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Le strade

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I edizione digitale: marzo 2018
I edizione: marzo 2018
© 2002 Guillermo Arriaga
© 2018 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Titolo originale: El búfalo de la noche
Traduzione dallo spagnolo di Stefano Tummolini
ISBN: 978-88-9325-385-7
www.fazieditore.it

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@FaziEditore

FaziEditore

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Guillermo Arriaga

Il bufalo della notte

traduzione di Stefano Tummolini

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A Jaime Aljure, Julio Derbez
ed Eusebio Ruvalcaba

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non sono le cose importanti che mandano un uomo al
manicomio. la morte o l’omicidio, l’incesto, il furto,
l’incendio, l’inondazione – quelli se li aspetta.
no, è la continua serie di piccole tragedie, che manda
un uomo al manicomio…
non è la morte del suo amore, ma il laccio della scarpa
che si rompe quando ha fretta
CHARLES BUKOWSKI
I suoi occhi splendenti mi rivelarono all’improvviso
che noi uomini non apparteniamo a una sola specie,
ma a molte, e che da una specie all’altra esistono,
all’interno del genere umano, distanze insormontabili,
mondi irriducibili a un termine comune, capaci di produrre,
se da uno di essi si guarda in fondo al suo opposto,
la vertigine dell’altro.
MARTÍN LUIS GUZMÁN
So che la morte è un toro gigantesco pronto a investirmi
CHARLES BUKOWSKI

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Decisi di far visita a Gregorio un sabato sera, tre settimane
dopo la sua ultima uscita dall’ospedale. Non fu una scelta facile,
andarlo a cercare. Ci pensai per mesi. Temevo quell’incontro
come chi teme un’imboscata. Quella sera feci molte volte su e giù
per la strada, senza azzardarmi a bussare alla sua porta. Quando
alla fine mi decisi, ero nervoso, inquieto e – perché non dirlo –
anche un po’ impaurito.
Mi aprì sua madre. Mi salutò affettuosa e senza ulteriori
convenevoli mi fece entrare in salotto, come se aspettasse da
tempo il mio ritorno. Chiamò suo figlio. Gregorio comparve sulla
scala. Lentamente scese i gradini. Si fermò e si appoggiò al
corrimano. Scrutò il mio viso per qualche secondo, sorrise e mi
venne incontro per darmi un abbraccio. La sua veemenza mi
irrigidì e non trovai il modo di ricambiare il suo affetto. Non
capivo se mi aveva davvero perdonato, o meglio, se ci eravamo
perdonati.
Sua madre disse qualche frase senza importanza e si ritirò per
lasciarci da soli. Com’era nostra abitudine, salimmo in camera di
Gregorio. Entrammo e lui accostò la porta, priva di serratura. Si
sdraiò sul letto. Mi parve rilassato, tranquillo. Nulla, nel suo
aspetto, mi fece supporre che fingesse. Finalmente sembrava aver
ritrovato la pace.
Mi sedetti al solito posto – la sedia da regista che Gregorio
teneva davanti alla scrivania – e iniziai la conversazione nella
maniera più ovvia e stupida:
«Come ti senti?», gli domandai.

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Gregorio si alzò a sedere e inarcò le sopracciglia.
«Tu come mi vedi?».
«Bene».
Gregorio alzò le spalle.
«Be’, allora sto bene».

Parlammo per ore e ore, solo di sciocchezze. Entrambi


dovevamo sondare da capo il terreno. Soprattutto io, che non
avevo alcuna voglia di sfiorare di nuovo l’abisso. Per fortuna, per
pudore, o forse addirittura per mera cortesia, non mi chiese di
Tania, anche se sono certo che entrambi pensavamo a lei ogni
volta che restavamo in silenzio.
Mi congedai da lui verso notte. Ci scambiammo un abbraccio
prolungato. Restammo d’accordo che ci saremmo visti presto, per
andare a pranzo o al cinema. Uscii dalla casa. Un vento freddo si
trascinava dietro un vago rumore di voci e di motori di
automobili. C’era odore di immondizie bruciate. Un’insegna
scintillava nel buio, illuminando a intermittenza il marciapiede.
Chiusi gli occhi. Non potevo allontanarmi da Gregorio. La sua
amicizia mi era indispensabile, anche quando mi minacciava e mi
dava il tormento. No, non potevo lasciarlo.

Quattro giorni dopo squillò il telefono. Risposi. Sentii nel


ricevitore un respiro muto. Pensai che si trattasse di uno scherzo,
o di una di quelle ragazzine deficienti che volevano parlare con
mio fratello e poi per l’emozione non trovavano il coraggio di
farselo passare.
Stavo per attaccare quando sentii la voce debolissima di
Margarita.
«Pronto… Manuel?», bisbigliò.
«Sì?».
«Manuel…», disse ancora, poi tacque.
«Che è successo?».
«Mio fratello…», sussurrò, poi restò ancora in silenzio.
Sentii di nuovo il suo respiro nervoso.
«Margarita, che è successo?».

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Non disse altro e riagganciò.

Margarita aveva provato a darmi, senza riuscirci, la notizia


che in seguito mi confermarono varie telefonate: Gre​gorio si era
sparato un colpo alla testa. L’avevano trovato agonizzante in una
pozza di sangue, con la mano sinistra ancora stretta al revolver.
A poco erano servite le finestre sprangate con le assi e le
sbarre di ferro, la porta senza serratura, la pazienza, l’amore, i
calmanti, le sedute di elettroshock, i mesi rinchiuso negli
ospedali psichiatrici, il dolore. Il dolore.
Gregorio morì in grembo a sua madre, sdraiato sul sedile
posteriore dell’automobile che suo padre guidava come un pazzo
verso l’ospedale. Si suicidò con la stessa pistola che avevamo
rubato qualche anno prima a un poliziotto di guardia all’ingresso
di un supermercato. Era un revolver ossidato calibro trentotto, di
marca brasiliana, della cui efficacia continuammo a dubitare
finché non decidemmo di provarlo contro un cane randagio. Al
primo colpo cadde fulminato con il muso in poltiglia. Da allora
fino al giorno della sua morte, Gregorio riuscì a nascondere
l’arma nei posti più svariati, eludendo i controlli minuziosi cui
erano sottoposti tutti i luoghi che abitava o frequentava.
Gregorio avvolse la pistola in una busta di plastica – carica di
sei proiettili esplosivi – e la sotterrò in un vaso dentro cui
fiorivano gerani rossi. Nel ricostruire il suicidio, deducemmo che
estrasse il revolver dal suo nascondiglio mentre fingeva di
sistemare le piante in giardino, attività che i medici consigliavano
per accelerare la sua guarigione. Gregorio prese l’arma, se la
nascose sotto la camicia e abbandonò di corsa la sua
occupazione, lasciando in terra un rastrello, una pala e un sacco
di fertilizzante organico.
Determinato, salì nella sua stanza. Spinse la scrivania contro
la porta e si chiuse in bagno. Caricò il revolver, si guar​dò allo
specchio, puntò la canna contro il sopracciglio sinistro e premette
il grilletto.
La pallottola attraversò in diagonale il cervello facendo
esplodere al suo passaggio arterie, neuroni, desideri, tenerezze,

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odii, ossa. Gregorio stramazzò sulle mattonelle con due buchi nel
cranio. Stava per compiere ventitré anni.
Fu Joaquín, il più piccolo dei suoi fratelli, a seguire tutte le
pratiche relative alla sepoltura e a rispondere alle richieste e agli
interrogatori del pubblico ministero. La madre, esausta, si
addormentò sul divano in salotto senza neppure cambiarsi la
blusa macchiata di sangue. Il padre si rinchiuse nella stanza del
figlio in cerca di indizi che gli permettessero di comprendere
l’accaduto. Margarita, che all’inizio s’era lanciata ad avvisare
familiari e amici, si arrese all’impotenza e fuggì a casa di una sua
cugina, dove si abbarbicò a una sedia a dondolo a guardare
assorta la televisione e a bere Coca-Cola Diet.
Io accompagnai Joaquín all’agenzia funebre. Insieme
scegliemmo la bara, la più semplice ed economica. Le finanze
della sua famiglia non consentivano altro, prosciugate com’erano
dalle incalcolabili spese derivate dall’assistenza medica e
psichiatrica di Gregorio.
Il cadavere arrivò nella camera ardente alle tre di mattina. Per
fortuna un lontano zio – avvocato d’un certo prestigio – si
occupò degli incartamenti giudiziari, per evitare che il corpo
fosse sottoposto ad autopsia e accelerarne il rilascio
dall’obitorio.
Un impiegato dell’agenzia di pompe funebri ci chiese di
andare a identificare il corpo. Mi offrii di farlo io: Joaquín aveva
già sopportato abbastanza, non era il caso di infliggergli anche
quello strazio.
L’uomo mi fece scendere delle scale, che conducevano a uno
scantinato. A metà strada mi bloccai, pentito di essermi offerto.
Come affrontare un’altra volta Gregorio? E soprattutto: come
guardarlo in faccia, da morto? Nauseato, mi portai una mano alla
testa. Respiravo a fatica. Non gli bastava una descrizione
sommaria per capire che si trattava di lui? L’uomo mi prese per il
braccio e insistette perché proseguissi. Per incoraggiarmi mi disse
che sarebbe bastata un’occhiata rapida per considerare chiuso il
procedimento.
Entrammo in una stanza senza finestre illuminata da alcuni

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tubi di luce fluorescente. Gregorio, o quello che un tempo era
stato Gregorio, giaceva su un tavolo di metallo, coperto fino al
petto da un lenzuolo bianco. La morte gli aveva lasciato sul viso
un’espressione leggera, gracile. Non c’era più traccia del suo
atteggiamento freddo, sfrontato. Un fazzoletto sul sopracciglio
sinistro copriva l’orifizio suicida. Un ematoma violaceo gli
colorava la fronte. I capelli – unti di sangue – sembravano
pettinati all’indietro con la brillantina. La barba incolta gli
conferiva un’aria stanca, quasi annoiata. Lo contemplai per
qualche minuto: da morto mi intimidiva meno che da vivo, molto
meno.
«È lui, vero?», mi domandò l’uomo perplesso, vedendomi
sovrappensiero.
Guardai per l’ultima volta il cadavere di Gregorio. Come
congedarmi da lui? Dovevo forse dirgli addio e nien​t’al​tro?
Oppure abbracciarlo con forza e piangergli accanto? Come
spiegargli che la sua morte mi dava insieme pena, rabbia e
umiliazione? Come spiegare tutto questo a un corpo muto,
stupidamente muto?
«Sì, è Gregorio Valdés», dissi e mi voltai per raggiungere
l’uscita.

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Alla veglia ci fu poca affluenza. Anche se la notizia s’era
propagata rapidamente, pochi ebbero il coraggio di venire a
porgere le condoglianze: il cadavere di un suicida crea sempre un
certo disagio.
I familiari di Gregorio vagavano smarriti per la camera
ardente. La madre afflitta cercava riparo negli angoli. Il padre
iniziava un discorso e poi s’interrompeva a metà, lasciando la
frase in sospeso per sprofondare in un silenzio esasperante.
Margarita borbottava cose senza senso e Joaquín, distrutto dalla
stanchezza, cercava inutilmente di darsi un tono.
I genitori sopportarono di tutto: pettegolezzi, sguardi
indiscreti, false contrizioni. Pur non essendo credenti permisero a
un sacerdote di celebrare la messa (le cui spese furono
opportunamente coperte dall’agenzia funebre, con il pretesto di
una donazione). Non si opposero nemmeno a un giornalista di
cronaca nera, mandato da un quotidiano di serie B, che curiosava
senza alcun riguardo.

Alle cinque del pomeriggio partì il corteo funebre. Solo


quattro automobili seguirono il carro fino alla cappella di
famiglia. Grazie all’interessamento dello zio di Gregorio, il corpo
poté essere cremato. Sentii un brivido, vedendo il fumo azzurro
che saliva dalla canna fumaria del forno. Nel piccolo anfiteatro,
Gregorio m’era sembrato ancora vicino: palpabile, umano.
Adesso quelle spirali di fumo segnalavano la sua morte definitiva.
Non aspettai che consegnassero l’urna con le ceneri.
Piangendo, fuggii da un’uscita laterale del cimitero. Poiché non

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avevo abbastanza soldi per pagare un taxi o una corriera, decisi di
tornare a casa a piedi. Senza guardarmi intorno mi feci strada tra
le infinite bancarelle degli ambulanti, la confusione all’uscita
della metro, il traffico, il fumo – a volte perfino azzurro – che
usciva dalle automobili.
Arrivai a casa. I miei mi stavano aspettando, preoccupati per
il ritardo. S’erano affacciati di sfuggita nella camera ardente. Non
avevano resistito neppure cinque minuti a quell’atmosfera di
disperazione.
Cenammo in silenzio. Alla fine mia madre mi prese la mano e
mi baciò sulla fronte. Notai che aveva gli occhi gon​fi.
Salii nella mia stanza. Presi il telefono e composi il numero
di Tania. Sua sorella mi disse che stava già dormendo. Mi chiese
a brutto muso se doveva svegliarla. Le risposi di no: avrei
riprovato più tardi.
Tania non aveva voluto assistere né alla veglia né alla
cremazione. Per lei Gregorio non era ancora morto. Me l’aveva
detto quella mattina.
«Sta ancora tramando qualcosa, vedrai. Gregorio non può
andarsene così e basta».
Si sentiva che era ansiosa, agitata. Le dissi che era infantile,
da parte sua, temerlo in quel modo.
«Non dimenticare che è il re Mida della distruzione»,
sentenziò.
«Era», la corressi.
«Non smetterà mai di esserlo».
Disse che secondo lei non era una coincidenza che Gregorio
si fosse suicidato pochi giorni dopo avermi visto e che avesse
scelto proprio il ventidue febbraio per farsi saltare il cervello.
«Non capisci? È un modo per farcela pagare! Ci sta
schizzando di sangue, quel figlio di puttana!».
Non riuscii a calmarla, né tanto meno a convincerla ad
accompagnarmi alla veglia o al cimitero. Il suo atteggiamento mi
parve ingiusto e meschino: nessun morto si merita di essere
lasciato solo.

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Cercai di leggere un po’ ma non riuscii a concentrarmi.
Spensi la luce e chiusi gli occhi. Sfinito, mi addormentai al​-
l’istante. A mezzanotte mi svegliai con la sensazione che una
forbicina spuntava dalla bocca inerte di Gregorio e mi saltava
addosso infilandomisi in un avambraccio. Saltai giù dal letto
grattandomi il corpo come un disperato, finché a poco a poco non
mi calmai. Poi sognai di nuovo una forbicina. Credo di averne
sognate almeno dodici.
Sudando, andai alla finestra e la aprii. Il vento mi portò il
respiro della notte: ululati di sirene, latrati, musica in lontananza.
Mi rinfrescai con l’aria fredda. Tornai al letto e mi sedetti sul
bordo del materasso. Ripensai al cadavere sul tavolo di metallo.
Gregorio aveva sempre desiderato assassinare un uomo, toccare il
limite della morte. Finalmente c’era riuscito.
Accesi la lampada sul comodino. Presi dalla scrivania la
cornice con la fotografia di Tania. Vestita con la divisa della
scuola, Tania sorrideva all’obiettivo con i capelli sciolti sulle
spalle. In un angolo del ritratto c’era scritto «Ti amo Manuel».
Sotto c’era la sua firma e una data cancellata a penna: ventidue
febbraio. Perché amarla doveva farmi soffrire tanto?
Rimisi a posto la fotografia e accesi la televisione con la
speranza che l’insulsa programmazione notturna mi conciliasse il
sonno.

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Mi alzai all’alba stravolto dall’insonnia. Scesi in cucina e mi
versai un bicchiere di latte. In casa dormivano tutti. Mi misi a
leggere il giornale del giorno prima e non trovai nulla che mi
interessasse. Annoiato lasciai il giornale sul tavolo e bevvi il latte
controvoglia. Erano le sei di mattina e non sapevo che fare.
Per ammazzare il tempo decisi di farmi un bagno. Mentre mi
spogliavo osservai le mattonelle. Il colore e il disegno
assomigliavano a quelli del bagno di Gregorio. Gregorio: di colpo
lo intravidi mentre cadeva di schiena con il cranio sfondato.
Sentii con chiarezza lo schianto del suo corpo contro il
portasciugamani, il gorgoglio del sangue, il rantolo affannoso del
moribondo. Aprii il rubinetto della vasca e misi la testa sotto il
getto ghiacciato finché non sentii un dolore alla nuca. Tolsi la
testa di scatto. Cento gocce gelate mi scivolarono lungo le spalle.
Tremando mi sedetti per terra. Presi un asciugamano e mi ci
avvolsi per scaldarmi un poco, ma continuai a tremare per un bel
pezzo.
Uscii dal bagno. Nudo e con i capelli ancora zuppi mi sdraiai
sul letto. Chiusi gli occhi e mi addormentai.

Mi svegliai quattro ore dopo, intirizzito: avevo dimenticato di


chiudere la finestra e il vento circolava nella stanza. Ancora
mezzo addormentato, mi alzai per chiuderla. In strada si sentiva il
chiasso dei bambini che giocavano in una scuola nei pressi e il
canto di una donna che stendeva i panni in una terrazza vicina.
Sul pavimento trovai un biglietto che mia madre aveva fatto
scivolare sotto alla porta. Tania e Margarita mi avevano cercato al

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telefono.
Cercai prima di mettermi in contatto con Tania, ma a casa sua
non rispondeva nessuno. Poi mi ricordai che era giovedì e pensai
che sicuramente lei e sua sorella dovevano essere all’università.
Guardai l’orologio: mezzogiorno e mezzo. Nel giro di quindici
minuti Tania sarebbe uscita dalla sua lezione di disegno tessile e
sarebbe andata a giocare a domino con le amiche e a prendere un
caffè. L’idea che Tania continuasse a frequentare il suo corso
come se niente fosse, come se il colpo di pistola che aveva
squarciato quel martedì sera non fosse una ragione sufficiente per
smettere di andarci, mi fece incazzare.
Poi chiamai a casa di Gregorio. (Era ancora casa sua, quella?
Qual è la casa di un morto?). Mi rispose Margarita. Mi spiegò
che i suoi genitori non c’erano ma che la madre le aveva detto di
invitarmi a cena.
«E perché?», le domandai.
«Be’, per fare due chiacchiere… immagino», rispose
sconcertata.
D’istinto, mi rifiutai.
«Stasera non posso».
Lei insistette, ma io continuai a negarmi. Rimase in silenzio
per qualche secondo.
«E adesso, potresti venire?», indagò nervosa.
«Per fare cosa?».
Margarita fece un gran sospiro.
«Ho bisogno di vederti», disse a bassa voce.
La sua richiesta mi parve fuori luogo. Margarita e io avevamo
avuto una relazione effimera, clandestina, meramente sessuale,
che ben presto era venuta a noia a entrambi. Avevamo deciso di
non tornare più sull’argomento e c’eravamo giurati di non dirlo a
nessuno.
«Tu non hai bisogno di vedermi», le risposi aggressivo.
«Non è per quello che pensi», mi rimproverò stizzita, «è per
una cosa completamente diversa».
«Ah sì?».
«Sei un idiota».

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Margarita rimase in silenzio.
«Scusa», le dissi.
Lei tacque ancora per qualche istante, poi fece schioccare la
lingua e cominciò a parlare, con piccole pause tra una parola e
l’altra.
«Circa un mese fa… o tre settimane… non mi ricordo…
Gregorio mi chiese di tenergli una scatola… una scatolina, di
quelle in cui si mettono i cioccolatini…».
S’interruppe, deglutì e continuò.
«Mi aveva detto di custodirla con attenzione, e adesso…».
Le si spezzò la voce, ma non pianse.
«Non la trovo, Manuel». Proseguì: «Non la trovo più, quella
scatola del cazzo».
«Dove l’avevi messa? Cerca di ricordarti».
No, non riusciva a ricordarselo. Non ricordava neppure che
era stata la prima a entrare in bagno dopo il colpo, che aveva
trovato suo fratello grondante di sangue vicino al lavandino, che
aveva cercato di fermare l’emorragia tappando le ferite con la
carta igienica, che aveva aiutato i suoi a caricare il corpo esanime
in macchina e poi era rimasta in mezzo alla strada senza sapere
che fare. No, Margarita non riusciva a ricordare nulla.
«Aiutami a cercarla», mi implorò, «per favore».
Decidemmo che sarei passato a casa sua alle sette di sera,
prima che rientrassero i suoi. Le promisi che l’avremmo cercata
insieme e le dissi di non preoccuparsi. Sospirò un arrivederci e
riagganciò. Mi tornò la voglia di baciarla, di accarezzarla e di fare
l’amore.

Mi alzai dal letto. Mi facevano male sia la testa che la nuca.


Mi diressi verso il guardaroba. Rimasi a lungo a guardare i
vestiti, indeciso su cosa mettermi. Alla fine scelsi un paio di
pantaloni leggeri, delle scarpe da tennis e una maglietta nera. Era
da molto tempo che non portavo magliette. Né canottiere e
camicie a maniche corte. Volevo evitare che si notassero le
cicatrici sul bicipite sinistro. Erano dei segni rossastri e
sgradevoli che io stesso mi ero procurato, sfregandomi il braccio

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con la pietra pomice. Avevo cercato di cancellare il tatuaggio che
mi ero fatto insieme a Gregorio una notte d’aprile, in un posto
vicino a Chopo.
Su sua iniziativa, entrambi ci eravamo tatuati la sagoma di un
bufalo americano sul braccio sinistro. Gregorio aveva anche
preteso che ci tatuassero con gli stessi aghi, perché il colore si
mischiasse col sangue e ci marchiasse per sempre.
All’inizio non prestai attenzione al tatuaggio, ma nel giro di
qualche mese la figura del bufalo divenne un simbolo sempre più
intollerabile. La sola vista del mio bicipite sinistro mi faceva
imbestialire: ero caduto di nuovo in una delle trappole ordite da
Gregorio nel suo frenetico gioco di ossessioni.
Il tatuaggio presupponeva un patto di cieca lealtà tra noi due.
Ma che lealtà potevo offrirgli io, che in quel periodo andavo a
letto con Tania tutti i giorni? Che lealtà potevo offrire a un tipo
che passava la maggior parte del​l’anno rinchiuso in ospedali
psichiatrici? Come potevo essere leale?
Invece Gregorio pretendeva questa lealtà in ogni momento,
anche quando sapeva che era fittizia. E la esigeva con l’inganno,
il ricatto, la minaccia.
Gregorio mi accerchiava lentamente, in silenzio. A poco a
poco cominciò a controllare tutti i miei gesti quotidiani. La sua
presenza – anche a distanza – mi soggiogava, mi imprigionava.
Troppo tardi compresi che il senso del tatuaggio era quello di
consolidare il suo assedio, di perseguitarmi fin dentro il mio
corpo, attraverso il mio corpo stesso.
Per questo, dopo essermi sfregato con la pietra pomice,
raschiai la carne viva con un coltello da cucina. Volevo togliere
dai miei tessuti fino all’ultima goccia di tintura e non
m’importava di ridurmi il braccio a strisce, con tagli profondi e
disperati.
Quella sera mi ritrovai con il braccio gonfio e sanguinante.
Fu necessario che mi portassero in una clinica, dove il medico di
guardia mi cucì tre ferite. Per una ci vollero otto punti di sutura.
Mi iniettarono del siero antitetanico e dosi massicce di
penicillina. Guarii solo dopo molto tempo e quando si staccarono

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le croste la cicatrice aveva i bordi lucidi, come una zampata di
tigre. Pur essendomi massacrato il braccio, non riuscii a portare a
termine il mio proposito e ancora adesso, sotto la pelle, si
intravedono i tratti sfumati del bufalo azzurro.
Da quel momento cercai sempre di nascondere le mie
cicatrici. Non per vanità, ma perché la gente ha questa fastidiosa
mania di indagare sull’origine delle cicatrici e io non avevo più lo
spirito per raccontare a tutti l’origine delle mie.
Quel giovedì mi misi la maglietta nera, non per attirare
sguardi curiosi ma per ricordare che il passato – malgrado tutti i
nostri sforzi – non si riesce mai a estirparlo, ma resta come
un’antica bruciatura, che certe volte torna a infiammarsi: e tanto
vale imparare a conviverci, piuttosto che cercare di combatterlo.
Scesi in cucina e incontrai Marta, la donna che veniva a
stirare i panni. Mi disse che mia madre era andata al mercato con
la macchina di mio fratello e che mi aveva lasciato la sua in caso
ne avessi bisogno. Uscii con l’intenzione di raggiungere Tania
all’università. Non la vedevo da tre giorni. A metà strada mi
accorsi che non avevo niente da mettermi sopra e non potevo
nemmeno nascondere le cicatrici.
Arrivai alle due del pomeriggio. A quell’ora l’università era
piuttosto affollata. Salii a cercare l’aula di Tania: era la B-112.
Sbirciai attraverso il finestrino della porta e non la vidi. Feci
segno a un’amica sua di uscire dall’aula. Quando le chiesi di
Tania mi disse che a lezione non si era vista neppure il giorno
prima.
Chiamai Tania a casa da un telefono pubblico, ma continuava
a non rispondermi nessuno. Sconcertato, presi a vagare per i
corridoi vuoti dell’università. Pensai a dove potesse essere.
Quando era depressa o voleva stare da sola, le piaceva andare al
giardino zoologico a guardare i giaguari. Oppure andava
all’aeroporto: si sedeva a un tavolo della caffetteria, vicino alle
vetrate che davano sulla pista, a guardare quell’infinità di aerei
che decollavano e atterravano in continuazione. Non mi aveva
mai spiegato perché andava proprio in quei posti quando aveva

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bisogno di un po’ di pace.

Qualcosa mi disse che l’avrei trovata allo zoo e mi avviai in


quella direzione imboccando il Paseo de la Reforma. Il traffico,
alle tre di pomeriggio, era molto lento. Un piccolo incidente tra
un tassista e una signora che guidava un pulmino pieno di
bambine aggravava l’ingorgo. Avevano bloccato due corsie. La
donna gesticolava fin quasi a sfiorare il viso del tassista, che
continuava a fissarla con un sorrisetto. Dentro il pulmino, tre
bambine con indosso il grembiule color caffè di una scuola di
suore assistevano afflitte alla scena. Che mai poteva decifrare
Tania dalle macchie di un giaguaro?
Impiegai cinquanta minuti per compiere il tragitto. Per giunta
dovetti parcheggiare a quasi due chilometri di distanza. Poi presi
un viale che attraversava il bosco di Chapultepec, in direzione del
giardino zoologico. Soffiava il vento, sollevando foglie secche e
spazzatura. Mi pentii di non aver preso una felpa o un giubbotto
per coprirmi.
Arrivai all’ingresso dello zoo. Un gruppo di studenti delle
medie stava uscendo in fila. Uno di loro camminava con le mani
infilate nelle tasche dei pantaloni, guardando in terra, senza
unirsi agli scherzi e agli spintoni dei suoi compagni. Mi ricordò
Gregorio, quando aveva la sua età.
Mi incamminai direttamente verso la fossa dei giaguari, ma
Tania non c’era.

Rimasi un po’ a osservarli. Il maschio, enorme, sonnecchiava


sotto un albero, mentre la femmina, più piccola, si riparava dal
vento sdraiata tra le rocce. Per alcuni minuti rimasero immobili,
finché il maschio si alzò, si stiracchiò alzando il muso e
dondolandosi avanzò pigramente verso la femmina. L’annusò, le
rivolse un grugnito mansueto e si sdraiò al suo fianco. Poi
nient’altro.

Annoiato e scoraggiato, decisi di andarmene. Il vento


cominciava a rafforzarsi e alcune raffiche formavano mulinelli di

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polvere e paglia. La gente si affrettava a uscire dal giardino
zoologico. Un uomo mi venne addosso e senza fermarsi farfugliò
un «Mi scusi». Incrociai le braccia, con l’intenzione di
proteggermi dal freddo che continuava ad aumentare.
Camminavo in fretta, quando scorsi con la coda dell’occhio
un animale che si muoveva impetuoso dentro alla sua gabbia. Mi
avvicinai per guardarlo. Si trattava di un grande coyote, con il
manto fitto dalle sfumature ocra e dorate. Faceva avanti e indietro
disegnando cerchi immaginari. La sua vivacità, il suo nervosismo
contrastavano con l’indolenza dei felini.
Il cielo si oscurò e cominciarono a cadere dei goccioloni di
pioggia. I visitatori rimasti indietro correvano a ripararsi dal
temporale imminente. Di colpo una raffica spez​zò il ramo di un
albero vicino. Il coyote si fermò per lo schianto. Si voltò verso
l’angolo come per verificare l’origine dell’incidente. Poi girò la
testa, i suoi occhi giallissimi incrociarono i miei e rimase a
fissarmi.
Dopo qualche secondo riprese a girare in circolo. Mi
allontanai a poco a poco continuando a guardarlo, convinto che
dietro quelle sbarre la vita palpitava nella sua essenza più pura.

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Quando uscii dal giardino zoologico la pioggia era
torrenziale. M’infilai in macchina bagnato fradicio, con le scarpe
e i calzini pieni di fango. Tremando, e con le mani gonfie, mi
diressi a casa di Margarita.
Arrivai con mezz’ora di ritardo. La pioggia era finita e ormai
cadeva solo qualche piccola goccia. Scesi dalla macchina ancora
grondante e suonai il campanello più volte, senza ricevere alcuna
risposta da Margarita. Tirai dei sassolini contro i vetri della sua
finestra come facevo quando ci incontravamo di nascosto, per
avvisarla del mio arrivo. Si accese una luce e un’ombra si proiettò
sui vetri. Margarita si affacciò e con la mano mi fece segno di
aspettarla.
Aprì la porta. Aveva un’aria distrutta.
«Scusa», disse facendomi entrare, «ma non so nemmeno da
quant’è che dormo…».
Mi pulii la suola delle scarpe sul tappetino all’ingresso
lasciando molto fango in terra. Margarita sorrise:
«Non ti preoccupare», disse.
Si avvicinò e mi salutò con un bacio. Mentre lo faceva si
bagnò le labbra, per via di una goccia d’acqua che mi sci​volò
sulla guancia. Indietreggiai di un paio di passi e mi esaminò dalla
testa ai piedi.
«Sei zuppo, ti ammalerai».
Senza dire altro mi lasciò da solo in ingresso e salì le scale.
Tornò con un asciugamano e dei vestiti puliti. Allungò le braccia
per porgermeli, ma pensando che fossero di Gregorio non ebbi il
coraggio di prenderli.

22
«Sono di Joaquín», disse notando la mia esitazione.
Li presi e mi avviai verso il bagno degli ospiti. Margarita mi
fermò.
«Puoi cambiarti qui», disse, «i miei hanno detto che
torneranno alle otto e mezza e Joaquín è uscito con loro».
Rimasi interdetto, senza sapere che fare. Era proprio lì,
proprio su quel divano, che avevamo fatto l’amore. C’eravamo
accoppiati strisciando tra i mobili, al buio, senza parlare, quasi
senza il desiderio di toccarci. L’avevamo fatto una notte che i
suoi genitori avevano dovuto precipitarsi di corsa all’ospedale
psichiatrico per una chiamata d’emergenza: durante una delle sue
crisi, Gregorio s’era amputato due dita del piede destro con un
pezzo di vetro e se l’era messe in bocca, minacciando di
inghiottirle e di mutilarsi anche altre parti del corpo se qualche
medico o infermiere si fosse azzardato ad avvicinarsi.
Margarita mi guardò negli occhi. Iniziò una frase dicendo
«Manuel, io…», ma si fermò senza terminarla. Sorrise
languidamente e mi accarezzò la cicatrice sul braccio.
«Ti fa male?», domandò con candore.
«No, le cicatrici non fanno male». Mentivo, perché quella
cicatrice mi faceva male da sempre.
Sorrise ancora, con molta più tristezza. Mi chiese di darle
l’asciugamano, mi fece voltare di spalle e cominciò ad asciugarmi
i capelli con delicatezza. Sentivo il suo respiro sulla nuca.
«Sai di rampicante», disse.
«Che?».
«Sì, di rampicante», ripeté. «Come quello che abbiamo sul
muro in giardino. Ha quest’odore quando lo innaffi».
E subito iniziò a parlare del rampicante, dei fili d’argento che
lasciano le lumache strisciando sui rami, del rumore delle
lucertole quando corrono a nascondersi dietro alle foglie, del
gatto che ogni sera attraversava la siepe, degli ari che Joaquín
aveva rotto a pallonate da bambino.
Parlava e parlava di un mondo che sembrava girare intorno al
giardino. Un mondo senza dolore, senza rabbia, senza colpi di
pistola nel cuore della sera. Mi voltai per guardarla negli occhi.

23
La presi per i polsi e la tirai verso di me. Margarita lasciò cadere
l’asciugamano. Sorrise stringendo le labbra.
«Ciccio, sei gelato. Ti prendi una polmonite», disse.
Le baciai le nocche e la lasciai andare. Raccolsi
l’asciugamano da terra e mi diressi verso il bagno degli ospiti. Lei
allungò un braccio per cercare di fermarmi, ma poi sembrò
pentirsi e lo ritrasse meccanicamente.
Entrai nel bagno e chiusi la porta a chiave. Lo facevo sempre:
non sopportavo l’idea che qualcuno potesse ferire la mia intimità.
Aprii il rubinetto dell’acqua calda e lasciai che il lavandino si
riempisse fino all’orlo. Poi ci infilai le mani e le tenni dentro
finché non si sgonfiarono.
Suonò il telefono. Margarita rispose dopo l’ottavo squil​lo.
Sentii che a poco poco abbassava la voce. Aguzzai le orecchie ma
ormai parlava con sussurri quasi impercettibili e alla fine non le
feci più caso.
Mi spogliai, inumidii l’asciugamano con l’acqua calda e mi
frizionai il corpo fino a riprendere un po’ di calore. Lustrai lo
specchio appannato dal vapore e osservai il mio viso. Ebbi
l’impressione che mi fosse estraneo, completamente estraneo.
Affondai la faccia nell’acqua del lavandino. Trattenni il
respiro il più a lungo possibile e poi feci uscire l’aria lentamente.
Il gorgoglio delle bolle mi rilassò. Mi venne voglia di
addormentarmi sott’acqua. Spinsi la fronte in fondo al lavabo e
chiusi gli occhi. Abbandonai dolcemente la testa a quel tiepido
andirivieni. Rimasi così per due o tre minuti, finché non sentii
dei colpi lontani, metallici, sulla porta. Tolsi il tappo e senza tirar
fuori la testa aspettai che l’acqua scendesse dallo scarico. Il
lavandino si svuotò e sentii con chiarezza la voce di Margarita
che mi domandava se volevo il caffè.
«No, grazie», le risposi.
La sentii allontanarsi verso la cucina. Alzai lo sguardo e mi
osservai di nuovo nello specchio. Il mio viso continuava ad
apparirmi estraneo.

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Uscii dal bagno e trovai Margarita seduta su un divano in
salotto (lo stesso su cui aveva dormito per ore sua madre, dopo il
suicidio del figlio). La stanza era in penombra, illuminata solo
dalla luce che arrivava dalla tromba delle scale.
«Ti ho preparato un tè al limone», disse, e indicò una tazza
fumante sul cristallo del tavolo al centro della stanza.
Presi il tè e cominciai a berlo a piccoli sorsi. Era un po’
troppo dolce. Mi sedetti vicino a Margarita. Mi afferrò la mano e
la strinse con forza.
«Sento che sto cadendo e che se non mi aggrappo a qualcosa
mi sfracellerò», disse.
Mi lasciò la mano e rimase a guardare il camino. Il suo
braccio sfiorava appena il mio. Sentii la sua pelle calda,
l’impercettibile carezza della sua peluria. A che mi era servito
cercare di amarla, prima di allora? Perché pur avendola penetrata
mille volte, pur avendola leccata dalla testa ai piedi e baciata fino
a restare senza fiato, non l’avevo mai sentita vicina come in quel
momento, mentre con il suo braccio sfiorava il mio.
Di colpo Margarita si alzò in piedi.
«I tuoi vestiti… dove li hai lasciati?», domandò ansiosa.
«In bagno».
«Torno subito, vado a metterli nell’asciugatrice».
Partì diligente, come se asciugare i vestiti fosse un compito
improcrastinabile. La raggiunsi nella stanzetta del bucato e la
trovai seduta in terra a gambe incrociate, che contemplava assorta
i vestiti, mentre giravano nell’asciugatrice. Mi chiese di spegnere
la luce.
«Che hai?», le domandai.
«Niente».
Al buio il ronzio della macchina risuonava ancora più forte.
Da qualche finestra chiusa male s’infiltrava una corrente d’aria
che faceva ondeggiare un lenzuolo steso ad asciugare in un
angolo della stanza. I bagliori di un lampione si riflettevano in
una bacinella piena d’acqua.
Un oggetto – forse la zip della chiusura lampo dei pantaloni –
cominciò a sbattere contro il cristallo dell’asciugatrice

25
provocando un rumore monotono, irritante. Margarita si alzò,
girò una manopola e fermò la macchina. Tirò fuori i panni, ne
fece un fagotto e azionò di nuovo l’asciugatrice.
«Tra cinque minuti sono pronti», disse e rimase pensierosa
per qualche istante. Mi guardò e fece un respiro profondo.
«Non te l’ho mai detto», mormorò, «ma ho avuto un ritardo di
un mese e mezzo. Ero sicura di essere incinta».
«Di chi?», domandai scioccamente.
Lei mi guardò con durezza.
«E di chi, secondo te? Idiota».
Abbassò il mento sul petto, si morse le labbra e rimase
immobile, senza alzare gli occhi dal pavimento.
«Non sapevo che fare, avevo paura di comprare uno di quei
test che si vendono in farmacia per vedere se sei incinta».
Sospirò e rimase in silenzio. Alzò il viso, si strappò un
capello e proseguì.
«Ero angosciata, non avevo idea di quello che sarebbe
successo, non sapevo a chi chiedere aiuto. Non sapevo come
dirtelo, sai? Perché avevo paura di te, Manuel… mi credi?».
Di nuovo rimase in silenzio. Assorta, perlustrò con gli occhi
la stanza e sorrise con un sorriso sempre più triste.
«In quel periodo mi venivo a rifugiare proprio qui e con una
scusa qualsiasi facevo andare la lavatrice o l’asciugatrice e
rimanevo ad ascoltarle: splash splash… tu penserai che sono
mezza matta, ma quando le sentivo mi sembrava di essere meno
sola… e chiusa in questa stanza, per ore e ore, mi mettevo le
mani sulla pancia cercando di sentire se c’era qualcosa che si
muoveva dentro di me».
Sussurrò ancora «dentro di me», poi si ammutolì. Il suo
sguardo si perse nel vuoto, nel ricordo di un essere che non aveva
mai abitato il suo ventre. L’asciugatrice si fermò e Margarita mi
chiese di accendere la luce. Aprì lo sportello e tastò i vestiti varie
volte.
«Sono pronti», mi assicurò.
Prese il fagotto e se lo avvicinò alla guancia.
«Guarda, sono ancora belli caldi…». E mi mise i vestiti sulla

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faccia. «Senti?».
Gli occhi di Margarita si ravvivarono. Mi avvicinai e la baciai
dolcemente sulle labbra. Lei reagì dandomi un colpetto sul petto.
Sorrise, questa volta senza tristezza.
«Approfitta per cambiarti subito, finché i vestiti sono ancora
caldi», disse. Poi mi strinse il braccio e uscì.
Mentre la guardavo allontanarsi, mi resi conto che non
l’avevo mai vista piangere.

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Cercammo la scatola di Gregorio in cucina, in salotto e nello
studio, senza trovarla. Rovistammo pure negli scaffali
dell’armadio a muro, nel bagno degli ospiti, nei cassetti della
scrivania di suo padre, nell’armadietto del bagno e nel sottoscala.
Niente.
Margarita propose di perlustrare il piano superiore. Salimmo
e passando davanti alla camera di Gregorio ebbi le vertigini. Solo
due giorni prima Gregorio aveva attraversato quella porta
grondando sangue, sporcando il battiscopa del corridoio, le scale,
l’ingresso, la strada, i sedili dell’automobile, il vestito di sua
madre, le mani di suo padre.
L’idea di poter vedere anche solo una goccia del suo sangue
(chi le aveva lavate via? Chi aveva strofinato tutto con acqua e
sapone?) era insopportabile. Volevo andarmene, fuggire il prima
possibile da quella casa imbrattata di sangue, da quei genitori che
volevano cenare con me e che non erano stati capaci di evitare il
colpo che aveva sfracellato il cranio del figlio, e da Margarita che
mi osservava con il suo sorriso malinconico e che forse non sarei
mai riuscito ad amare. Volevo fuggire da Gregorio e dal suo
sangue.
«Che hai?», immaginavo che mi domandasse vedendomi
appoggiato alla parete, per poi aggiungere un commento caustico
sul mio pallore. Invece si limitò a prendermi la mano e a farmi
strada verso la camera da letto dei suoi.
«Forse ho capito dove può essere», mormorò.
Entrammo nella stanza e si diresse decisa verso l’armadio.

28
Frugò tra i ripiani, aprì vari cassetti e fece segno di no con la
testa.
«Non sta nemmeno qui, cazzo!».
Cominciò ad agitarsi. Andammo nella sua stanza. Si infilò nel
guardaroba e rovistò da cima a fondo, tirando fuori giacche,
scarpe, gonne. Aprì tutti i cassetti e li svuotò uno per uno. In casa
si rovesciò un torrente di quaderni, cosmetici e biancheria intima.
Poi si chinò per cercare sotto al letto.
«Dai, lascia stare», le dissi, «scordatela».
Si voltò a guardarmi indignata.
«Non posso. Non posso. Lo capisci o no?», mi disse, fuori di
sé dalla rabbia.
Ricominciò a scaraventare in giro altra roba. Le domandai se
sapeva qual era il contenuto della scatola.
«No», rispose.

La trovammo per caso quando, nel corso della sua impetuosa


esplorazione, Margarita ruppe una boccetta di profumo che si
rovesciò su una pila di libri accanto alla toletta. La scatola era
proprio lì in mezzo, messa in modo tale che sembrava un volume
dell’enciclopedia. Margarita s’inginocchiò e la prese con la punta
delle dita. La ispezionò, poi con un fazzoletto pulì lo schizzo di
profumo. La stanza s’impregnò di un odore pungente di rose.
«Lì non l’avrei mai trovata», disse con un mezzo sorriso.
Mi passò la scatola. Nel prenderla, una piccola scheggia di
vetro mi s’infilò nel pollice sinistro. La tolsi spingendola con
l’unghia dell’indice della stessa mano. La scheggia schizzò via e
una goccia di sangue cadde sul coperchio della scatola. Poi si
sparse sul cartone, tonda come le ciliegie disegnate sul
rivestimento. Una quarta ciliegia, più rossa, più reale.
Margarita si alzò in piedi e aprì la finestra per far cambiare
aria alla stanza. Il vento entrò agitando la tenda. Fuori pioveva.
«Ti dà fastidio l’odore?».
Annuii. Lei raccolse i libri facendo attenzione a non tagliarsi
e li sistemò sul davanzale della finestra.
«Guarda che si bagnano», le dissi.

29
Margarita allungò una mano sui libri e la tenne in quella
posizione per qualche istante.
«Non credo, la pioggia sta cadendo dall’altra parte».
Si voltò, guardò il pavimento e raccolse un fazzoletto
ricamato. Poi si avvicinò alla toletta e si chinò a raccogliere i resti
della boccetta. Prese i frammenti più grandi e li depositò sulla
stoffa. Quando cercai di aiutarla mi spinse da parte.
«Lascia stare, potresti tagliarti di nuovo».
«Anche tu».
«Sì, ma sono stata io a romperla».
Mi feci da parte. Margarita si alzò, svuotò il fazzoletto nel
cestino della carta e lo gettò di nuovo per terra.
«Domani passo l’aspirapolvere», disse.
Andò alla porta e spense la luce.
«Usciamo da qui che l’odore mi sta nauseando».
La raggiunsi e l’afferrai per le spalle. Si voltò a guardarmi. Il
corridoio era in penombra.
«Che avresti fatto se fossi stata davvero incinta?».
«Non lo so, non lo so…».
Alzò il viso e mi guardò dritto negli occhi.
«E tu?», domandò.
«Avrei preso la lavatrice e l’asciugatrice e la stufa e il forno a
microonde e il tostapane e la televisione…».
Sorrise e mi accarezzò sulla guancia.
«Oggi non ti sei fatto la barba, vero?».
Le presi la mano e la baciai.
«Mi piaci quando pungi», disse con dolcezza.
Ritrasse la mano e sospirò. Lentamente distolse lo sguardo.
«Avrei abortito», mormorò assorta. Poi si voltò e scese le
scale, scomparendo nell’oscurità.

Ci sedemmo in salotto. Tra le mie mani, la scatola sembrava


più grande e pesante di com’era in realtà. Una di quelle cose di
cui cerchiamo di disfarci il prima possibile. Margarita mi chiese
di aprirla. Lei aveva paura di farlo. Gregorio le aveva chiesto
anche in un’altra occasione di custodirgli una scatola simile.

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Margarita l’aveva messa nel bagno e dopo pochi giorni aveva
cominciato a puzzare. Quando l’aprì, ci trovò dentro i resti
putrefatti dell’intestino di un animale e una decina di forbicine
che correvano a nascondersi in mezzo alla carne.
Le viscere risultarono appartenere a un gatto dei vicini che
Gregorio aveva massacrato a colpi di pietra e seppellito in parte
sotto alcuni arbusti del giardino. Quanto alle forbicine, Gregorio
giurò che gli erano spuntate dalla bocca mentre dormiva, che
erano sangue del suo sangue e carne della sua carne e che non
aveva trovato un modo migliore per conservarle.
Con un coltello tagliai i pezzi di nastro adesivo che
sigillavano la scatola. Margarita se ne andò, spaventata. La aprii
con un certo timore. Non ci fu alcuna sorpresa: dentro c’erano
solo dei foglietti, sistemati in quattro pacchetti e legati con nastri
di seta colorati: erano lettere, annotazioni, fazzoletti di carta con
degli appunti, ricette mediche. Poi c’era una busta con alcune
fotografie. Chiamai Margarita, che si era rifugiata in cucina. Si
avvicinò con diffidenza.
«Che hai trovato?».
Tirai fuori un pacchetto e glielo mostrai.
«Questo: lettere, fotografie».
«Non voglio vederle».
Provai a insistere, ma non ci fu verso.
Mi chiese se potevo portarmele a casa e controllarle lontano
da lei.
«Se non c’è niente di brutto, me le ridai», disse. «Se no
brucia tutto».

Decidemmo di mettere la scatola nella mia macchina in modo


che i suoi non la scoprissero. Margarita immaginava che il suo
contenuto avrebbe potuto ferirli. Nessuna delle azioni di
Gregorio – sia da vivo che da morto – risultava mai inoffensiva.
Uscii in strada riparandomi con un ombrello. La pioggia
cadeva densa, compatta. Il canale di scolo era pieno d’acqua e
grandi pozzanghere inondavano la strada. Dovetti farmi dare da
Margarita due buste di plastica per avvolgermele intorno alle

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scarpe in modo da non inzupparmi i piedi.
Saltai il canale, mi sbilanciai e mentre cercavo di riprendere
l’equilibrio la scatola mi sfuggì dalle mani e cadde sull’asfalto
bagnato. La recuperai rapidamente e l’asciugai sfregandola contro
i pantaloni. La tenni stretta e, schivando varie pozzanghere,
raggiunsi la macchina che avevo parcheggiato sul marciapiede
opposto. Presi le chiavi e frettolosamente aprii lo sportello.
Gettai la scatola sul sedile posteriore. In qualche modo riuscii a
infilare dentro anche l’ombrello e a chiudere la portiera.
Mi adagiai al posto di guida. Il tettuccio dell’automobile
rimbombava dei colpi della pioggia e una cascata d’acqua
scorreva sul parabrezza. Pulii il finestrino appannato e
contemplai la casa di Gregorio. L’acqua scorreva da tutte le parti.
Acqua a non finire. Dietro quel torrente scorsi la figura indistinta
di Margarita che si affacciava alla porta. Vidi che faceva dei gesti
tentando di dirmi qualcosa. Abbassai il finestrino per cercare di
vederla meglio ma la pioggia mi costrinse a rialzarlo.
Accesi la luce interna e aprii la scatola. S’era inzuppato il
fondo, ma i fogli non si erano inumiditi. Guardai i quattro
pacchetti legati con i nastri di seta colorati. Gregorio non li aveva
consegnati a Margarita innocentemente. C’era un’intenzione, un
messaggio. Mi chiesi se valeva la pena di stare al gioco fino alla
fine. Fui tentato di strappare ogni foglietto, ogni fotografia e di
gettarli nel rigagnolo che scorreva verso la fogna. Poteva essere il
momento di farla finita con Gregorio, di lasciarlo morire davvero.
Rimisi a posto i pacchetti, chiusi la scatola e spensi la luce
interna. Afferrai l’ombrello, scesi dalla macchina e attraversai la
strada correndo. Margarita mi aprì la porta ed entrai in casa
attraversando una tenda d’acqua. Ero di nuovo zuppo e avevo
freddo.
Chiesi a Margarita cosa aveva cercato di dirmi con quei segni.
«Niente», rispose.

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I genitori di Margarita arrivarono a casa quasi alle dieci di
sera e si scusarono dicendo che il traffico era stato terribile a
causa della pioggia. Erano andati a trovare dei parenti e a saldare
il conto dell’agenzia funebre con dei soldi avuti in prestito.
Joaquín ci salutò e salì nella sua stanza dove rimase tutta la sera.
Sua madre apparecchiò ugualmente per sei. Aggiunse un coperto
a capotavola, sulla destra, dove sedeva sempre Gregorio.
Nessuno aveva cucinato per cena. La madre mi chiese scusa e
rovesciò in un piattone due polli di rosticceria e una busta di
patate fritte mezza aperta. I polli erano freddi e le patatine mosce
e insipide.
Ci sedemmo a tavola, solenni e silenziosi. Il padre disse che
era felice di avermi con loro, che mi considerava parte della
famiglia e che era bello avermi accanto in quel momento.
Mangiammo senza parlare. Io mi servii una coscia che lasciai
a metà. Confusa com’era, la madre si dimenticò di offrirmi da
bere. Malgrado la sete non me la sentii di importunarla. La
donna, assorta, faceva dei cerchi con la forchetta senza portare
alla bocca il pezzo di carne.
Alla fine della cena il padre stappò una bottiglia di vino rosso
cileno. Lo versò nei bicchieri dell’acqua, accennò un mezzo
gesto, come per invitarci a brindare, e bevve con gli occhi chiusi.
Nessuno bevve con lui.
Margarita portò il caffè. Anche se non mi è mai piaciuto,
decisi di berne una tazzina. Volevo scaldarmi e risvegliarmi un
poco. Il caffè fu la parte migliore della cena.
Quasi a mezzanotte squillò il telefono. La madre, di

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soprassalto, si alzò e andò a rispondere in cucina. Tornò con
un’espressione afflitta.
«È la mamma di Tania, dice che sua figlia è uscita stamattina
alle sette per andare a scuola e che da allora non hanno avuto più
notizie. Vuol sapere se qualcuno l’ha ​vista».
Tutti rispondemmo di no. Seguì un silenzio ancora più
profondo e inquieto. Tania era stata l’unica donna che Gregorio
aveva amato. E adesso era la donna che amavo io.
Margarita fece una battuta che ci aiutò a sciogliere la
tensione. Il padre reagì con un entusiasmo esagerato e ne
approfittò per versarsi il quinto bicchiere di vino. Poi tacque di
nuovo e ricominciò a bere con gli occhi chiusi.
Quella telefonata mi turbò. Già due anni prima Tania era
scomparsa per una settimana. Il secondo giorno fu avvisata la
polizia. All’inizio s’era pensato a un sequestro. Poi a una morte
accidentale e addirittura a un omicidio. Ricordo ancora le sere
passate vagando tra obitori, ospedali e questure.
Tania tornò come se niente fosse, sporca e dimagrita. Non
fece alcun commento sulla sua scomparsa, né con me né con i
genitori. La faccenda rimase un enigma, che lei si rifiutava di
sciogliere. Comunque dev’essersi sentita un po’ in colpa, perché
da quella volta fece sempre in modo di avvisarci, dicendoci dove
andava, con chi era, come potevamo rintracciarla. Nei momenti di
depressione se ne andava allo zoo o all’aeroporto, dove si
fermava solo tre o quattro ore.

Inquieto, chiesi di fare una telefonata. Entrai in cucina e


composi il numero di casa. Mi rispose mio fratello Luis, mezzo
addormentato.
«Che è successo?», mi domandò infastidito.
«Non mi ha cercato nessuno?».
«Non lo so… ma perché cazzo lo vuoi sapere a quest’ora?».
«Perché mi serve».
«Domani te lo dico».
«Per favore».
«Aspetta», disse con rabbia.

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Lasciò cadere a terra la cornetta e poi sentii i suoi passi che si
allontanavano. Margarita entrò in cucina e si fermò al mio fianco.
Mi prese una mano e la strinse. La tolsi quando sentii arrivare sua
madre.
Dopo qualche minuto, Luis tornò di nuovo all’apparecchio.
«Mamma dice che ti ha chiamato Tania alle cinque».
«E che altro?».
«Nient’altro».
«Non ti ha detto dov’era?».
Luis proferì un «No» chiaro e tondo e riagganciò. Sentii una
fitta alla tempia, come un cattivo presentimento.
Uscii dalla cucina deciso ad andarmene. Salutai e ringraziai
per la cena. La madre mi si avvicinò e mi strinse con un abbraccio
debolissimo, come da ubriaca. Posò la testa sul mio petto e ripeté
più volte: «Grazie per essere venuto… Grazie per essere
venuto…». Sotto la stoffa del suo vestito ne sentii il corpo
debole, le ossa sporgenti. Un corpo che si stava prosciugando.
La donna si staccò da me e mi baciò sulla guancia.
«Mi raccomando, figlio mio», mormorò, e mi diede un altro
bacio. «E speriamo che Tania stia bene».
Il padre mi salutò con una stretta di mano. Quando si accorse
che non avevo nulla con cui coprirmi, salì nello studio a prendere
un piumino. Era bello, di buon taglio, imbottito con piume d’oca.
Proprio quello di cui avevo bisogno. Feci un po’ di complimenti,
senza troppa convinzione, rifiutandomi di prenderlo, ma lui
insistette e me lo mise sulle spalle. Promisi di restituirglielo il
prima possibile.

Margarita mi accompagnò alla macchina. Aveva smesso di


piovere. Si sentiva il lieve mormorio dell’acqua che scorreva
verso le fogne. I contorni dei muri della casa svanivano nella
bruma. Aprii lo sportello dell’auto. Margarita, dietro di me,
continuava a tacere. Mi voltai per salutarla. «Ci vediamo», le
dissi e le sfiorai le labbra con un bacio. Mi girai per salire in
macchina e lei mi prese per il braccio.
«Che c’è?», le domandai.

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Mi guardò senza rispondere e fece schioccare la lingua. Mi
accorsi che era preoccupata. Con un gesto più fraterno che
sensuale la sollevai per le spalle e l’avvicinai a me.
«Dimmi che hai».
Senza smettere di guardarmi si portò la mano alla fronte e si
spostò un ciuffo che le cadeva sul viso.
«Poco fa, mentre ti cambiavi nel bagno, ha squillato il
telefono», disse. Poi fece una lunga pausa, guardò un gatto grigio
che attraversava la strada e mi rivolse di nuovo lo sguardo.
«Era Tania».
Mi staccai da lei e l’allontanai.
«Perché non me l’hai detto?».
Lei guardò di nuovo il gatto, che adesso s’era rannicchiato
sotto un albero. Gli soffiò per farlo spaventare. Il gatto uscì dal
suo nascondiglio e ci esaminò con attenzione. Fece qualche
passo trottando e con due salti scavalcò una siepe e scomparve.
«Perché non me l’hai detto?», ripetei.
Margarita, continuando a fissare il punto dov’era scomparso
il gatto, alzò le spalle.
«Non lo so».
Il suo atteggiamento cominciava a irritarmi. Mi piazzai di
fronte a lei. Margarita cambiò posizione e si mise a osservare
l’acqua che scorreva verso le fogne.
«A che gioco stai giocando?», le dissi con rimprovero.
«A nessuno», rispose lei a brutto muso.
Mi era difficile capire perché fosse così sfuggente. Non lo
faceva per gelosia, di questo ero certo. Se qualcuno mi aveva
aiutato a nascondere e a portare avanti la mia relazione con Tania,
era stata proprio lei.
«Allora?», la incalzai.
Rimase pensierosa, senza rispondere. Stanco del suo mutismo
mi lasciai cadere sul sedile e accesi il motore senza chiudere lo
sportello.
«Ti giuro che non lo capisco proprio, questo gioco».
Margarita si chinò finché il suo viso fu alla stessa altezza del
mio.

36
«Non sono io che gioco, Manuel. È Tania».
Spensi il motore.
«A che ti riferisci?».
«È stata lei a chiedermi di non dirti niente».
«Perché?».
«Posso solo dirti che sta bene, quindi vai tranquillo».
Poi si voltò e s’incamminò verso casa. Scesi rapidamente
dalla macchina e la raggiunsi.
«Margarita, ma che hai?».
Sembrava preoccupata per qualcosa. Alzò le mani come per
cercare di spiegarsi meglio e rimase di nuovo senza parole.
«Niente, non ho niente», mormorò.
«Perché fai così?».
Cominciava ad alzarsi un po’ di vento. Margarita si strin​se
nelle braccia per proteggersi dal freddo.
«L’aria è gelata», sussurrò.
Girò la testa per capire la direzione del vento e i capelli le
andarono sul viso. Li scostò con un gesto brusco.
«Ti posso fare una domanda?», disse all’improvviso.
Annuii.
«Hai detto qualcosa a Tania di noi due?».
La domanda mi stupì. Il patto era stato chiaro: non rivelare
mai la nostra relazione.
«No. E a lei meno che mai. Perché?».
«Niente, così», rispose, quando era chiaro che voleva dire
qualcos’altro.
Fece un respiro profondo e il fiato, uscendole dalla bocca,
formò una piccola nube.
«Meglio che vada», disse contrariata, «che mi sto gelando».
Mi diede un bacio e precipitosamente se ne andò.
Misi in moto e lasciai che si scaldasse il motore. Mi sentivo
confuso e angosciato. Diedi gas e quando stavo per andarmene
Margarita bussò sul finestrino.
«Che è successo?», le domandai mentre abbassavo il vetro.
Margarita poggiò le mani sullo sportello, si chinò e mi guardò
dritto negli occhi.

37
«Tania mi ha detto che andava all’803», disse sottovoce.
Ci guardammo l’un l’altra per qualche istante. Bruscamente
Margarita tolse le mani dallo sportello e si avviò decisa, senza più
voltarsi.

38
Cercai di guidare senza farmi vincere dal sonno. Era l’una
passata e avevo dormito male per due notti di seguito. Volevo
solo chiudere gli occhi e non riaprirli per almeno due settimane,
un mese, un anno. Volevo solo dimenticare chi ero e perché stavo
guidando una macchina lungo le strade di una città allagata dalla
pioggia in cerca della donna che amavo.
Margarita non poteva sapere cosa significava 803. Non era
una chiave, ma il numero concreto di un posto concreto: una
stanza in un motel di passaggio. L’803 era il nostro posto, e con
nostro non intendo solo mio e di Tania, ma anche – purtroppo –
di Gregorio Valdés.
Entrai nel motel e mi fermai davanti alla reception. Solo due
posti auto erano occupati. Il numero 803 era vuoto.
Le stanze avevano due porte, una che dava sul garage e l’altra
sul patio. Suonai più volte a quella del patio, ma nessuno mi aprì.
Un dipendente, un ragazzo alto e piazzato, con i capelli ricci, che
non conoscevo, mi domandò cosa volevo.
«Entrare», gli risposi.
«È occupata», disse con tono neutro.
«Lo so».
Un altro uomo, moro e tracagnotto, anche lui mai visto, si
aggiunse al primo.
«Giovane, non si disturbano i clienti», disse arrabbiato.
«Non voglio disturbare nessuno, voglio solo entrare».
«Non si può».
«Perché almeno non mi presta la chiave?».

39
Il moro prese le mie parole come una provocazione e,
puntandomi un dito contro, ordinò:
«Sparisci, figlio di puttana. Subito. Sono stato chiaro?».
Aprì la giacca e sulla sua cintura vidi brillare il manico di un
revolver. In un altro momento, quella sarebbe stata la scusa
perfetta per fare a botte: ma quella sera era l’ultima cosa che
cercavo. Ero troppo stanco.
«A che ora ha staccato Pancho?», domandai.
La mia domanda sconcertò entrambi.
«Lo conosce?», domandò il ragazzo.
«Sì, e conosco anche il signor Camariña».
Appena sentì il nome del padrone del motel, l’uomo con la
pistola cambiò subito atteggiamento e si riabbottonò la giacca.
«Sono quello che paga la stanza», spiegai, anche se in realtà
chi pagava era Tania.
Entrambi si giustificarono dicendo che erano stati assunti da
poco.
Gli domandai di Tania e mi dissero che era uscita da circa
un’ora e mezza.
«La ragazza se n’è andata senza dirci niente», disse il moro.
Allora si alzò la serranda di uno dei garage. Comparve un
uomo magro, con l’aria da impiegato. Ci guardò con diffidenza e
salì su uno sgangherato Dodge Dart. La donna che era con lui si
chinò sul sedile per non farsi riconoscere. L’auto venne avanti e i
due scagnozzi distolsero subito lo sguardo, mentre io vidi
chiaramente la coppia, dimenticando che la regola fondamentale
di ogni motel è non guardare mai gli altri in faccia.

Il ragazzo arrivò con la chiave, la fece girare nella serratura e


spinse la porta.
«Se ha bisogno di qualsiasi cosa, capo, basta che ci avvisa»,
disse facendomi l’occhietto.
Entrai e accesi la luce. Davanti a me c’era la solita camera,
con il letto, la scrivania, la lampada, lo specchio, il quadro e la
toletta di sempre. Tania era stata nella stanza. La coperta era
stropicciata e i cuscini erano uno sopra l’altro. Un libro – Musica

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per cortigiane di Eusebio Ruvalcaba – era rimasto aperto sulla
scrivania.
Mi sedetti sul letto. Sulla coperta si intuiva vagamente il
profilo del suo corpo. La palpai con le dita in cerca del suo
calore, ma il tessuto s’era già raffreddato. Respirai tra i cuscini e
percepii appena il suo odore. Presi il libro. Sulla pagina che era
rimasta aperta, Tania aveva evidenziato con il pennarello azzurro
una frase: «Prima che esseri umani, siamo animali»; al margine
aveva appuntato con la sua grafia diseguale: «E molto prima
siamo demoni».

Uscii dalla stanza e andai alla reception. Il motel era vuoto.


Ero l’unico cliente e malgrado ciò l’insegna al neon del Motel
Villalba continuava a splendere sopra alle stanze. Si poteva
distinguere con chiarezza il ronzio elettrico, come una cicala
notturna.
Il ragazzo con i capelli ricci, stravaccato in poltrona, chinava
la testa per il sonno. Quando mi sentì entrare aprì gli occhi, mi
guardò ancora intontito e si alzò di scatto.
«Scusi, capo, ma ho avuto un colpo di sonno», disse.
Gli chiesi di fare una telefonata. Volevo sapere se Tania era
già arrivata a casa sua. Chiamai e mi rispose la madre, allarmata.
Immaginai che Tania non fosse ancora rientrata e riagganciai.
Chiesi al ragazzo se c’era qualche pizzeria nei paraggi che faceva
servizio a domicilio. Mi rispose che ce n’erano molte, ma
chiudevano tutte alle undici di sera. In un angolo trovai una
confezione di Coca-Cola formato famiglia. Gli chiesi se poteva
vendermi una bottiglia.
«No», rispose, «a lei no. È un cliente».
Ne stappò una e raccolse il tappo che era caduto in terra.
«A volte c’è il premio», spiegò mentre la ispezionava.
Mi offrì la bibita e rifiutò di prendere la mancia.

Andai in macchina a prendere la scatola di Gregorio. Potevo


esaminarla mentre aspettavo che Tania tornasse, sempre ammesso
che tornasse. Poggiai la Coca-Cola sul tettuccio del Topaz e

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cercai le chiavi nella tasca dei pantaloni. Mentre le cercavo,
osservai la scatola illuminata dall’azzurro del neon e la vidi
muoversi con chiarezza di qualche centimetro. Sconcertato, mi
allontanai dall’auto. Deglutii. Con apprensione mi avvicinai e mi
affacciai dal finestrino. La scatola era ancora al suo posto e
scoppiai a ridere come uno scemo appoggiato al cofano.
Smisi di fissare la scatola e, ancora un po’ spaventato, tornai
in camera. Lungo la strada mi imbattei nel moro, che faceva la
ronda davanti all’edificio. Gli chiesi di mostrarmi il revolver. Se
lo tolse dalla cintura e prima di darmelo estrasse i sei proiettili.
«Scusa, biondo», disse fingendosi prudente, «ma non si sa
mai».
Mi consegnò l’arma. Era una bella pistola, una Smith &
Wesson calibro ventidue, lustra di nerofumo. Gli offrii di
comprargliela.
«Ma che dice… Il padrone mi ammazza».
«Facciamo mille. Che gliene pare? Le prometto che glieli
porto domani».
L’offerta lo tentò.
«E che gli dico al padrone?».
«Che gliel’hanno rubata dal pulmino».
«No, quello me la chiede tutte le mattine appena arriva e poi
la chiude dentro a chiave».
«Be’, ci pensi su».
«D’accordo».
Lui tornò alla sua ronda e io mi misi a pensare a come
prendergli la pistola.

Entrai in camera e mi tolsi il piumino. Bevvi la bibita e lasciai


la bottiglia vuota sul tappeto. Mi osservai allo specchio. Una
vena sottile mi pulsava sulla tempia destra. Avevo gli occhi gonfi
intorno alle palpebre. I capelli arruffati, in disordine. La barba
incolta. E l’ombra del bufalo azzurro dentro di me, che
ricominciava a minacciarmi.
Mi sdraiai sul letto. Proprio su quel letto – la sera di un
ventidue febbraio – Tania e io avevamo fatto l’amore per la prima

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volta. L’avevamo fatto malamente, storditi dalla colpa e
dall’inesperienza. Lei era vergine e io, fatta eccezione per due
sveltine, praticamente pure.
Ci aggrovigliammo togliendoci i vestiti. I capelli le si
impigliarono nella fibbia della mia cinta, la giacca le si strap​pò e
due bottoni della mia camicia si scucirono. Volevamo andare in
fretta e lentamente allo stesso tempo. Non sapevamo come
metterci e ci ritrovammo uno sull’altra, come due tartarughe che
si accoppiano.
Provammo varie posizioni. Tania si lamentava in tutte. «Mi
fai male», ripeteva. Dopo vari tentativi riuscii a penetrarla. Lei
fece un piccolo gemito e mi guardò in un modo diverso da come
mi aveva sempre guardato.
«Sei dentro», mormorò, «molto dentro», e mi baciò sulla
bocca. Dopo averlo fatto restammo a lungo abbracciati, senza
muoverci. Sentivo la sua pelle umida sotto le lenzuola, il suo
seno che si schiacciava contro il mio petto, i suoi capelli che mi
sfioravano il viso. Mi sorprendeva stare con lei in quel modo:
nella sua totale nudità. Non ero mai stato accanto a una donna
completamente nuda. Le mie due uniche esperienze sessuali
erano state con delle ragazze alcolizzate, mezzo vestito, per dei
coiti maldestri durati meno di tre minuti. La prima sul cofano di
un pick-up, sotto gli occhi dei miei amici, che si godevano lo
spettacolo spiandoci da una finestra; la seconda nel corridoio di
una casa diroccata e abbandonata, accanto al salone delle feste
dove si celebrava il diploma di mia cugina Pilar.

Tania e io continuammo ad accarezzarci finché non ci


addormentammo. Ogni tanto mi svegliavo nel cuore del sonno per
guardarla e poi mi riaddormentavo abbracciato alla sua schiena
nuda.
Ci risvegliammo dopo un’ora.
«Russi», le dissi.
Lei si limitò a schioccare la lingua.
«Pianino», aggiunsi, «russi pianino. Come una ninnananna».
Con gli occhi socchiusi mi sorrise e mi baciò sulla guan​cia.

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Ancora insonnolita, si alzò e si sedette sul bordo del letto. Prese
la borsa e si mise a frugare finché non trovò un pacchetto di
caramelle. Ne scartò due, una verde e una rossa, le nascose nelle
mani e chiuse i pugni.
«Quale vuoi?», domandò.
Scelsi la mano destra e lei mi mostrò la caramella rossa.
«Ti è toccata quella alla fragola». Me la mise sulla lingua e
mentre lo faceva le leccai la punta delle dita. Lei si portò alla
bocca quella verde e l’assaporò, per poi baciarmi.
Tra saliva e saliva ci passammo le caramelle. Lei si staccò, si
concentrò di nuovo e risucchiò le guance, come se stesse
assaporando un vino.
«Mi sono sbagliata», disse sorridendo, «mi sa che ti è toccata
quella al limone».
Si voltò di spalle. Chiuse la borsa e la mise sulla scrivania. La
peluria dorata sulla sua schiena brillò alla luce della sera.
Allungai la mano e le accarezzai la nuca. Girò la testa e mi strinse
le dita con il collo.
«Che facciamo?», domandò.
Mi sedetti dietro di lei e le cinsi la vita. In lontananza, da una
radio, si sentiva una canzone famosa.
«Non lo so», risposi.
«Come mi piacerebbe se questa sera non finisse mai»,
mormorò malinconica.
Il giorno dopo tornammo alle cose di sempre: lei, ad essere la
ragazza di Gregorio; io, il suo migliore amico.
Tania si alzò in piedi e senza pudore si mise a camminare
nuda in mezzo alla stanza. Si fermò e incrociò le braccia, come
chi sta aspettando un taxi.
«Non vieni?», domandò.
«Dove?».
«A farti un bagno con me», rispose con fare sicuro.
Le sue parole mi sconcertarono. L’aveva detto come se fra noi
ci fosse un accordo o un’abitudine che conoscevamo da tempo.
Sembrò intuire il mio turbamento.
«È così che fanno nei film, no?», disse.

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Allungò una mano per aiutarmi ad alzarmi. Mi tirò e nel farlo
le coperte scivolarono a terra. Sul lenzuolo che copriva il
materasso comparvero due tenui strisce di sangue. Tania si
avvicinò e le esaminò incuriosita.
«Mi avevano detto che la prima volta faceva molto male, ma
invece non è così drammatico», disse.
«Di che parli?», domandai facendo il finto tonto.
«Non lo sai?».
Tania mi aveva ripetuto molte volte che era vergine. Io non
volevo crederle: Gregorio era troppo un animale per non averlo
già fatto. Ma in fondo m’importava poco se era vero o no.
«Te l’ho già detto che non me ne frega niente», le dissi.
«A te. Ma a me sì», sentenziò.
Mi cinse il collo con le braccia e camminando di spalle mi
condusse al bagno.

Dentro la doccia facemmo l’amore un’altra volta, sdraiati


sulle mattonelle, con l’acqua calda che ci scendeva sulle spalle,
senza preoccuparci di usare il preservativo, senza paura di
imbarazzarci, senza temere noi stessi né quello che sarebbe
successo dopo.
Accarezzai il suo corpo, centimetro per centimetro. Cer​cai di
impregnarmi di lei, quella sera, di sfiorarla con tutte le dita, per
paura che ciò che stava accadendo non dovesse ripetersi mai più.
Scese la notte. Decidemmo che lei sarebbe uscita dal motel
per prima. Io non sarei uscito dal bagno finché la macchina non
fosse partita. In questo modo – pensammo – sentiremo di meno il
rimorso. Erano sei mesi che ci vedevamo di nascosto. Ci
incontravamo all’uscita della scuola (Gregorio l’avevano già
espulso durante gli scrutini e questo ci facilitava le cose) e
fuggivamo con la sua macchina verso qualche frazione sperduta a
sud della città, dove ci sono ancora lotti incolti e case in
costruzione. Lì ci baciavamo ininterrottamente per mezz’ora, per
poi tornare subito a casa.
Le fughe divennero sempre più frequenti finché non
concludemmo che fare l’amore fosse inevitabile, come quel

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ventidue febbraio confermò.
Tania uscì dalla doccia, si avvolse nell’accappatoio e uscì
senza dire una parola. Addolorato, rimasi sotto il getto d’acqua,
aspettando che se ne andasse, immaginandomela nuda nella
stanza, serenamente nuda.
Aprii la finestrella sopra il portasapone per far uscire il
vapore. Il cielo s’intravedeva chiaro, con nubi rade, estatiche.
Alla radio, dopo una canzoncina sdolcinata e scema, lo speaker
annunciò ingolato l’ora esatta: le venti e sette minuti. Alla
canzone successiva sentii la macchina di Tania che avanzava
lungo il parcheggio.
Chiusi i rubinetti della doccia e ancora bagnato entrai nella
stanza. Mi guardai intorno: c’era tutto, tranne lei: l’accappatoio
con cui s’era asciugata, gettato sulla scrivania; le impronte dei
suoi piedi umidi, che scomparivano sul tappeto; una spazzola per
capelli dimenticata vicino allo specchio; il letto sfatto su cui
qualche ora prima avevamo fatto l’amore.
Mi sedetti sul materasso. Sul lenzuolo, accanto alle macchie
di sangue, Tania aveva scritto con la penna nera: «Ti amo più di
quanto credi».
Strappai il lenzuolo aiutandomi con i denti e presi il pezzo di
stoffa con il suo sangue.

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Alle tre di mattina decisi di lasciare l’803. Ero sfinito e
volevo andarmene a dormire a casa. Era evidente che Tania non
sarebbe tornata al motel, anzi probabilmente era già rientrata a
casa sua.
Mi misi il giubbotto, scrissi su un foglietto «Tania, se vieni
per favore non andartene» e lasciai l’appunto vicino al libro. Si
sentì un tuono e il vetro della finestra vibrò. Mi affacciai: i
fulmini scintillavano tra le nubi scure.
Aprii la porta della camera. Il moro correva verso l’edificio
avvolto in un impermeabile grigio. Da lontano mi fece un segnale
con la torcia e si avvicinò a passi lenti.
«Che succede? Già se ne va?».
«Sì».
L’uomo alzò gli occhi e scrutò il firmamento.
«Col diluvio che sta arrivando, facevo meglio a restarmene in
camera».
«Devo andare, capo».
Si grattò la testa con la mano che teneva la torcia.
«E se viene la ragazza, che le dico?».
«Non le dica niente».
Un’automobile comparve all’ingresso. Il moro indicò la strada
con la torcia e la guidò verso la stanza 810.
Il motel, in realtà, aveva solo tredici camere. L’otto anteposto
alla numerazione era una mera stravaganza del proprietario.
Raggiunsi la macchina proprio quando cominciò a scendere

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la pioggia. Accesi i fari. Grazie al fascio di luce riuscii a vedere il
moro che spillava a un ciccione i novanta pesos della tariffa.
Mi ritrovai a guidare in mezzo a una tempesta che allagò varie
zone della città lasciandole al buio. Anche quando attivavo i
tergicristalli al massimo, la visibilità era nulla. In certi tratti
l’acqua arrivava all’altezza dei marciapiedi ed era impossibile
avanzare.
A pochi isolati da casa, un’ambulanza, con la sirena accesa,
mi superò e si fermò accanto a un Volkswagen che si era
cappottato restando con le ruote per aria. Rallentai, aprii il
finestrino e passai lentamente vicino al luogo dell’incidente.
Alcuni curiosi, nonostante il freddo e la pioggia, circondavano un
cadavere coperto da un cappotto e una ragazza che, con il viso
insanguinato, fissava assorta il corpo riverso in terra, senza che
nessuno, neanche gli infermieri, le prestasse attenzione.
Mi fermai e chiesi a un uomo se potevo dare una mano. Mi
guardò con ostilità e fece segno di no con la testa. Insistetti, ma
già non mi guardava più.
Schivai i vetri rotti disseminati sull’asfalto e mi avviai lungo
la strada oscura illuminata sporadicamente dalla luce rossa
dell’ambulanza.

Non appena entrai in garage con la macchina, mi sentii


sollevato. La pioggia, la strada e la notte restavano fuori. Presi la
scatola di Gregorio e mi avviai verso la cucina. Mangiai due
banane, un grappolo d’uva, una manciata di cioccolatini e bevvi
pure un intero litro di latte.
Salii la scala due gradini alla volta. Mio padre mi aspettava
davanti alla mia stanza.
«Tutto bene?», domandò.
Annuii. Mi diede un colpetto sulla spalla, con affetto.
«Buonanotte, e riposati».
Lo osservai mentre attraversava il corridoio. Non era possibile
che quell’uomo un po’ curvo, con le gambe magre e la calvizie
incipiente, fosse un traditore – come Gregorio aveva sempre
sostenuto. Non lo era mai stato. Non mi aveva mai tradito,

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neppure nei momenti più difficili, in quei giorni. Si fermò a metà
corridoio e si voltò verso di me.
«È tardi, vai a dormire», mi ordinò, con lo stesso tono
indulgente che usava per mandarmi a letto quand’ero bambino.
«Sì, ora vado», risposi.
Mi salutò alzando la mano e proseguì verso la sua stanza. No,
non era un traditore.
Lasciai la scatola su una sedia, ma mentre mi toglievo le
scarpe continuava ad attirare la mia attenzione, per cui decisi che
era meglio riporla in un cassetto.
Mi spogliai e mi misi un pigiama azzurro di flanella. Era un
pigiama logoro e rattoppato che era appartenuto a mio padre. Me
l’ero preso quando aveva deciso di buttarlo. Non volevo che
finisse nel secchio della spazzatura o che lo usassero come uno
straccio per pulire le finestre. Era un oggetto troppo legato a lui.
M’infilai tra le lenzuola. Le avevo cambiate da poco ed erano
ancora dure per il detersivo. Mi piacevano così. Avevo chiesto a
mia madre di non aggiungere l’ammorbidente dopo averle lavate.
Nemmeno agli asciugamani, alle camicie o alla biancheria intima.
Mi piaceva sentire le fibre che raschiavano un poco sulla pelle,
soprattutto quando mi mettevo a letto e facevo scivolare i piedi
tra le lenzuola. Mi rilassava.
Quella notte, comunque, non dormii tranquillo. Mi risvegliai
più volte con la sensazione che un animale grande e collerico mi
respirasse accanto. Ne sentivo i rantoli, il caldo delle esalazioni,
allora mi alzavo a sedere e aprivo gli occhi. I respiri si
spegnevano nel buio. Non c’era nessuno nella stanza.
Quell’animale respirava dentro di me. Sapevo che era solo un
brutto sogno insinuato dalla follia di Gregorio, una banale
allucinazione – o almeno così volevo credere.
Alcuni anni prima, Gregorio mi aveva chiamato alle cinque di
mattina dall’ospedale psichiatrico. Era il periodo in cui ancora
non lo mettevano in isolamento. Con voce grave mi chiese
urgentemente di andarlo a trovare.
Elusi la sorveglianza e raggiunsi la sua stanza. Lo trovai in

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piedi vicino al letto, che guardava l’alba dalla finestra. Lo salutai
senza alcuna cautela. Gregorio non rispose al saluto e senza
voltarsi a guardarmi cominciò a parlare, sottolineando ogni
parola.
«Il bufalo della notte ci sogna», disse.
I bufali e il tono criptico erano la sua ultima ossessione. Lo
presi in giro:
«Si chiamano bisonti, non bufali».
E risi. Il suo atteggiamento era troppo serio e affettato, specie
con quella ridicola vestaglia azzurra.
«Mi prendi per il culo?», domandò guardandomi di sbieco.
«No», risposi e scoppiai a ridere un’altra volta.
Lui si voltò e con un movimento brusco mi prese per il
colletto della camicia. Mi guardò negli occhi e io smisi di ridere.
Per la prima volta il suo sguardo mi spaventò.
«Il bufalo della notte ti sognerà», disse. «Ti trotterà accanto,
ne sentirai i passi e il respiro. Ne annuserai il sudore e ti verrà
così vicino che quasi riuscirai a toccarlo. E quando deciderà di
attaccarti, ti sveglierai nella prateria della morte. E allora
smetterai di sfottere, figlio di puttana».
Non sembrava un avvertimento gratuito.
«E allora?», domandai sornione.
Mi tirò ancora più vicino a sé.
«Il bufalo della notte ora è dentro di me, sono cinquanta,
cento settimane che mi sogna e non riesco a farlo uscire, Manuel,
non ci riesco».
«Sono solo incubi».
«No», rispose categorico, «il bufalo è l’inizio della mia fine».
Allentò la presa senza lasciarmi. Restammo in silenzio per
qualche istante, continuando a guardarci negli occhi.
Un’infermiera entrò con delle medicine e vedendomi esclamò
irritata che l’ora delle visite non cominciava prima delle nove.
«Era questo che dovevi dirmi? O c’è qualcos’altro?»,
domandai a Gregorio.
«No, nient’altro».
L’infermiera insisteva:

50
«Le ho già spiegato, giovanotto, che…».
Le passai accanto senza neanche guardarla, e si azzittì. Mi
diressi verso la porta. Prima che varcassi la soglia, Gregorio mi
chiamò:
«Manuel…».
Mi voltai a guardarlo.
«Ora ti ho avvertito».
Anche se per molti mesi continuai a temere la minaccia di
Gregorio, con il passare del tempo mi convinsi che il bufalo della
notte era solo uno dei suoi mille deliri. Non sognai il bufalo, né –
ammettendo che sia possibile – fui sognato da lui.
Ma in quella notte insonne ebbi la certezza che un animale
enorme mi stava respirando dentro. Che diavolo poteva aver
causato quei rantoli di rabbia, se non lui?
Accesi le luci e controllai ogni spiraglio e finestra per
escludere eventuali correnti d’aria. Angosciato, presi a girare per
la stanza. Alla fine riuscii a calmarmi. La stessa cosa mi
succedeva quando sognavo le forbicine. Me le sentivo correre
lungo le vene, sentivo che mi rosicchiavano la carne: e, quando
mi svegliavo, svanivano. Non c’era niente. Niente. Perché
preoccuparsi di un animale ansante? No, non c’era nessun bufalo.
Né ci sarebbe stato. Neanche Gregorio ci sarebbe stato più. Era
morto, polverizzato, ridotto in fumo azzurro e ceneri, e si stava
putrefacendo chissà dove dentro a una nicchia.
Avevo avuto un incubo, e nient’altro.

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Alle otto di mattina entrò in camera mio fratello Luis. Mi
scosse varie volte.
«Svegliati, svegliati…».
La sua voce mi sembrò qualcosa di lontano e incerto.
«Che è successo?», riuscii ad articolare con enorme fatica.
«Ti vogliono al telefono».
«Chi?».
Posò il ricevitore accanto al cuscino e uscì. Era la madre di
Tania. Singhiozzando mi spiegò che la figlia non era ancora
tornata a casa e che temeva un’altra sparizione prolungata.
Promisi che l’avrei aiutata a cercarla.
Cercai di dormire un po’ ma non mi riuscì. L’assenza di Tania
me lo impediva. L’amavo – molto, moltissimo – ma mi era
difficile comprenderla. Decisi di tornare al​l’803. Non mi venne in
mente nessun altro posto dove potessi trovarla.
Feci la doccia con gli occhi chiusi, appoggiato alla parete,
stordito dalla mancanza di sonno e dalla fatica. Non avendo
nessuna voglia di scegliere altri vestiti, mi rimisi quelli del giorno
prima. Presi tutti i soldi che trovai in giro. Quella mattina non
disponevo della macchina e pensai di chiamare un taxi. Non ero
in condizioni di girare per la città sui mezzi pubblici.
Arrivai al motel alle nove e mezza in punto. Il cielo s’era un
po’ aperto e un pallido sole si intuiva dietro le nuvole. Il signor
Camariña era già al lavoro nel suo ufficio. Vedendomi passare mi
salutò con un cenno della testa. In una delle rimesse, Pancho
stava passando lo straccio per terra. Mi riconobbe da lontano e si
avvicinò.

52
«Ehilà, Manuel».
«Ciao».
«Ti apro o hai le chiavi?».
«Aprimi».
A partire da quel ventidue febbraio, Tania e io cominciammo
a frequentare sempre più spesso il motel. Tre, quattro, a volte
addirittura cinque volte alla settimana. Sem​pre con la macchina
di Tania e sempre a sue spese, perché era lei che aveva i soldi. Se
quando arrivavamo al motel trovavamo l’803 occupata, tornavamo
indietro: nell’803 avevamo fatto l’amore per la prima volta e non
intendevamo farlo in nessun’altra stanza.
Una sera il signor Camariña ci intercettò. Disse che ci aveva
visto più volte da quelle parti e sottolineò la nostra predilezione
per l’803. Restammo sconcertati: ci immaginavamo come due
clienti clandestini, quasi invisibili. Camariña ci propose un
baratto: in cambio dei novanta pesos giornalieri, ci offriva l’803,
esclusivamente per noi e tutte le volte che volevamo andarci, per
un affitto di duemila pesos al mese. Era Tania che doveva
decidere: io non avrei mai potuto sborsare una cifra simile.
Accettò. Da allora prendemmo possesso della stanza, che divenne
il nostro posto, non solo per andare a letto insieme, ma anche per
studiare, per riposare o semplicemente per isolarci dagli altri.
Pancho girò la chiave nella toppa e spinse la porta.
«Tania non è venuta?», domandai.
«No, non l’ho vista. Almeno da quando sono arrivato».
Il moro e il ragazzo con i capelli ricci non si vedevano da
nessuna parte.
«Se ne sono già andati quelli dell’altro turno?».
«Quelli nuovi? Hanno staccato alle sette».
«Non ti hanno lasciato nessun messaggio per me?».
«No».
La stanza era rimasta nel disordine in cui l’avevo lasciata.
Ancora non avevano rifatto il letto e pulito il bagno. Una fila di
formiche correva lungo il bordo della parete e si raccoglieva
intorno alla Coca-Cola abbandonata sul tappeto. Erano formiche
piccole, che annerivano tutto il collo della bottiglia. Da bambino

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ci giocavo a fare Dio. Ne ammazzavo qualcuna a caso, per poi
decidere quali sarebbero sopravvissute. Alla fine permettevo ad
alcune di loro, la minoranza, di allontanarsi senza che il mio dito
le schiacciasse. In quel disegno, pensavo, si radicava la mia
condizione divina.
Presi la bottiglia, la posai fuori dalla stanza accanto ai vasi e
le lasciai vivere tutte.
Mi sdraiai sul letto. Dove poteva essere Tania? Non riuscivo a
immaginarlo e, arrivato a quel punto, prendere in considerazione
lo zoo o l’aeroporto era ridicolo. Non mi re​stava che aspettare
che tornasse con il suo stile repentino e misterioso.
Mi spogliai – farlo nell’803 era un po’ come stare con lei –
misi le mani dietro la nuca e mi addormentai. Mi addormentai
davvero, senza animali che respiravano, senza forbicine, senza
telefonate.
Quando mi svegliai non sapevo che ora fosse. Immaginai che
fosse tardi, perché i raggi del sole filtravano dalla persiana destra.
Dovevo aver avuto freddo, nel sonno, perché mi risvegliai avvolto
nella coperta.
Una donna – probabilmente una cameriera – attraversò il
corridoio canticchiando una canzone che non conoscevo. Era una
melodia dal sapore antico, dolce, estranea al quadrilatero, un po’
sordido, delle camere del nostro motel.
M’infilai la maglietta e i pantaloni e m’incamminai a piedi
nudi verso l’uscita dell’edificio. C’era vento e nel cielo le nubi si
agglomeravano rapide. Trovai Pancho all’ingresso dell’807. Stava
legando un fagotto di lenzuola e asciugamani sporchi. Lo chiamai
con un fischio.
«Vuoi che ti rifacciano la stanza?», mi domandò mentre si
avvicinava.
«No, voglio che mi fai un favore».
«Devi solo chiedere».
«Potresti andare alla reception e ordinarmi al telefono una
pizza grande al prosciutto e tre bottiglie?».
«Sono meglio le focacce di Don Polo, dopo la curva»,

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suggerì.
«No», risposi, «è da ieri sera che ho voglia di pizza».
Scosse la testa disapprovando la mia scelta. Gli allungai un
biglietto da cento pesos perché pagasse e mi chiusi in camera.
Non intendevo uscire per il resto della serata, né andare in cerca
di Tania, né chiamarla al telefono o preoccuparmi per lei, per le
successive due ore almeno.
Mi spogliai di nuovo e cominciai a sfogliare il libro di
Ruvalcaba. Tania aveva sottolineato alcune frasi con un criterio
che mi sembrò arbitrario. Non c’era alcun nesso fra l’una e
l’altra. In particolare mi colpì il fatto che a pagina ottantasei
aveva evidenziato con il pennarello rosso il seguente passaggio:
«Gli impiegati all’uscita dall’ufficio compravano il pane da
portare a casa». E che in cima alla pagina aveva annotato con vari
punti esclamativi: «Attenzione!».
Che diavolo significavano quelle frasi per lei? Che
c’entravano con lei gli impiegati e il loro grigiore? Intuii che quel
passaggio conteneva la chiave della sua scomparsa. E mi tornò la
gelosia, l’oscena gelosia di un tempo.
La gelosia: tale era la frequenza con cui andavo al motel, da
solo o con Tania, che ero diventato un volto familiare per tutti
quelli che ci lavoravano. Pancho era il più giovane, un ragazzo
della mia età. Attaccava presto e se ne andava la sera. Faceva di
tutto: puliva le stanze, riscuoteva il denaro dai clienti, lavava la
biancheria, contava gli asciugamani (doveva entrare nelle stanze
appena se ne andavano i clienti per assicurarsi che non li avessero
rubati) e dava una mano in amministrazione. Era sollecito e
operoso, e mi aveva preso in simpatia più degli altri.
All’inizio ci salutavamo con modi tiepidi e formali. Lui mi
guardava con la coda dell’occhio, come prevedono le regole dei
motel. Cambiò un po’ atteggiamento quando mi presentai e gli
chiesi come si chiamava. Anche se il rapporto divenne più
affabile, lui continuò ad essere molto prudente: nei motel di
passaggio uno non sa mai come regolarsi con i clienti.
Con il passare del tempo nacque tra noi un’amicizia rapida e
concisa. Scambiavamo due chiacchiere in quei cinque o dieci

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minuti di pausa che aveva ogni quattro ore di lavoro.
Una sera, rientrando in stanza da solo, notai che era più
riservato del solito. Mi sfuggiva e sembrava ostile. Si comportò
così per molti giorni. Alle mie domande sul suo comportamento
rispondeva con dei laconici: «Non ho niente». Finché una sera
non si decise a rivelarmi che cosa aveva.
«Ti posso dire una cosa, Manuel, però mi giuri che non la
racconterai a nessuno?», domandò diffidente.
«Certo».
«Giuramelo veramente, perché se succede qualcosa e
scoprono che ho aperto bocca mi ammazzano».
«Te lo giuro».
Pancho fece un respiro profondo.
«Ecco…», disse e troncò la frase.
Respirò di nuovo.
«No, non dovrei dirtelo».
«E dai, non essere noioso».
Scosse la testa. Gli feci un gesto d’incoraggiamento.
Mi guardò negli occhi, deglutì, vinse la sua resistenza e
inaspettatamente disse:
«E va bene: la tua ragazza è venuta due volte la settimana
scorsa con lo stesso tipo con cui veniva prima».
«Prima quando?».
«Prima di venirci con te».
Rimasi sbigottito, incredulo. Pancho proseguì: erano venuti
al motel otto o dieci volte e avevano preso sempre l’803. La
descrizione dell’accompagnatore di Tania corrispondeva in tutto e
per tutto a quella di Gregorio.
La rivelazione mi prostrò. Di colpo la mia relazione con Tania
assunse un aspetto fraudolento. In che consisteva il suo doppio
gioco? Cosa aveva in mente? Perché ci teneva tanto a farmi
credere a quello stupido mito della sua verginità?
Uscii dal motel furibondo. «Era per questo che pagava la
stanza», imprecavo, «quella stronza figlia di puttana».

Vagai per la città ore e ore, in una traversata caotica, furiosa.

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Che andava cercando, la troia?
Il giorno dopo la aggredii urlando, pochi minuti prima di
entrare a scuola. All’inizio si limitò ad ascoltare. Poi cercò
timidamente di difendersi, ma ogni volta che cercava di spiegare
le sue ragioni io la zittivo a forza di insulti.
Tania andò su tutte le furie e chiuse la discussione quando
tagliente e superba disse che in fin dei conti Gregorio era il suo
ragazzo, che con me non aveva preso nessun impegno e che
faceva quello che le pareva e basta. Finimmo (la nostra storia? la
nostra tresca? la nostra corrida?) tra spinte e parolacce.
Sprofondai nella paranoia della gelosia, schiacciato
dall’umiliazione del nostro amore, dall’insicurezza, dai dubbi. I
dubbi: valeva la pena, ormai – dopo tre anni –, ingelosirmi per
una mezza frase sugli impiegati che comprano il pane all’uscita
dall’ufficio? No, non valeva la pena, soprattutto dopo lo sforzo
che avevamo fatto per ricostruire la nostra relazione.

Chiusi il libro di Ruvalcaba e mi addormentai. Poco dopo – il


lasso di tempo mi sembrò breve – suonarono alla porta.
Assonnato, mi avvolsi in un asciugamano e andai a guardare dallo
spioncino. Pancho faceva l’equilibrista per non far cadere la
pizza. Aprii e mi consegnò quello che avevo chiesto, insieme alla
fattura e al resto. Siccome non volle prendere la mancia, gli
regalai una delle bibite e una fetta di pizza.
Divorai la pizza e rimasi con la voglia di mangiarmene altre
tre. Assetato, bevvi d’un sorso le due bottiglie e poi acqua del
rubinetto, fino a scoppiare.
Durante il sonnellino interrotto da Pancho, avevo sognato.
Non riuscii a ricordare alcunché, ma mi era rimasto un
sentimento di tristezza. Oltre all’assenza di Gregorio e Tania,
sentivo come un’assenza da me stesso. Ero diventato un uomo
diverso da quello che una volta avevo creduto di poter diventare.
Nudo, mi avviai verso la finestra che dava sul piazzale. Con
discrezione scostai la tenda. La sera si tingeva di bruno. I
mulinelli di polvere facevano volare le cartacce sulle case e la
pioggia minacciava di scendere da un momento all’altro.

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Un’automobile nera, di lusso, attraversò il piazzale e si fermò
nel garage dell’810. Adesso le stanze occupate erano undici.
Quasi un pienone. Succedeva così ogni venerdì sera, soprattutto
quand’era giorno di paga. Le coppie venivano a rinchiudersi nei
fine settimana, per il colpo di grazia. Arrivavano studenti, operai,
piedipiatti, ragazzine, signore snob, bancari, impiegati (prima o
dopo aver comprato il pane da portare a casa?), adolescenti
sospettosi, tassisti, poliziotti. Nonostante la sua eterogenea
clientela, il Motel Villalba si vantava d’essere un motel molto
morale: non era consentito l’ingresso a prostitute, coppie
omosessuali, minori di quindici anni e terzetti. «Il terzetto è
maledetto», era uno dei motti del signor Camariña.
Anche se il motel era pulcioso e a buon mercato, le stanze
erano sempre pulite e i mobili in buono stato. I materassi erano
vecchi ma ancora duri; le testate, dritte e solide, non cigolavano,
nonostante il consueto viavai; le gam​be delle tolette e delle sedie
non erano instabili; gli specchi non erano graffiati; i tappeti
venivano puliti e aspirati regolarmente; le lenzuola venivano
cambiate subito dopo essere state usate e non c’era il pericolo di
imbattersi in qualche macchia appiccicosa; le coperte non
mostravano tracce di buchi o bruciature di sigarette. Era un motel
diverso da quelli che avevo frequentato con Margarita o con altre
donne. «Ogni amore, per quanto sporco», sosteneva Camariña,
«merita un posto pulito».
Non era neppure un motel dal passato oscuro o malfamato. A
parte un piccolo incidente, durante il quale una tardona sui
cinquanta aveva accoltellato alle gambe il suo amante – un
giovane operaio che la tradiva con un’altra –, non si erano
registrati fatti di sangue. Nessun omicidio, suicidio o sparatoria.
La prima volta che portò Tania al Villalba, Gregorio aveva
sbagliato motel. Credeva fosse lo stesso in cui s’era concluso un
patto suicida tra un tenente dell’esercito e la sua amante, che era
la moglie di un suo commilitone. Un fatto cui le prime pagine dei
giornali scandalistici, che tanto piacevano a Gregorio, avevano
dato ampio spazio.
Aveva letto che il motel si trovava nel quartiere Portales e che

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il numero della stanza finiva con tre. Voleva consumare il suo
amore con Tania nello stesso posto in cui il tenente e la sua amata
avevano sigillato il loro con il sangue. Ma prese una cantonata: il
Villalba, in realtà, era a una ventina di isolati di distanza dal
motel in cui s’erano verificati quei fatti.
Quindi Gregorio non poté avere la sua stanza dei suicidi. E
nemmeno consumare il suo amore. Ebbe accanto Tania tutta
nuda, com’era successo a me. L’accarezzò, la baciò, la succhiò. Si
sdraiò con lei nello stesso letto in cui mi sdraiai anch’io. Dormì
con lei, ci fece il bagno insieme, ma non riuscì a penetrarla. Né la
prima, né la seconda, né la quinta volta. Proprio lui, che era stato
il primo tra gli amici a farlo, che ne aveva penetrate tante, non
riuscì, in quell’occasione, a fare l’amore con la donna che amava
di più.
Posso immaginarmeli: lui in un angolo della stanza, nudo,
sudato, sfinito, e lei vicino a lui, nuda a sua volta, che cerca di
consolarlo, che gli bacia la fronte, mentre lui, distrutto, con la
certezza che migliaia di forbicine lo divoreranno giorno dopo
giorno, ora dopo ora, come pure che quelle stesse forbicine gli si
accalcano sulla punta del pene pronte a schizzare con il suo seme
contro di lei, per invaderla e divorarla, come hanno fatto con lui,
e lei che cerca di convincerlo che non succederà mai. E me li
immagino entrambi, che piangono nudi, in un angolo dell’803.

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Uscii dal motel proprio al tramonto, all’“ora zero”. «La più
pericolosa per guidare», diceva sempre mio padre quando
viaggiavamo in macchina, «è l’ora in cui ancora ci vedi, solo che
non sai che cosa vedi».
Contai gli spicci che mi restavano. Non erano abbastanza per
pagare un taxi. Raggiunsi l’angolo della strada, dove un gruppo
di donne umili, di operai, muratori e studenti aspettava il
pullman. Costituivano un gruppo compatto, silenzioso, e i loro
visi si distinguevano appena, all’ora zero.
Cominciò a piovigginare e ci accostammo tutti al muro con la
speranza di non bagnarci. Pretesa inutile. Si scatenò un
acquazzone improvviso e il vento ce lo spinse contro.
I più corsero a rifugiarsi in una taqueria1 lì accanto,
sull’altro lato della strada. Io rimasi nell’angolo, insieme a una
vecchia arcigna e ossuta che, con indosso solo un vecchio
giaccone azzurro, sopportava la pioggia aspettando l’autobus. Per
quanto cercassi di fermarla con le mani, la pioggia mi colava
lungo la nuca fino alle spalle. Perché pioveva così tanto a
febbraio? I meteorologi della televisione dicono che è un
fenomeno provocato dal surriscaldamento della crosta terrestre.
La cosa non sembrava interessare la vecchia al mio fianco, che
guardava imperturbabile nella direzione da cui doveva arrivare
l’autobus.
Un’automobile azzurra si fermò vicino a noi. Il conducente
suonò il clacson. Sbirciai dietro ai finestrini ma non riuscii a

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vedere chi fosse al volante. Distolsi lo sguardo. Il conducente
insisteva. Mi avvicinai e riconobbi la testa pelata di Camariña,
che mi faceva segno di salire.
Mi precipitai nella sua macchina. Appena mi sedetti, inzuppai
i sedili. Mortificato, chiesi scusa.
«Non fa niente, amico», replicò Camariña, «si asciuga
subito».
L’auto partì. Dal finestrino osservai la vecchia che, grondante
d’acqua, restava impassibile ad aspettare l’autobus.
«Da che parte vai?», domandò Camariñas.
«A Villa Verdún».
«E dove sta?».
«Lontano. Bisogna fare tutta la Calzada de las Águilas, fino
in cima. E lei dove deve andare?».
«Da nessuna parte. Ti accompagno a casa», sentenziò.
Cercai di protestare. Camariña me lo impedì: «Sei uno dei
miei due migliori clienti, ragazzo. Che ci vuoi fare?».

Guidò in silenzio per un po’. Il traffico anarchico e lento non


sembrava innervosirlo. Di tanto in tanto tamburellava sul volante
al ritmo della canzone che suonavano alla radio. I suoi
avambracci erano larghi e forti. Le sue mani tozze, con vene
grosse e sporgenti. Le sue dita schiacciate sembravano
appartenere a un meccanico, più che al padrone di un motel.
Camariña schivò una fila di automobili imboccando un viale
contromano e zigzagando per stradine sconosciute. Tagliò un bel
pezzo e rientrò nel traffico vari isolati più avanti. Mi guardò con
orgoglio infantile.
«Ormai conosco questa città meglio del mio paese».
Il suo paese era Villalba, in Galizia, vicino al mare. Era
arrivato in Messico trentacinque anni prima, a diciott’anni. Aveva
messo su il motel sulla base della premessa che un essere umano
ha quattro necessità fondamentali: «Una casa, un vestito, un
pranzo e una scopata». Ogni volta che lo ripeteva, scoppiava a
ridere con la sua risata da cavallo. In varie occasioni mi aveva
invitato nel suo ufficio per fare due chiacchiere. Nonostante la

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sua sobrietà, gli piaceva molto conversare.
Quando arrivammo a Insurgentes mi accorsi che stava
passando un autobus che andava verso casa mia. Cercai di
scendere per fermarlo.
«No, ragazzo. Ti accompagno io».
«Guardi, sono già vicino, non voglio che allunghi ancora».
Camariña protese un braccio e tirò la maniglia per richiudere
lo sportello che avevo cominciato ad aprire.
Proseguimmo. Camariña spense la radio e cominciò a parlare
di calcio, la sua grande passione. In Messico tifava per il Necaxa,
in Spagna per lo Sporting. Sapeva i pronostici di tutte le squadre
e di tutti i giocatori, le formazioni tattiche, gli schieramenti dei
titolari di tutte le squadre di serie A. Riportava con enfasi
aneddoti relativi a partite che non aveva mai visto. Il calcio era un
mondo a parte, completamente distinto da quello degli amori
furtivi che si consumavano nelle stanze del suo hotel.
Ci fermammo a un semaforo e come se niente fosse mi chiese
se avessi litigato con Tania. Gli risposi di no.
«È che stasera la tua fidanzata è venuta in macchina al
negozio» – Camariña lo chiamava sempre negozio, mai motel –
«si è fermata davanti alla stanza, è rimasta un po’ lì, poi ha girato
e se n’è andata. E siccome tu sei rimasto lì tutto il tempo, da solo,
ho pensato che…».
Sentii un improvviso malessere, un’oppressione al ventre.
Tania mi sfuggiva. Mi sfuggiva, ancora una volta.
Camariña notò il mio stato d’animo e con la sua manona mi
strinse la coscia.
«Non ti preoccupare, le donne sono così. Per questo io, in
tutta la mia vita, sono stato solo con mia moglie: e mi basta e mi
avanza».

L’impressione che dava Tania era quella di una donna


continuamente in fuga. Fuggire sembrava essere la sua unica
costante. Questo tratto era da molti, me compreso, confuso con
l’infedeltà. Ma non era così. Tania aveva un senso profondissimo
della lealtà. Questo era il motivo che l’aveva spinta a tornare con

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Gregorio all’803. Cercò di porre un freno alla colpa concedendo
a Gregorio il suo corpo, o meglio, l’opportunità che il suo corpo
rappresentava. Non il suo amore, perché era me che amava. Ma
voleva veramente bene a Gregorio e soffriva molto per il modo in
cui stava precipitando verso la follia.
La riconciliazione con Tania fu violenta, feroce. Anche se in
quei quattro mesi di separazione continuammo ad amarci più che
mai, non smettemmo neanche di umiliarci e di offenderci.
Tornammo insieme senza aver superato il rancore. Ci
rimproveravamo continuamente per delle sciocchezze e
litigavamo a sangue restando senza vederci per giorni interi. Lei
allora ricominciava a sfuggirmi e la sua assenza mi provocava
un’oppressione allo stomaco.
Normalizzammo il rapporto dopo esserci feriti fino allo
sfinimento. Lei continuò a stare con Gregorio quasi per un altro
anno e mezzo e a volergli bene con affetto e dedizione. Andava a
trovarlo in ospedale all’uscita del motel, ancora impregnata del
sudore dei nostri orgasmi.
Credevo che Gregorio non sapesse nulla. Ma era il contrario.
Intuì tutto fin dal principio e si mise a perseguitarci con mosse
indirette, sottili: devastanti. Minò la nostra relazione a suo
piacimento, risvegliando sensi di colpa, attizzando gelosie,
alimentando liti. Ci prendeva alle spalle quando meno ce
l’aspettavamo. Tania e io resistemmo, non so se per ingenuità o
perché davvero ci amavamo tanto.

Camariña si mostrò preoccupato per il modo in cui avevo


reagito alle sue informazioni sul conto di Tania e per tutto il resto
del viaggio cercò soltanto di risollevarmi.
Elogiò il piumino che mi aveva prestato il padre di Margarita.
«Non sai da quanto tempo ne cerco uno così», disse mentre
saggiava il tessuto della tela impermeabile con le sue dita da
meccanico, «dev’essere ideale per il freddo».
Poi cominciò a scherzare. Le sue erano battute schiette, ma
molto sottili. Riuscì a farmi ridere elencandomi tutti gli oggetti
che erano stati dimenticati nelle stanze del motel: medaglie con la

63
Vergine, catene d’oro, portachiavi, portafogli, libri, ciucci per
bambino, borse da donna, vibratori e perfino un computer
portatile. Questo senza contare i pacchetti di preservativi intonsi,
i tubetti di lubrificante vaginale, le boccette di essenze
aromatiche, la biancheria intima strappata e gli spazzolini da
denti.
Mi raccontò che i clienti tornavano di rado a recuperare gli
oggetti, soprattutto se erano di valore e appartenevano a borghesi
o a gente “perbene”. Le persone di questo tipo accettano di
recarsi al motel solo per la riservatezza del personale, che non le
guarda mai negli occhi, e per la discrezione delle serrande che
chiudono i garage. Ma cosa ben diversa è guardare in faccia un
signore che, asserragliato dietro un bancone, gli domanda in che
cosa possa servirle. Era un rischio che, sinceramente, non se la
sentivano di correre.
«Ai clienti così», mi disse Camariña, «gli ci vorrebbe una
bella maschera da lottatore».

Dopo un’ora, Camariña mi lasciò davanti casa. Prima che


scendessi mi diede una pacca sulla spalla, esattamente come
faceva mio padre.
«Coraggio, ragazzo: una donna possiamo anche perderla, ma
l’amore non finisce mai. Mi capisci?».
«No».
«Quello che voglio dirti è che di donne ce ne sono tante».
Sorrisi e scesi dalla macchina. Camariña fece il giro con
l’auto, mi ripassò accanto e mi salutò con la mano. Lo raggiunsi
di corsa e gli bussai sul finestrino. Frenò bruscamente.
«Che c’è?», domandò stupito.
Indicai il piumino che avevo addosso.
«Le piace?».
«Sì, è bellissimo».
Me lo tolsi e lo infilai nel finestrino.
«Ma che fai?», domandò.
«Glielo regalo».
Camariña si fece di un rosso spagnolo.

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«Non lo posso accettare», disse, e quasi lo gettò fuori
dall’auto.
«Io neanche», replicai. Appallottolai il piumino e lo lanciai in
fondo al sedile posteriore.
«Non ti ho accompagnato a casa perché volevo un regalo»,
aggiunse, «manco fossi la tua fidanzata».
Mi appoggiai alla portiera dell’auto.
«Il freddo potrà anche finire», gli dissi, «ma i piumini mai».
«Che vuoi dire?».
«Che di piumini ne ho una marea».
Camariña sorrise e mi diede uno scappellotto sulla testa.
«Grazie», disse semplicemente e si avviò lungo la discesa.
In qualche modo avrei risolto, con la giacca: ne avrei trovata
un’altra uguale, o mi sarei inventato qualche storia assurda con il
padre di Margarita.

A casa non trovai nessuno. I miei erano andati a cena con


degli amici e Luis era andato a Cuernavaca per il fine settimana.
In cucina mia madre mi aveva lasciato un vassoio con alcuni
tramezzini al pollo come spuntino. Mi sedetti in sala da pranzo e
presi la mia agenda dei messaggi, e dico mia perché in casa
ognuno aveva la sua agenda personale. Dentro c’era un registro
puntiglioso di tutte le chiamate telefoniche: chi aveva chiamato, a
che ora e perché. Eravamo tutti obbligati ad annotare quei
promemoria nell’agenda corrispondente. Era una mania che mia
madre aveva preso quand’era segretaria personale del ministro
delle Finanze.
La madre di Tania aveva chiamato otto volte: tre la mattina,
due a mezzogiorno, due nel pomeriggio e l’ultima alle diciannove
e trentasei minuti. Otto volte lo stesso messaggio: «Sai qualcosa
di Tania?». Guardai l’orologio: le nove meno un quarto.
Calcolando gli intervalli tra una chiamata e l’altra, si sarebbe
rifatta viva più o meno verso le dieci e mezza.
C’era anche una chiamata di Rebeca alle diciassette e
quindici. Era una compagna di università, con cui andavo a letto
ogni tanto; mi domandava perché non ero andato a lezione. Poi,

65
alle diciotto e cinque, una di Margarita che mi chiedeva di
mettermi in contatto con lei. E un’altra, che mi sorprese, del
dottor Macías, il medico che con evidente successo aveva portato
a termine quello che lui stesso aveva definito come «il processo
di riabilitazione terapeutica di Gregorio» (su quanti suicidi si
fondava il suo successo come psichiatra?). Aveva chiamato due
volte e lasciava i numeri di telefono del suo studio e del suo
localizzatore. Sicuramente voleva offrirmi la sua assistenza. Diedi
un morso a un tramezzino, ma a un lato: c’era uno strato di
scaglie di cipolla. Mia madre ancora non si ricordava a quale dei
suoi due figli piacesse la cipolla e a quale no.
Mi preparai un po’ di cereali e mi sedetti a guardare la
televisione. Scorsi uno a uno tutti i canali via cavo, ma non c’era
nessun programma che mi interessasse. Spensi e me ne andai in
camera mia a cercare di leggere un romanzo. Non riuscii a
concentrarmi.
Composi il numero di Rebeca. Aveva un fidanzato scemo ed
era innamorata di me. Era bella e mi attraeva molto. Rispose e
appena sentì la mia voce disse: «Ha sbagliato numero, signorina»,
e riattaccò. Faceva sempre così quando stava con il fidanzato
scemo. Ci rimasi male: era la serata giusta per andare al cinema e
fare l’amore in macchina sua.
Il numero di Margarita risultò occupato tutte e cinque le volte
che cercai di chiamarla. Poi telefonai alla madre di Tania.
Rispose al primo squillo. Si sentiva che era molto agitata. Non
era una brutta persona. Forse un po’ frivola, ma gentile e attenta.
Il padre era un avvocato del lavoro noto per aver vinto molte
cause corrompendo dei dirigenti sindacali e per aver sabotato
alcuni scioperi per mezzo di crumiri. A me, comunque, mi trattava
bene.
Erano entrambi sicuri che Tania sarebbe tornata. Non avevano
dubbi ma l’attesa li stava distruggendo. «Un altro giorno così,
Manuel, e muoio», mi disse la madre tra i singhiozzi. Fui tentato
di dirle: un altro giorno così e ammazzo sua figlia. E non
gliel’avrei detto per scherzo. No, perché lo pensavo davvero.
Ucciderla perché le sue assenze non mi uccidessero in quel

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modo.
1 Rosticceria dove si vendono i tacos, tipico piatto messicano.

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Non resistetti a stare da solo a casa. Siccome aveva smesso di
piovere decisi di uscire. Camminai intorno a un parco lì vicino.
Continuai a girare in lungo e in largo finché non ne potei più.
Non avevo soldi per andare al cinema o in un bar a prendermi
qualcosa. Mi diressi verso i campi di basket situati al centro del
parco. Lì avevo vinto un po’ di soldi facendo degli uno contro
uno. Poca roba: venti, trenta pesos a partita. Quello di cui avevo
bisogno. Se quel venerdì non avesse piovuto sicuramente avrei
trovato qualcuno da sfidare. Mi imbattei – in cambio – in un
gruppo di adolescenti che si ubriacavano bevendo birra. S’erano
arrampicati con la macchina di uno di loro fino alle gradinate e
avevano aperto i quattro sportelli perché si sentisse a tutto
volume la musica dell’autoradio. Il più ubriaco ballava un rap
monotono, inciampando in continuazione.
Non erano dei fattoni, ma ragazzi di buona famiglia per i
quali il massimo della trasgressione era rompere le bottiglie per
terra e vomitare dietro i cassonetti. Ne riconobbi tre o quattro e
mi avvicinai. Magari potevano prestarmi dei soldi.
«Ma guarda, Michael Jordan!», mi disse uno che chiamavano
il “Tommy” e che avevo battuto qualche volta a basket.
«Be’?», gli risposi.
Il “Tommy” mi offrì una birra.
«Sono astemio», gli dissi.
«Vuoi dire che non hai vizi?», disse un terzo.
«Sì, ma diversi», risposi, «e molto meglio».
Un altro ancora, che chiamavano il “Pony”, aprì la mano e mi
mostrò un sacchetto di marijuana.

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«Questo vizio ti piace o è troppo forte per te?», doman​dò
sornione. Si credeva il capo della banda.
«No, neanche. Non ho questi vizi da adolescente», gli risposi.
Gli altri si misero a sfotterlo ridendo per la mia battuta.
Cercai un posto asciutto sui gradini e mi sedetti vicino al
“Tommy”.
«Che fate?», domandai.
«Niente, cazzeggiamo», rispose il “Castoro”, il più
tracagnotto di tutti.
La cassetta finì e quello ubriaco che ballava da solo chie​se
strillando di rimettere il rap. Siccome nessuno se lo filava,
raggiunse traballando l’automobile, si stravaccò sul sedile davanti
e cominciò a trafficare con i tasti dell’autoradio. Il rap ricominciò
a suonare e l’ubriaco scese dalla macchina per rimettersi a ballare
su se stesso guardando la luna.
«E tu che ci fai qua?», mi domandò il “Tommy”.
«Cercavo qualcuno con cui farmi una partitina a basket».
Il “Castoro” indicò i campi allagati.
«Magari di pallanuoto…».
Molti fecero finta di ridere, il “Pony” più degli altri.
«E l’amico tuo che fine ha fatto?», mi domandò un biondo
che chiamavano il “Faccino”.
«Quale?».
«Uno alto che aveva il tatuaggio uguale al tuo», disse.
«È morto», dissi impassibile.
Tutti scoppiarono a ridere un’altra volta, come se avessi detto
qualcosa di molto buffo. Risi anch’io.
«Ma è vero», dissi ancora tra le risa, e mi puntai la tempia con
l’indice, «s’è sparato un colpo qui, martedì scorso».
Alcuni risero, altri no. Non capivano se si trattava di una mia
invenzione o se parlavo sul serio.
«Ci prendi per il culo?», disse il “Tommy”.
«Per niente».
Tutti mi osservarono turbati, tranne quello che ballava
ubriaco con la luna.
«Capito che vizioso, l’amico mio?», aggiunsi guardando il

69
“Pony”.
Nessuno rise della mia battuta stavolta. Feci un mezzo
sorriso. Gli altri rimasero in silenzio. La cassetta finì di nuovo e
l’ubriaco ricominciò a strillare. Lo fece smettere un ciccione,
grosso e brutto, della cui presenza non mi ero accorto.
«Falla finita, “Trottola”», disse, «hai rotto il cazzo».
Andò alla macchina, prese la chiave dal cruscotto e chiuse
tutto.
«È finita la musica», sentenziò.
L’altro restò con lo sguardo perso nel vuoto e le braccia
aperte, come uno spaventapasseri. Borbottò qualcosa a bassa
voce e si andò a sdraiare sugli scalini in fondo.

A poco a poco il gruppo si disperse. Il “Pony” si allontanò


con le mani infilate nelle tasche del piumino e si mise a
chiacchierare con il “Castoro”.
Il ciccione e il “Faccino” si sedettero vicino a me e al
“Tommy”. Stapparono delle birre e cominciarono a berle con una
pausa tra un sorso e l’altro. Poi si misero a parlare di marche di
automobili, modelli, cilindrate e altre cretinate. Il ciccione,
dandosi un sacco di arie, si avvicinò alla sua macchina e aprì il
cofano per farci vedere il motore. Con orgoglio ci indicò cilindri,
candele, tappi. Approfittai del momento per chiedere al “Tommy”
di prestarmi cinquanta pesos. Si frugò nelle tasche e tirò fuori un
pezzo da dieci.
«È tutto quello che ho», mi disse.
Chiesi pure al “Faccino” che aprì il portafogli e, dandomi le
spalle, tirò fuori un biglietto da venti.
«Domani ti posso dare il resto», disse.
«Mi servono adesso», specificai, «per il taxi e il cinema».
«Vuoi andare al cinema?», domandò il ciccione.
Annuii.
«E voi?», domandò agli altri due.
Anche loro annuirono. Il ciccione andò alla macchina, frugò
nel cassettino del cruscotto e riemerse con un’espressione
soddisfatta e due biglietti da cento in mano.

70
«Vi invito io, coglioni».
Salimmo in macchina tutti e quattro. Io sul sedile accanto al
guidatore. Il ciccione schiacciò l’acceleratore e attraversammo il
campo a manetta mentre gli altri si toglievano di corsa dalla
strada.
Il ciccione volle tagliare passando per la zona più fangosa. La
macchina slittò verso gli alberi ma non ne colpì nemmeno uno.
Uscimmo dal parco e imboccammo una strada adiacente che ci
portò alla Avenida de las Águilas.
Il ciccione guidava con una mano sola. Non rispettava i
semafori, non si fermava agli stop e sorpassava a destra a tutta
birra. I due di dietro ci sembravano abituati, perché non si
scomposero minimamente.
Da lontano scorsi una pattuglia che attraversava l’avenida con
la sirena spenta. Convinsi il ciccione a lasciarmi guidare.
Potevano fermarci e il suo alito puzzava di birra. Lui accostò e
feci un sospiro di sollievo quando mi lasciò il volante.
Arrivammo a uno di quegli edifici che all’interno
raggruppano dieci sale cinematografiche, negozi di dischi e
ristoranti. C’era una vasta offerta di film per lo spettacolo delle
undici e mezza. Suggerii di andare a vedere La farfalla nera,
diretto da Busi Cortés, che era uscito da poco. Gli altri
insistevano per vedere un film d’azione idiota. Siccome non
avevo soldi, dovetti abbozzare.
Comprammo i biglietti quando mancavano ancora venti
minuti all’inizio dello spettacolo. Per ammazzare il tempo ci
mettemmo a sfogliare qualche rivista da Sanborn’s. Il ciccione e
“Tommy” si annoiarono subito e decisero di andare a una vineria
lì accanto a comprare tre bottigliette di rum.
«Non sai che gusto scolarselo al cinema», disse il ciccione.
Restai da solo con il “Faccino”. Era biondo e bello, una
faccia da bravo ragazzo. Inoffensivo come il resto dei suoi amici.
Gli chiesi i venti pesos che mi aveva offerto prima per comprarmi
una rivista di caccia. Si voltò a sinistra e nascondendosi aprì con
discrezione il portafogli. Riuscii a vedere lo stesso che dentro
c’erano più di cento pesos.

71
Il “Faccino” mi allungò un biglietto da venti e mentre stav​a
per rimettere a posto il portafogli gliene chiesi altri venti.
«È tutto quello che ho», disse con un tono di voce che tradiva
il contrario.
«Non fare il tirchio, che ho appena visto che hai di più».
Mi guardò mortificato, come se fossi un professore che
l’aveva sorpreso a copiare a un esame.
«Me l’ha dati mia mamma per comprare dei libri per la
scuola», disse titubante.
«Non ti preoccupare», gli dissi con tono rassicurante, «che te
li ridò prima di domenica».
Con un movimento da topo aprì di nuovo il portafogli e mi
diede un altro biglietto da venti.
«Grazie», gli dissi e m’infilai il biglietto nella tasca dei
pantaloni.
Non glieli avrei ridati, perché era un ubriacone e un bugiardo.

Il ciccione volle a tutti i costi che ci sedessimo sulle poltrone


davanti. Mi rifiutai ostinatamente, ma alla fine ci sedemmo lo
stesso nelle prime file.
Ancora prima che spegnessero le luci i tre iniziarono a bere
spudoratamente dalle bottigliette. Il ciccione s’era addirittura
nascosto una bottiglia di tequila da un litro sotto ai vestiti.
Avevano intenzione di ubriacarsi come se stessero in uno stadio
di calcio.
Dopo venti minuti, il film mi aveva già annoiato. Non ero
dell’umore giusto per vedere sparatorie, calci in aria, colpi di
karate e adolescenti ubriachi. Sussurrai al “Tom​my” che sarei
andato al bagno e che tornavo subito. Uscii dalla sala e rientrai al
Sanborn’s.
Ordinai in gelateria un milk-shake al cioccolato. Un tipo si
avvicinò al mio tavolo e mi guardò in faccia per qualche secondo.
«Manuel?», domandò.
Si trattava di Ricardo Galindo, ex compagno mio e di
Gregorio alle medie e alle superiori.
«Non mi riconosci?», domandò.

72
Certo che l’avevo riconosciuto. Non aveva fatto altro che
tormentare Gregorio, durante i tre anni delle medie, quando
Gregorio era ancora un ragazzo timido e smilzo.
«Sì, sei Ricardo», risposi.
Sorrise e poi assunse un’espressione seria.
«Ho saputo di Gregorio, ci sono rimasto di merda».
«Che è successo?», domandai.
«Non lo sai?».
Feci segno di no con la testa. Ricardo poggiò una mano sulla
spalliera della sedia e si piegò verso di me.
«Si è suicidato», sussurrò.
Finsi di essere stupito.
«Brutto, eh?», disse con espressione compunta.
Non credo che gli dispiacesse più di tanto. Una mattina, come
faceva sempre, Ricardo s’era messo a sfottere Gregorio durante
una lezione nel laboratorio di biologia. Gregorio, che a quel
tempo stava già cominciando a cambiare, sorrise e prese il bisturi
con cui stavamo dissezionando un coniglio. Si accostò a Ricardo,
gli puntò la lama alla gola, lo costrinse a camminare all’indietro
in mezzo ai banchi e, davanti al professore e agli altri alunni
allibiti, lo spinse contro una parete e gli fece un’incisione sulla
mandibola. Una piccola striscia di sangue sgorgò dal taglio e
Gregorio abbassò il bisturi. «Un’altra parola, stronzo, un’altra
parola soltanto», disse, «e ti cavo gli occhi». Girò su se stesso e
tornò a sedersi. Il giorno dopo lo espulsero dalla scuola per una
settimana.
«E quando si è suicidato?», domandai.
Alzò le spalle. Una ragazza gli fece un gesto impaziente da
lontano e lui rispose come a dirle «aspetta un momento».
«Stai ancora con Tania?».
Annuii. Rimase in silenzio senza sapere che altro dire.
«Sei venuto al cinema?», domandò dopo qualche secondo.
«Sì», risposi.
«Che hai visto?».
«La farfalla nera».
«E com’è?».

73
«Bellissimo, te lo consiglio».
Mi salutò sottolineando esageratamente quanto gli aveva fatto
piacere rivedermi e si allontanò saltellando tra i tavoli verso la
ragazza che lo stava aspettando.

Scesi al parcheggio con l’ascensore. Appena entrato in


macchina mi resi conto che non mi restavano abbastanza soldi per
pagare il biglietto all’uscita. Per fortuna mi abbonarono due ore,
perché ero cliente di Sanborn’s.
La città era quasi vuota. Strano, per essere venerdì. Forse la
pioggia aveva allontanato i nottambuli.
La macchina del ciccione andava alla grande. Era un coupé
rosso dalla linea molto aerodinamica. La marca non me la
ricordo, era una di quelle che si vedono nelle pubblicità in
televisione. Il ciccione si vantava del fatto che poteva raggiungere
i cento chilometri all’ora in meno di dieci secondi. Era vero: mi
bastava schiacciare appena l’acceleratore per superare con facilità
gli altri veicoli. Che macchina sprecata: un motore del genere in
mano a uno con così poca personalità.
L’Avenida de los Insurgentes brillava deserta, pronta a farmi
accarezzare l’asfalto a duecento all’ora. Decisi di andare piano.
Non mi è mai piaciuta la velocità. Neanche a Gregorio. Nemmeno
quand’eravamo ancora alle superiori e chiedevamo in prestito la
macchina alle madri delle nostre compagne inventandoci qualche
grave emergenza, per poi restituirgliela due o tre giorni dopo.
Entrambi pensavamo che, ad alta velocità, la vita resta nelle
mani del caso. Potevamo ammazzarci per l’imprudenza di un altro
guidatore, per un sasso in mezzo alla strada, o per
l’attraversamento improvviso di un cane. Come successe a René,
il nostro amico (forse l’unico), che fu decapitato quando la sua
macchina finì sotto a un camion a centottanta chilometri all’ora.
Il conducente del camion s’era distratto sbucciando un’arancia e
aveva cambiato corsia proprio mentre l’auto di René lo stava
superando. René non ebbe il tempo di frenare. La sua Golf rimase
senza il tetto – e senza René – scaraventato sul portone di un
palazzo a novanta metri di distanza. René non correva perché era

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in ritardo a qualche appuntamento. Correva e basta.

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Indeciso, percorsi vari isolati senza sapere dove andare. Non
avevo voglia di tornare a casa, ma neppure di girare da solo per la
città. Meno che mai di andare a prendere il ciccione e i suoi
amici. Avevano comunque di che divertirsi, a cercare la macchina
nel parcheggio.
Volevo una pausa. Fermarmi a fare due chiacchiere. Soltanto
due chiacchiere. Non volevo altro.
Mi diressi verso casa di Rebeca. Magari il suo ragazzo se
n’era già andato e potevamo stare un po’ insieme. Era difficile,
comunque: i suoi genitori erano molto severi e non la lasciavano
star fuori fino a tardi. Il suo ambiente familiare era
claustrofobico. Forse era per questo che mi attraeva la relazione
con lei: mi dava la sensazione che stessi trasgredendo qualcosa.
Con Rebeca avevo fatto l’amore poche volte. Venti al
massimo. Tutte in posti strani: la camera dei suoi genitori, la
terrazza condominiale, la cucina di casa sua, il corridoio di un
cinema sperduto, un’aula vuota dell’università. Il motivo: lei si
rifiutava di andare nei motel. «Sono posti per le puttane», diceva.
Era una donna dolce e impulsiva, anche se prevedibile. Mi
amava molto e in qualche momento pensai anche di essere
innamorato di lei. Probabilmente le cose avrebbero preso un’altra
piega se qualche volta fossimo rimasti nudi, con calma, senza
quelle mezze carezze, senza il pericolo di essere scoperti con i
pantaloni abbassati fino alle ginocchia, avvinghiati come cani
randagi pronti a beccarsi una secchiata d’acqua fredda. Se non
avesse avuto come genitori un paio di energumeni ridicolmente

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conservatori. E, soprattutto, se non avessi amato Tania Ramos.
Mi fermai davanti casa di Rebeca. La macchina del suo
fidanzato era ancora parcheggiata di fronte alla porta. Guardai
l’orologio sull’autoradio: mezzanotte e diciassette. Il fidanzato
aveva sforato di un’ora e quarantacinque minuti sul limite
concesso dai genitori. Tra poco il padre l’avrebbe buttato fuori.
Infilai una cassetta nell’autoradio per alleggerire l’attesa con
un po’ di musica, ma i gusti del ciccione erano così orrendi che
alla fine decisi di spegnere. Aspettai dieci minuti. Siccome il
fidanzato non usciva, decisi di andare a telefonare a Rebeca dalla
cabina all’angolo della strada.
«Ancora?», rispose.
«Con chi parlo?», domandai.
S’innervosì e cominciò a balbettare. L’accordo prevedeva che
quando chiamavo a casa sua dovevo chiedere di un immaginario
Fernando Martínez. Se poteva parlare senza problemi, continuava
la conversazione. Altrimenti rispondeva «Ha sbagliato numero,
signorina» e riattaccava. Quando cominciò a dire «Ha sbagliato
nu…», la interruppi.
«Non riattaccare», ordinai.
Rimase in silenzio.
«Non riattaccare, per favore».
«Questo è il 572-90-92…», disse titubante.
In lontananza si sentiva la voce del fidanzato che le
domandava chi fosse al telefono.
«Mi stai cacciando?».
«Sì, signorina».
«Voglio vederti adesso».
«No, signorina. La aiuterei volentieri, ma non credo sia
possibile».
Tappò il ricevitore con la mano. Riuscii ugualmente a sentirla
mentre diceva al fidanzato che una donna molto angosciata stava
cercando il numero dell’Hospital de la Luz.
«Che è successo?», domandò sconcertata.
«Puoi parlare?».
«Svelto, Antonio è andato in cucina a cercare l’elenco».

77
«Ho bisogno di vederti».
«Domani».
«No, subito».
«Sei pazzo».
Mise di nuovo la mano sulla cornetta. Diede alcune istruzioni
al fidanzato su dove cercare l’elenco.
«Se n’è riandato», sussurrò.
«Bene».
«Perché non sei venuto all’università?».
«Non ho potuto».
«Mercoledì mi hai dato buca. Dovevamo pranzare insieme,
ricordi? Non mi hai nemmeno chiamata per chiedermi scusa».
«Non ho potuto».
Si sentì in lontananza la voce del fidanzato. Rebeca cambiò
tono di voce.
«Signorina, senta… Il numero dell’ospedale è…».
La interruppi.
«Perché non mandi il tuo fidanzato a vedere se la troia ha
partorito?».
Lei continuò con tono neutro:
«Non ha da scrivere?».
«Sono all’angolo davanti casa tua. Quando esci per salutarlo
lascia la porta aperta così m’infilo dentro».
«No, signorina. Credo che questo sia proprio impossibile».
«Ti aspetto in una macchina rossa parcheggiata dietro a quella
del tuo fidanzato».
«No, non posso aspettare che vada in cerca di una matita».
«Certo che puoi».
«Sì, sì, va bene. Se lo segni: il telefono è cinque,
quaranta…».
«Ho bisogno di parlarti».
«…trentaquattro…».
«Gregorio s’è ammazzato».
Rebeca rimase in silenzio. La sentii respirare a bocca aperta.
«…ottantuno… E se posso la aiuterò molto volentieri…»,
disse e riagganciò.

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Dopo cinque minuti comparve il fidanzato imbacuccato in un
cappotto. Rebeca era dietro di lui e si riparava con un ombrello
nero. Cominciò a piovere. Mi abbassai sul sedile quando il
ragazzo mi passò davanti diretto verso la macchina. Rebeca lo
raggiunse e gli diede un bacio. Da una finestra il padre le gridò di
sbrigarsi. La macchina del fidanzato partì e Rebeca batté due
volte con le nocche sul cofano della mia. Mi rialzai quando la
macchina del fidanzato svoltò in una strada laterale.
Scesi dall’auto e, badando a non far rumore, chiusi lo
sportello. Rebeca rimase ad aspettarmi sul marciapiede. Il padre
la chiamò un’altra volta.
«Entra, dai».
«Arrivo», disse lei.
Circospetto, avanzai di tre passi e mi appoggiai al parabrezza.
Dalla finestra il vecchio controllava i movimenti della figlia.
«Ma che fai?», le strillò di nuovo.
«Mi è caduto un orecchino e lo sto cercando».
Rebeca si fermò accanto alla porta, si girò verso casa sua e
con un piccolo gesto della mano mi fece segno di intrufolarmi.
Entrando mi indicò di nascondermi dietro a un grande vaso in un
angolo del giardino. Sentii la voce del padre che le ordinava di
chiudere a chiave la porta.
Rebeca fece finta di dare qualche mandata.
«Adesso torno», sussurrò.
Si spensero le luci del piano di sopra. Rimase accesa solo una
lampada nella stanza riservata alle visite che dava sul giardino.

Tra il portone e la casa c’era un grande prato con siepi di


gelsomini, gardenie e rose. Per arrivare alla porta principale
bisognava percorrere i quindici metri di un ampio viale coperto di
ghiaia. Scommetto che dopo mezzanotte il padre lo minava.
Trascorsero molti minuti. Le gambe mi si addormentarono e
cercando di cambiare posizione infilai la mano destra nel vaso
riempiendomi di fango.
Il giardino era illuminato da tre riflettori molto potenti. Si

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distinguevano con chiarezza la pioggia che cadeva sull’erba, le
foglie degli alberi che si staccavano sotto il peso delle gocce e il
manto dei fiori di buganvillea sparpagliati al suolo. Decine di
lombrichi si contorcevano sulla ghiaia, fuggendo dai buchi
inondati dall’acqua. Due topi attraversarono di corsa il prato, si
arrampicarono sui secchi della spazzatura sistemati nel garage,
rubarono qualche avanzo di cibo e tornarono a infilarsi in una
crepa sotto la fontana abbandonata.
Rebeca venne ad accogliermi con addosso solo una sottoveste
nera di satin e uno scialle. Mi fece un segno dalla porta
principale. Mi alzai, con la spalla indolenzita. Mi tolsi il fango
dalla suola delle scarpe con una pietra e attraversai il prato sul
lato meno illuminato.
Mentre salivamo gli scalini all’ingresso Rebeca mi abbracciò
e mi baciò. Aveva le guance calde. Come le labbra. Mi prese la
mano sinistra e con circospezione mi condusse nella stanza in
penombra. Entrammo nella stanza che si vedeva dal giardino e
chiuse la porta con cautela senza farla cigolare.
«Se papà scopre che sei qui, ti ammazza».
«Ci ammazziamo a vicenda», aggiunsi.
Sorrise e scosse la testa. I suoi capelli si spostarono come
quelli di Tania.
«Papà non è cattivo come sembra».
«No, certo. È peggio».
Mi colpì con un pugno nello stomaco. Feci finta che mi
mancasse il respiro. Poi lei notò la mia mano sporca. Mi indicò
un bagno che dava sulla stanza.
«Usi sempre questa sottoveste o te la sei messa per me?», le
domandai guardandola nello specchio mentre mi lavavo.
«Me la metto tutte le sere pensando a te».
Si tolse lo scialle e si sedette su un divano. Aveva la pelle
delle spalle liscia e bianca, di un bianco che non dava fastidio.
Finii di asciugarmi le mani, mi tolsi il piumino e mi sedetti
vicino a lei.
«È vero quello che mi hai detto per telefono?», domandò
incredula.

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«Sì».
Aveva incontrato Gregorio solo in due occasioni, ma le erano
bastate per capire quanto fosse spaventoso. La volta in cui si
conobbero Rebeca indossava un vestito che le lasciava le spalle
scoperte. Gregorio gliele accarezzò delicatamente, sfiorandole
con la punta delle dita. Lei si fece indietro, sconcertata. «Volevo
solo sapere se erano vere», disse lui.
«Di che è morto?».
Gregorio era morto per così tante ragioni che mi rifiutai di
pronunciare la parola “suicidio”.
«È morto e basta», dissi tagliando corto.
La mia risposta non la infastidì. Mi aprì la mano e con
l’unghia dell’indice destro seguì le linee sul palmo. Non fece
previsioni assurde sul mio futuro o su quanto sarebbe durata la
mia vita. Si limitò a seguire un paio di volte la traccia di una “M”.
«Mi sono molto agitata quando hai chiamato», disse.
«Hai pensato che il tuo fidanzato ci avrebbe scoperti?»,
domandai ironico.
Mi baciò la mano sul palmo e la lasciò.
«No, di quello non m’importa. Mi sono agitata quando ho
sentito che eri tu».
Si sdraiò e mi poggiò la testa in grembo.
«Mercoledì, quando mi hai dato buca, ho avuto paura».
«Di che?».
«Ho pensato che non volevi vedermi più».
Mi piegai e la baciai sul mento. Spesso temeva che
l’abbandonassi, con un pretesto qualsiasi.
«Non dire stupidaggini», le dissi.
Si sentirono dei passi al piano di sopra.
Rebeca si alzò e girò la testa cercando di capire da dove
venisse il rumore.
«È Sancho», esclamò sollevata.
Sancho era il cane. Un cane nano che, pur essendo di una
razza infame, non abbaiava fastidiosamente a qualsiasi cosa si
muovesse.
Rebeca si sdraiò di nuovo sulle mie gambe.

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«Che giorno è morto Gregorio?».
«Martedì sera. Per questo mercoledì non sono venuto».
«Non ci pensiamo più, OK?», disse e mi baciò.
Parlare di Gregorio cominciava a risultarmi difficile.
«Il funerale quando c’è stato?».
Non riuscii a rispondere. Sancho annusò sotto la porta.
Raschiò con la zampa e si allontanò di nuovo.
«Sei riuscito a vederlo prima che morisse?».
Annuii.
«Avete fatto pace?».
Come spiegarle che non si trattava di chiarire dei malintesi,
né di risolvere una qualsiasi lite tra amici. Non si trattava di
riconciliarci, ma di perdonarci. Perdonarci… e come potevamo
farlo, ormai?
Sentii una voglia repentina di piangere, di mostrarmi fragile
davanti a quella donna dalle spalle bianche, di correre a spremere
le ceneri di Gregorio per cavargli anche solo una parola di più.
Rebeca mi guardò senza capire. Mi strinse forte e, senza
capire, pianse per me.

Smise di piovere. Passarono una, due ore immobili. Le


trascorremmo tutte in silenzio. Lei si era sciolta le bretelle della
sottoveste. Vidi i suoi seni, bianchi come le sue spalle. Con le
dita disegnai dei cerchi intorno ai capezzoli dritti. Senza fretta,
senza desiderio.
Lei mi baciò e si spogliò. Senza togliermi i vestiti mi
addormentai sul suo pube.
Mi svegliai quando si mosse.
«Mi si è addormentata la gamba», disse divertita.
«Scusa», dissi e morsi la piega delicata sul suo ventre. Mi
alzai e lei mi passò le dita tra i capelli. Abbracciai il suo corpo
nudo.
«Non riesco a credere che sei qui, con mio padre che dorme
di sopra. Siamo due mostri».
«No, non lo siamo».
Si staccò da me e tirò indietro la testa.

82
«Sai una cosa?», domandò.
«Mmmh».
«Sono innamorata di te».
Sospirò e mise la mia mano sul suo petto.
«Senti qui», disse.
Abbassai la mano, lentamente, attraversando la sua nudità.
Quando arrivai tra le gambe me la strinse chiudendo le cosce.
«Non posso volerti così bene», mi sussurrò, «ti amo troppo».
Mi guardò negli occhi e si morse le labbra.
«Non voglio più vederti», disse con determinazione.
«Perché?».
Mi baciò sulla bocca e sfregò l’aroma del suo corpo nudo sul
mio.
«Non ce la faccio più», mormorò. «Davvero. Non ce la
faccio».
Si staccò da me, si vestì, si coprì con lo scialle e salì le scale
verso la sua stanza.

Uscii in giardino. Una nebbia tenue si estendeva sulla cima


degli alberi. Le gocce d’acqua colpivano gli infissi delle finestre
con una cadenza irregolare e il prato sprigionava una densa
umidità.
Dall’ombra emerse una farfalla nera. Attraversò il fascio di
luce dei riflettori e tornò alla notte. Da bambino collezionavo le
farfalle come quella. Le acchiappavo prendendole per la punta
delle ali e le infilzavo con uno spillo su un pezzo di cartone, dove
morivano sbattendo disperatamente le ali.
Sancho si affacciò dalla porta socchiusa e si sedette vicino a
me a guardare il giardino. Dal suo collare pendeva una placca
metallica con il suo nome e l’indirizzo e il telefono di Rebeca.
Mi chinai, gli feci qualche carezza sulla schiena, tirai la catenella
e staccai la placca. La strinsi in mano e la nascosi nella tasca dei
pantaloni.
Presi in braccio Sancho, lo depositai sul parquet
dell’ingresso e chiusi la porta.
Rebeca e io non facemmo l’amore mai più.

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Quando aprii lo sportello l’allarme dell’automobile del
ciccione partì con acuti colpi di clacson. Riuscii a disattivarlo
dopo aver composto sulla tastiera tutta la gamma delle
combinazioni possibili. Non saprei dire in che momento l’avevo
messo in funzione.
Accesi il motore. L’orologio dell’autoradio segnava le quattro
e diciassette di mattina. Allacciai la cintura di sicurezza e mi
avviai verso casa mia.
Nel parco non trovai nessuno a cui lasciare la macchina. Sui
prati restava solo un fiume di vetri color ambra. Cercai nel
cassetto del cruscotto il libretto di circolazione, per scoprire
l’indirizzo del ciccione. Viveva dodici isolati più giù, in fondo
alla collina.
«Cazzo», pensai, «ora mi tocca farmela in salita».
Parcheggiai la macchina davanti al numero cinquanta della
Calle del Pino e infilai le chiavi nella cassetta della posta.
Caddero dentro con un suono metallico e scappai via di corsa.

In cucina mia madre aveva lasciato un altro vassoio di


tramezzini, preparati senza la cipolla. C’era anche un messaggio:
«Manuel, spero che questi ti piacciano. Baci, mamma».
Mia madre si sentiva sempre in colpa. Quando lavorava,
perché trascurava i figli. Quando stava con noi, perché
abbandonava la sua carriera professionale. Divisa com’era, viveva
a metà, senza mai trovare il suo posto né dall’una né dall’altra
parte. «Io so far bene solo una cosa alla volta», le sentii dire a
mio padre durante un litigio. In fin dei conti, nel pendolo delle

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sue decisioni, Luis e io finimmo con il perdere: lei non stava mai
con noi, anche se ci stava vicino.
Mi misi con i gomiti sul tavolo a mangiare tramezzini. Gli
stessi tramezzini di sempre: due fette di pane tostato, spalmate di
maionese e un po’ di senape, ripiene di pezzetti di petto di pollo
bollito. A volte ci trovavo dentro delle foglie di lattuga, qualche
cetriolino agrodolce, rotelline di pomodoro e, molto spesso,
scaglie di cipolla.
Li ricordo nelle bustine di plastica dentro al mio zaino, per
l’ora di ricreazione. Come unica merenda nelle scampagnate,
come piatto forte delle feste o delle riunioni di famiglia. A
colazione, a pranzo, a cena. Tramezzini e ancora tramezzini. Non
li detesto, come succede invece a Luis. Al contrario, quando sono
in viaggio li rimpiango. Rimpiango il loro sapore semplice,
familiare – così come rimpiango, per quanto possibile, casa mia.

Presi la mia agenda e rilessi tutti i messaggi accumulati in due


anni. Pezzi del mio passato riassunti dal nome della persona che
aveva chiamato e dall’ora e dal motivo per cui l’aveva fatto. Il mio
passato.
Tra le decine di chiamate di Gregorio, due mi saltarono agli
occhi. Una, che mi aveva fatto dall’ospedale il primo di ottobre,
un anno e mezzo prima, sfruttando l’unica telefonata cui aveva
diritto quella settimana (tre minuti, non uno di più, ogni sette
giorni). Il messaggio che mi lasciò fu conciso: «Non c’è motivo
di discutere». Nient’altro.
«Non c’è motivo di discutere per quella troia», mi aveva detto
qualche giorno prima in ospedale, quando alla fine avevo trovato
il coraggio di confessargli (anzi di confermargli) la mia relazione
con Tania. Sembrava che si fosse preparato la frase per
pronunciarla proprio in quel momento.
«La nostra amicizia è più importante», disse con calma, «o
no?».
«Certo», gli risposi.
Lo disse tranquillo, con quella tranquillità che solo le alte
dosi di sedativo garantiscono. Mi avvicinò la bocca all’orecchio.

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«Non c’è motivo di discutere».
Gli infermieri lo presero per le spalle e lo tirarono indietro.
«Ti credo», gli dissi.
Schioccò la lingua.
«No, non mi credi».
Era vero: non gli credevo. Un medico entrò nella stanza per
annunciare che la visita era finita.
«Non c’è motivo di discutere», disse come un saluto.
Si ritirò (nella sua stanza? nella sua cella? dove?) seguito da
vicino dagli infermieri. Tornava alle sedute di elettroshock, alle
pareti imbottite, alle mattine di iniezioni e pasticche, alle
telefonate di tre minuti ogni centosessantotto ore, alle serate
senza Tania, al paesaggio contemplato dalle fessure, ai corridoi
illuminati ventiquattr’ore, a lottare da solo contro le tempeste
della sua follia.
L’altra chiamata di Gregorio che spiccava sull’agenda l’aveva
ricevuta mio fratello il ventidue febbraio alle quattro e diciassette
di pomeriggio. Gregorio non lasciò nessun messaggio, anche se
due ore dopo, con un colpo di pistola, ne mandò uno a tutti noi.
Strappai dall’agenda i fogli corrispondenti al primo ottobre e
al ventidue febbraio. Li piegai e li riposi in un taschino del
portafoglio.

Entrai in camera mia cercando di non far rumore. Mi spogliai


meccanicamente. Avevo ancora sul viso il ricordo della peluria
del pube di Rebeca, il suo profumo, il suo aroma. Lo allontanai.
Aveva preferito lasciarmi prima di perdermi. In quel momento
mi sembrava insensato. Adesso capisco che non è così.
Mi lavai i denti, mi asciugai il viso e mi rasai. Quando uscii
dal bagno trovai mio padre seduto sul mio letto.
«Com’è andata?», mi domandò.
«Bene».
«Potevi dircelo, dove andavi».
«Non lo sapevo, ho girato a caso».
Con la mano mi invitò a sedermi accanto a lui.
«Ha chiamato la madre di Tania».

87
«E…?».
«Hanno scoperto dov’è».
Mi dispiacque che l’avessero trovata prima di me.
«Dorme da due giorni a casa di un’amica sua, Mónica Abín.
La conosci?».
«Sì».
«I suoi la vanno a prendere domani mattina alle otto e
mezza».
Guardò la sveglia e sorrise.
«Tra tre ore», disse.
Sorrisi anch’io. Era quasi l’alba, ormai.
«Come sta?».
«Bene, immagino».
Si alzò in piedi e con la punta dell’indice destro disegnò un
ovale sulla mia fronte. Faceva sempre così quan​d’ero bambino e
mi svegliavo con gli incubi.
«Pensi di andare a trovarla?».
Non gli risposi.
«Mettiti a dormire, che è tardi», ordinò.
Si avviò verso la porta e si fermò sulla soglia.
«Spengo la luce?».
Annuii.
«Buonanotte», disse.
La stanza rimase al buio. Sentii i suoi passi che
attraversavano il corridoio. Mi nascosi sotto le coperte e piansi.

Mi svegliò il rumore di un’automobile. Sul momento non


riuscii a capire se fosse mattina o pomeriggio. Mi stropicciai gli
occhi e mi alzai. La sveglia segnava le cinque e venti. Avevo
dormito quasi dodici ore, di cui le prime tre agitatissime. Due o
tre volte m’ero svegliato tremando: avevo sentito ancora le
esalazioni della bestia oscura. Di nuovo prossime, spettrali,
furiose.
Ciononostante mi svegliai rilassato. L’ultimo sogno era stato
piacevole. Gregorio e io avevamo ancora tredici anni. Vedevamo
Tania che giocava a pallavolo sul campo al centro dell’edificio

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scolastico. Lei e le sue amiche erano appena delle ragazzine.
Controllavano a fatica il pallone e se lo passavano da sopra la
rete. Alarid, il professore di educazione fisica, attirava la loro
attenzione con il fischietto e da lontano ne correggeva la tecnica.
Tania rideva, divertita. Sapeva che la stavamo guardando, e che
spiccava sulle altre, come sempre.
Finita la partita, il pubblico intorno al campo cominciò a
disperdersi. Vidi passarmi davanti alcuni compagni e compagne
delle medie a cui avevo voluto molto bene e di cui non avevo più
saputo niente: Nayeli Osio, a cui volevo bene come a una sorella,
Denisse Cooley, Sonia Aranda, Rafael Hernández, James Zapata,
Joel, Carlos, Gorge, Rosa, Silva, Mónica Márquez, Giselle, Gina,
Ada, Rosa María Butchfield, Gaby Ricoy. Ero felice di vederli.
Volevo domandargli come stavano, che ne era stato di loro, ma
non avevo il coraggio di parlargli. Nemmeno Gregorio.
Camminavano tutti presi da se stessi. Solo Tania ci guardava.

Mi alzai per cercare la fotografia della mia classe delle medie.


La trovai sperduta in un angolo del cassetto, sotto a scarpini da
calcio e guanti da box. Ci soffiai sopra per togliere la polvere.
C’eravamo tutti. Dentro altri corpi, altri visi, altri gesti. Tania era
seduta al centro, in prima fila, con le maniche della felpa
arrotolate, che guardava il fotografo, non la macchina fotografica.
Dietro, in alto, Gregorio guardava senza guardare, come estraneo
a tutto. Io ero in piedi accanto a lui, con il pugno destro stretto, il
ciuffo sugli occhi, senza sorridere.
Lo sapeva, il resto del gruppo, che Gregorio era morto? Lo
sapeva Mónica Márquez, che una volta gli aveva dato uno
schiaffo? E Carlos Samaniego, che gli aveva offerto un ghiacciolo
al limone che per timidezza Gregorio non aveva accettato? E
Vera, che gli passava gli appunti di matematica? E Luis García
Kobeh, che l’aveva invitato ad andare in vacanza un fine
settimana a Valle de Bravo? Lo sapevano? Gliene importava
qualcosa?
Molti di loro, alla fine, avevano avuto paura di lui. Gli altri ne
erano stati sedotti. I più erano rimasti confusi. Gregorio, alle

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medie, non aveva mostrato indizi di quanto sarebbe successo
dopo. Nessuno, nemmeno io, aveva potuto prevederlo. Chi poteva
immaginare che quel ragazzo così chiuso si sarebbe spinto tanto
presto al limite? Chi poteva capire cosa lo avrebbe spinto verso
quel mondo a parte? Chi?
Aprii le tende. La sera era chiara, con un sole splendente,
anche se dal nord si avvicinava una massa di nubi grigie. “Cumuli
congesti” con tendenza a formare “cumulonembi”. Temporale in
vista, stando a certe spiegazioni in classe di Jaime A. Bastos, il
mio professore di geografia – e uno dei pochi veri maestri che ho
mai avuto – che alternava citazioni di Shakespeare con metodi –
tanto scientifici quanto intuitivi – per prevedere la pioggia.
Mia madre aveva fatto passare sotto la porta un foglio con le
telefonate per me. Margarita mi aveva cercato due volte per dirmi
di chiamarla il prima possibile. Aveva telefonato anche il dottor
Macías. Aveva lasciato di nuovo tutti i numeri di telefono a cui
potevo trovarlo.

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«Insorgenza psicotica» fu la definizione che diede in prima
istanza il dottor Macías riguardo al repentino cambiamento di
personalità di Gregorio. Auspicò un miglioramento a medio
termine e chiese a familiari e amici appoggio e pazienza. Disse
che la vita di Gregorio avrebbe oscillato tra periodi di normalità e
occasionali ricadute, anche se non specificò ai genitori né la
durata né la gravità di queste ultime. Semplicemente non gli
spiegò a cosa andavano incontro.
Quando i giorni “sani” di Gregorio cominciarono a farsi
sempre più rari, Macías cercò di mascherare la pazzia progressiva
e incontenibile con termini psichiatrici ambigui: schizofrenia,
stati paranoici, crisi maniaco-depressive, bla, bla, bla. A ogni
incontro con i genitori esponeva una nuova tesi, confondendoli e
avvilendoli sempre di più.

Quattro mesi prima del suicidio, Macías e la sua équipe di


medici sostennero che Gregorio si stava avviando verso una
guarigione completa e che presto sarebbe potuto tornare a una
vita normale. Gradualmente ridussero i periodi di isolamento, il
dosaggio degli psicofarmaci e le misure correttive. Fino a
liberarlo. Non si resero conto che Gregorio aveva imparato a
simulare i sintomi di miglioramento che venivano premiati dagli
psichiatri: il sorriso facile e affettuoso, la chiacchiera fluente, i
gesti misurati, lo sguardo attento, l’atteggiamento rilassato.
Anche se dentro era sgretolato, seppe proiettare all’esterno i suoi
trucchi da camaleonte e – strano ma vero – li ingannò.
Lo fecero uscire malgrado l’opposizione di sua madre, che

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aveva capito che il cambiamento del figlio era fittizio. Gli
psichiatri insistettero: i progressi erano reali e consistenti.
Assicurarono, inoltre, una supervisione continua e ravvicinata.
«Non si preoccupi», concluse Macías, «suo figlio è sulla buona
strada».
Così Gregorio si liberò dei corridoi dell’ospedale illuminati
giorno e notte, degli infermieri che lo riducevano brutalmente alla
sottomissione, dei farmaci che lo abbrutivano. Fu libero di
scaricarsi addosso tutta la sua furia di re Mida distruttore.
E vinse vincendo su se stesso.

Uscii dalla stanza e non trovai i miei genitori. Mi avevano


lasciato un biglietto per dirmi che erano andati al supermercato e
che tornavano all’ora di cena.
Tirai fuori dal cassetto la scatola di Gregorio. Cominciai ad
agitarmi: esaminarne il contenuto presupponeva un impegno
troppo grande. Significava affrontare la cronaca degli ultimi
momenti della sua follia e – forse – sviscerare i motivi che
l’avevano spinto ad ammazzarsi nel bagno della sua camera
proprio il ventidue febbraio alle sei e diciassette del pomeriggio.
Ovviamente Gregorio aveva previsto che Margarita non
avrebbe avuto il coraggio di aprire la scatola. Gliel’aveva
consegnata perché la consegnasse a qualcun altro. Lei era anche
andata alla posta per spedirla a qualcuno. Immagino a Tania, o a
me.
Aprii la scatola. Sopra al resto c’era la busta con le
fotografie. Erano ventidue, di quelle fatte con la macchinetta
istantanea. A colori. Alcune sfocate, altre sovresposte. Tutte
recenti. Gregorio era insieme ad alcuni infermieri e a medici nei
giardini e nel patio dell’ospedale psichiatrico. Le facce erano
perlopiù sorridenti e probabilmente festeggiavano l’uscita
definitiva di Gregorio da quel posto.
Mi colpì il fatto che in dodici foto Gregorio fosse accanto a
un altro paziente che indossava una vestaglia azzurra. Un uomo
vicino alla trentina, che non conoscevo. Aveva i capelli rossi,
lunghi e ricci, era alto, robusto e con lo sguardo dolce. Erano

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abbracciati come se tra loro ci fosse stata una grande amicizia.

Posai le fotografie. Nella scatola c’erano i quattro pacchetti,


ognuno legato con un nastro di colore diverso: verde, azzurro,
rosso e nero. La scelta delle fascette non era ca​sua​le. Doveva
esserci un’intenzione, un ordine premeditato. Quale aprire per
primo?
Sicuramente il nastro nero non faceva riferimento alla morte,
né il rosso al sangue. No, Gregorio non usava simboli così banali.
I pacchetti con il contenuto più minaccioso dovevano essere
quelli in verde, perché era un colore neutro, o in azzurro, perché
rappresentava l’alito del bufalo della notte (non era un caso se
Gregorio aveva insistito perché ci tatuassero con il colore
azzurro).
I miei sospetti mi sembrarono fantasiosi e paranoici. Che
senso aveva attribuire a Gregorio delle macchinazioni post
mortem? Pensai di nuovo di chiudere la scatola e di buttarla nel
secchio. E poi, perché farmi incastrare in quel gioco con un
avversario letteralmente ridotto in cenere? Ma se davvero la
scatola rappresentava una sfida?
Tania non si era sbagliata: Gregorio non era ancora morto del
tutto.

Cominciai dal pacchetto con il nastro nero. In cima c’era un


tovagliolo piegato. Lo sciolsi e lo aprii sul letto. Sopra c’erano
scritte due frasi di una stupida canzone alla moda: «Vicino a te
tutto è nuovo / è come stare al centro del fuoco».
Non le aveva scritte Gregorio. Non sembrava nemmeno la
grafia di una donna. Era piuttosto una scrittura indefinita, senza
personalità.
Seguiva un foglio a quadretti strappato da un libro contabile.
Anche lì c’erano dei versi di una canzone, copiati con la stessa
grafia mediocre: «Ti sento nel mio cuore / sangue ardente, / lento
fluire / del tuo amore infinito».
Poi trovai molti altri fogli finché non mi imbattei in un
ritratto ovale, tipo foto tessera, in bianco e nero, di quelli che si

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usano di solito per i documenti ufficiali. Anche se aveva un viso
delicato e da adolescente, riconobbi facilmente il tipo dai capelli
rossi che era con Gregorio nelle altre fotografie.
Dietro al ritratto c’erano scritti – con gli stessi tratti
grossolani – un nome e una data: Jacinto Anaya, diciassette
giugno millenovecentottanta.
Tutto faceva pensare che fosse stato lui a scrivere quelle frasi
sdolcinate su amori perduti, riconciliazioni idilliache, baci sulla
spiaggia. Perché Gregorio le aveva conservate? Scartai la
possibilità di un legame omosessuale. Gregorio era omofobo. E
allora?

In totale contai diciassette foglietti con cento frasi trascritte.


Per un’ora e mezzo continuai a sistemarli, cercando di risolvere
un eventuale crucigramma. Niente: le frasi non combaciavano le
une con le altre. Separai le parole e cercai di ricomporle in cerca
di un intreccio più coerente. Niente, neanche così.
Alla fine mi venne il mal di testa senza che fossi riuscito a
chiarire nessuna delle allegorie occulte contenute in quelle frasi
idiote. Chiamai Margarita per domandarle se sapeva cosa
significavano. A casa sua non rispose nessuno.
Arrivarono i miei e qualche minuto dopo mia madre bussò
alla porta. Avevano comprato il pane dolce e mi invitava a cenare
con loro.
Ci sedemmo in sala da pranzo. Mio padre e io ai due capi.
Mia madre al centro. C’erano molti tipi di pane: rombi, cornetti,
conchiglie. Non c’era il mio preferito: il polvorón. Mia madre si
scusò dicendo che non sapevano se avrei mangiato con loro.
Rimpiansi le serate in cui me lo compravano senza chiedersi se
avrei cenato o no con loro.
Mio padre parlò di alcuni problemi che aveva sul lavoro. Era
esasperato da una collega, grassa e brutta, che aveva la mania di
costruire la sua vita rubando pezzi delle vite degli altri. Si sedeva
davanti alla sua scrivania a sindacare sulle conversazioni altrui, a
registrare chi entrava o usciva da questo o quell’ufficio, a
immaginare tresche dove non c’erano. Mia madre osservò che non

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c’era di che preoccuparsi. «Di donne così è pieno il mondo»,
disse, «fanno quasi parte dell’arredamento». Scoppiammo a
ridere e restammo in silenzio.
Dalla casa a fianco giunse della musica a tutto volume. Mio
padre si lamentò. Ogni fine settimana la stessa cosa. Musica e
baccano che non lo facevano dormire. La colpevole era Vanessa,
la figlia dei vicini, una ragazza che ogni sabato invitava gli amici.
In altre circostanze mi sarei lamentato come mio padre, ma
quella volta rimasi in silenzio per ascoltare le parole di una
canzone che stavano suonando proprio in quel momento. Non
riconobbi nessuna delle frasi trascritte da Jacinto Anaya.
Mio padre batté col pugno sulla parete. Faceva parte del
rituale di ogni sabato. La ragazzina abbassò il volume della
musica ma dopo dieci minuti l’aveva già alzato di nuovo.
«Quando imparerà, questa ragazzina?», si lamentò mio padre.
«Quando avrà un fidanzato», rispose mia madre.
Era vero: a Vanessa mancava qualcuno che le sbottonasse la
camicetta e le accarezzasse i capezzoli sotto il reggiseno. Solo
così sarebbe stata in pace.

Squillò il telefono. Rispose mia madre e coprendo la cornetta


mi sussurrò che si trattava del dottor Macías. Le feci segno di
dirgli che non c’ero. Lei, sempre con dei segni, mi fece capire che
non l’avrebbe fatto. Irritato, presi il telefono.
Era proprio Macías, e non la sua segretaria, che aveva
chiamato. Con la sua voce acuta mi disse di andare a trovarlo.
«Questa settimana non posso, ho gli esami», gli spiegai. «È una
questione urgente», insistette. Decidemmo che sarei andato a
trovarlo lunedì, alle sei del pomeriggio, al suo studio.
«Capisco che non hai voglia di venire in ospedale», disse con
il suo tono paterno e pedante, supponendo che l’ospedale mi
riportasse alla mente dei ricordi dolorosi. In realtà dissi che
preferivo lo studio solo perché era più vicino a casa mia, anche se
non pensavo di andarci comunque.

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L’avevo visto in tre occasioni. La prima volta mi diede
appuntamento nel suo ufficio di vicedirettore dell’ospedale
psichiatrico. Dopo avermi fatto aspettare due ore mi fece entrare e
mi invitò a sedermi su una sedia rivestita di cuoio nero. Rimase
in piedi, mi guardò da sopra gli occhiali e in cinque minuti –
come una guida che recita il suo ritornello ai turisti – mi spiegò
che se volevamo aiutare Gregorio dovevamo prima di tutto aiutare
noi stessi. Mi assicurò che non sarebbe ricorso ad alcuna terapia
psicologica, «che uno qualsiasi dei nostri specialisti sarebbe lieto
di somministrarti a basso costo». Disse lo stesso anche a Joaquín,
a Margarita e a Tania.
La seconda volta ci incontrammo per caso in uno dei giardini
dell’ospedale. Passeggiammo insieme per un tratto e poi Macías
si fermò. Iniziò un discorso affabile che degenerò in una serie di
domande a raffica molto aggressive: come va con Gregorio? Come
tratta i suoi genitori? Che ti dice dell’ospedale? Come si sente?
Dal suo atteggiamento si capiva chiaramente che nella partita
a scacchi tra medico e paziente Gregorio stava avendo la meglio e
che Macías cercava affannosamente di raccogliere ogni possibile
informazione per riuscire ad affrontarlo.
Inventai gran parte delle mie risposte, sempre però cercando
di dargli un aspetto verosimile. Ogni volta, Ma​cías annuiva con
aria grave. «Ora capisco», «naturalmente», «sì, lo immaginavo».
La sua ultima domanda riguardò la ricorrente ossessione di
Gregorio per le forbicine. Solo a quella risposi con sincerità e fu
l’unica a cui Macías non credette.
La terza e ultima volta in cui lo incontrai fu nel suo ufficio.
Mi ricevette con diffidenza. Mi considerava un alleato di
Gregorio, incline a sabotare il suo lavoro di psichiatra: qualcuno
da trattare con severità.
Mi fece una predica di mezz’ora sull’importanza di
collaborare con i medici alla riabilitazione del paziente. «Siete
voi, i suoi amici, che dovete appoggiarlo e controllarlo quando è
fuori dall’ospedale», disse esplicito. Varie volte sottolineò la
frase «dobbiamo ancorarlo» (frase che non suonerebbe male in
una ballata romantica: «Il nostro amore, dobbiamo ancorarlo,

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giorno e notte, dobbiamo ancorarlo»). Quando gli domandai a
cosa dovevamo ancorarlo, Macías mi scrutò con durezza: «C’è
poco da fare i furbi», disse tra i denti con un sorriso forzato.
Ogni volta che parlai con lui, cercai di occultare i resti del
bufalo azzurro. Non volevo che facesse altre domande.

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Alle medie proteggevo sempre Gregorio e mi prendevo cura di
lui. Siccome era timido e riservato, molti si divertivano a dargli
fastidio. Lui non si difendeva e si lasciava umiliare. Quei soprusi
mi mandavano fuori dai gangheri e in molte occasioni feci a botte
per difenderlo. Persi quasi tutte le volte. Perché Gregorio lo
sfottevano in molti, e se quei molti si mettevano insieme mi
facevano nero.
Gregorio prendeva buoni voti senza bisogno di studiare
troppo. Era un alunno stimato dai professori, anche se lo
conoscevano poco. «È invisibile», sentii dire una volta al
professore di matematica, «non si vede e non si sente. Mi accorgo
che esiste solo quando faccio l’appello».
Così trascorsero i tre anni delle medie e quasi tutto il primo
delle superiori. Fu negli ultimi mesi di quel periodo scolastico
che sopraggiunse il cambiamento, furioso e irreversibile. Tutto
cominciò durante una lezione di chimica, con una banalissima
domanda del professore: «Qual è l’acido contenuto nei
peperoncini, e che li rende tanto piccanti?». Dal fondo dell’aula
si sentì la risposta di Gregorio: «L’acido peperoncinico».
Qualcuno sghignaz​zò. Arrogante, Gregorio ripeté la sua battuta.
Il professore rimase a guardarlo, incredulo. Gregorio non si era
mai comportato così. Per rappresaglia, il professore gli abbassò
di due punti il voto sulla pagella mensile e scrisse una nota sul
temutissimo registro, quello che a fine giornata il bidello portava
sempre nell’ufficio del preside. Due note significavano
l’espulsione dell’alunno per tre giorni.
Alla fine della lezione, il professore lasciò il registro sulla

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scrivania, da dove nessun alunno poteva prenderlo se non
correndo il rischio di essere buttato fuori dalla scuola per una
settimana intera. Non appena il professore uscì, Gregorio strappò
il foglio con la nota e lo ridusse a pezzettini, che poi sparse come
confetti sui banchi. Agli altri quel gesto sembrò una pagliacciata,
il semplice sfogo di un moccioso.
La sera passai a trovarlo a casa sua, ancora stupito per
quell’atto di ribellione. Mi accolse felice, orgoglioso. Quan​​do gli
domandai perché l’avesse fatto, mi mostrò il dito medio della sua
mano sinistra. Sotto l’unghia si intravedeva una linea viola.
«Che ti è successo?», domandai.
Si avvicinò. A voce bassa mi fece promettere di mantenere il
segreto.
«Mi si è infilata dentro una forbicina».
Mi spiegò che la forbicina gli aveva attraversato le arterie del
corpo e passandoci dentro gliele aveva allargate.
«Adesso mi arriva più sangue al cervello», mi assicurò
entusiasta, «più ossigeno, più luce…».
Risi pensando che mi stesse prendendo in giro, ma da quel
giorno cambiò e non fu più lo stesso.
Tutto questo lo dissi anche al dottor Macías e lui non mi
credette.

Dopo cena salii in camera mia. Rimisi i pacchetti dentro la


scatola e la riposi nel cassetto. Basta con gli indovinelli, per quel
giorno.
Dalla finestra vidi una serie di lampi che annunciavano un
temporale. Il cielo era più scuro del solito. Si dice che le notti
diventano così nere prima di un terremoto.
Erano appena le nove e io non avevo né sonno né voglia di
uscire. Non che sbavassi per una serata davanti alla TV, a
guardare giochi a premi spagnoli o aggiornamenti di cronaca rosa,
ma non avevo altre idee per scongiurare la noia.
Mi venne voglia di telefonare a Tania ma mi trattenni. Aveva
bisogno di tempo – e di stare da sola – per curare a suo modo le
ferite. Non c’era bisogno di starle addosso. Sa​rebbe tornata:

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sarebbe tornata come sempre.
Accesi la radio e passai da una stazione all’altra cercando di
individuare alcune delle frasi annotate da Jacinto Anaya. Forse
ascoltando le canzoni per intero sarei riuscito a ricostruire il
senso di quello che Gregorio intendeva dire.

Cominciò a grandinare e spensi la radio. I tetti e i muri


rimbombavano. I vetri della finestra sembravano rompersi a ogni
impatto e i colpi delle palline di ghiaccio contro l’abbaino del
bagno provocavano un rumore sordo, esasperante. Guardai in
strada. Rapidamente il suolo si coprì di bianco. Le macchine
avanzavano con cautela e le tracce lasciate dalle ruote venivano
coperte subito da un nuovo strato di grandine. Alla mia sinistra,
in lontananza, vidi un vecchio che si acquattava sotto la siepe di
un cortile incolto in cerca di riparo.
Per alcuni istanti l’energia elettrica sembrò mancare. I
lampioni scintillarono debolmente e la luce della stanza assunse
un colore ambrato. Era una luce simile a quella della piccola
lampada che mia madre lasciava accesa di notte quando Luis e io
eravamo bambini. Una luce calda, avvolgente, che mi fece sentire
bene.
Smise di grandinare e rimase una pioggia fina, silenziosa. Si
sentivano solo i rami degli alberi che grattavano contro le pareti
spinti dal vento.
Dopo vari minuti il voltaggio si normalizzò e si dissipò la
luce della mia infanzia. Poco dopo mia madre bussò alla porta
per avvisarmi che Margarita mi voleva al telefono. Alzai la
cornetta nella mia stanza e risposi.
«Pronto».
Margarita non rispose, sembrava distratta.
«Pronto?», ripetei.
«Perché non mi hai chiamato prima?», protestò senza
preamboli.
Anche se il suo rimprovero mi infastidì, cercai di
giustificarmi.
«Ho provato due volte, ma non…».

100
M’interruppe subito.
«Sono tre ore che Tania è parcheggiata sotto casa mia».
«Che?».
Margarita continuò senza far caso alla mia domanda.
«È stata tutto il tempo chiusa in macchina. Anche ieri ha fatto
così».
«Sei sicura?».
«La sto vedendo adesso dalla mia finestra».
Ne fui molto turbato. Pensavo che Tania fosse a casa sua,
tranquilla, insieme ai suoi genitori. Margarita mi spiegò che era
uscita due volte nel tentativo di parlarci, ma Tania era scappata
via per poi tornare venti o trenta minuti dopo.
«Non ha fatto altro che starsene lì seduta, a guardare dal
finestrino», aggiunse.
Decisi di andare da lei. Mi vestii in fretta, mi misi un
giaccone e chiesi a mio padre di prestarmi la sua macchina. Mi
consegnò le chiavi senza fare domande.

Guidai a tutta velocità. La pioggerellina ancora non aveva


smesso. Mucchi di grandine s’erano accumulati sul margine dei
marciapiedi. Le strade erano sporche di fango, rami e foglie
morte. All’incrocio tra Barranca del Muerto e Periférico si formò
un imbottigliamento. Lo superai percorrendo un tratto sul
marciapiede sotto lo sguardo indolente dei vigili urbani.
Arrivai e mi fermai a mezzo isolato di distanza da casa di
Gregorio. Era meglio avvicinarmi a piedi, con cautela, perché
Tania non se ne andasse vedendomi giungere.
La trovai con la testa appoggiata sul volante. I capelli le
cadevano da un lato, coprendole il viso. Con una moneta bussai
sul finestrino. Si voltò lentamente e mi guardò attraverso il vetro
appannato. Pensai che se ne sarebbe andata. Invece abbassò il
finestrino di qualche centimetro e tirò fuori due dita. Gliele presi
con la mano.
«Sei freddo, sali», disse.
Azionò il dispositivo per togliere le sicure e feci il giro della
macchina. Controluce notai la silhouette di Margarita che spiava

101
dalla finestra. Con un leggero movimento della testa le feci capire
che era tutto a posto.
Aprii lo sportello ed entrai. All’interno dell’auto l’ambiente
era tiepido, confortevole. Si sentiva un leggero odore di sigaretta.
Tania allungò il braccio e spinse il lettore CD. Poi mise la mano
sul sedile, la aprì e gliela presi.
Mi guardò negli occhi. Era stanca, ma presente a se stessa.
Non sembrava che avesse pianto.
«Come hai fatto a sapere che ero qui?».
«Era l’unico posto dove non ti avevo cercata», risposi con
finta ironia.
Mi strinse la mano e fece un respiro profondo.
«Anch’io ti ho cercato», disse.
L’avvicinai a me e l’abbracciai. Docilmente si abbandonò sul
mio petto. Le baciai la nuca.
«E che ci fai qui?», le chiesi.
«Aspettavo che arrivassi».
Alzò il viso e mi baciò sulla bocca. Un’automobile imboccò
la strada e ci illuminò in pieno. Tania si staccò da me e osservò la
macchina che si allontanava.
«È la terza in un’ora», disse sorridendo.
Mi baciò ancora. Non erano baci nervosi, ma dolci, rilassati.
«Ti ho cacciato via», disse e mi strinse a sé.
Nel farlo le si alzò la maglia scoprendole un poco la vita.
L’accarezzai con l’indice destro. Rabbrividì.
«Sei gelato», disse.
Le tolsi la maglia e le misi una mano sul ventre. Lei si
lamentò dolcemente. Ne sentii il respiro regolare, i battiti del
cuore, la pelle calda che si raffreddava al contatto con la mia.
«Sei gelato, Manuel, togli la mano».
Le schiacciai il ventre. Lei contrasse lo stomaco.
«Toglila», mormorò.
Feci scendere la mano e bruscamente gliela infilai nei
pantaloni. Con la punta delle dita le accarezzai i peli del pube.
Tania si tirò su e mi guardò di nuovo negli occhi.
«Per favore, Manuel. Toglila».

102
Sfilai la mano. Sulle dita mi restarono le tracce del suo calore
e le pulsazioni del suo corpo. Le si inumidirono gli occhi, ma
continuò a guardarmi decisa.
«Dov’eri finita?», le domandai.
Non rispose. Corrugò leggermente le labbra.
«Dove?», ripetei.
Con il dorso della mano mi accarezzò la guancia e poi il
ponte del naso. Lentamente mi feci indietro. La sua mano restò
sospesa nell’aria. Girò il viso e guardò davanti a sé. Il vetro del
parabrezza era pieno di gocce di pioggia. Tania azionò i
tergicristalli a mezza velocità e con gli occhi si mise a seguire il
via vai delle spazzole sul vetro.
Girai la chiave e la tolsi dal cruscotto. I tergicristalli rimasero
bloccati a metà del parabrezza.
«Puoi anche rispondermi».
Tania abbassò la testa e sospirò.
«Sono andata in giro».
«A fare cosa?».
«Non lo so».
Restammo in silenzio, pensierosi. Il nostro respiro appannò
ulteriormente i vetri. Si sentirono i passi di qualcuno che correva
sul marciapiede, ma non riuscimmo a vedere chi fosse. Tania
allungò il braccio sinistro e mi mostrò l’orologio che aveva al
polso: segnava le dieci e mezza. Era un orologio che Gregorio le
aveva regalato per un Natale.
«Devo andare», disse. «È tardi e ho promesso ai miei che
sarei tornata prima delle dieci e mezza».
«Prima scompari per giorni e poi ti preoccupi di tornare alle
dieci e mezza. Chiamali e digli che rientri più tardi».
«Non posso».
«L’hai fatto per due notti di seguito, non vedo perché non
puoi farlo stasera».
Insistetti, ma continuò a rifiutare. Non volle nemmeno che la
seguissi a casa. Le restituii le chiavi della macchina.
«Sei sicura?».
Annuì. Aprii lo sportello.

103
«Lo sai?», domandò prima che scendessi dall’auto. Era il
nostro modo di salutarci. La domanda significava: “Lo sai quanto
ti amo, vero?”. Avrei dovuto risponderle: «Sì, lo so», con
sicurezza, come avevo fatto sempre, notte dopo notte.
«Non lo so», risposi. Mi dispiaceva dirlo, ma non lo sapevo
davvero.
Mi guardò negli occhi (il suo sguardo, sempre il suo
sguardo).
«Dovresti saperlo», disse, «perché ti amo più che mai».
«Nascondendoti?».
Si morse le labbra, infilò le dita sotto il polsino della mia
camicia e mi accarezzò il polso.
«Sì, nascondendomi».
Cercai di scendere dall’auto ma lei mi fermò tenendomi per il
gomito.
«Mi sto bagnando», dissi.
Gli occhi le si inumidirono di nuovo.
«Mi sto nascondendo da me stessa, non da te», sussurrò. Mi
sfiorò le labbra con un bacio e si ritrasse.
«Ci vediamo domani», dissi.
Partì e la sua macchina scomparve nella notte piovosa.

104
Mi fermai sotto la finestra della camera di Margarita e tirai
qualche sassolino contro il vetro. Lei aprì la finestra e si affacciò.
«Vuoi entrare?», domandò.
Feci segno di no con la testa.
«Allora?».
«Scendi».
Mi guardò perplessa. Avevo detto «scendi» con lo stesso tono
furtivo di una volta.
«Scendi», ripetei.
Margarita mi scrutò indecisa.
«Aspettami», disse.
Tornai alla macchina e la parcheggiai sul marciapiede davanti
casa sua. Durante i nostri precedenti incontri clandestini
Margarita di solito passava da una porta che dava sul giardino,
ma quella volta uscì dalla porta principale.
Uscì vestita con dei pantaloncini grigi attillati, protetta da un
ombrello rosso. Il suo corpo irregolare si delineava sotto la tela di
cotone: fianchi larghi, natiche piatte, gambe lunghe, seni grandi.
Un corpo che mi è sempre piaciuto, perché al riparo da ogni
perfezione.
Suonai il clacson e Margarita corse verso l’auto.
«Che è successo?», domandò.
«Niente».
Aprì la portiera e sgrullò l’ombrello.
«Dove andiamo?», domandò.
Alzai le spalle.

105
«Non lo so».
«Bene», sospirò.
Vagammo senza meta per la città. Le raccontai molto
schiettamente del mio incontro con Tania. Mi ascoltò taciturna,
senza interrompermi. Alla fine restammo in silenzio e non
parlammo per tutto il resto del viaggio.
Per quanto ci fossimo ripromessi che non saremmo più andati
a letto insieme, quella notte finimmo davanti all’ingresso di un
motel lungo la strada provinciale per Toluca. Quando l’uomo che
ci accompagnò alla stanza ci disse quant’era, dovemmo tornare
indietro. Nessuno dei due aveva abbastanza denaro.
Pensai di portarla all’803 ma non ne ebbi il coraggio. Mi
sentii addirittura in colpa. Era quasi come violare il mio letto
coniugale, il mio spazio più privato.
Continuammo a girare in macchina senza sapere dove andare.
Eravamo eccitati: lei cominciò a leccarmi l’orecchio e io a
palpeggiarle le cosce. Mi fermai a una farmacia per comprare i
preservativi. Avevo giusto il denaro per pagarli.
Mi diressi verso uno di quei quartieri semideserti dove
andavo una volta con Tania e ci fermammo in una strada solitaria
e oscura. Ci baciammo in fretta. Mi misi il preservativo e lei si
abbassò i pantaloncini fino alle ginocchia senza toglierseli. Si
voltò dandomi le spalle e cercai di penetrarla. Non ci riuscii. Lei
si alzò tenendosi al cruscotto perché potessi metterglielo più
facilmente ma scivolò cadendomi di colpo sulle cosce. Disperato,
le dissi di togliersi i vestiti. Si spogliò frettolosamente. Le leccai
i seni e il ventre. La feci sedere a cavalcioni sulle mie gambe e la
sollevai prendendola da sotto le ascelle. Cominciavamo a sudare.
Lei proiettò il pube in avanti e quando fui sul punto di penetrarla
ci fermammo entrambi. Ci guardammo l’un l’altra. Lei si abbassò
respirando agitata e rimase inginocchiata sul sedile. Si chinò, mi
prese il pisello con la mano destra, gli tolse il preservativo e lo
succhiò delicatamente per qualche secondo. Poi lo baciò come
per salutarlo, si alzò e si rimise a sedere. Non accennò a
rivestirsi. Rimase seduta con le gambe aperte, a pensare. Poggiò i
gomiti sullo schienale e cominciò a massaggiarsi la fronte

106
disegnando dei cerchi con le dita. La sua nudità mi commosse.
Reclinai la nuca e le accarezzai la spalla. Avrei voluto chiederle
scusa, anche se non avevo nessun motivo di farlo.
Il custode di uno scuro palazzo in costruzione uscì in strada
avvolto in un impermeabile grigio. Scrutò da lontano la nostra
macchina. Margarita non cercò di coprirsi. Si limitò a girare il
busto e a piegarsi contro lo schienale.
Il custode rientrò nell’edificio. Margarita si sedette di nuovo
con le gambe aperte.
«Vuoi che ci riproviamo?», domandò.
«No».
La quarta o la quinta volta in cui l’avevamo fatto era accaduta
in condizioni analoghe: in un’automobile che mi avevano
prestato, parcheggiati accanto a un polveroso campo di calcio, in
un caldissimo mattino di aprile. Quella volta ci separammo
perché stanchi dei gemiti gratuiti, dell’odore di chiuso, dei vestiti
macchiati dalle nostre secrezioni e, soprattutto, per la violenta
assenza di parole dopo i nostri orgasmi.
Quel sabato piovoso, malgrado la desiderassi più che mai,
preferii averla nuda al mio fianco, serenamente. La volevo più
come amica che come amante. Mi era difficile toccarla,
accarezzarla. Meno di otto giorni prima avevo visto Gregorio per
l’ultima volta e ancora mi ribolliva dentro il ricordo delle sue
parole e del suo ultimo abbraccio. Abbraccio che si prolungava
nello sguardo e nei gesti di Margarita.
Contemplai i suoi seni, appena visibili al buio. Avevano
abbandonato tutto il loro orgoglio per ricadere inani sulle pieghe
del ventre. Adesso erano dei seni placidi, quasi materni. Materni:
spesso Margarita vegliava su di me. Era stata lei a fare in modo
che la mia relazione con Tania continuasse. Ci aveva aiutato a
organizzare i nostri incontri, a inventare delle scuse, a trovare
degli alibi, senza preoccuparsi del fatto che la vittima dei nostri
inganni fosse proprio suo fratello.
Giungemmo ad essere così vicini, così complici, che una sera,
senza averlo previsto, ci ritrovammo nel suo letto, mentre sua
madre schiacciava un pisolino nella stanza accanto e Gregorio

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scontava il secondo dei suoi ricoveri. Fu una scopata lampo,
inspiegabile, che decidemmo di ripetere non appena ci si fosse
presentata l’opportunità.
Inganno dopo inganno dopo inganno.
Margarita era una donna dall’orgasmo facile, che non aveva
bisogno di carezze e di coccole, né di frasi sdolcinate. Era
semplice e carnale, disposta a offrire il suo corpo senza remore,
senza addossare colpe.
Tenne segreta la nostra relazione. Seppe tacere ed essere
discreta. Riuscì a star zitta anche quando trovò Gregorio e me
distesi sul pavimento della cucina di casa loro. Lui con il petto
graffiato. Io con un taglio alla coscia. E tutti e due con i coltelli
ancora caldi in mano.
Entrò e rimase attonita senza riuscire a decifrare quel mosaico
di sangue e vetri rotti che trovò sparso sul pavimento. Non perse
la calma, non gridò. Si limitò a chiedere per telefono
un’ambulanza. Poi valutò chi dei due avesse bisogno di
un’assistenza medica più urgente. Decise in favore di Gregorio.
Lo aiutò ad alzarsi, lo fece uscire di casa barcollante e lo portò in
ospedale con la sua macchina.
L’ambulanza venne a prendermi qualche minuto dopo. Dissi
che avevo avuto un incidente sbattendo contro la portafinestra
della cucina. Gli infermieri mi soccorsero senza chiedere ulteriori
spiegazioni. Al pronto soccorso mi ricucirono e rintracciarono i
miei genitori. A loro non rivelai la causa delle mie lesioni.
Neanche Gregorio lo confessò ai suoi. E Margarita seppe star
zitta.

Margarita, nuda, seduta con le gambe aperte, taceva.


Cominciò a tremare per il freddo e si coprì con le braccia per
riscaldarsi. Mi chiese di accendere la radio. Suonavano La
Macarena e lei cominciò a muovere il corpo al ritmo della
canzone. I suoi seni placidi dondolarono. Li fermai con la mano
destra e ne palpai la rotondità. Lei se li prese tra le mani e li
sollevò.
«Quando avrò cinquant’anni mi arriveranno all’ombelico»,

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disse e scoppiò a ridere.
Mi abbeverai ai suoi seni finché all’improvviso non mi resi
conto che piangeva. Era la prima volta che la vedevo piangere.
Era un pianto rivolto più verso dentro che verso fuori. Cercai di
abbracciarla, ma mi respinse e si coprì il viso.
«Non guardarmi, cretino!».
Spensi la radio. Margarita si piegò sulle cosce. La sua schiena
nuda e pulita si agitava leggermente al sussulto di ogni
singhiozzo. Di nuovo cercai di consolarla e mi respinse.
Lasciai che si calmasse da sola. Scesi dalla macchina. Aveva
smesso di piovere. L’aria era fredda. In lontananza tremavano le
luci sulle falde dell’Ajusco.
Con discrezione, il custode spuntò da un lato dell’edificio e
camminò fino al centro della strada.
«Buonasera», gli dissi.
«Salve», farfugliò.
Mi diressi verso di lui. Rimase ad aspettarmi con aria torva e
le mani infilate nell’impermeabile, sicuramente impugnando un
revolver arrugginito.
«Fa un freddo boia, eh?», dissi cercando di attaccare
discorso.
Annuì senza guardarmi. Un cane uscì dall’edificio, mi annusò
e se ne andò a urinare su un palo lì vicino. In una delle stanze del
piano terra ardevano le ultime braci di un falò. Chiesi all’uomo
una sigaretta. Tirò fuori un pacchetto di sigarette economiche,
senza filtro, e me ne offrì una. Gli chiesi se aveva da accendere e
mi indicò il falò dentro casa. Con un tizzone accesi la sigaretta.
Aspirai e mi venne subito da tossire. Di solito non fumavo, ma
quella notte mi sembrò necessario per vincere il freddo.
Tornai verso il custode. Un pipistrello gridò sopra alle nostre
teste e si allontanò. Cercai di individuarlo nel buio. L’uomo
controllava ogni mio movimento, guardandomi di sbieco. Feci
ancora qualche passo e ci ritrovammo uno di fronte all’altro.
«Che cosa sta facendo?», domandò subito.
Indicai la macchina.
«Volevo stare un po’ con la mia ragazza».

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Mi scrutò con diffidenza.
«Nient’altro?».
«Nient’altro».
Senza dire altro tornò all’interno dell’edificio e si distese su
una branda vicino al fuoco. Il cane lo seguì e si sdraiò al suo
fianco. L’uomo si avvolse in una coperta e si voltò dandomi le
spalle.
Tornai alla macchina. Diedi tre tiri alla sigaretta e la gettai in
una pozzanghera. Margarita s’era già rivestita. Si vedeva che era
più tranquilla, anche se fragile. Mai prima di allora avevo sentito
il desiderio di proteggerla. Ora volevo difenderla a ogni costo,
soprattutto da me.
Mi sorrise con tristezza. La presi per la nuca, l’avvicinai al
mio viso e la baciai sulla bocca.
«Scusa», disse quando ci staccammo.
«Di che? Scusa di che?».
«Non lo so», mormorò.
Ripartimmo lasciandoci alle spalle il custode e il suo cane.
Smise di piovere e in cielo spuntò una mezzaluna brillante,
luminosa.
«La luna turca», annunciò Margarita.
«Luna dei Pesci», aggiunsi.
Margarita accese la radio. Nella canzone che suonavano in
quel momento riconobbi una delle frasi annotate da Jacinto
Anaya. Era una ballata molto sdolcinata. Margarita fece per
cambiare stazione.
«Lascia», ordinai.
Alzai il volume.
«Che fai?», domandò.
Le chiesi di star zitta. Finita la canzone le spiegai cosa avevo
trovato nella scatola. Mi ascoltò attentissima e mi accorsi che era
un po’ nervosa. Le domandai se ne sapeva qualcosa. «Non ho
proprio idea», rispose. Poi cambiò argomento.
Quando arrivammo a casa la interrogai di nuovo.
«Davvero non ne sai niente?».

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«No», rispose con fermezza.
La presi per un polso mentre scendeva dall’auto e la tirai di
nuovo dentro. La baciai sul collo e con foga le strinsi i seni. Lei
si liberò, mi prese il viso tra le mani e mi guardò a lungo negli
occhi.
«Che devo fare con te?», disse.
«Amarmi», risposi senza pensare.
«Davvero vuoi che ti ami?», domandò stupita.
Mi avvicinai per baciarla di nuovo. Lei mi mise un dito sul
mento e mi spinse indietro.
«Domandalo a Tania», disse.
«Di che parli?».
Indicò la radio.
«Delle frasi delle canzoni. Domanda a lei».
Non disse altro. Scese dall’auto senza salutarmi ed entrò in
casa.

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Esausto, presi la via del ritorno. Con malinconia ripensai ai
corpi nudi di Margarita e Rebeca, al colore della loro pelle, al
loro sapore. Mi addolorai al pensiero che le stavo perdendo.
Guidai piano osservando la gente, studiandola, come nelle
notti in cui Gregorio e io rastrellavamo le strade cercando
qualcuno con cui fare a botte. Lo facevamo per puro gusto, per
bisogno di violenza. Non volevamo approfittarcene, al contrario:
ci attraeva il rischio, la sorpresa, la possibilità di imbatterci in
qualcuno più forte di noi. Fu così che arrivammo a scontrarci con
cinque o sei tipi alla volta, per fare i duri, per dimostrare che
potevamo. Certo che potevamo: anche se quelli, poi, ci facevano
neri. Perché l’importante non era vincere, ma sentire i pugni, la
carne fracassata. La nostra e quella degli altri.
Più di una notte ci pestarono a sangue. Come quando
sottovalutammo un trio di polentoni che si rivelarono essere le
guardie del corpo di un noto sindacalista. Ci massacrarono a
suon di calci e testate. Finimmo lunghi sul marciapiede, con le
labbra spaccate e il naso pesto. Ma ci ammazzammo dal ridere.
Era tutto parte del gioco.
Un venerdì che passai da Gregorio lo trovai preoccupato,
teso, senza voglia di uscire. Insistetti a lungo e alla fine,
riluttante, accettò di fare un giro per il quartiere. A condizione
che ce ne stessimo tranquilli.
Dopo aver vagato per un’ora ci fermammo a un chioschetto
per comprare due Pepsi-Cola e ci sedemmo sul cofano della
macchina a berle. Gregorio era apatico e si limitava a masticare

112
monosillabi.
Cominciò ad annoiarmi. Lo lasciai da solo ed entrai nel
chiosco per comprare delle ciambelle. Mentre pagavo sentii un
colpo sordo dietro di me: Gregorio era caduto dal cofano e si
grattava disperatamente le braccia, disteso sul marciapiede.
Lo alzai di corsa tenendolo per il petto e lo misi in macchina.
Il padrone del chiosco si affacciò dal finestrino e chiese se
avevamo bisogno di aiuto. Gli risposi di no. Partii schiacciando a
fondo l’acceleratore.
Decisi di portarlo in una clinica convenzionata lì vicino.
Gregorio si contorceva sul sedile piagnucolando: «Mi mangiano,
mi mangiano!». Entrammo nel parcheggio della clinica e, mentre
mi dirigevo verso il pronto soccorso, Gregorio mi prese per il
braccio.
«Andiamocene di qui», mi ordinò col viso stravolto.
«Cazzo, ma che hai?», gli domandai con tono di rimprovero.
«Andiamocene», ripeté.
Invertii la direzione e uscimmo. Mi fermai qualche isolato più
avanti.
«Stai bene?», gli domandai.
Annuì. Era pallido in viso. L’anulare della mano sinistra gli
tremava leggermente.
«Che hai?», gli domandai.
In modo confuso, mi spiegò che le forbicine si riproducevano
a migliaia dentro di lui e cominciavano a divorargli le viscere.
Che di notte si svegliava e vedeva come un fiume di forbicine che
gli uscivano dalla bocca e dal naso e camminavano in mezzo alle
lenzuola. Appena si muoveva le forbicine ricominciavano ad
assalirlo, infilandosi nelle unghie, nel cuoio capelluto, nell’ano.
Confessò pure che quando si masturbava invece del seme
fuoriuscivano palle di colore marrone, grumi di insetti che
cadendo a terra si disperdevano e ricominciavano ad attaccarlo.
«Sento che mi masticano», disse, «anche adesso mi stanno
mangiando vivo, te lo giuro, mi mangiano vivo».

Lo riportai a casa. Mi chiese di fermarmi da lui e di stargli

113
vicino.
«Non ce la faccio, da solo contro di loro», disse, «non ce la
faccio».
Passai la notte con lui, ma nessuno dei due riuscì a dormire.
A mezzanotte si alzò dal letto. Si sedette sul bordo del materasso
e con serenità disse che l’unica maniera per liberarsi delle
forbicine era sdraiarsi accanto al cadavere ancora caldo di un
essere umano.
La sua proposta mi sembrò ridicola. Ma lui insisteva: «Non
ho altra scelta», disse.
Non tornammo più sull’argomento fino alla settimana dopo,
una notte che facevamo la nostra ronda.
«Dobbiamo ammazzare qualcuno», affermò deciso.
La sua teoria era semplice: doveva assassinare un uomo (una
donna non serviva allo scopo), squartarlo come una vacca e
sdraiarvisi accanto, in modo che l’aroma delle viscere ancora
fumanti attraesse tutte le forbicine che aveva dentro.
«Non ho altra scelta», ripeté.
Per dimostrarmi che parlava sul serio tirò fuori un coltello a
serramanico e lo fece scattare.
«Mi vuoi ammazzare?», dissi per scherzo.
«No», rispose seccamente.
«Perché non la smetti con queste stronzate?», gli dissi.
«Mettilo via».
Lui sorrise con sarcasmo.
«Hai paura?».
Non gli badai e continuai a guidare. Mi sembrò una delle sue
tante sparate, di cui non valeva la pena preoccuparsi. Di colpo,
mentre rallentavo per svoltare un angolo, Gregorio indicò un
ragazzino magro, al massimo quindicenne, che camminava
svagato sul marciapiede.
«Quello», gridò.
Gregorio saltò dalla macchina in movimento e corse verso di
lui. Prendendolo di sorpresa lo scaraventò contro un muro. Il
ragazzo cercò di girarsi ma Gregorio gli puntò il coltello alla
schiena.

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«Fermo, stronzo».
Bloccai la macchina in mezzo alla strada e li raggiunsi.
Gregorio ansimava, era fuori di sé.
«Calmati», gli dissi.
Mi guardò con disprezzo. Prese l’adolescente per i capelli, gli
mise il coltello alla gola e lo costrinse a inginocchiarsi.
Il ragazzo cominciò a piangere, implorandolo di non
ammazzarlo. Esasperato, Gregorio lo strattonò per farlo star zitto.
«Lascialo andare», gli chiesi.
Gregorio sorrise con una smorfia.
«Non ho altra scelta».
Non c’era nessuno in strada, a parte noi tre. Gli strilli del
ragazzino si sentivano benissimo. Gregorio gli spinse la lama
contro il collo e, quando ormai pensavo che stesse per colpirlo a
morte, tolse il coltello.
«È solo uno scherzo», disse guardandomi, «uno scherzetto».
Cominciò a ridere. Ordinò al ragazzo di alzarsi e quello
docilmente obbedì.
Gregorio lo guardò dritto negli occhi.
«Scappa», gli disse e lo baciò sulla fronte.
Il ragazzo scappò via di corsa per le stradine oscure.
«Era uno scherzo», ripeté Gregorio con un sussurro.

Sei mesi dopo quell’incidente, una notte, i suoi genitori lo


trovarono seduto in soggiorno con i piedi nudi che grondavano
sangue. Se l’era affettati con lo stesso coltello. Aveva pensato che
per la legge di gravità le forbicine sarebbero scivolate via con il
getto di sangue e finalmente si sarebbe liberato di loro.
Gregorio si recise vene e tendini, e il danno fu tale che ebbe
bisogno di molti interventi di chirurgia ricostruttiva. Non poté
camminare per due mesi e, prima che si ristabilisse del tutto, fu
trasferito all’ospedale psichiatrico, dove lo confinarono nel
padiglione destinato ai malati pericolosi, ai «pazzerelli veri»,
come li chiamava Gregorio.
«Ci sta lasciando», mormorò il padre, costernato, dopo che
l’avevo accompagnato a uno di quei brevissimi incontri che gli

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venivano concessi con il figlio.
L’aveva visto sotto l’effetto dei sedativi, mentre pronunciava
frasi senza senso, legato al letto con i piedi avvolti dentro a delle
bende, macchiate di tintura di genziana.
«Ci sta lasciando», ripeté e abbandonò la testa sul volante per
piangere nel modo che lui aveva sempre negato ai suoi figli. «Non
piangere», ingiungeva loro, «che sembri un finocchio». E quelli
inghiottivano le lacrime, senza fiatare. Adesso invece
singhiozzava disperato, senza pudore, e ripeteva: «Ci sta
lasciando… ci sta lasciando…».
E così fu. Gregorio ci lasciò, perdendosi giorno dopo giorno,
lentamente, inesorabilmente, nel territorio inaccessibile della
follia.
Tre giorni dopo che le ferite si erano rimarginate, Gregorio si
mutilò le due dita del piede destro e se le infilò in bocca, mentre
io, quella stessa notte, fornicavo con sua sorella sul tappeto del
salotto di casa loro.

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Arrivai a casa alle due del mattino. Chiudendo la porta del
garage scoprii che in un angolo c’era un gattino. Era bagnato e
tremava per il freddo. Mi avvicinai e mi soffiò, spaventato. Pensai
di prenderlo per asciugarlo e dargli da mangiare. Ma, appena
avvicinai la mano, reagì con una zampata e mi graffiò.
Indietreggiai e il gatto si rannicchiò, pronto ad attaccare di
nuovo. Battei tre volte le mani, con forza, per farlo uscire dal
garage. Fece un salto, scappò sotto alla macchina e si nascose
dentro al motore arrampicandosi sull’asse delle ruote anteriori.
Decisi di lasciarlo in pace ed entrai in casa. In conseguenza
del graffio un filo di sangue mi rimase sul dorso della mano. Mi
lavai e mi disinfettai. Era una precauzione che prendevo sempre
con le ferite causate dagli animali, dopo che mio cugino Roberto
Donneaud era stato beccato da un pappagallo e per poco non
aveva dovuto subire l’amputazione del pollice destro.
Sulla mia scrivania trovai un messaggio di mia madre: «Ti ha
chiamato Tania, ha detto che non dormiva a casa sua, che se vuoi
la puoi chiamare a casa di Laura Luna all’8-03-52-74».
L’8-03-52-74 era un numero di telefono inesistente, il codice
per dirmi che questa notte mi avrebbe aspettato all’803.
Mi chiesi se andare o meno. Morivo dalla voglia di stare con
lei, di baciarla, di fare l’amore, di ascoltarla e di farmi ascoltare.
Ma avevo anche paura di lei. Avevo paura di affrontarla, di non
sapere che dirle, di provocarla, paura che restassimo in silenzio,
che litigassimo, che ci umiliassimo: paura di perderla.
Ero esausto e dovetti fare una doccia con acqua gelata per
riprendermi. Mi vestii in fretta, scrissi un biglietto spiegando a

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mio padre che gli avrei riportato la macchina in serata e uscii.
Entrai al Motel Villalba. Nel fare il giro del parcheggio, vidi
che la tenda dell’803 era chiusa e mi fermai davanti alla
reception. Spensi il motore, scesi dall’auto e inserii l’allarme. Mi
guardai intorno. Nonostante fosse notte fonda, molte stanze
erano occupate. Il moro, circospetto, fece la sua apparizione in un
corridoio e mi sorprese a contare le stanze vuote.
«Salve», disse tra i denti.
Dal suo tono di voce mi accorsi che non mi aveva
riconosciuto.
«Come va?», gli dissi.
Mi scrutò il viso, illuminato dall’azzurro dell’insegna al
neon.
«Ha bisogno di qualcosa?», mi domandò tra il servile e il
torvo.
Sorrisi. Era impossibile che fosse così poco fisiono​mista.
«Non si ricorda di me?», domandai.
«No», rispose tagliente.
«Sono quello dell’803».
Mi guardò dubbioso e dopo qualche secondo annuì.
«Ma certo, adesso mi ricordo. Lei era quello che voleva
comprarmi la pistola».
«Esatto».
«Mi scusi ma vengono tanti clienti, e di notte… è un po’
difficile ricordarsi».
«Allora, me la vende o no?».
Il moro si grattò la base del cranio e fece segno di no con la
testa.
«Pensi che avevo parlato con un collega della sua proposta e
quel bastardo ha fatto la spia con il padrone e il padrone mi ha
tolto la pistola perché non mi venisse la tentazione di venderla».
Non gli credetti, ma rimpiangemmo entrambi di non esserci
accordati prima. Gli dissi di dare un’occhiata alla macchina e gli
chiesi in prestito la chiave dell’803. Si frugò nelle tasche e mi
consegnò una chiave.
«È l’originale», mi avvisò, «non se la perda».

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La presi e la strinsi nella mano.
«Non si preoccupi», dissi.
L’uomo tirò fuori una torcia e l’accese.
«Torno al lavoro», mormorò. Fece un mezzo giro e continuò
la ronda.

Nel garage c’era lo Jetta nero di Tania. Misi la mano sul


cofano. Era freddo: doveva essere arrivata da almeno due ore.
Entrai nella stanza. Tania dormiva nuda, coperta appena dalle
lenzuola. La illuminava la luce di un lampione che filtrava dalla
tenda. Rimasi un momento ad ammirarla in silenzio e mi sembrò
più bella che mai.
Mi spogliai e mi sdraiai accanto a lei. L’abbracciai da dietro e
lei, mezza addormentata, mi strinse forte un dito. Cominciai a
leccarle la nuca. Tania rabbrividì e le venne una leggera pelle
d’oca. Girò il busto e mi baciò sulla bocca. Abbassai le mani, la
presi per le natiche e l’avvicinai a me. Ci ritrovammo uniti, ventre
contro ventre. Ancora insonnolita, fece leva sulla gamba sinistra e
si mise a cavalcioni sulle mie cosce. Aprì gli occhi, mi guardò in
viso e mi accarezzò la fronte.
«Pensavo che non saresti più venuto», sussurrò.
La baciai sulle labbra.
«Scusa», le dissi.
Sorrise e mi poggiò i gomiti sul petto.
«No, scusami tu».
Facemmo l’amore, lentamente, senza parlare. Niente furie, né
acrobazie. Solo il lento ondulare dei nostri corpi.
Per la prima volta dopo molte settimane riuscimmo ad avere
un orgasmo simultaneo. Un orgasmo sereno, elementare, e alla
fine ci addormentammo mentre ero ancora dentro di lei.

Era quasi l’alba quando la vidi inginocchiata sul materasso,


che mi osservava.
«Che succede?», le domandai.
«Niente», rispose a bassa voce.
«Allora?».

119
Sorrise e alzò le spalle.
«Ti stavo solo guardando».
Mi alzai e la strinsi.
«Rimettiti giù», le dissi.
Si piegò e mi poggiò la fronte sul petto. Mi accorsi che
singhiozzava. La presi per il mento e le sollevai il viso.
«Che hai?».
Si spostò i capelli che le cadevano sugli occhi. Con
l’avambraccio si asciugò le lacrime.
«Mi ami?», domandò aggrottando le sopracciglia, come se si
sforzasse di non piangere.
«Tantissimo».
«Davvero?».
«Davvero».
Sembrò tranquillizzarsi. Pian piano abbandonò la testa e mi
si rannicchiò in grembo con il viso rivolto verso le mie gambe.
«E tu?», le domandai.
In segno di risposta, mi morsicò leggermente la coscia. Le
baciai la spalla e con la punta delle dita le tracciai una linea
lungo la colonna vertebrale. Tania fece un piccolo lamento e si
stiracchiò.
«No, per favore», mormorò.
Proseguii e scesi con il dito fino all’estremità del coccige.
«Fermati», mi supplicò.
Feci scivolare ancora le dita e cominciai a disegnarle dei
cerchi intorno all’ano.
«Manuel», sussurrò e mi morse di nuovo la coscia. Le
lubrificai l’ano con un po’ di secrezione vaginale e infilai dentro
il medio.
Lei iniziò a contorcersi avanti e indietro, ritmicamente,
facendo penetrare il mio dito ancora più a fondo. Poi il
movimento, da sinuoso che era, divenne sempre più veloce.
Quando sembrò essere sul punto di avere un orgasmo si fermò
all’improvviso e strinse i muscoli del perineo per immobilizzarmi
il dito.
«Mi sposi?», domandò.

120
«Non lo so», risposi ridendo. «C’è ancora tempo».
«Sì o no?».
Ci misi un po’ a rispondere. Lei rilassò i muscoli e si spostò
da una parte. Piegai il dito perché non scivolasse fuori ma lei
mosse i fianchi per farlo uscire. Mi sembrò più triste che
arrabbiata.
«Sì!», esclamai ad alta voce.
Tania mi guardò sconsolata.
«Sì», ripetei, «sì che ti sposo».
Si portò una mano al viso e scoppiò a ridere.
«Non farci caso», disse, «sono matta», e si coprì con un
cuscino.
Il riso le dava quasi le convulsioni. Le tolsi il cuscino e le
presi la testa tra le mani.
«Smettila di fare la scema».
Lei si calmò e sospirò.
«Non ti capisco», dissi e gettai per terra il cuscino.
Lei lo raccolse e se lo mise sulla pancia.
«Sono a pezzi», mormorò contrariata.
«Anch’io», dissi.
«Tu no», replicò con fermezza.
«E tu che ne sai?».
«Lo so e basta», mormorò.
Chiuse gli occhi, si raggomitolò sotto le coperte e mi chiese
di stringerla. Si addormentò mentre le accarezzavo le spalle.
Venne l’alba. Con delicatezza mi staccai da lei e mi avvicinai
alla finestra. Il giorno si annunciava chiaro, senza nuvole, senza
pioggia. Tania russava leggermente e mi voltai a guardarla.
Sembrava che sognasse, perché faceva dei rumorini schioccando
le labbra.
Mi sedetti vicino a lei. La osservai e la immaginai da vecchia.
Immaginai sul suo viso i segni degli anni: gli occhi affossati, la
bocca molle, i denti rovinati, la mandibola cadente. Ne immaginai
l’addome con le smagliature per via dei parti, le gambe
rinsecchite, gli avambracci avvizziti, i seni flosci.
Se mi fossi sposato con lei, di che avremmo parlato dopo

121
sessant’anni? Che ricordi avremmo avuto? Avrebbe ancora
dormito nuda accanto a me, così, senza pudore? Avremmo ancora
fatto l’amore, baciandoci con le nostre bocche sdentate? E chi di
noi sarebbe morto per primo?
Mi sdraiai accanto a lei, l’abbracciai di nuovo e a poco a
poco mi addormentai.
Mi svegliai a mezzogiorno. Faceva caldo e il sole colpiva in
pieno la stanza. Tania non era a letto. Mi alzai e sentii il rumore
della doccia. Entrai in bagno e mi sedetti sulla tavoletta del
cesso.
«Ciao», mi disse Tania sbirciando dalla tenda traslucida.
Sorrise e mi mandò un bacio.
Le chiesi di voltarsi verso il muro. Volevo fare la pipì e mi
vergognavo a farmi vedere. Obbedì senza cercare di spiarmi.
«Che vuoi per colazione?», domandai quand’ebbi finito.
«Il solito», rispose.
“Il solito” consisteva in un piatto di tamal2 e una tazza di
farina di cioccolato che compravamo tutti i sabati e le domeniche
mattina da una donna che aveva un chiosco all’angolo della
strada opposto al motel.
«È tardi», dissi, «mi sa che la signora se n’è andata».
Tania mi chiamò.
Mi avvicinai, sporse la testa dalla doccia e mi baciò sulla
bocca.
«Non sai quanto ti amo, stronzo».
Indietreggiai di un passo e la osservai. Si coprì il seno con le
braccia.
«Che ho?», mi domandò ridendo.
«Niente».
«Allora non mi guardare», disse e mi schizzò negli ​occhi.
La baciai di nuovo e uscii a prendere la colazione.
Il motel era vuoto: la domenica era il giorno in cui c’era meno
movimento. «Giorno di calcio, famiglia e castità», come diceva
Camariña. Salutai Pancho, che stava pulendo il posto macchina

122
dell’813.
«Ciao», gli gridai.
Pancho sollevò il mento, mi riconobbe, sorrise, alzò una
mano e si rimise a pulire.
Mi imbattei in Camariña. In mezzo al corridoio aveva
sistemato una sedia e un tavolo e seguiva la partita tra l’Atlante e
il Celaya da un televisore portatile.
«Come va?», domandò cordialmente.
«Niente di nuovo».
Si chinò verso di me e sussurrò con complicità:
«Hai fatto pace con la tua ragazza, vero?».
Annuii. Con gesto paterno, Camariña mi strinse
l’avambraccio.
«Mi fa piacere», disse.
Alla televisione il cronista cominciò a gridare per via di
un’azione pericolosa in area e Camariña tornò a guardare lo
schermo.
«Ci vediamo dopo», gli dissi e continuai per i fatti miei.
Il sole splendeva e l’aria era fredda e trasparente.
Attraversando la strada, schivai un minitaxi come un torero. Ero
contento, di buon umore.
Trovai la donna che stava smontando il chiosco. Feci appena
in tempo a comprarle due tamales rossi e due verdi. Erano finiti
quelli dolci, i preferiti di Tania, e non c’era nemmeno la farina di
cioccolata. La donna avvolse i tamales in un giornale e me li
consegnò. Mi bruciai la mano con l’acqua bollente che ancora
colava dalle foglie di granturco e li feci cadere in terra. La donna
scoppiò a ridere, si chinò a raccoglierli e li mise in una busta di
plastica.
«Tenga, giovanotto», disse con una sfumatura di scherno.
Tornai al motel. Quando passai davanti a Camariña mi fece
segno di avvicinarmi.
«Accompagnami», disse.
Spense il televisore ed entrammo nel suo ufficio. Mi invitò a
sedermi. Prese un sigaro, lo accese con un accendino di metallo e
si sedette dietro la sua scrivania. Appoggiò i gomiti e sporse il

123
viso verso di me, come chi vuol parlare d’affari.
«Ho saputo che volevi comprare la pistola a Pánfilo», disse
senza preamboli.
Il tono di voce era neutro e non lasciava intendere se l’offerta
fatta al suo impiegato l’avesse infastidito o meno.
«Sì», confermai.
«E a che ti serve una pistola?».
Non volli rispondergli. Camariña diede una lunga boccata al
sigaro e buttò fuori il fumo da una parte. Le spire di fumo
salirono verso l’alto, galleggiarono un po’ contro il soffitto e poi
sparirono in una ventola.
«Non sta bene che un ragazzo come te vada in giro con
un’arma», sentenziò.
Alzai le spalle.
«Non si sa mai», dissi.
Camariña aprì un cassetto e tirò fuori la pistola. La appoggiò
su uno straccio rosso e mise in fila sei proiettili dorati.
«È bella, vero?».
«Sì».
«Questa pistola la comprai molti anni fa da un
contrabbandiere della Merced. Ci ho sparato solo due volte, per
provarla».
Camariña l’alzò sotto la luce e l’ammirò orgoglioso.
«Credevo che sarebbero venuti a rubare tutti i venerdì di paga.
Invece, come vedi, non mi è servita a niente».
Con lo straccio rosso pulì un’impronta digitale rimasta
impressa sulla canna.
«L’ho data da poco all’armaiolo, perché me la restituisse
come nuova. Guarda come brilla, come gira bene il cilindro».
La maneggiò ancora qualche istante, poi la posò sullo
straccio rosso e la spinse verso di me.
«Prendila, è tua», disse inaspettatamente.
«Perché?».
«Perché lo voglio».
«Ma io…».
«Niente ma. È tua. Così ti pago il piumino».

124
«Il piumino gliel’avevo regalato», protestai.
«E io ti regalo la pistola».
Finii con l’accettarla e in segno di ringraziamento offrii a
Camariña un tamal verde.

Trovai Tania seduta sullo sgabello davanti alla toletta. Era


nuda e si stava pettinando (un accordo reciproco prevedeva che
dentro all’803 nessuno dei due poteva vestirsi, a meno che non
facesse troppo freddo).
«Hai comprato i tamales?».
«Sì», le risposi e posai la busta sulla toletta.
«C’erano quelli dolci?».
«No», le risposi e le misi davanti la pistola e i proiettili. «Ma
guarda cos’ho trovato».
Tania si voltò a guardarmi, visibilmente turbata.
«Me l’ha regalata Camariña», le spiegai.
Impallidì e con un lato della mano mise i proiet​tili da parte.
«Toglila da qui».
«Mica succede niente», le dissi.
«Toglila», ordinò nervosa.
Alzai la pistola, armai il cane e la puntai contro la mia
immagine riflessa nello specchio.
«Che fai?».
Tirai il grilletto e quando il percussore fece click Tania scattò
in piedi e si coprì il viso con le mani.
«Sei uno stupido», disse tra i denti.
Si avvolse in un asciugamano e si chiuse in bagno. Decisi di
andare a riporre la pistola in macchina. Quando tornai, Tania si
stava vestendo.
«Stavo solo giocando», le dissi.
«Be’, era un gioco cretino», esclamò irritata.
Si mise la giacca a vento, prese la borsa e s’incamminò verso
la porta. L’afferrai per i polsi.
«Non te ne andare», implorai.
Tentò di liberarsi.
«Lasciami in pace».

125
«No, finché non ti calmi».
Lottammo per un po’, poi lei alzò le mani.
«Va bene, non me ne vado. Ma tu lasciami».
«Me lo prometti?».
«Lasciami», ordinò a bassa voce.
Le liberai i polsi e si sedette sul letto.
«Mi fai paura, Manuel. Mi fai paura…».
Mi sedetti accanto a lei e l’abbracciai.
«Davvero, stavo solo scherzando».
«Non è vero», disse alzando la voce, «volevi spaventarmi».
Cercò di alzarsi e la feci ricadere sul letto.
«Ti giuro di no».
Cominciai a baciarla ripetendo: «Te lo giuro, te lo giuro…».
Smise di opporre resistenza, la spogliai e di nuovo facemmo
l’amore.

Mangiammo i tamales sdraiati sul letto. Tania disse che


potevamo comprare un televisore e metterlo nella stanza. Suggerì
di comprarlo alla Sears così avremmo potuto pagarlo a rate.
«Non ne abbiamo bisogno», le dissi e le girai un capezzolo
come se fosse stata la manopola di un vecchio televisore. «Basta
schiacciare questo pulsante e cercare il canale che vogliamo».
Tania scoppiò a ridere e mi spinse da una parte.
«Non fare il cretino», disse e si accarezzò il capezzolo.
Presi il libro di Ruvalcaba che si trovava sulla scrivania e le
domandai perché aveva sottolineato la frase sugli impiegati che
comprano il pane.
«Perché sì».
«Conosci qualche impiegato comprapane?», indagai
scherzando.
«Ne conoscevo uno», mormorò e rimase assorta.
Mi ingelosì la sua espressione languida.
«Un mio zio, cugino di mia madre», proseguì, «lavorava nel
settore commerciale del ministero della Pesca. Una sera, dopo
essere uscito dall’ufficio, si fermò in una panetteria a comprare
del pane dolce e mentre pagava entrarono dei ladri».

126
Interruppe il racconto e s’inumidì le labbra.
«Si rifiutò di consegnargli il resto, qualcosa tipo cinque
pesos, e gli spararono un colpo in testa…».
Si girò di scatto verso di me.
«Non te ne avevo mai parlato?».
«No».
«Cadde per terra vicino alla busta del pane. Lasciò mia zia
vedova con un figlio di due anni e una bambina di dieci mesi…».
«E quand’è successo?».
«Io ero piccola, facevo la terza o la quarta elementare. Il suo
fu il primo funerale a cui andai…».
Le venne un nodo alla gola e mi abbracciò spaventata.
«Non fare pazzie».
«Di che parli?».
«Non voglio che muori».
«Non morirò», dissi, «te lo prometto».
«Non morirò», ci disse Gregorio una sera di maggio. Era
tornato da poco dall’ospedale con le dita del piede amputate.
«Non morirò», ripeté. Tania lo abbracciò, sentendosi in colpa.
Qualche giorno prima, dopo aver fatto l’amore con me, aveva
sussurrato: «Magari morisse». Voleva che Gregorio svanisse, che
scomparisse nel nulla, che smettesse di farla soffrire. Non
sopportava il fatto che fosse impazzito. Non sopportava di amarlo
e di amarmi. Semplicemente non lo sopportava più e aveva
desiderato la sua morte.
«Non morirò», ripetei.
Tania mi baciò sconsolata.
«Restituisci la pistola».
«No!».
«Per favore».
«No».
Mi strinse con forza.
«Non fare sciocchezze, ti prego».
«Mai», le dissi. «Mai…».
2 Pasticcio di pasta di farina gialla ripieno di carne, peperone o altri
ingredienti, avvolto in cartocci di granoturco o foglie di banano e cotto al

127
vapore.

128
Alle cinque del pomeriggio decidemmo di andarcene. Mentre
ci vestivamo raccontai a Tania della scatola che aveva lasciato
Gregorio. Mi ascoltò assorta, concentrandosi sulla mia
descrizione delle fotografie e dei pacchetti. Disse che non
conosceva Jacinto Anaya. E che ignorava il significato di quelle
frasi.
«Margarita mi aveva detto che forse lo sapevi».
Tania arrossì.
«E come fa a sapere quello che so, quella stronza?», esclamò
furiosa.
La sua rabbia mi parve eccessiva.
«Non chiamarla così. È una tua amica, no?».
«Una mia amica?», ripeté con aria di scherno. «Amica tua,
forse».
«Di tutti e due».
Tania fece segno di no con la testa e non disse altro. Finimmo
di vestirci e mi avvicinai per baciarla. Mi restituì il bacio con
freddezza.
«Che c’è?».
«Niente», si limitò a rispondere.
Uscimmo dalla stanza e aprii la serranda del garage. Tania salì
in macchina e abbassò il finestrino.
«Ciao», le dissi.
«Ciao».
Mi baciò sulla guancia con le labbra strette, mise in moto e
partì. Tornai in camera e mi sedetti sul letto. Sentii il peso della
stanza vuota, come se l’aria senza Tania acquistasse una maggiore

129
densità. Forse aveva ragione: dovevamo comprarci un televisore.

Quando stavo per salire in macchina, Pancho attirò la mia


attenzione.
«C’è qualcosa che gocciola», disse.
Mi chinai per vedere di che si trattava. Non sembrava né olio,
né acqua, né benzina. Allungai la mano e tastai l’asse anteriore.
Era sangue.
Chiesi a Pancho di darmi un cartone per controllare sotto
l’automobile. Scoprii una poltiglia di peli, carne e ossa. Il gatto
che s’era nascosto dentro al motore era stato maciullato,
probabilmente dall’elica del radiatore. Con uno straccio
picchettai i resti ed estrassi il corpo dell’animale ormai ridotto a
brandelli. Puzzava di marcio e di urina. Pancho si divertì come un
matto e sghignazzava ogni volta che tiravo fuori una zampa o
qualche pezzo di spina dorsale. «Sembra che stai facendo abortire
la macchina», disse, e la sua ironia mi riempì di tristezza.

Rientrai a casa che era già buio. Misi la pistola sotto la


maglietta perché i miei non la vedessero. Salii di corsa le scale e
nascosi l’arma in un cassetto del bagno. Le mie precauzioni
furono inutili: in casa non c’era nessuno.
Un’ora dopo Luis tornò da Cuernavaca. Era in compagnia di
una ragazza che non conoscevo. Me la presentò come la sua
fidanzata. Il nome non me lo ricordo e ancora meno la faccia. Era
una donna assolutamente insignificante. Un paio di settimane
dopo mio fratello la lasciò.
Due ore dopo arrivarono i miei. Mio padre aveva l’aria di non
sentirsi bene. Era pallido e aveva un’espressione sofferente. Mia
madre disse che aveva mangiato delle polpettine di carne che gli
avevano fatto male. Lo sentii vomitare molte volte, senza
lamentarsi. Cercava sempre di essere un malato discreto, al
contrario di mia madre, che di ogni minimo malessere ne faceva
una tragedia.
Cenai con Luis e con la sua fidanzata insignificante, che
esibiva un’espressione preoccupata ogni volta che si sentivano i

130
conati violenti di mio padre. «Sta proprio male, tuo papà», diceva
con voce sciroppata tra un boccone e l’altro, senza accorgersi che
in casa circolava un retrogusto di contenuto gastrico.

Andai a letto presto. A mezzanotte mio padre mi svegliò


toccandomi con delicatezza la spalla. Aprii gli occhi e mi
tranquillizzai riconoscendo i suoi lineamenti nell’oscurità.
«Dove hai dormito ieri?», indagò.
Non gli risposi.
«Come ti senti?», gli domandai.
«Così così».
Si sedette accanto a me. Aveva il viso illuminato dalla luce
della luna che filtrava attraverso le tende.
«E tu come stai?», domandò.
«Bene».
«Davvero?».
«Sì», gli risposi senza convinzione.
Mi propose di andare in vacanza tutti e quattro, tutta la
famiglia. Come quando eravamo piccoli.
«Andiamo a Puerto Vallarta», disse.
L’idea mi fece sorridere. Puerto Vallarta era il posto dove
andavamo a passare il Natale e il Capodanno. Sono cresciuto
pensando che Natale volesse dire caldo, spiaggia e palme
spelacchiate e gialline decorate con fiocchetti di cotone. Le
immagini dei pupazzi di neve, dei paesaggi imbiancati sui
biglietti d’auguri e gli abeti artificiali mi provocavano sensazioni
contraddittorie. Semplicemente non rendevano l’idea.
Mio padre si alzò in piedi e prima di uscire dalla stanza
ripeté: «Andiamo a Puerto Vallarta». Chiuse la porta e io rimasi a
ricordare i cenoni dell’ultimo dell’anno passati sotto le pale dei
ventilatori, sudati, a brindare con il sidro tiepido e a mangiare
tacchino affumicato scongelato da poco.

La mattina dopo indossai la camicia a maniche lunghe per


andare all’università: da troppi giorni giravo con le cicatrici
scoperte, tipo promemoria. Non sarebbe stato facile giustificare

131
le mie assenze con i professori, che si vantavano di essere duri e
intransigenti. La morte di qualcuno non gli sembrava una scusa
sufficiente per saltare la consegna di progetti e plastici. («Che
cavolo c’entra tua zia Francisca con questa porcata?», disse una
volta un professore a un alunno che gli aveva consegnato un
progetto pieno di cancellature, che aveva tracciato sulle ginocchia
mentre faceva la veglia alla sua zia prediletta, morta investita da
un furgone per le bibite rimasto senza freni). L’archi​tetto Molina,
responsabile del corso, sosteneva che progettare case era una
delle responsabilità più serie del mondo. «Nelle case si cresce, si
dorme, si litiga, si ama, si fornica, si mangia, si odia e si muore»,
diceva sempre. «Non sono solo costruzioni, bambocci, sono gli
spazi sacri della vita». Aveva ragione, ma quella mattina non ero
in condizioni di sostenere prediche. Per quanto ci si sforzi, gli
spazi della vita non potranno mai competere con la vita stessa e
nem​meno duecento muri costruiti alla perfezione possono attutire
il rumore di uno sparo che risuona nel cuore della sera.
Per fortuna nessun docente mi rimproverò per le mie assenze.

Alla prima lezione incontrai Rebeca. Mi salutò distante e


nervosa. Si sedette nelle file davanti, non dietro, vicino a me,
come faceva sempre. Mentre la professoressa dissertava sulla
resistenza del cemento, continuavo a contemplare il punto dove
convergevano la sua nuca e la sua schiena. Avevo sentito dire che,
guardando fisso quel punto, possiamo costringere la persona a
voltarsi verso di noi. Rebeca non si voltò, né in quella né in
nessun’altra occasione, e l’esercizio servì solo a farmi desiderare
intensamente di baciarla sul collo.
Le lezioni mi sembrarono inutili e inconsistenti, tranne quella
di letteratura contemporanea, l’unica materia facoltativa che
seguivo in quel semestre. L’avevo scelta per due ragioni: perché il
professore sembrava disprezzare le convenzioni degli altri docenti
e perché era fissato con la generazione “beat”. Kerouac,
Burroughs, Ginsberg erano gli unici autori di cui parlava. Gli altri
– Faulkner, Rulfo, Joyce, Martín Luis Guzmán – li nominava
appena. Personalmente i “beat” non mi interessavano, e se mi

132
avvicinai alla loro letteratura fu perché Gregorio considerava
Sulla strada di Jack Kerouac come il libro più fico che avesse
mai letto («È come un disco dei Doors», diceva).
Dei “beat” mi interessava più la vita che l’opera, soprattutto
quella di Burroughs, che Gregorio detestava. «È solo un vecchio
rotto in culo», disse quando scoprì che Burroughs era
omosessuale dichiarato (Gregorio era talmente omofobo che gli
bastava solo sospettare che qualcuno fosse una checca per
pestarlo a sangue). Lo attraeva Kerouac, invece: ex marinaio,
bello, ex giocatore di football americano. «Lui sì che era un figlio
di puttana», diceva. Alla lunga non lo fu così tanto, e Burroughs,
con tutte le sue preferenze sessuali, campò più a lungo di tutti,
compresi Kerouac e Gregorio.
Quella mattina il professore descrisse il modo in cui
Burroughs assassinò la moglie in un lugubre appartamento di
Città del Messico, quando, completamente ebbro, le spappolò il
cranio con un colpo di pistola, giocando a Guglielmo Tell.
Finita la lezione mi avvicinai al professore. Cercando di
riagganciarmi al discorso su Burroughs gli spiegai che la
settimana prima ero mancato perché il mio migliore amico s’era
fatto saltare il cervello giocando da solo a Guglielmo Tell.
«Vuoi dire che si è suicidato?».
Annuii. Il professore sorrise con indulgenza e mi diede una
pacca sulla spalla.
«Eccellente scusa, Manuel. Molto letteraria», disse il gran
coglione. «Ti giustifico l’assenza perché sei stato molto originale,
ma cerca di recuperare».
Mi strizzò l’occhio e uscì dall’aula senza lasciarmi dire altro.
Restai a guardarlo mentre si allontanava lungo il corridoio. Mi
avviai nella direzione opposta, verso il parcheggio dei professori:
individuai la sua macchina e con il mio coltello a serramanico gli
bucai tutte e quattro le gomme. Aspettai che si sgonfiassero e me
ne andai.

Tornai a casa furioso, convinto di dover lasciare l’università,


l’architettura e il mondo meschino dei miei professori severi e

133
mediocri. Decisi di andarmi a rilassare in una piscina lì vicino,
dove per trenta pesos ti lasciavano nuotare tutto il tempo che
volevi.
Per fortuna la piscina era vuota e potei nuotare
tranquillamente senza bisogno di schivare ragazzini con i
braccioli e vecchie che facevano ginnastica in acqua. Proprio
quando stavo per uscire comparve una bionda scialba e
grassoccia, con addosso un vestito appariscente color zaffiro a
righe gialle, che mi sembrava di conoscere. Entrò in acqua senza
guardarmi e cominciò a dare bracciate in un modo scomposto e
pomposo che a tratti assomigliava allo stile libero. Dopo un po’
riuscii a identificarla. Si trattava di una famosa attrice di
telenovela. «La regina della sensualità», secondo le riviste rosa.
La osservai con attenzione, misi anche la testa sott’acqua con
tanto di occhialetti per guardarle le gambe. Aveva la cellulite.
Chili di cellulite. I seni erano un po’ più appetitosi ma
probabilmente avevano la cellulite anche quelli («Tette come
savoiardi», diceva Gregorio, «spugnose, grasse e piene di buchi»).
Uscendo dalla piscina mi accorsi che due guardie del corpo
controllavano con discrezione la spugnosa sensualità della
signora. Inutilmente, perché in giro non c’era nessuno che la
desiderasse.
Rientrai a casa un po’ sollevato e incontrai mia madre. Mi
salutò con un abbraccio e molti baci. Mi parve strano che fosse
così affettuosa. Poi mi fece l’elenco dei messaggi per me: alle due
e un quarto aveva chiamato Tania, Joaquín alle tre e cinque e una
compagna di scuola alle tre e ventidue per ricordarmi di un lavoro
che dovevamo fare in gruppo (disegnare delle porcilaie in stile
Barragán, con specchi d’acqua e muri molto spessi).
Mia madre si offrì di prepararmi dei tramezzini al pollo. Era
evidente che si sforzava di mostrarsi affettuosa e garbata. Lei e io
non siamo mai riusciti a capirci: eravamo simili quando
dovevamo essere diversi, e diversi quando dovevamo
assomigliarci.
Mia madre non riuscì a sostenere a lungo tutta
quell’affabilità. Mi tenne compagnia mentre mangiavo,

134
conversammo banalmente di cose banali e poi, reciprocamente un
po’ infastiditi, ci ritirammo a occuparci ognuno delle proprie
faccende.
Prima di salire in camera mi chiamò.
«Mi stavo dimenticando di darti questa», disse e mi consegnò
una lettera. «È arrivata stamattina con la posta».
La ringraziai e proseguii verso la mia stanza.

135
Sulla lettera non c’era il mittente e l’indirizzo sulla busta era
stato scritto con una grafia che mi sembrò familiare, anche se sul
momento non riuscii a riconoscerla.
L’aprii. Dentro c’era un biglietto giallastro e stropicciato che
recava un’unica frase: «Il bufalo della notte ora ti sognerà».
Non c’era nient’altro. All’inizio scoppiai a ridere pensando a
uno scherzo idiota. Poi mi sedetti sul letto, stordito. La frase era
stata scritta da Gregorio, non c’era dubbio. Era sua, quella grafia
allargata, aggressiva.
Mi alzai senza sapere bene che fare. Il colpo era stato
assestato con precisione. Dalla sua urna, ridotto in cenere,
Gregorio mi accusava di nuovo. Non potevo andare ad
affrontarlo, o a insultarlo. Nemmeno stracciare la lettera e
dimenticarla: sicuramente le minacce e i messaggi cifrati
avrebbero continuato ad apparire uno dopo l’altro.
Cercai di calmarmi. Gregorio non poteva vincere, meno che
mai con una frase così stupida. Uscii in corridoio. Mia madre era
al piano di sotto, in cucina. Andai nella sua stanza e frugai nel
suo armadietto. Presi delle pasticche per dormire e mandai giù il
triplo della dose necessaria. Tornai in camera mia e mi sdraiai in
attesa che il sonnifero facesse effetto. Obnubilato presi la lettera.
La calligrafia sulla busta era diversa da quella di Gregorio. La
data indicata dal timbro postale era il ventiquattro febbraio, due
giorni dopo il suicidio di Gregorio. Qualcuno stava portando
avanti il suo piano.
La chiave era nella grafia. Nel dormiveglia cercai di ricordare

136
tutte le calligrafie che conoscevo: Margarita, Tania, Rebeca,
Joaquín, mio padre, mia madre, Margarita, Rebeca…

Mi svegliai a mezzanotte, spaventato. Di nuovo avevo sentito


sulla nuca un respiro soffocante, umido. Cercai di scappare, di
saltar giù dal letto, ma non riuscivo a muovermi. I sonniferi mi
tenevano in uno stato di leggero dormiveglia. Riuscivo a
percepire le luci, i rumori, le voci. Ma le mie gambe, le mie
braccia non rispondevano.
Dopo quasi un’ora riuscii ad accendere la luce. Mi faceva
male la testa e sentivo la lingua gonfia. Entrai in bagno e mi
sciacquai la gola con l’acqua. Osservai il mio viso allo specchio:
continuava ad apparirmi quello di un estraneo.
Sotto la porta trovai un biglietto di mia madre con le chiamate
per me. Alle diciassette e otto aveva chiamato la mia compagna
dell’università, seccata perché non mi ero riunito con il gruppo a
fare il lavoro sulle porcilaie. Alle diciotto e due aveva chiamato
Tania e alle diciotto e venticinque la segretaria del dottor Macías,
che mi chiedeva perché non mi ero presentato all’appuntamento.
Me l’ero completamente dimenticato e fui felice di avergli dato
buca.
La lettera nella busta cominciava a inquietarmi. Chi diavolo
poteva essersi prestato alle rozze macchinazioni di Gregorio?
Pensai allo stesso dottor Macías e l’idea mi divertì: il prestigioso
psichiatra schiavo del suo paziente più tormentato. Li immaginai
nell’atto di siglare un patto di sangue, con Macías che gli giurava
eterna lealtà. Probabilmente anche lui aveva un bufalo azzurro
tatuato sul bicipite sinistro.
Delirare mi aiutò a distrarmi. Indossai il pigiama e m’infilai a
letto. Stavo per spegnere la luce quando di colpo mi venne in
mente una grafia simile a quella della busta. Corsi in bagno e
presi la scatola di Gregorio. Frugai tra i fogli del pacchetto con il
nastro nero. Ne presi uno e confrontai lo stile. Sì: Jacinto Anaya
aveva scritto sia le frasi delle canzoni che l’indirizzo sulla busta.
Cercai di parlare con Macías. Forse lui conosceva il piano di
Gregorio e voleva incontrarmi per mettermi in guardia. Chiamai il

137
suo studio. Non rispose nessuno. Composi il numero del
cercapersone e gli mandai un messaggio dicendogli di mettersi in
contatto con me. Non lo fece.
Chiamai a casa di Tania. Probabilmente anche lei aveva
ricevuto una lettera simile. Mi rispose la sorella, mezza
addormentata. Le chiesi di passarmi Tania. Mi disse che non si
chiamava a quell’ora di notte e riagganciò. Non andavano
d’accordo. Lei era gelosa di Tania. Sosteneva che i suoi le
concedevano troppi privilegi, che le lasciavano fare tutto quello
che voleva, mentre lei, essendo la più grande, veniva controllata e
limitata in continuazione. Era tutto falso. Entrambe erano
testarde e capricciose, solo che Tania aveva un carattere più
deciso.
Cercai di parlare con Margarita, ma mi rispose il padre e
riagganciai. Arrivai a credere che pure lei fosse coinvolta nel
gioco di Gregorio. Poi ci ripensai: sicuramente era solo un’altra
vittima.
Decisi di non disperarmi e di non dare importanza agli
stupidi discorsi di Gregorio. Gettai la scatola in un angolo della
stanza e accesi il televisore.

Trascorsi la notte sveglio a guardare telegiornali. All’alba


saltai dal letto sicuro che una forbicina mi fosse uscita dalla
bocca. Frugai tra le lenzuola ma non trovai niente.
Uscii dalla stanza. Le porte delle altre stanze erano chiuse.
Immaginai i miei genitori che dormivano in camera loro, uno
accanto all’altro, ognuno sognando i propri sogni e mantenendo
intatti i loro mondi. Immaginai mio padre che si alzava nella
penombra, per bere un po’ d’acqua dal bicchiere poggiato sul
comò, e si stropicciava gli occhi, così lontano e così vicino a mia
madre, addormentata nel letto. E immaginai anche lei, che
sognava tutte le opportunità di lavoro che aveva perso e che
considerava fondamentali per la sua vita. Immaginai mio fratello
che sognava le sue fidanzate insignificanti, i suoi amici, i suoi
viaggi, le sue preoccupazioni e i suoi insignificanti desideri.
Scesi in salotto e mi diressi al piccolo bancone che mio padre

138
aveva costruito con l’idea che sarebbe diventato il posto più
“suo” della casa, dove pensava di riunirsi a bere tequila e a
chiacchierare con gli amici, che si sarebbero seduti sulle panche
mentre lui li intratteneva in piedi dietro al bancone. In tre anni
l’ho visto così con i suoi amici solo due volte. Tutte le altre l’ho
sempre trovato lì da solo, all’alba, a bere Cuba libre con ghiaccio
e limone (solo lui sapeva come prepararlo) e a risolvere i
cruciverba di «Excélsior».
Io non ho mai bevuto, nemmeno un bicchiere. Non ho mai
saputo cosa significhi essere ubriaco. Neanche Gregorio. Bere ci
sembrava una cosa da checche. Ma quella mattina non vedevo
l’ora di assaggiare fin l’ultima goccia di quel rum cubano che mio
padre custodiva in una nicchia di lato al bancone. Forse così le
forbicine, il respiro sulla nuca, la vita stessa avrebbero acquistato
un senso. E invece no: bere era una cosa da checche.
Mi sedetti su una panca e aprii un sacchetto di noccioline
giapponesi che mio padre teneva sempre a portata di mano, nella
sua ossessione di essere un buon padrone di casa. Le masticai
rompendole con i molari. Mio fratello non sopportava quel
rumore. Pensava che lo facessi apposta per irritarlo. La verità è
che mi piaceva farle scrocchiare.
Sentii scorrere l’acqua nel bagno dei miei. Sicuramente era
mio padre che faceva la doccia, preparandosi a un altro giorno di
lavoro come direttore di banca. La sua vita non era stata sempre
così, anche se non riesco a immaginarmelo senza il suo completo
da bancario e il suo portafoglio di pelle color vinaccia
(un’immagine che da bambino m’inorgogliva: quella di un uomo
sicuro e importante).
Mi ricordai di quando mi confessò di aver fumato marijuana
una decina di volte, o magari una dozzina, nascosto nei bagni
dell’università, a qualche festa o dentro a uno scassatissimo
Volkswagen. Mi mostrò persino una fotografia di quell’epoca: lui
e i suoi amici avevano tutti il ciuffo che gli cadeva sugli occhi, i
basettoni, le camicie a fiori e i pantaloni a zampa d’elefante, un
po’ ridicoli. Gli stessi amici che venticinque, trent’anni dopo, si
rifiutarono di dividere con lui il suo bancone, le sue chiacchiere e

139
il suo Cuba libre, preparato con limone e ghiaccio.
Mio padre finì di lavarsi. Lo immaginai mentre si vestiva in
silenzio per non svegliare mia madre e si annodava la cravatta,
spruzzandosi sul viso un po’ della sua lozione cara e fuori moda.
Allora lo vidi scendere dalle scale. Aveva un’espressione diversa
da quella di sempre, più rilassata, libera dai soliti gesti di padre e
di sposo. Si comportava solo come un uomo che andava al lavoro.
Un uomo, nient’altro. Normale, semplice, forse un po’ goffo. Un
uomo.
Uscì chiudendo la porta, badando a non far rumore. Poi sentii
la sua automobile che si allontanava lungo la strada. Quante volte
non era uscito presto, con la scusa di un qualche appuntamento
d’affari, per vedersi con una bella donna in un motel di
passaggio. Quante volte aveva rinunciato a fumare di nuovo
marijuana, a fare a botte in un bar, a mangiare tacos e scappar via
per non pagare il conto, a vedere i film porno allo spettacolo di
mezzanotte. Quante volte era stato tentato di abbandonarci, di
salire in macchina con la sua bella donna e di andarsene per una
strada dritta e interminabile. Quante volte aveva potuto farlo e
non l’aveva fatto.
Forse questo era il momento giusto perché scappassi io,
perché venti o trent’anni dopo mio figlio non mi scoprisse a
scendere le scale in silenzio per non svegliare il resto della
famiglia.
Non scappai e tornai nella mia stanza.

140
Rimasi chiuso in camera mia tutta la mattina, stordito. Era
chiaro che Gregorio aveva voluto farmi sapere che Jacinto Anaya
era il suo scrivano e complice. Aveva disseminato indizi a
sufficienza. Ma perché? Perché lo andassi a cercare e lo
affrontassi? O, forse, trovarlo mi avrebbe condotto a un’altra
tappa del suo piano? Non potevo ignorare la sua trappola.
Neppure evitarlo. Dovevo continuare per forza.
D’impulso presi la scatola e aprii il pacchetto con il nastro
azzurro, quello che mi spaventava più di tutti. Appena sciolto il
nodo trovai una fotografia che di per sé era un messaggio.
C’eravamo Tania, Gregorio e io. Ce l’avevano fatta l’ultimo
giorno di scuola del quinto liceo. Ognuno di noi ne aveva una
copia, firmata dagli altri due. In questa, il viso di Tania e il mio
erano stati bruciati con una sigaretta.
Sotto c’era un recente ritratto di Tania. Indossava una
camicetta bianca che le avevo regalato un Natale e una collana
d’argento che gli aveva dato Gregorio per il primo anniversario
del loro fidanzamento. Poi trovai vari ritagli della pagina dei
cinema dell’«Universal».3 Alcuni dei film annunciati erano
vistati con croci in azzurro e l’ora dello spettacolo era
sottolineata in rosso. Seguivano anche alcune fotografie di
Gregorio nel giardino dell’ospedale psichiatrico. Indossava dei
leggeri pantaloni di tela e una maglietta nera. S’intravedeva il
bufalo tatuato sul bicipite sinistro. Sorrideva e in un’immagine
mandava un bacio alla persona che lo stava fotografando.
Poi trovai una scatola di fiammiferi con il nome e l’indirizzo

141
di un motel stampati sul davanti. Si trattava di un motel vicino al
Villalba, probabilmente lo stesso in cui il tenente aveva
assassinato la sua amante. Sul retro della scatoletta Gregorio
aveva annotato una data, cinque gennaio, e una frase: «Oggi,
molto vicino al fuoco». La data coincideva con uno dei film
sottolineato sui ritagli.
Trovai anche una poesia tratta da un libro di Agustín García
Delgado che a Tania piaceva molto, e infatti la citava spesso.
Era stata copiata con una macchina da scrivere. La poesia si
intitolava Stanza.
STANZA

Meglio restare qui


fuori ci aspetta una sepoltura senza morte,
fuori un cimitero e uno spaventapasseri
di vigilie armato
che scaccia i corvi azzurri del silenzio.

Sopra l’alba immensa dell’anima,


il gallo impietoso non smette.
Mai sole brillerà che possa ammutolirlo.
Mai le nostre mani
toccheranno il bordo luminoso del giorno.

La poesia portava la data dell’otto gennaio, scritta da Tania. A


margine Gregorio aveva annotato: «Oggi dentro al fuoco, molto
dentro».
Dopo aver passato in rassegna un mucchio di foglietti che
contenevano messaggi criptici, trovai la chiave che mi aiutò a
decifrare il senso di tutto il resto. Sul retro della ricevuta di una
pompa di benzina vicina all’ospedale psichiatrico, Tania aveva
scarabocchiato:
Amore mio, non mi lasciano entrare per vederti. Sono disperata.
Sono già tre volte che vengo. Non so che fare. Non c’è più il custode di
prima, che mi lasciava entrare. Ma sto sempre qui che ti aspetto.
Sempre, ricordatelo. Magari ti arrivasse questo biglietto.

142
Sotto Tania aveva scritto due delle frasi delle canzoni che
erano state copiate da Jacinto Anaya:
Vicino a te tutto è nuovo, è come stare al centro del fuoco.
La ricevuta era di appena sei mesi prima. Entrambi avevano
mantenuto intatta la loro relazione, mio malgrado e senza dirmi
niente. Non l’avrei mai immaginato. Non ero stato capace di
capire quello che mi succedeva intorno e questa fu la cosa che
più mi ferì.
Il piano di Gregorio si rivelava fin troppo efficace. Solo la
rabbia di un morto poteva essere così efficace. Guardai la scatola
e il resto di quei foglietti impregnati di vendetta. Li ammucchiai
in un angolo del piano della doccia e gli diedi fuoco.
Cominciarono a crepitare le fotografie, i ritagli di giornale, i
messaggi occulti, i pacchetti ancora da aprire.
Quando il falò si spense aprii il rubinetto perché l’acqua
facesse scivolare la cenere lungo lo scarico. In bagno continuò ad
aleggiare una cortina di fumo che mi fece tossire. Mi sedetti per
terra, esausto, senza fiato, come se il fuoco avesse consumato
tutto l’ossigeno presente nella stanza. Rimasi immobile per vari
minuti con lo sguardo fisso sullo scarico, mentre scomparivano le
ceneri.
Mi sentii tremendamente stanco.

Non c’era altra via di fuga che dimenticare. Solo cancellando


il passato potevo affrontare il dolore. Mai come in quel momento
dovevo amare Tania e avere fiducia in lei. Non le avrei
rimproverato niente.
Per quanto mi facesse male dovevo incassare il colpo,
accettare con umiltà che lei racchiudeva dei misteri ai quali non
potevo accedere, come lei non poteva accedere ai miei.
Dovevo dimenticare. Almeno tentare di farlo. Perdonare.
Dimenticare.
Dimenticare.

Non fu possibile. Quella sera ricevetti un’altra lettera di

143
Gregorio. Come per la precedente, l’intestazione sulla busta
mostrava la grafia di Jacinto. Cercai di disfarmene, di bruciarla
prima di aprirla. La mia curiosità ebbe la meglio.
La lettera conteneva due fogli di carta ripiegati. Nel primo,
Gregorio mi avvisava:
Dal bufalo della notte non potrai scappare.
Sul secondo foglio c’era un appunto che Tania doveva aver
mandato a Gregorio in ospedale, il quindici gennaio di
quest’anno:
Appena esci ce ne andiamo il più lontano possibile. Te lo prometto,
amore mio. Stavolta è vero.
Il quindici gennaio Gregorio venne ricoverato per l’ultima
volta nell’ospedale psichiatrico. Ne uscì due settimane dopo, il
trentuno, quando Macías e i suoi assistenti decisero che era
pronto per tornare alla vita normale. Ventidue giorni dopo si
suicidò.
Lasciai cadere in terra la lettera. No, non c’era via d’uscita.
Gregorio non mi avrebbe permesso di dimenticare. Avrebbe
continuato a rinfacciarmi il passato fino a farmi diventare pazzo,
se non lo ero già.
Tania mi aveva ripetuto più di una volta che con Gregorio
aveva rotto per sempre e che io ero il solo uomo che amava.
Allora perché questo desiderio tardivo di scappare con lui?
Indossai la prima cosa che trovai nell’armadio: dei pantaloni
di cotone e una maglietta azzurra. Presi un piumino e andai allo
studio di Macías. Dovevo incontrare Jacinto Anaya. Non vedevo
altro modo di resistere – almeno per il momento – alle bordate di
Gregorio.

Uscii dalla stanza. Mia madre guardava la televisione in


camera sua. Senza avvertirla presi le chiavi della sua macchina.
Mentre la tiravo fuori dal garage, lei si affacciò alla finestra. Mi
guardò impassibile. La salutai con la mano. Lei, senza
rispondermi, chiuse la tenda.

144
3 Un quotidiano locale.

145
Le macchine, lungo il viale, procedevano lente. Una perdita
d’acqua allagava le carreggiate centrali, rendendo più caotico il
traffico. Il conducente di un Volks​wa​gen Sedan volle eludere
l’imbottigliamento e cercò di sorpassare salendo con le ruote sul
cordolo. Nella manovra strusciò leggermente la mia macchina.
Invece di fermarsi cercò di scappare, ma lo raggiunsi alcuni
isolati più avanti. Lo strinsi per bloccargli il passaggio. Scesi
deciso ad ammazzarlo di botte. Vedendomi arrivare il tipo azionò
le sicure degli sportelli. Quando mi accorsi che si chiudeva
dentro m’infuriai ancora di più. Gli battei con le nocche sul vetro
e gli urlai in faccia che doveva pagarmi i danni. Lui mi guardò
spaventato e si rifugiò sul sedile a fianco. Presi una grossa pietra
e gli fracassai il parabrezza riducendolo in mille pezzi. Nemmeno
per questo trovò il coraggio di scendere. Con la stessa pietra
cercai di rompere il finestrino. D’un tratto mi resi conto che ero
circondato da decine di curiosi. Nessuno di loro sembrava
disposto a intervenire. Stavano lì a godersi lo spettacolo e basta.
Smisi l’attacco e mi rivolsi al mio avversario. Era un
quarantenne con la faccia da impiegato. Era atterrito. Mi
ripugnarono i suoi occhietti terrorizzati dietro gli occhiali. Senza
mollare la pietra attraversai il circolo dei guardoni, mi rimisi in
macchina e me ne andai.

Per tutto il resto del tragitto guidai in preda alla rabbia,


continuando a tenere la pietra nella destra, persino mentre
cambiavo marcia. Solo quando arrivai allo studio di Macías mi

146
accorsi che l’avevo ancora in mano. Aprii il finestrino e, furioso,
la gettai in un prato incolto.
Mi fermai in macchina ad ascoltare la radio per calmarmi.
Macías non doveva accorgersi che ero agitato. No, non doveva.
Scendendo dalla macchina guardai l’ora sull’orologio
dell’autoradio: le sei e diciassette, l’ora in cui s’era ammazzato
Gregorio. Entrai nello studio. Nella sala d’attesa c’era una
paziente, una donna alta e sciatta, i capelli tinti e un’età
indecifrabile. Leggeva una rivista e non mi prestò attenzione.
Mi avvicinai al banco della segretaria. Lei alzò gli occhi e mi
domandò cosa desiderassi.
«Devo vedere il dottor Macías».
«Ha appuntamento?».
«Sì», le risposi deciso.
«Non ricordo di averlo segnato», disse con tono impersonale.
«L’appuntamento l’ho preso direttamente con il dottore»,
affermai.
Mi chiese di ripeterle il mio nome. Prese un’agenda, l’aprì al
giorno corrispondente e fece segno di no con la testa.
«Il dottore ha tutto il pomeriggio pieno, non credo che potrà
riceverla».
«Guardi, io…».
La segretaria m’interruppe, altera.
«Se vuole posso fissarle un appuntamento per mercoledì
prossimo. Le va bene alle cinque?».
Mi chinai verso di lei e la guardai negli occhi.
«No, non mi va bene, signorina».
«Ma il dottore…».
Con l’indice destro le sfiorai il dorso della mano e le
accarezzai il polso. La donna ebbe un soprassalto.
«Dica a Macías che lo sto aspettando, che sono venuto solo
perché me l’ha chiesto lui».
La segretaria si inumidì le labbra e finse di mostrarsi calma.
«Appena esce il paziente delle sei e cinquanta lo avviso.
Come sa, il dottore non ama essere interrotto. Le va bene così?».
«Mi va bene».

147
Macías riceveva i suoi pazienti a intervalli di cinquanta
minuti e lasciava dieci minuti tra l’uno e l’altro. Guardai
l’orologio che era appeso alla parete: le sei e ventisette. Mi
sedetti accanto alla donna con i capelli rossicci. La pelle delle
sue mani, grandissime, era tersa. Il viso era avvizzito, con rughe ai
bordi delle labbra che si accentuavano ogni volta che aspirava
una sigaretta al mentolo. Sicuramente era più giovane di quanto
apparisse.
Non m’interessava nessuna delle riviste disponibili e per
ammazzare il tempo la immaginai nuda mentre faceva l’amore.
Probabilmente le rughe non erano dovute al fatto che fumava, ma
ai pompini che faceva ogni sera al marito, se ne aveva uno. La
donna era magra ma con l’addome un po’ ingrossato. La pancia
doveva essere liscia e piena di nei, attraversata da alcune
smagliature da parto. Le gambe non sembravano sode, ma i seni
sì. Sporgevano con un angolo di novanta gradi, appuntiti, ben
separati l’uno dall’altro. Leggeva con la schiena curva ma la sua
nuca possedeva un che di altero, sebbene non ti facesse venir
voglia di baciarla.
Gettai uno sguardo all’articolo che stava leggendo. Parlava di
un posto in Oceania dove il vento soffia con una forza tale che la
pioggia non cade mai al suolo, mai. La donna s’innervosì, cambiò
posizione e io non riuscii più a leggere. Dovetti ricominciare a
immaginarla nuda.
Mi soffermai a esaminarla quanto bastava e il tempo trascorse
rapidamente. Alle sei e cinquanta in punto uscì dallo studio un
ragazzo grasso un po’ più giovane di me. Tutto sorridente, firmò
un assegno e lo consegnò alla segretaria. Era stupidamente
allegro. Emise un sonoro «Con permesso» e se ne andò. La donna
magra si alzò in piedi e si lisciò il vestito. «Un momentino», le
disse la segretaria ed entrò nello studio. Di lì a poco tornò, fece
segno alla donna di aspettare ancora un po’ e mi disse di passare.

Macías mi aspettava seduto dietro una scrivania e stava


controllando degli appunti. Senza voltarsi a guardarmi mi indicò
con la mano di sedermi. Rimasi in piedi. Macías terminò la sua

148
occupazione e senza preamboli mi domandò:
«Dovevamo vederci ieri alle sei, no?».
«Credo di sì», gli risposi.
«Quindi?».
«Ho avuto altro da fare».
«E adesso credi di poter venire qui a fustigare la mia
segretaria e a far aspettare una mia paziente?».
«Fustigare», sussurrai.
Macías adorava usare parole come “fustigare”, anche se non
aveva idea di cosa significassero. Se ne serviva perché gli
sembravano dure.
«Che hai detto?».
«Niente».
Schioccò varie volte la lingua in segno di disapprovazione.
«Se vuole me ne vado», suggerii.
Guardò l’orologio e fece un calcolo mentale.
«No, aspetta. Mi restano cinque minuti e quello che ti voglio
dire non mi prenderà altro tempo».
Insistette perché mi sedessi. Tirò fuori una busta dal cassetto,
fece il giro della scrivania e si sedette sulla sedia che era accanto
alla mia.
«Tu sai cos’è questa roba, vero?», disse e lanciò la busta sulla
scrivania.
La presi e l’aprii. Dentro c’erano tre forbicine morte e una
nota:

Sai che odore hanno i topi morti?

Non era difficile dedurre che la frase l’aveva scritta Gregorio.


Di nuovo riconobbi la sua grafia aggressiva. La busta era
immacolata.
«Mi è arrivata venerdì sera», spiegò Macías, «qualcuno l’ha
infilata nella mia cassetta della posta».
Poggiai la busta e il biglietto sulla scrivania e deliberatamente
mi tolsi il piumino. Subito Macías puntò lo sguardo sulle mie
cicatrici.

149
«Non so di che si tratta», gli dissi.
«Vuoi giocare, Manuel?», indagò petulante.
«A che?».
Macías si alzò e mi scrutò con durezza.
«Tu hai dei problemi seri, lo sai?».
Annuii.
«Tutti ne abbiamo», aggiunsi.
«No, ragazzino…non tutti. Ma tu sì. E non mi interessa se
vuoi risolverli o no, ma ti chiedo gentilmente, e ripeto
gentilmente, di non infastidirmi più. Mi capisci?».
«Io non…».
Macías si appoggiò con entrambe le mani allo schienale della
sedia e mi guardò negli occhi.
«Non fare il pagliaccio. Tu sei stato l’unico che mi ha parlato
delle forbicine. Nessun altro l’ha fatto».
Era inutile discutere con lui. Non era il caso di nominargli
Jacinto Anaya né di metterlo al corrente delle lettere che anch’io
avevo ricevuto.
«Va bene», gli dissi. «È tutto?».
«Sì».
Tornò a sedersi sulla sedia dietro alla scrivania.
«Può dire a Luisa, la mia segretaria, di far passare la signora
Rentería?».
«Sì».
Macías tornò a guardare il quaderno degli appunti senza
neppure accennare a un saluto. Il suo atteggiamento mi infastidì.
«Dottore», gli dissi.
«Che c’è?».
«Lo sa o no che odore hanno i topi morti?».
Macías abbassò la testa e mi guardò da sopra gli occhiali.
«Ricominciamo?».
«No».
Si portò una mano al mento e strinse la mandibola.
«La pazzia può essere più spaventosa della morte», affermò
con voce misurata.
«Lo so».

150
«No, non lo sai».
«È come la pioggia quando non si decide a scendere, no?».
«No», rispose con stizza, «e adesso vattene».
Presi il piumino e me ne andai. Non fu necessario chiamare la
signora Rentería. Stava aspettando in ansia dietro la porta. Ci
scambiammo uno sguardo. I suoi occhi acquosi mi diedero
l’impressione di una donna rassegnata a una sconfitta imminente,
una sconfitta che neanche per scherzo Macías poteva scongiurare.
Mi feci da parte e appena entrata richiusi la porta. M’incamminai
verso la segretaria.
«Desidera?», mi domandò ostile.
«Il dottor Macías mi ha detto di chiederle i dati di un suo
paziente: Jacinto Anaya».
«I dati dei pazienti sono confidenziali».
«È stato il dottore ad autorizzarmi».
«Sì, ma…».
«Vuole che lo interrompiamo?», domandai indicando lo
studio.
La donna mi guardò dubbiosa. Digitò qualcosa sulla tastiera e
girò il monitor in modo che non potessi vederlo. Trascrisse su un
bigliettino il numero di telefono e me lo consegnò.
«Qual è l’indirizzo?».
«Quest’informazione non gliela posso dare», spiegò, «e se
insiste dovrò interrompere davvero il dottore».
Il numero di telefono mi bastò.
«Grazie», le dissi. Sorrisi gentilmente e me ne andai.

151
«Sai che odore hanno i topi morti?». La frase derivava da un
gioco di parole, un po’ scemo, che avevamo inventato Gregorio e
io alle superiori:
«Sai che odore ha quella cosa che le donne hanno tra le
gambe?».
«Sì».
«Di pesce, forse?».
«No!».
«E allora di che?».
«Di topo».
«Di topo vivo?».
«No, morto».
«E che odore hanno i topi morti?».
«Quello di quella cosa che le donne hanno tra le gambe».
Il gioco cominciò quando Irma, una nostra compagna che
chiamavano la “Gnappa”, si presentò a scuola con una minigonna
e accavallando le gambe lasciò intravedere delle mutandine con
l’immagine di Topolino.
Col tempo quel gioco divenne un codice. «Sai che odore
hanno i topi morti?» voleva dire: ieri sera sono stato con una
donna. Era il modo per alludere a un incontro sessuale.
Dubito che Macías conoscesse il significato di questa frase.
Era troppo privata, troppo nostra. Non riuscivo a spiegarmi
perché Gregorio gliel’avesse mandata, ma mi scatenò una gelosia
incredibile. Dedussi che, con una delle sue triangolazioni esatte e
deliranti, Gregorio voleva farmi sapere, attraverso quella lettera a
Macías, che finalmente era riuscito a penetrare Tania, a spargere

152
il suo seme dentro di lei, e le tre forbicine simboleggiavano
proprio quel seme.
Sai che odore hanno i topi morti? Più passavano i minuti e
più mi bruciava dentro. Mi sforzai di credere che Gregorio
volesse prendersi gioco del suo psichiatra, che forse era andato a
letto con sua figlia, con sua moglie o con la sua amante. Ma che
senso aveva farglielo sapere in quel modo? No, Macías non si
meritava una lettera così: era troppo imbecille.
La sola idea che Gregorio potesse colpirmi attraverso una
terza persona mi fece rabbrividire. Presto sarebbe riuscito a
incastrarmi, a spingermi di nuovo verso l’abisso. Nonostante la
sua stupidità, Macías non si sbagliava: la pazzia – è vero – può
essere più spaventosa della morte.
Furioso mi diressi a casa di Tania, pronto a litigare, a
insultarla, a umiliarla. Non me ne fregava un cazzo delle sue
spiegazioni: in questo momento ero deciso a non perdonarla mai
più.
Suonai il campanello. La voce acuta di Laura, sua sorella, mi
rispose al citofono.
«Chi è?».
«Sono io, Manuel».
«Tania non c’è», disse sbrigativa.
«Dov’è andata?».
«Non lo so, è uscita presto».
Il citofono piombò nel silenzio. Non sapevo se Laura ci fosse
ancora o meno. Ne avevo piene le palle.
«Laura?».
«Che c’è?».
«A che ora torna?».
«Guarda, non ne ho idea… ora ti lascio, perché ho da fare».
«Laura!», gridai perché non se ne andasse.
«Che c’è?».
«Devo dare una cosa a Tania. Mi puoi aprire così te la
lascio?».
«Torna tra un po’».

153
«Non posso».
«Va bene, ora scendo».
Aprì la porta dopo avermi fatto aspettare un bel pezzo.
Indossava dei pantaloncini color cachi, una maglia e delle scarpe
da ginnastica.
«Che mi devi dare?».
Alzai le braccia come se un oggetto mi fosse sparito tra le
mani. Mi guardò con odio.
«Non fare il cretino, Manuel. Non ho tempo da perdere, io»,
disse e fece per chiudere la porta.
La fermai con un braccio.
«Posso entrare ad aspettare Tania?».
«No, ho da fare. Ciao, torna dopo».
Tentò di chiudere la porta ma glielo impedii spingendo con il
gomito.
«No, preferisco aspettarla».
«Sono sola e non posso darti retta», mi disse con aria
arrabbiata. Era sempre arrabbiata, qualsiasi cosa facesse.
«Non c’è bisogno che mi dai retta», le dissi ed entrai. Lei
chiuse la porta con violenza.
Entrai in salotto e mi sedetti in poltrona. Lei rimase a
guardarmi con le mani sui fianchi.
«Sei molto aggressivo, lo sai?».
Stava molto bene in pantaloncini. Mi costava ammetterlo, ma
aveva le gambe più belle di Tania.
«Perché?».
«Ti avevo chiesto di non entrare».
Nel suo tono c’era un che di indifeso.
«Voglio solo aspettare Tania».
«Ma ti avevo chiesto di non entrare», ripeté. Non era più
arrabbiata.
Sembrava ferita, come se le avessi appena inflitto una grande
umiliazione.
«Che hai?», le domandai confuso.
«Niente. Ma non mi piace che entri come se fossi a casa tua».
«Se vuoi me ne vado».

154
Fece segno di no con la testa e si sedette sulla spalliera della
poltrona.
«Continua a fare quello che stavi facendo», le proposi, ma
non mi rispose. Rimase a fissare un posacenere sul tavolino al
centro.
Laura era una ragazza tranquilla, molto attaccata ai genitori.
Era schiacciata dalla personalità di Tania e per difendersi la
criticava duramente. Soprattutto le rimproverava di essersi messa
con il migliore amico del suo ex fidanzato.
Ma c’era anche un’altra ragione: Gregorio ci aveva provato
con Laura prima che con Tania, ma alla fine gli era sembrata
insulsa. Laura prese il loro fidanzamento come una sconfitta
intima, dolorosa, non tanto perché le interessasse Gregorio,
quanto perché sua sorella si era imposta per l’ennesima volta.
Una volta, mentre Tania preparava la cena, salii al piano di
sopra per cercare un libro. Mentre tornavo lungo il corridoio
Laura uscì all’improvviso dal bagno completamente nuda, senza
nemmeno un asciugamano con cui coprirsi. Ci ritrovammo uno di
fronte all’altra. Non gridò, né accennò ad alcun gesto per
coprirsi. Rimase in silenzio, tranquilla. Abbassai lo sguardo e ne
contemplai il corpo, i seni veementi, i fianchi stretti, i riccioli del
suo pube castano. Laura rimase imbambolata, seguendo i miei
occhi con i suoi. Rimanemmo così per quaranta, cinquanta
secondi, finché non mi decisi a lasciarla passare. Lei mi
oltrepassò, sinuosa. Restai a guardarla mentre, dandomi le spalle,
attraversava il corridoio verso la sua stanza.
In seguito non parlammo mai di quell’episodio e ci
comportammo come se non fosse successo. Sono sicuro che quei
cinquanta secondi furono per lei un trionfo: in qualche modo,
eccitandomi, aveva sconfitto sua sorella.
Dopo quell’incontro, Laura si mostrò un po’ meno dura con
me. Giusto un poco.

«Vuoi bere qualcosa?», domandò all’improvviso.


«No, grazie», le dissi, «vai pure se hai da fare, davvero».
Annuì, si alzò in piedi e salì le scale. Andai a cercare un libro

155
nello studio del padre, ma trovai solo trattati di diritto, qualche
bestseller e dei romanzi consigliati dal «Reader’s Digest». Scovai
una rivista sulla scrivania e tornai in salotto a sfogliarla.
Non riuscii a concentrarmi nella lettura. A tratti mi sentivo
furioso, poi nervoso. Tania poteva comparire in qualsiasi istante
e, per quanto mi fossi preparato mentalmente un discorso, la cosa
più probabile era che, al vederla, non avrei saputo che dirle.
Andai in cucina con l’intenzione di bere un bicchiere d’acqua
per calmarmi. Passando davanti alla scala sentii dei singhiozzi
che provenivano dal piano di sopra. Salii con cautela e mi sedetti
sull’ultimo scalino ad ascoltare. Laura parlava al telefono con
un’amica e con tristezza le raccontava di come il ragazzo con cui
usciva l’aveva mandata al diavolo. Non riusciva a spiegarsi perché
si fosse comportato così.
Alla fine gli uomini la scaricavano sempre. Forse perché era
sempre arrabbiata, forse per colpa della sua mancanza di
personalità, o forse perché inconsapevolmente lei stessa li
spingeva ad abbandonarla. Aveva avuto solo un fidanzato, con cui
era stata tre mesi. Un fantoccio crudele che l’aveva maltrattata a
sangue. «Così impara a fare la cretina e la fanatica», fu il
commento di Tania. Io non ero d’accordo: Laura era una ragazza
timida e insicura, non una cattiva persona.
Mentre parlava al telefono, Laura ripeteva continuamente:
«Perché? Perché?». Era molto addolorata. Probabilmente la sua
amica cercava di tirarla su dicendole «Gli uomini sono tutti
uguali», oppure «Non importa, ce ne sono tanti altri», o altre
cavolate del genere, ma invece di calmarsi Laura singhiozzava
ancora più forte.
Riagganciò dopo un quarto d’ora. La sentii piangere come
una bambina. Una specie di istinto paterno si risvegliò in me e
per consolarla mi avvicinai alla sua stanza.
La porta era socchiusa. Laura era sdraiata sul letto a faccia in
giù, con i capelli spettinati, scalza, con un piede sull’altro e un
fazzolettino di carta nella mano sinistra. Singhiozzava con
singulti irregolari. Come la donna magra che avevo visto nello
studio, Laura sembrava destinata a capitolare, a sabotarsi con le

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sue stesse mani. In quel momento capii perché gli uomini la
ripudiavano. Girai sui tacchi e tornai in salotto.
I genitori di Tania arrivarono un’ora dopo. Furono sorpresi
dalla mia presenza.
«Tania ci aveva detto che andava al cinema con te», mi spiegò
la madre.
«Sì, ma dovevo finire un lavoro per l’università e abbiamo
deciso di vederci qui alle nove», risposi mentendo.
Laura scese in salotto in pantaloncini e il padre la rimproverò
per com’era vestita.
«Vatti a cambiare subito», le ordinò.
«Sono abbastanza grande per decidere cosa mettermi»,
protestò Laura.
«No, finché vivi in questa casa».
La madre intervenne in suo favore e Laura la spuntò. Il padre
assumeva spesso quell’atteggiamento da finto conservatore. Sono
sicuro che non ci credeva neppure lui, ma gli serviva per imporsi
sulla figlia maggiore compensando così la disobbedienza e la
spavalderia di Tania.
Si sedette a chiacchierare con me. Avrei preferito restare da
solo, non perché lo considerassi un tipo noioso – al contrario, era
simpatico – ma non avevo voglia di ascoltare i suoi dettagliati
racconti sulle varie forme di corruzione in sede di arbitraggio, di
cui lui stesso era un vero esperto. Per fortuna ricevette una
telefonata e mi lasciò in pace.
Poco dopo, la madre mi invitò a restare a cena. Accettai e mi
sedetti a tavola con lei e Laura. In casa di Tania la cena era
sempre molto frugale. Mi servirono un piatto con due cucchiaiate
di verdure lesse e una fettina sottilissima di pesce al forno. Non
so come facessero a non diventare anoressiche.
I genitori di Tania non mi consideravano il fidanzato ideale
per lei, sebbene naturalmente mi preferissero a Gregorio. Mi
tolleravano perché pensavano che Tania fosse una ragazza
problematica e che in qualche modo avesse bisogno di una certa
stabilità. «Con questa bambina ci vuole la mano dura», disse una
volta il padre. Lui non si era mai imposto in questo modo, non

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perché non volesse, ma perché Tania aveva imparato a dominarlo
fin da bambina. Le sue grida non l’avevano mai spaventata e i
suoi rimproveri non la turbavano minimamente. Si limitava a
ignorarlo e ad andarsene da un’altra parte. Invece Laura
s’impauriva moltissimo e sopportava i suoi abusi autoritari.

Tania non arrivò e alle undici e mezza decisi di andarmene.


Telefonammo a molte sue amiche e nessuna di loro seppe dirci
dove fosse. Prima che me ne andassi la madre mi prese la mano.
«Aiutala», disse mentre me la stringeva, «aiutala, per favore».
Quando arrivai a casa mio padre mi stava aspettando.
«Perché hai preso la macchina di mamma senza
chiedergliela?», protestò.
«Dovevo fare una cosa urgente».
«E per questo non gliel’hai chiesta?».
Alzai le spalle.
«Tua madre doveva vedersi con le sue amiche e non è potuta
uscire».
«Scusa», mormorai.
«È a lei che devi chiedere scusa. È molto arrabbiata».
«Domani ci parlo», dissi.
Mio padre scosse la testa e si avviò verso la sua stanza. Io
entrai nella mia e mi sedetti per terra. L’assenza di Tania
ricominciava ad angosciarmi. Il discorso che avevo preparato, gli
insulti, la scena di gelosia mi si strozzarono in gola. Chiamai
Margarita. Speravo che Tania fosse tornata sotto casa sua.
«Ciao», le dissi appena rispose.
«Chi parla?», domandò assonnata.
«Manuel».
Rimase in silenzio per qualche istante.
«Non posso parlare con te», disse.
«Perché?».
«C’è stata una discussione terribile, qui a casa».
«Che è successo?».
«Non so come, ma Joaquín ha capito di noi due».
«Come ha fatto?».

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«Non ne ho idea».
«E tu che gli hai detto?».
«Che non era vero».
«I tuoi lo sanno?».
«Sì».
«Quindi?».
«Mio padre è furioso e anche Joaquín. Dicono che non ti è
bastato prenderti la fidanzata di Gregorio».
«Nega tutto».
«Gli ho già giurato cento volte che tra noi non è successo
niente, ma non mi credono».
«Io penso che…».
Di colpo m’interruppe.
«Viene qualcuno, ciao», disse. E riagganciò.
Nessuno poteva sapere di noi. Eravamo stati attenti e discreti.
Sospettai che fosse stato Jacinto Anaya a fare la spia. Ma come
aveva fatto a saperlo? Presi il biglietto con il suo numero di
telefono. Lo composi lentamente, badando di non sbagliarmi
nello schiacciare i tasti. Il telefono squillò quattro volte e alla
quinta partì una segreteria. «Non sono in casa. Lascia il tuo
messaggio, il tuo nome, e dove rintracciarti dopo il bip», ordinò
una voce maschile, rauca. Riagganciai.
Dopo mezz’ora richiamai. Partì la registrazione e attaccai di
nuovo. Ripetei la stessa cosa molte altre volte fino a che, esausto,
lasciai un messaggio alle due del mattino:
Jacinto Anaya, sono Manuel Aguilera. Se hai le palle vieni a
portarmele a casa, le lettere. Dammele direttamente, figlio di puttana. O
hai paura? Se hai qualcosa da dirmi, dimmelo in faccia. Il mio numero è
635-00-19.
Furioso attaccai la cornetta.
Sfinito, mi addormentai con i vestiti addosso e la luce accesa.
Alle quattro di mattina suonò il telefono. Lo squillo mi fece
sobbalzare.
«Pronto».
«Tania non è tornata», disse Laura all’altro capo del telefono.

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Mi stupì che chiamasse per avvisarmi.
«Mia madre ha pianto tutta la notte», proseguì.
«Non avete idea di dove possa essere?», le domandai.
«Se non lo sai tu, figurati noi».
Fece un respiro profondo e continuò.
«Non so come fai a starci insieme, è proprio una grandissima
stronza».
Mi sorprese la sua durezza, non si esprimeva mai così.
«Questo non è vero».
«Non la difendere. Magari adesso sta a letto con un altro e tu
neanche lo sai».
«Magari quello che sta con un’altra è il tipo con cui uscivi
tu».
«Non sono affari tuoi», protestò.
«Ma potrebbe essere, non credi?».
«Idiota!», gridò e riagganciò.

Non riuscii a prendere sonno per tutto il resto della notte. Mi


sentivo turbato, confuso, umiliato, geloso. E se quello che aveva
immaginato Laura fosse stato vero? Che diavolo stava facendo
Tania? Dove accidenti era finita?
I miei dormivano e non potevo entrare in camera loro a
cercare i sonniferi di mia madre. Avevo una voglia matta di quelle
pasticche maledette, di mandare giù tutta la boccetta e rimanere
knock-out per una settimana.
Venne l’alba. Restai a letto avvolto nelle coperte ad ascoltare
i rumori del resto del mondo. Sentii mio padre uscire di casa
piano piano, sentii la sveglia di mio fratello, mia madre che
scendeva le scale, la signora delle pulizie che spazzava il patio, il
rumore del frullatore, il motore del pullman della scuola che
passava a prendere le gemelline della casa di fronte. Il resto del
mondo.
Alle dieci di mattina decisi di alzarmi. Aprii la finestra. L’aria
era tiepida, il cielo diafano. Scesi a fare colazione. Mia madre
puliva della verdura sul tavolo da pranzo. Mi guardò di sbieco.
«Non vai all’università?», indagò.

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«Tra un po’», risposi.
Fece una smorfia di disgusto e si rimise all’opera. Quando mi
iscrissi all’università dovetti fare un test psicologico, un
questionario scritto a cui si poteva rispondere soltanto:
«Sì/no/non lo so». Una delle domande chiedeva: «Vai d’accordo
con tua madre?». Ci misi quindici minuti a decidermi. Poi vergai
una croce sul «sì», senza convinzione, quando la risposta corretta
avrebbe dovuto essere: «Non lo so».
Mi preparai delle uova strapazzate al prosciutto e le mangiai
seduto di fronte a lei. Restammo in silenzio, ognuno intento alle
sue cose. E non le chiesi scusa per aver preso la sua macchina.
Tornai in camera mia per cercare di dormire. Avevo caldo. Mi
spogliai, staccai il telefono, mi sdraiai a pancia in giù e chiusi gli
occhi. Stavo cominciando a sognare quando sentii che una
forbicina mi camminava sulla spalla. Mi girai sul materasso
cercando di schiacciarla e mi alzai per sgrullarmi. Disfeci il letto
e lo controllai minuziosamente. Ancora una volta, niente.
Malgrado il caldo indossai il pigiama azzurro di flanella e
m’infilai sotto le coperte. Così mi sembrava di essere più
protetto. Riuscii a dormire due, tre ore, finché non mi svegliarono
bussando alla porta.
«Chi è?», domandai.
«Ti vogliono al telefono», disse mia madre arrabbiata e se ne
andò.
Alzai il ricevitore.
«Pronto».
«Manuel?».
«Sì?».
«Sai chi sono?».
«No».
«Jacinto Anaya».
Spaventato, rimasi in silenzio per qualche secondo.
«Che vuoi?», gli domandai.
«Che vuoi tu?».
«Che smetti di rompermi le palle».
«Ma se non ti conosco nemmeno», disse con scherno.

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Restammo in silenzio. La sua voce era più profonda, più
maschile, di come risultava dalla segreteria. Non corrispondeva
alla sua figura paffuta, né alla sua grafia delicata.
«Se non mi conosci, smettila di mandarmi lettere e messaggi
idioti», tuonai con rabbia.
«Dobbiamo parlare, non credi?», disse repentino.
«Se non hai paura…», gli dissi.
«Ti aspetto alle cinque, allo zoo, alla fossa dei giaguari.
Immagino che sai dove sta, vero?», aggiunse con ironia.
«Sì».
Non disse altro e riagganciò. Darmi appuntamento proprio
alla fossa dei giaguari mi parve una dichiarazione di guerra.
Evidentemente sapeva più cose sul mio conto di quanto non
pensassi. Provai a richiamarlo per mandarlo al diavolo ma la
prima volta il numero risultò occupato e la seconda mi rispose la
segreteria.

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Alle tre del pomeriggio mi lavai, mi vestii e presi dal cassetto
la pistola che mi aveva regalato Camariña. In realtà, ignoravo chi
fosse Jacinto Anaya: poteva essere un pazzo furioso o un emerito
imbecille che stava giocando al gioco sbagliato.
Indossai un golf di lana, un capo assurdo per un giorno così
caldo, però abbastanza largo da nascondere il rigonfiamento
causato dalla pistola che portavo in vita.
Non potevo andare in giro armato per la città, in taxi o con i
mezzi pubblici. Avevo bisogno della macchina di mia madre.
Cercai le chiavi per prenderla, ma le aveva nascoste. Non mi
restava che chiedergliela in prestito. Naturalmente disse di no.
Addussi urgenti motivi scolastici. Niente da fare.
«Mi serve davvero», la implorai.
«Anche a me».
«A me di più».
«Tu che ne sai?», disse seccata. Si alzò e chiuse la porta della
sua stanza.
Mi ricordai che mio padre teneva dei duplicati delle chiavi in
un nascondiglio nel bagno. Frugai in ogni angolo senza scovarli.
Non lo ero stato a sentire quando mi aveva spiegato dove potevo
trovarle in caso di emergenza.

Rassegnato, uscii in strada ad aspettare un taxi. Ne incontrai


uno dopo mezz’ora. Dentro la macchina faceva un caldo bestiale
ma non mi azzardai a togliermi il maglione. Aprii il finestrino e
poggiai la testa sullo schienale. Il taxi avanzava troppo piano tra
le file di veicoli. Il calore mi dava la nausea. Chiusi gli occhi e mi

163
venne in mente l’immagine della schiena bianca di Rebeca. Solo
la sua schiena, nuda, senza viso, che si drizzava umida dopo aver
fatto l’amore. Aprii gli occhi. Le macchine si muovevano lente. I
conducenti guardavano annoiati davanti a sé, una donna
rimproverava un bambino, un operaio si asciugava il sudore con
un fazzoletto e una schiena bianca svaniva dalla mia memoria,
una schiena che mai più avrei accarezzato, baciato, odorato.
Sentii la mancanza di Rebeca, della sua schiena bianca, dei suoi
orgasmi silenziosi. Sentii la mancanza della sua serenità, della
sua quiete. La sua quiete.
Mi assicurai che il revolver fosse ben assicurato alla cintura,
chiusi di nuovo gli occhi e mi addormentai.

Arrivammo allo zoo dopo quasi un’ora. L’autista mi svegliò


dicendo: «Giovane, siamo arrivati». Mi alzai. Il tassametro
segnava quarantadue pesos. Pagai con un biglietto da cinquanta,
l’unico che avevo nel portafogli. Il tassista mi diede il resto in
monete da cinquanta centesimi.
Chiesi l’ora a un ragazzo. Dieci alle cinque. Il tempo era
passato in fretta. Mi fermai davanti all’ingresso dello zoo. I
passanti vagavano distratti, alcuni venditori ambulanti
pubblicizzavano a gran voce le loro merci, una coppia si baciava.
Deglutii, nervoso, ed entrai.
Deciso mi diressi alla fossa dei giaguari. A metà strada sentii
che mancava qualcosa alla mia sinistra. Mi fermai e mi voltai: la
gabbia del coyote dal pelo giallo era vuota. Mi avvicinai. C’erano
solo degli escrementi secchi ammucchiati in un angolo e un osso
rosicchiato di cavallo. Domandai a un inserviente cosa fosse
successo al coyote.
«È morto», rispose.
«Di che?».
«E chi lo sa? Con tutti questi imbecilli che tirano porcherie
agli animali… Pensi che un giorno è morto un ippopotamo e
quando l’hanno aperto gli hanno trovato nello stomaco un
guantone da baseball, mentre in un cinghiale c’era un ciuccio per
bambini…».

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Guardai la gabbia. Ricordai il coyote che trottava in cerchio,
forte, vivace.
«Dovreste stare più attenti…».
«Ci proviamo… ci proviamo», disse l’inserviente con tono da
burocrate.
«Cazzate», gli dissi e me andai.

Giunsi nell’area dei felini e rallentai il passo. Mi avvicinai


lentamente cercando di individuare Jacinto Anaya prima che lui
individuasse me. Arrivai alla fossa e non vidi nessuno. Come al
solito, i giaguari erano sdraiati per terra, immobili, e
attorcigliavano la coda di tanto in tanto.
Mi allontanai di qualche metro e mi sedetti su una panchina
all’ombra di un grande albero, da cui si poteva vedere chi arrivava
alla fossa dai due sentieri che conducevano fin lì.
Trascorsero i minuti. Una donna con una divisa grigia
cominciò a spazzare dietro di me. Mi tolsi per non farmi riempire
di polvere e cercai un altro posto dove mettermi. All’improvviso
vidi Tania che arrivava da uno dei sentieri. Mi nascosi dietro il
tronco di un albero. Lei si fermò davanti alla fossa, si guardò
intorno, prese una sigaretta dalla borsa, l’accese e si mise a
guardare i giaguari.
La osservai per un po’. Fumava preoccupata. Faceva dei gesti
che non le avevo mai visto fare. Il modo in cui buttava fuori il
fumo, si mordeva le unghie, alzava il viso verso il sole… Mi
sembrava un’estranea, una donna sconosciuta e distante. Sentii
un malessere, come un graffio allo stomaco. Non resistetti e mi
avvicinai.
«Che ci fai qui?», le domandai.
Lei si voltò, mi guardò stupita e immediatamente gettò via la
sigaretta (una sua antica promessa, fatta dopo aver saputo che mia
nonna era morta di enfisema polmonare, prevedeva che non
avrebbe mai fumato davanti a me).
«Che ci fai tu?», domandò turbata.
«Sono venuto a cercarti».
«Come sapevi che sarei venuta?».

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«Ogni volta che sparisci, vengo a cercarti qui».
«Mi conosci bene», disse con un mezzo sorriso, nervosa.
S’inumidì le labbra e fece un lungo sospiro.
«Mi sei mancato molto», disse.
Feci segno di no con la testa.
«Non è vero».
«Perché non mi credi?».
«Perché, se ti fossi mancato, saresti venuta a darmi un bacio».
«Mi hai spaventata», disse. Mi abbracciò e mi baciò sulla
bocca.
«Aspettavi qualcun altro?», domandai.
«No, perché?».
«Perché io sì».
«Un’altra?», disse scherzando.
«No, un amico. Forse lo conosci: Jacinto Anaya».
Appena sentì il nome di Jacinto Anaya, Tania volse lo
sguardo verso il giaguaro maschio, che sonnecchiava nella fossa.
«Sono belli, vero?».
«A me mi annoiano».
«Perché?».
«Non si muovono, non sono divertenti».
Tania si scostò i capelli che le cadevano sul viso e sorrise. Tra
i suoi gesti, era quello che mi piaceva di più, e lo sapeva. Era il
suo modo di sedurmi, di attenuare la tensione.
«Questa è la cosa che ammiro di più nei giaguari: che se ne
stanno tranquilli tutto il giorno, ma gli basta un secondo per
uccidere».
Tania si voltò verso la fossa e indicò il maschio.
«Guardali: sono gli animali più belli della terra».
Diedi un’occhiata intorno per assicurarmi che Jacinto Anaya
non fosse arrivato. Presi Tania per un braccio e l’avvicinai a me.
Lei pensò che lo facessi con l’intenzione di baciarla e protese le
labbra, ma la evitai.
«Che c’è?», domandò.
«Come hai conosciuto Jacinto Anaya?», le domandai
stringendole il braccio.

166
«E chi lo conosce?», rispose e cercò di liberarsi.
«Non fare la cretina», le gridai e la strinsi più forte.
La donna che stava spazzando si fermò e rimase a osservarci.
«Non fare uno dei tuoi show», mi avvertì lei.
La lasciai e si massaggiò il braccio. Frugò nella borsa, tirò
fuori un’altra sigaretta e l’accese.
«Sono gli animali più belli», ripeté guardando la fossa.
«Come l’hai conosciuto?», le domandai nuovamente.
Tania diede una gran boccata alla sigaretta e gettò fuori il
fumo inclinando la testa. Un altro gesto che mi era sconosciuto.
«Ti ho già detto che non lo conosco», rispose irritata.
Restammo in silenzio. Lei poggiò la fronte sulle sbarre. I
capelli le splendevano al sole.
«Dove sei stata ieri sera?».
Si voltò a guardarmi infastidita.
«A casa di Claudine Longega».
«Non è vero», dissi.
«Certo che è vero».
«Laura l’ha chiamata e Claudine ha detto che non sapeva
dov’eri».
Tania sorrise sarcastica.
«Perché credi a quella stupida di mia sorella?».
«Ero vicino a lei quando ci ha parlato».
Tania ebbe di nuovo un’espressione infastidita.
«Senti, non mi rompere le palle», disse e si portò la sigaretta
alla bocca. Con una manata gliela tolsi dalle labbra. La sigaretta
volò e andò a cadere nell’acqua del canale che separava la fossa
dalle sbarre.
«Non voglio che fumi!», ringhiai.
Tania mi guardò indignata con gli occhi annegati di lacrime.
«Perché?», domandò chinando la testa. «Perché vuoi sapere
tutto?».
Si portò al viso la mano sinistra e cominciò a piangere
sommessamente. La presi per le spalle e l’avvicinai a me.
«Rispondi solo a questa domanda. Non ti chiedo altro. In
questi ultimi mesi, quante volte sei stata a letto con Gregorio?».

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«Nessuna», sussurrò.
«Non mentire, cazzo!».
Tania alzò le mani, le puntò contro il mio petto e mi spinse
indietro.
«Nessuna», ripeté.
Si asciugò le lacrime, strinse i denti e si voltò per andarsene.
Con un salto le bloccai la strada.
«Guardami negli occhi, cazzo, guardami e dimmi la verità, per
la prima volta nella tua vita. Te lo chiedo per favore».
Tania schioccò la lingua e scosse la testa.
«Gregorio non ha più importanza».
«Tania, dimmi la verità».
Mi guardò negli occhi e alzò il viso con aria di sfida.
«Non la meriti».
«Ah, no?».
«No».
Tentò ancora di andarsene ma le bloccai il passaggio. Non
piangeva più.
«Dimmela».
«Ci sono stata cinque volte meno di quante sei stato tu con
Margarita», confessò.
La sua rivelazione mi mandò in bestia.
«Io non sono mai stato con Margarita», dissi, «ma tu con
Gregorio sì, troia!».
«Adesso tocca a te dire bugie?», m’interrogò sorniona.
«Non è una bugia, cazzo!».
Tania inarcò le sopracciglia e mi guardò negli occhi.
«Basta con le stupidaggini, OK?».
Cominciai a sentire che perdevo il controllo e la tirai per la
maglia.
«Troia, troia!», le gridai rabbioso.
Tania avanzò di un passo e con il dorso della mano mi colpì
sulla mandibola.
«Adesso basta, stronzo».
Tirai fuori la pistola e Tania indietreggiò spaventata.
«Che fai?», domandò.

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«Sei una troia», sussurrai in preda alla rabbia.
Sparai in aria. La donna che stava spazzando si gettò a terra e
si coprì con le braccia. Tania mi fissò, sconvolta.
«Che fai?», ripeté timorosa.
Avrei voluto controllarmi, gettare la pistola contro gli alberi e
dominarmi, ma semplicemente non ci riuscii.
Mi voltai verso la fossa e cominciai a sparare contro il
giaguaro maschio. Il primo colpo lo ferì alle zampe posteriori. Il
giaguaro si alzò di scatto e cominciò a girare in cerchio. Corressi
il tiro e il secondo e il terzo sparo lo colpirono al petto. Il
giaguaro ruggì di dolore e si abbatté al suolo. Gli scaricai
addosso il resto del caricatore senza più ferirlo.
I ruggiti del giaguaro erano assordanti. Un custode cominciò
a soffiare nel fischietto. Tania e io ci guardammo.
«Scusa», mormorai.
Il suono del fischietto si avvicinava sempre di più e cominciai
a correre. Saltai degli arbusti e a tutta velocità mi diressi verso
l’uscita. Un custode interno cercò di fermarmi e lo travolsi. Mi
resi conto che non sarei mai riuscito a raggiungere l’uscita. Saltai
i binari del trenino e mi arrampicai sulla rete che circondava il
parco con il revolver ancora in mano. Caddi dall’altra parte e
corsi a perdifiato. La gente si scansava al mio passaggio. Lungo
la strada vidi un tombino con il coperchio rotto e dentro ci buttai
la pistola. Sudavo. Il golf di lana mi pizzicava sul collo e sulla
schiena. E a ogni passo sudavo di più.
Oltrepassai il Paseo de la Reforma schivando le automobili,
poi attraversai i parcheggi del Museo di Antropologia ed entrai
nella zona del Polanco. Corsi per interi isolati fino a scoppiare.
Mi nascosi dietro la siepe di un campo abbandonato e mi lasciai
cadere su un prato all’inglese. Ero spaventato da me stesso,
pentito. Pensai che la polizia mi avrebbe dato la caccia fino a
trovarmi e che decine di pattuglie mi stessero alle costole.
Mi tolsi il golf. Il sudore mi bagnava la schiena e il petto. La
lana pizzicava in modo insopportabile. Mi tremavano le gambe.
Respiravo a fatica. Affondai il viso nell’erba. Non capivo perché
l’avevo fatto. Mi misi a piangere come se piangessi il dolore di

169
un altro, finché non scese la sera.

170
Rimasi disteso sul prato per quattro, cinque ore. Stanco,
molto stanco. Sentivo scivolare il tempo, come se non passasse
davvero. Le luci mi apparivano opache, i rumori silenziosi: finti.
Era tutto finto. Una scenografia.
Una famiglia di topi mi passò davanti più volte. Tre topi
grandi e quattro piccoli che andavano e venivano da alcune tavole
buttate in un angolo. Sette fantasmi grigi. Avrei voluto
ammazzarne uno, sventrarlo e lasciarlo marcire al caldo della
notte. Che odore hanno i topi morti? Chissà se Tania lo sapeva.
Tania, Tania. Io marcivo al caldo della notte come le ferite del
giaguaro. Che odore ha quella cosa che le donne hanno tra le
gambe? Di topo morto? Di tradimento? O di Gregorio e me? Che
cazzo di odore ha?
Pensavo e ripensavo e non mi muovevo, guardando i topi, a
faccia in giù, sperando che il mondo, con uno dei suoi giri,
rimettesse a posto quello che io avevo guastato. E non mi
muovevo, e pensavo, pensavo… mentre i topi mi scivolavano
davanti, nervosi, attenti.
Riuscii ad alzarmi e mi sedetti sul mucchio di paglia. I topi
scapparono. Li spiai dentro alla loro tana ma non li vidi più.
Decisi che la cosa migliore che potevo fare era rifugiarmi all’803.
Uscii in strada. Anche se la stazione della metro era vicina,
preferii prendere un taxi. Chiesi al conducente di portarmi a
Calle de Pirineos, nel quartiere Portales. Aprii il finestrino
perché il vento mi battesse in faccia. Pensai a Tania. Non volevo
perderla. L’amavo troppo, cazzo, troppo.

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Il tassametro segnava progressivamente quindici, venticinque,
trenta pesos. Misi la mano nella tasca dei pantaloni e tirai fuori la
manciata di spiccioli da cinquanta centesimi che mi era rimasta.
Quando il tassista rallentò a un incrocio, gettai le monete sul
sedile posteriore, scesi dalla macchina e imboccai di corsa una
strada in senso contrario. Riuscii a sentire il tassista che mi
mandava a fare in culo.
Arrivai al motel. Pancho guardava la televisione nell’ufficio,
seduto su uno sgabello.
«Ciao», gli dissi.
«Ciao», mi rispose.
Vederlo fu un gran sollievo. Il moro era malato e Camariña
aveva chiesto a Pancho di sostituirlo. Almeno ci sarebbe stato lui,
per la notte.
Rimasi un po’ a vedere la televisione. Pancho era molto
informato sulla telenovela che stavamo guardando e durante la
pubblicità mi spiegava per grandi linee la trama. Si trattava di una
ragazza che doveva decidere se continuare la sua relazione con un
uomo sposato, che la amava alla follia, o lasciarlo per andarsene a
vivere in un paese vicino al mare. Stando al racconto di Pancho,
erano cento puntate che la ragazza non riusciva a decidersi, e
probabilmente gliene sarebbero servite altre cento per farlo.
Alla fine della puntata mandarono un anticipo del
telegiornale. Notizie su un viaggio del presidente, su una nuova
legge a sostegno del commercio estero, sulla cattura di alcuni
ladri di automobili. Niente su quanto era accaduto allo zoo.
Pancho mi disse che Tania non si era fatta vedere al motel.
«Non è venuto nessun cliente», si lamentò, «una noia mortale».
Mi offrì di dividere con lui delle polpette di pollo che gli aveva
preparato sua madre (l’equivalente dei miei tramezzini al pollo?).
Dopo mangiato guardò l’orologio, mi chiese scusa e andò a
mettere delle lenzuola in lavatrice. Avrei voluto che restasse.
Mi incamminai verso la stanza. In corridoio incrociai il
ragazzo coi capelli ricci. Mi salutò affettuoso, come se tra noi ci
fosse una grande amicizia. Si fermò a chiacchierare con me e in

172
venti minuti mi raccontò di suo padre che era alcolizzato, del
matrimonio di sua sorella con un canadese, dei voti eccellenti di
suo nipote alle superiori e della vita del suo bisnonno, per sommi
capi. Io avrei voluto che continuasse fino all’alba, che non mi
lasciasse solo, ma poi arrivò una coppia con uno Jetta bianco e
dovette andare a riscuotere.

La stanza splendeva in modo impeccabile. Avevano messo


una coperta nuova e si sentiva ancora il profumo del detersivo per
pavimenti. Il romanzo di Eusebio Ruvalcaba era sempre aperto
sulla scrivania, alla stessa pagina a cui l’avevo lasciato.
Mi sdraiai nudo sulla coperta nuova. Non sapevo cosa
sarebbe successo in futuro, se avrei incontrato ancora Tania, se
avrei più avuto notizie di Jacinto, se sarei riuscito a liberarmi di
Gregorio e del suo piano di distruzione. All’improvviso tutto mi
sembrò ridicolo: le lettere, le sparizioni di Tania, il mistero di
Jacinto, i segreti svelati, il giaguaro ferito, io stesso.
Presi il romanzo di Ruvalcaba. Oralia, una mia amica, mi
aveva insegnato un metodo per utilizzare qualsiasi libro come il
libro dei Ching. Consisteva nel formulare una domanda, poi
aprire il libro a caso e leggere sempre la quinta frase del terzo
paragrafo. Bisognava scartare i dialoghi, le pagine che avevano
meno di tre paragrafi e – ovviamente – i paragrafi costituiti da
meno di cinque frasi.
«Che sta succedendo?», domandai. Sfogliai rapidamente il
libro e mi fermai alla pagina ottantuno. La frase diceva: «Ogni
individuo raccontava la sua versione». Mi sembrò una sintesi
precisa di quello che stava accadendo intorno a me. C’erano
troppe versioni della stessa storia che, invece di chiarirla, la
rendevano solo più confusa. Gregorio raccontava ferocemente la
sua versione, Tania si rifiutava di darla, a Margarita pesava la sua
e io la mia la cercavo ancora.
«Che succederà?», fu la mia seconda domanda. Capitò la
pagina diciannove. La frase diceva: «E il soldato aspettava la
morte come si aspetta il mattino». La frase mi sembrò una
premonizione terribile: chi aspettava la morte? Mi spaventai e

173
chiusi il libro. Spensi la luce ma non riuscii ad addormentarmi:
temevo l’incontro con la notte, la lunga notte del bufalo azzurro.
Uscii dalla stanza a prendere aria. Trovai Pancho
addormentato su una sedia in ufficio. Cercai il ragazzo dai capelli
ricci per conversare con lui. Percorsi tutto il quadrilatero delle
stanze cercando di localizzarlo, ma non lo trovai. Tornai alla
reception e imboccai il corridoio che passando dietro alle stanze
portava alla lavanderia. Lo scoprii accucciato sotto la finestra
dell’804, che spiava la coppia dello Jetta bianco attraverso una
fessura tra le tende. Riuscii a vedere che si masturbava. L’intimità
trasformata in spettacolo porno. Quante volte aveva spiato anche
noi due, quel bastardo? Mi fece pena, e disgustato tornai in
camera.
La stanchezza mi vinse e quando aprii gli occhi erano le dieci
del mattino. Mi infilai i pantaloni e uscii nel patio. Pancho, di
buon umore, lavava il pavimento di uno dei garage, come sempre.
Gli domandai se aveva un quotidiano da prestarmi. Andò in
ufficio e tornò con «La Reforma». Mi sedetti a leggerlo sul
tappeto. In un riquadro della prima pagina si dava la notizia della
morte del giaguaro per mano di uno “sbandato”. Nella pagina
dedicata alla città si fornivano maggiori dettagli sull’accaduto. La
giornalista iniziava l’articolo scrivendo: «un proiettile sparato nel
cuore del pomeriggio ha tolto la vita a uno dei più maestosi
esemplari del giardino zoologico di Chapultepec». Poi
continuava raccontando di come una ragazza era stata sul punto
di essere aggredita da un «alienato mentale, che dopo aver fallito
nel suo intento, ha sfogato la sua furia sparando a raffica
sull’indifeso felino». Vari testimoni corroboravano la versione,
inclusa – naturalmente – la donna che spazzava accanto alla
fossa.

Il referto del veterinario precisava che il giaguaro era morto


per un arresto respiratorio, in conseguenza di un’emorragia al
polmone destro. «È morto asfissiato dal suo stesso sangue»,
concludeva la giornalista.

174
Erano state raccolte anche altre dichiarazioni. Alla direttrice
dello zoo, l’atto sembrava «aberrante e crudele». Un consigliere
municipale insisteva per «punirlo severamente», e un membro
dell’opposizione assicurava che «un fatto così deplorevole deriva
dall’inefficienza dell’amministrazione della capitale nel
contenere la violenza urbana».
Voltai pagina. Nella parte superiore c’era un identikit del
criminale. L’immagine non corrispondeva a quella del mio viso.
Tania aveva deciso di giocare a tutti uno scherzo sottile e geniale:
aveva descritto i tratti di Gregorio e il disegnatore aveva ottenuto
una somiglianza quasi perfetta. Scoppiai a ridere. Sicuramente la
polizia giudiziaria aveva diffuso la descrizione a tutti gli agenti.
Me li immaginai a indagare su un sospetto morto una settimana
prima, seguendone le orme fino all’urna.
Non c’era dubbio: Tania giocava in serie A. Era una gran
donna e non potevo perderla. Soprattutto ora che dalle pagine del
giornale si prendeva gioco di Gregorio e a me mandava una
dimostrazione del suo amore.

175
Andai alla reception per telefonare. Dovevo chiamare casa e
avvisare i miei che stavo bene. Rispose mio fratello. Mi avvertì
che mio padre era molto arrabbiato perché non era riuscito a
chiudere occhio. Mi inventai che all’ultimo momento mi avevano
chiesto di fare un lavoro urgente all’università e che ero stato
costretto a riunirmi con i miei compagni a casa di uno di loro.
«Spiegaglielo tu a papà», gli chiesi. Poi gli domandai se c’erano
messaggi. Mi disse che in mattinata era venuto a cercarmi un
uomo grasso e alto. Luis gli aveva chiesto cosa volesse, e il
ciccione gli aveva consegnato due lettere aggiungendo: «Di’ a
Manuel che gliel’ho portate di persona così vede che non mi
nascondo e digli anche che ieri pomeriggio ha fatto una cosa
molto, molto brutta». Le lettere Luis le aveva lasciate nella mia
stanza. Non c’era altro da dire e riagganciammo.
La visita del ciccione a casa mi fece sentire vulnerabile.
Evidentemente aveva assistito a quanto era successo allo zoo e
poteva ricattarmi. Di sicuro aveva osservato tutto spiando Tania e
me, come il ragazzo con i capelli ricci aveva spiato la coppia nel
motel. Voyeuristi di merda, tutti e due.
Chiamai lo 040 cercando di scoprire quale fosse l’indirizzo
corrispondente al numero di telefono, ma l’operatrice mi
comunicò che quello di Jacinto era un numero privato e quindi
non poteva darmi l’informazione.
Chiamai a casa di Jacinto e mi rispose la segreteria. «Vai a
fare in culo, stronzo», gridai nella cornetta e riattaccai. Poi
telefonai a casa di Tania per sapere se fosse tornata. Tra le
lacrime sua madre mi rispose di no. Aveva il presentimento che

176
fosse successo qualcosa di grave alla figlia. Cercai di calmarla
assicurandole che Tania sarebbe tornata presto. La madre
continuava a singhiozzare e alla fine pensai che fosse meglio
riagganciare.
Sul bancone della reception c’era una busta di noccioline
piccanti. La rubai. Non avevo più soldi né per fare colazione né
per tornare a casa. Mi pentii di aver lasciato tutti gli spiccioli al
tassista.
Andai in camera e mi sedetti sul letto a mangiare le
noccioline. Dopo un quarto d’ora sentii il rumore di una
macchina che parcheggiava nel garage. Mi affacciai a guardare:
era un Cavalier rosso. Forse una coppia si era sbagliata e s’era
infilata nel nostro garage. Pancho avrebbe chiarito l’equivoco.
Mi spogliai e mi misi sotto la doccia. L’acqua, cadendomi
sulla schiena, mi rilassò. Volevo restare tranquillo, mantenere la
lucidità sufficiente per non commettere altre stupidaggini come
quella allo zoo.
Finii di farmi la doccia, mi asciugai, mi avvolsi
nell’asciugamano e quando uscii dal bagno trovai Tania seduta
sul letto, che mi osservava in silenzio. Senza dire niente si alzò,
venne verso di me, sciolse il nodo che avevo fatto
all’asciugamano e me lo tolse. Indietreggiai di un passo, mi
guardò nudo, mi prese la mano e mi tirò verso il letto.
«Abbracciami», disse.
«No».
Si avvicinò e io mi spostai di lato. Tania si lasciò cadere sul
materasso e restò distesa con le braccia allungate.
«Non vieni?».
Feci segno di no con la testa. Tania sospirò e si voltò per
darmi le spalle.
«Dobbiamo parlare», le dissi.
«Non c’è niente di cui parlare», mormorò.
Mi sedetti sul lato opposto del letto. Tania si voltò di nuovo e
mi guardò negli occhi.
«Mi sei mancato», disse.
Si alzò e cominciò a sbottonarsi la camicia.

177
«Non avevi nessun motivo di ammazzarlo», disse.
«Non volevo farlo».
«Si è messo a ruggire come un pazzo, poi si è calmato e si è
messo a tossire sangue, finché non si è mosso più…».
Si fermò un momento, si morse un’unghia e continuò.
«Volevo andarmene ma non riuscivo a smettere di guar​darlo…
non potevo… poi è arrivata un sacco di gente e la polizia».
Arrotolò la camicia e la gettò sulla sedia. Si tolse il reggipetto
e i seni restarono nudi.
«Pensa se una volta mi scoprissero un tumore e me li
dovessero togliere».
«Non dire cazzate».
Si portò le mani ai seni e li strinse con forza.
«Ti immagini il mio petto vuoto, pieno di cicatrici?».
Tania sapeva essere crudele, quando voleva.
«Non me lo immagino», le risposi.
Liberò i seni e sulla pelle le restarono i segni delle dita. Si
tolse il resto dei vestiti e s’infilò sotto le coperte.
«Vieni», disse ancora.
La guardai senza risponderle.
«Per favore, vieni…».
«Dobbiamo parlare», ripetei.
«Dopo», mi pregò.
Mi sdraiai vicino a lei. Mi baciò e mi accarezzò la fronte.
«Ti amo molto più di quanto credi», disse.
«Non ti credo», le dissi.
Cercò di baciarmi sulla bocca. Strinsi le labbra e con l’indice
le spinsi il mento indietro.
«Non posso», le dissi.
Mi guardò negli occhi.
«Anch’io sto male per quello che sta succedendo. Sto male
per quello che hai fatto e per quello che ho fatto anch’io».
Cercò di baciarmi un’altra volta e la evitai di nuovo.
«Non posso e non voglio», le dissi.
Mi prese il viso tra le mani e lo avvicinò al suo.
«Abbracciami dieci minuti per favore, non ti chiedo altro. Se

178
vuoi dopo mi cacci via a calci, mi sputi addosso, mi mandi al
diavolo o quello che ti pare. Ma adesso abbracciami».
Facemmo l’amore con una triste intensità. Alla fine Tania
espulse il mio pene e cominciò a urinare con un flusso lento,
continuo. Sentii la sua urina scorrermi sul ventre e tra le cosce,
calda, spessa. «La pioggia dorata», mormorò.
La strinsi con forza. Volevo impregnarmi di lei, inzupparmi
della sua urina, del suo sudore, della sua saliva, delle sue
secrezioni vaginali. Non l’avevo mai amata come in quel
momento. Non volevo più discutere con lei. La sua relazione con
Gregorio, le sue assenze, i suoi segreti si diluirono nell’amoroso
torrente della sua urina. Che importava se Gregorio l’aveva
penetrata decine di volte. Ormai non sarebbe stata più sua. Tania
mi poggiò la testa sul petto, senza parlare.
«A che pensi?», le domandai.
Lei sospirò e sorrise.
«Ai nostri figli», rispose, «a come sarebbero, al nome che
potremmo dargli».
«E come sarebbero?», indagai.
Mi baciò sul mento e rimase a lungo pensierosa.
«Mi bocceranno in tutte le materie, questo semestre», disse
all’improvviso.
«Vai all’università un giorno sì e dieci no. Che pretendi?».
«Be’, cosa è meglio, scusa… la quantità o la qualità?».
Rise un po’ della sua battuta e restò di nuovo in silenzio. Il
suo corpo nudo brillava leggermente.
«È vero che in questi giorni ho dormito a casa di Claudine»,
disse all’improvviso.
«E perché quando l’abbiamo chiamata ha detto che non
sapeva dov’eri?».
«Le avevo chiesto io di farlo».
«Perché?».
Rimase in silenzio qualche secondo, poi proseguì:
«Mi ha prestato la macchina per venire qui, la mia si è
fermata per strada vicino casa sua. Quanto sono scema, vero? Mi
dimentico sempre di fare benzina».

179
Si alzò e si inginocchiò vicino a me. Scrutò i miei lineamenti
e le si illuminò il viso.
«Ora lo so!», disse. «Se nostro figlio fosse un maschio mi
piacerebbe che assomigliasse a me, e se fosse una femmina a te».
«Povera bambina», scherzai.
Si chinò su di me, prese la borsa dalla scrivania e tirò fuori
un orologio. Guardò l’ora e saltò giù dal letto.
«È tardissimo, devo andare».
«E dai, resta», la implorai.
«Devo restituire la macchina a Claudine, se no mi ammazza».
«Portagliela dopo».
«Non posso. Ma ti prometto che torno prima possibile».
«Promesso?».
«Te lo giuro».
S’incamminò verso il bagno e si fermò a metà della stanza.
«Non vieni a farti la doccia?», domandò.
«No, voglio restare col tuo odore addosso per tutto il giorno».
Sorrise e mi mandò un bacio. Affondai la faccia nel cuscino.
Dovevamo comprare un televisore, cambiare le tende, appendere
altri quadri, portare altri libri, una radio. Dovevamo trasferirci
nell’803 e non uscire più di lì.
Mi venne fame. Presi la borsa di Tania e frugai dentro
cercando qualcosa da mangiare. Trovai un tubetto di caramelle e
me ne misi in bocca una al limone. Aprii il suo portafogli per
vedere se aveva abbastanza soldi per farmi un prestito. Fra le
banconote trovai due foglietti piegati in quattro. Li presi e li aprii
sul letto. Su tutti e due c’erano scritte, con la grafia di Gregorio,
delle frasi di alcune canzoni famose. Una diceva:
Di notte sento solo il lamento
del nostro amor.

E l’altra:
Come dimenticare il fuoco del tuo amore,
come resistere la notte senza la tua pelle…

180
Continuai a frugare nella sua borsa e scoprii una busta
arrotolata con la grafia rotonda di Jacinto Anaya. Davanti c’era
scritto «Tania» e sotto una data: «Venti gennaio». All’interno
c’era un tovagliolo di carta con una frase incompleta
scarabocchiata da Gregorio: «Ti aspetto, ti aspetto il…».
Rimisi tutte le cose nella borsa. La richiusi e la posai sulla
scrivania. Mi faceva male la testa e mi mancava il respiro. Di
nuovo la gelosia, la paura di perderla, il maledetto fantasma di
Gregorio che s’intrometteva e feriva e distruggeva.
Sentii Tania chiudere il rubinetto della doccia. Come
affrontarla? Cosa dirle? Aprì la porta e una cappa di vapore entrò
nella stanza. Tania uscì nuda, con i capelli bagnati che le
gocciolavano sulla schiena. Si fermò davanti allo specchio e si
contemplò di profilo.
«Devo prendere un po’ di sole», disse.
Si sedette sul bordo del letto e mi chiese di asciugarle i
capelli. M’inginocchiai dietro di lei e la sfregai con
l’asciugamano. Tania mi lasciava fare, docile, distesa. Di colpo
provai l’angoscia di non sapere chi era, in realtà, né dove stava
andando. Come se avesse intuito i miei dubbi, si voltò verso di
me e mi baciò sulla bocca.
«Non smetterò mai di amarti», disse.
«Sei sicura?».
«Sicurissima…».
Si alzò in piedi, si asciugò la base della nuca e raccolse le sue
cose.

Cominciò a vestirsi distrattamente, come se fosse stata da


sola nella stanza. Mi era sempre piaciuto guardarla mentre lo
faceva, ma quella volta la osservai con un nodo alla gola.
Si chinò, rovesciò i capelli in avanti e li spazzolò varie volte.
Qualche goccia d’acqua schizzò sul pavimento. Tania si rialzò,
finì di sistemarsi i capelli con le dita, si diede un’ultima occhiata
allo specchio e si sedette vicino a me.
«Torno fra un’ora o due», disse.

181
«Va bene».
Mi guardò per qualche secondo e con l’indice destro mi
accarezzò il viso.
«Ciao», disse e si alzò. La presi per il braccio.
«Quando torni dobbiamo parlare», le dissi.
Guardò per terra e fece segno di no con la testa.
«Non vale la pena».
«Per me sì».
«No».
«Dobbiamo chiarire molte cose», la interruppi.
«Dimentica tutto».
«Per favore, ne ho bisogno», insistetti.
Si morse il labbro e annuì. Mi diede un bacio lunghissimo e
uscì. La sentii salire in macchina e mettere in moto. Poi udii lo
sportello dell’auto che si riapriva. Mi alzai e sentii un rumore alla
porta della stanza. Tania ci infilò sotto un foglio di carta e poi la
sentii risalire in macchina. Mi affacciai alla finestra e riuscii a
intravedere il Cavalier rosso che si dirigeva verso l’uscita.

Sul foglio Tania aveva scritto:


È in fondo all’arcobaleno che si incontra
il posto dove cade la pioggia dorata.

Era una citazione di una poesia di Bukowski, in cui si parla


di un uomo che scopre la vera felicità quando un bambino gli
urina tra le mani mentre gli sta cambiando il pannolino.
E, sulla parte posteriore del foglio, Tania aveva scritto:
Scusa per quello che ho fatto prima
e per quello che farò dopo.

E sotto:
Ti amo più di quanto credi.

Probabilmente Tania aveva ragione: perché parlare, perché

182
tornare ancora su un passato che ormai non si poteva più
impedire. Meglio rassegnarsi ad accettare i fatti e a perdonare.
Meglio perdonare, che perderla.
Mi piegai sul ventre per respirare il suo odore. Sui peli avevo
ancora l’umido della sua urina. Misi la sua breve lettera sul
cuscino, ci poggiai la testa sopra e chiusi gli occhi.

183
Alle due mi svegliarono bussando alla porta. Pensando che
fosse Tania mi avvolsi in un asciugamano e aprii, senza guardare
dallo spioncino. Mi trovai davanti due uomini: uno smilzo, di
statura media, e l’altro alto e robusto.
«Manuel Aguilera?», domandò lo smilzo.
Annuii.
«Ci faccia la cortesia di vestirsi e di accompagnarci».
«Dove?».
«Lo vedrà».
«Un momento», dissi e chiusi la porta. Mi misi in fretta i
pantaloni e una camicia. Pensai di scappare dalla finestra ma
appena scostai la tenda per guardare vidi altri due uomini che
presidiavano il corridoio. Ebbi la certezza che Jacinto Anaya mi
aveva denunciato alla polizia.
Aprii un poco la porta e chiesi allo smilzo se potevano
aspettare che mi facessi una doccia.
«No», disse con fermezza, «si sbrighi».
Non mi consentì di richiudere la porta. Mi sedetti sul tappeto
e cominciai a infilarmi i calzini. Pancho e Camariña si
avvicinarono alla stanza.
«Che succede?», domandò Camariña.
«Niente», rispose lo smilzo.
Camariña si affacciò nella stanza.
«Che succede, ragazzo?», mi domandò.
Alzai le spalle.
«Non lo so».
Finii di allacciarmi le scarpe e uscii. I due uomini mi

184
circondarono e mi condussero verso uno Spirit bianco. Camariña
si mise in mezzo.
«Non potete portarlo via così», protestò.
Senza scomporsi, quello più robusto gli chiese di farsi da
parte. Camariña insistette:
«Avete un mandato di arresto?».
«Lei è un parente del signore?», domandò il poliziotto.
«No».
«Allora devo chiederle di lasciarci fare il nostro lavoro», gli
disse in modo cortese lo smilzo.
Aprirono lo sportello posteriore della macchina e mi
ordinarono di sedermi al centro. Arrivarono anche gli altri due
poliziotti e si accomodarono vicino a me, uno per ogni lato.
Camariña fece un ultimo sforzo:
«Liberatelo e sistemiamo tutto», propose.
L’uomo robusto sorrise divertito, si sedette al posto di guida e
si allacciò la cintura di sicurezza.
«Buonasera», disse e accelerò.

Lungo la strada i poliziotti quasi non parlarono. Di tanto in


tanto una voce di donna risuonava dalla radio incassata sotto al
cruscotto. Dal modo in cui si rivolgevano allo smilzo capii che
era il capo. Non sembravano poliziotti. Portavano vestiti chiari,
di buon taglio, ben abbinati. Non mi minacciarono e non furono
né volgari né arroganti. Piuttosto mi ignorarono.
Per qualche ragione di sicurezza non abbassarono il
finestrino. Anche se il calore era soffocante, non sembravano
farci caso. Restavano impassibili, concentrati nei loro pensieri.
Con tutto quel caldo l’aroma di Tania che emanava dal mio
corpo divenne più concentrato, più penetrante. Dava la
sensazione che nella macchina ci fosse anche lei. Riempiva tutta
l’aria. Non so se gli altri sentivano l’odore di urina come lo
sentivo io, ma a me cominciò a dare la nausea. Pensai di
chiedergli di abbassare il finestrino per areare la macchina, ma
non ebbi il coraggio di farlo.
Non ebbi piena coscienza di quello che stava accadendo

185
finché non arrivammo alla stazione di polizia. L’auto entrò in un
parcheggio sotterraneo e si fermò davanti ad alcuni ascensori. Lo
smilzo e gli altri poliziotti mi fecero scendere, mentre il più
robusto ripartì con la macchina.
Prendemmo l’ascensore e salimmo al secondo piano. Nei
corridoi altri agenti salutarono con deferenza lo smil​zo, che dava
con voce soave ordini, cui i suoi subordinati rispondevano con un
«Sì, comandante». Arrivammo a degli uffici. Una segretaria si
alzò in piedi quando ci vide arrivare e consegnò allo smilzo vari
documenti. Lo smilzo si chinò sulla scrivania, lesse alcune carte,
ne fir​mò delle altre e alla fine mi condusse in un piccolo cu​-
bicolo. Mi invitò a entrare con un gesto quasi femminile e mi
chiese di aspettarlo un momento. Entrai e mi lasciarono da solo.
Dalle persiane potei constatare che i due uomini che mi avevano
scortato erano rimasti a controllarmi.
Nel cubicolo c’erano solo un tavolo e una sedia. Non era un
luogo comodo, ma almeno era meglio di una cella. Fuori si
sentiva lo squillo ininterrotto dei telefoni e il rumore delle
macchine da scrivere. Gettai uno sguardo dalla finestra. Uomini
in giacca e cravatta si riposavano appoggiati agli Spirit bianchi.
Un lustrascarpe aspettava clienti seduto su una panca. Due donne
con i capelli tinti di biondo discutevano con una certa agitazione.
Alcuni ragazzini giocavano a campana sul marciapiede. Tutto
continuava come sempre, tranne me.

Rimasi da solo per un bel pezzo. All’inizio ero molto


nervoso, ma col passare del tempo cominciai a calmarmi. Avevo
commesso vari delitti: detenzione illegale d’arma da fuoco, danni
ai beni dello Stato, tentativo di furto ecc. I delitti più comuni
nella pagina della cronaca nera. Non sarebbe stato facile
sbarazzarmi delle accuse.
«Nel crimine, come nell’infedeltà, se ti scoprono devi negare
tutto, anche se tua moglie ti trova insieme a un’altra coi pantaloni
abbassati, anche se la polizia ti becca con la pistola in mano…
guarda che non sto scherzando», sentii dire una volta a un uomo
che si vantava di aver rapinato molte banche e di essersi fatto

186
decine di donne. L’avevano catturato diverse volte ma era riuscito
sempre a cavarsela e a farsi assolvere.
Lo avevo conosciuto perché il suo avvocato era un socio del
padre di Tania e una sera mi ero ritrovato con loro al ristorante.
Con la presunzione del principiante, in dieci minuti l’uomo mi
descrisse tutta la sua vita criminale e sessuale. Non gli importò
sapere chi fossi né cosa facessi nella vita. Per consolarmi pensai
che se un chiacchierone come quello non s’era beccato
quarant’anni di carcere e l’aveva sfangata ogni volta, sicuramente
mi sarei salvato anch’io.
Cominciavo ad annoiarmi, dentro al cubicolo, e dopo tre ore
non sapevo più che fare. Avevo contato i nodi del tappeto, avevo
calcolato gli anni di carcere che mi potevano dare, avevo
immaginato le storie dei poliziotti che circondavano l’edificio:
chi di loro era della narcotici, chi omosessuale, quanta gente
avevano ammazzato.
Il ritardo dello smilzo cominciò a preoccuparmi. Perché ci
metteva tanto? Stava preparando la mia pratica? O corroborando i
dati dei testimoni oculari? Pensai addirittura che si fosse
dimenticato di me.
Dovevo assolutamente urinare. Aprii la porta e chiesi a uno
dei poliziotti il permesso di andare in bagno.
«Resisti ancora un pochino», disse la guardia con il tono di
un professore delle medie.
Il «pochino» durò altre tre ore. Verso sera arrivò lo smilzo con
il poliziotto più robusto. Mi domandò scusa per l’attesa e ordinò
alla guardia di portargli una sedia.
Lo smilzo si sedette davanti a me e poggiò sul tavolo un
fascicolo color mango.
«Non ci siamo presentati ufficialmente», disse con un
sorrisetto, «perché io so che tu sei Manuel Aguilera ma tu non sai
chi sono io, vero?».
Feci segno di no con la testa e lo smilzo allungò la mano e
strinse la mia.
«Sono il comandante Martín Ramírez, e il signore», disse
indicando quello più robusto, «è l’agente Luis Vives».

187
La sua cordialità era tale che fui sul punto di dirgli: «Molto
piacere» o «Molto onorato». Ma mi limitai a dire: «Molto bene».
Lo smilzo si allungò sulla sedia, unì il palmo delle mani e se
le portò alle labbra, come se pregasse.
«Sai perché sei qui, vero Manuel?».
«No», risposi titubante.
«Andiamo, ragazzo! Non si dicono le bugie».
«Davvero, non so di che sta parlando».
Lo smilzo si voltò verso il tipo più robusto e gli sorrise con
complicità.
«Chi ti ricorda il nostro amico?», gli domandò.
«Pinocchio», rispose Vives.
«È vero», disse lo smilzo tutto contento. «Pinocchio!».
Si rivolse a me con espressione interrogativa.
«Ma tu non sei Pinocchio, vero?».
«No».
«Ufff! Pensavo di aver sbagliato persona», disse divertito.
Prese da una tasca della giacca un pacchetto di sigarette, ne
portò una alla bocca e mi porse il pacchetto per offrirmene
un’altra.
«No, grazie», gli dissi.
«Fai bene», disse, «le sigarette fanno molto male».
Si accese la sua e buttò fuori il fumo in direzione del soffitto,
proprio come faceva Camariña.
«Di che squadra sei?», domandò all’improvviso.
«Dell’Atlante».
«Bravo! La squadra del popolo, i puledri di ferro… Bene,
benissimo… e che ne pensi di Rolossi?».
«Il giocatore?».
«Chi altri?».
«È molto bravo».
Lo smilzo accolse la mia risposta con un sorriso e tornò a
guardare Vives con complicità.
«Vedi quanto sei bugiardo: Rolossi è pessimo».
«Non credo», replicai.
Di nuovo incrociò lo sguardo con l’altro.

188
«Chiacchierone, oltre che bugiardo. Comunque, non siamo
qui per parlare di calcio. O sbaglio?».
«Non so perché siamo qui».
Lo smilzo appoggiò il mento sul pugno destro.
«Non lo sai?», domandò stupito.
«No».
Si chinò su di me finché il suo viso fu a pochi centimetri dal
mio. L’odore di sigaretta al mentolo mi fece pizzicare il naso.
«Se ieri non avessi fatto il matto allo zoo, oggi non saresti
qui», spiegò.
«Quale zoo?».
Lo smilzo si alzò, fece il giro del tavolo e si fermò dietro di
me.
«Ahi, Pinocchio, Pinocchio… Quando la smetterai di dire
tante bugie?».
Tornò al suo posto e si sbracò di nuovo sulla sedia.
«Fai sempre così?», domandò con un sorriso.
«Per niente», gli risposi cercando di mostrarmi il più calmo
possibile.
Il comandante fece segno a Vives di avvicinarsi. Gli sussurrò
qualcosa all’orecchio e l’altro uscì dal cubicolo.
«Vediamo se così, io e te da soli, ti fidi di più e mi dici la
verità».
Il suo atteggiamento era così rilassato che mi feci coraggio.
«Di che mi si accusa?», domandai.
«Pinocchietto, Pinocchietto… Ma ci fai o ci sei?».
«Ho diritto a fare una telefonata, o no?».
«Anche quattro, se vuoi. O di più. Venti, trenta, cento».
«Voglio avvertire i miei che sono qui».
«Sì, certo. Ma a tempo debito».
«Lo voglio fare adesso, subito».
Lo smilzo si alzò in piedi, venne al mio fianco, abbassò il
viso fino a guardarmi dritto negli occhi e sussurrò:
«Senti ragazzino: forse non hai capito bene, ma qui chi
comanda sono io e se continui a fare il bambino capriccioso ti
faccio rompere le ossa a calci, subito subito. Hai capito?», disse

189
con un sorriso che m’intimidì. Si staccò un capello e continuò:
«Sono stanco, ho lavorato tutto il giorno come un idiota e
voglio andarmene a casa a guardare la televisione e a farmi una
bella scopata con mia moglie, che ne ho proprio bisogno. Tu
rispondi dicendomi la verità a tutte le domande che ti faccio, così
mi fai contento, me ne vado a casa e con gran piacere ti presto un
telefono per chiamare chi cazzo ti pare. D’accordo?».
L’offerta mi tentava molto. Forse la cosa migliore era finirla
una volta per tutte con quella farsa.
Ma in testa una voce mi ripeteva: «Nega tutto, nega tutto».
«Le sto dicendo la verità: non so di cosa sta parlando».
Lo smilzo sospirò infastidito e tornò a sedersi.
«Senti, Pinocchio. Ti dirò una cosa. Ieri sera un tipo ha perso
la testa e si è messo a sparare alle tigri come un mattacchione…».
«Ai giaguari», fui sul punto di dirgli, ma mi accorsi della mia
idiozia prima di commetterla.
«…e guarda caso questo pazzerello, che si credeva di essere
un cacciatore di tigri in Africa…».
Di nuovo fui tentato di correggerlo: «Non ci sono tigri, in
Africa».
«…ha avuto così tanta mira che ne ha ammazzata una. Non lo
sapevi?».
Feci segno di no con la testa.
«Io invece credo che lo sai», disse con convinzione.
«E perché?».
«Perché una testimone ti ha identificato come il coraggioso
cacciatore di belve».
«Una che?», domandai.
«Una testimone, una delle tue fan, Indiana Jones».
Era un tranello in cui non potevo cadere: a denunciarmi era
stato sicuramente Jacinto Anaya.
«Be’, si è confusa», replicai.
«Pinocchietto torna alla carica. Non hai sentito? Era una
delle tue fan. Come fa una tua ammiratrice a confondersi?».
Lo smilzo mi aveva messo con le spalle al muro e aspettava
che facessi il primo passo falso.

190
«Senta, comandante Ramírez», dissi cercando di mostrami
rispettoso, «non so davvero di che sta parlando. Sono rimasto a
casa tutta la sera, chiami i miei genitori, glielo diranno».
Lo smilzo inarcò le sopracciglia e si grattò il mento.
«È probabile, è probabile», disse, «ma è anche molto
probabile che tu sia l’Indiana Jones che sto cercando».
«Non sono…».
Lo smilzo alzò l’indice sinistro per farmi tacere.
«Ti propongo un accordo: vado a casa mia a dormire un paio
d’ore, perché sono veramente stanco…».
Prese il fascicolo color mango, me lo agitò davanti agli occhi
e lo appoggiò sul tavolo.
«Ti lascio questi documenti. Leggiteli con calma e quando
torno mi dici cos’hai pensato. D’accordo?».
Presi i documenti e li sfogliai sommariamente.
«Di che si tratta?».
«Pure formalità legali. Tu leggili e poi ne parliamo. Se non
sei d’accordo su qualcosa ne discutiamo e cambiamo il testo.
Facile, no?».
«E se sono d’accordo?».
La mia domanda lo sorprese. Pensò un momento a cosa
rispondere, prese una penna stilografica, di quelle molto costose,
e segnalò uno spazio in bianco sul retro di uno dei fogli.
«Semplicissimo. Mi fai una firmetta qui».
«Con cosa?».
Il comandante sorrise. Allungò il braccio e mi consegnò la
penna.
«Con questa», disse, «ma trattamela bene perché me l’ha
regalata mia moglie a Natale».
Si diede un colpetto sulle cosce e si alzò in piedi.
«Allora siamo d’accordo, vero?».
Guardò l’orologio, s’infilò il cappotto e mi salutò.
«Torno prima delle undici», assicurò, e si voltò per andarsene.
Mi alzai di corsa e lo seguii.
Sentendo la mia presenza alle spalle si girò di scatto e si
fermò di fronte a me.

191
«Che vuoi?», domandò.
«Voglio chiederle due favori».
Assunse un atteggiamento più rilassato e sorrise.
«Il primo?».
«È tutto il giorno che non mangio: potete darmi qualcosa per
cena?».
«Sì, ho già mandato qualcuno a prenderti degli hamburger».
«Grazie».
«E il secondo?».
«Me la sto facendo addosso. Mi lascia andare al bagno o
no?».
«Non preoccuparti, tra cinque minuti mando qualcuno ad
accompagnarti».
«Fate presto, perché non ce la faccio più».
«Certo, ragazzo», disse dandomi una pacca sulla spalla.
Uscì e chiuse a chiave la porta del cubicolo. Attraverso le
persiane riuscii a vedere che la consegnava a uno dei miei
custodi. Poi lo vidi allontanarsi lungo il corridoio.

Trascorsero venti, trenta minuti, e nessuno venne ad


accompagnarmi al bagno. Disperato battei con le nocche sul vetro
della porta. I due uomini mi ignorarono.
Frustrato, non potei fare altro che urinare dalla finestra. Mi
sporsi con metà del corpo e tenendomi allo stipite la feci sul
cornicione, cercando di non schizzare verso il basso: non volevo
che uno degli ufficiali seduti sulla panchina salisse a spaccarmi il
muso. Per fortuna l’urina scorse lungo il cornicione e formò un
filo che scese discretamente lungo la parete.
Non arrivò neppure la cena e cominciai a capire quali erano le
regole. D’ora in poi dipendevo dallo smilzo e tanto valeva
collaborare con lui. Per il momento i miei problemi si riducevano
all’impossibilità di pisciare in un luogo adeguato e a patire un
po’ di fame. Ma un ordine sussurrato da lui poteva significare un
cambiamento drastico della mia condizione: bastonate, torture,
minacce, ricatti. Lasciarmi da solo nel cubicolo era una

192
dimostrazione della sua disponibilità a trattare con me. Avrebbe
potuto costringermi a riconoscere la mia colpevolezza, ma la cosa
migliore era che lo facessi liberamente, senza che nessuno di quei
due dovesse intervenire.

193
Dentro al fascicolo trovai due documenti. Il primo era una
dichiarazione di responsabilità per i vari reati commessi, inclusi
alcuni che non avevo mai sentito nominare. Era redatto con il
tipico linguaggio dei testi legali e pieno di errori di ortografia.
Il secondo era una dichiarazione della testimone che mi aveva
accusato. Conteneva un resoconto abbastanza fedele di quello
che era successo allo zoo, mi descriveva con esattezza (citava
perfino le cicatrici sul bicipite sinistro) ed elencava i dati
necessari a individuarmi: il mio nome completo, il domicilio, il
numero di telefono e l’indirizzo del Motel Villalba con il numero
della stanza in cui mi nascondevo. La dichiarazione era stata
raccolta quello stesso giorno alle tredici e trenta, nella sede della
polizia giudiziaria del Distretto Federale. Era firmata da Tania
Ramos García e in calce c’era il segno della sua impronta
digitale.
Non era un’accusa costruita apposta. La firma di Tania era
autentica. La stessa con cui aveva concluso decine di lettere
d’amore. Gli stessi tratti irregolari, inclinati verso destra. Era
stata lei.
Sull’impronta digitale c’era la piccola cicatrice che le era
rimasta sul pollice destro quando si era ferita con le forbici
ritagliando dei fogli di carta. Me lo ricordo: fu una notte in cui
stava disegnando in fretta un opuscolo per un lavoro scolastico. Il
sangue scorse abbondante e imbrattò i disegni che le erano
costati ore di lavoro. Pianse disperata: non c’era più tempo per
rifarli. Cominciò a tagliare con rabbia il resto dei fogli, con il

194
dito insanguinato. Riuscii a fermarla quando già aveva combinato
un disastro. Strinsi la base del pollice per fermare l’emorragia,
disinfettai la ferita con acqua ossigenata e la coprii con una
garza. Tania mi baciò e mi domandò scusa: aveva macchiato di
sangue anche me.

Rilessi la sua testimonianza più volte. La sua denuncia era


implacabile. La narrazione dei fatti spoglia, fredda; la mia
descrizione minuziosa, precisa, come se volesse assicurarsi che la
polizia mi prendesse in fretta. Non c’era un solo punto in bianco,
non mancava alcun dato. Non trovai nel testo nessun segno di
esitazione, nessuna contraddizione, nessun aggettivo pietoso.
Tania s’era mostrata dura dall’inizio alla fine.
Presi il documento in cui mi dichiarava colpevole e lo firmai
senza pensarci su. Per non pentirmi lo misi nel fascicolo e lo
infilai sotto la porta. Uno degli uomini si chinò a raccoglierlo, gli
diede un’occhiata e lo portò in uno degli uffici attigui.
Spensi la luce e mi rannicchiai accanto alla parete. L’aroma
dell’urina di Tania mi rimaneva ancora sul ventre, forte,
persistente: doloroso. Piansi per lei e per me e per Gregorio e per
tutto quello che eravamo stati e non eravamo più. Piansi per la
cicatrice sull’impronta digitale che sanciva la sua denuncia, e per
il suo tradimento, e per la sua assenza. Piansi per quello che
avevamo perso e che ancora dovevamo perdere, per quello che
eravamo stati e non eravamo più.

Sonnecchiai un po’ sul tappeto. Mi svegliò il silenzio. Sbir​-


ciai dalle persiane. Non c’era più nessun custode a sorvegliarmi.
Non era necessario: di mia spontanea volontà avevo firmato la
mia condanna. Perché preoccuparsi di me?
Aprii la finestra. L’aria era calda, la notte scura. Mi sedetti
sul parapetto della finestra e rimasi lì fino all’alba. Vidi arrivare i
poliziotti vestiti in giacca e cravatta, le segretarie, il giornalaio, il
lustrascarpe. Vidi gli studenti delle superiori che andavano a
scuola, i muratori che facevano colazione con i loro cestini, gli
impiegati che scendevano dal pulmino.

195
Sentii tutto il movimento dell’ufficio. Le segretarie che si
salutavano, i telefoni che squillavano, gli archivi che si aprivano e
si chiudevano, le risate degli ufficiali giudiziari. Sentii gli aerei
che solcavano il cielo, la campana del camion della spazzatura, i
commercianti che alzavano le serrande dei loro negozi.
Tra poco sarei finito in carcere. Forse mi avrebbero ridotto la
pena, perché avevo firmato volontariamente la mia dichiarazione
di colpevolezza, ma non mi aspettavo meno di cinque anni di
reclusione. Scartai l’ipotesi della libertà vigilata: la morte del
giaguaro aveva fatto indignare così tante persone che la
reclusione sembrava inevitabile, inevitabile come lo era stato
l’ospedale psichiatrico per Gregorio.

Alle dieci di mattina arrivò il comandante. Sempre vestito


impeccabilmente. Odorava di lavanda e di sigarette al mentolo.
Entrò nel cubicolo, mi salutò con affabilità e si sedette davanti al
tavolo.
«Mi congratulo con te», disse.
«Perché?».
«Per il tuo attaccamento alla verità», disse con fare paterno.
Alzai le spalle – che diavolo gli importava, a uno come lui,
della verità? – e mi rimisi a guardare fuori dalla finestra. Un cane
randagio, un cucciolo, cercava di attraversare la strada senza
riuscirci. Dopo aver schivato molte macchine si decise e si lanciò
in una corsa sfrenata verso il marciapiede opposto. Per poco non
fu investito da un camion, che riuscì a schivarlo all’ultimo
momento.
«Fortunato, eh?».
Non mi ero accorto che lo smilzo si era alzato in piedi e
osservava fumando la stessa scena.
«Non ci sono abituato», disse.
«A che?».
«Al fatto che un detenuto caschi così in fretta. In genere mi ci
vogliono almeno tre o quattro giorni per convincerli».
Diede una gran boccata alla sigaretta, buttò fuori il fumo dal
naso e proseguì:

196
«Perché hai firmato?».
«Perché continuare a dire balle?», risposi.
«O hai due coglioni così, oppure non sai a cosa vai incontro».
«Ne l’una né l’altra», dissi.
Diede un altro tiro alla sigaretta e con l’unghia dell’indice la
gettò in strada. La cicca disegnò una parabola e andò a cadere sul
tettuccio di uno degli Spirit bianchi.
«Mi commuovi», disse.
Tirai fuori la sua penna dalla tasca dei pantaloni e gliela
restituii.
«Grazie», gli dissi.
La prese e se la mise nel cappotto. Nel farlo, lasciò
intravedere il manico di una pistola.
«I tuoi sono già stati avvisati. Vengono a trovarti alle dodici».
«Bene».
«Ora ti portano qualcosa da mangiare», aggiunse.
Uscì dal cubicolo, prese un telefono da una scrivania e lo
mise sul tavolo.
«Ogni promessa è un debito. Puoi fare tutte le telefonate che
vuoi. Ricordati di fare lo zero per prendere la linea».
«Grazie».
Il comandante rimase in piedi davanti a me, con un sorriso.
«Sei stato un dono del cielo, bestione».
«Perché?».
«Hai combinato un gran casino con quel tigrotto e per averti
preso mi beccherò una promozione, o almeno un premio».
«Un premio? Ma che storia… Solo perché le hanno fatto una
soffiata», dissi sorridendo.
Lo smilzo fece una smorfia, come se la mia osservazione
l’avesse sorpreso.
«Hai ragione: è stata solo una soffiata».
Sorridemmo entrambi e mi si avvicinò.
«Dammi la mano e apri le dita», mi disse. «Voglio insegnarti
un trucco di magia».
Prese il mio dito medio, sorrise di nuovo e con un movimento
repentino lo piegò all’indietro. Sentii un gran dolore irradiarsi

197
fino all’avambraccio. Un dolore insopportabile. Poi mi lasciò e
mi diede una pacca affettuosa sulla nuca.
«Mi stai simpatico, Manuel. Ma non fare il furbo».
Lo smilzo abbandonò il cubicolo e chiuse un’altra volta a
chiave.

Il dolore era intenso. Ben presto l’articolazione s’infiammò e


un semicerchio scuro si disegnò attorno alla nocca. Un poliziotto
entrò con un vassoio con la colazione. Lo poggiò sul tavolo. In
un piatto c’erano alcuni cubetti di ghiaccio. Ne prese tre, li
avvolse in un fazzoletto e me li consegnò.
«Te lo manda il comandante per la mano», disse e se ne andò.
Mi misi il ghiaccio sulla parte gonfia e a poco a poco il
dolore diminuì. Con il fazzoletto umido bendai il dito per
immobilizzarlo e mi sedetti a fare colazione. Mi avevano portato
due uova strapazzate con cipolla e prosciutto, una mela e un
bicchiere di latte. Nonostante la cipolla mangiai tutto in fretta e
non bastò a farmi passare la fame. Probabilmente lo smilzo se lo
immaginava, perché dopo cinque minuti arrivò un altro poliziotto
con tre panini dolci e un succo d’arancia.
Dopo mangiato chiamai a casa di Tania. Mi rispose Laura. Mi
disse che nemmeno Tania era tornata a casa a dormire e che non
sapevano dove trovarla.
«Come puoi immaginare», disse, «i miei stanno dando di
matto».
«Anch’io», le assicurai.
«Dove sei?», domandò.
«In carcere», le risposi senza esitazione.
«Ti ho chiesto dove stai, non dove meriteresti di stare».
«E io ti ho detto in carcere. Perché?».
«Perché ti ho chiamato sia ieri sera che l’altroieri, e tuo padre
mi ha detto che non eri tornato a casa neanche tu».
«E perché mi hai chiamato?».
«Sai com’è fatta mia madre. Voleva sapere se avevi visto
Tania».
«No, non l’ho vista».

198
«Non ti credo».
«E non mi credere».
«Che state combinando, voi due?».
Mi infastidì il tono della sua domanda e le riattaccai il
telefono in faccia. Il dolore ricominciò a tormentarmi. Mi tolsi il
fazzoletto. Il cerchio scuro si era allargato fino al dorso della
mano. Non riuscivo a piegare il dito.
Composi il numero di Jacinto Anaya. Partì la solita segreteria
del cazzo. «Figlio di puttana», sussurrai nella cornetta e
riattaccai.
Un poliziotto entrò a riprendere il vassoio. Gli chiesi di
accompagnarmi al bagno. Acconsentì immediatamente. Mi
accompagnò insinuandosi tra file di scrivanie, davanti a segretarie
che mi scrutavano con curiosità e a guardie giurate che si
spostavano controvoglia per farci passare.
Entrai in bagno e l’uomo mi aspettò di fuori. Dentro non
c’era nessuno e urinai liberamente appoggiando la fronte alla
parete. Ben presto avrei perduto quei piccoli momenti di intimità
quotidiana, entrando in carcere. Era questa la mia preoccupazione
maggiore: i bagni e le docce in comune, le celle da dividere con
degli sconosciuti, le perquisizioni, le visite vigilate. La prigione
non mi avrebbe allontanato solo dal mondo ma anche da me
stesso, dalle mie manie, dalle mie abitudini.
Mi tolsi la maglietta e mi guardai allo specchio. Ero
dimagrito. Lo notai dalle guance, dagli avambracci. Aprii il
rubinetto dell’acqua calda e tappai il lavandino con la carta
igienica. Ci infilai dentro la mano ferita. Il solo contatto con
l’acqua mi provocò un dolore penetrante. Resistetti e la lasciai a
mollo finché non sentii che i tendini e i legamenti si rilassavano.
Provai un leggero sollievo ma, appena la mossi, la mano
ricominciò a farmi male.
Insaponai il fazzoletto e mi strofinai il ventre per liberarmi
delle tracce di urina di Tania. Poi mi lavai il braccio sinistro, il
petto e le ascelle. Il poliziotto entrò in bagno e protestò perché
tardavo troppo. Per sbrigarmi mi inclinai sul lavabo e mi
sciacquai direttamente sotto al getto, girandomi in modo che

199
l’acqua raggiungesse tutta la schiena. Mi strofinai la faccia e mi
inumidii i capelli.
Uscii dal bagno, senza asciugarmi, ancora grondante, con la
camicia e i pantaloni zuppi. Vedendomi, il mio custode ebbe un
gesto di disapprovazione e mi riaccompagnò al cubicolo.

200
I miei arrivarono puntuali, alle dodici. Il comandante li
accompagnò al cubicolo e ordinò di portare altre tre sedie. Si
sedettero davanti a me e lo smilzo diede una spiegazione
sommaria della mia situazione giuridica: un giudice aveva
spiccato un ordine di cattura contro di me basandosi sulla
testimonianza di Tania e, data l’importanza pubblica che era stata
attribuita al mio caso, e la premura del procuratore, era stato
deciso di tenermi agli arresti presso la sede della polizia
giudiziaria prima di affidarmi al pubblico ministero. «Non
procederemo finché non avremo tutte le prove in mano», disse lo
smilzo. Mio padre espresse il dubbio che la mia detenzione fosse
illegale. Lo smilzo sottolineò che erano stati rispettati tutti i miei
diritti di cittadino e che mi aveva concesso un trattamento
speciale sapendo che «venivo da una buona famiglia». Mio padre
lo ascoltò toccandosi i baffi e mia madre con le lacrime agli
occhi. «Il ragazzo ha accettato pienamente la sua responsabilità in
merito ai fatti occorsi», concluse il comandante, «e dovrà
accogliere da uomo maturo la pena che gli verrà imposta».
Sentendo che mia madre piangeva si voltò verso di lei.
«Non è più un bambino, signora», le disse.
Mia madre chinò la testa e si tamponò gli angoli degli occhi
per smettere di piangere.
«Me ne vado per lasciarvi parlare da soli», disse lo smilzo
tutto preciso.
Restammo in silenzio per alcuni minuti. Mio padre era
angosciato, come se la situazione trascendesse le sue capacità

201
fisiche ed emotive. Gli tremava leggermente il labbro inferiore.
Passava con lo sguardo da un oggetto all’altro e inghiottiva saliva
in continuazione. Mia madre, nonostante i singhiozzi, non
sembrava afflitta. Era evidente che tratteneva a stento la rabbia.
Mio padre cominciò a parlare con la voce rotta. Mi disse che
non si spiegava perché l’avevo fatto ma che stavano dalla mia
parte e avrebbero tentato di tutto per farmi uscire il prima
possibile. Avevano cercato di mettersi in contatto con l’avvocato
Derbez, l’ex segretario delle Finanze per il quale aveva lavorato
mia madre, ma non erano riusciti a rintracciarlo. Per difendermi si
erano rivolti all’ufficio di un prestigioso avvocato penalista amico
di un cugino di mio padre.
«Conosco un avvocato molto bravo che ha fatto uscire un
sacco di gente dal carcere. Forse ci serve più del tuo», dissi
pensando al socio del padre di Tania.
«E tu che ne sai di avvocati?», mi rimbrottò mia madre.
«Era solo una proposta», risposi.
«Non ci interessano le tue proposte», chiarì irritata.
«Di questo avvocato ci fidiamo», intervenne mio padre,
cercando di mediare.
«Come vi pare», dissi.
«Certo che faremo come ci pare», ringhiò mia madre.
«Bene», dissi sdegnoso.
Mia madre mi guardò, furiosa.
«Mi prendi in giro?».
«No».
«Meglio per te».
Restai zitto per non provocarla ancora. Ma mia madre s’era
irritata e ormai era difficile fermarla.
«Perché ci hai fatto questo?», domandò.
«A voi non ho fatto niente».
«Ah no?».
«No».
«L’hai fatto per punirci!».
«Il tuo è delirio di persecuzione, mamma».
«Sei sempre stato un cretino», disse.

202
La parola «cretino» mi mandava in bestia. Mi sembrava uno
di quei termini che usano le signore snob per rivolgersi con tono
spregiativo alla servitù.
«Tale madre tale figlio», dissi.
Mia madre si alzò e cercò di darmi uno schiaffo, ma io
allungai un braccio e parai il colpo.
«Ci stai togliendo la vita!», gridò.
Mio padre si mise tra di noi e abbracciò mia madre.
«Calmati, Malena, non complicare le cose».
Mia madre lo spinse da parte e si liberò. Girò sui tacchi e uscì
sbattendo la porta. Il vetro tremò come se dovesse andare in
pezzi.
«Non è giusto che la tratti così», protestò mio padre.
«Scusa», sussurrai.
«Tua madre e io siamo molto nervosi: non avremmo mai
immaginato di dover affrontare una situazione del genere».
«Nemmeno io».
«Se solo ci dicessi che hai».
«Niente, non ho niente».
«Fai così per quello che è successo a Gregorio, vero?».
«No».
Tornò a sedersi e incrociò le braccia.
«È vero che sei stato arrestato in un motel?».
«Sì».
«Che ci facevi lì?».
«Ho una stanza in affitto».
Mio padre ebbe un’espressione stupita.
«Perché?».
«L’abbiamo presa Tania e io per incontrarci».
«Da quanto?».
«Un paio d’anni».
Diede un respiro profondo e buttò fuori l’aria soffiando con
la bocca.
«Ora capisco», disse con l’aria di chi comincia a
raccapezzarsi. E invece no: mio padre non potrebbe mai capire.
Restammo entrambi in silenzio, a disagio.

203
«Come sta Luis?», gli domandai.
«Bene».
«Sa dove sono?».
Mio padre annuì. Avrei voluto che non lo sapesse. Come
avrebbe potuto spiegare alle sue fidanzate e ai suoi amici
insignificanti quello che avevo fatto?
«Vuoi che cerchi l’avvocato che dici tu?», disse mio padre.
«Se è possibile».
«Chi è?».
«Uno dei soci dello studio del papà di Tania».
«Del papà di Tania?», domandò. «Dopo quello che ti ha
fatto?».
Alzai le spalle.
«Dicono che è molto bravo. E poi mi conosce e credo di
essergli simpatico».
«Come si chiama?».
«Il nome non lo so, ma tutti lo conoscono come Manrique lo
“Storto”».
«Lo cercherò».
Mio padre si alzò, venne vicino a me e mi prese per le spalle.
«Ti tireremo fuori da qui», mi assicurò.
«Non importa».
«Cosa?».
«Se non mi fanno uscire non importa. Davvero».
Indietreggiò di un passo e mi guardò.
«Certe volte non so più chi sei, figlio mio», mormorò. Poi
uscì dalla stanza.

Un’ora dopo entrò nel cubicolo l’avvocato che avevano


assunto i miei. Era un cinquantenne alto, con gli occhi azzurri e
un sacco di lentiggini sulla pelata. Puzzava della stessa lozione di
lavanda che usava lo smilzo. «Sono l’avvocato Olvera», disse
presentandosi. Poi mi consegnò il suo biglietto da visita e mi
espose succintamente la strategia che pensava di applicare in mia
difesa: uno psichiatra amico suo avrebbe valutato le mie

204
condizioni mentali e insieme avrebbero redatto un rapporto per
dimostrare che soffrivo di disturbi psichici transitori provocati
dal suicidio del mio migliore amico. «Troveremo delle attenuanti
legali per tenerti dentro il meno possibile, anche se dovremo
dimostrare che sei mezzo matto», concluse sorridente. Si congedò
con una stretta di mano e se ne andò. Stracciai il suo biglietto da
visita in mille pezzi e li gettai dalla finestra.
Alle tre mangiai un paio di focacce cubane che mi mandò il
comandante (piene zeppe di cipolla, tanto per cambiare) e mi
concessero di nuovo di andare al bagno. Da lontano riuscii a
intravedere un uomo che conversava con i miei genitori.
Sicuramente era lo psichiatra consigliato da Olvera. Usava i gesti
comuni a tutti i suoi colleghi: parlando voltava la faccia da una
parte, si accarezzava il mento, guardava con condiscendenza e
continuava a muovere la testa, come un pupazzetto in un taxi.
Colmo dei colmi, era quasi identico a Macías, solo più grasso.
Entrai nel cubicolo, mi sdraiai sul tappeto e mi addormentai.
Sognai Gregorio e Tania. Indossavamo tutti e tre il grembiule
delle medie e camminavamo per una strada lunga e interminabile.
Mentre avanzavamo, il pavimento si trasformava in una massa
molliccia. Faticavamo ad andare avanti e le scarpe affondavano in
quella fanghiglia d’asfalto. A un certo punto il pavimento cedeva
sotto di noi e sprofondavamo fino alla cintura. Ci prendevamo
tutti e tre per mano cercando di emergere dalla poltiglia che ci
avviluppava. Loro due affogavano mentre io affondavo
lentamente.
Lo smilzo mi svegliò scuotendomi la spalla. Aprii gli occhi e
per qualche secondo non riuscii a capire dove mi trovassi. Lo
smilzo mi allungò una mano e mi aiutò ad alzarmi. «Hai il sonno
pesante», disse, «è da cinque minuti che cerco di svegliarti».
Andò al tavolo, prese una busta di plastica, l’alzò e me la mostrò.
Conteneva la pistola con cui avevo sparato al giaguaro. Mi
sorprese che i detective dello smilzo l’avessero trovata. Dovevano
aver frugato tombino per tombino. Me la mostrò.
«È con questa che hai ammazzato la tigre, vero?».

205
«Il giaguaro», lo corressi con orgoglio.
«È uguale, bello».
«Sì, con quella».
Il comandante aprì la porta e chiamò uno dei suoi sottoposti,
che posò sul tavolo dei cuscinetti di inchiostro nero e dei foglietti
bianchi.
«Ti prendiamo le impronte digitali», disse l’uomo.
Mi presero l’impronta di tutte le dita della mano. Mi
costrinse anche a usare il dito rotto. Appena lo appoggiai contro
il cartoncino un dolore lancinante mi fece ritrarre bruscamente la
mano. L’inchiostro si sparse sul cartoncino lasciando una
macchia amorfa. L’uomo ebbe una smorfia di disgusto ma il
comandante gli ordinò con lo sguardo di continuare l’operazione.
Alla fine mi passò della stoppa imbevuta d’alcol per pulirmi.
«È tutto», disse l’uomo e uscì.
Il comandante prese i foglietti e li sistemò come se stesse
giocando a poker.
«Ora confrontiamo queste impronte con quelle sulla pistola
per vedere se coincidono».
«Coincidono», affermai.
«Cazzo! Fammi fare il mio lavoro, no?».
Sorridemmo entrambi. Da una delle tasche dei suoi pantaloni
tirò fuori un foglietto e lo lesse in silenzio. Lo piegò e lo rimise a
posto.
«La pistola è registrata a nome di Arnulfo Camariña Iglesias.
Lo conosci?».
«Sì, è il proprietario del motel dove mi avete arrestato».
«E che ci facevi con la sua pistola?».
«Gliel’ho rubata».
«Per farci che?».
«Per andare a caccia di giaguari».
Scoppiò a ridere.
«Smettila di fare il coglione».
M’informò che più tardi mi avrebbe portato a dormire in un
ufficio con bagno privato. Lo ringraziai.
«Sono ordini del procuratore», chiarì, «non miei».

206
Le conoscenze altolocate di mia madre cominciavano a sortire
i loro effetti. Anche se probabilmente non sarei riuscito a evitare
il carcere, almeno avrei goduto di qualche privilegio.

Non mi sbagliavo: il tipo che avevo visto con i miei era


effettivamente lo psichiatra indicato da Olvera. Si rivelò più
simpatico di quel che avevo immaginato. Disse qualche battuta
sul mio cubicolo-cella e sul mio dito rotto: «Così impari a fare
gestacci agli ufficiali».
Senza pedanteria mi pose varie domande: ti sei sentito
depresso ultimamente? Ti è capitato di commettere altri crimini?
Sei mai stato schedato dalla polizia? Litighi con i tuoi genitori?
Hai problemi con la tua ragazza? Hai paura della morte?
All’inizio risposi con fermezza, scherzando addirittura; ma
poi, non so come né perché, cominciai a perdere colpi, a
contraddirmi, a tradire paure che io stesso non immaginavo di
avere, a perdere il controllo. Dissi qualche frase confusa,
balbettando, con un’incoerenza vertiginosa, finché crollai. In quel
momento avvertii tutta la forza della frase di Macías: la pazzia
può essere più spaventosa della morte.
Il ciccione, di cui non sapevo il nome – e continuo ancora a
non saperlo – si alzò dalla sedia e fece quello che non mi sarei
mai aspettato da uno psichiatra: mi abbracciò. Non fu un
abbraccio impersonale, ma un abbraccio profondo, viscerale.
Volevo raccontargli del bufalo della notte, del suo fiato sulla mia
nuca, delle sue corse nella prateria della morte, di Gregorio, delle
forbicine che lo divoravano, della sera in cui ci ferimmo a
coltellate, di quanto odiavo la cipolla, del tradimento di Tania,
del suo amore, della sua assenza che mi uccideva di tristezza, di
quanto era importante poter pisciare da solo, della schiena di
Rebeca, del corpo imperfetto di Margarita, del mio amico René
che era rimasto decapitato in un incidente automobilistico, della
volta in cui da bambino avevo ferito mio fratello con un bisturi.
Non riuscii a dire una sola parola, immerso in uno stupore che mi
paralizzava.
Il ciccione aspettò che mi calmassi e a poco a poco recuperai

207
il controllo di me stesso. Sentii una grande stanchezza. I muscoli
debolissimi, il respiro affannoso, come se avessi fatto uno sforzo
fisico straordinario. Il ciccione si accovacciò vicino a me.
«Va un po’ meglio?».
Annuii, e il ciccione andò a sedersi sull’altra sedia.
«Qual è il tuo piatto preferito?», domandò.
La sua domanda mi sembrò assurda, fuori luogo.
«Sandwich al prosciutto con formaggio gratinato», risposi.
«Nient’altro?».
«Anche pollo in agrodolce, canocchie in salsa d’aglio e filetto
al pepe».
«Sei un buongustaio, ma di quelli veri!».
Rifletté un poco sulle mie risposte e si diede dei colpetti sul
mento con il pugno.
«Sai cosa si mangia in carcere?», domandò.
«No», risposi arrabbiato.
«Fagioli, un pezzo di pane, uova strapazzate che navigano
nell’olio, caffè, a volte polpette o maiale con misticanza… e sai
perché lo so?».
Feci segno di no con la testa.
«Perché sono stato dentro tre anni, otto mesi, quattordici
giorni e tre ore».
Non sembrava che mentisse, o che cercasse di consolarmi, o
anche solo di conquistarsi la mia simpatia.
«Sono stato così di merda che appena sono uscito ho giurato
che non avrei mai permesso a nessuno di fare la stessa fine che
avevo fatto io».
Mi guardò la mano e indicò il dito rotto.
«Per esempio: voglio evitare che un altro ufficiale del cazzo ti
venga a rompere un dito. E sai di cosa sto parlando, vero?».
Alzò la mano sinistra e mi mostrò due dita spezzate.

Parlammo a lungo. Non mi ero mai fidato così tanto di


qualcuno. Mi chiese di ubbidire alle sue istruzioni, di fingere se
necessario e di non firmare altri documenti senza consultarlo. Mi
salutò con un abbraccio.

208
Come molte altre persone che ho conosciuto nel corso della
mia vita, non l’ho più rivisto.

209
Verso sera arrivò Manrique lo “Storto”. Io ormai non volevo
vedere più nessuno. La seduta con lo psichiatra mi aveva lasciato
esausto. Mi trovò disteso sul tappeto, mezzo addormentato. Mi
alzai in piedi svogliatamente e lo salutai. Manrique era un tipo
loquace e inquieto ma questa volta mi parve molto cauto.
«Ti ringrazio per aver pensato a me, per il tuo caso», disse,
«ma non credo di poter fare granché».
Manifestò la sua preoccupazione: avevo ammesso la mia
colpevolezza e gli sarebbe stato difficile dimostrare che avevo
firmato perché mi avevano costretto. Mi spiegò che la lista dei
miei crimini era lunga e che le accuse gravi non riguardavano solo
la morte del giaguaro, ma anche il fatto che avevo aggredito Tania
a mano armata.
«Ma io non ho cercato di aggredirla», chiarii indignato, «è
ridicolo».
«Sì, lo so, ma le accuse di Tania sono durissime».
Ipotizzava quattro modi di condurre la difesa. Primo,
obbligare Tania a ripetere la sua dichiarazione. Secondo, chiedere
un confronto tra me e lei. Terzo, negare le accuse e addurre
pressioni psicologiche e minacce volte a farmi dichiarare
colpevole e, quarto, addurre turbe psicologiche. L’ultima opzione
gli sembrava la più praticabile. Ne aveva già parlato con Olvera e
con lo psichiatra, e tutti e tre avevano deciso di preparare una
difesa congiunta.
Mi opposi a tutte e quattro le alternative. Le prime due
significavano dovermi confrontare con Tania e non avevo il

210
coraggio di farlo. Inoltre non potevo dimenticare che lo “Storto”,
come socio del padre di Tania, non si sarebbe immischiato nel
processo. Le altre due significavano mentire e io ne avevo
abbastanza.
«Come vuoi», disse lo “Storto”, deluso.
Sottolineò che per fortuna il mio nome non era ancora
apparso sui titoli dei giornali, anche se prima o poi il comandante
Ramírez l’avrebbe spiattellato a qualche giornalista, pur di
assicurarsi il suo premio. D’altra parte Manrique aveva già
parlato del mio caso con il procuratore («con la mia anima
gemella», si vantò) che gli aveva assicurato che non avrebbe
patteggiato la mia liberazione per nessuna ragione al mondo, né
avrebbe ceduto alle pressioni di un qualche funzionario in
pensione, alludendo chiaramente all’ex segretario delle Finanze
per il quale aveva lavorato mia madre. «È un uomo che rispetto»,
aveva affermato, «ma ormai ha sparato tutte le sue cartucce e non
ha più il potere di influenzarmi». Mi prometteva, questo sì, il
miglior trattamento possibile, finché ero sotto la sua
giurisdizione.
«E visto che non vuoi aiutarci, né aiutarti», concluse
Manrique, «non hai altra scelta che finire in galera».
Non mi ero rassegnato. Semplicemente consideravo persa
ogni via d’uscita. Il costo per evitare la prigione mi sembrava più
alto di quello che avrei dovuto pagare finendoci.
Penso che Manrique sia uscito dal cubicolo convinto che
soffrissi davvero di gravi turbe emotive.
Alle otto di sera si presentarono due poliziotti per trasferirmi.
Attraversammo una dozzina di corridoi passando tra scrivanie
abbandonate e casse di archivi ammassate le une sulle altre.
Arrivammo in un ufficio spazioso e confortevole con un
finestrone che dava su un’avenida. Una scrivania di legno scuro e
una poltrona di cuoio nero occupavano metà dello spazio.
C’erano varie prese per il telefono ma nessun apparecchio. In un
angolo avevano messo un sacco a pelo e il mio cuscino, lo stesso
che usavo fin da bambino. Un cuscino cicciotto con l’imbottitura
di piume e la fodera di raion. C’era anche il mio vecchio pigiama

211
azzurro di flanella. Invece di consolarmi, quegli oggetti familiari,
intimi, mi fecero sentire aggredito. Era un’intrusione domestica
nel caos in cui ero sprofondato, il ricordo doloroso di un mondo
al quale non potevo e non volevo tornare. Infilai il pigiama nel
cuscino e buttai tutto dietro all’archivio.

Come mi aveva promesso lo smilzo, l’ufficio aveva un bagno


privato. Mi sedetti sulla tazza del cesso a luce spenta. Un
gorgoglio costante segnalava che la guarnizione di un tubo era
rotta e l’acqua dello sciacquone colava nel water. Le pareti
puzzavano di umidità. Chi è che ha inventato il bagno, e quando?
Chi ha inventato il water, la doccia e il lavandino? Di chi è stata
l’idea di miscelare l’acqua calda e la fredda, chi ha inventato lo
spazzolino da denti, il sapone, le lamette, il pettine? I bagni mi
sembrano dei luoghi tristi e lì, nel bagno di questo ufficio, mi
sentii più triste che mai.

Una sera al motel, dopo aver fatto l’amore, Tania mi raccontò


la storia di un vecchio di ottantasette anni che si trovava in una
sala di terapia intensiva in seguito a un’emorragia cerebrale. Era
un francese che si era stabilito in Messico all’età di vent’anni,
subito dopo essersi sposato con una donna di nome Marie. Era
un uomo dedito al suo lavoro e alla sua famiglia, meticoloso,
ordinato. Due giorni dopo essere entrato in ospedale cominciò a
parlare in patois, il dialetto della sua regione natale, che non
parlava da più di sessant’anni, nemmeno con sua moglie,
originaria di un’altra provincia.
Nei momenti più critici, il vecchio cominciò a pronunciare
incessantemente un nome: «Valerie». E a tutti quelli che
andavano a trovarlo domandava di lei. Sua moglie, quando se ne
accorse, si rifiutò di continuare ad assisterlo e mormorò tra i
denti: «Che schiatti». I figli e i nipoti si domandarono che peso
doveva avere quel nome per provocare una crisi matrimoniale così
tardiva. Qualche mese dopo Marie morì, mentre il vecchio
continuò col suo delirio senile. A poco a poco cominciò a non
riconoscere più chi gli stava intorno: i figli, le nuore, gli amici.

212
Ripeteva soltanto «Valerie», in continuazione. Nessuno in
famiglia riuscì a chiarire il mistero finché non giunse dalla
Francia un cugino del vecchio. Valerie era il nome della ragazza
che l’uomo aveva lasciato, costretto dai suoi genitori, per sposarsi
con Marie. Il vecchio aveva dovuto abbandonare Valerie con una
sensazione di sconfitta che si era prolungata per sessantasette
anni. Non la rivide mai più, né ebbe sue notizie. Solo una volta
era tornato in Francia – a Parigi – per sistemare le pratiche legali
di un’eredità.
Me lo immaginai nella sala dell’ospedale, mentre palpava i
seni immaginari di una ragazza di quindici anni e le baciava il
collo, sussurrandole in patois quanto l’amava, rimpiangendola
fino all’ultimo respiro.
Tania finì di raccontarmi la storia e si addormentò sul mio
petto. In quel momento pensai che me l’avesse raccontata per
farmi capire che ero io, l’uomo della sua vita. Adesso – anche se
ammetterlo mi fa soffrire – credo che invece pensasse a Gregorio.

Il silenzio nell’ufficio era totale. Dicono che una delle cose


più infami del carcere sia la mancanza di silenzio. C’è sempre un
grido, una voce, una goccia che cade, un passo o qualcuno che
russa. Quindi dovevo approfittare di quella che probabilmente era
la mia ultima notte di silenzio.
Mi addormentai profondamente. La mia stanchezza era tale
che non mi accorsi di aver poggiato la testa su un chiodo.
All’alba entrò lo smilzo con tre poliziotti. Accese la luce e mi
svegliò spingendomi con la suola della scarpa. Mi alzai e mi
stropicciai gli occhi. All’improvviso mi prese il terrore che
volessero torturarmi. Chiesi che succedeva.
«Te ne vai», rispose il comandante.
Immaginai che mi trasferissero in isolamento o almeno in
prigione, finalmente.
«Dove?», domandai nervoso.
Il comandante sorrise a denti stretti, con un ghigno.
«A casa tua, stellina».
«Perché?».

213
Il comandante si chinò e rimase accovacciato davanti a me.
«Non ho la minima idea di chi sei, ma non c’è dubbio che hai
amici molto cazzuti».
«Di che parla?».
«Il segretario del ministro degli Interni ha chiesto al
procuratore, o meglio gli ha ordinato, gli ha imposto, di farti
uscire. Che te ne pare?».
Non sapevo cosa rispondergli.
«Il capo è incazzato nero», proseguì, «ma non gli resta che
obbedire, quindi preparati al volo e vattene prima che quelli di
sopra cambino idea».
Uscii dal sacco a pelo e mi sedetti per infilarmi le scarpe. Il
comandante mi consegnò due fascicoli.
«Questi sono tuoi», disse.
Erano gli originali della mia dichiarazione e di quella di
Tania.
«Tieniteli per ricordo, strappali o mettiteli al culo», disse lo
smilzo, ironico.
Si vedeva che era arrabbiato. La mia liberazione non lo
riempiva affatto di gioia. Mi alzai in piedi. Lo smilzo mi tolse un
pelo del tappeto che mi era rimasto sulla camicia e indicò il mio
zigomo.
«Sanguini», mi disse.
Il chiodo mi aveva graffiato ma non sentivo dolore.
«Andiamo», ordinò.
Attraversammo i corridoi al buio. Arrivammo a una scrivania
che era vicino al cubicolo dove mi avevano precedentemente
rinchiuso. Il comandante aprì un cassetto e – avvolta in una busta
di plastica – ne tirò fuori la pistola che mi aveva regalato
Camariña.
«Te la restituisco», disse.
Poi prese dei fogli e cominciò a ridurli a pezzetti.
«Sono le copie della tua dichiarazione e di quella della
ragazza che ti ha accusato».
Ruppe pure i cartoncini con le mie impronte digitali.
«Sono ordini del procuratore», chiarì. «Tu non sei mai stato

214
qui dentro. Mi hai capito? Mai…».
Restò in silenzio e guardò il dito che mi aveva rotto.
«…e quello, ovviamente, non sono stato io a fartelo. O
sbaglio?».
Feci segno di no con la testa. Ci avviammo verso gli ascensori
scortati dai poliziotti, che erano visibilmente assonnati e di
cattivo umore. Entrammo nella cabina e un poliziotto spinse il
pulsante del piano terra.
Si aprirono le porte. Nell’androne c’erano altri poliziotti di
guardia. Alcuni guardarono con sospetto l’arma nella busta di
plastica che tenevo in mano. Con un cenno lo smilzo ordinò a un
suo sottoposto di aprire la porta principale. Poi mi prese per la
spalla e con uno spintone mi gettò in strada.
«Vattene, va’», disse.
Scesi la scalinata. Una pattuglia mi passò accanto a sirene
spiegate, correndo verso i parcheggi sotterranei. Chiesi l’ora a
uno dei poliziotti che passavano di lì. «Le quattro e venti»,
rispose.
Mi sedetti su una panchina senza sapere che fare. Non avevo
soldi e non sapevo nemmeno dove andare.
Tornai indietro a cercare il comandante. Una guardia mi fermò
sull’ingresso. «Dove va?», domandò brusco. Indicai il
comandante che era ancora nell’androne. «A parlare con lui»,
risposi.
La guardia lo andò ad avvisare e lo smilzo mi venne incontro.
«Ti sono mancato, eh, stronzetto?», disse senza sorridere.
Gli spiegai che non sapevo come tornare a casa.
«Chi se ne fotte».
«Non può lasciarmi qui come uno scemo», protestai.
«Ah, no?», disse con scherno.
Girò sui tacchi e rientrò. Lo seguii e cercai di fermarlo.
«Almeno mi dia uno strappo, no?».
Lo smilzo mi guardò dall’alto in basso e continuò per la sua
strada. Gli bloccai un’altra volta il passo.
«Guarda guarda», disse, «non sono neanche due minuti che ti
ho fatto uscire e già ricominci a fare il ragazzino».

215
«Sono le quattro e mezza e non so come tornare a casa»,
insistetti.
Guardò l’orologio e fece segno di no con la testa.
«Ti sbagli: sono le quattro e venticinque…».
«Ma io…», stavo per dire, ma lo smilzo si voltò e afferrò il
mio anulare sinistro.
«Senti, ho le palle piene», disse cominciando a piegarlo
all’indietro. Tentai di liberarmi ma con l’altra mano rafforzò la
presa.
«Ti rompo le dita una a una, se non te ne vai», mi avvertì.
Mi lasciò le mani e vari poliziotti mi circondarono con aria
minacciosa.
«Vattene», disse schioccando le dita.
M’incamminai verso la porta. Prima che uscissi lo smilzo mi
chiamò.
«E piantala di frignare», disse, «abbiamo già avvertito il tuo
avvocato, tra poco sarà qui».
Mi sedetti sulla scalinata ad aspettarlo. Per non destare
sospetti mi nascosi la pistola sotto la camicia. I poliziotti
all’inizio rimasero un po’ in guardia, poi si dimenticarono di me.
Manrique arrivò alle sette di mattina.
«Quanto sei fortunato», disse appena mi vide.
Mi prese per il braccio e mi aiutò ad alzarmi. Sembrava molto
meno teso del giorno prima.
«Sei stato il caso più facile della mia vita», scherzò.
Mi offrì un succo d’arancia in un chiosco lì vicino. Mi spiegò
che gli ordini del segretario del ministro degli Interni erano stati
perentori e che il procuratore aveva dovuto rispettarli all’istante.
«Non aveva detto che non guardava in faccia nessuno?»,
scherzai.
«Be’, sì… Ma quando comanda il generale…».
Gli domandai se il segretario degli Interni s’era mosso grazie
alle conoscenze di mia madre. «Quelle non sono servite a niente»,
disse ridendo, mentre sorseggiava il suo succo. Mi spiegò che a
intercedere per me era stato il figliastro del segretario: Jacinto
Anaya.

216
«Chi?», domandai sgomento.
«Jacinto Anaya», ripeté Manrique sorridendo.
Non volevo crederci.
«E perché l’ha fatto?».
Manrique mi guardò stupito.
«Non è amico tuo, scusa?».
Feci segno di no con la testa.
«Be’, dev’esserlo per forza», concluse, «perché ti ha dato
proprio una salvata».
Mi sentii indifeso. Pensai che Jacinto mi avesse fatto
scarcerare per avermi a sua completa disposizione. La remota
volontà di Gregorio interveniva di nuovo nel mio destino.
Quando mi avrebbe lasciato in pace? Quando?
«Non ti vedo molto allegro», disse Manrique. Mi diede un
buffetto sulla coscia e pagò i succhi di frutta. «Andiamo. Ti porto
a casa».

Salimmo in macchina. Non erano ancora le otto e già si


preannunciava un caldo soffocante. Manrique accese l’aria
condizionata e infilò nello stereo una cassetta di musica classica.
«Per farti rilassare un po’», suggerì.
Mi confidò che i miei ancora non sapevano della mia
liberazione.
«Così gli fai una sorpresa», disse.
Anziché a casa, lo guidai al motel. Due isolati prima gli
indicai una casa grigia con un portone rosso. «Io vivo lì», gli
dissi. Manrique non si fermò e continuò lungo la strada, poi
svoltò l’angolo e si fermò davanti al motel.
«Non ti dimenticare che sono il tuo avvocato», disse, «e che
noi avvocati sappiamo tutto sui nostri clienti».
Mi sentii uno stupido.
«Andiamo, non è un rimprovero», disse, «ma, la prossima
volta, fidati di me».
Restammo d’accordo che avrebbe avvisato i miei genitori, ma
senza dirgli dove mi trovavo. Poi mi prestò duecento pesos.
«Come onorario», disse scherzando, e mi lasciò scritto su un

217
biglietto da visita il suo telefono di casa.
«Chiamami solo in caso di emergenza», precisò nel con​-
segnarmelo.

Entrai nel motel. Pancho mi vide da lontano e si avvicinò di


corsa.
«Stai bene?», domandò.
«Più o meno», risposi.
«Io e il padrone eravamo molto preoccupati», disse.
Mi raccontò che i poliziotti erano venuti tre o quattro volte a
interrogarli per sapere chi ero, che facevo, con chi andavo al
motel, con che frequenza eccetera. Mi disse che avevano preso le
impronte digitali anche a Camariña.
«Insomma che hai fatto?», domandò con curiosità.
«Mi avevano confuso con un altro», gli dissi.
«L’avevo immaginato», disse Pancho.
Tirai fuori la pistola dalla camicia e gliela consegnai.
«Per favore, restituiscila al signor Camariña», gli chiesi.
Mi diressi verso la stanza. Aprii la porta. Profumava di
detersivo per pavimenti. Tutto sembrava in ordine come sempre: il
letto, le tende, lo specchio, la toletta. Mi sedetti sul materasso. Il
libro di Ruvalcaba era sparito dalla scrivania. Sentii un gran
vuoto, come se si fosse rotto l’ultimo dei miei legami con Tania.
Uscii e domandai a Pancho se era venuta al motel.
«Ha dormito qui l’altroieri», disse, «e se n’è andata ieri sera».
Tornai in camera. Mentre mi spogliavo per farmi la doccia
scoprii in un angolo della toletta un frammento di uno dei suoi
pacchetti di caramelle. Lo presi, lo piegai con attenzione e lo
riposi nel portafogli.
Finii di lavarmi, mi sdraiai sul letto e mi addormentai.

218
Rimasi molti giorni chiuso nella stanza. Non volevo uscire né
parlare con nessuno. Trascorrevo quasi tutto il tempo a dormire.
A volte mi svegliavo per le fitte al dito, che mi costringevano a
correre in bagno a mettere la mano sotto l’acqua calda. Dopo un
bel po’ il dolore si acquietava, con l’aiuto di cinque o sei aspirine
che mandavo giù tutte in una volta.
A svegliarmi era anche il respiro del bufalo invisibile. Saltavo
giù dal letto e prendevo aria fino a calmarmi. Una volta fui preso
dal panico: i respiri continuarono per tutto il giorno. Li sentivo
vibrare in tutta la stanza: incessanti, furiosi. Mai come allora fui
sul punto di impazzire.
Di Tania avevo bisogno più di quanto non credessi – e lei di
me, ne sono certo. Sicuramente stava impazzendo come me e
lottava per liberarsi dei suoi sensi di colpa, delle sue paure, delle
sue bugie. Dei suoi tradimenti, dei suoi fottuti tradimenti del
cazzo. E mi mancava ogni minuto di più.
Sapevo che Jacinto Anaya mi teneva d’occhio e che tramite
lui Gregorio avrebbe continuato a incalzarmi. Jacinto aveva agito
con molta più intelligenza di me. Non era affatto scemo come
pensavo. I suoi giochetti erano raffinati, imprevedibili, e mi era
difficile intuire quali sarebbero state le sue prossime mosse.

Ben presto rimasi senza soldi. I duecento pesos che mi aveva


prestato Manrique li spesi ordinando pizze al salame a domicilio.
Dopo avermele portate, i fattorini restavano lì impalati ad
aspettare la mancia, ma io gli chiudevo la porta in faccia senza

219
parlare.
Dovetti chiedere un prestito a Pancho. Riuscì a raccogliere a
malapena cinquanta pesos. Metà li usai per comprare una scatola
di Dolac nella farmacia all’angolo (le aspirine ormai non mi
facevano più effetto) e il resto se ne andò in capricci. Dopo
quindici minuti mi ritrovai di nuovo senza soldi per mangiare.
Camariña mi mandava la «Reforma» e «Excélsior» tutte le
mattine. Forse immaginava che mi fossi messo davvero in qualche
casino e supponeva che volessi tenermi informato, o
semplicemente me li mandava perché avessi qualcosa da leggere e
non mi annoiassi troppo. All’inizio i giornali continuarono a
occuparsi dell’incidente al giardino zoologico e scrissero pure
che la polizia era sulle tracce di due o tre sospetti.
Ripubblicarono l’identikit di Gregorio e incoraggiarono i lettori a
collaborare alla sua cattura. In un’intervista il procuratore
assicurava che non avrebbe avuto pace fino all’arresto del
«responsabile di un’azione così atroce». Si azzardò a promettere
che entro un mese al massimo questi sarebbe finito in prigione.
Dopo una settimana i quotidiani s’erano già dimenticati della
faccenda, finché una notte un barbone si suicidò gettandosi sotto
la metropolitana. Anche se il cadavere era irriconoscibile, la
polizia lo identificò immediatamente come il criminale ricercato e
chiuse il caso. I giornali lo misero in prima pagina e non
tornarono più sull’argomento. Giorni dopo un comunicato stampa
annunciò che il comandante Martín Ramírez aveva ottenuto una
promozione per aver risolto un’«indagine così delicata». Mi
immaginai lo smilzo che brindava alla mia salute, con i suoi modi
cortesi ed effeminati.
Avevo chiesto a Pancho e a Camariña di rispondere a
chiunque mi cercasse che non c’ero. I primi tre giorni nessuno
venne a chiedere di me, ma il quarto si presentarono i miei
genitori. Secondo Pancho, erano entrambi molto preoccupati.
Sapevano del mio rilascio ma non avevano idea di dove fossi (e
non trovavano nemmeno Tania). Pancho gli assicurò che al motel
non mi ero fatto vedere. Loro si angosciarono ulteriormente e se

220
ne andarono afflitti. Pancho mi confessò che si era pentito di
avergli detto una bugia. «Davvero, Manuel, mi hanno fatto pena»,
mi disse.
Quella stessa notte li chiamai per tranquillizzarli. Mia madre
mi chiese scusa e io a lei. «Ti voglio tanto bene, tanto», mi disse
piangendo. Si sentiva che era molto spaventata. Le spiegai che
non ero tornato a casa per riflettere meglio, che non era per colpa
loro che me n’ero andato e che sarei tornato presto. Mi mandò un
bacio e riattaccò. Mia madre.
Chiamai anche Manrique lo “Storto”. Quando udì la mia voce
mi salutò allegro. Lo divertiva che avessero incolpato l’ubriacone
suicida per la sparatoria che era successa allo zoo.
«Sicuramente ti assomigliava», disse sfottendomi.
Gli domandai se poteva prestarmi qualche soldo.
«Un altro anticipo sull’onorario», chiarii.
«No», rispose sfacciatamente, «io il mio lavoro di avvocato
l’ho fatto. Ora devi cavartela da solo».
Poi mi salutò crepando dal ridere, lo stronzo.

Camariña, che dal suo ufficio aveva ascoltato la mia


conversazione con Manrique, mi si avvicinò e mi diede
quattrocento pesos e non ci fu modo di rifiutare.
«Poi me li ridai», disse.
Notò che avevo la mano ferita. La esaminò e mi raccontò che
una volta anche lui si era lussato un dito mentre metteva le redini
a una mula imbizzarrita. Tirò fuori una cassetta di medicinali, mi
unse il dito con del balsamo di tigre e me lo steccò.
«Tienilo bendato per tre settimane», disse.
Grazie a lui per la prima volta riuscii a dormire senza dolori.

Il mattino dopo mi svegliò Pancho.


«È arrivata questa per te», disse e mi mostrò una lettera.
Riconobbi immediatamente la grafia di Jacinto Anaya sulla busta.
La presi e la strappai senza aprirla. Pancho mi guardò stupito.
«Perché la strappi?».
«Perché so già cosa dice».

221
«E che dice?».
«Niente di importante», gli risposi.
Gli domandai chi l’aveva portata.
«Non lo so», rispose, «l’hanno lasciata stanotte sul bancone».
Il giorno dopo arrivò un’altra lettera e strappai anche questa.
Come la precedente, era stata lasciata alla reception quando non
c’era nessuno.
Quella notte telefonai a Jacinto. Non risposero né lui né la
segreteria. Tentai più volte, ma niente. Non trovarlo fu molto
frustrante. Adesso Jacinto poteva essere ovunque, fuori dalla mia
portata. Non potevo neanche più sfogarmi mandandolo al diavolo
sulla segreteria.

Due giorni dopo Pancho mi consegnò una busta di plastica


trasparente, sigillata con lo scotch. Sopra c’era appiccicato un
foglietto che diceva: «Per Manuel Aguilera, stanza 803, un
souvenir».
La grafia era sconosciuta. Era una grafia strana, decisamente
femminile, con le lettere troppo attaccate l’una all’altra e con le
“e” e le “l” quasi della stessa altezza. Chi diavolo era,
quest’altra? Un’amica di Jacinto? La sua ragazza? O un’altra
messaggera di Gregorio, che agiva a fianco di Jacinto?
Dentro la busta c’erano due fotografie di Tania, scattate con
una Polaroid, di quelle istantanee. Dietro a una delle foto Tania
aveva scritto: «Quattro febbraio, ancora una volta». Era seduta su
un letto in una stanza che non riconobbi, ma che aveva tutta l’aria
di trovarsi in qualche motel. Tania guardava l’obiettivo con aria
languida, i capelli che le coprivano una parte del viso e i gomiti
poggiati sulle ginocchia. Sembrava che avesse appena finito di
dire qualcosa, con le labbra ancora aperte, le sopracciglia alzate e
un mezzo sorriso.
Nell’altra era ritratta in piedi sul sentiero di un parco, anche
quello mai visto (perché le donne che amiamo conoscono sempre
dei posti che ci sono così estranei?). Tania guardava da un’altra
parte, con le braccia conserte, pensierosa. L’ombra della persona
che aveva scattato la fotografia si proiettava sul sentiero. Doveva

222
essere o molto tardi o molto presto, perché l’ombra si allungava
verso una panca lì vicino. Si intuiva una sagoma maschile. Senza
dubbio quella di Gregorio.
Ormai avevo perso tutti: Tania, il mio migliore amico e il mio
miglior nemico. E avevo perso anche me stesso. Che ci
guadagnava Gregorio a sfottermi in quel modo? Che diavolo ci
guadagnava?
Misi le foto sotto al cuscino e mi ci addormentai sopra.

223
Passarono alcuni giorni e non ricevetti più né lettere né
fotografie. Forse l’arsenale di Gregorio s’era esaurito. Telefonai
molte volte ai miei genitori ma, siccome ogni volta li sentivo più
agitati, alla fine smisi. Cominciavano a temermi e questo mi
dispiaceva.
Chiamai le amiche di Tania per chiedere di lei ma quasi tutte
non la vedevano da due settimane. Solo Mónica Abín le aveva
parlato di recente. Tania si era presentata all’improvviso a casa
sua per chiederle in prestito delle magliette e delle gonne. Aveva
addotto delle scuse assurde su cui Mónica non aveva voluto
indagare. «Lunedì te le restituisco», le aveva detto. Poi era sparita
senza lasciare tracce.
Amministrai con maggiore attenzione il denaro che mi aveva
dato Camariña. Invece di sprecarlo in pizze, decisi di comprare
dei viveri economici che non scadessero nel giro di poco tempo:
cereali, latte a lunga conservazione, pane in cassetta, scatolette di
tonno e di sardine, una confezione di Coca-Cola formato
famiglia, succhi, frutta e, come dolce, omogeneizzati di mela e di
mango.
Marzo fu un mese straordinariamente caldo. Dentro la stanza
non si resisteva ma non avevo voglia di allontanarmi. Mi sentivo
protetto all’interno del motel e l’idea di uscire mi angosciava. Di
mattina mi sedevo in corridoio a guardare la televisione con
Camariña. Solo programmi noiosissimi che Camariña rendeva
divertenti con i suoi commenti sarcastici. In particolare sfotteva
sempre una conduttrice molto bella, ormai sulla quarantina, che

224
si ostinava a mostrare le sue vene varicose con dei vestiti
cortissimi. «Attenzione!», esclamava Camariña ogni volta che la
donna accavallava le gambe. «Il lombrico azzurro torna
all’attacco!».
A mezzogiorno Camariña si chiudeva in ufficio a controllare i
conti e si portava via il televisore. Io allora mi appoggiavo alla
parete esterna della stanza a osservare le coppie che entravano.
Quasi tutte compivano gli stessi riti: le donne chinavano il viso o
lo nascondevano; gli uomini guardavano dritto davanti a sé e
dopo aver parcheggiato scendevano dalla macchina e si recavano
a pagare fingendo sicurezza e con un’espressione che sembrava
voler dire «l’ho già fatto almeno mille volte». Prima di andarsene
la maggior parte delle donne approfittava per darsi un’ultima
ritoccatina guardandosi nello specchietto della trousse. C’erano
anche delle eccezioni: alcune, decise, pagavano loro la stanza,
mentre gli uomini sprofondavano nel sedile accanto al posto di
guida o si nascondevano il viso con un giornale, oppure restavano
a sistemarsi i capelli davanti allo specchietto retrovisore
controllando che non gli fossero rimase tracce di rossetto sul
colletto della camicia.

Di notte mi sdraiavo nudo sul letto con la luce accesa,


sopportando il caldo e aspettando gli assalti del bufalo azzurro.
Una notte, verso le undici, bussò alla porta il ragazzo con i
capelli ricci per avvisarmi che alla reception mi volevano al
telefono.
«Non sai chi è?», gli domandai.
Alzò le spalle.
«Come stai?», mi domandò Jacinto appena risposi.
«Ho molto caldo», gli dissi riconoscendo subito la sua voce.
«Sai chi sono, vero?».
«Sì».
«Ne avrai le palle piene, no?», disse dopo una pausa.
«Che?».
«Del caldo, dico», specificò.

225
Restammo zitti per qualche istante.
«Che vuoi?», gli domandai.
«Non abbiamo mai avuto occasione di parlare».
«Sei tu che mi hai dato buca», dissi.
«Io non do mai buca», replicò.
«Be’, mi pare proprio che l’hai fatto, quella volta allo zoo».
Con la mano feci capire al ragazzo dai capelli ricci che tutto
era a posto e che poteva allontanarsi. Era restato in piedi accanto
a me a sentire la conversazione.
«Capo, tu non capisci», mi assicurò Jacinto.
«No?».
«No, non capisci niente».
«E allora perché non me lo spieghi tu?».
«Per questo ti ho chiamato, per spiegarti».
«Per telefono o di persona?».
«Di persona».
«E quando?».
«Anche adesso, se vuoi», disse.
«Non hai le palle».
«Certo che ce l’ho. E se non mi credi, girati».
Mi girai lentamente. Dalla finestra che dava sulla reception
Jacinto mi osservava con il cellulare in mano.
«Vedi che ce l’ho, le palle?».
Riagganciai, e Jacinto sorrise. Con un gesto delle braccia mi
invitò a uscire. Attraversai la soglia e mi fermai di fronte a lui.
Era più alto e robusto di come me l’ero immaginato.
«Era ora che ci conoscessimo, vero?», disse divertito.
«Perché?».
«Per parlare di molte cose».
«Dimmele».
Jacinto indicò con il mento il ragazzo dai capelli ricci, che
adesso ci osservava immobile a cinque metri di distanza.
«Non ti importa se ci sente?», domandò il ciccione.
«È uguale», risposi.
Jacinto scosse la testa.
«No, andiamo da un’altra parte», ordinò.

226
«OK, andiamo in stanza».
Jacinto sorrise.
«Meglio…».
Entrammo e mi sedetti sul letto disfatto. Jacinto indicò il
ripiano della toletta.
«Posso sedermi?».
Annuii. Jacinto si lasciò cadere pesantemente. Il ripiano parve
sul punto di rompersi. Lui si sistemò e osservò la stanza.
«Quindi questa è la famosa 803», disse.
Il suo commento mi irritò, ma prima che potessi protestare
Jacinto si alzò di nuovo in piedi.
«Posso usare il bagno?».
«Prego», dissi indicandoglielo con la mano.
Jacinto entrò e chiuse la porta a chiave. Mi alzai, presi tre
bottiglie vuote dalla confezione di Coca-Cola e le nascosi, in
caso la situazione dovesse farsi violenta. Una sotto il letto,
un’altra dietro alle tende e la terza sotto la scrivania.
Jacinto uscì allacciandosi la cinta e tornò a sedersi sul
ripiano. Mi guardò dritto negli occhi, tirò fuori una bandana da
una tasca dei pantaloni e si asciugò il sudore dalla fronte.
«Allora è qui che ti vedevi con Tania?», domandò.
«Sì, perché?».
«È un posticino un po’ squallido, non trovi?».
«Senti, non rompermi le palle», gli dissi, «e se hai qualcosa
da dirmi non girarci intorno e sputa il rospo».
Senza scomporsi, Jacinto piegò con cura la bandana e la
rimise a posto.
«Non offenderti, era solo la prima cazzata che mi è venuta in
mente».
«Come quella di mandarmi tutte quelle letterine di Gregorio,
no?».
«Può darsi».
«Non sei un troppo vecchio per giocare a nascondino?».
«Non è un gioco. Non stiamo giocando, né io né Gregorio».
«Gregorio è morto. Non te l’hanno detto?».
Fece segno di no con la testa.

227
«Smettila di dire cazzate e dimmi che vuoi».
Jacinto aprì le mani e schioccò varie volte la lingua.
«Non voglio niente, davvero».
«Allora non rompermi i coglioni».
Mi guardò minaccioso.
«Non ti piace che ti rompano i coglioni, eh? Eppure tu l’hai
rotti a tanta gente, stronzo».
Feci scivolare la mano sotto al letto, dove avevo nascosto la
bottiglia.
«Tipo a chi?», domandai.
«A Gregorio, per esempio», rispose.
«Gregorio? Gregorio trasformava in merda tutto quello che
toccava».
«A me non è successo».
«Hai avuto fortuna».
Si alzò in piedi di colpo e indicò la bottiglia di latte.
«Me ne offri un goccio?», domandò. «Devo prendere una
medicina».
Gliene versai un po’ in un bicchiere di plastica. Jacinto tirò
fuori due pasticche da una scatoletta azzurra e le inghiottì con
una gran sorsata.
«Grazie», disse.
Posò il bicchiere sulla toletta, tornò a sedersi e allungò il
corpo all’indietro.
«Ti hanno mai rinchiuso in un ospedale psichiatrico?».
«No».
Sospirò e guardò il pavimento come se stesse ricordando
qualcosa.
«Quando stai lì dentro», continuò puntandomi gli occhi
addosso, «sei appeso a dei fili sottilissimi e quando questi fili si
rompono tutto diventa un vortice. Non sai più dove sono il sopra,
il sotto, la destra e la sinistra. Mi capisci?».
«No, non ti capisco».
Si portò le mani alla testa, si lisciò i capelli e si schiarì la
gola. La sua voce risuonò più grave.
«Sai come si chiamava il filo a cui era appeso Gregorio?».

228
«No».
«Si chiamava Tania».
Risi per la provocazione.
«Che strano», aggiunsi, «anche il mio filo si chiama così».
«Sì», disse e con l’indice sinistro si colpì più volte la tempia,
«ma tu non ti sei mai perso qui dentro».
«Non essere così sicuro».
«No, non sai cosa significa. Te lo dico per esperienza. Non
hai la minima idea».
«Sì che lo so. Solo che alcuni sono più forti di altri».
Jacinto si morse un pezzettino di pelle sul pollice e scosse la
testa.
«E poi dici che era Gregorio che distruggeva tutto».
«Tant’è vero», affermai, «che si è distrutto da solo».
«O forse l’hanno aiutato».
«Senti», gli dissi, «Gregorio era il mio migliore amico, lo
conoscevo da tanto tempo e ho visto come si è distrutto da solo.
Non c’era molto da fare, te l’assicuro».
«Tu non eri suo amico», mi rimproverò con rabbia, «tu l’hai
fottuto sempre!».
«Ci siamo fottuti a vicenda, amico, tutti e due».
«Ma, alla fine, chi ha perso?».
«Non si tratta di vedere chi ha vinto e chi ha perso».
«Chi è che ha perso?», ripeté.
«Nessuno dei due, coglione!».
«Lui è morto e tu te ne stai qui tranquillo».
Cominciai a colpirlo con le mani.
«Lui s’è ammazzato perché l’ha voluto! Che cazzo c’en​tro io,
me lo spieghi?».
«Non ti rendi conto, vero?».
«Di che?».
«Che sei tu quello che trasforma in merda tutto quello che
tocca. Perché Tania continua a sfuggirti, secondo te?».
Fui tentato di prendere la bottiglia da sotto il letto e di
spaccargliela sul cranio.
«Smettila di tirare in ballo Tania, o ti taglio le palle e te le

229
faccio mangiare!».
«Ma che paura!», disse.
Restammo in silenzio, misurandoci, confrontandoci. Jacinto
era molto grosso, ma ero convinto che sarei riuscito a stenderlo a
bottigliate.
«È stata Tania a mandarmi», disse all’improvviso.
«Che?».
«Ha paura di te, Manuel. Ha molta paura».
«Quello che Tania sente, o sentiva per me, sono affari miei».
«Be’, ha una paura fottuta di te».
«OK, OK…quindi?».
«Anche Gregorio aveva paura di te».
Non risposi. Le sue parole, il suo sguardo smisero di essere
minacciosi per farsi di nuovo tristi.
«Non dovevi andare a letto con Tania», disse con sicurezza.
«Sono cose che capitano».
«No, sono cose che si devono evitare».
«Adesso fai il moralista», dissi.
Jacinto restò in silenzio, aggrottando la fronte di tanto in
tanto.
«Tania e io ci siamo innamorati senza volerlo», aggiunsi, ma
Jacinto non mi prestò attenzione.
Tirò di nuovo fuori il fazzoletto, si asciugò il sudore dalla
nuca e cominciò a parlare a bassa voce.
«Molti anni fa, in un posto in Africa, dove sono stato, fu così
caldo che i laghi cominciarono a prosciugarsi…».
Fece una pausa per rimettere a posto il fazzoletto e continuò:
«Si prosciugarono a tal punto che rimasero solo delle
pozzanghere d’acqua sporca, con migliaia di pesci morti a pancia
in su, che appestavano l’aria. Non sai che odore avevano».
Finì di parlare e rimase in silenzio.
«Quindi?», gli domandai.
Deglutì e mi guardò negli occhi.
«Dev’essere lo stesso odore che hai dentro», rispose.
Non disse altro. Si alzò in piedi e si avvicinò alla porta. Gli
bloccai il passaggio.

230
«Dov’è Tania?», gli domandai.
«Non lo so», rispose.
«Tu sai dov’è andata, non fare il finto tonto».
«Davvero, non lo so».
Mi superò per raggiungere la porta ma lo fermai ancora.
«Devi ancora dirmi molte cose».
«Ti ho detto tutto quello che ti dovevo dire».
Afferrai le foto di Tania che avevo ricevuto la settimana prima
e gliele mostrai.
«E queste?».
Le prese e le osservò con attenzione.
«Non le avevo mai viste», disse con sicurezza e me le restituì.
«Allora chi me le ha portate?».
«Io no. La mia parte l’ho fatta».
«E qual era la tua parte?».
Fece un sospiro profondo e s’inumidì le labbra.
«Dimostrarti che non sei salvo».
Mi oltrepassò e uscì senza chiudere la porta che dava sul
patio. Mi sedetti sul letto, stordito. Di colpo capii quanto mi
aveva amato Gregorio e quanto ancora l’amavo io. Cazzo. Chi era
il re Mida della distruzione, adesso?
Rimasi tutto il resto della notte seduto sul letto, con la porta
aperta, senza muovermi, pensando all’aria putrefatta di una
lontana pianura africana, finché non fu giorno.

231
Non sono più tornato a casa e sono rimasto ad abitare nel
motel. Pago la camera e mi mantengo lavorando per Camariña.
Mi occupo della contabilità e supervisiono la pulizia delle stanze.
Ho anche realizzato qualche miglioria architettonica. Il motel
adesso è più moderno, più funzionale, e posso affermare che da
allora la clientela è aumentata. Non molto, ma è aumentata.
Camariña si fida pienamente di me e viene al motel solo tre
sere a settimana. Gli presento tutti i conti chiari e ordinati, con
un bilancio dettagliato delle entrate e delle uscite. Perfino un
rapporto del consumo quotidiano di sapone, gli faccio avere. Lui
giura che se continuo così mi prende come socio.
Nella mia stanza ho un televisore a colori, una mensola con
dei libri, uno stereo e un telefono collegato alla linea privata di
Camariña. Mi sono comprato una copia di Musica per
cortigiane, che tengo sempre vicino alla scrivania. Continuo a
consultarlo come il mio libro personale di I Ching e quasi sempre
ci prende.
I rapporti con i miei sono cambiati in meglio da quando non
vivo più a casa, soprattutto quelli con mia madre. Mangiamo
insieme tutti i sabati. Mio padre continua a lamentarsi del volume
della musica della ragazzina accanto, Luis a passare da una
fidanzata all’altra, tutte rigorosamente insignificanti, e mia madre
a preparare tramezzini al pollo con cipolla. Ha ricominciato a
lavorare. Adesso è coordinatrice degli interventi urbani nella
delegazione Benito Juárez. Non stare in casa non le pesa più e ha
smesso di sentirsi colpevole.
Margarita mentiva. Né Joaquín né i suoi genitori sapevano

232
della nostra relazione. Me l’aveva fatto credere – lei stessa me
l’ha confessato – per proteggersi da me. Anche lei mi temeva. Mi
è sembrata ingiusta. Eravamo stati amici, complici, confidenti.
Sapeva così tanto di me che era difficile che potessi farle del
male. E, nonostante questo, gliene ho fatto lo stesso.
Ci ho rifatto l’amore tre volte. Una a casa sua, un’altra
nell’803 e l’ultima in mezzo alla strada, una notte. Tutte e tre le
volte l’abbiamo fatto in fretta. Lei con una certa rabbia e con un
certo timore. Io con noncuranza, indifferente, quasi per dovere.
Da allora ci siamo allontanati e i nostri contatti si sono ridotti a
qualche rara telefonata occasionale. So che ha un fidanzato che
non ama e con cui probabilmente si sposerà.

Stando a quello che mi ha detto Manrique, Jacinto è rientrato


in ospedale. Soffre di gravi crisi maniaco-depressive. Per non
avere problemi con lui, il suo patrigno – il segretario – soddisfa
tutti i suoi capricci, uno dei quali fu quello di sollecitare il mio
rilascio. Ma al primo pretesto lo fa rinchiudere di nuovo. Jacinto
è tornato a vivere nel mondo del Prozac, del Tegretol e delle
pasticchette azzurre.

Tania è scomparsa. È passato più di un anno e nessuno ha


saputo più niente di lei. I suoi hanno perlustrato obitori, ospedali
e carceri fino all’esaurimento. Si spostano angosciati da una città
all’altra seguendo piste false. C’è sempre qualcuno che sostiene
di averla vista in questo o quel posto. E loro vanno lì a cercarla
per tornarsene a casa delusi dopo pochi giorni.
Io so che Tania sta bene, che mi pensa, che mi ama ancora.
Luis mi ha detto che certe volte, di notte, a casa squilla il
telefono. Quando rispondono non parla nessuno, si sente solo un
respiro e poi riattaccano. È lei che chiama, sono sicuro.
Non sono riuscito a dimenticarla. Mi manca notte dopo notte.
Dormo nudo con la speranza che un giorno entrerà da quella
porta e verrà a sdraiarsi vicino a me. Perché è impossibile
smettere di amarla. Ci ho provato e non ci riesco. Ho fatto
l’amore con altre otto, dieci donne, e ogni volta che ne penetro

233
una ricordo il ventre caldo di Tania su di me e chiudo gli occhi e
la penso.

Sono tornato allo zoo. Immancabilmente mi dirigo alla fossa


dei giaguari. Contemplo per ore la femmina rimasta sola. A volte
riesco a sentirla mentre fa le fusa, nel sonno. È un verso triste,
ancestrale. Allora immagino che forse gli animali sognano e che
lei sogna il maschio perduto, con le file di studenti che si
ammassano a guardarla e il rumore degli aerei che attraversano il
cielo.
La femmina sogna e fa le fusa.

L’ultimo messaggio che mi è arrivato da Gregorio consisteva


in una busta al cui interno c’erano un biglietto bianco macchiato
del suo sangue, tre forbicine e una frase: «Il bufalo della notte ci
sogna». Non sono mai riuscito a scoprire chi me l’abbia mandata.

Una volta sono andato a vedere un film. Parlava di due fratelli


che in gioventù erano stati molto ribelli. Crescendo, uno era
diventato un poliziotto, l’altro un criminale. Il poliziotto aveva
scelto una vita tranquilla, in famiglia. Il delinquente un’esistenza
oscura, nomade.
Una sera, in un bar, il fratello criminale rimprovera al fratello
poliziotto di aver perduto il suo fuoco, di essersi sottomesso e
umiliato, di essersi trasformato in una caricatura di se stesso. Lo
sprona a ritrovare il fuoco, ad abbandonare la sua routine di
uomo responsabile e noioso. Il fratello poliziotto non gli
risponde. Si limita a rompere una bottiglia contro il bancone e a
tagliarsi un avambraccio con il vetro rotto. «Il fuoco uno se lo
tiene dentro», gli dice sanguinando. L’altro lo guarda attonito.
Con calma il poliziotto gli porge il vetro insanguinato. Il fratello
lo rifiuta e scappa via dal bar.

Spesso mi sveglio sentendo sulla nuca l’alito azzurro del


bufalo della notte. È la morte che mi sfiora, lo so. È la tentazione
di spararmi un colpo in fronte, di farla finita: è il fuoco che mi

234
brucia dentro.
È la morte, lo so.

235
Collana «Le strade»
155. Stéphane Audeguy, La teoria delle nuvole, traduzione di
Maurizio Ferrara.
156. Alan Pauls, Storia del pianto, traduzione di Maria
Nicola. EDIZIONE EBOOK
157. Gilbert Gatore, Il passato davanti a sé, prefazione di
Erri De Luca. Traduzione di Sonia Gentili.
158. Elizabeth Strout, Olive Kitteridge, traduzione di Silvia
Castoldi. (19a ed.) EDIZIONE EBOOK
159. Hugo Hamilton, La maschera, traduzione di Isabella
Zani.
160. Stefan Brijs, Due vite, traduzione di Franco Paris.
EDIZIONE EBOOK
161. Chuck Kinder, L’ultimo danzatore di montagna. Dure
lezioni in materia d’amore, sconfitta e vita da fuorilegge,
prefazione di Christian Frascella. Traduzione di Giovanna
Scocchera e Manuela Francescon.
162. Peter Manseau, Ballata per la figlia del macellaio,
traduzione di Giuliano Bottali e Simonetta Levantini.
163. Sonya Hartnett, Aria, traduzione di Giuseppina Oneto.
164. H.G. Adler, Un viaggio, con una lettera di Elias Canetti.
Traduzione di Marina Pugliano e Julia Rader.
165. John Burnside, Glister, introduzione di Irvine Welsh.
Traduzione di Enrico Terrinoni.
166. Elido Fazi, Bright Star. La vita autentica di John Keats.
EDIZIONE EBOOK
167. Paula Fox, Costa occidentale, traduzione di Silvia
Castoldi.
168. Stephane Audeguy, Mio fratello Rousseau, postfazione
di Daria Galateria. Traduzione di Maurizio Ferrara.
169. Elizabeth Strout, Amy e Isabelle, nuova edizione,
prefazione di Valeria Parrella. Traduzione di Martina Testa. (4a
ed.) EDIZIONE EBOOK
170. Filip Florian, Dita mignole, traduzione di Maria Luisa
Lombardo. EDIZIONE EBOOK
171. Jan Elizabeth Watson, La prigione di neve, prefazione

236
di Diego De Silva. Traduzione di Giuseppina Oneto.
172. Cesarina Vighy, Scendo. Buon proseguimento,
introduzione di Vito Mancuso. EDIZIONE EBOOK
173. Paolo Ruffilli, Un’altra vita. EDIZIONE EBOOK
174. Jacques Chessex, L’Orco, prefazione di Tommaso
Pincio. Traduzione di Maurizio Ferrara.
175. Elizabeth Strout, Resta con me, traduzione di Silvia
Castoldi. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
176. Samanta Schweblin, La pesante valigia di Benavides,
traduzione di Maria Nicola.
177. Claudio Damiani, Poesie (1984-2010), a cura di Marco
Lodoli. EDIZIONE EBOOK
178. Michel Le Bris, La bellezza del mondo, traduzione di
Maurizio Ferrara.
179. Paul Beatty, Slumberland, traduzione di Silvia Castoldi.
180. Dawn Powell, Gabbia per amanti, introduzione di Irene
Bignardi. Traduzione di Silvia Castoldi.
181. Valentino Zeichen, Aforismi d’autunno. EDIZIONE
EBOOK
182. Jean Mistler, Le memorie del cavaliere di Villevert, a
cura di Giuseppe Scaraffia. Traduzione di Vittoria Ronchey.
183. Hilary Mantel, Wolf Hall, traduzione di Giuseppina
Oneto. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
184. Jacques Chessex, Un ebreo come esempio, traduzione di
Maurizio Ferrara.
185. Giorgio Nisini, La città di Adamo. (2a ed.) EDIZIONE
EBOOK
186. Holly Goddard Jones, Questa America, traduzione di
Silvia Castoldi. EDIZIONE EBOOK
187. Miguel Syjuco, Ilustrado, prefazione di Joseph
O’Connor. Traduzione di Enrico Terrinoni.
188. Stewart O’Nan, Canzoni per la scomparsa, traduzione
di Alberto Cellotto.
189. Paolo Ruffilli, L’isola e il sogno. EDIZIONE EBOOK
190. Gianfranco Calligarich, Privati abissi. (2a ed.) EDIZIONE
EBOOK

237
191. Erskine Caldwell, La via del tabacco, prefazione di Joe
Lansdale. Traduzione di Luca Briasco. (2a ed.)
192. James Lasdun, Comincia a far male, traduzione di
Giuseppina Oneto.
193. Andrew O’Hagan, Vita e opinioni del cane Maf e della
sua amica Marilyn Monroe, traduzione di Maurizio Bartocci.
EDIZIONE EBOOK
194. Élisabeth Gille, Mirador. Irène Némirovsky, mia madre,
a cura di Cinzia Bigliosi, prefazione e intervista di René de
Ceccatty. Traduzione di Maurizio Ferrara e Gennaro Lauro. (2a
ed.) EDIZIONE EBOOK
195. Valentino Zeichen, Il testamento di Anita Garibaldi,
postfazione di Italo Moscati. EDIZIONE EBOOK
196. Boris Pahor, Dentro il labirinto, traduzione di Martina
Clerici.
197. Billy Collins, Balistica, a cura di Franco Nasi. Testo
originale a fronte.
198. Jaimy Gordon, L’ultimo giorno di gloria, traduzione di
Fabio Pedone. EDIZIONE EBOOK
199. Shandi Mitchell, Sotto questo cielo intatto, traduzione
di Velia Februari. EDIZIONE EBOOK
200. Thierry Hesse, Demone, traduzione di Maurizio Ferrara.
EDIZIONE EBOOK
201. Mauro Mazza, L’albero del mondo. EDIZIONE EBOOK
202. John Williams, Stoner, postfazione all’edizione italiana
di Peter Cameron. Traduzione di Stefano Tummolini. (24a ed.)
EDIZIONE EBOOK
203. Jacques Chessex, L’ultimo cranio del marchese di
Sade, traduzione di Maurizio Ferrara. EDIZIONE EBOOK
204. Alessandra Libutti, Thomas Jay. EDIZIONE EBOOK
205. Beryl Bainbridge, Ognuno per sé, nuova edizione,
traduzione di Alessandra Osti. EDIZIONE EBOOK
206. Franco Buffoni, Il servo di Byron. EDIZIONE EBOOK
207. Kevin Wilson, La famiglia Fang, traduzione di Silvia
Castoldi. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
208. L’entomologo e l’incredibile storia della foto di

238
Napoleone, a cura di Giovanni Fassio. EDIZIONE EBOOK
209. Jérôme Ferrari, Dove ho lasciato l’anima, postfazione di
Amara Lakhous. Traduzione di Maurizio Ferrara. EDIZIONE
EBOOK
210. Giulia Bozzola, Una classe difficile. EDIZIONE EBOOK
211. Mohammed Al Achaari, L’arco e la farfalla, a cura di
Isabella Camera D’Afflitto. Traduzione di Paola Viviani. (2a ed.)
EDIZIONE EBOOK
212. Claudio Damiani, Il fico e la fortezza. EDIZIONE EBOOK
213. Alice LaPlante, Non ricordo se ho ucciso, traduzione di
Manuela Francescon. EDIZIONE EBOOK
214. Victor Serge, Se è mezzanotte nel secolo, introduzione
di Goffredo Fofi. Traduzione di Maurizio Ferrara.
215. Erskine Caldwell, Il piccolo campo, traduzione di Luca
Briasco.
216. Matteo Cellini, Cate, io. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
217. John Williams, Butcher’s Crossing, traduzione di
Stefano Tummolini. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
218. Hilary Mantel, Anna Bolena, una questione di famiglia,
postfazione di Roberto Bertinetti. Traduzione di Giuseppina
Oneto. (5a ed.) EDIZIONE EBOOK
219. Giordano Tedoldi, I segnalati. EDIZIONE EBOOK
220. Elizabeth Strout, I ragazzi Burgess, traduzione di Silvia
Castoldi. (9a ed.) EDIZIONE EBOOK
221. Andrew O’Hagan, Stammi vicino, traduzione di
Maurizio Bartocci.
222. Alba Donati, Idillio con cagnolino e altre poesie. (2a
ed.) EDIZIONE EBOOK
223. James Lloyd Carr, Un mese in campagna, introduzione
di Penelope Fitzgerald. Traduzione di Silvia Castoldi. EDIZIONE
EBOOK
224. Billy Collins, A vela in solitaria intorno alla stanza, a
cura di Franco Nasi. Testo originale a fronte.
225. Theodor Weesner, Ladro di macchine, traduzione di
Giacomo Cuva. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
226. Alice Di Stefano, Publisher. L’età dell’oro. EDIZIONE

239
EBOOK
227. Charlotte Brontë, Villette, introduzione di Antonella
Aned​da. Traduzione di Simone Caltabellota. (10a ed.) EDIZIONE
EBOOK
228. Erskine Caldwell, Fermento di luglio, traduzione di
Luca Briasco.
229. Pietro Neglie, Ma la divisa di un altro colore. EDIZIONE
EBOOK
230. John Williams, Nulla, solo la notte, traduzione di
Stefano Tummolini. EDIZIONE EBOOK
231. Kevin Wilson, Scavare fino al centro della terra,
traduzione di Silvia Castoldi. EDIZIONE EBOOK
232. Hilary Mantel, La storia segreta della rivoluzione,
traduzione di Giuseppina Oneto. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
233. Hilary Mantel, Wolf Hall, nuova edizione, traduzione di
Giuseppina Oneto. (4a ed.) EDIZIONE EBOOK
234. David Wagner, Il corpo della vita, traduzione di Fabio
Lucaferri. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
235. Pierre Drieu De La Rochelle, La commedia di
Charleroi, introduzione di Arnaldo Colasanti. Traduzione di
Attilio Scarpellini. EDIZIONE EBOOK
236. Machado de Assis, Don Casmurro, traduzione di
Gianluca Manzi e Léa Nachbin. EDIZIONE EBOOK
237. Elizabeth Jane Howard, Il lungo sguardo, traduzione di
Manuela Francescon. (4a ed.) EDIZIONE EBOOK
238. Stefano Tummolini, Un’estate fa. EDIZIONE EBOOK
239. Knut Hamsun, Per i sentieri dove cresce l’erba,
traduzione di Maria Valeria D’Avino. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
240. Robert Hugh Benson, Il padrone del mondo, traduzione
di Valentina Bortolamedi. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
241. Dorothy Baker, Cassandra al matrimonio, traduzione di
Stefano Tummolini. (2a ed.)
242. Hilary Mantel, Un posto più sicuro. La storia segreta
della rivoluzione, seconda parte, traduzione di Giuseppina
Oneto. EDIZIONE EBOOK
243. Andrea Caterini, Giordano. EDIZIONE EBOOK

240
244. Edmundo Paz Soldán, Río Fugitivo, introduzione di Juan
Gabriel Vásquez. Traduzione di Carla Rughetti. EDIZIONE EBOOK
245. Giorgio Nisini, La lottatrice di sumo. (3a ed.) EDIZIONE
EBOOK
246. Salvatore Adamo, La notte… l’attesa, postfazione di
Francesco Piga. Traduzione di Nilo Pucci. (2a ed.) EDIZIONE
EBOOK
247. Miguel de Unamuno, Nebbia, traduzione di Stefano
Tummolini. EDIZIONE EBOOK
248. Wajdi Mouawad, Anima, traduzione di Antonella Conti.
(6a ed.)
249. William Makepeace Thackeray, Le memorie di Barry
Lyndon, traduzione di Tommaso Giartosio. EDIZIONE EBOOK
250. Robert McLiam Wilson, nuova edizione, Eureka Street,
traduzione di Lucia Olivieri. (7a ed.) EDIZIONE EBOOK
251. Cristina Guarducci, Malefica luna d’agosto. (2a ed.)
EDIZIONE EBOOK
252. Wilkie Collins, La donna in bianco, traduzione di
Stefano Tummolini. (7a ed.) EDIZIONE EBOOK
253. Henry James, Indignazione, traduzione di Maurizio
Bartocci. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
254. Pierre Lemaitre, L’abito da sposo, traduzione di Giacomo
Cuva. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
255. Hilary Mantel, I giorni del Terrore. La storia segreta
della rivoluzione, terza parte, traduzione di Giuseppina Oneto.
(2a ed.) EDIZIONE EBOOK
256. Giulio Querini, Sotto il cielo del Madagascar. (2a ed.)
EDIZIONE EBOOK
257. Holly Goddard Jones, La prossima volta, traduzione di
Silvia Castoldi. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
258. John Williams, Butcher’s Crossing, nuova edizione,
traduzione di Stefano Tummolini. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
259. Elizabeth Strout, Amy e Isabelle, nuova edizione,
prefazione di Valeria Parrella, traduzione di Martina Testa. (3a
ed.) EDIZIONE EBOOK
260. Elizabeth Strout, Resta con me, nuova edizione,

241
traduzione di Silvia Castoldi. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
261. Wilkie Collins, Senza nome, traduzione di Luca
Scarlini. (5a ed.) EDIZIONE EBOOK
262. Rocco Fortunato, I reni di Mick Jagger. EDIZIONE EBOOK
263. Azza Filali, Ouattan. Ombre sul mare, traduzione di
Maurizio Ferrara. EDIZIONE EBOOK
264. Elizabeth Jane Howard, Gli anni della leggerezza,
traduzione di Manuela Francescon. (9a ed.) EDIZIONE EBOOK
265. Dawn Powell, Café Julien, introduzione di Natalia
Aspesi. Traduzione di Silvia Castoldi. (2a ed.)
266. Leonard Gardner, Città amara, traduzione di Stefano
Tummolini. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
267. Francesca Albergotti, Nonostante tutto. EDIZIONE EBOOK
268. Thomas Williams, I capelli di Harold Roux, traduzione
di Giacomo Cuva. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
269. Jonathan Carroll, Mele bianche, traduzione di Lucia
Olivieri. EDIZIONE EBOOK
270. Dorothy Baker, La leggenda del trombettista bianco,
traduzione di Stefano Tummolini. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
271. Valentino Zeichen, La sumera. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
272. Charlotte Brontë, Shirley, traduzione di Fedora Dei. (3a
ed.) EDIZIONE EBOOK
273. Thomas Hardy, Nel bosco, traduzione di Stefano
Tummolini. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
274. Shifra Horn, Scorpion Dance, traduzione di Silvia
Castoldi. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
275. Wilkie Collins, Armadale, traduzione di Alessandra
Tubertini. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
276. Anna Luisa Pignatelli, Ruggine. (2a ed.) EDIZIONE
EBOOK
277. Hilary Mantel, Al di là del nero, traduzione di
Giuseppina Oneto. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
278. Nikolaj S. Leskov, Una famiglia decaduta, traduzione di
Flavia Sigona. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
279. Ernst Haffner, Fratelli di sangue, traduzione di Madeira
Giacci. EDIZIONE EBOOK

242
280. Mauro Mazza, Il destino del papa russo. (2a ed.)
EDIZIONE EBOOK
281. Elizabeth Jane Howard, Il tempo dell’attesa, traduzione
di Manuela Francescon. (4a ed.) EDIZIONE EBOOK
282. Charlotte Brontë, Il professore, traduzione di Martina
Rinaldi. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
283. Mary Elizabeth Braddon, Il segreto di Lady Audley,
traduzione di Chiara Vatteroni. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
284. Gore Vidal, Creazione, nuova edizione, traduzione di
Stefano Tummolini. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
285. Ivan A. Goncˇarov, Una storia comune, traduzione di
Patrizia Parnisari. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
286. Angela Carter, Figlie sagge, traduzione di Rossella
Bernascone e Cristina Iuli. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
287. Georges Rodenbach, Bruges la morta, traduzione di
Catherine McGilvray. EDIZIONE EBOOK
288. Gajto Gazdanov, Ritrovarsi a Parigi, traduzione di
Manuela Diez. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
289. Elido Fazi, La Bellezza di esistere. (2a ed.) EDIZIONE
EBOOK
290. Amy Bloom, Beate noi, traduzione di Giacomo Cuva.
(3a ed.) EDIZIONE EBOOK
291. Cristóvão Tezza, La caduta delle consonanti
intervocaliche, traduzione di Daniele Petruccioli. (3a ed.)
EDIZIONE EBOOK
292. Wilkie Collins, La pietra di Luna, traduzione di
Martina Rinaldi. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
293. Charlotte Brontë, Shirley, nuova edizione, traduzione di
Sabina Terziani. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
294. Elizabeth Jane Howard, Confusione, traduzione di
Manuela Francescon. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
295. Paul Beatty, Lo schiavista, traduzione di Silvia Castoldi.
(3a ed.) EDIZIONE EBOOK
296. Wilkie Collins, La Legge e la Signora, traduzione di
Luca Scarlini. EDIZIONE EBOOK
297. Jakob Wassermann, Il caso Maurizius, traduzione di

243
Lucia Sgueglia. EDIZIONE EBOOK
298. Juan Esteban Constaín, L’uomo che non fu Giovedì,
traduzione di Andrea Rigato. EDIZIONE EBOOK
299. Claudio Damiani, Cieli celesti. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
300. Orazio, Carpe diem, a cura di Giovanni Ricciardi.
EDIZIONE EBOOK
301. Rainald Goetz, Johann Holtrop. Ascesa e declino,
traduzione di Stefano Jorio.
302. John Williams, Stoner, nuova edizione, postfazione
all’edizione italiana di Peter Cameron. Traduzione di Stefano
Tummolini. (4a ed.) EDIZIONE EBOOK
303. Thomas Hardy, Via dalla pazza folla, traduzione di
Enrico Mistretta. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
304. Kate O’ Brien, Mary Lavelle, traduzione di Antonella
Sarti. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
305. Chiara Rapaccini, Baires. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
306. Patricia Nell Warren, La corsa di Billy, traduzione di
Silvia Nono. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
307. Tim Winton, Il nido, traduzione di Stefano Tummolini.
(2a ed.) EDIZIONE EBOOK
308. Gore Vidal, Giuliano, nuova edizione, traduzione di
Chiara Vatteroni. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
309. Anna Giurickovic Dato, La figlia femmina. (4a ed.)
EDIZIONE EBOOK
310. Angela Carter, Notti al circo, traduzione di Mariagiulia
Castagnone. EDIZIONE EBOOK
311. Paul Beatty, Slumberland, nuova edizione, traduzione di
Silvia Castoldi. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
312. Arnaldo Colasanti, La Magnifica. EDIZIONE EBOOK
313. John Burnside, La natura dell’amore, traduzione di
Giuseppina Oneto. EDIZIONE EBOOK
314. Elizabeth von Arnim, Un incantevole aprile, traduzione
di Sabina Terziani. (3a ed.) EDIZIONE EBOOK
315. Wilkie Collins, Basil, traduzione di Alessandra
Tubertini. EDIZIONE EBOOK
316. Elizabeth Jane Howard, Allontanarsi, traduzione di

244
Manuela Francescon. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
317. Daniele Zito, Robledo. EDIZIONE EBOOK
318. Wajdi Mouawad, Il volto ritrovato, traduzione di
Antonella Conti.
319. Gajto Gazdanov, Strade di notte, traduzione di Claudia
Zonghetti. EDIZIONE EBOOK
320. Willa Cather, Il mio nemico mortale, traduzione di
Stefano Tummolini. EDIZIONE EBOOK
321. Inge Schilperoord, Nuvole di fango, traduzione di
Stefano Musilli. EDIZIONE EBOOK
322. Valentino Zeichen, Le poesie più belle. EDIZIONE EBOOK
323. Thomas Hardy, Due occhi azzurri, traduzione di Maria
Felicita Melchiorri. EDIZIONE EBOOK
324. Hilary Mantel, Otto mesi a Ghazzah Street, traduzione di
Giuseppina Oneto. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
325. Cesarina Vighy, L’ultima estate e altri scritti, prefazione
di Pier Vincenzo Mengaldo. EDIZIONE EBOOK
326. John Williams, Augustus, traduzione di Stefano
Tummolini. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
327. Elizabeth Jane Howard, Tutto cambia, traduzione di
Manuela Francescon. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
328. Maria Edgeworth, Il castello Rackrent, traduzione di
Pietro Meneghelli. EDIZIONE EBOOK
329. Paul Beatty, Il blues del ragazzo bianco, traduzione di
Nicoletta Vallorani. EDIZIONE EBOOK
330 Roman Sencˇin, L’ultimo degli Eltyšev, traduzione di
Claudia Zonghetti. EDIZIONE EBOOK
331. Elizabeth von Arnim, Il giardino di Elizabeth, traduzione
di Sabina Terziani. EDIZIONE EBOOK
332. Victor Serge, Il caso Tulaev, traduzione di Robin Benatti.
EDIZIONE EBOOK
333. Wilkie Collins, Uomo e donna, traduzione di Alessandra
Tubertini. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
334. Joseph Andras, Dei nostri fratelli feriti, traduzione di
Antonella Conti. EDIZIONE EBOOK
335. Ricardo Romero, Storia di Roque Rey, traduzione di

245
Vittoria Martinetto. (2a ed.) EDIZIONE EBOOK
336. Gore Vidal, L’età dell’oro, traduzione di Luca Scarlini.
EDIZIONE EBOOK
337. Elizabeth von Arnim, La Fattoria dei Gelsomini,
traduzione di Sabina Terziani. EDIZIONE EBOOK
338. Lev Tolstoj, La felicità domestica, traduzione di
Clemente Rebora. EDIZIONE EBOOK
339. Mihail Sebastian, Da duemila anni, traduzione di Maria
Luisa Lombardo. EDIZIONE EBOOK
340. Franco Faggiani, La manutenzione dei sensi. EDIZIONE
EBOOK
341. Paula Fox, Quello che rimane, traduzione di Alessandro
Covolo. EDIZIONE EBOOK

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