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Il primo è quello in cui le parti coincidono con le parti dei futuri contratti, da essi
regolati. Ricorre soprattutto fra le parti coinvolte in una relazione economica
complessa e di lunga durata, la cui attuazione implica che esse concludano, nel corso
del tempo, numerosi contratti aventi il medesimo oggetto o oggetti coordinati. Al
momento di concludere ciascuno di questi singoli contratti, le parti ne
conformeranno il regolamento su quanto previsto dal contratto normativo, perché
sono tenute a farlo: si pensi a certi rapporti fra imprese fornitrici di beni e servizi, e
loro clienti abituali. L’esigenza sottesa al contratto in questione è data dalla
riduzione dei tempi e dei costi delle trattative. I principali problemi di contratti
normativi interni concorrono sul filo della differenza fra obbligo di contrarre e
obbligo di contrarre a determinati contenuti. In linea di principio, essi creano il
secondo obbligo, e non il primo. Nel contratto normativo le parti sono libere di
stipulare o meno i futuri contratti particolari, obbliga, piuttosto, a stipulare a
determinati contenuti. Diverso è il caso del contratto preliminare, del contratto di
opzione o della proposta irrevocabile: da essi nasce un diritto potestativo al
perfezionamento del contratto. Dunque, il rifiuto di stipulare un contratto
particolare è un atto, in sé, astrattamente legittimo, a meno che tale rifiuto non possa
interpretarsi come un modo surrettizio per violare l’accordo normativo (cioè, per
non stipulare alle condizioni previste dal contratto normativo). Secondo parte della
dottrina, la violazione del vincolo di prefigurazione determinerebbe una
responsabilità precontrattuale, come tale limitata, in linea di principio, all’interesse
negativo. Questa impostazione non tiene conto del “quid pluris” rappresentato dal
fatto che, con il perfezionamento del contratto normativo, deve ritenersi esaurita e
superata la fase delle trattative. Pertanto, nell’ottica qui tratteggiata, altra parte
della dottrina parla di questa fattispecie come una “zona grigia” tra responsabilità
precontrattuale e contrattuale. L’interesse che può essere risarcito si pone “a metà
strada” tra l’interesse “positivo” e l’interesse “negativo” comunemente intesi. Si
tratta, infatti, pur sempre dell’interesse positivo all’attuazione del contratto debole:
sicché è in gioco, non già il fisiologico esercizio del diritto a non concludere il
contratto particolare, ma bensì lo sviamento nei fini di questa libertà. L’esercizio del
diritto di rifiuto, ove strumentalmente orientato ad indurre la controparte a riaprire
una trattativa convenzionalmente chiusa, esporrà ad una responsabilità
contrattuale per violazione del precetto di prefigurazione, che in un certo senso
integra un particolare interesse positivo. In tal caso, l’ingiusto rifiuto di addivenire
al contratto particolare, integrando un abuso del diritto all’autodeterminazione
nell’esercizio dell’iniziativa economica, vulnera non già un rapporto meramente
endoprocedimentale, ma un rapporto di prefigurazione che ha già, per le parti, un
effetto anche sostantivo. E’ per questo che il rifiuto esporrà al risarcimento
dell’interesse positivo tutte le volte che, in violazione del principio di buona fede (di
cui all’art 1375 c.c.), emerga che tale condotta risulti sviata nei fini che
l’ordinamento tutela. La buona fede, per converso, impone altresì il dovere di
ricontrattazione della regola di prefigurazione ogni qual volta vengano in rilievo
sopravvenienze tali da giustificare il riesame di quanto stabilito. In definitiva, il
contratto normativo interno, alla luce delle pregresse considerazioni e del suo
significato causale, è considerato un “contratto debole”: un contratto, cioè, inerente
al procedimento ed intrinsecamente effimero, perché comunque destinato, di
necessaria alternativa, o ad essere superato all’addivenire del contratto particolare,
o a rimanere in una certa misura “quiescente” sino a quando l’autonomia privata
ad esso non decida di addivenire.
Passando, infine, all’esame delle fattispecie nelle quali si è fatto ricorso alla figura
del contratto normativo, emerge innanzitutto la concessione di vendita. La
concessione di vendita è un contratto normativo stipulato tra concedente e
concessionario, finalizzato a dettare la regolamentazione uniforme dei contratti che
il concessionario ha l’obbligo di stipulare o di promuovere alla clientela. Si è posto,
in particolare, il problema del contratto di concessione di vendita di autoveicoli ove,
con un accordo normativo, concessionario e concedente abbiano stabilito che,
quando il primo andrà a stipulare il contratto di vendita particolare, dovrà inserire
in esso un patto di riservato dominio per il concedente. Ci si è domandati cosa accade
nel caso in cui il concessionario non abbia inserito tale patto nel contratto
particolare. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 3990 del 19 febbraio
2010, ha stabilito che il mancato inserimento del patto di riservato domino nel
contratto particolare di vendita stipulato dal concessionario con i terzi determina
esclusivamente una violazione del rapporto programmatico e dispiega effetti solo sui
rapporti tra concessionario e concedente, senza efficacia nei confronti dei terzi.