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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ di BOLOGNA

DIPARTIMENTO DI INTERPRETAZIONE E TRADUZIONE

CORSO di LAUREA IN

MEDIAZIONE LINGUISTICA INTERCULTURALE

TESINA DI ANTROPOLOGIA
Argomento n.2

VERONICA NALLI
Destinati a essere diversi
Come la cultura definisce il ruolo degli individui

Introduzione

Il lavoro che segue si propone di analizzare i vari modi in cui il sé e l’esperienza del corpo
vengono strutturati culturalmente, così com’è stato affrontato nell’elaborato di Silvia Bellucci:
Margaret Mead. La costruzione culturale dell’identità di genere (2009) e da Elizabeth
Whitaker in The trouble with human nature: health, conflict and difference in biocultural
perspective (2017). In seguito verranno analizzati casi di persone che hanno attivato un
processo di trasformazione della propria corporeità e personhood, analizzate all’interno di
Morte e assenza di pianto rituale: il controllo delle emozioni tra i guerriglieri tamil dello Sri
Lanka (2005) di Cristiana Natali; Tra pratiche e credenze. Traiettorie antropologiche e storiche
(2017) di Claudio Giannotto e Francesca Sbardella, e Diventare musulmane: riflessioni
sull’esperienza di alcune donne convertite all’Islam in Italia (2018) di Emanuela Naclerio.

Sezione
In Margaret Mead. La costruzione culturale dell’identità di genere (2009), Silvia Bellucci
prende in considerazione le ricerche di Margaret Mead (1901-1978), considerata la prima
antropologa ad occuparsi di differenze di genere nelle sue ricerche. Il suo contributo è ritenuto
essenziale per aver aperto un nuovo campo di indagine antropologica, mettendo in discussione
le teorie proprie del suo tempo. Margaret Mead, studentessa alla Columbia University, fu
un’allieva di Franz Boas, colui che per primo criticò la tradizione evoluzionistica e con essa i
fenomeni culturali di tipo deterministico. La sua linea di ricerca si basa sul metodo del
“particolarismo storico”, che egli teorizzò, e secondo il quale
l’obiettivo fondamentale dell’antropologia sia la conoscenza delle cause storiche che hanno
portato alla determinazione dei tratti culturali propri di una certa popolazione (…) per cui è
necessario tenere in considerazione come un individuo reagisce alla cultura, e come, di
conseguenza, contribuisce a modificare i modelli sociali di comportamento. (Bellucci, 2009: 34).
Basandosi sull’impossibilità di comprendere e analizzare la dinamica sociale, se non attraverso
le reazioni che un individuo mostra nei confronti della sua cultura di appartenenza, M. Mead
teorizzò il concetto del “relativismo culturale”, in base al quale il contesto culturale è l’origine
delle azioni e comportamenti degli individui. Ogni cultura da vita a un tessuto sociale diverso,
che condiziona coloro che ne sono nati all’interno (Bellucci, 2009). A posteriori possiamo
perciò dire che Mead escluse che le differenze di genere fossero di carattere congenito, così
come le identificava la tradizione evoluzionistica, la quale parte dal presupposto che, per
esempio, la cura dei figli sia strettamente legata alla madre per via di una predisposizione che
proviene dal processo evolutivo della donna.

Margaret Mead ha realizzato varie ricerche, ma è stato lo studio che ha effettuato con Reo
Fortune negli anni 1931-33 presso tre società della Nuova Guinea, che ha permesso
all’antropologa di formulare il concetto che le differenze tra sessi siano strettamente correlate
al tessuto sociale di una determinata cultura. I risultati dello studio si trovano all’interno del
saggio Sesso e temperamento in tre società primitive (1935), che vede protagonisti tre società
semplici, ovvero gli Arapesh, i Mundugumor e i Ciambuli”. Ciò che va precisato, come afferma
la stessa Mead, è che l’obiettivo primo della ricerca non era quello di definire la differenza tra
i sessi, quanto più vedere come nelle tre società società primitive, uomini e donne si
comportassero tra loro, e come il temperamento fosse strettamente legalo alle differenze
sessuali. Sin dal principio l’antropologa chiarisce quindi che ciò che viene rilevato nelle sue
ricerche sono le forme che assume il comportamento degli individui dal punto di vista del loro
temperamento, riuscendo a distinguere attitudini che la scuola di pensiero occidentale aveva
attribuito ad una realtà biologica del sesso, identificabili invece come costrutti sociali. In
pratica, ciò che scaturì dalla ricerca fu che due società su tre, gli Arapesh e i Mundungumor,
non presentavano differenze sostanziali di temperamento tra i sessi; la società dei Ciambuli era
invece caratterizzata da una grande differenza di temperamento tra donne e uomini, e ciò che
sorprese di più fu che, rispetto agli standard che si ritenevano universali, i caratteri di queste
persone risultavano invertiti: alle donne venivano attribuite attitudini tipicamente maschili e
viceversa. Perciò,
se quegli elementi di temperamento che noi, per tradizione, consideriamo femminili, - come la
passività, la sensibilità, la propensione a curarsi dei bambini – possono tanto facilmente, in una
tribù, entrare a far parte del carattere maschile, e in un’altra tribù essere invece esclusi sia dal
carattere maschile sia da quello femminile, almeno per quanto riguarda la maggioranza degli
uomini e delle donne, viene a mancarci ogni fondamento per giudicarli legati al sesso (…).
(Mead, 2014: 296).
Questa ricerca risultò illuminante anche per la stessa Mead, la quale era convinta che ci fosse
una relazione tra sesso e temperamento, e da ciò si può ritenere comprensibile il motivo per il
quale la sua ricerca sconvolse del tutto il mondo dell’antropologia:
ciò che emerge dallo studio delle tre società primitive non può essere capito a pieno in un
momento in cui studio del sistema di sesso/genere non appartiene nemmeno alla discussione
antropologica [dunque] Non sembra possibile a molti lettori che quanto Mead riscontra nelle
popolazioni osservate sia frutto di una scoperta fatta nel corso della propria analisi. (Bellucci,
2009: 33).
Nonostante lo studio sia stato criticato e non ritenuto appropriato per l’epoca in cui venne
effettuato e pubblicato, e nonostante la posizione di Mead nei rapporti tra genere e sesso non le
consentisse di effettuare un’analisi teorica adeguata del fenomeno, ciò che ne è risultato è stato
comunque positivo, dando inizio ad una presa di coscienza generale che è stata importante
nell’elaborazione della categoria di genere e fondamentale per il movimento femminista a
partire dagli anni Sessanta (Bellucci, 2009).

Così come Margaret Mead, Elizabeth Whitaker, nel libro The trouble with human nature:
health, conflict, and difference in biocoltural perspective (2017), mette in discussione le varie
assunzioni evoluzionistiche sulla natura umana. Whitaker parte dall’analisi delle società dei
cacciatori-raccoglitori, ovvero tutte quelle popolazioni per lo più nomadi, che non praticano
alcuna forma di agricoltura e allevamento. Esse sono considerate le più prossime alle modalità
di organizzazione sociale primitiva per condivisione di alcune caratteristiche: bassa densità di
popolazione, raggruppamenti di 30-50 individui, solidarietà e cooperazione tra i membri e
assenza di un leader ufficiale (Whitaker, 2017: 23).
L’obiettivo primo della sua analisi è stabilire una relazione tra stile di vita nomade e certe
tipologie di relazioni sociali e modalità di comportamento. Viene dato per scontato, nelle
società primitive, che alle donne fosse stato riservato il compito della cura della famiglia e
quello di raccoglitrici; mentre agli uomini, quello di allontanarsi da “casa” e cacciare,
provvedendo alla crescita della famiglia e alla sua sicurezza. Da questi concetti si deriva che
donne e uomini abbiano sviluppato diverse attitudini e abilità, che ora vengono imposte loro
ancora prima di nascere. Tuttavia, le società di cacciatori-raccoglitori dimostrano l’erroneità
dei concetti sopra elencati. In primo luogo, a sfatare l’immagine “dell’uomo cacciatore” è la
dieta tipica delle società di cacciatori-raccoglitori, la quale si compone per 1/3 di alimenti di
origine vegetale. Il restante è per lo più composto da proteine di origine animale, derivanti da
insetti e animali di piccole dimensioni che invece che essere cacciati venivano catturati
(Whitaker, 2017: 27). In aggiunta, dall’analisi dei resti dei nostri predecessori, tra i quali gli
australopithecus, si può notare come la loro corporatura li portasse ad essere prede, non
predatori, in un momento in cui la Terra era popolata da varie specie di grandi felini. Basandosi
sull’analisi dell’anatomia e del comportamento animale, Donna Hart e Robert Sussman (2005)
arrivarono alla conclusione che la chiave per lo sviluppo umano non è stata l’abilità di cacciare
gli animali, quanto quella di difendersi da essi. Come se ciò non bastasse, anche la dentatura
dei nostri antenati non si presentava adatta alla consumazione di carne cruda. Whitaker (2017)
ritiene che sia sicuro affermare che gli uomini ancestrali divennero effettivamente cacciatori
50,000-40,000 anni fa. Prima di allora le società primitive, così come quelle di cacciatori-
raccoglitori a noi contemporanee, si sono affidate all’utilizzo di reti per la caccia. Questa pratica
includeva sia uomini che donne, anziani e bambini. Le prove dell’impiego di reti risalgono agli
anni Novanta, quando Olga Soffer (1942) trovò evidenze di sofisticate tecniche di tessitura in
alcuni siti in Repubblica Ceca, che risalgono a circa 25,000 anni fa (Advasio et al.2009).

A questo punto, se le società di cacciatori-raccoglitori escludono che ci sia una differenza di


compiti tra donne e uomini tali da plasmare attitudini che nel corso degli anni sono state
attribuite a processi evolutivi di tipo biologico, sorge spontaneo domandarsi come si sia
effettivamente attuata questa differenziazione. In The trouble with human nature: health,
conflict, and difference in biocoltural perspective (2017), Whitaker analizza le società agricole,
e riporta il concetto di Boserup (1970) secondo il quale:

Intensive agriculture brings wide


disparities in rank and roles between
women and men as well as between people
of different social classes, and is generally
associated with patrilineal kinship. Gender
stratification is especially pronounced in
plow-based societies (Whitaker, 2017:
173).
Whitaker ritiene che l’utilizzo dell’aratro, che include la presenza di macchinari pesanti e
animali da traino, così come altre elaborate tecniche agricole, abbia classificato il lavoro come
un’attività pericolosa che esclude le donne in quanto impossibilitate nel momento in cui sono
incinta o si devono prendere cura dei figli (2017: 173) In questo modo le donne sono relegate
allo svolgimento di attività produttive quali la cura della casa, degli animali, la conservazione
degli alimenti, ecc. In questo caso il loro lavoro non è considerato separato dalla vita famigliare,
e anche se le donne si trovano a dover lavorare più degli uomini, “[their] work (…) produces
use-value and men concentrate on work that produces exchange-value” (Whitaker, 2017: 79).
Il “lavoro maschile”, nelle società agricole come in quelle industriali, vedrà l’uomo in una
posizione privilegiata rispetto alla donna, la quale si troverà in una situazione di dipendenza
economica. Anche nel settore della ricerca scientifica, per esempio, si riscontrano differenze
nel numero di pubblicazioni, che sono per la maggior parte attuate da uomini. Le donne sono
perciò penalizzate e la loro carriera lavorativa compromessa. Ciò che ne risulta è che “Gender
inequalities (…) are not decreed by nature but arise through social institutions (…)” (Whitaker,
2017: 191).

L’idea che esistano sostanziali differenze tra uomini e donne è utile per la stratificazione della
società nella quale gruppi privilegiati difendono i propri vantaggi, danneggiando le donne ma
anche gli uomini che sono incompatibili “with the variability in gender roles and the capabilities
of real human beings around the world” (Whitaker, 2017: 234).

La selezione naturale non ha dotato uomini e donne di diverse abilità intellettuali e pratiche,
anche se ricerche scientifiche svolte nel corso degli anni hanno cercato di dimostrarlo. Infatti, i
risultati di misurazioni fatte a cervelli umani, che vedono cervelli femminili minori di quelli
maschili, non sono attendibili, in quanto l’anatomia del nostro cervello e il suo funzionamento
sono condizionati dall’uso che viene fatto di quest’ultimo, che a sua volta è influenzato dalla
cultura. Finché le persone continueranno a credere che maschi e femmine abbiano diverse
abilità mentali e fisiche, sarà impossibile stabilire quanto ci sia di vero alla base di tutto ciò
(Whitaker, 2017: 218). I diversi atteggiamenti ed esperienze delle persone, legate al loro sesso
di appartenenza, continueranno ad influenzare i modi in cui il nostro corpo e il nostro cervello
operano.

È evidente perciò, che le categorie create in base al sesso e al genere, così come la relazione fra
loro, siano definite dalla cultura. Se gli individui possono cambiare sesso o identità di genere,
allo stesso modo una società può cambiare le categorie che definiscono sesso e genere
(Whitaker 2017: 218-219). Le testimonianze di persone intersessuali, transgender e transessuali
sono la prova che l’identità di genere non si identifica in solo due forme, uomo e donna, e che
non rimane necessariamente fissa per tutta la vita. Per esempio, in alcune società nativo-
americane, la tradizione permette “the presence of two opposite spirits in the same person,
whether animal-human or male-female” (Whitaker, 2017: 220). Si tratta di persone che nel
momento della pubertà sceglievano la loro identità di genere, ma non si attenevano ad essa in
tutto e per tutto; mostravano attitudini e svolgevano attività sia maschili che femminili. Un altro
esempio vede alcune famiglie del nord dell’Albania, la cui prole non presenta un erede maschio,
concedere ad una figlia femmina di assumere le sembianze di un maschio e comportarsi come
tale. In entrambi questi casi, avviene un cambiamento nell’espressione del sé, della propria
corporeità e dell’habitus1.

Altre testimonianze di persone che hanno messo in atto un cambiamento della propria
corporeità, a sostegno che l’esperienza del sé e l’habitus vengono strutturati culturalmente, e
non biologicamente attraverso cambiamenti immutabili, si trovano in Morte e assenza di pianto
rituale: il controllo delle emozioni tra i guerriglieri tamil dello Sri Lanka (2005), di Cristiana
Natali; in Tra Pratiche e Credenze: Traiettorie antropologiche e storiche (2017) di Francesca
Sbardella e Claudio Gianotto; e in Diventare musulmane: riflessioni sull’esperienza di alcune
donne convertite all’Islam in Italia (2018) di Emanuela Naclerio.

In Morte e assenza di pianto rituale: il controllo delle emozioni tra i guerriglieri tamil dello
Sri Lanka (2005), Cristiana Natali parla delle Liberation Tigers of Tamil Eelam (LTTE), che
sono anche note come le Tigri tamil. Si tratta di un movimento indipendentista nato nello Sri
Lanka nel 1976, che si è affermato a partire dal 1983, anno in cui è scoppiata la guerra civile
contro il governo Colombo. Nel corso del conflitto, la Tigri tamil sono diventate una grande

1
questo termine verrà sempre utilizzato con l’accezione di Bourdieu (1992), che si riferisce alle
disposizioni interiorizzate dal soggetto in maniera passiva e inconsapevole all’interno dell’ambiente di
socializzazione primaria. L’autore contempla anche la possibilità che gli habitus cambino nel tempo.
forza organizzativa al comando militare, amministrativo e politico di vaste aree del territorio
dello Sri Lanka. Ai guerriglieri dell’LTTE appartengono delle particolarità che gli hanno resi
famosi in tutto il mondo. In primis, la “retorica del controllo delle emozioni” (Luz 1990) gioca
un ruolo di rilievo nella rappresentazione del combattente delle Tigri. Testimonianze di ex-
guerriglieri, mettono in luce una certa “austerità emotiva”, che i membri delle Tigri tamil sono
tenuti a rispettare. Sono descritti come interamente dediti alla causa e le loro relazioni con la
famiglia si affievoliscono significativamente. In un certo senso, i legami che si avevano
precedentemente con i propri familiari, sono sostituiti da quelli che si instaurano tra i compagni
di lotta. Le Tigri si chiamano tra loro “fratello” e “sorella”, e il loro rapporto basatosi sulla
fedeltà è più intenso di qualsiasi vincolo familiare. Le descrizioni che i civili e gli stessi membri
dell’organizzazione offrono di sé, è l’accostamento tra le Tigri e la figura dell’asceta; colui che
riesce ad esercitare un incredibile controllo sulle proprie emozioni e sul proprio stile di vita,
che consiste nell’astensione dai “vizi” attribuiti alla popolazione civile. In definitiva, il
movimento dell’LTTE, fu in grado di plasmare fisicamente, ma sopratutto mentalmente, uomini
e donne, ad una linea di comportamento del tutto innaturale. La differenza che si presenta sul
piano dell’esternazioni di emozioni tra guerriglieri e uomini civili non è così marcata come
quella tra combattenti e donne civili. Questo perché tra i tamil sono le donne a manifestare il
proprio dolore, attraverso pianti e urla di disperazione. In occasione delle cerimonie di
commemorazione dei membri dell’LTTE, le donne sono “prostrate sulle tombe, con i pugni o
con i palmi delle mani percuotono ora la terra sotto la quale giace il corpo del proprio congiunto,
ora il petto ora il capo” (Natali, 2005: 101).
Durante queste cerimonie, accanto alla donna civile in preda al pianto, si delinea la figura di
un’altra donna, che però non mostra le proprie emozioni. Si tratta di una guerrigliera delle Tigri.
Le donne che si arruolate al movimento si allontanano del tutto dal ruolo tradizionale della
donna, comportamento che si traduce in un profondo mutamento della loro immagine. Viene
messa in atto anche una notevole trasformazione esteriore: le combattenti, a contrario delle
civili, non indossano gioielli e la saree. Si acconcino i capelli in modo differente e si
differenziano dalle loro coetanee civili per l’assenza del pottu, il cerchio rosso in cima alla
fronte che contraddistingue le donne sposate. La testimonianza di una combattente, riporta le
differenze tra uomini e donne all’interno della società, quelle stesse differenze marcate
dall’impronta delle teorie evoluzionistiche. La guerrigliera riporta di essere stata educata a non
poter fare certe cose in quanto donna e di sentirsi incapace a causa del modo in cui era stata
educata. Una volta entrata a far parte del movimento, si è sentita più sicura di sé, accettando di
essere in grado di prendere decisioni da sola. In conclusione, le combattenti delle Tigri tamil
hanno attivato una trasformazione della loro corporeità e personhood, dimostrando che la
cultura non si trasmette attraverso i meccanismi riproduttivi, ma mediante il processo
dell’apprendimento.

Un processo di cambiamento sia interiore che esteriore viene attivato dall’individuo sopratutto
in contesti religiosi, quali: la conversione ad una nuova religione, nel caso delle donne italiane
convertite all’Islam delle quali Emanuela Naclerio riporta le testimonianze in Diventare
musulmane: riflessioni sull’esperienza di alcune donne convertite all’Islam in Italia (2018);
oppure nel mondo claustrale cristiano, di cui parla Francesca Sbardella nel libro Tra Pratiche
e Credenze: Traiettorie antropologiche e storiche (2017). In entrambi i casi, seppur molto
diversi fra loro, si può incontrare lo stesso principio fondatore: un processo che rimodella la
propria persona nel modo di essere, agire e proporsi. La profondità religiosa trasporta il soggetto
all’interno di un percorso di cambiamento che lo avvicina alla sua spiritualità e alla divinità
professata. Le donne che si convertono all’Islam e le monache in clausura praticano un’auto-
trasformazione che è possibile solo grazie ad una continua disciplina imposta al proprio
pensiero e al proprio corpo. Per esempio, le monache dei monasteri carmelitani francesi,
studiate da F. Sbardella, praticano il silenzio, inteso come assenza di voce ma anche di suoni e
rumori. Al fine di conseguirlo, “le religiose impongono sul proprio corpo e sulla propria
gestualità forme di controllo motorio” (Sbardella, 2017, p. 169) che ad un primo approccio,
possono sembrare del tutto innaturali e impossibili da raggiungere. Infatti, l’antropologa F.
Sbardella, nella sua ricerca sul campo, ha dovuto simulare tutto ciò che facevano le monache e
ha ammesso di non essere in grado di mantenere il silenzio assoluto, chiedendosi “perché le
monache riuscissero a non fare rumore” (Sbardella, 2017: 169).

Nel caso delle donne musulmane, il momento culminante del cambiamento interiore del
soggetto si manifesta con l’utilizzo del velo, il quale apre le convertire allo spazio sociale.
“Il velo può essere usato come strategia per far si che la propria identità religiosa venga
riconosciuta sia dalla comunità musulmana sia dal milieu culturale d’origine” (Naclerio, 2018:
185). Allo stesso tempo però, i musulmani europei possono praticare una doppia appartenenza,
ovvero come testimonia Aicha, intervistata da E. Naclerio, possono prendere il meglio del luogo
in cui si trovano, senza dimenticare la loro religione (l’Islam). L’esempio di questa “double
consciousness” (Dubois, 1903) , dimostra come la concezione di sé, della propria corporeità e
personhood, sia fluida e soggetta a cambiamenti che derivano dalle nostre esperienze, e non
intrinseca negli individui, nel loro DNA, come qualcosa di immutabile.

Le riflessioni sulle vite delle monache in clausura e delle donne convertite all’Islam, permettono
di vedere la messa in atto di “un processo di apprendimento attivo e consapevole del soggetto
[che si mescola] con habitus diversi in uno scambio continuo tra soggetto e ambiente”
(Naclerio, 2018: 181).

Conclusioni

L’apertura sulle differenze culturali porta inevitabilmente a dover rivedere il concetto di natura
umana, abbandonando l’ideologia evoluzionistica una volta per tutte. Ciò che è uomo e ciò che
è donna sono costrutti che in una società/cultura non possono essere considerati come
l’espressione di un’essenza maschile o femminile. I ruoli sessuali, così come l’appartenenza ad
un ceto sociale, non sono naturali ma frutto delle strutture culturali che hanno funzione di
plasmarli.

Bibliografia
1. Bellucci, S. (2009). “Margaret Mead. La costruzione culturale dell’identità di genere”.
Antrocom, 5(1):29-34.
2. Naclerio E. (2018). Diventare musulmane: riflessioni sull’esperienza di alcune donne
convertite all’Islam in Italia. Antropologia 5(2):175-193.
3. Natali C. (2005). "Morte e assenza di pianto rituale: il controllo delle emozioni tra i
guerriglieri Tamil dello Sri Lanka”. Antropologia 6:93-110.
4. Mead M. (2014). Sesso e Temperamento. Milano: Il Saggiatore.
5. Sbardella F. (2017). Il silenzio dell’antropologo e l’altro degli altri: fare etnografia in
clausura. In Gianotto F, Sbardella F, eds. Tra pratiche e credenze: traiettorie
antropologiche e storiche: un omaggio ad Adriana Destro. Brescia: Morcelliana.
6. Whitaker E. (2017) The trouble with human nature: health, conflict and difference in
biocultural perspective. Lonond: Routledge

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