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CULTURA 29/12/2019

BILANCI TECNOLOGICI

Internet senz’anima? Colpa dei "like"


Nel 2010 la Rete fu candidata al Nobel per la Pace. A fine decennio siamo passati dall’utopia della
libertà digitale a scandali e fake news E c’è chi pensa che il punto di svolta è stato l’arrivo dei "mi
piace"

di Riccardo Luna

La mattina del 31 gennaio 2010 ero ad Oslo. L’elegante sede dell’istituto che ogni anno assegna il Nobel per la Pace era
spolverata da una neve leggera. Avevo con me i documenti necessari per proporre una candidatura clamorosa e avevo scelto
l’ultimo giorno utile per farlo: nel mio zaino c’erano duecento firme di parlamentari italiani che avevo raccolto personalmente;
l’appoggio di una personalità che quel riconoscimento lo aveva già vinto, l’attivista iraniana Shirin Ebadi che dal primo giorno,
con Giorgio Armani e Umberto Veronesi, sosteneva la candidatura; e un breve documento che spiegava perché avevo deciso di
proporre Internet per il premio Nobel per la pace.
Quel momento segna forse l’apice della tecno-utopia: la convinzione che la rivoluzione digitale avrebbe automaticamente
creato un mondo migliore; che fosse sufficiente portare la banda larga ovunque per creare posti di lavoro e crescita economica;
che bastasse dare a tutti accesso a tutte le informazioni perché le persone si informassero davvero; che la possibilità di
contattare chiunque in qualunque momento avrebbe fatto emergere le cose che abbiamo in comune, piuttosto che quelle che ci
dividono.
Quella campagna, che a rivederla oggi appare quantomeno ingenua, ebbe un impatto incredibile: ogni giorno arrivavano video
di appoggio da ogni angolo del mondo, dal Perù alla Corea del Sud. Eravamo tutti felici di essere connessi. Internet ci mostrava
ancora solo il suo lato migliore: la prima arma di costruzione di massa. Ponti invece di muri.
Il 7 ottobre 2010 il Nobel per la Pace venne assegnato a Liu Xiaobo, uno scrittore cinese che aveva definito Internet «un dono
di Dio». Era come aver vinto.
Dieci anni dopo è cambiato tutto. Gli utenti della Rete sono passati da due miliardi (nel 2010) a quasi quattro e mezzo. Viviamo
attaccati ad uno smartphone e ci prende il panico quando si scarica. Ci siamo abituati al fatto di poter comprare ogni cosa con
un clic ed averla a casa il giorno dopo. Abbiamo tutta la musica, i libri e i film del mondo conservati in app facili da usare e a
prezzi accessibili.
Eppure è come se la tecnologia avesse perso la rotta. O l’innocenza. È diventata qualcosa da cui difendersi: difendersi dai robot
che ci rubano il lavoro, dall’intelligenza artificiale che pensa per noi, dai social dove le nostre vite sono trasformate in profili
psicologici accuratissimi che ci rendono inermi davanti al rischio di essere manipolati. Difenderci da noi stessi, dalla nostra
incapacità di staccare: stare offline ogni tanto è diventato il nuovo status symbol.
Tutto questo non è successo per caso. O all’improvviso. Sono stati gli anni in cui si è attuata ed è stata smascherata la
sorveglianza digitale di massa, gli anni di Edward Snowden e di Cambridge Analytica; i social media che dovevano portare la
democrazia laddove non c’era ("la primavera araba"), l’hanno messa in crisi dove aveva secoli di storia (il Regno Unito, gli
Stati Uniti). Le bugie e l’odio non sono certo nati con il web ma è stato tale lo smarrimento per quello che stavamo vivendo in
Rete che abbiamo inventato espressioni nuove per spiegarlo: fake news e hate speech.

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La Silicon Valley, dove la rivoluzione digitale è stata immaginata e realizzata fin dagli anni ’70 come una sorta di guerra di
liberazione, è diventata la roccaforte dei nuovi cattivi da espugnare. Non per tutti certo, ma sicuramente non è più la terra
promessa. Nelle classifica delle aziende dove i giovani sognano di lavorare, Google e Facebook da quest’anno non sono più
nelle prime dieci posizioni, Amazon non c’è mai stata. Tra i loro dipendenti si fa strada l’idea che servano istituti antichi, come
i sindacati, per ritrovare la strada perduta. Tra i politici avanza la convinzione che servano nuove regole per arginare il potere
che in pochi hanno accumulato.
È come la caduta degli dei dell’Olimpo. Steve Jobs, che pure della trasformazione digitale delle nostre vite è forse stato
l’architetto principale, è morto nel 2011; ma anche gli altri non stanno tanto bene. Il caso più clamoroso è quello di Mark
Zuckerberg. Nel 2010 ha appena 26 anni e la sua epopea diventa un film di successo: The Social Network.
Nove anni dopo quello che ci resta sono i suoi balbettii imbarazzati mentre i membri del Congresso americano gli chiedono
conto degli errori fatti da Facebook con i nostri dati personali. Dove ha sbagliato?
Negli studi che si iniziano a fare su cosa sia andato storto in questi anni, emerge un dettaglio importante: l’introduzione del
tasto "like" è del 2009. Sembrava una innovazione innocente, un modo per evitare il ripetersi di commenti positivi tutti uguali;
si è rivelata diabolica. Non solo perché ha creato una nuova élite digitale, gli influencer. Ma perché è diventato lo strumento per
profilarci meglio. Il modello di business del web come lo conosciamo.
È stato il "like" il frutto proibito che abbiamo colto e che ci ha fatto cacciare dal paradiso universale dove credevamo di stare?
Lo diranno gli storici. Quello che già si può dire è che questa idea che il software possa da solo e automaticamente migliorare il
mondo non è solo sbagliata: è sciocca.
Ma ancora più sciocca è questa sensazione diffusa per cui si stava meglio prima, quando non c’era la tecnologia, quando non
c’era Internet. Il mensile Wired, che è nato a San Francisco nel 1993 e che la rivoluzione digitale l’ha raccontata e a volte
addirittura guidata, questo rischio lo ha visto benissimo qualche mese fa.
È successo qualche mese dopo aver messo in copertina una foto ritoccata di Zuckerberg, come se fosse stato preso a botte. La
copertina è del maggio scorso: a titoli cubitali dice «In Defense of Tech». In difesa della tecnologia. Dentro lungo saggio di
Paul Ford chiude così: «Amo il mondo che abbiamo creato in questi anni, ma non posso negare che il miracolo è finito e ci
resta un sacco di lavoro da fare».
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