall’ambulatio, nei due horti minori (fig. 27, A, 9) afferenti ai due
appartamenti secondari, riservati probabilmente ai figli del padrone di casa.
L’appartamento principale aveva al centro l’oecus (fig. 27, A, 10), preceduto da
un’anticamera affacciata direttamente sull’hortus principale; casi analoghi si
avranno nella casa di Caligola rielaborata da Claudio (figg. 18 e 21, o) e della
parte intima della domus Augustiana (fig. 19, B). L’hortus principale, di forma
curiosamente semicircolare (fig. 27, A, 11) dava impronta e luce a tutto il
cuore della casa. Ai lati dell’oecus erano due triclinia (fig. 27, A, 12) preceduti
dai due cubicula (fig. 27, A, 13), che formavano gli appartamenti dei padroni di
casa. Dietro alle tre sale padronali era un corridoio di servizio. Corridoi
laterali portavano ai quattro cubicula accolti nelle turres (fig. 27, A, 14), forse
per gli ospiti.
Gli appartamenti secondari erano dotati di triclinia (fig. 27, A, 15), affiancati
da ambienti laterali di servizio, dotati anche di scale (fig. 27, A, 16), che erano
preceduti da un’anticamera (fig. 27, A, 17) ai lati della quale erano due cubicula
(fig. 27, A, 18), tutti affacciati sui rispettivi giardinetti. Altri horti circondavano
le turres (fig. 27, A, 14), comunicavano con i giardini secondari (fig. 27, A, 3) e
terminavano con un pergolato per lato (fig. 27, A, 19), ciascuno lungo 10
piedi, poco oltre i quali era la banchina del Tevere (fig. 27, A, 20). Tra le turres
erano due gallerie semicircolari (fig. 27, A, 21), sul genere delle cryptoporticus.
Non erano previste aperture verso il Tevere, per proteggersi dalle piene. Il
piano terra era usato soprattutto per frescheggiare d’estate.
Al piano superiore si accedeva tramite la ricordata scala centrale che portava a
un’ambulatio (fig. 27, A, 22) e a una porticus duplex (fig. 27, A, 23), lunghe
entrambe mezzo stadio. I vari appartamenti erano planimetricamente identici
a quelli del piano terra, ma al piano superiore erano più grandiosi se non altro
in altezza e luminosità. Le turres potevano accogliere, sopra ai cubicula per gli
ospiti, stanze di servizio. Dalla porticus duplex in forma di “D” (fig. 27, A, 24) e
dalle turres si godeva la vista, probabilmente attraverso finestroni rivolti al
Tevere e alla riva opposta, cioè al campo Marzio. Il fronte della casa era assai
mosso e doveva dare bella vista di sé a chi navigava lungo il fiume. Questa
casa, tipo villa sul mare (fig. 22) rappresenta un modello di dimora signorile
databile agli anni 40-30 a.C.
È possibile attribuire questa casa agli Arruntii: si vedano le annesse cellae
vinariae Arruntianae, la cui attribuzione è resa certa dal rinvenimento di una
iscrizione collegiale (CIL, VI 8826). A costruire la casa potrebbe essere stato L.
Arruntius padre, homo novus, console nel 22 a.C. e XV vir sacris faciundis ai ludi
Saeculares del 17 a.C. L. Arruntius figlio, ben connesso con i discendenti di
Silla e di Pompeo, verrà considerato da Augusto morente uno dei tre
consolari capax imperii (Tacito, Annali, 1.13).
È affascinante confrontare questa casa degli ultimi anni della libera res publica
con una casa molto più tarda, del IV secolo d.C., edificata sull’Esquilino al di
sopra della enorme cisterna delle Sette Sale (Atlas, tav. 121). Nella parte
orientale della dimora, di forma rettangolare, erano le grandi sale. Quasi al
centro si trovava la basilica (fig. 27, B, 1) a cui si accedeva tramite scale – la
parte alta della cisterna serviva da basis alla casa – e il relativo nartece (fig. 27,
B, 2). A destra era la sontuosa cenatio esagonale (fig. 27, B, 3), posta entro un
hortus quadrangolare (fig. 27, B, 4) dotato di fontana semicircolare (fig. 27, B,
5). Il salone da pranzo si articolava in due sale rettangolari contrapposte che
immettevano nell’esagono centrale e in quattro altre salette, probabilmente
triclinia, disposte a coppie sugli altri due lati dell’esagono, tutte sul fondo
semicircolari, forse per accogliere letti tricliniari ricurvi o stibadia (fig. 27, B,
6). Da ciascuna di questi triclinia si accedeva lateralmente a un ambiente
circolare con recesso triangolare di cui non è chiara la funzione, forse
altrettanti laconica per sudare e lavarsi prima della grande bouffe (fig. 27, B, 7)? A
sinistra, oltre la basilica, era un oecus (fig. 27, B, 8) con ambienti di servizio
retrostanti (fig. 27, B, 9) e con ai lati altre stanze, probabilmente triclinia e
cubicula accoppiati e formanti gli appartamenti principali (fig. 27, B, 10, 11).
Oecus e cubicula erano fronteggiati da una porticus (fig. 27, B, 12) aperta su un
hortus rettangolare (fig. 27, B, 4) dotato di un ricurvo nymphaeum (fig. 27, B,
13) e del solito ambiente circolare, forse il laconicum padronale (fig. 27, B, 7),
antistante il cubiculum del proprietario. Nella parte occidentale della dimora era
un lungo corridoio (fig. 27, B, 14) che immetteva in un balneum (fig. 27, B,
15) e in stanzette che paiono cubicula (fig. 27, B, 11), forse per figlio e ospiti.
In corrispondenza con la cenatio erano sul retro due ambienti assai grandi (fig.
27, B, 16), a cui ne corrispondevano altri analoghi a sinistra del nartece, di cui
non è facile ricostruire la funzione. La parte settentrionale della casa, la più
fredda, poteva essere dotata di un secondo piano, usato magari per stanze di
servizio. La dimora si chiudeva con una porticus rivolta a occidente (fig. 27, B,
17), simmetrica al retrostante corridoio, dalla quale si osservavano le terme di
Traiano. Dominano nella dimora i saloni grandiosi, posti a sud-est, ma poi
alcuni ambienti dal carattere più privato appaiono alquanto mal configurati e
quindi difficilmente identificabili nella loro funzione. I rigorosi stilemi
architettonici di un tempo si stavano disgregando. È questo il modo tardo-
antico di abitare signorilmente, diversissimo da quello della fine della
Repubblica e che suscita pochi ricordi, come l’appartamento imperiale di
Diocleziano a Spalato, semmai introducendo ai palazzi del futuro. Verrebbe
da pensare che la casa sia stata costruita per un alto funzionario che
sovraintendeva alle terme di Traiano; forse anche al servizio delle acque nella
città.
Atlas, tavv. 121, 248-249. – De Stefano 2014a. – Papi 1999.
27.
La tomba di un fornaio
(FIG. 28)

Subito oltre il limite della regione V augustea, dove in seguito sorgerà la porta
Praenestina e Labicana delle mura Aureliane (Atlas, tav. 126 P e tavola fuori
testo 22), è la tomba del fornaio Eurisace e di sua moglie Antistia (30-20 a.C.;
Atlas, tav. 283). A illustrare i due sono un rilievo con i defunti stanti, due
iscrizioni e tre fregi. Questi ultimi mostrano (1) la consegna del grano, la
macinazione e la setacciatura della farina, (2) l’impasto e la cottura e (3) la
pesatura dei pani. Fin qui nulla d’insolito, basti ricordare il finale della cena di
Trimalcione (Petronio Arbitro, Satyricon, 27-31). Ma in questo monumento
vi è qualcosa di più ed è la trasformazione in decorazione architettonica dello
strumento ritenuto principale per fare il pane: l’impastatrice. Al livello III del
sepolcro si notano 9 + 15 + 6 = 30 impastatrici. Il pane deve aver reso bene a
Eurisace, che è vissuto e morto per e nel suo mestiere, che lo ha soddisfatto al
punto da tradurlo in scrittura, in figurazioni, in rappresentazioni delle
impastatrici e in monumento alla panificazione.
Atlas, tav. 283. – De Stefano 2014b.
28.
Templi ritrovati
(FIG. 29)

Due templi importantissimi vagano da tempo sull’Aventino. Quello di Cerere


sappiamo più o meno dove si trovava, ma ne ignoriamo la collocazione esatta
(Atlas, tav. 171). Quello di Diana, invece, molto ha vagato prima di trovare
finalmente il suo posto: al fondo della strada principale dell’Aventino, nel suo
angolo più occidentale (Atlas, tavv. 159 e 161). Altri due templi hanno vagato
per il Quirinale: quello di Quirino (Atlas, tavv. 179-181) e quello della Gente
Flavia (Atlas, tavv. 185 e 190).
Tempio di Diana (fig. 29, A, a). Le fonti dicono che il santuario era in Arce,
cioè che la dea dominava dal punto più alto dell’Aventino (Ovidio, Fasti,
6.728, Orosio, 5.12; Marziale, 12.18.3); dicono anche che il Tevere scorreva
in basso, a brevissima distanza e che era raggiungibile direttamente dalla cima
(Livio, 1.45.6), tramite una strada la cui imboccatura oggi sta nel giardino
dell’Ordine di Malta, a sinistra della chiesa progettata da Piranesi; l’analisi della
geomorfologia ha permesso di individuare dove il culmine del monte si
trovava, da identificare appunto con l’arce. (b) Da questa altura provengono
materiali e reperti riferibili a Diana: un’iscrizione a grandi lettere (D)IANA e
due anfore attiche a figure rosse di V secolo a.C. rinvenute integre (fig. 29, A,
a), che lasciano immaginare un deposito cultuale piuttosto antico. Importante
è soprattutto un torso in marmo greco di una kore arcaizzante di età augustea
(fig. 29, A, b), appartenente forse a un acroterio, che rappresenta Diana come
appare nell’iconografia più antica, precedente il IV secolo a.C., quando si è
affermata l’immagine della dea efesina “polimastica” e cioè dai numerosi seni.
Sempre dall’Aventino provengono poi (c) tre tripodi marmorei (fig. 29, A, c)
del II secolo d.C., uguali e di raffinatissima fattura, da immaginarsi destinati a
un luogo sacro attribuibile ad Apollo oppure a sua sorella Diana: un’ara?; (d) il
frammento della Forma Urbis Severiana che raffigura il tempio di Diana
possiede un limite di lastra originale (fig. 29, A, d), che riferisce topografia
incisa a una serie ridotta di possibilità e quella da noi scelta ha il vantaggio di
non entrare in sovrapposizione con altre strutture rinvenute in zona e di
armonizzarsi con la morfologia del monte e con la sua viabilità; (e) infine, il
centro della statua di Diana viene a trovarsi esattamente in asse con quello
della statua di Apollo nel tempio palatino, seguendo l’orientamento della
strada che conduceva al tempio di Diana, ma le due statue guardavano in
diverse direzioni (fig. 29, A, e).
Tempio di Quirino (fig. 29, B). Per arrivare al tempio di Quirino bisogna
partire da un colle mal noto: il Quirinalis. Oggi il Quirinale comprende
quattro colles dell’abitato proto-urbano e poi della prima Roma: il Latiaris, il
Mucialis, il Salutaris e il Quirinalis, che era quello più elevato e lontano dal
cuore della città (Varrone, Della lingua latina, 5.52). I primi tre rilievi si
distinguevano fra loro per minimi avvallamenti, ma tra il Salutaris e il
Quirinalis si interponeva, per fortuna, una notevole valle, che ci aiuta
moltissimo a ricostruire questa parte dell’orografia di Roma, che in tempo
molto risalente era contrapposta a un aggregato di montes chiamato
Septimontium, che comprendeva Palatium, Velia, Fagutal, Subura, Cermalus e
poi anche Oppius, Caelius, Cispius. Il santuario più importante dei colles era
quello di Quirino. Quirinus, in origine Covirinus, era il dio locale protettore
delle curiae, in origine coviriae, che aveva dato anche nome al colle sulla cui
cima il suo culto era stato istituito, il Quirinalis. Le curiae erano i rioni del
tempo di Romolo e dei re-auguri suoi successori, che erano in numero di 30.
Ma erano noti nel sito di Roma anche 27 sacraria degli Argei, sparsi per montes
e colles – evidentemente ormai unificati –, che possiamo immaginare accolti in
altrettanti rioni o curiae. Il 3 (tribus) x 9 curiae = 27 curiae è una organizzazione
sicuramente più antica di 3 (tribus) x 10 curiae = 30 curiae, la quale rivela una
strutturazione successiva, finalmente decimale, che è poi quella della
fondazione di Roma, ragion per cui l’organizzazione basata sulle 27 curiae ha
da essere logicamente pre-romulea, da immaginarsi nel secolo che ha
preceduto la fondazione di Roma (875-775 a.C.), quando il Septimontium
aveva ormai inglobato i quattro colles (Atlas, tav. Ia). Se ne ricava che i colles
separati dai montes risalgono a un periodo precedente, anteriore all’875 a.C.
Ma se le coviriae/curiae sono rioni che risalgono già alle organizzazioni proto-
urbane – prima dei montes divisi dai colles e poi dei montes che hanno inglobato
i colles –, allora anche Covirinus/Quirinus deve risalire almeno al tempo del
centro proto-urbano che ha preceduto la fondazione romulea della città.
Quindi non è un dio inventato all’occorrenza e all’ultimo momento.
Torniamo ora alla valle che separava il Salutaris dal Quirinalis. Essa è ancora
attestata in una immagine di Roma del 1557, che è stata tenuta in poca
considerazione. Un’iscrizione del 1628 racconta come Urbano VIII abbia
spianato la sommità del colle Quirinale e riempito la suddetta valle, al fine di
creare quel grande viridarium che oggi è il giardino del palazzo del Quirinale
(Atlas, tav. 179). Che esistesse una valle in quel punto si ricava anche dalla
Forma Urbis Severiana, caratterizzata da sostruzioni e zone vuote, cioè da una
urbanizzazione quanto mai tormentata, che rivela anch’essa una discontinuità
orografica. La valle colmata da Urbano VIII è stata individuata nel 1938
scavando il colle per il Traforo. Infine un georadar del 2007 ha rilevato la cima
del Quirinale, spianata per colmare la valle e uniformare l’intera zona. Il colle
doveva poi avere una misura analoga a quella dei rilievi suoi confratelli, per cui
doveva terminare dove poi si troverà la porta Quirinalis. Ma se limitata era
l’entità dei colles in età proto-urbana, sia il Quirinalis che il Viminalis sono stati
poi estesi verso la periferia, forse per dar luogo ai tre rioni aggiunti da Romolo
per passare le curiae da 27 a 30. Questo insieme di curiae, incluse nelle fossae
Quiritium – un fossato che potrebbe aver preceduto l’agger di Servio Tullio –,
ha formato prima l’abitato unitario proto-urbano unitario e poi quello urbano
dei Covirites/Quirites, presenti, seppure in seconda posizione, nel nome della
cosa pubblica del luogo: populus Romanus Quirites (que). La urbs Roma era in
origine solo l’epicentro dell’abitato compreso fra Palatium e Cermalus, per la
quale Romolo aveva ottenuto uno statuto speciale, cioè l’inaugurazione, che
era una sorta di benedizione di Giove. Non a caso solo una porta che
immetteva nel Palatium era chiamata Romanula. Ma se il culto di Quirino
risale al centro proto-urbano, allora doveva trovarsi nel Quirinalis originario
ristretto e non in quello secondario ed esteso risalente all’organizzazione di
Romolo. Per questo siamo andati a cercarlo nei giardini del Palazzo del
Quirinale, più precisamente nel giardino all’inglese, dove abbiamo
individuato la cima del colle spianata da Urbano VIII (riprodotta in un
disegno di D. Castelli, Biblioteca Apostolica Vaticana: Atlas, tav. 179).
Così il georadar, senza rovinare un filo d’erba, ha rilevato una serie di
anomalie che formano un grande rettangolo, con al di fuori e solo su un lato
alcune strutture aggiunte. Abbiamo presto capito che si trattava della porticus
duplex, con duplice colonnato, della aedes Quirini (Marziale, 11.1.9), le cui
fondazioni, scavate in profondità, si erano salvate dalla furia equiparatrice di
Urbano VIII, il quale al contrario aveva invece estirpato grande parte delle
fondamenta dell’aedes che si trovava al centro. Il complesso era collocato tra le
mura serviane, la porta Quirinalis, l’alta Semita e una strada trasversale che
portava all’area sacra. Vitruvio (Sull’architettura, 3.2.7) testimonia che il tempio
era ottastilo, cioè con otto colonne sul fronte, e diptero, con un doppio
ordine di colonne intorno, come il tempio di Diana secondo la Forma Urbis
(Atlas, tav. 161; qui, fig. 29, A, d), quindi sorretto nell’insieme da 76 colonne
(Dione Cassio 54.19.4). Sul lato del portico rivolto al Campo Marzio erano
probabilmente altri edifici del santuario: Pulvinar Solis, Pallor et Pavor,
Capitolium vetus, Iuppiter Victor e Salii Collini (fig. 29, B, 3-12).
Uno dei rilievi Hartwig rappresenta il retro del tempio di Quirino (Atlas,
tavv. 181 e 185; qui, fig. 29, C, a), con capitelli tuscanici (più che dorici,
come scrive Vitruvio) e con il frontone secondario che raffigura gli auspicia di
Romolo e Remo, quindi i preliminari della fondazione di Roma e delle
imprese di Romolo. Possiamo logicamente e di conseguenza ricostruire che il
frontone principale raffigurasse la fine del fondatore, l’apoteosi e
l’assimilazione a Quirino. È da notare che il tempio di Quirino era
equidistante sia dal luogo dell’uccisione di Romolo al Volcanal, sia dal luogo
della sua sparizione/apoteosi alla palus Caprae, dove Augusto aveva eretto il
Pantheon (fig. 40); luoghi che rappresentano sia la versione originaria e sia
quella secondaria della fine di Romolo (Atlas, tav. 207; qui, fig. 40).
Si è tentato in tutti i modi, anche i meno corretti, di far saltare questa
ricostruzione, gonfiando a dismisura la casa del grande personaggio severiano
G. Fulvio Plauziano, in modo da togliere lo spazio necessario al tempio, ma
una ricostruzione accurata di quella casa mostra la compatibilità fra i due
monumenti. Ciò non bastando, le terme Severiane dette Grimane e le annesse
sostruzioni sono state spostate all’interno delle mura serviane, sempre per
togliere lo spazio necessario al tempio, ma queste strutture, scorrettamente
scalate e posizionate, ove invece accuratamente intese e situate, si trovano al di
fuori delle mura, per cui sono compatibili con il tempio (Atlas, tav. 197; qui,
fig. 29, B).
Gli avversari della nostra ricostruzione hanno spostato la localizzazione del
tempio oltre la porta Quirinalis e una successiva posterula, quindi al di fuori del
Quirinale originario. Ad attrarre l’attenzione è stato l’angolo di grande
sostruzione con nymphaea individuata sotto Palazzo Barberini, ma questa
sostruzione conteneva piuttosto una domus, come un’altra analoga sempre sul
Quirinale (Atlas, tavv. 190 I e 191 I). Se cerchiamo di collocare il tempio nei
soli modi possibili in questo incongruo luogo, è facile notare come le mura
serviane rendano impossibile questa soluzione, anche per la presenza di domus
sia nella supposta area sacra (nymphaeum, balneum e grande stanzone affrescato
con il c.d. Paesaggio Barberini) e sia accanto a questa, come la casa del IV
secolo appartenente a un vicarius Africae (Atlas, Regione VI, figura a fine testo).
Se ne ricava che quanto scritto da noi in un Saggio Einaudi (Carandini 2007)
e nelle due edizioni dell’Atlante di Roma antica permane valido e appare
ulteriormente confermato in seguito alle critiche che non reggono. Le
sostruzioni in questione fanno parte di un sistema molto più vasto di
sostruzioni della intera valle Sallustiana, per cui trascendono completamente il
luogo del culto proto-urbano e urbano di Quirino.
Tempio della gente Flavia (fig. 29, C). Percorrendo l’alta Semita (ora via XX
Settembre) verso nord-est, nei pressi del “melograno” o malum Punicum sono
state trovate, in tre tempi, le parti di un unico podio rettangolare, facili da
ricomporre e integrare, il quale va identificato con quello del templum Gentis
Flaviae, edificio che includeva nel seminterrato un mausoleo. Non a caso
vicino al monumento è stata rinvenuta una testa colossale di Tito che
apparteneva alle statue di culto del templum (Atlas, tav. 185D).
L’area sacra insisteva sulla casa natale di Domiziano ad malum Punicum
(Svetonio, Vita di Domiziano, 1), come era accaduto al sacrarium e poi templum
del divo Augusto. Era probabilmente già la casa di T. Flavio Sabino, il fratello
di Vespasiano (Tacito, Storie, 3.69; cil, VI 29788, cil, XV 7451; Atlas, tavv. 190 e
191 F). Nell’area sacra sono stati rinvenuti i rilievi Hartwig (Atlas, tav. 185B-
C). Sono probabilmente attribuibili a un arco di accesso al santuario, uno dei
quali mostra un flamine che sacrifica all’altare di questo tempio e che mostra
sullo sfondo il retro dell’aedes Quirini (Atlas, tav. 185). Ciò sta a indicare la
stretta relazione tra questi luoghi di culto. Che alla fine del principato
Domiziano sperasse di essere divinizzato, come Romolo assimilato a Quirino?
Le fondazioni del tempio sono notevolmente conservate per metà, per cui
sono raddoppiabili, data la perfetta simmetria dei templi. Si tratta di una
sostruzione rettangolare che doveva sorreggere il tempio vero e proprio, da
noi ricostruito sul modello del templum divi Hadriani (Atlas, tav. 244; qui, fig.
29, C, 6). Il podio del tempio prevedeva una camera sotterranea, accessibile
dal pronao, che aveva una forma a “T”, attestata anche per la aedes Apollinis
(Atlas, tav. 71; qui, fig. 11). In questa camera funeraria sono state deposte le
ceneri di Vespasiano, di Tito, di sua figlia Giulia e di Domiziano, queste
ultime collocate di nascosto dalla schiava Fillide nell’urna della nipote Giulia
(Svetonio, Vita di Domiziano, 17.3; si veda l’Angolo 18). Il soffitto del tempio
era voltato, come quello del templum Veneris et Romae (Atlas, tav. 102), ed era
ornato da raffigurazioni del cielo e degli astri connessi a Domiziano. In Stazio
(Le selve, 5.1.239-241) leggiamo: “Ecco, lo riconosco! È il ‘ministro’ di colui
che poco fa ha fondato un tempio della sua famiglia immortale (gentis Flaviae)
e ha posto i suoi astri in un alto cielo (la volta a botte del tempio)” (si vedano
anche Stazio, Le selve, 4.3.16-19 e Marziale, 9.1.8-10; 9.3.11; 9.20.1-6;
9.34.1-2, 7-8). Settimio Severo ornerà i soffitti degli ambienti della domus
Augustiana in cui amministrava la giustizia con cieli e astri (Dione Cassio
77.11.1). Si trattava in questo caso sicuramente di ambienti rettangolari, come
ad esempio la basilica al fianco della “aula regia”, mancando in quella domus
ogni sala circolare (Atlas, tav. 82, n. 4). D’altra parte la fondazione del tempio
è evidentemente rettangolare (m 52 x 74 ca.). L’ipotesi di una tholos, o edificio
rotondo, in astratto possibile (Dione Cassio 53.27), è qui da respingere allo
stato attuale delle conoscenze (lo conferma anche una prospezione
geomagnetica britannica inedita, che ho avuto modo di consultare). È
possibile che fosse un templum non solo l’edificio per la statua di culto, ma
anche l’intera area circondata da una triplice porticus, dotata di nicchie
rettangolari al centro e semicircolari ai lati. Quando Diocleziano costruirà le
sue terme, sarà costretto ad abbattere la porticus, lasciando sopravvivere
solamente l’aedes e l’ara, attestati ancora nel IV secolo dai Cataloghi Regionari.
Sul tempio di Diana: Atlas, tav. 161. – Bruno 2014d.
Sul tempio di Quirino: Atlas, tavv. 179, 181, ill. 28-29. – Capanna 2014. –
Carandini 2007. – Coarelli 2014.
Sul tempio della Gente Flavia: Atlas, tavv. 185, 190. – Capanna 2008. –
Coarelli 2014.
29.
Il maggiore tempio di Roma e dell’Impero
(FIG. 30)

Secondo Dione Cassio (77.16.3), Settimio Severo aveva costruito un tempio a


Ercole e Dioniso (Bacco) – dèi protettori di Leptis Magna – “immensamente
grande” (hupermeghethes = hupermegas), non sappiamo se a Leptis Magna, sua
città di origine, oppure a Roma.
A Leptis non figura alcun tempio straordinariamente grande. Settimio
Severo vi ha varato un duplice progetto: nuovi monumenti intorno al Foro e
un’estensione urbana nella quale ha eretto monumenti come la basilica, ma
manca in quel progetto un tempio immensamente grande. Inoltre suo figlio
Caracalla ha interrotto i lavori alla morte del padre, per cui un terzo progetto
appare improbabile (ringrazio per l’informazione L. Musso). Esiste invece un
tempio enorme proprio nel complesso severiano del Quirinale.
Non soltanto è il più grande tempio di Roma, ma è addirittura il maggiore
dell’intero Impero: mq 5846, superiore per mq 107 al tempio di Baalbek, ma
la basilica costantiniana di Pietro ha raggiunto i mq 9139, per cui il primo
apostolo di Gesù ha meritato quasi il doppio della superficie assegnata a due
dei pagani. Questo dato di fatto rende l’identificazione dell’enorme tempio
lungo il vicus laci Fundani (oggi via XXIV Maggio) sicura: è il templum Herculis et
Dionysi. L’identificazione comporta la presenza, nel medesimo complesso, di
un secondo tempio, quello di Serapide, che numerosi indizi e di vario tipo
riconducono a questo stesso luogo della città (Atlas, tav. 192).
Il tempio di Ercole e Dioniso è difficile da immaginare più che decastilo
(Palladio lo ha ricostruito dodecastilo). Conosciamo la dimensione generale
del tempio, dove arrivava la cella e un angolo del frontone. Si appoggiava a un
grande muro che con altri due delimitava su tre lati l’area sacra. Dietro a
questo muro si ergeva un corpo intermedio lungo e stretto, che aveva al
centro un cavaedium, ai lati del quale erano due corridoi con gli accessi al
grande tempio, alla sua area sacra e a un sistema di rampe che portava in basso,
alla quota del vicus Caprarius. Questi corridoi dotati di quattro finestre,
avevano quattro stanze anch’esse finestrate al piano sottostante; entrambi i
piani erano sostenuti da tre contrafforti. I corridoi conducevano anche ad
appartamenti disposti su tre piani contenuti nelle turres che sorgevano alle
estremità di quel corpo. Al centro era il citato cavaedium, che comunicava con
i corridoi e immetteva nella seconda area sacra, attribuibile all’aedes Serapidis,
costituita da una triplice porticus che al centro accoglieva la aedes, orientata al
contrario del tempio di Ercole e Dioniso. Ai lati del complesso erano giardini
terrazzati.
Da un punto di vista strutturale, sia il corpo intermedio che l’area sacra a
Serapide facevano parte di una enorme sostruzione appoggiata al muro di
fondo del tempio di Ercole e Dioniso, delle cui rovine abbiamo varie
raffigurazioni del ’500 e del ’600 – tra le quali una informa anche sulla
disposizione dei due livelli di finestre relativi ai due percorsi delle rampe –, e
anche resti archeologici che permangono nel giardino Colonna e nella
Università Gregoriana, di cui ora esiste il rilievo di E. Gallocchio, che molto
ci ha aiutato a migliorare planimetrie e alzati. L’opera aveva previsto un taglio
verticale del collis Mucialis, dal livello del vicus laci Fundani fino raggiungere
quello del vicus Caprarius. La sostruzione, esclusi gli edifici sovrastanti per i
quali era stata costruita, era alta m 25,31, per cui era di poco più elevata
rispetto a quella che sosteneva la silva Apollinis nella casa-santuario di Augusto,
alta m 25,16, mentre più alta ancora (m 29,91) era quella di età adrianea
antistante i templi di Victoria e Magna Mater. Non avrebbe senso una opera
tanto colossale solo per albergare una rampa di accesso al Quirinale dalla
bassura del Campo Marzio, sul genere di quella che univa la grande aula di
ricevimento domizianea e i penetralia di Minerva alla domus Tiberiana (Atlas,
tav. 48). Questa doppia rampa, superando m 25,47 di dislivello, occupava solo
mq 347,7, mentre la sostruzione Severiana occupava mq 4486,3, quindi
tredici volte maggiore! Doveva quindi albergare ben altro. Nel complesso
severiano, che è perfettamente simmetrico, le rampe sono due, ciascuna entro
due spazi lunghi e stretti, uno esterno, percorso due volte, e uno interno,
percorso una volta sola. Queste due doppie rampe affiancavano e includevano
uno spazio molto più ampio, libero e al centro, la cui planimetria sembra
prevedere al di sopra una grande aula circondata da un porticato. È questo
l’unico luogo dove è immaginabile e perfettamente ricostruibile il complesso
di Serapide, fatto di porticus e di aedes, che tanti indizi riconducono proprio in
questo luogo.
Il frontone principale del tempio di Ercole e Dioniso poteva essere ornato
dai Dioscuri ora in piazza del Quirinale – i mitici gemelli potevano rimandare
a Geta e Caracalla – posti forse ai lati di una statua del padre Giove, dio che
doveva rimandare a Settimio Severo. Una statua di Roma seduta poteva
ornare il centro del frontone o essere posta come acroterio sul tetto.
Le estremità del frontone occidentale del tempio di Serapide potevano essere
decorate dalle statue del Nilo e del Tevere, rinvenute nelle vicine terme di
Costantino (Atlas, tav. 196), trasferite nel 1517 in Campidoglio e poste ai lati
della doppia scalinata d’accesso del Palazzo Senatorio realizzata da
Michelangelo.
Insomma, il complesso severiano del Quirinale era un angolo esotico di
Roma, per una parte libico e per l’altra egizio, un angolo africano che
riportava a Leptis Magna e ai suoi divini patroni e ad Alessandria e al suo
Serapeo, santuario eretto dai Tolomei, probabilmente da Tolomeo III (246-
221 a.C.), ricostruito in età imperiale (m 185 x 92), cui si accedeva tramite
una scalinata di 100 gradini e che comprendeva il tempio di Serapide con
annessa biblioteca, i culti di Arpocrate e di Iside, la necropoli sotterranea degli
animali sacri e sacelli per le altre divinità egizie; per la salute dell’imperatore
Adriano, vi è stata dedicata una grande scultura del toro Api.
Atlas, tavv. 191 M, 192-194, ill. 30, figg. 161-162, 169-171. – Capanna
2009. – Coarelli 2014. – Santangeli Valenzani 1991-1992.
30.
Banchine sul Tevere
(FIG. 31)

Se si vuole capire la grandezza della città di Londra, che New York ha poi
fatto tramontare, bisogna recarsi ancora oggi a visitare i suoi docks. L’Howland
Great Dock (costruito nel 1696 e successivamente divenuto il centro dei Surrey
Commercial Docks) è stato progettato per fornire un sicuro attracco a 120
grandi navi e di conseguenza risolvere i problemi di stoccaggio. Questo
grande progetto è stato realizzato in circa duecento anni, con maggiore
intensità nell’ultimo trentennio dell’età georgiana e in quella vittoriana. Il
primo dock (1802) è stato il West India, cui sono seguiti: the London (1805), the
East India (1805), the Surrey (1807), St. Katharine (1828) e the West India South
(1829). Più a est sono stati poi realizzati i docks vittoriani: the Royal Victoria
(1855), Millwall (1868) e Royal Albert (1880); infine nel 1921 si aggiunse il
King George V.
Grandioso precedente antico sono le banchine del medio e del tardo Impero
sul Tevere, a Testaccio e in Trastevere, con i quartieri commerciali
retrostanti, questi ultimi a sud del pons Fabricius, quindi innanzi all’Aventino e
a Testaccio. Davanti ai navalia, diventati poi horrea, era il forum Pistorum o dei
Panettieri e davanti a quest’ultimo erano le installazioni portuali, con la
banchina inferiore (di magra) più stretta e più avanzata – al cui livello
sbucavano le cloache – e con la banchina superiore più larga e più arretrata;
dalla banchina inferiore rampe e gradini portavano alla banchina superiore; a
livello superiore della rampa e a quello della banchina superiore spuntavano gli
ormeggi in travertino. Dalla banchina superiore si accedeva sia al piano
interrato dei magazzini, che avevano probabilmente due piani sopra il livello
di terra segnato da un retrostante vicus, e sia alle due cryptoporticus, una delle
quali si trovava sotto il vicus. Le darsene intaccavano sia la banchina inferiore
che parte di quella superiore. Fotografie dei vecchi scavi mostrano
l’imponenza straordinaria delle strutture.
Atlas, tavv. 165-167, 250.
31.
Vivere in appartamenti
(FIG. 32)

Sotto quella che è oggi la Galleria Alberto Sordi sono stati rinvenuti i resti di
sette isolati (insulae) del tempo di Adriano, uno dei quali particolarmente ben
conservato. Tre isolati davano sulla via Lata – attuale via del Corso –, erano
separati da una viabilità parallela e perpendicolare alla strada principale ed
erano fronteggiati da una porticus coperta a terrazzo. L’isolato al centro era
probabilmente a quattro piani e illustra ottimamente il nuovo modo di
abitazioni, che aveva sostituito la precedente basato sulle case ad atrio e a
peristilio (Atlas, tav. 191 L).
L’insula si articolava in due cortili. Al piano terreno erano le tabernae e gli
ingressi che davano nei cortili. Gli appartamenti ai vari piani erano costituiti
da infilate di stanze, dotate a volte di corridoi. Si trattava ormai di un abitare
in serie, in modo assai più compatto e su più piani, che ricorda quello degli
edifici ad appartamenti delle nostre città: i condomini. Le insulae meglio
conservate sono quelle di Ostia e quella di Roma sotto la scalinata che
conduce alla chiesa di Santa Maria in Aracoeli, la quale conserva, seppur
rimaneggiati, quattro piani e moltissime stanzette (Atlas, tav. 57).
Atlas, tavv. 199, 204. – Cavallero 2011.
32.
Dove la plebe riceveva il grano
(FIG. 33)

Il grano veniva distribuito alla plebe davanti ai templi che oggi si vedono al
centro di piazza Argentina e che in antico si trovavano dietro il teatro e la
curia di Pompeo (fig. 34). Tra il 100 e il 41 a.C. ciò avveniva davanti ai templi
dei Lares Permarini, di Feronia, di Fortuna huiusce diei cioè di oggi giorno – è
conservata la testa in marmo della statua di culto che era in materiale
deperibile – e di Giuturna, quest’ultimo circondato su due lati da 22 cellette
per il frumento. La distribuzione avveniva più precisamente lungo la strada
che collegava l’Ovile o Saepta (fig. 35) al circus Flaminius, nel settore
prospiciente i suddetti templi. La strada, davanti all’area sacra, era coperta da
un tetto sostenuto da 22 coppie di pilastri: era questa la porticus Minucia vetus. I
pilastri formavano, ai due lati della strada, 44 ostia, le aperture tramite le quali
avveniva la distribuzione del frumento misurato in modii, come illustrata in un
mosaico di Ostia (il modius equivaleva a 8,7 litri).
A partire dall’80 d.C. le cellette per il frumento al tempio di Giuturna sono
obliterate e la porticus Minucia vetus viene monumentalizzata e dotata di una
grande iscrizione (Atlas, tav. 217), ma nel frattempo essa aveva perso la
funzione frumentaria, trasferita oramai alla annessa porticus Minucia
Frumentaria, il quadriportico che circondava la aedes Nympharum (Atlas, tav.
239) nel quale erano conservate le tavole pubbliche del censimento (l’archivio
di coloro che avevano diritto alle frumentationes). Per un tratto questa porticus
era dotata di magazzinetti, magari a più piani, necessari forse a rifornire la
distribuzione del frumento nel quadriportico. Dietro la porticus Minucia
frumentaria era un grande horreum articolato in 22 ambienti, probabilmente su
due piani (Atlas, tav. 232 R). Era il magazzino che riforniva all’ingrosso il
frumento per le frumentationes, che poi avvenivano tramite magazzini più
piccoli.
Atlas, tavv. 215b-217.
33.
Curia di Pompeo, Cesare trucidato
(FIG. 34)

Il teatro e il retrostante porticato di Pompeo (55 a.C.) rappresentano non solo


il più antico teatro stabile di Roma, ma anche il complesso monumentale più
grandioso del Campo Marzio (maggiore della valle Sallustiana/Ippodromo; si
veda l’Angolo 44, fig. 52, 103-104 e dello stesso anfiteatro Flavio, fig. 52, 89).
La aedes Veneris Victricis, sorretta da una fondazione che includeva tre aule
sottostanti similmente a come avverrà per il Serapeo dei Severi (si veda
l’Angolo 29, fig. 30), dominava l’ampia cavea e la scena ornata da statue –
conservati, un Apollo, una Musa e un Satiro –, la scena immaginabile, per la
sua prima fase, come quella di Orange, affiancata da portici. Dietro il teatro
erano le porticus Pompeianae, con muri di fondo che prevedevano nicchie
semicircolari e rettangolari. La porticus dietro la scena era mossa da tre
scenografiche protuberanze. Ai quattro lati e al centro erano viali, limitati da
due doppie file di alberi che venivano a formare due boschetti o nemora, che
culminavano in due lacus posti ai fianchi dell’arcus Pompei. Questo enorme e
ombroso giardino era limitato, su entrambi i lati, da due entità architettoniche
lunghe e strette, parti anche queste dell’intero rettangolare complesso: da una
parte la porticus Lentulorum, con colonnato al centro e con sul retro una
ambulatio (lunga m 234, circa uno stadio e un quarto); dall’altra parte erano
altri due spazi analoghi, ma qui ingombri di numerose camerelle; nel primo
spazio le camerelle si disponevano ai lati di un passage centrale, alternate a
ambienti quadrangolari più ampi; nel secondo spazio, un’unica fila di stanze
che terminavano in una vasca o lacus triangolare era disposta lungo un altro
passage. L’impressione è quella di due mercati al coperto, tipo suk. Insomma il
giardino era delimitato sui lati lunghi da un versante sportivo e da uno
commerciale. Di fronte alla porticus sul retro della scena era una grande e
sontuosa aula, la curia Pompei. Plutarco, nella Vita di Cesare (66) racconta la fine
del dittatore: “si accasciò... contro il piedistallo su cui era poggiata la statua di
Pompeo ed esso fu inondato di sangue, sicché parve che Pompeo stesso
guidasse la punizione del rivale, disteso ai suoi piedi”. Augusto, il vendicatore
del divo Cesare, ha poi murato la porta della curia Pompei (Svetonio, Vita di
Cesare, 88.1; Dione Cassio 47.19).
Di questa curia in cui il Senato era riunito nelle idi di marzo del 44 – perché
la curia nel foro era bruciata nel 52 a.C. (Aulo Gellio, Notti attiche, 14.7.7;
Appiano, Guerre civili, 2.115) – possediamo resti sufficienti, ma finora
tralasciati, per tentare di ricostruirla onde poter ambientare il famosissimo
evento. Si trattava di un’aula rettangolare, più larga che profonda, posta su un
suolo inaugurato e quindi un templum – condizione per potervi riunire il
senato – che prevedeva, sopra un alto podio, al suo interno praticabile, un
ordine architettonico, staccato dal muro perimetrale. Quest’ultimo era
scandito, in corrispondenza delle colonne, da lesene, possiamo immaginare
inframezzate da finestre per dar luce all’ambiente. L’ordine architettonico
decorato su tre lati era disposto su due piani, è conservato uno dei due angoli
del podio. Al centro era una grande nicchia rettangolare, anch’essa conservata
e che ancora oggi si vede nell’area di Largo Argentina, al cui centro sorge oggi
un pino. La nicchia, anch’essa su podio e fiancheggiata probabilmente da due
colonne che reggevano un epistilio, interrompeva l’ordine architettonico e
prevedeva due muri ai lati che fanno immaginare all’interno una più stretta
nicchia semicircolare, entro la quale è da ricostruire la statua di
Pompeo/Nettuno, dominatore dei mari, con un tridente nella sinistra, con il
piede destro poggiato sulla prora di una nave rostrata. Lungo il podio e su due
lati erano i gradoni sui quali erano i banchi (subsellia) dei senatori. Sul fondo e
al centro invece era un podio, di cui restano tracce, ed è su questo podio, ai
piedi della statua di Pompeo, che Cesare è stato trafitto da 23 coltellate, una
sola mortale in pieno petto: “et tu Brute!”. La planimetria della curia di
Pompeo la rincontreremo nel più tardo Augusteum del ludus Magnus, anch’essa
una sala colonnata dotata di podio (Atlas, tav. 115).
È impressionante quanta poca attenzione ricostruttiva sia stata riservata a
questo strepitoso complesso, come a tanti altri anche insigni di Roma. La
curia andrebbe scavata sotto la strada, rendendola visitabile dall’area di Largo
Argentina. Modesto progetto, ma troppo grande per gli attuali miserrimi
tempi.
Atlas, tavv. 220-221, ill. 28, figg. 188-189.
34.
Dai comizi centuriati agli spettacoli di Caligola
(FIG. 35)

I saepta Iulia (26 a.C.) erano composti da due porticus affrontate ornate da
nicchie – Argonautarum, Meleagri –, con al centro un vasto spazio rettangolare
che serviva per le elezioni, diviso in 35 corsie per suddividere i votanti delle
35 tribus. Dalla parte opposta all’ingresso erano i pontes che servivano a
raggiungere il tribunal dei magistrati, i quali controllavano la votazione (un suo
dettaglio è conservato nella Forma Urbis Severiana). Dietro il tribunal, i saepta
terminavano a un vicus oltre il quale era il Diribitorium, cioè il complesso
aggiunto nel 7 a.C. da Agrippa, nella cui grande aula si scrutinavano i voti. Era
costituito da un vestibulum, da una grande area scoperta circondata da una
porticus e infine da una grande aula, la più grande mai costruita fino ad allora,
coperta da un unico tetto, secondo Dione Cassio; Plinio il Vecchio racconta
che uno dei travi di larice, lungo 100 piedi, era custodito nella porticus
Meleagri.
Secondo Dione Cassio, nel 37 d.C. Caligola aveva allestito palchi nel
Diribitorium, come per trasformarlo in un odeum, al riparo dalla calura estiva;
per non dire degli stessi Saepta, scavati al centro per accogliere acqua e una
nave, su cui probabilmente il principe banchettava. Ecco il destino del luogo
in cui si eleggevano i consoli: tradotto da Caligola in un complesso per
spettacoli!
Atlas, tav. 227.
35.
Teatro di Marcello, come nuovo
(FIG. 36)

Grazie ai dati archeologici cospicui anche in elevato, alla Forma Urbis


Severiana, alle fonti letterarie e a un valido confronto come quello del coevo
teatro di Orange (si veda anche l’Angolo 33), la ricostruzione del teatro di
Marcello può essere portata a compimento in tutte le sue parti: dalla
fondazione con sottostante palizzata in terra, dai tre ordini dell’esterno, con
maschere come chiavi di volte, con finestroni all’ultimo ordine (come poi
all’anfiteatro Flavio) e con i sostegni per il velarium – copertura mobile di teli
–, alla summa media e ima cavea, all’orchestra, alle parodoi (gli spazi praticabili che
collegavano l’esterno all’orchestra, fino al pulpitum proscenii, con ai lati le turres
(a tre piani), alla via Triumphalis – attraverso le turres e il pulpitum passava infatti
la processione trionfale (Atlas, tav. 223) –, alle basilicae e infine alla scenae frons,
con le due fiancate e il tetto che spioveva all’infuori. Del fronte-scena
abbiamo alcune colonne e la misura delle quattro altissime (m 11,23) e di
marmo Luculleo che fiancheggiavano la porta Regia o centrale del proscenio e
che prima avevano sorretto l’atrio della casa di Scauro (Atlas, tav. 66; Plinio il
Vecchio, Storia naturale, 36.8.24, Asconio, In difesa di Emilio Scauro,
commentario, 45; fig. 8). Qui, come per il postscaenium, con finto porticato
voltato e sovrastanti sostegni per il velarium, aiuta la scena straordinariamente
ben conservata del coevo teatro di Orange. La porticus post scaenam, di cui vi
sono tracce importanti nella Forma Urbis Severiana, era divisa in due parti che
avevano, al centro, un corpo leggermente avanzato, più alto e a sé stante, dove
era il retro della porta Regia; qui di aiuto per la ricostruzione è stato il
propileo della porticus Octaviae (Atlas, tav. 225). La porticus comunicava con le
basilicae nei cui spazi potevano rifugiarsi gli spettatori in caso di pioggia. Oltre
la porticus era uno spazio rettangolare, lungo, stretto e con due ingressi dal vicus
lungo il Tevere che scorreva vicino. A questo spazio se ne aggiungeva un
altro, semicircolare, nel quale erano accolte due aedes con arae, una delle quali
forse consacrata a Pietas: uno dei culti che erano stati spostati per dar luogo al
teatro. Quante volte abbiamo ricostruito questo teatro? Innumerevoli,
curando sempre più ogni dettaglio e alla fine, in mancanza di dati ulteriori, ci
siamo fermati, perché non riuscivamo più a fare meglio. Solo ricostruendo un
monumento nella sua interezza, provandoci un innumerevole numero di
volte, si può fare affidamento sulle ricostruzioni delle singole parti. Insomma
bisogna arrivare a ricostruire quello che potrebbe essere stato il progetto
generale di un monumento, che va interpretato come un risultato,
provvisorio e ipotetico certamente, ma anche indispensabile, per avanzare e
non ricadere nella sterile antiquaria. Il ricostruire i progetti architettonici e le
loro modificazioni nel tempo è il fine supremo dell’archeologo, sia dal punto
di vista morale che culturale; ma molti antichisti si fermano assai prima di
questa meta.
Atlas, tavv. 223R, 229, ill. 27. – De Nuccio 2014.
36.
L’ara Pacis e il suo ligneo recinto
(FIG. 37)

Molto si è scritto sull’ara Pacis, soprattutto sulle sue decorazioni e rilievi


famosissimi. Meno si è riflettuto sull’interno del recinto, specie nella sua parte
inferiore, là dove il progetto ha inteso imitare una struttura a pali lignei ben
squadrati (come connessi fra loro è difficile dire). Quale struttura s’intendeva
imitare con quel motivo funzionale ligneo, che tanto contrasta con il resto
fastoso del monumento?
Viene in mente che s’intendesse imitare un templum/sacellum, cioè il recinto
di area inaugurata che conteneva un’ara consacrata a una divinità, ma a un
recinto di che epoca?
Lo studio del culto di Giove Statore (si veda l’Angolo 24) aiuta in tal senso.
Certo, non i templa/sacella del VI secolo avanzato, che erano in blocchi di tufo;
probabilmente neppure quelli in scheggioni del 600-530 a.C. e forse neanche
quelli in argilla e schegge del 650-600 a.C. L’ara Pacis sembra pertanto rifarsi
ai templa/sacella, recinti inaugurati, della prima età regia, fatti appunto in pali di
legno legati da argilla, che si datano tra il 750 e il 650 a.C. L’ara Pacis mostra
pertanto un tratto molto arcaizzante, che rivela una realtà storica più antica di
almeno 650 anni e che rimanda al tempo stesso a costruzioni rituali
temporanee, anche contemporanee, che intendevano apparire risalenti,
nonostante la squadratura perfetta dei pali, che rivela l’epoca avanzata. Il
carattere romuleo e regio misto a quello classicistico e principesco ben si
conviene alla politica religiosa e culturale di Augusto. Il recinto o sacellum
dell’ara ricorda il templum minus o in terris descritto da Varrone, Festo e Servio,
cioè un locus inauguratus e cioè benedetto. Quindi i templa minora – “creati
dagli auguri recingendo i luoghi prescelti con tavole di legno o con drappi, in
modo che non abbiano più di un ingresso, delimitando lo spazio con formule
stabilite” (Festo) – sarebbero perfettamente compatibili con i sacella. Non è un
caso che le misure interne del recinto dell’ara Pacis coincidano con quelle del
templum di Bantia, il solo che conosciamo in ogni dettaglio.
Atlas, tav. 230. – Carandini 2006. – D’Alessio 2014.
37.
I mausolei di Augusto e di Adriano
(FIG. 38)

Il mausoleo di Augusto (29 a.C.) era completamente rivestito di marmo solo


per quanto riguardava la parte esposta al suo accesso da meridione, dove era
l’ara divi Augusti, mentre il resto del sepolcro era in travertino. Il mausoleo era
in un recinto quadrato di 7 iugera (uno iugerum equivaleva a un quarto di
ettaro), limitato da un recinto fatto di pilastri in travertino connessi da barre
(disponiamo dello schizzo di uno di questi pilastri). Doveva trattarsi di un locus
religiosus, forse da immaginarsi come un lucus entro un nemus, come una radura
in un bosco. Tra il recinto e il mausoleo era un lastricato in travertino che
portava al vestibulum del mausoleo, introdotto da gradini e sorretto da due
colonne sormontate da fastigium; richiamava il vestibulum della casa di Augusto,
il quale ci aiuta a ricostruire questa entrata, insieme a un intarsio ligneo della
chiesa di Santa Maria in Organo a Verona (figg. 11 e 38). Ai lati di questo
ingresso erano due pilastri, rivestiti da lastre bronzee sulle quali erano incise le
res gestae, e due obelischi egizi, oggi a piazza dell’Esquilino e a piazza del
Quirinale. Sulla trabeazione del vestibulum era forse l’iscrizione funeraria e nel
fastigium era accolto il clipeus (scudo rotondo) virtutis, in parte conservato. A
sinistra e a destra della porta erano due nicchie, che potevano contenere le
statue di Venere e di Marte con Eros. Seguivano due rilievi con arbusti di
alloro, in parte conservati, immaginabili ai lati della porta sormontata dalla
corona civica e dall’iscrizione al Pater Patriae. Queste statue e rilievi rimandano
alla casa del princeps (fig. 11). Il vestibulum del mausoleo si appoggiava al
tamburo, costituito, dal basso: da uno zoccolo, da una fascia in opera quadrata,
da un ordine tuscanico – sulla cui trabeazione, possibilmente al centro, era
forse una iscrizione a Gaio Cesare – e da una balaustra inframezzata da basi per
statue. Al di sopra era un giardino di sempreverdi – probabilmente allori,
come forse nella silva Apollinis della casa – al centro del quale si ergeva la tholos
funeraria, un edificio rotondo, che il sepolcro di Adriano, la tarsia lignea di
Verona e il trofeo di La Tourbie aiutano a ricostruire. In cima alla tholos era la
statua bronzea di Augusto. L’interno del tamburo era costituito da una grande
fondazione e concentricamente, dall’esterno verso l’interno, da due
concamerazioni riempite di terra e da tre corridoi che avevano al di sopra altri
tre corridoi. Le concamerazioni erano interrotte dal corridoio di accesso,
sovrastato da un condotto che collegava il retro aperto del fastigium al
corridoio superiore esterno (vedi sopra). Al centro del monumento, su una
propria fondazione, era non la camera funeraria, come ci si sarebbe aspettato,
ma un corpo rotondo costituito da un nucleo intorno al quale probabilmente
girava, salendo, una scala a chiocciola, dotata di 9 nicchie, forse per accogliere
le urne funerarie dei familiari; la scala ha come riferimento un disegno di
Giovanni Battista Piranesi (Atlas, tav. 284). La scala conduceva a una
soprastante tholos funeraria, che i resti archeologici, un disegno di Piranesi e la
tarsia lignea di Verona aiutano a ricostruire. La tholos era circondata prima da
un pavimento in travertino sovrastante i corridoi e a cui si accedeva dalla tholos
tramite qualche gradino, e poi dal giardino pensile forse con allori, sovrastante
la terra che ricopriva le due concamerazioni e delimitato dalla balaustra con
basi per statue. La tholos era rivestita da un ordine a colonne, era composta di
un anello esterno finestrato, nel quale perveniva la scala, e da una cella interna,
anch’essa architettonicamente decorata, che aveva al centro, probabilmente su
un basamento posato sul nucleo di questo corpo, l’urna di Augusto. L’urna era
come la meta finale e altissima, che aveva sopra di sé solamente la copertura
della tholos e la statua del principe divinizzato. Luogo della sepoltura e luogo di
culto pertanto coincidevano, come non avverrà nel sepolcro di Adriano. Mai
architettura era riuscita a incorporare, nella sua organica tripartizione interna e
nei suoi due livelli l’idea di apoteosi, data dalla scala a chiocciola e dalla alta
cella funeraria circondata dal giardino pensile e sovrastata dalla statua del divus:
quasi un ascensore per il cielo. Il sepolcro del principe è eloquente, riguardo al
destino post mortem, quanto nella casa-santuario, riguardo a 40 anni di
principesco governo. Il princeps aveva guidato il mondo dallo studio-
laboratorio della sua casa, posto in alto e isolato, chiamato Syracusae (si veda
l’Angolo 11, fig. 12, 14); similmente il divus osservava il mondo dalla tholos
funeraria del suo mausoleo, anch’essa posta in alto e isolata, come dal cielo.
Il sepolcro di Adriano, affacciato sul Tevere, si trovava anch’esso in un
recinto quadrato costituito da pilastri, sormontati probabilmente da pavoni in
bronzo dorato, due dei quali sono conservati (nei Musei Vaticani). Il tamburo
si ergeva sopra un basamento quadrato, in opera laterizia, con lesene agli
angoli (rilevato da G. da Sangallo), porta centrale (si conserva un capitello di
lesena) e statue in cima lungo il bordo del sepolcro. Sullo zoccolo del fronte
figuravano le iscrizioni funerarie dei membri della famiglia imperiale lì
seppelliti. La porta aveva probabilmente di fronte, entro una nicchia, una
statua colossale del divo Adriano (di cui forse si conserva il ritratto). Poco
prima, sulla destra, si imboccava la rampa, illuminata da quattro lucernai, che
portava al primo piano. Questo era circondato all’esterno da un ordine
architettonico su podio, dotato al centro di una falsa porta e ornato in cima da
un fregio di ghirlande appese a bucrani, o crani di bue. La rampa sbucava in
un corridoio che a sinistra portava nella camera funeraria dotata di tre nicchie,
quella centrale riservata al principe, mentre a destra era una scala che
raggiungeva il retro della falsa porta e di lì, tramite una porta, immetteva in
una seconda rampa breve che conduceva al secondo piano. Qui era il giardino
pensile in salita, che al centro culminava nella tholos per il culto del divo
Adriano. Sotto la tholos era una camera di sostruzione, interposta tra la tholos e
la camera funeraria. Sopra la tholos figurava il divus su quadriga. Una porta
bronzea di San Pietro del ’400 raffigura l’intero monumento (con basso
colonnato intorno alla tholos, che i dati archeologici non consentono tuttavia
di ricostruire). All’esterno il monumento appare assai più grandioso di quello
di Augusto. Ricorda come dimensione e struttura la tomba dinastica
cinquecentesca dell’imperatore Hamayun a Delhi, 1570 circa (si veda la
sovrapponibilità delle due sezioni). Ma l’organizzazione della camera
funeraria, al di sotto del luogo di culto, appare assai meno altisonante, almeno
dal punto di vista simbolico, rispetto all’apoteosi tradotta in pietra del
mausoleo di Augusto, dove camera funeraria e tholos del culto insolitamente
coincidevano. La tholos funeraria e cultuale di Augusto si trovava a m 26,71 di
altezza e la sua statua a m 49,57, la cella funeraria di Adriano, invece, si
trovava a m 12,79, quindi a metà altezza rispetto a quella di Augusto, mentre
la sua tholos cultuale si trovava a m 33,07; è possibile che la quadriga di
Adriano si trovasse alla stessa altezza della statua di Augusto.
Sul Mausoleo di Augusto: Atlas, tavv. 231, 284. – Virgili 2014.
Sul Mausoleo di Adriano: Atlas, tav. 251.
38.
La nave di Enea e il suo ricovero
(FIG. 39)

I Greci per molto tempo hanno ignorato la leggenda di Roma e così si erano
figurati che la città fosse stata fondata da Enea. Al contrario, nessuno storico
romano ha mai creduto ciò, salvo Sallustio in una sua punta ellenizzante.
Quindi, mentre Enea era venerato a Lavinio, dove in una tomba di un re
locale era stata riconosciuta intorno al 575 a.C. la sua tomba, a Roma si
venerava Romolo, forse alla sua casa sul Cermalus, nel Volcanal al foro, dove il
re era stato ucciso e squartato dai suoi consiglieri, e sul Quirinale, dove era il
culto del dio Quirino al quale il fondatore era stato assimilato. Invece nessun
culto di Enea fondatore esiste a Roma! Esisteva tuttavia una sua memoria: la
nave con la quale sarebbe approdato nel sito di Roma. Procopio (La guerra
Gotica, 4.22.8) racconta di aver visto, lungo il Tevere e in mezzo alla città, un
ricovero navale in cui era ospitata la reliquia integra della nave di Enea, nella
descrizione della quale (un ordine di remi, lunga 120 e larga 25 piedi, ecc.) è
possibile riconoscere una pentecontoros, cioè una nave di tipo arcaico. Nei prata
Flaminia, tra la aedes Castoris e il teatro di Marcello, davanti a magazzini
porticati affacciati sul Tevere, era un edificio strano, lungo e stretto (Atlas, tav.
222Q). Verso est era un’area di accesso circondato su tre lati da colonne, una
scalinata affiancata da muri che culminavano in una esedra semicircolare, che
forse conteneva una statua dell’eroe: un heroon di Enea? Dietro l’esedra era il
ricovero in cui era conservata la nave attribuita all’eroe. Abbiamo ricostruito il
monumento, integrando la Forma Urbis Severiana, solo in parte conservata,
immaginando un edificio sul genere dei navalia (Atlas, tav. 211), anche perché
in questa zona prospicente l’isola Tiberina erano stati un tempo i primi navalia
(Livio, 3.26.8, 45.42.12; Valerio Massimo, 1.8.2). Lì vicino, nel 291 a.C.,
aveva attraccato anche la trireme che aveva trasportato il serpente sacro da
Epidauro, come mostra un medaglione di Antonino Pio. L’edificio da noi
identificato come il ricovero della nave di Enea, disposto in uno spazio non
rettilineo, dove il Tevere piegava, fa pensare a un assetto non anteriore alla
seconda metà del I secolo a.C., quando i navalia erano stati qui in gran parte
smantellati. Potrebbe trattarsi di una riviviscenza della leggenda di Enea a
Roma, che bene si inquadrerebbe al tempo di Augusto, quando Virgilio nel
libro VIII dell’Eneide (29-19 a.C.) ha descritto Evandro che accoglie Enea
approdato a Roma.
Atlas, tav. 222Q – Coarelli 1996.
39.
Il Pantheon di Augusto ricostruito da Adriano
(FIG. 40)

Il Pantheon di Agrippa (25 a.C.) era una rotonda con colonnato interno,
sormontato da cariatidi (Plinio il Vecchio, Storia naturale, 36.38), le quali
reggevano un tetto nascosto nell’anello esterno da cassettoni e nella parte
interna da una volta, anch’essa a cassettoni, dotata di oculus, forse perché
s’immaginava che proprio in questo luogo – siamo presso la palus Caprae –
Romolo fosse asceso in cielo in una apoteosi che aveva comportato
l’assimilazione a Quirino, dio locale dei rioni di Roma (si veda l’Angolo 28,
fig. 29). Il pronao, articolato al suo interno in tre parti da otto colonne
disposte a coppie, presentava una facciata a dieci colonne o decastila,
sormontata da un frontone, di cui abbiamo forse la riproduzione in un rilievo
che mostra un tempio decastilo con Marte e Rhea Silvia, la lupa, i gemelli
Remo e Romolo e due pastori. Ciò confermerebbe il carattere romuleo del
primo edificio di Agrippa.
Il Pantheon ricostruito da Adriano mantiene l’impianto originario, ma è
ottastilo e coperto a cupola. Interessante è il fatto che il frontone realizzato sia
più basso di quello che appare impostato al di sopra. Probabilmente una delle
colonne più alte si era spezzata e così si era dovuti ricorrere a un set di colonne
di misura inferiore. È utile mettere le due facciate a confronto, per intendere
quanto più grandioso fosse il progetto originario, modificato per forza di cose
in corso d’opera. Dietro il Pantheon adrianeo era la basilica Neptuni, collegata al
frigidarium delle terme di Agrippa, seguendo il tutto un medesimo asse.
L’oculus del pantheon e il Volcanal nel Foro (Atlas, tav. 19B; qui, fig. 40) erano
luoghi equidistanti dal tempio di Quirino sul Quirinale, nei cui frontoni
venivano celebrati gli auspicia di Remo e Romolo per la fondazione di Roma
e forse anche l’apoteosi di Romolo assimilato a Quirino e venerato con lui nel
suo luogo tradizionale di culto sul Quirinale.
Atlas, tavv. 242, 276, ill. 31. – Carafa 2014b. – Virgili 1999.
40.
Pire dei principi, altari dei divi
(FIG. 41)

In Campo Marzio, lungo la via Lata (attuale via del Corso) e a settentrione del
tempio di Adriano e Matidia e della colonna di Marco Aurelio, erano alcuni
ustrina o luoghi delle pire funerarie, tre dei quali a noi noti, uno dei quali di
Antonino Pio. La pira imperiale era formata da quattro camere sovrapposte e
decrescenti sormontate da una quadriga, di cui la seconda conteneva il letto
funerario (si vedano Erodiano, Storie 4.2, e la pira di Antonino Pio riprodotta
in un sesterzio di Marco Aurelio: fig. 41). Sui luoghi delle pire imperiali
venivano poi edificate le arae della consacrazione. Dentro una balaustra in
travertino e metallo, di forma quadrata con lato di 100 piedi, era il recinto o
sacellum dell’ara Consecrationis, dotato di un solo ingresso e due nicchie ai lati;
l’ara era posta su un basamento a cui si accedeva tramite una scala.
Atlas, tav. 245. – Danti 1993.
41.
Stalle per cavalli del Circo
(FIG. 42)

All’estremità meridionale del Trigarium, spazio per gare equestri in Campo


Marzio, era uno stabulum o complesso di stalle, probabilmente della fazione
del circo chiamata Russata, solo in parte conservato, composto di locali lunghi
e stretti, posti uno dopo l’altro, come in serie. Nello spazio disponibile
potrebbero entrare 10 locali-scuderia, di cui solo 7 ricostruibili con certezza.
È possibile che uno o più di questi ambienti fossero riservati a rampe per
consentire ai cavalli di salire al secondo piano. Ogni spazio poteva contenere
36 cavalli, se li spaziamo come nella scuderia tardo-antica di Tebessa in
Algeria, perfettamente conservata e attrezzata, fonte principale per ricostruire
edifici di questo genere nonostante la sua peculiare planimetria basilicale, a
Roma ignota.
Atlas, tav. 222S. – Coarelli 1999.
42.
Abitare d’estate al fresco
(FIG. 43)

La casa detta dei Grifi sul Palatino (Atlas, tav. 67), ad atrio e probabilmente
anche con peristilio, databile al I secolo a.C., presenta sotto il quartiere
dell’atrio triclinia e cubicula. La casa della Farnesina (Atlas, tavv. 248 e 249)
aveva un piano interrato basso, oscuro e affrescato che abbiamo già descritto
(si veda l’Angolo 26, fig. 27, A). La domus, detta casa Bellezza sull’Aventino (40
a.C.-II secolo d.C.), aveva tre sale che si affacciavano sul peristilio e nel piano
interrato una cryptoporticus e tre sale di cui quella centrale era un oecus
Corynthius (Atlas, tav. 163a). La casa dei Domizi Enobarbi (27 a.C.-64 d.C.),
che aveva l’ingresso dove il clivus Sacer girava per raggiungere le Carinae,
possedeva un enorme peristilio affiancato su un lato da 24 cellette servili.
Lungo l’asse di questa corte erano aperture che davano luce a due cenationes
circolari sotterranee, dotate ciascuna di due sale rettangolari colonnate e di
altre due più semplici, oltre che di un ambiente con vasca, il tutto circondato
da una cryptoporticus dotata di altre 24 cellette servili – simili a quelle della casa
della Farnesina – che fanno in totale 48 cellette (Atlas, tav. 91; qui, fig. 43).
Anche la casona sulla Velia, in cui riconosciamo l’officium/sedes del praefectus
Urbi di età adrianea, con ingresso sulla stradina che portava al vicus Cuprius,
aveva una cryptoporticus e una sala con due ambienti a fianco fronteggiata da un
nymphaeum, con vasca antistante e tre ambienti sul lato orientale, con Atena,
Artemide e una ninfa inserite nelle nicchie del ninfeo (Atlas, tav. 101; qui, fig.
24). Una casa sull’Oppio, con ingresso dal vicus Sabuci, affiancata alla casa già
di Servio Tullio e di Seiano, forse l’officium/sedes del praefectus Praetorio, databile
tra il 14 e il 117 d.C., presenta nel sotterraneo una cryptoporticus con ninfeo e
due salette laterali, di difficile accesso, una con un muretto che potrebbe
appartenere a un letto tricliniare (Atlas, tav. 120b). Anche l’atrio della casa di
Q. Lutazio Catulo, che diventerà l’atrio di Augusto e poi di Livia, aveva nel
piano interrato un atrium testudinatum, cioè coperto con tre sale, un triclinium a
lato e diverse altre stanze (è la cosiddetta casa di Livia: Atlas, tav. 68; qui, fig.
11). Per non dire del grandiosissimo piano interrato della parte privata della
domus Augustiana, che abbiamo già descritto (si veda l’Angolo 18, fig. 19, B). A
Roma d’estate faceva caldo, per cui si viveva al fresco nei sotterranei. E poi il
terreno era carissimo al centro della città e lo spazio andava sfruttato al
massimo. E quando faceva molto freddo, si stava più caldi nei seminterrati.
Atlas, tavv. 67, 89, 91, 107, 120b, 163a, 248-249. – Carandini, Bruno, Fraioli
2010, pp. 71-72; 113-128.
43.
Suites di sale
(FIGG. 10, 14, 17, 20, 22 E 26)

Della casa di Clodio conosciamo l’amplissimum peristylium, l’ambulatio di 300


piedi, i conclavia tolti a Cicerone, ma non le sale che davano su lato lungo del
quadriportico e che si trovavano in quella che era stata l’originaria casa di
questo aristocratico demagogo (si veda l’Angolo 14 e 20, figg. 15, 16 e 21).
La casa di Ottaviano aveva, lungo il suo lato settentrionale, un complesso di
ricevimento pavimentato in opus sectile, costituito da un triclinium centrale,
dotato di letto tricliniare, al quale si accedeva tramite laterali scalette; davanti
al letto era uno spazio per piccoli spettacoli, come quelli descritti da Petronio
nella cena di Trimalcione (Satyricon, 27-28); ai due lati erano ambienti più
piccoli e meno profondi – forse triclinia secondari –, con a lato un corridoio
che portava alle cinque stanze di servizio poste sul retro e con uno spazio
quadrato antistante, forse riservato anch’esso a piccoli spettacoli; il triclinium
era preceduto da una exedra e così i due spazi quadrangolari ai lati, ciascuno dei
quali era preceduto da un’anticamera; il tutto era affacciato sul peristylium,
anch’esso pavimentato in opus sectile. Ai lati di questo complesso erano due
biblioteche con nicchie, una latina e l’altra greca, precedute anche questa volta
da anticamere. A cosa servissero queste anticamere è difficile sapere. Oltre
questo complesso di ricevimento erano corridoi e cubicula (Atlas, tav. 69; si
veda anche l’Angolo 10, fig. 10).
Qualcosa di simile si trova nella casa della Farnesina (40-30 a.C.):
nell’appartamento principale, un oecus centrale fiancheggiato da due sale più
piccole (triclinia) e cubicula o ambienti di servizio; nei due appartamenti
secondari, un triclinium con ai lati due stanze di servizio dotate di scala e
davanti due cubicula (Atlas, tavv. 248 e 249; si veda anche l’Angolo 26, fig. 27,
A).
Qualcosa di analogo sarà poi nell’atrium Vestae databile tra il 64 e il 96 d.C.
Lungo il suo lato meridionale era un gruppo di sale: un triclinium centrale con
esedra che già si trovava nel peristilio e due ambienti stretti ai lati, forse di
servizio, preceduti da anticamere; ai lati due oeci, uno con nicchie, forse
biblioteche? Infine ai due lati era una stanza di servizio dotata di scale (Atlas,
tav. 44; si veda anche l’Angolo 2, fig. 2b).
I complessi di ricevimento delle suddette case servivano per la vita privata,
ché per la vita pubblica servivano sale più grandiose, come quelle della parte
pubblica della casa di Ottaviano (figg. 10 e 11), non terminata, ma assai
impressionante nella concezione. Su lato nord e al centro era un vasto
triclinium con alcova per il letto tricliniare, per cui il resto della sala era uno
spazio riservato a spettacoli, servito da due corridoi-quinte; ai lati erano due
triclinia minori con ampie anticamere; il tutto affacciato sul peristilio, con ai
fianchi due stretti corridoi che portavano in due stanze di servizio. A est e a
ovest erano invece, grecamente esotici, un oecus Corynthius e un oecus
Cyzicenus con i soliti due triclinia ai lati (Atlas, tavv. 71 e 72; si veda anche
l’Angolo 10, fig. 11).
La domus Tiberiana più antica, cioè quella di Tiberio, si interponeva tra il
clivo Palatino A e il grande hortus con piscina. Tra peristylium e hortus era
l’appartamento principale: un oecus/triclinium con ai lati corridoi, triclinia e due
coppie di cubicula; seguivano due sale d’angolo, aperte solo sull’hortus. Qui
Claudio inserirà una basilica. Sui due lati brevi erano due appartamenti
secondari: un oecus/triclinium fiancheggiato da coppie di cubicula, che però
potrebbero essere un cubiculum con anticamera (Atlas, tav. 75 e 76; si veda
anche l’Angolo 15, fig. 17).
Uno schema alquanto diverso si trovava nella domus Aurea, con la cenatio
ottagona (Atlas, tavv. 110-113), ai lati due salette absidate, fiancheggiate da
due corridoi per raggiungere gli appartamenti secondari e le stanze di servizio,
e infine due cubicula con alcove, per l’Augusto e l’Augusta. Una enorme reggia
era incentrata su un salone e gli appartements di Monsieur e di Madame. Altri due
appartamenti degli Augusti si trovavano al piano di sopra, incentrati su due
piccoli peristili e aperti su una terrazza triangolare, che al centro aveva l’oculus
della cenatio ottagona coperto forse da un’altana e da cui filtrava la luce al piano
di sotto (si veda anche l’Angolo 21, fig. 22). Temo che la mancanza di ampia
visione degli uffici per la tutela non renderà non visitabile questa straordinaria
realtà del piano superiore, contro ogni mia sollecitazione e speranza.
Nella parte più antica della residenza sull’Oppio, da ricollegare alla domus
Transitoria, l’appartamento sul lato lungo si incentra su tre sale con alcove
rettangolari per letti tricliniari, quella centrale con alcova rivolta al peristilio e
le altre due con alcove rivolte alla porticus, variamente usate a seconda degli
orari e delle stagioni; ai lati sono altri due triclinia absidati per stibadia, rivolti
nuovamente al peristilio e infine, probabilmente, quattro cubicula che si danno
le spalle. È questo il modo per poter disporre in ogni momento
dell’esposizione desiderata, verso nord oppure verso sud. Una disposizione
simile si ha nel cosiddetto Pedagogium afferente al complesso della domus
Augustiana, che dispone anch’esso di cinque alcove rettangolari, quella
centrale rivolta verso il peristilio, altre due rivolte a Circo e ad Aventino e le
ultime due rivolte nuovamente verso l’interno (Atlas, tav. 81; qui, fig. 19).
Dovevano esistere repertori di suites di sale, tra i quali i committenti potevano
scegliere. Nella domus Transitoria prevale uno stile rettilineo alquanto rigido
che nella domus Aurea è in via di superamento, ma mai quanto nello stile
fiorito che pienamente si rivela della domus Augustiana di età flavia (Atlas, tavv.
81-83; si veda anche l’Angolo 18, fig. 19).
L’impoverimento del repertorio si ha già nella media età imperiale, con la
sala affiancata da due ambienti lunghi e stretti della casa sulla cima alla Velia
(Atlas, tav. 101; qui, fig. 24) e con la cenatio della casa che sarà dei Simmaci sul
Celio, la quale segue uno schema analogo, salvo che dietro la sala è un ninfeo
a cui si accedeva dai due ambienti minori laterali (Atlas, tav. 141; qui, fig. 21).
Atlas, tavv. 44, 69, 75-76, 81-82, 101, 111-112, 141, 248-249, ill.17 –
Carandini, Bruno, Fraioli 2010, pp. 128-137, 279-284, 319.
44.
Giardini in forma di teatro e d’ippodromo
(FIG. 44)

Roma era circondata da horti, cioè da residenze e parchi in origine fuori dal
centro storico e cioè dalle mura Serviane, ma poi inclusi da Augusto nelle
regiones della città. Lo spazio lì non mancava per le follie architettoniche.
Le porticus connesse ai nymphaea semicircolari erano numerose. Si pensi a
quella in via degli Annibaldi (Atlas, tav. 107B; qui, fig. 44, a), a quella a sud
della c.d. via Tusculana (Atlas tav. 110; qui, fig. 44, b), al grande ninfeo degli
horti Lamiani, con cisterna sovrastata da ambulatio, forse da identificare con la
diaeta Apollinis (cil, VI 29774; Atlas, tav. 126; qui, fig. 44, c) e a quello coevo
degli horti Sallustiani (Atlas, tav. 182; qui, fig. 44, d). Probabilmente altro non
sono che ambulationes curve, tipo di attrezzatura sportiva che rimanda alle
ambulationes diritte con estremità circolari o rettangolari di cui si conoscono
numerosi esempi, come quella della casa della Farnesina (Atlas, tavv. 248 e
249; qui, fig. 27, A, 4), l’ambulatio della casa di Ottaviano (si veda l’Angolo 10,
fig. 10, 2), il pergolato di viti della porticus Liviae (Atlas, tav. 107; qui, fig. 44,
e), l’ambulatio di due stadi del Sessorium (Atlas, tav. 132; qui, fig. 44, f),
l’ambulatio sovrastante una cisterna lungo il lato settentrionale dell’Alta semita
(Atlas, tav. 191 D; qui, fig. 44, g), tre ambulationes degli horti dell’Esquilino
(Atlas, tav. 126; qui, fig. 44, h-l), la porticus Lentulorum, poi Hecatostylum del
teatro di Pompeo (Atlas, tavv. 220 e 221; qui, fig. 44, l).
Il culmine della forma semicircolare è raggiunto negli horti Luculliani (Atlas,
tav. 200; qui, fig. 44, A), cioè di L. Licinio Lucullo, trionfatore nel 63 a.C.
Questi horti erano situati tra Trinità dei Monti e Villa Medici e di questi più
nulla resta, compreso il triclinio di Apollo dove Lucullo aveva invitato a cena
Pompeo e Cicerone (Plutarco, Vita di Lucullo, 41.6-7). Gli horti sono passati in
età augustea a M. Valerio Messalla Corvino – il passaggio di proprietà è
attestato da un cippo rinvenuto nei giardini di Villa Medici (cil, VI 29789) – e
poi a Valerio Asiatico, che li aveva completamente ristrutturati, con insigne
magnificenza (Tacito, Annali, 11.1), intorno al 20 d.C. Costretto nel 47 d.C.
a suicidarsi, proprio nei suoi horti, per aver complottato contro il principe,
secondo l’accusa di Messalina (Tacito, Annali, 11.3), la sua proprietà è passata
al fisco imperiale, tanto che Messalina, lì ritiratasi, vi è stata uccisa nel 48 d.C.
(Tacito, Annali, 11.32), per cui i lavori agli horti potrebbero essere stati
completati da Claudio. Sulla vetta del Pincio e sulla sua pendice rivolta al
Campo Marzio era l’enorme parco che l’ambizioso Asiatico – patito di
spettacoli scenici (cil, XII 1929) – aveva ristrutturato in una forma teatrale che
appunto culminava in una porticus semicircolare che aveva al centro un
tempio/ninfeo. Qui è stato rinvenuto un capitello con aquile e fulmini, che
fanno pensare al nymphaeum Iovis attestato per la VII regione dai Cataloghi
Regionari. Un disegno di Ligorio e vari resti ci informano sul complesso, ma
la sua vera forma si evince grazie a un ragionare sulla sua ricostruzione,
tenendo presente ogni possibile confronto e soprattutto avendo l’intuizione
del teatro di Pompeo.
Alla fronte del monumento si arrivava tramite una strada proveniente dalla
via Lata e che perveniva a un giardino (fig. 44, A, 1) dotato di 8 fontane con
canalette (fig. 44, A, 2). Nella parte ovest del monumento erano due corpi
rettangolari, uno sul fronte costituito da due piani di dieci stanzoni (fig. 44, A,
3), con tre ingressi, e un altro corpo sul retro, che conteneva una doppia
rampa di scale (fig. 44, A, 5). Al di sopra del corpo costituito dai dieci stanzoni
era forse un giardino pensile (fig. 44, A, 4), ombreggiato probabilmente da
alberi; Asiatico eviterà la propria pira funeraria nel parco per non danneggiare i
suoi alberi (Tacito, Annali, 11.3). A questa ipotizzata silva si perveniva tramite
la prima rampa cui si è accennato. Al centro del corpo frontale si apriva una
scalinata (fig. 44, A, 6), probabilmente coperta, che portava a una corte lunga
e stretta, cui si perveniva anche tramite la prima rampa. Il corpo sul retro
conteneva una doppia rampa, che portava probabilmente in cima a una grande
ambulatio (fig. 44, A, 7), lunga uno stadio, affacciata sul sottostante
giardino/silva. Dietro ancora era la nominata corte lunga e stretta (fig. 44, A,
8), sotto la quale passava l’acquedotto Vergine, in grado di accogliere, nel
centro, una scena provvisoria larga quanto la doppia scala ivi attestata (fig. 44,
A, 9), che portava a un vasto giardino in forma di cavea teatrale (fig. 44, A,
10), immaginabile a prato, il cui pendio era sorretto ritmicamente da muretti
semicircolari (fig. 44, A, 11), in corrispondenza dei quali si possono
immaginare i sentieri che scandivano orizzontalmente la cavea – come
avveniva nei teatri – e che conducevano alle due palazzine poste ai lati della
cavea (fig. 44, A, 12), dotate di piano interrato (conosciamo quello della
palazzina meridionale) e di due piani nobili, gli unici luoghi abitabili di questo
parco. Queste palazzine erano probabilmente connesse, tramite due ponti (fig.
44, A, 13), alle estremità della grande ambulatio. Sentieri nella direzione
opposta articolavano la cavea in cunei. Davanti alla doppia scala attestata nella
corte, quindi già nello spazio dell’orchestra, aveva inizio un viale assiale (fig.
44, A, 14), attestato in Ligorio, che portava al culmine del monumento e del
Pincio, dove era una fontana (fig. 44, A, 15). Qui si trovava la terza parte del
complesso: il tempio/ninfeo (fig. 44, A, 16) preceduto da quattro colonne in
doppia fila, analogamente al templum Pacis (Atlas, tav. 99; qui, fig. 23), che sul
fondo e al centro aveva una fontana-ninfeo alimentata da una conduttura
proveniente dal retro (fig. 44, A, 17). L’acqua defluiva poi in una grande
cisterna sottostante (fig. 44, A, 18). Ai lati era la porticus curvilinea (fig. 44, A,
19), ininterrotta, lunga uno stadio, quanto la grande ambulatio; il muro di
fondo della porticus aveva nicchie e sul retro erano due spazi lunghi, stretti e
chiusi, che potevano essere utilizzati come cisterne (fig. 44, A, 20). Davanti
alla porticus ricurva era probabilmente un altro giardino alberato, con la
menzionata fontana al centro (fig. 44, A, 21).
Se si sovrappone il teatro di Pompeo (fig. 44, A, 22) – completato da
Caligola (Svetonio, Vita di Caligola, 21.1) – su questi horti di Asiatico si osserva
come lo spazio scenico corrisponda perfettamente alla corte lunga e stretta,
come la duplice scala sia larga quanto scena e proscenio, come la cavea
coincida con la conformazione teatrale del pendio, mentre oltre la cavea,
similmente al tempio di Venere, si trovava il tempio/nymphaeum Iovis. Il
complesso pare insomma conformato combinando la struttura dei santuari del
Lazio (si veda il santuario di Fortuna a Palestrina, quello di Ercole a Tivoli e
quello di Giunone a Gabii) con il teatro di Pompeo. Che in occasione di feste
la scena potesse essere provvisoriamente montata non stupisce. Infatti teatri ed
edifici per spettacoli provvisori sono stati montati anche in età imperiale, per
esempio da Caligola nel Diribitorium, il salone in cui si spogliavano i voti (si
veda l’Angolo 34, fig. 35). Fu la ricchezza di questi horti ad aver contribuito alla
fine di Asiatico (Dione Cassio, 60.27).
Questa fine ricorda quella di Nicolas Fouquet, che nell’estate del 1661
ricevette la Corte nel suo castello di Vaux. Si trattava di un evento sontuoso,
con giochi d’acqua, fuochi d’artificio e buffet di oltre 1000 coperti. Luigi XIV
divenne furioso nel vedere tanto splendore, la cui origine gli parve sospetta.
L’offerta di Fouquet di cedergli Vaux non fece che irritarlo maggiormente,
accelerando la sua fine.
Come i giardini di Asiatico sono stati una trasposizione a verde del teatro di
Pompeo, così la valle Sallustiana – cuore degli orti di Cesare prima, dello
storico Sallustio e di suo nipote poi e infine degli imperatori a partire da
Tiberio –, conformata naturalmente in forma di circo e quindi bisognosa di
potenti sostruzioni (fig. 44, B), è stata utilizzata all’occasione come un
ippodromo già in età repubblicana, come nel 202 a.C. quando vi si sono
tenuti i ludi Apollinares, perché il Circo Massimo era stato inondato da una
piena del Tevere (Livio, 30.38.10).
La parte più profonda della valle, destinata all’arena, era larga quanto quella
del Circo Massimo (circa m 75) ma più corta (circa m 325), mentre il Circo
era lungo quasi il doppio (circa m 550). A partire dall’età di Augusto l’area è
stata resa monumentale, fino ad apparire simile nella forma e nelle proporzioni
al più tardo e piccolo stadio di Domiziano, la cui arena misurava m 55 x 239
(Atlas, tav. 235). L’aqua Sallustiana, che scorreva sul fondo, veniva contenuta
in un lussuoso canale marmoreo che poteva anche fungere da spina,
l’elemento lungo e stretto al centro dei circhi composta da fontane e vari
monumenti. Sulle pendici basse potevano essere allestite gradinate lignee dalle
quali assistere ai giochi, in una fascia larga quanto quella in muratura dello
stadio di Domiziano. Al centro dei lati lunghi, come nel suddetto stadio, era
probabilmente il pulvinar, la tribuna riservata all’imperatore. A meno di m 100
da questa tribuna sono stati rinvenuti tre frammenti di plutei marmorei che
permettono di ricostruirne le dimensioni (m 10 x 20). Queste transenne
marmoree sono decorate con fregi a girali e sfingi. Numerose statue rinvenute
nell’area – un Apollo colossale, una Nike, barbari vinti... – potevano ornare i
portici retrostanti le gradinate, testimoniando l’intenzione del proprietario – il
nipote di Sallustio – di onorare Augusto.
Sugli horti Luculliani: Atlas, tav. 200.
Sugli horti Sallustiani: Atlas, tavv. 180 L, 182.
45.
Saloni da pranzo, con séparés
(FIG. 45)

È notissima la cenatio rotonda degli horti Liciniani (Atlas, tav. 133; qui, fig. 45,
a) dotata di nove rientranze per accogliere altrettanti letti semicircolari o
stibadia. La si vede sempre arrivando a Roma in treno, ma pochi sanno di cosa
si tratta. Rientranze di questo genere, curve e rettangolari, si trovavano già nei
lati lunghi dei triportici che affiancavano la cenatio Iovis della domus Augustiana
(Atlas, tav. 81; qui, fig. 45, b). In un grande triclinio rettangolare degli horti
Sallustiani (Atlas, tav. 186; fig. 45, c) vi è una rientranza in fondo al centro per
il triclinio principale e i due lati lunghi sono scanditi da pilastri in cinque
spazi, probabilmente per accogliere altrettanti letti. Inoltre, sempre negli horti
Sallustiani, sul lato settentrionale dell’Alta Semita, era un ambiente rettangolare
che aveva sul fondo una nicchia semicircolare tra due altre rettangolari e lungo
la parete lunga settentrionale tre nicchie rettangolari (Atlas, tav. 182 M; qui,
fig. 45, d).
Le medesime rientranze si ritrovano anche in quelle sale da pranzo
rettangolari e absidate che erano le basiliche e i mitrei, come quello presso San
Saba (Atlas, tav. 153 A; qui, fig. 45, e). Sono da ricordare, in particolare, la
basilica della domus Cilonis, con abside per stibadium o letto tricliniare
semicircolare e dieci rientranze per altri letti, alternatamente rettangolari e
semicircolari, con al centro uno spazio per spettacoli (Atlas, tav. 158b; qui, fig.
45, f), la basilica della domus Albini, non lontana dal Foro di Nerva, con abside
e otto rientranze, alternativamente rettangolari e semicircolari (Atlas, tav.
198b; qui, fig. 45, g), l’enorme basilica degli horti Lamiani sull’Esquilino,
preceduta da nartece e con dodici rientranze per triclini (Atlas, tav. 126; qui,
fig. 45, h). Vi è poi lungo il clivus Curiarum sul Palatino la basilica tardo-antica
con stibadium acquatico, che ai lati aveva due ambienti destinati a triclinia
(Atlas, tav. 88b; qui, fig. 45, i). All’Emmanuel College di Cambridge ho
cenato a una tavola, in una galleria di ritratti lunga e stretta, alla quale
potevano sedersi 100 persone. Ciò a Roma non accadeva, perché si
ammettevano soltanto piccoli gruppi, generalmente di nove persone.
Evidentemente si teneva in gran conto la conversazione face to face.
Atlas, tavv. 81, 88b, 126, 133, 153, 158b, 186, 198b. – Carandini, Bruno,
Fraioli 2010, pp. 311-322.
46.
L’archivio di casa
(FIG. 46)

Il tab(u)linum era l’ambiente principale della casa tradizionale romana, almeno


dalla seconda metà del VI secolo a.C. Lì stava il letto matrimoniale (lectus
Genialis), lì erano esposte le immagines maiorum o degli antenati e lì erano
conservate le tabulae cerate scritte dell’archivio di famiglia. Varie case lungo la
Sacra via, costruite intorno al 530 a.C., si erano conservate con scarse
modifiche fino almeno all’incendio del 210 a.C., a partire dal quale sono state
costruite case con fondazioni in cementizio, tipiche della tarda Repubblica
(fig. 8). È quindi probabile che vari archivi gentilizi si fossero conservati anche
dopo l’invasione dei Galli nel 390 a.C., a cui gli scartafacci non interessavano.
Dunque, Fabio Pittore, primo storico di Roma, camminava ancora vedendo
intorno a sé edifici sopravvissuti, magari anche con i loro arredi, della ultima
età regia e della prima e media Repubblica.
Istruttiva è la casa del re dei Sacrifici nel lucus Vestae. Nella fase tra 530 e
425/400 a.C. il tablinum (fig. 46, 6) è affiancato a est da un ambiente molto
piccolo: un archivio? Nella fase successiva, che termina al 300/275 a.C. (fig. 5,
8), viene ricavato nel suddetto ambiente piccolo uno stanzino-armadio,
comunicante direttamente con il tablinum: quasi certamente un archivio.
Nella fase che finisce al 150 a.C. circa questo stato di cose permane, ma il
tablinum si restringe, perché viene affiancato a ovest da un altro ambiente: una
sala o un altro archivio, si direbbe concorrenziale rispetto a quello a est, tanto
che nella fase seguente, che termina nell’80 a.C., l’antico archivio viene
occupato da un tablinum più largo, che a ovest ha ora due stanzette (fig. 46, 13)
con le quali comunica direttamente, probabilmente altrettanti archivi; a est è
ora uno stanzone con cui anche il tablinum comunica direttamente: una sala
oppure un altro archivio? Questa organizzazione permane nella fase che
termina nel 12 a.C. (fig. 5, 8), nonostante che il tablinum si ingrandisca a spese
del nemus Vestae, ingrandimento che si perde nella fase che termina intorno al
14 d.C. Si passa pertanto probabilmente da un archivio a un archivio
tramezzato e forse a due archivi di cui uno tramezzato. Anche il tablinum della
villa dell’Auditorium (225-150 a.C.) presentava al suo interno un armadio (fig.
46, 15), di cui restavano tracce evidenti sul pavimento (Carandini, D’Alessio,
Di Giuseppe 2006, fig. 155).
Atlas, tav. 278. – Carandini, D’Alessio, Di Giuseppe 2006. – Filippi c.s.(b).
47.
Edifici disegnati, infine ricostruiti
(FIGG. 25 E 47)

Il macellum Magnum (Atlas, tav. 138), costruito nel 64 d.C. da Nerone, ha la


fortuna di essere un monumento simmetrico, noto in parte grazie alla Forma
Urbis Severiana e che è confrontabile con il macellum di Pozzuoli di età flavia.
Per la ricostruzione dei suoi elevati, fondamentale risulta una moneta di
Nerone, un dupondio bronzeo del 64-66 d.C. che raffigura il macellum. Il
bello della moneta è che non è simmetrica. Infatti sul lato destro e al livello
superiore si vede il portico a due ordini, ma a sinistra un ponte arcuato si
appoggia alla tholos centrale. Il ponte serviva, evidentemente, per congiungere
il primo piano della porticus al primo piano della tholos, particolare che in pianta
non si coglie. Così l’intero monumento viene recuperato alla conoscenza con
la porticus esterna, la doppia fila di stanze, la porticus interna, con spazi
triangolari agli angoli: probabilmente quattro vasche. Al centro era la tholos di
Nettuno, alla quale si accedeva tramite scalette. L’aula centrale absidata e
preceduta da colonne è desunta dal macellum di Pozzuoli. Era fiancheggiata da
ambienti che sembrano magazzini con scale, mentre sul retro stanno due
edifici a semicerchi, probabilmente due foricae o latrine, simili a quelle del foro
Giulio (Atlas, tav. 29), del teatro di Balbo (Atlas, tav. 228) e delle terme di
Diocleziano (Atlas, tav. 195), da non confondere con le biblioteche.
Il fons Lollianus (50-100 d.C.; Atlas, tav. 150) è ricostruito unicamente sulla
base dei rilievi di P. Ligorio; nessun resto rimane di questo insigne
monumento. Si tratta di un curioso e sontuoso edificio a due piani eretto a
una fonte d’acqua sacra a Venere, alle Ninfe e alle Grazie, le cui statue erano
poste probabilmente su quattro basamenti-isole circondati su tre lati dall’acqua
e che si trovano ai lati una basilica a tre navate che nell’abside disponeva di
uno stagno. Altri ambienti, probabilmente privi di acqua e forse di servizio,
completavano l’edificio.
Impressionante è la porticus duplex (Atlas, tav. 240a; qui, fig. 47) sorta in età
flavia in parte sul Circo Flaminio e in parte sulla strada che lo fiancheggiava a
settentrione e che è stata in essa inglobata. Circondava un corpo centrale
lungo e stretto, nel quale cinque ambienti circolari si alternavano a quattro
coppie di nicchie contrapposte. Il monumento è documentato esclusivamente
da tre disegni, una pianta del primo ’500 di Baldassarre Peruzzi, un elevato di
Giuliano da Sangallo della seconda metà del ’400 e un altro elevato, più fedele,
di Alò Giovannoli, di un secolo più tardo. Sul fronte, sopra ogni arco ribassato
del piano terreno, erano tre lesene che inquadravano due finestre. Misteriosa è
la funzione dell’edificio, ma potrebbe trattarsi di un elegantissimo mercato.
Concludiamo questo inno all’iconografia antica e moderna con l’ultima fase
della aedes Telluris/secretarium Tellurense (Atlas, tavv. 104-106; qui, fig. 24). Un
disegno assai analitico, attribuito a Ligorio, consente di ricostruire il tempio e
tutta la ricca decorazione interiore, su tre lati e a due ordini. Le basi delle
nicchie dell’ordine inferiore erano decorate da rilievi, tra i quali spicca una
gigantomachia. Il complesso si interponeva tra la sedes/officium del praefectus
Urbi, in seguito connessa direttamente alla basilica di Massenzio (fig. 24) e
l’anfiteatro Flavio. Si aveva di seguito il tribunal, la aedes circondata da horrea
Chartaria o dei papiri e da scrinia o uffici.
Del tempio e del quartiere più nulla resta, ma il rilievo attribuito a Ligorio e
quello di Francesco da Sangallo (figlio di Giuliano), nel quale abbiamo
riconosciuto il circondario dell’aedes Telluris e l’aggancio al nartece della
basilica di Massenzio (si veda l’Angolo 25, fig. 24), hanno permesso di
ricostruire questa parte nevralgica di Roma, sviluppatasi soprattutto dall’età di
Settimio Severo.
Atlas, tavv. 104-106, 138, 150, 240a.
48.
Elevati elevatissimi
(FIG. 48)

Fra i grandissimi elevati di Roma rifulge a partire dal 78 a.C. il complesso del
cosiddetto Tabularium (Atlas, tav. 22) sul Campidoglio, che rappresentava lo
sfondo scenografico del Foro Romano (fig. 48). In basso era il muraglione,
che nascondeva un mezzanino; al di sopra era una prima porticus/vicus tectus;
sopra ancora era una seconda porticus; in cima erano i templi di Venere
Vincitrice, della Fausta Felicità e del Genio Pubblico. Dietro stavano il tempio
di Veiove e forse l’atrium Publicum. Davanti erano l’aerarium Saturni, la basilica
Opimia e il tempio di Concordia e, in epoca successiva, il tempio degli Dei
Consenti, quello del divo Vespasiano e quello della Concordia. L’altezza
complessiva, esclusi i templi sovrastanti, raggiungeva i m 33.
Elevati di straordinaria potenza erano quelli del fronte bugnato del Claudium
(54 d.C.) e quello del suo retro, foderato da Nerone con il monumentale
nymphaeum che allietava la vista dalla residenza dell’Oppio della domus Aurea (si
veda l’Angolo 21). In cima era il tempio del divo Claudio. I due elevati, senza il
tempio, raggiungevano rispettivamente m 17,70 e m 23,90.
Impressionante è poi l’elevato della domus Tiberiana al tempo di Domiziano
(Atlas, tav. 78), quello rivolto al Velabro, con in basso le tabernae che si
aprivano sul vicus huiusce diei o della Fortuna di oggi giorno, quindi un piano
interrato e sopra le strutture che circondavano il grande giardino: le arcate a
pilastri colonnati del piano terra e sopra la porticus con finestre del primo
piano. Altezza massima, m 26. Sul retro trasparivano, sopravanzando il resto, i
terzi piani delle due turres e tra di esse la parte alta e fenestrata della basilica.
Un altro elevato che colpisce è quello dell’Heliogabalium (218-222 d.C.) sul
Palatino, nel lato rivolto verso il vicus Curiarum (fig. 48). Al di sotto sono le
sostruzioni, su tre piani, che contenevano almeno 170 ambienti di servizio,
con sopra la porticus che su tre lati circondava il tempio, il quale da dietro
spicca. Altezza complessiva, tempio escluso, m 16,60.
Atlas, tavv. 22, 48, 78, 87, 113, 136, 282.
49.
Rilievi entro pareti decorate
(FIG. 49)

I sacraria di Marte e Ops (Atlas, tav. 34; qui, fig. 49) contenuti nel fanum/regia
che si trovava fra la Sacra via e il vicus Vestae hanno subito un importante
restauro nel 36 a.C., che ha ornato l’esterno dell’edificio con un fregio di
ghirlande e bucrani. Il vestibulum si apriva su un piccolo atrium tetrastylum,
poco oltre dotato di un’ara e che aveva su un lato l’anticamera che immetteva
nei sacraria dei due dèi, quello di Marte maggiore, con focolare rotondo e
comunicante con una stanzetta, dove forse venivano conservate le hastae
Martis, le lance immagini aniconiche del dio. I dodici scudi chiamati ancilia
erano conservati probabilmente nel sacrarium di Marte, dotato di focolare.
Nell’edificio sono stati rinvenuti frammenti di un fregio interno che
rappresentava gli ancilia appesi a una pertica orizzontale portata da sacerdoti di
Marte chiamati salii, come si vede in una gemma di Berlino del III secolo a.C.
Ove si volesse tentare di ricostruire la decorazione del sacrarium Martis, il
fregio andrebbe immaginato inserito nella parte alta di una parete decorata nel
“II stile pompeiano” (come quello della domus c.d. dell’Odissea: si veda
l’Angolo 20; figg. 21 e 49).
Qualcosa di analogo può essere tentato anche per i pannelli che
rappresentavano le origini di Roma e che decoravano la parete interna
meridionale della basilica Paulli, sia nella versione del 55/34-14 a.C. che in
quella posteriore al 14 a.C. Si può ipotizzare uno schema decorativo
marmoreo sul genere dello “stile pompeiano IIb”, tratto dalla villa della
Farnesina, con i fregi scultorei che decoravano gli intercolumni. La
ricostruzione da noi proposta prevede un totale di 21 pannelli, se si contano
anche i tre ingressi (fig. 49).
Sull’Esquilino era una domus ad atrio c.d. dell’Odissea, attribuibile ai Papirii e
databile attorno alla metà del I secolo a.C. La casa, cui si accedeva dal vicus
Patricius, era dotata di due grandi peristili. La parete sud-orientale del peristilio
A era decorata da affreschi raffiguranti scene tratte dall’Odissea. Queste scene
appartenevano al fregio di una parete di “II stile pompeiano” avanzato (fig.
49).
Atlas, tavv. 34, 93, 125b. – Carandini, Bruno, Fraioli 2010, p. 301.
50.
Capolavori che ritrovano il contesto
(FIGG. 50 E 51)

L’arco di Marco Aurelio, di cui tre rilievi, più il frammento di un quarto, si


trovavano tra il VII secolo d.C. e la metà del ’500 nella chiesa dei Santi Luca e
Martina (Atlas, tav. 270 A, nn. 9-12), era situato accanto alla curia Iulia, dove si
erano conservati due dei suoi quattro piloni. Era decorato da dodici rilievi che
celebravano il trionfo del 176 d.C., otto dei quali inseriti nell’arco di
Costantino quando l’arco di Marco Aurelio era stato smontato, e aveva una
iscrizione dedicatoria. Sotto di esso era un passaggio che portava al Foro di
Cesare e a quello di Augusto (fig. 50).
Il gigantesco gruppo scultoreo noto come Toro Farense si trovava nelle
terme Antoniniane o di Caracalla. Stava al centro di un oecus di tipo Ciziceno
affacciato su una delle due palestre, il cui pavimento a mosaico raffigurava
atleti. Nell’oecus affacciato sull’altra palestra era probabilmente un gruppo
scultoreo con Scilla. Le vasche di piazza Farnese si trovavano invece nelle sale
ai lati del frigidarium (fig. 51).
La cosiddetta ara di Domizio Enobarbo era un rilievo databile alla fine del II
secolo a.C. con una scena di censo sul retro e con una rappresentazione mitica
sul fronte e ai lati: le nozze di Nettuno e Anfitrite ambientate in un tiaso
marino. I rilievi rivestivano la base delle statue di culto di Nettuno, Teti e di
suo figlio Achille nel tempio di Nettuno al Circo Flaminio (fig. 51).
L’altare del Belvedere (si veda l’Angolo 4, fig. 4), sul quale è raffigurato
Augusto che consegna i propri Lari alle vestali, potrebbe essere stata l’ara del
Lararium della casa privata di Augusto, che poteva forse anche contenere i suoi
Penates. L’ara è stata trovata non lontano.
La vasca di piazza del Quirinale apparteneva a un monumento colonnato del
I secolo d.C., antistante il Tullianum, che conteneva anche una statua di
Tiberis, il Marforio dei Musei Capitolini, e appunto il labrum o vasca (fig. 50).
Le statue dei Castori in cima alla scalinata che porta in Campidoglio
ornavano il tempio dei Castori al Circo Flaminio, edificio del quale la
planimetria è nota perché rappresentata su un frammento di Forma Urbis
marmorea proveniente da via Anicia, databile in età augustea (fig. 51).
Atlas, tavv. 41 F, 155-157, 215, 219, 270A, ill. 20, fig. 131.
51.
Roma misurata e smisurata
(FIG. 52)

Nessuno ha pensato mai di misurare Roma, impresa fino a ora impossibile.


Ma lo studio sistematico della città antica attuato entro un sistema informativo
territoriale, dove tutte le testimonianze sono confluite, sono state ricomposte
e sono state ricostruite, luogo per luogo e periodo per periodo – l’esito è stato
l’Atlante di Roma antica –, consente finalmente ragionamenti qualitativi e
quantitativi che sorprendono, tra cui l’idea stessa di misurare la planimetria dei
monumenti della città.
Esiste una Roma misurata, direi normale, in cui rientra la maggior parte
degli edifici. Essi non superano i mq 4000 circa. Esiste poi una Roma
smisurata, straordinaria, in cui rientrano solamente 115 complessi
monumentali ed edifici, i quali oscillano tra i mq 4348 del ludus Dacicus e i mq
176.626 dei Castra Praetoria.
Segue (pp. 239-240) l’elenco di questi monumenti in ordine di dimensione,
senza tener conto dei tempi e dei luoghi, in modo che si possano finalmente
conoscere quali sono i giganti della città antica, che è un modo insolito di
avvicinarsi alla massima metropoli dell’età classica. Per capire il rango
dimensionale di un singolo edificio occorre poterlo comparare con quello
degli altri, all’interno di una gerarchia dimensionale che l’informatica rende
possibile esplicitare, aprendoci gli occhi sui luoghi della grandezza di Roma.
La basilica Giulia (7) equivale al tempio di Giove Ottimo Massimo (6),
all’atrium Vestae (5) e al ludus Dacicus (1). Gli horrea Vespasiani (11) equivalgono
alla Basilica Salvatoris (9). La casa di Servio Tullio (18) equivale al foro
Romano (16). Il tempio di Ercole e Dioniso (21) equivale alla casa di Seiano
(20). Il mausoleo di Augusto (25) equivale al foro di Nerva (24), all’Odeum
(23) e al sepolcro di Adriano (22). Gli horrea Piperataria (31) equivalgono alla
basilica di Massenzio (30) e ai mercati di Traiano (28). La casa di Clodio (34)
equivale al macellum Magnum (33) e alle prime terme di Agrippa (32). La casa
di Ottaviano (38) equivale alla casa dei Simmaci (37) e agli horrea Galbana (36).
Il tempio di Quirino (49) equivale alla prima domus Tiberiana (46), alla porticus
Liviae (45) e alla casa della Farnesina (44). Il teatro di Marcello (59) equivale al
foro di Augusto (58), al teatro e alla cripta di Balbo (57), alla casa dell’Odissea
(56), al tempio di Matidia (55), a quello della Gente Flavia (54) e ai
leggermente inferiori foro Giulio (53) e Sacra via neroniana (50). Il tempio del
divo Adriano (63) equivale al ludus Magnus (62) e alle terme di Tito (60). Il
teatro di Pompeo (67) equivale alla basilica di Nettuno e alle terme di Agrippa
(65). Il complesso del teatro di Pompeo (104) equivale a quasi il doppio
dell’anfiteatro Flavio (89). Lo Heliogabalium (77) equivale all’Iseo e al Serapeo
(74) e alla basilica di San Pietro (73). La domus Tiberiana neroniana (79)
equivale al tempio della Pace (82) e alla casa di Augusto (81). Il palazzo del
Sessorio (86) equivale alle terme di Costantino (85). Le terme Alessandrine
(87) equivalgono al Circo Flaminio (88). Il complesso dei templi di Ercole
con Dioniso e di Serapide (90) equivale all’anfiteatro Flavio (89). La domus
Aurea, residenza dell’Oppio (94), equivale allo stadio di Domiziano (93) e ai
Navalia a Testaccio (92). Il complesso della casa di Plauziano (96) equivale al
foro di Traiano (98). Gli horti Luculliani di Asiatico (100) equivalgono al
Claudium (101). L’ippodromo degli Orti Sallustiani (103) è la metà del Circo
Massimo (109). La domus Augustiana (105) è la metà della residenza della Velia
nella domus Aurea (112).
Con davanti l’elenco dei giganti di Roma antica si possono fare
numerosissime altre constatazioni, giocando con i monumenti in scala e
ridotti a minutaglie, per poterli considerare insieme e dominare. Anche
questo è un modo per scorrazzare per Roma, chiudendo questo libro sugli
angoli della città in modo paradossale.
Aldo Manuzio ha inventato a Venezia il libro tascabile, da leggersi in
solitudine e silenzio. L’informatica consente oggi di avere in tasca non solo un
testo ma una città, un territorio, un mondo intero. È quello che abbiamo fatto
per Roma antica e che ci ha consentito anche di arrivare a questi angoli
minimi e enormi della città.
Illustrazioni

Limiti delle 14 regioni augustee.


Fig. 1. Le capanne di Romolo e di Marte con Ops.
Fig. 2. Dove dormivano le vestali? La capanna e la casa delle vestali.
(Continua)
Fig. 2. (Segue) Dove dormivano le vestali? Atrium Vestae.
Fig. 3. La casa dei re-auguri.
Fig. 4. Il culto dei Lari. Aedes Larum.
(Continua)
Fig. 4. (segue) Il culto dei Lari. Aedes Larum.
Fig. 5. Le case del re dei sacrifici e di Tarquinio Prisco.
Fig. 6. La casa dei re-tiranni e poi del pontefice massimo.
Fig. 7. La porta Mugonia, Remo ucciso, Tito Tazio respinto, adulti sacrificati.
Fig. 8. Ingrandirsi invadendo case altrui. La casa di Scauro.
Fig. 9. Due templa del divo Augusto, a due angoli del Palatino.
(Continua)
Fig. 9. (segue) Due templa del divo Augusto, a due angoli del Palatino.
Fig. 10. Abitare dove Roma è nata. Q. Hortensii Hortali, domus Octaviani.
(Continua)
Fig. 10. (segue) Abitare dove Roma è nata. Domus Octaviani.
Fig. 11. Abitare dove Roma è nata. Domus Augusti.
Fig. 12. Rilievi, quasi fotografie. Domus Augusti.
(Continua)
Fig. 12. (segue) Rilievi, quasi fotografie. Domus Augusti.
Fig. 13. Rilievi, quasi fotografie. Domus Augusti.
Fig. 14. Stanze per liberti e schiavi e balconata sul Circo. Domus
Augusti.
Fig. 15. Il quartiere più chic del Palatino.
Fig. 16. Il quartiere più chic del Palatino.
Fig. 17. Avere una basilica in casa. Domus Tiberiana.
(continua)
Fig. 17. (segue) Avere una basilica in casa. Domus Tiberiana.
Fig. 18. La casa di Caligola.
Fig. 19. Dove abitava il bibliotecario di Domiziano? Grandi aule e
parte intima della domus Augustiana.
Fig. 20. Per due Augusti, un ippodromo ciascuno. Domus Augusti,
domus Tiberiana e domus Augustiana.
Fig. 21. Grandissime corti porticate.
Fig. 22. Saloni da pranzo della domus Aurea.
Fig. 23. Biblioteche con auditoria.
Fig. 24. La Velia, dove era? Il prefetto alla città, casa e bottega.
Fig. 25. Giove Statore, prima e dopo l’incendio. Aedes Iovis Statoris.
Fig. 26. Giove Statore, prima e dopo l’incendio. Aedes Iovis Statoris.
Fig. 27. Case a confronto, nel tempo lontane.
(continua)
Fig. 27. (segue) Case a confronto, nel tempo lontane.
Fig. 28. La tomba di un fornaio.
(continua)
Fig. 28. (segue) La tomba di un fornaio.
Fig. 29. Templi ritrovati.
(continua)
Fig. 29. (segue) Templi ritrovati.
Fig. 30. Il maggiore tempio di Roma e dell’Impero. Aedes Quirini.
(continua)
Fig. 30. (segue) Il maggiore tempio di Roma e dell’Impero. Aedes Quirini.
Fig. 31. Banchine sul Tevere.
Fig. 32. Vivere in appartamenti. Insulae c.d. della Galleria Sordi.
Fig. 33. Dove la plebe riceveva il grano. Area sacra di Largo
Argentina e porticus Minucia Frumentaria.
Fig. 34. Curia di Pompeo chiusa, Cesare trucidato. Theatrum
Pompei.
Fig. 35. Dai comizi centuriati agli spettacoli di Caligola. Saepta e
Diribitorium.
Fig. 36. Teatro di Marcello, come nuovo.
(continua)
Fig. 36. (segue) Teatro di Marcello, come nuovo.
Fig. 37. L’ara Pacis e il suo ligneo recinto.
Fig. 38. I mausolei di Augusto e di Adriano.
Fig. 39. La nave di Enea e il suo ricovero.
Fig. 40. Il Pantheon di Augusto ricostruito da Adriano.
Fig. 41. Pire dei principi, altari dei divi.
Fig. 42. Stalle per cavalli da circo.
Fig. 43. Abitare d’estate al fresco.
Fig. 44. Giardini in forma di teatro e d’ippodromo. (continua)
Fig. 44. (segue) Giardini in forma di teatro e d’ippodromo.
Fig. 45. Saloni da pranzo, con séparés.
Fig. 46. L’archivio di casa.
Fig. 47. Edifici disegnati, infine ricostruiti. (continua)
Fig. 47. (segue) Edifici disegnati, infine ricostruiti. (continua)
Fig. 47. (segue) Edifici disegnati, infine ricostruiti.
Fig. 48. Elevati elevatissimi.
Fig. 49. Rilievi entro pareti decorate (continua).
Fig. 49. (segue) Rilievi entro pareti decorate(continua).
Fig. 49. (segue) Rilievi entro pareti decorate.
Fig. 50. Capolavori che ritrovano il contesto.
Fig. 51. Capolavori che ritrovano il contesto (continua).
Fig. 51. (segue) Capolavori che ritrovano il contesto (continua).
Fig. 51. (segue) Capolavori che ritrovano il contesto.
Fig. 52. Roma misurata e smisurata (i maggiori monumenti di Roma, mq 4.348-176.626).

1. Ludus Dacicus, 4.348, Atlas of ancient Rome, tav. 118. – 2. Thermae Decianae, 4.407, 170b. – 3. Horreum
(per frumentationes?), 4.491, 232 R. – 4. Castra Ravennatium, 4.496, 250 H. – 5. Atrium Vestae, 4508, 44-
46, 279. – 6. Aedes Iovis Optimi Maximi, 4.561, 7-8, 20. – 7. Basilica Iulia, 4.744, 24. – 8. Domus (V 602),
4.799, 126. – 9. Basilica Salvatoris, 4.859, 134. – 10. Area Candidi?/C.d. Palatium Deci, 4.926, 187. – 11.
Horrea Vespasiani, 5.076, 85. – 12. Amphitheatrum Castrense, 5.271, 132. – 13. Theatrum Balbi, 5.324, 228.
– 14. Thermae? (XIV 258), 5.355, 250H. – 15. Porticus Philippi, 5.521, 224. – 16. Forum Romanum
Magnum, 5.522, 31. – 17. Nymphaeum (VI 342), 5.493, 190. – 18. Domus Servii Tullii, 5.500, 107D. –.
19. Horreum (XIV 280), 5.620, 250F. – 20. Domus Seiani/praefectus Urbi, 5.790, 107. – 21. Templum
Herculis et Dionysi, 5.840, 193-194. –. 22. Sepulcrum Hadriani, 6.149, 251. – 23. Odeum, 6.247, 233. –
24. Forum Nervae, Aedes Minervae, 6.294, 51. – 25. Mausoleum Augusti, 6.350, 231, 284. – 26. Domus
Palis?, 6.497, f.t. 14. –. 27. Horrea Lolliana, 6.589, 159. – 28. C.d. Mercati di Traiano, 6.749, 55-56. –
29. Horreum (XIII 37), 6.808, 165. – 30. Basilica (Maxentii)/Constantiniana, 6.856, 106. – 31. Horrea
Piperataria, 6.945, 97-98. – 32. Thermae Agrippae (fase 1), 7.146, 223. – 33. Macellum Magnum, 7.691,
138. – 34. Domus Clodii, 7.838, 281a. – 35. Horreum (XIV 274), 7.927, 250H. – 36. Horrea Galbana,
8.210, 165. – 37. Domus Symmachorum, 8.280, 141. – 38. Domus C. Iulii Caesaris Octaviani, 8.469, 69. –
39. Aedes e, 8.470, 161. - 40. Amphitheatrum Statilii Tauri, 8.504, 222. – 41. Balneum Surae, 8.953, 170a.
– 42. Macellum Liviae, 9.005, 125a. – 43. Forum Pistorum, 9.086, 165. – 44. Domus L. Arruntii? C.d. Villa
della Farnesina, 9.123, 248-249. – 45. Porticus Liviae, 9.232, 109. – 46. Domus Tiberiana (post 2 d.C.),
9.238. – 47. Domus Maecenatis, 9.303, 124, 126. – 48. Horreum (XIII 305) 9.388, 165. – 49. Aedes
Quirini, 9.484, 181. – 50. Sacra via (post 64 d.C.), 9.783, 110. – 51. Templa Fortunae, Solis, 10.164, 205. –
52. Domus (V 510), 11.511, 126. – 53. Forum Iulium, 11.763, 29. – 54. Templum gentis Flaviae, 12.117,
185. – 55. Templum Matidiae, basilicae Matidiae et Marcianae, 12.193, 241. – 56. Domus c.d. dell’Odissea,
12.202, 125b. – 57. Theatrum, crypta Balbi, 12.282, 228. – 58. Forum Augusti, 12.644, 38-39. – 59.
Theatrum Marcelli, 12.681, 229. – 60. Thermae Titianae, 13.150, 117. – 61. Teatro della domus D. Valerii
Asiatici, 13.397, 200. – 62. Ludus Magnus, 13.423, 115. – 63. Templum divi Hadriani (Hadrianeum),
13.581, 244. – 64. Amphitheatrum Neronis, 13.763, 222. – 65. Basilica Neptuni, Thermae Agrippae, 14.053,
243. – 66. Gymnasium di Nerone, 14.547, 223. – 67. Theatrum Pompei, 14.668, 220-221. – 68. Divorum,
15.177, 237. – 69. Porticus Octaviae, 16.411, 225. – 70. Templum Veneris et Romae, 16.507, 102. – 71.
Porticus Minucia Frumentaria, 16.601, 239. – 72. Domus T. Flavii Claudii Claudiani, 16.851, 190L. – 73.
Basilica Sancti Petri, 17.134, 258. – 74. Iseum et Serapeum 17.318, 236. – 75. 41. Complesso dell’aedes Iovis
Victoris, 17.394, 80. – 76. Porticus Boni Eventi, 18.165, 232. – 77. Heliogabalium, 18.948, 87. – 78. Castra
Urbana, 19.164, 199. – 79. Domus Tiberiana (post 2 d.C.), 19.330, 77. – 80. Iseum Metellinum, 19.684,
108. – 81. Domus Augusti, 20.715, 71-72. – 82. Templum Pacis, 21272, 99. – 83. Domus Tiberiana (post 64
d.C.), 22.446, 76. – 84. Stagnum Agrippae, 22.759, 226. – 85. Thermae Constantinianae, 23.360, 196. –
86. Palatium Sessorianum, 23.446, 132. – 87. Thermae Alexandrinae, 24.149, 246. – 88. Circus Flaminius,
24.174, 223. – 89. Amphitheatrum, 24.445, 113-114, 274. – 90. Templa Herculis et Dionysi, Serapidis,
25.066, 192-194. – 91. Cohortes tres horreorum Galbanorum, 25.827, 165. – 92. Porticus Aemilia/Navalia,
29.012, 165. – 93. Stadium Domitiani, 29.019, 235. – 94. Domus Aurea (residenza dell’Oppio), 29.402,
111-112. – 95. Trigarium, 29.949, 207. – 96. Domus C. Fulvii Plautiani, 32.000, 197. – 97. Castra priora
Equitum Singularium, 34.135, 126. – 98. Forum Traiani, 34.391, 52-53. – 99. Castra Equitum Singularium,
39156, 126. – 100. Horti (Luculliani) D. Valerii Asiatici 39.164, 200. – 101. Claudium, 39.702, 136. –
102. Saepta Iulia (37.785) e Diribitorium (5.945), 42.566, 227. – 103. Valle Sallustiana/Ippodromo
45.395, 182. – 104. Theatrum, porticus Pompei, 46.228, 220-221. – 105. Domus Augustiana (post 123
d.C.), 52.434, 81. – 106. Stagnum della domus Aurea, 65.823, 96. – 107. Naumachia Traiani, 65.930,
250E. – 108. Circo degli Horti Spei Veteris, 76.145, 132. – 109. Circus Maximus, 80.401, 175-176. – 110.
Thermae Traiani, 83.607, 119-120a. – 111. Naumachia Augusti, 94.369, 247. – 112. Domus Aurea
(residenza della Velia), 111.415, 96. – 113. Thermae Diocletianae, 119.340, 195. – 114. Thermae
Antoniniane 127.442, 155-157. – 115. Castra Praetoria 176.626, 184.
Referenze iconografiche

Fig. 4: (A) Ara del Belvedere, Roma, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano [da Atlante, tav. 33];
(B) Mosaico della cella dei Lares publici, Roma, Museo Nazionale Romano, Museo Palatino
(magazzini?) [da Atlante, tav. 33]; (C) Resti del Portico, in situ, Roma, Area Archeologica del Foro
Romano e Palatino, Capitello della semicolonna (accanto al tempio del divo Giulio) [da Atlante, tav.
33].
Fig. 9: (21) Scettro con sfera di vetro verde, nel ripostiglio, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo
Massimo alle Terme [da Atlante, fig. 71]; (A) Sesterzio di Caligola, 37-38 d.C., templum divi Augusti
esastilo [da Atlante, tav. 41D]; (B) Sesterzio di Antonino Pio, 158-159 d.C., templum divi Augusti
ottastilo [da Atlante, tav. 41D].
Fig. 10: (A) Antefissa fittile con protome elefantina a rilievo, Roma, Museo Nazionale Romano, Museo
Palatino [da Atlante, tav. 69]; (B) Lastra “Campana” di terracotta dipinta, a rilievo betilo adornato da
fanciulle, Roma, Museo Nazionale Romano, Museo Palatino [da Atlas, fig. 59].
Fig. 11: (a) Danaide in marmo nero, Roma, Museo Nazionale Romano, Museo Palatino [da Atlante,
tav. 72]; (b) Cupola del Lupercal, in situ, Roma, Area Archeologica del Foro Romano e Palatino [da
Atlante, fig. 50].
Fig. 12: (a) Base di Sorrento, età augustea, Sorrento, Museo Correale di Terranova; (c) Urna cineraria di
L. Cacius Cinnamus, Roma, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano; (d) Rilievo, Bacchus madidus e
parte privata della domus Augusti, London, British Museum, Townley Collection; (e) Rilievo, cerimonia
alla corte di Vesta, Palermo, Museo Nazionale; (g) Base di Sorrento, Sorrento, Museo Correale di
Terranova.
Fig. 13: (a) Rilievo, Apollo, Diana, Latona sacrificano con Vittoria all’altare di Apollo, età augustea,
Berlino, Staatliche Museen [da Atlante, fig. 53]; (b) Base di Sorrento, età augustea, Sorrento, Museo
Correale di Terranova; (c) Aureo di L. Mescinio Rufo [da Atlante, tav. 72].
Fig. 14: Disegno di Anonimo, XVII secolo, concamerazioni voltate sottostanti l’Area/Silva Apollinis [da
Atlas, tav. 282].
Fig. 17: (B) Basilica, opus sectile, in situ, Roma, Area Archeologica del Foro Romano e Palatino [foto da
Atlante, tav. 75].
Fig. 19: (a) Sesterzio di Domiziano (95-96 d.C.) [da Atlante, tav. 82]; (b) Statua colossale di Ercole in
marmo verde, Parma, Galleria Nazionale [da Atlante, fig. 67].
Fig. 22: (a) Stabia, affresco di villa marittima con altana, Napoli, Museo Archeologico Nazionale [da
Atlante, fig. 76]; (b) Pompei, casa di M. Lucretius Fronto, villa con sala rotonda centrale e con avancorpi
laterali, in situ.
Fig. 23: Templum Pacis, statua bronzea di Crisippo, Roma, Mercati di Traiano, Museo dei Fori
Imperiali.
Fig. 24: (a) Planimetria e decorazione architettonica dell’aedes Telluris di P. Ligorio (1513-1583) [da
Atlante, fig. 83]; (b) Planimetria e decorazione architettonica dell’aedes Telluris di P. Ligorio (1513-1583)
[da Atlante, fig. 81]; (c) Planimetria di F. da Sangallo (?), 1494-1576 [da Atlante, fig. 82].
Fig. 26: Disegno del rilievo con cinque edifici dalla tomba degli Haterii [da Christian Hülsen, The Roman
Forum: Its History and Its Monuments, tradotto da J.B. Carter, Loescher-G.E. Stechert, Roma-New York
19092, fig. 150, p. 249].
Fig. 27: Pavimento a mosaico del cubiculum, D. Marchetti, disegno a matita, inchiostro e acquarello,
1879 [da Atlante, tav. 249].
Fig. 28: Fregi in situ, Roma, Sovraintendenza Comunale di Roma [da Atlas, tav. 283]; (A) Rilievo con
ritratto dei defunti, Roma, Musei Capitolini [da Atlas, tav. 283]; (B) Capitello di lesena in situ, Roma,
Sovraintendenza Comunale di Roma [da Atlas, tav. 283].
Fig. 29: (a) Anfora attica a figure rosse, 480-470 a.C., dal deposito votivo del tempio, Parigi, Musée du
Louvre [da Atlante, fig. 142]; (b) Torso di kore, replica della statua di culto, età augustea [da Atlante, fig.
143a]; (c) Tripode, disegno di G.B. Piranesi [da Atlante, tav. 161]; (1) Rilievo Hartwig, frammento con
la rappresentazione dell’aedes Quirini, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme,
Dono Hartwig [da Atlante, tav. 185]; (7) Testa colossale dell’imperatore Tito, Napoli, Museo Nazionale
Archeologico [da Atlante, tav. 185].
Fig. 31: Sterri ottocenteschi, banchina, con rampe e ormeggi di travertino (117-138 d.C.), foto P.
Bruzza (foto Archivio SSBAR).
Fig. 33: Mosaico con la distribuzione del grano alla plebe, in situ, Ostia, Aula dei mensores, Regio I,
Insula XIX, Aula dei Mensores (I,XIX,1.3) [da Atlante, tav. 216].
Fig. 34: (A) Statua di Pompeo/Nettuno, Roma, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano [da Atlante,
tav. 220].
Fig. 36: (A) Resti della Basilica, in situ, Roma, Sovraintendenza Comunale di Roma [da Atlas, tav. 229];
Teatro di Orange, in situ, scaene frons [da Atlas, tav. 229]; Teatro di Orange, in situ, postscaenium [da Atlas,
tav. 229]; (B) Maschere [Atlas, tav. 229]; (C) Dettaglio primo ordine, in situ, Roma, Sovraintendenza
Comunale di Roma [da Atlas, tav. 229]; (D) Dettaglio secondo ordine, in situ, Roma, Sovraintendenza
Comunale di Roma [da Atlas, tav. 229].
Fig. 37: (A) Foto dell’interno dell’ara Pacis, Roma, Museo dell’ara Pacis.
Fig. 42: Algeria, Tebessa, stalla, pianta e sezione [da Christern von Jürgen, Das frühchristliche
Pilgerheiligtum von Tebessa. Architektur und Ornamentik einer spätantiken Bauhütte in Nordafrika, Franz
Steiner Verlag GmbH, Wiesbaden 1976].
Fig. 43: Triclinium, affresco in secondo stile e grifi in stucco (100 a.C. circa), Roma, Area Archeologica
del Colosseo, Foro Romano e Palatino.
Fig. 44: Plutei marmorei degli horti Sallustiani, Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
Fig. 47: FUR http://formaurbis.stanford.edu/fragment.php?
record=2&field0=stanford&search0=157&op0=and&field1=all, Disegno di Baldassarre Peruzzi, Uffizi,
arch. 484r.
Fig. 49: Fregio della Basilica Emilia, Roma, Museo Nazionale Romano, sezione di Palazzo Massimo
alle Terme; Pitture della domus dell’Odissea, Roma, Musei Vaticani, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Fig. 50: Toro Farnese, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Fig. 51: (9) Deditio, Roma, Musei Capitolini; (12) Adlocutio?, frammento, Copenhagen, Ny Carlsberg
Glyptotek.
Breve glossario dei termini latini

Aedes, edificio di un dio.


Agger, fortificazione a terrapieno.
Ambulatio, percorso per passeggiate o corse.
Ara, altare.
Balneum, piccole terme private.
Cavaedium, cortile.
Cenatio, Sala per banchetti.
Cryptoporticus, corridoio sotterraneo illuminato da alte feritoie.
Cubiculum, camera da letto.
Ergastulum, quartiere degli schiavi.
Fanum, terreno consacrato a un dio.
Gestatio, ippodromo.
Horrea, magazzini.
Hortus, giardino o parco suburbano.
Hospitalia, quartiere per gli ospiti.
Insula, isolato o caseggiato.
Laconicum, locale per sauna secca.
Lararium, piccola edicola per il culto dei Lari.
Lucus, radura.
Maenianum, balconata.
Nemus, bosco.
Nymphaeum, fontana.
Oculus, apertura tonda o ovale che dà luce.
Oecus, sala.
Oecus Corinthius, sala con colonne.
Oecus Cyzicenus, sala centrale affiancata da triclinia.
Penetrale, parte sotterranea di una casa o di un tempio.
Peristylium, quadriportico intorno a un giardino.
Pomerium, limite della città inaugurata.
Porticus, portico.
Posterula, porta secondaria di mura.
Sacellum, recinto di altare.
Taberna, bottega o locale per artigiani.
Tabernaculum, capannetta.
Tablinum, sala principale per tabulae, tavolette cerate scritte con uno stilo.
Templum, area inaugurata cioè benedetta da Giove.
Tholos, edificio rotondo.
Triclinium, sala da pranzo.
Ustrinum, luogo della pira per incenerire un morto.
Vestibulum, ingresso di casa aperto sulla strada.
Vicus strada, quartiere.
Vicus tectus, strada coperta.
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