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Lezione 1

COSA CONOSCIAMO?

UNA VISIONE REALISTICA DELLA CONOSCENZA UMANA

Questa lezione fa da introduzione all’intero Modulo e cerca di porre le basi per un discorso
realistico sulla conoscenza. La filosofia cristiana, infatti, deve essere una filosofia
realistica, altrimenti tutte le verità cristiane e la vita cristiana vengono private del loro
carattere ontologico [questo tema è stato sviluppato nel modulo di Ontologia].

Metafisica della conoscenza

Circa il problema della conoscenza bisogna distinguere fin da subito il realismo


dall’idealismo.

Il realismo non inizia dal problema di se e come si conosce, non pone all’inizio il problema
gnoseologico. Il realismo ritiene che sia evidente che si conosce l’essere. Non è possibile
infatti conoscere se non conoscendo ciò che è, dato che ciò che non è non si conosce. Il
filosofo realista parte dalla apprensione immediata dell’essere e solo dopo, conoscendo,
studia come si conosce. Che noi conosciamo è una certezza immediata, una evidenza,
non ha bisogno di essere provata, giustificata o criticamente fondata. Nel realismo tutto
può essere critico, ossia giustificato e dimostrato, tranne il realismo stesso. Per questo
motivo il realismo intende la gnoseologia come metafisica della conoscenza, in quanto il
nostro conoscere si inserisce nella conoscenza immediata e metafisica dell’essere. E’ la
metafisica che illumina la gnoseologia e non viceversa. Non ci si chiede se la metafisica
sia possibile, essa è possibile perché si dà, e tutto ciò che si dà in atto è per forza dotato
dalla caratteristica della possibilità. Ci si chiede come si conosce dato che la metafisica è
evidentemente possibile.

L’idealismo, invece, parte dal nostro pensiero, sostenendo che la prima cosa che
conosciamo sono le nostre rappresentazioni, le nostre idee. Per questo la conoscenza
della realtà non è certa, ma va dimostrata criticamente. L’idealista non parte dalla
conoscenza ma dalla critica della conoscenza: ritiene che la conoscenza debba essere
preliminarmente giustificata nei suoi presupposti e nei suoi esiti. Che noi conosciamo e
che conosciamo la realtà deve essere sottoposto a critica, ossia deve essere esaminato e
vagliato. Per questo motivo questi filosofi partono dalla gnoseologia e non dalla metafisica.
Per loro la conoscenza metafisica, come ogni altra conoscenza, deve essere criticamente
fondata, vale a dire che la gnoseologia come studio critico del nostro conoscere la
precede.

L’idealismo è però intimamente contraddittorio. Come faccio a esaminare se e come


conosco se non conoscendo? Ossia adoperando già quella conoscenza che devo invece
criticamente esaminare? Ciò che devo provare lo uso per poterlo provare: è un
procedimento contraddittorio. Si vede qui che l’’idealismo parte da assiomi, da postulati,
da qualcosa di assunto ipoteticamente. L’idealismo moderno si fonda su un postulato non
dimostrato ma semplicemente assunto. Dire che il pensiero non può conoscere significa
esprimere una conoscenza mentre si sta ancora dimostrando la possibilità della
conoscenza.

Il realismo non abbisogna di essere critico. L’idealismo è, invece, per forza critico. Se
infatti ciò che conosciamo per primo è la nostra rappresentazione e non la realtà, nasce
immediatamente il problema critico se alle nostre rappresentazioni corrisponda veramente
la realtà.

L’atteggiamento critico è iniziato sistematicamente con Cartesio (XVII secolo). Egli mise in
dubbio il realismo, sostenendo di non essere per nulla certo di conoscere il reale. Già da
questo dubbio nasce il problema critico: la nostra conoscenza non è originariamente
fondata sull’evidenza dell’essere, ma chiede di essere fondata. Cartesio disse di essere
certo solo di sé, delle evidenze del suo pensiero, assunse quindi come punto di partenza
le proprie rappresentazioni. A quel punto il problema critico divenne quello di stabilire se le
nostre rappresentazioni ci permettessero di conoscere veramente il reale.

Un altro grande pensatore idealista che impostò la propria filosofia criticamente fu


Emmanuel Kant. Qui la critica cambia di prospettiva rispetto a Cartesio e si approfondisce.
Anche Kant pensa che noi conosciamo gli oggetti del nostro pensiero, i nostri pensieri o
rappresentazioni. Dato che sono nostri pensieri essi chiedono di essere fondati. Kant
cerca il fondamento dei nostri pensieri in alcune condizioni che devono essere presenti
nella nostra mente perché quegli oggetti di pensiero siano possibili. Questa si chiama
“deduzione trascendentale”. Quali sono le condizioni presenti a priori nella nostra
intelligenza che rendono possibile le nostre conoscenze? Mentre il realismo pensa che ciò
che rende possibile la nostra conoscenza è l’essere, Kant ritiene invece che siano alcune
funzioni del nostro intelletto e, quindi, risale ancora più indietro rispetto agli oggetti della
conoscenza, allontanandosi ancora di più dall’essere.

L’idealismo non può quindi non essere critico. Esso non assume la conoscenza
dell’essere come evidente e quindi deve fondarla criticamente, ossia giustificarla. Poiché,
però, esso intende partire dal nostro pensiero cercherà la giustificazione delle nostre
rappresentazioni nel pensiero stesso, allontanandosi progressivamente dal reale e
inabissandosi invece dentro l’io. E’ questo il “principio di immanenza”: l’inabissarsi del
nostro conoscere dentro se stesso e, quindi, l’allontanamento progressivo dall’essere,
senza più poter conoscere qualcosa di vero, di reale e di oggettivo. Il principio di
immanenza crede di esaltare la conoscenza e la coscienza ed invece le umilia,
rendendole prigioniere di se stesse. La conoscenza, così staccata dal reale, si perde nel
proprio vaniloquio e impazzisce. La filosofia moderna è una filosofia brillante ma
impazzita.

Lo spiega con una bella immagine Etienne Gilson: “Il criticista sa bene che il proprio
mondo dell’esperienza è una scenografia e che, dietro questa scenografia, c0è
qualcos’altro; egli, tuttavia, non può guardare dall’altro lato della scenografia per vedere
ciò che vi accade, giacché, ogni volta che tenta di farlo, le condizioni a priori
dell’esperienza trasformano in una nuova scenografia quanto si nascondeva dietro la
vecchia”. Se la scenografia è sempre dietro di noi, è impossibile attraversarla, ce l’avremo
sempre alle spalle. L’idealismo critico non riesce quindi più a liberarsi dal pensiero, di cui
rimane sempre all’interno.

Abbiamo allora visto che l’idealismo deve per forza essere critico, mentre il realismo non lo
è: la conoscenza non ha bisogno di essere criticamente fondata e la metafisica dell’essere
precede la gnoseologia come critica della conoscenza.

Nella storia c’è stato però anche un realismo critico, ossia un realismo che, pur volendo
rimanere realista ossia in grado di fondare una metafisica dell’essere, ha però voluto
assumere il punto di vista critico della modernità, ha voluto porsi dal punto di vista di
Cartesio o di Kant e da lì dimostrare la possibilità della conoscenza del reale. E’
impossibile trasformare il realismo in realismo critico. Se lo si fa si rinuncia al realismo e ci
si concede al nulla del pensiero moderno. Il punto decisivo è all’inizio, se si sbaglia quel
passo ci si è già consegnati al traditore.

Per il realismo, quando la conoscenza cerca l’oggetto è perché lo ha già trovato. Lo cerca,
lo desidera, lo apprezza … perché ce l’ha davanti. Altrimenti non saprebbe cosa cercare,
desiderare, apprezzare. E’ perché ha già incontrato l’oggetto che il soggetto tende verso di
esso. Ed è così facendo che il soggetto stesso prende coscienza di sé come soggetto. Il
soggetto conoscente non conosce se stesso direttamente, ma indirettamente, attraverso la
conoscenza di altro. E’ conoscendo che mi scopro soggetto conoscente. Se non ci fosse
un oggetto non ci sarebbe conoscenza e nemmeno conoscenza di sé.

Per questo motivo il realista riconosce il primato indiscusso della metafisica rispetto a tutti i
saperi, anche rispetto alla gnoseologia, mentre invece oggi la metafisica è disprezzata e
abbandonata. Egli sa che all’inizio c’è come un bivio: o la verità è la conformità della
conoscenza a ciò che è (realismo) o la verità è l’accordo della ragione con se stessa
(idealismo).

Antropologia della conoscenza

Un secondo grande aspetto del problema della conoscenza sul quale è opportuno avere le
idee chiare fin da subito è “chi è” che conosce. Per rispondere a questa domanda bisogna
rispondere ad un’altra precedente: cosa è l’uomo? Poiché si agisce in base a quello che si
è, l’uomo conosce da uomo e quindi per sapere come conosce bisogna sapere cosa egli
sia. Ecco perché la gnoseologia, oltre ad essere preceduta dall’ontologia deve essere
preceduta anche dall’antropologia, ossia dalla metafisica della persona umana.

Se si ritiene che l’uomo sia sostanzialmente materia, allora l’uomo conoscerà con il
cervello e, tramite il cervello, con gli organi dei sensi. La risposta alla domanda “chi è” che
conosce sarà: il cervello, ossia un organo materiale, sofisticato ma materiale. In questo
caso l’intelletto coinciderà con il cervello e l’intelligenza coinciderà con l’attività cerebrale.
In questo caso lo studio della conoscenza coinciderà con le neuroscienze e con la
fisiologia del cervello. La gnoseologia cesserà non solo di essere una disciplina metafisica
ma anche una disciplina filosofica. Sarà scienza sperimentale. Oppure si parlerà solo di
psicologia della conoscenza, vale a dire della conoscenza della mente, ma anche in
questo caso si tratta di una scienza sperimentale che si concentra sui fenomeni, anche se
qui i fenomeni non sono fisico-organici ma comportamentali. Lo stesso dicasi della
sociologia della conoscenza.

Gli animali inferiori conoscono solo attraverso il corpo, perché in loro l’anima non ha una
propria sussistenza, ma è solo forma del corpo. Se anche l’uomo conoscesse solo tramite
i il corpo, allora non si distinguerebbe dagli animali, sarebbe solo un animale più
sofisticato. La collocazione corretta della persona umana nella scala degli esseri è quindi
importante per illuminare la conoscenza.

Se invece si ritiene che nell’uomo sia presente un principio spirituale capace di essere a
titolo proprio, l’anima, allora il cervello sarà solo un organo strumentale ma chi conosce
sarà l’anima intellettiva e siccome l’anima di livello superiore governa anche le attività
inferiori quali sono quelle dei sensi, si dirà che è l’anima che conosce, non l’occhio, non il
palato, non il cervello. Il realismo è di questo parere ed è per questo che esso vede la
conoscenza come una attività spirituale e una spiritualizzazione della realtà, appunto
perché condotta da un essere spirituale. Non che la conoscenza non abbia bisogno della
materia per conoscere, dato che l’anima dell’uomo è un’anima “incarnata”, né che quindi
non abbia bisogno del corpo e dei sensi, solo si vuol dire che essa trascende i sensi, anzi
già nei sensi c’è qualcosa di più che non una conoscenza materiale. E’ come dire che
nella conoscenza l’anima si dimostra come una sostanza spirituale e che tramite la
conoscenza le cose trovano nell’anima una forma di esistenza più alta di quella che hanno
nella materia. La gnoseologia è allora possibile come psicologia della conoscenza ma nel
senso della psicologia razionale, vale a dire della disciplina metafisica che studia l’anima.
Aristotele infatti tratta della conoscenza nel De anima, il suo trattato sull’anima.

Per il realismo è l’anima intellettiva che conosce e questo permette poi di parlare di altre
forme di conoscenza superiori a quella umana, in quando esercitate da sostanze separate
dalla materia, ossia solo spirituali. Se è l’anima che conosce nelle sostanze materiali, a
maggior ragione si potrà dire che è essa a conoscere nelle sostanze solo spirituali. Si
tratta della conoscenza delle sostanze angeliche a cui San Tommaso ha dedicato … ,
anche se ora l’angelologia è una disciplina non solo filosofica ma anche teologica in
completo disuso. Anzi, se è l’anima che conosce, si potrà anche dire che le sostanze
separate dalla materia conoscono in modo eminente rispetto alle altre.

In questo modo è possibile stabilire una gerarchia nei livelli di conoscenza che va dal
composto al semplice, dal materiale all’immateriale. I sensi danno una conoscenza
materiale ma non solo; la ragione dà una conoscenza immateriale e tuttavia processuale e
mediata, l’intelletto dà una conoscenza superiore ed eminente perché immediata ed
intuitiva. La metafisica e l’antropologia, come si vede, mettono ordine anche nella
conoscenza e la rendono umana, angelica e divina.
La fede come conoscenza

Un terzo elemento fondamentale per una filosofia cristiana che voglia studiare la
conoscenza è assumere la fede stessa come una forma di conoscenza. Senza di ciò, la
fede rimane estranea al conoscere e quindi al sapere sicché una filosofia cristiana
diventerebbe impossibile. Poiché terremo una apposita lezione su questo tema, qui
presenteremo solo alcune osservazioni a titolo introduttivo.

La fede è conoscenza se ha a che fare con l’intelletto. Se essa avesse a che fare solo con
la volontà o solo col sentimento, non sarebbe propriamente conoscenza. La prima cosa da
fare è quindi vedere in che forma e in che misura l’intelletto è coinvolto nella fede. E’ infatti
l’intelletto la facoltà conoscitiva dell’anima.

La fede è un atto dell’intelletto che dà l’assenso al vero sotto il comando della volontà.
L’oggetto della fede è una verità prima in quanto non evidente e poi altre verità accettate a
motivo di essa. Se le verità fossero evidenti non ci sarebbe bisogno dell’atto di fede nei
loro confronti. Infatti una stessa verità non può essere vista e creduta nello stesso
momento e dallo stesso punto di vista. Le prime verità della fede da cui derivano poi tutte
le altre sono due: Dio esiste e provvede alla nostra salvezza. L’intelletto accetta le cose
che non vede per l’autorità di Dio e per questo è mosso dalla volontà.

La fede, prima di essere una virtù teologale, è una forma di conoscenza naturale. La
conoscenza può essere o diretta o indiretta. E’ diretta quando io ho accesso diretto al vero
o quando posso inferire il vero dal vero mediante un ragionamento. Se vado in giardino e
sento che piove conosco direttamente tale verità. Se vado in giardino, non sta piovendo e
vedo il terreno bagnato, arguisco con certezza che è piovuto. In questi due casi possiamo
parlare di una conoscenza evidente per la quale non serve la fede. Se invece mia moglie
mi dice che fuori piove e io ci credo fidandomi di lei, allora ho una conoscenza indiretta in
quanto la verità conosciuta non è evidente. In questo caso l’assenso è dato dall’intelletto
ma il comando è dato dalla volontà. Tale conoscenza non è irrazionale o assurda,
l’intelletto tende al vero, ma si tratta di una verità inevidente e quindi l’assenso
dell’intelletto ha bisogno della mozione della volontà.

La fede è certa anche se non è scienza. Per il fatto di non essere scienza essa non rimane
vittima del dubbio. Certamente non è scienza in quanto la scienza vede il proprio oggetto,
mentre la fede non lo vede. Però non è nemmeno opinione, perché l’assenso della fede è
certo, mentre l’opinione dà il proprio assenso senza però escludere che sia vero l’opposto
e rimanendo sempre nel dubbio.

La pretesa della fede è non solo di essere più certa dell’opinione, ma di essere anche più
certa della scienza e della sapienza. Essa infatti si fonda sulla verità divina mentre le altre
si fondano sulla ragione umana. Naturalmente ciò vale per la fede in senso assoluto, per
la fede in sé, e non per la fede dal punto di vista del soggetto che crede, dato che da
questo punto di vista la fede è meno certa della scienza. Come abbiamo già visto parlando
del trascendentale del “vero”, per noi è più certa la conoscenza di questo sasso che quella
di Dio.
La fede, in quanto conoscenza, ha anche una priorità rispetto alla speranza e alla carità.
Tutte e tre hanno per oggetto il fine ultimo, ma il fine ultimo prima deve essere conosciuto
e poi sperato e voluto. Non si può infatti sperare e volere ciò che non si conosce. Il fine
ultimo è voluto mediante la speranza e la carità ed è conosciuto tramite la fede che è atto
dell’intelletto, così la fede ha la priorità sulle altre virtù. Ciò per quanto riguarda la fede in
assoluto. Invece per quanto riguarda il piano accidentale (ossia ciò che può essere e
anche non essere) si possono dare delle virtù che vengano prima della fede, nel senso
che la preparano e facilitano, come la fortezza o l’umiltà.

Le cose viste finora possono anche essere espresse nella triplice ripartizione secondo cui
la fede consiste nel “credere Dio”, “credere a Dio” e “credere in Dio”. Dato che credere
spetta all’intelletto sotto la mozione della volontà, la fede può essere considerata sia in
rapporto all’intelletto che in rapporto alla volontà. “Credere Dio” dice l’oggetto della fede in
rapporto all’intelletto (oggetto materiale della fede). “Credere a Dio” dice la fede sempre in
rapporto all’intelletto in quanto conosce la prima verità a cui aderire e in forza di essa
aderire poi alle altre (ragione formale dell’oggetto). “Credere in Dio” dice l’azione
dell’intelletto sotto la mozione della volontà.

Dicevamo che la fede è atto dell’intelletto spinto dalla volontà a dare il proprio assenso a
verità non evidenti, ma non perciò assurde o irrazionali e che ciò si fonda sull’adesione
all’autorità di Dio. In questo senso si può dire che la fede segua la logica della
testimonianza.

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