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Edizioni XII

La corsa selvatica - versione demo

Collana Eclissi, n. 6
collana diretta da Luigi Acerbi

isbn 978-88-95733-15-9
Copyright © 2009 Riccardo Coltri
Copyright © 2009 Edizioni XII (Edizione)
Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi

Editing di Daniele Bonfanti


Impaginazione di Matteo Poropat
Copertina e progettazione grafica di collana
di Jessica Angiulli e Lucio Mondini - Diramazioni
Prima Edizione

Sito Web Riccardo Coltri: www.riccardocoltri.tk


Sito Web Edizioni XII: www.xii-online.com
Non vi è dubbio che lo scopo principale era la tortura in se
stessa, ma tra gli inquisitori ci deve essere stato qualcuno con un
tantino di curiosità scientifica.
H.G. Wells, L’isola del dottor Moreau
Q uesta è una demo . C ontiene i primi tre

capitoli dell ’ episodio finale del romanzo ,

l ’ appendice , un ’ intervista all ’ autore ,

e due articoli di approfondimento .

B uona lettura !
collana
Eclissi

Riccardo Coltri

La corsa selvatica
La corsa selvatica

1.
C’era ben poco da dire sul campo, quando loro non correvano.
Alcune case, due stalle nella parte alta della contrada, un fie-
nile. Solo avvicinandosi e guardando meglio, solo abbassando lo
sguardo sul terreno si poteva capire cos’accadesse in quei giorni.
Assi danneggiate erano sparse poco distante da un arco di
pietra. Sul suolo anche chiodi divelti. Mani rosse avevano cerca-
to di aggrapparsi alle mura; c’era sangue anche sul legno spezza-
to e le tracce raggiungevano la mulattiera delimitata, a sinistra,
da un muretto muschioso.
Zamin si fermò e sistemò meglio lo zaino sulla spalla sinistra,
facendo tintinnare contro una cinghia la piccola tazza appesa a
una catenina. Portò una mano all’indietro, sfiorando con le dita
il fucile ad ago Dreyse, dal calcio intarsiato con simboli.
Riprese a camminare, tirando le briglie del cavallo, che sbuf-
fò. Guardando le case, considerò che la geometria del borgo
sarebbe stata confusa anche se osservata dall’alto: un complesso
diroccato dove, come denti rotti, emergevano muraglie che si
intersecavano, volte ricoperte di edera che fungevano da sipa-
ri per strade che, incerte, potevano congiungersi con il cuore
dell’abitato. O, nella confusione urbanistica, andare a finire nel
prato circostante.
Avvicinandosi di più si poteva notare che all’esterno tutto era
chiuso da rudimentali barriere. All’interno del borgo invece le
mura erano il più possibile illuminate, anche se il cielo non era
ancora buio. Superato l’arco si intravedeva, dietro un edificio,
una bassa torre di legno che sembrava di recente costruzione.
Si era aspettato un simile spettacolo. Sapeva che ormai lassù

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ci vivevano in pochi e la contrada negli ultimi tempi era diven-
tata un labirinto di mura e steccati, assi inchiodate alle porte e
alle finestre, portali che sbarravano l’accesso alle vie, crocifissi e
scongiuri incisi nel legno. Il luogo non aveva nemmeno un vero
nome: campo, dicevano tutti da sempre, e le abitazioni sorge-
vano attorno a quella che era chiamata la bottega delle acque,
originariamente un’osteria, poi un ritrovo con più funzioni. Una
sorta di casa del popolo, e si trattava di un popolo povero, sem-
plice. Impaurito, in quei giorni.
All’entrata del borgo c’era una barricata di assi e ferro. Di
guardia ai due lati, uomini con le armi puntate. Al di là era sta-
to necessario costruire un robusto portale, era rischiarato da
torce. Anche quel legno era graffiato, scheggiato e inscurito da
macchie di sangue. Un visitatore che si fosse avvicinato avrebbe
potuto credere di trovarsi all’entrata di un castello. E in fin dei
conti, non era un vero e proprio assedio ciò che gli abitanti del
campo stavano affrontando in quel periodo?
Guardando gli uomini, Zamin sorrise sotto il cappuccio nero
e alzò una mano, annuendo.
Ma, pensava.
Ma la forte sensazione era che nei tempi passati il luogo si
presentasse assai diverso. Che in mezzo alle misere case e ai fie-
nili e alle stalle, alle recenti fortificazioni e al poco altro che oggi
si poteva dire, si nascondesse molto bene una reggia in rovina.
La disposizione delle case, la loro bellezza nonostante l’aspetto
in quei giorni severo, militare, sotto un cielo che era un insieme
di vapori scuri: c’erano davvero stati tempi migliori?
Lontano si poteva vedere la distesa scura del lago.
Gli uomini di guardia non abbassarono le armi.
«…ate di là».
Gli stavano urlando qualcosa. Zamin si voltò verso un punto
del terreno dove c’erano due rami disposti in croce.
Guardò gli uomini: facevano segnali.
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Annuì, si scostò, tirando le briglie del cavallo. Ebbe cura di
continuare a camminare senza passare troppo vicino ai due rami.
Uno dei quali, notò, era legato a una fune.
«Ssst», ordinò al cavallo, accarezzandolo, e seguì con lo sguar-
do dove andasse a finire la corda: non riuscì a capirlo, ma dove-
va far scattare qualche tipo di trappola. Probabilmente l’idea era
che la corda venisse toccata da chi o qualunque cosa giungesse
di corsa.

Ora stavano per perquisirlo. Lo guardavano in modo strano,


alcuni fissarono il berretto con visiera che aveva sotto il cappuc-
cio. Quando disse ai guardiani chi fosse e presentò il documen-
to, lo lasciarono: avevano l’aria di saperlo già, ma continuarono
lo stesso a sembrare perplessi. Forse perché era solo. Oppure si
stavano chiedendo come avesse fatto a salire fin lì.
Zamin pensò che non tutti quegli uomini erano della contra-
da, doveva anche esserci gente che veniva da fuori. Volontari.
Uomini si occuparono del cavallo. Gli venne indicata la via
per la bottega delle acque. Nessuno lo accompagnò e i guardiani
ripresero a sorvegliare la strada e i boschi attorno al borgo.
Zamin alzò la testa: c’erano uomini anche sui tetti, gli schiop-
pi imbracciati. Immaginò che fra le mura della contrada gli sa-
rebbe venuto incontro un incaricato che lo avrebbe condotto
alla bottega, così cominciò a camminare.
Percorse vie strette, guardando i mattoni umidi, le porte, le
finestre. Le case che si stringevano le une alle altre come per di-
fendersi dal gelo. Anche lì, croci incise sulle mura e altri simboli.
Ogni porta era sbarrata. Davanti alle entrate delle case c’erano
perfino dei mobili: sedie, credenze, cassettoni.
Alzò per un momento la testa quando un uccello gracchiò.
Dicevano tutti che nella contrada ormai fossero rimaste solo
trenta persone, ma con ogni probabilità tiravano a indovinare:
nessuno andava mai a visitare il campo. Non c’era alcun motivo
per farlo.
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Prima di inoltrarsi di più nel dedalo di pietra, qualcosa gli
toccò il braccio: Zamin si voltò di scatto, reprimendo all’ultimo
momento l’istinto di portare la mano al calcio dell’arma.
«Dottore?» chiese l’uomo davanti a lui.
Zamin lo guardò. Scosse la testa.
«Non siete…»
«No».
L’uomo era alto. Ora che era sotto a una lanterna, Zamin
notò che al collo aveva un rosario. La barba bionda, una sottile
treccia di capelli gli pendeva dalla tempia destra.
«Non siete…»
«Hanno mandato me».
«Ma siete solo?»
Zamin annuì.
«Venite», disse l’uomo. Studiava il suo abbigliamento, lo zai-
no. Aveva notato i suoi amuleti. «Per di qua». Annuì, indicò una
piccola discesa acciottolata. «Di qua, di qua».
Zamin infilò sotto la camicia il ciondolo d’argento dalla for-
ma di triplice spirale. Abbassò e poi rialzò lo sguardo: alla fine
della discesa cominciava una salita altrettanto ripida, in cima alla
quale si poteva vedere un edificio con un’insegna di ferro. La
torretta di legno era poco oltre uno spiazzo, in cima alla costru-
zione ardevano delle torce, Zamin ne contò quattro. E c’era una
campanella, lassù, da azionarsi con una corda.
Si incamminò con l’uomo, ma poi fece cenno di attendere:
si fermò e si avvicinò al muro sulla destra. Lisciò le dita sulla
pietra, percorrendo una crepa.
Alzò gli occhi, verificando il percorso di mattoni dal colore
più scuro.
Più in là, in basso, feritoie.
Due.
Una era ancora solo un buco, l’altra era stata un po’ allargata
e trasformata in una nicchia per porvi la piccola statua di una
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Madonna e dei fiori. Resti di una costruzione più antica si pote-
vano scorgere in altri punti del muro.
Rivolse un gesto all’accompagnatore e con lui proseguì lungo
la salita. In alto, nello spiazzo, poté scorgere più vicina l’insegna
in ferro battuto della bottega delle acque e gli unici rumori che
udì furono i suoi passi, e gli sfrigolii dei fuochi che illuminavano
il borgo.
«Venite dalla città?» volle sapere l’uomo.
Zamin non gli rispose, era rimasto assorto a guardare le vie
della contrada, le mura, gli uomini armati sui tetti. Era come se
l’Apocalisse avesse risparmiato tutto il mondo e fosse arrivata
solo lassù. E si trovava con uomini che nonostante tutto tenta-
vano ancora di difendersi.
Quando l’uomo chiese ancora se veniva dalla città, Zamin
continuò a camminare e con garbo mostrò una mano per far
capire: niente domande. Guardava davanti a sé. Oltre l’osteria,
la costruzione più in alto di tutte, sormontata da nuvole scure,
era una chiesetta. Era vicina a un cipresso. Zamin sapeva che il
giovane don Teffali era nella contrada da alcuni anni.
Al di là, altre barricate: ciò che c’era di pericoloso poteva ar-
rivare anche dai monti.
Zamin si avvolse meglio nel tabarro, mosse gli occhi sotto il
cappuccio. Ai lati del muro a sinistra, rimasugli di neve ghiaccia-
ta e sporca di passi. «Nei giorni scorsi ha nevicato anche qui»,
disse.
«Sì», rispose l’uomo.
«Anche nelle contrade vicine?»
«Sì. E poi loro sono arrivati, stavolta in tanti».
«I…»
«Sì. Loro».
«Quanti erano?»
«Tanti, signore».

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Tanti, rifletté Zamin, ritrovandosi in cima alla salita. Si fermò,
lanciò uno sguardo al camposanto lontano. «Da quanto tempo
capita?»
«Saran quattro mesi. Che vengono spesso».
«Significa che arrivavano anche prima?»
«Sì. Volete che vi porti il bagaglio?»
«No, grazie».
«Nell’ultima settimana son venuti tre volte e li abbiamo visti
anche di giorno. La corsa selvatica, la chiamano».
«Lo so. Cosa c’era qui, un tempo?»
L’uomo parve non aver compreso la domanda. Poi chiese,
indicando il terreno: «Qui?»
Zamin annuì. Prima di ottenere la risposta, dichiarò: «In que-
sto luogo una volta c’era qualche cosa. Ma non case».
L’uomo si strinse nelle spalle.
«Non lo sapete?»
«Neanche i vecchi lo ricordano. Un avamposto, forse. Quando
c’erano gli austriaci».
Zamin pensò che sì, forse. Ma prima ancora doveva esserci
stato qualcos’altro, un insediamento molto più antico di un forti-
no. Guardò ancora le mura. Però era come se i suoi resti fossero
stati cancellati, sovrastati dalle abitazioni più recenti… mangiati
da altra pietra.
Il termine “mangiato” gli sembrò appropriato.
«Lavorate per il Munari?» chiese Zamin.
«Sì. È alla bottega. Nessuno sta più a casa quando viene buio,
ormai ci riuniamo tutti là. C’è anche il prete».
Zamin annuì di nuovo. Era come essere salito fin lassù per
assistere alla veglia funebre di un’intera contrada. E in effetti era
un po’ così, visto che negli ultimi tempi al campo erano morte
delle persone.

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La corsa selvatica, la chiamavano. E a poco servivano le bar-
ricate, i fucili, le trappole segnalate da rami incrociati o il riunir-
si tutti nello stesso luogo, attendendo che finisse. Erano grossi
cani neri, forse tanti quanti poteva contenerne la contrada stes-
sa. La loro furia era così rapida, devastante e inaspettata, che il
più delle volte, per chi assisteva alla loro comparsa, erano solo
ombre, figure più scure del buio. I primi tempi uscivano dalle
isolate case diroccate a settentrione, dicevano, e dai campi e dai
prati ghiacciati. Stando alle testimonianze percorrevano sem-
pre lo stesso tragitto. Da che quelle rovine erano state bruciate
dalla gente, un avvistamento si era verificato una volta anche a
Cambrigàr, ma si erano tenuti lontani dalle abitazioni. Una volta
erano passati per il monte Coàl Santo e un’altra erano stati visti,
sempre da lontano, nei pressi di Fazor. Ma nessuno sapeva se
fosse vero, e in ogni caso la certezza era che negli ultimi tempi
uscivano sempre dai boschi sopra il campo, per poi arrivare alle
case, dove la loro furia scoppiava e sembrava perfino moltipli-
carsi, diventando orrore puro. Poi il branco se ne andava, spa-
riva: le bestie approfittavano di pertugi, del buio, del fitto degli
alberi, della paura degli abitanti.
Perché?
Non era sembrato importante il perché, fino a quel momen-
to. E a quanto pareva il fenomeno non si manifestava solo al
campo, ma anche in altri luoghi. Si vociferava di certi cani fero-
ci ― i lòi, erano detti ― anche sulle montagne a est, sulle Sine,
e per motivi ancora poco chiari si temeva un contagio portato
dagli animali stessi. Tuttavia era solo al campo che la corsa si
riuniva. Era solo là che diventava una cosa sola e, tutta insieme,
aggrediva.
Dopo che le suppliche degli abitanti per un intervento della
pianura si erano più volte perdute fra le scartoffie, dopo che
uomini erano morti, dopo che alcuni avevano perfino parlato
non di cani, ma di lupi mannari, e intanto molti abitanti avevano
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preferito andarsene dal borgo, si era deciso di cercare qualcuno
che ― Zamin accarezzò l’amuleto sotto la camicia ― salisse a
dare un’occhiata. Qualcuno che s’intendesse di certi fatti.
Mentre camminava, sistemò meglio sulla spalla il fucile.
«Munari è all’osteria?» domandò all’uomo che lo stava accom-
pagnando.
«Sì», rispose lui. «Alla bottega».
«Quelle bestie: voi le avete viste bene?»
L’uomo sospirò. «Ho visto… ombre, signore. Cose nel buio.
E denti».
Proseguirono in silenzio fino alla porta.
Ombre e denti, pensò Zamin.
L’uomo si fermò. Sollevò il grosso anello di ferro e lo sbatté
due volte sul legno.
«Oh?» chiamò. «Son io. C’è uno della città, qui».

2.
Zamin avanzò due passi e alzò gli occhi.
Nell’ampia stanza illuminata da lucerne non c’erano solo
Munari ― di certo l’uomo al centro, davanti a tutti, la barba ros-
siccia corta e curata, la fronte un po’ stempiata ― e il prete, ma
numerosi altri. Forse, fatta eccezione per i guardiani all’esterno,
c’era l’intera contrada, bambini inclusi. Zamin non seppe conta-
re quanta gente ci fosse, ma di certo erano poche decine. Forse
davvero solo trenta. Non c’era posto per tutti e alcuni assiste-
vano assiepati sulla soglia dell’altra sala, in fondo a sinistra. Lo
fissavano incuriositi, o forse con timore reverenziale: dovevano
aver sentito ciò che si diceva di lui in pianura, le sedute spiritiche
a cui aveva partecipato, le sue capacità medianiche. Soprattutto
il modo in cui Zamin toccava, rivoltava, frugava i cadaveri senza
mai contrarre le malattie che li aveva uccisi. Una volta è morto,
ma è tornato dall’aldilà, dicevano di lui. È lo stregone che il mi-
nistro Depretis, anzi no, il re in persona, ha voluto conoscere.
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Queste ultime cose non erano vere.
Sempre in fondo, sulla destra, cominciava una rampa di scale
di legno: la bottega delle acque un tempo forniva anche allog-
gio.
Il prete aveva un cappello a larghe tese, era giovane e mol-
to magro. Vicino a lui, un uomo di mezza età, piuttosto alto e
grosso, le basette castane lasciate libere di estendersi ai lati della
faccia, fino a raggiungere il mento. Forse il medico di cui gli
avevano parlato, Ederle.
Bartolomeo Munari indossava vesti semplici. Non era il padro-
ne della contrada ma Zamin sapeva che per tutti era come se…
«Siete Zamin. Vero?» chiese Munari.
… lo fosse. No: era più esatto affermare che tutti avevano
scelto lui come guida. Come padre. Zamin calò il cappuccio, ma
tenne in testa il berretto con visiera. Annuì, distratto.
«Sapevo che prima o poi sareste arrivato. Ma non sapevo che
avrebbero mandato solo voi».
«Qui. Sì».
Munari allargò le braccia, lasciandole ricadere ai fianchi. Un
gesto che poté sembrare scortese. «E siete venuto fin quassù da
solo. Senza scorta».
«A cavallo».
Mormorio degli abitanti.
«Siete stato molto fortunato», dichiarò Munari.
Zamin lo guardò. Munari aveva l’aspetto di un brav’uomo:
un padre di famiglia spaventato. Un uomo che in realtà non era
sposato e non aveva figli… ma nel corso degli anni aveva lavora-
to tanto, per se stesso e per la sua gente, facendo crescere la con-
trada, sfamandola, istruendola. Zamin sapeva che in pianura era
stato un maestro di scuola. «Dovrete accontentarvi», replicò.
«Non ho nulla contro di voi, signore», Munari parlava con
tono gentile. «Ma ci serviva aiuto. Occorrevano medicine e altri
uomini armati. I pochi che son giunti finora, li abbiamo cercati
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noi e ora non possiamo più occuparci nemmeno di quello, come
sapete. Non ci lasciano uscire dalla contrada».
Zamin tolse lo zaino dalle spalle, lo appoggiò sul pavimen-
to. Estrasse una sacca. «Dentro ci son medicine, so che avevate
chiesto in particolar modo queste. Son tutte quelle che mi è
stato possibile portare quassù. Se ci sarà certezza di passare per
la strada con un carro, nei prossimi giorni arriveranno altri me-
dicinali. E viveri». Zamin sospirò. «E altri agenti stanno arrivan-
do dalle Sine. E soldati dalla città, anche, forse. In seguito. Ma
speriamo di risolvere tutto molto prima. Signor Munari. Vorrei
chiedervi del vino caldo».
Munari era restato a fissarlo. Mentre un uomo andava a rac-
cogliere i medicinali, rivolse un cenno a una donna. «Grazie»,
mormorò poi a Zamin.
L’agente fermò la donna: «Aspettate». Nel silenzio, sganciò
la piccola tazza che pendeva dalla catenina attaccata allo zaino e
gliela consegnò. «Per favore», aggiunse.
«Eh?»
«Versate il vino qui dentro».
Lei cercò il consenso negli occhi di Munari, che assentì.
«Vi ringrazio», disse Zamin.
La donna prese la tazza. Ancora con gli occhi sgranati, si vol-
tò e si avviò verso una porta.
Munari indicò il prete. «Signor Zamin: padre Teffali».
Zamin fece due passi e strinse la mano al prete, che annuì una
volta, le sopracciglia abbassate.
«Il signor chirurgo, Ederle», spiegò poi Munari, indicandolo.
Appunto, pensò Zamin, stringendo la mano anche a lui. Un
medico di campagna, poco più che un tiraossi.
Silenzio.
Zamin mosse le labbra.
«Sapete…» lo anticipò Munari, «tutto ciò che occorre sapere?»
«So».
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«I vostri superiori hanno…»
«Io lavoro per me».
Bartolomeo Munari alzò le sopracciglia.
«Certi signori», iniziò Zamin, «sperano che ritorni con una
spiegazione. Una…».
«Non… Oh, perdonate».
«Una spiegazione. Sperano che io ritorni con una spiegazione
logica. Ma lavoro per me. Non ho superiori».
«Certo. Certo».
«Voglio verificare. E, certo, anch’io desidero curare questa…»
Zamin mosse la mano con un gesto vago. Infezione, stava per
dire.
«È una maledizione», commentò qualcuno nella sala, costrin-
gendo Munari a voltarsi verso di lui. Ad aprire la bocca con il
desiderio di replicare. A tornare a guardare Zamin. Ad abbassa-
re la testa, serrando le labbra.
Zamin replicò: «Le ipotesi del complotto, del sabotaggio,
perfino del macabro scherzo, devono restare fra le possibilità.
Anche se non credo», i suoi occhi di nuovo su Munari, «che sia
importante spiegare cos’accade».
Munari lo fissò, forse attendendo altre parole.
«Non è importante», ribadì Zamin. «Io voglio, come voi,
mandar via i cani. Voglio che non arrivino più, altrimenti che
vengano uccisi».
Le labbra di Munari tremarono. L’uomo sembrò prendere
fiato, quindi decidersi a porre la domanda: «Siamo in quarante-
na. Vero? In pianura credono ci sia qualche cosa d’infetto che
arriva dai boschi».
«Non siete in quarantena», mentì Zamin.
«Vi prego di dirmelo se… L’unico accesso alla contrada è
stato bloccato, un motivo ci dev’essere».
«Munari. Vorrei subito conoscere alcuni fatti».
Munari chiuse la bocca.
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«Voi li avete visti da vicino?»
Un sospiro. «Li ho sentiti. Li abbiamo sentiti e sì, visti. Da
lontano, nel buio. Tutti noi qui li abbiamo visti, ma sono veloci.
Neri». Munari esitò. «Grossi cani neri. Son quassù da tempo,
ma è solo in questi ultimi giorni che… il loro numero sembra
aumentato». Munari scosse la testa. «Che…»
«Due uomini son morti, mi han detto».
«I morti son tre. Un uomo, un bambino e una donna. Una
ragazza: Cristina Dal Prà. È morta che son due giorni. Alcuni di
noi erano fuori dall’edificio, i cani sono arrivati all’improvviso.
Siamo rimasti in pochi, ormai, qui. Molti, che avevano parenti
altrove, hanno preferito andarsene mesi fa. Ora invece noi non
possiamo andarcene. Questo non ha senso: non c’è alcun con-
tagio, qui. Il pericolo arriva dagli alberi».
Zamin si voltò verso il medico. «Dov’è quella Cristina Dal
Prà?» chiese.
Fu Munari a rispondere. «L’abbiamo sepolta, signor Zamin».
L’uomo lo disse con la solita voce bassa, mesta, ma anche con
un tono di sfida. «Ieri. Cos’altro potevamo fare? È passato del
tempo che abbiamo chiesto aiuto. Solo adesso che ci sono i
morti mandano qualcuno. E uno solo».
«Qualcuno si è recato al cimitero negli ultimi giorni?»
«No. L’ultima loro venuta è stata… molto violenta. Nessuno
di noi è più uscito da qui. L’ho impedito. D’allora in poi uscia-
mo solo con un fucile, per dare il cambio a una delle guardie.
Chiunque esce viene accompagnato da uomini armati e i fuochi
ardono nella contrada a ogni ora».
«I cani aggrediscono solo di notte?»
Munari si leccò le labbra. «Nell’ultima settimana sono stati
avvistati anche di giorno».
«Quanti anni aveva la ragazza, l’ultima assalita?»
«Sedici». Munari anticipò la seguente domanda: «Non abbia-

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mo visto altro che una povera ragazza morta. I cani non porta-
no una malattia. Uccidono e basta».
E va bene, pensò Zamin, e decise di arrivare al punto: «Si parla
di croci e altri simboli incisi sui muri della contrada. Salendo, li
ho visti anch’io. E si parla d’un uomo ch’è morto e poi ha ria-
perto gli occhi. In mezzo a ciò che accade oggi ci sono anche
vecchi racconti. È per questo che si vuol capire cosa sta acca-
dendo qui».
«Le croci sono sui muri da sempre. Anche gli altri simboli
sono stati incisi tanto tempo fa».
«Cosa sono?»
«Non lo so. Nessuno qui lo sa. Potrebbero anche non essere
niente. Ed è accaduto che, sì, il giovane ch’è morto ha riaper-
to gli occhi, spaventando tutti, ma è rimasto morto. Come vi
avranno detto».
«Gli indumenti e gli oggetti personali dei tre deceduti dove
sono?
«Che volete dire?»
«Son stati bruciati?»
Munari sorrise, nervoso.
«No. Non ne abbiamo trovato motivo».
«Chi è stato il primo a morire?» chiese Zamin. Si chinò verso
il proprio zaino.
Fu il medico Ederle a rispondere. «Zuliano Mocenigo. D’anni
ventidue. I morti son sepolti vicini, in un punto del cimitero».
«Distanti dalle altre tombe?»
«Sì…»
Zamin estrasse un libercolo. Precauzioni, pensò. Forse, d’istinto.
Non son sicuri di sapere cos’hanno sepolto.
Estrasse anche una boccetta d’inchiostro, un pennino. Nella
sala silenziosa, camminò in direzione di un tavolo. Appoggiò
tutto sopra.
Scrisse:
19
campo

Si fermò. «Come avete detto che si chiamava il giovane ch’è


morto?»
«Zuliano Mocenigo», ripeté Ederle, la fronte aggrottata.
«D’anni ventidue», ricordò Zamin.

nell’osteria detta bottega delle acque


zuliano mocenigo d’anni 22
il primo ch’è morto
corsa selvatica
i morti ora son 3.

Esitò.

cristina dal prà


ultima.2 dì addietro.
16 anni. sepolta. prima c’è stato un bimbo.

«Ne abbiamo preso uno», disse Munari.


Zamin si fermò con la mano a mezz’aria.
«Ieri l’altro», annuì Munari. «Quando son arrivati l’ultima vol-
ta. Con una tagliola di ferro che avevamo piazzato vicino a una
casa. Quando loro se ne sono andati e siamo scesi per prendere la
bestia, c’erano macchie di sangue che sparivano fra gli alberi».
«Allora non lo avete preso».
«Abbiamo una zampa recisa».
«Dov’è?»
Munari fece un cenno a un uomo calvo, che corse verso un’al-
tra stanza.
«Ne avete presi altri in passato?» chiese Zamin.
«Siamo certi di aver colpito diversi cani con i fucili, sparando
dai tetti o dalle finestre. Ma alla fine nella corte non è mai rima-
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sta alcuna carogna. Se quei cani son morti, son andati a morire
altrove».
«Ho visto trappole fuori dalle mura», disse Zamin, inespres-
sivo.
«Solo una volta ha funzionato: questa di cui vi parlo. Attorno
al borgo mettiamo trappole, tagliole, e ci sono buche ricoperte
con ramoscelli». Alzò le spalle. «Non li ferma niente».
«A parte una volta».
«Sì».
Sangue, pensò Zamin. Zampe mozzate. Tagliole, fucili. Credeva
che gli abitanti del campo non fossero mai riusciti a contrastare
gli attacchi. Cani feriti, o sanguinanti, anche se pochi… anche
se alcuni di loro alla fine erano sopravvissuti, o erano andati a
morire nel bosco… significava che non era impossibile. Che si
poteva provare a ucciderli con i fucili. Che non erano solo om-
bre nel buio. Questo cambiava tutto.
Il calvo tornò nella sala reggendo con due mani una scatola
di legno.
Zamin scorse molti abitanti della contrada arretrare, o addi-
rittura voltarsi. Alcuni si segnarono. Lo stesso portatore della
scatola appoggiò per terra l’oggetto, l’aprì e affrettò dei passi
indietro.
Munari non si mosse. Solo un gesto con una mano, come a
dire a Zamin: prego.
Zamin si avvicinò al contenitore. Mentre camminava, infilò
una mano nella tasca ed estrasse dei guanti di pelle, che indossò.
Notò lo sguardo solenne del medico Ederle, e di altri. Forse si
stavano chiedendo se fosse tutto lì il trucco: le malattie non lo
toccano solo perché usa un paio di guanti?
Sollevò il coperchio di legno.
Dentro la cassetta c’era un piccolo sacco di stoffa chiuso con
un laccio.
Lo aprì… guardò dentro. Infilò una mano, nel silenzio ge-
nerale.
21
Zamin estrasse la carne tranciata, era la parte finale di una
zampa, il pelo nero era incrostato di terra e sangue. Era pos-
sente, ma di certo non apparteneva a un essere gigantesco. Girò
l’arto, ne osservò gli artigli.
Come poteva un branco di cani, seppure grossi e veloci, e
difficili da abbattere, tenere in scacco per così tanto tempo una
contrada che contava fortificazioni, trappole e uomini armati?
Quante fossero le bestie non lo sapeva ed era importante ca-
pirlo, questo. Non si poteva certo continuare a ragionare con il
metodo contadino: uno, due, tre, tanti. «Quante son le bestie che
arrivano?» chiese.
Come si era aspettato, Munari scosse la testa. «Sono così ve-
loci che a volte la contrada ci è parsa piena».
«Se ogni volta non li vedete bene, potrebbero essere anche
solo qualche decina. Ritenete sia possibile?» Era una domanda
sincera. Zamin guardò la zampa. Guardò Munari.
Munari allargò le braccia. Sospirò.
Zamin richiuse la zampa nel sacchetto, che ripose nella sca-
tola. «Di grazia», disse. «Portate la scatola nell’alloggio che mi è
stato riservato». Si tolse i guanti. «Ora voglio vedere i tre morti».
Una donna si portò una mano sulla bocca.
Cos’ha detto, che vuole vedere i morti? chiese qualcuno sot-
tovoce.
«È… necessario?» domandò Munari. Il prete, accanto a lui,
aveva un pugno chiuso.
Zamin annuì, scrutando cosa stesse stringendo: un piccolo
crocifisso.
«Vi farò accompagnare», acconsentì Munari.
«Munari», protestò don Teffali. Sembrava che fino all’ultimo
non avesse voluto credere alle proprie orecchie.
«Don Teffali, il commissario dice che occorre farlo».
«Il commissario o quel che questo signore ritiene d’essere»,
ringhiò il prete senza guardare Zamin, «capirà che non si può
22
disturbarli. Non intendo»
«Disturbare?» chiese Zamin. «Chi?»
«Quei poveretti sotto la terra».
«Oh».
«Concordate?»
«No. Temo, invece, che dovrò disturbarli. Voglio guardarli».
Altri mormorii.
Il prete si voltò verso Ederle, come per chiedergli alleanza,
ma il dottore abbassò gli occhi. Don Teffali guardò gli altri abi-
tanti. Scosse la testa, emise una sorta di sbuffo, si voltò e si fece
largo per uscire dalla sala.
«Padre Teffali», lo chiamò Munari. «Dove andate?»
«In chiesa, Munari».
«Vi faccio scortare».
«Lasciatemi passare», ordinò il prete ai due uomini di guardia
alla porta.
Loro attesero il cenno di Munari. Quindi si scostarono, con-
cedendo il passaggio.
Quando il prete se ne fu andato, Munari abbassò la testa e
con aria stanca indicò due volte la porta con un atteggiamento
che sembrò significare: su, seguitelo. Occorre che ve lo dica?
Un guardiano, il fucile a tracolla, uscì.
«Vorrei andare subito», dichiarò frattanto Zamin, lanciando
un’occhiata alle finestre: la sera era quasi calata.
«Non volete…» fece Munari, rialzando il capo.
«No, ora».
«Le lanterne rimarranno accese, i fuochi ardono, la contrada
è sorvegliata anche quando c’è buio. Anche il cimitero. Ma cre-
detemi, meglio rimandare a domattina».
«Signor Munari, intendo recarmi nel luogo delle sepolture in
questo momento, domani ci sarà dell’altro di cui occuparsi. Vi
chiedo inoltre di raddoppiare la sorveglianza alle entrate della
contrada, stanotte».
23
Munari emise un sospiro. Richiamò con un gesto due uomini,
fra loro c’era quello che aveva accompagnato Zamin al suo arri-
vo. «Verrò con voi», annunciò.
«Non è necessario, Munari, vi ringrazio. Credo…» Il resto
Zamin lo pronunciò con tono più calmo: «Credo sia bene che
intanto voi stiate qui, con questa gente». Si voltò verso il medico.
«Ederle. Vorrei chiedervi se voi invece verrete con me».
Il medico lo fissò a lungo prima di rispondere: «… Sì. Ma non
è meglio se»
«No. Allora, verrete?»
«Sì».
«Bene».
Munari chiamò un ragazzo affinché prendesse lo zaino di
Zamin. «Portalo nella stanza dell’ospite».
Zamin raccolse lo zaino.
Il ragazzino guardò confuso in direzione di Munari.
«Non era mia intenzione far male», acconsentì Munari.
«Perdonate».
Tutti guardarono Zamin.
Lui seguì gli uomini che lo avrebbero accompagnato.
«Il vostro vino caldo», disse la donna rientrando nella sala
con la tazza. Rimase immobile quando Zamin alzò una mano
distrattamente: «Non ora, non ora».

3.
Oltre a Ederle, che reggeva una lanterna, i due in testa che lo
accompagnavano si chiamavano Dolfin ― l’uomo che lo ave-
va accolto all’entrata del villaggio ― e Ziviani. Ad aiutare erano
giunti altri, tutti avevano armi da fuoco e lame. I coltelli sferra-
gliavano appesi alle loro vesti. Ognuno teneva sulla spalla una
pala.
Uomini con fucili, frattanto, si disponevano attorno alle mura

24
del cimitero. Come voluto da Zamin, la sorveglianza all’entrata
del villaggio veniva rafforzata.
Faceva freddo, verso la metà del mese aveva nevicato anche
da quelle parti, vicino al lago. Continuava a nevicare sulle mon-
tagne a est, invece, più in su, sulle Sine, dove alcuni ipotizzavano
che la corsa selvatica avesse avuto inizio. Medium, stregoni e
altri soldati inviati dall’Ufficio Informazioni del Regio Esercito
stavano indagando là da alcuni giorni.
D’un tratto la faccenda dei cani che terrorizzavano una
contradina di campagna nella quale erano rimaste circa tren-
ta anime, in una sperduta provincia del Regno al confine con
il Tirolo, aveva catturato l’attenzione, perlomeno di una certa
branca dell’esercito: succedeva tutto troppo vicino al confine e,
per quel che si sapeva, quei cani non c’erano. A parte gli abitanti
del campo, nessuno li aveva mai visti.
Il cancello di ferro battuto venne aperto da Ederle, che lo
tenne spalancato per concedere il passaggio agli altri. Zamin si
inoltrò fra i viali di un cimitero modesto, circondato da basse
mura di pietra. Al di là della recinzione c’erano alberi, al di là
ancora altre barricate. Oltre, il buio, e il profilo dei monti sotto
un cielo di nubi.
Nel camposanto c’erano così poche pietre tombali e lapidi,
che sulle prime il luogo si sarebbe potuto scambiare per una col-
linetta come altre. I rialzi del terreno, dove sorgevano le sepoltu-
re più antiche, erano anonimi tumuli ricoperti di nevischio.
«Di là», fece l’uomo di nome Ziviani. Si guardava intorno.
Tre tombe, notò Zamin da lontano. Allineate come se una stra-
na morte avesse imparentato chi stava sepolto là sotto. Due gio-
vani e un bambino: non c’erano stati legami di parentela fra loro,
ma sarebbe potuta essere una piccola famiglia.
Gli uomini sistemarono delle lanterne per illuminare la zona
degli scavi.
In fondo al cimitero, una cappelletta per le messe.
25
Zamin si avvicinò alla lanterna retta dal medico, controllò sul
proprio libercolo, leccò l’indice e sfogliò le pagine con gli appunti
più recenti. «Mocenigo», lesse. «Il primo. Dov’è la tomba?»
«Mostratela», ordinò il medico ai due uomini in testa.
«È questa, signore», rispose Dolfin, indicando la prima sepol-
tura a sinistra.
Zamin annuì. Alzò la testa e guardò per un momento le nubi
nere.
Mentre gli uomini della contrada cominciavano a scavare, aprì
lo zaino ed estrasse i guanti, che infilò in tasca. Sbatté inavverti-
tamente il piede sullo zaino, provocando un rumore metallico.
«Potete dirmi», domandò Ederle, un’occhiata fugace sullo
zaino, «che intenzioni avete?»
«Voglio vederli».
«Disseppellirli, per qual motivo? Non li vorrete vedere tutti
e tre».
«Cerco tracce. Se vederli tutti, deciderò poi».
«Volevo solo… Allora è vero ciò che si dice. Che il rischio
è un contagio e che la contrada è in quarantena. Perché non lo
dite?»
«Venite con me. Fatemi luce».

Allontanandosi dagli scavi, Zamin e Ederle camminarono fra


i tumuli, le sepolture e le croci di legno.
Solo su alcune lapidi erano incisi i nomi dei defunti o c’erano
epitaffi, ma Zamin pensò che al campo erano così pochi, che se
lo ricordavano a memoria chi fosse sepolto dove. A meno che
certe tombe non fossero molto antiche. In passato la contrada
era stata quasi del tutto abbandonata, era solo da una cinquanti-
na d’anni che era stata popolata di nuovo.
Nel percorrere un viale del cimitero, lesse le scritte su alcune
lapidi.

26
psm, per sua memoria.
resurrectis.
Date di nascita e di morte.
«Questa contrada ormai da tempo sembra maledetta», disse
Ederle. «Forse lo era da prima dell’arrivo dei cani neri. Se non
c’entrano loro, son altre disgrazie e miserie. Sembra d’essere in
una prigione».
«Le prigioni sono un’altra cosa».
«I sostentamenti prima o poi finiranno, se non arrivano aiuti.
Abbiamo scorte, ma non infinite. Questa storia della quarante-
na… non ditemi ancora che non c’è una quarantena, so bene
che c’è… fa paura. Non sappiamo nemmeno da quanto tempo
va avanti. Con la neve nessuno di noi era andato giù, negli ultimi
tempi. Mi chiedo come avete fatto voi a venire fin quassù. I cani
neri sono visti anche di giorno».
Zamin si fermò. Non vedeva niente nel cimitero. Niente d’in-
teressante, orme, tracce. Fece un cenno e tornò alle tre tombe.
Udì il medico, alle sue spalle, che sospirava.
Solo ora notò l’epitaffio su una delle lapidi e si avvicinò.
Diceva: corona senum filii filiorum et gloria filiorum patres eo-
rum.
Si accigliò. I figli dei figli sono l’orgoglio dei vecchi e… ?
Gloria dei figli sono i propri padri? No, non era così…
Continuando a pensarci, estrasse di nuovo dallo zaino la boc-
cetta d’inchiostro, che appoggiò per terra. In piedi, voltò la pa-
gina del libercolo e scrisse altri appunti.

cimitero

Guardò il cancello. Da là, contò quante tombe vi fossero pri-


ma di quella di Mocenigo. Una, due… Tre e quattro. In tutto,
una ventina di passi. Forse anche di più.
Scrisse:
27
conta quattro tombe a partir dal cancello. venti passi. poi
vi son tre tombe in fila.
la prima a sinistra è di mocenigo.

Esitò.

ossia il primo a morire.


molti nomi sulle lapidi son mancanti o son stati cancella-
ti. vi son tombe antiche.
nessun segno della corsa nel camposanto. si guarda en-
tro le tre bare.

Et gloria filiorum patres eorum… Ecco: i figli dei figli sono


l’orgoglio dei vecchi e i padri di essi sono la gloria dei figli.
Pensandoci, alzò il capo verso i monti.
I figli dei figli sono la corona dei vecchi. Va bene. E i padri
di essi sono la gloria dei figli. Contorto ma… sensato? Pareva
di sì.
Sotto gli occhi perplessi di Ederle, ricopiò la scritta sul liber-
colo. Di chi era la tomba? «Di chi è questa tomba?» chiese al
medico.
«Marco Molina», rispose Ederle.
«Il bimbo. Vero?»
«Sì…»
Zamin annuì. Scrisse. Si fermò. Estrasse l’orologio dalla ta-
sca, sollevandolo per la catenina e facendoselo ricadere nel pal-
mo della mano. Dovette avanzare di un passo, verso la luce di
una lanterna, per leggere l’ora.
Ripose l’orologio nella tasca. Fra un po’ sarebbe stato mol-
to buio. Non voleva fermarsi: aveva seguito la corsa così tante
volte, spesso aveva dovuto a sua volta mettersi a correre per
raggiungerla in tempo. Ma era sempre stato tutto sui libri, o pro-
veniva dalle testimonianze di anziani. Ora stava per incontrarla
davvero?
28
Parte l’ho già vista in una scatola di legno.
Infilò il libercolo nello zaino.
Rimanendo pensoso, contraccambiò lo sguardo di Ederle che
a sua volta aveva estratto qualcosa dalla tasca.
Aveva davvero la possibilità di vedere dal vivo la potenza di
quel fenomeno, comprendere ciò che, devastavando, nascon-
deva? «Questi morti», disse. «Voi li avevate visitati tutti e tre,
vero?»
In mano il medico aveva una bottiglietta. Bevve un sorso, esa-
lò un silenzioso “ah” di sollievo. «Sì», rispose poi, senza guardare
Zamin. «Certo che li ho visitati. Cosa volete sapere?»
«I sintomi dei moribondi. Le loro parole, i loro… sguardi.
Cos’hanno visto».
Ederle indicò la tomba che stava per essere aperta. «Per lui
non ci fu niente da fare. Il tempo, da parte di don Teffali, di un-
gerlo e benedirlo, e prender per buona l’ultima sua confessione.
I cani gli avevano strappato via la lingua».
Zamin si lisciò le guance. «Divorato?»
«Strappato». Ederle ripose la bottiglietta nella tasca del cap-
potto. «La lingua di Mocenigo era per terra. E per il resto… È
vero, una volta si è risvegliato, lo sapete anche voi».
«Gli si sono aperti gli occhi».
«In verità, non lo so. Munari la pensa così. Forse si è davvero
risvegliato. Se sì, non credo si sia nemmeno reso conto di aver
aperto gli occhi per quei brevi istanti. Ciò che sto cercando di
dire è che non so se in quel momento fosse vivo».
Zamin sentì un rumore, poi ansiti, e si voltò: gli uomini stava-
no spalando via la terra da un coperchio di legno.
Risollevò il cappuccio sopra il berretto con visiera e andò a
vedere, il medico lo seguì.
«Ora apriamo», annunciò senza convinzione Dolfin. Passò il
dorso della mano sul naso. Sospirò per la fatica.
Zamin si avvicinò. La cassa sembrava solida. Prese un respiro
29
prima di ordinare: «Aprite. Poi scostatevi tutti e che nessuno di
voialtri si avvicini alla fossa. Nemmeno voi, Ederle». Arretrò
fino a un rialzo.
Si voltò per cercare dove sedersi, ma si accorse che il mucchio
di terra alle sue spalle era una tomba senza nome.
Il medico, accanto a lui, mise le braccia conserte.
Entrambi rimasero in piedi.
Rumore di legno che cede. Tra sbuffi e ringhi, gli uomini for-
zarono il coperchio della bara. Lo spostarono di lato… si sco-
starono e si affrettarono ad appoggiare dei fazzoletti sopra il
naso e la bocca.
Due di loro, forse d’istinto, si sporsero e guardarono nella
cassa, ma chiusero gli occhi e si voltarono subito, muovendo
veloci passi indietro.

30
Caccia Selvaggia
di Dario Spada

Bepi mi guardava con un’aria sorniona e un po’ intimidita


mentre sorseggiava la sua scodella di vino lì, sull’uscio della
sua malga incastonata nel vallone posto a ridosso dei formi-
dabili bastioni innevati che menavano su al gruppo dell’Ortles
Cevedale.
Si era in piena estate, mi ero inerpicato come un camoscio fin
lassù, a quasi duemila metri di quota soltanto per sentire una sua
storia, un racconto molto strano che era arrivato all’orecchio di
un mio cugino che abitava in uno dei paesi giù a valle. Bepi era
originario della val Venosta e aveva vissuto a lungo in Tirolo
lavorando nelle malghe e nei masi alpini, poi si era trasferito lì in
alta val Camonica continuando a fare il suo mestiere di sempre
e anche ora, che aveva più di sessant’anni, continuava a lavorare
con le sue mucche all’alpeggio.
«Mio nonno», mi diceva Bepi, «che ne sapeva una più del
diavolo, mi diceva sempre quando ero piccolo: “Bepi dài retta a
me, se l’uomo sapesse veramente cos’è la notte nessuno mai si
sognerebbe di mettere il naso fuori di casa la sera, dopo il tra-
monto, specialmente attorno alla mezzanotte quando il mondo
si rovescia!” Io lo guardavo con tanto d’occhi sgranati immagi-
nando chissà cosa, ma la sera quando calavano le tenebre avevo
paura ed ero ben contento di essere in casa, sotto le coperte al
calduccio, protetto dalla mamma che cuciva o filava vicino al
camino».
Lo guardavo fingendo di concentrarmi sulla mia scodella. Era
un bel pezzo d’uomo, robusto e temprato, il volto abbronzato
dal sole caldo delle alte quote, le mani nodose e piene di calli,
una via di mezzo tra il contadino e il montanaro, di poche parole
e dai modi un po’ bruschi, semplice e alla mano, senza fronzoli.
31
Non aveva una gran parlata e conosceva poche parole, ma il suo
modo di comunicare era spontaneo. Aveva due occhi grigi che
sfumavano in un verde pallido, particolarmente magnetici.
Tagliò un pezzo di formaggio in due e me ne passò una par-
te. «Assaggia questo», mi disse, «è ancora poco stagionato ma è
casalino, fatto qui nella malga, roba buona». Mio cugino bighel-
lonava attorno alla rustica abitazione di montagna e sembrava
disinteressarsi dei discorsi.
Poi Bepi mi fissò di colpo. «E per te, per te che vieni su dalla
città la notte com’è? Non dirmi che non ci sono pericoli, anche
lì la notte è piena di insidie, non di diavolerie certo, ma di cose
brutte. Rapine, droga, delinquenti…» (se ben ricordo correva
l’anno 1975), «ma è tutta roba procurata dalla gente, cose brutte,
certo, ma che si possono in qualche modo prevedere e, in qual-
che caso, si può reagire e combattere».
Cominciavo a sentirmi a disagio, non sapevo dove voleva an-
dare a parare ma sentivo che stava arrivando al sodo, al nocciolo
della questione. Un leggero brivido s’insinuò lungo la spina dor-
sale. Concentrai la mia attenzione sulla sua figura.
«Ma quello che è successo a me – e ringrazio Dio di esse-
re ancora qui a raccontarlo – non è cosa che arrivi da questo
mondo. Sono le cose che diceva mio nonno, cose che lasciano
il segno, un segno che è come un marchio a fuoco, come quello
che si fa per marchiare le mucche, segni che restano fin che non
te ne vai. La gente non mi ha mai creduto veramente, a parte
qualcuno forse, ma a me non me ne importa, tutte le volte che
la racconto mi si increspa la pelle e mi vengono i brividi, come
adesso…»
Lo guardai, aveva i capelli imbiancati, era veramente scosso e
aveva smesso di bere e mi fissava come se volesse convincermi
con la forza dello sguardo che mi stava raccontando la verità.
«Era qualche anno prima della guerra, avevo appena finito il
servizio militare ed ero ritornato tra i miei monti a fare il pastore
e il malgaro. Ma d’inverno, si sa, non c’è tanto da fare giù a valle.
32
Natale era appena passato e volevo andare alla sagra che si te-
neva ogni anno in un villaggio a dieci chilometri dal mio maso.
Dieci chilometri son tanti, a piedi, in pieno inverno, con la strada
coperta di neve, ma per un giovane forte e in pieno vigore cosa
vuoi che siano? C’era il mercato, i balli, le ragazze, la grappa e il
vino che ti scaldavano, i giocolieri e gli indovini, un sacco di bel-
le cose che non si vedevano mai, mica come adesso che le sagre
le fanno dappertutto. E così ci sono andato, partendo all’alba,
e dopo due ore ero già al paese. E lì, mi sono perso via, tra una
cosa e l’altra. Poi la sera è arrivata d’un colpo, senza nemmeno
accorgersi, un attimo ed era buio. Mi sono messo sulla strada
del ritorno che le otto erano già passate da un pezzo, ma non
ero brillo, un po’ alticcio forse sì, ma riuscivo a camminare bene
e poi il vento gelido mi ringalluzziva a ogni passo. Era scesa un
po’ di neve e questo rallentava il cammino, ed era tutta salita, di
sicuro non sarei arrivato prima delle undici, magari attorno alla
mezza. Ero solo, la luna andava e veniva dietro le nuvole ma si
vedeva bene per via della neve. Sono lì che cammino tra i miei
pensieri quando, di colpo, mi fermo imbambolato in mezzo alla
strada. C’era un silenzio totale, non so come dire. Anche prima
c’era silenzio, solo il mio rumore dei passi sulla neve, ma ora
c’era qualcosa di diverso, un silenzio che non è di questo mondo,
fuori posto».
Bepi mi guarda e abbassa lo sguardo, si passa una mano sulla
fronte come per scacciare i pensieri.
«Poi è arrivata. Così, di colpo, come una frustata. Non era
una musica, non era una cagnara, non so dire… era come il
vento che s’infila tra due canaloni portando con sé tutti i rumori
che raccoglie lungo la strada, veniva da lontano, davanti a me,
ma veniva veloce, era una cosa che mi ha fatto rizzare i capelli
in testa, mai sentita prima, era un rumore che saliva di tono di
secondo in secondo e che aveva in sé qualcosa che faceva ragge-
lare il sangue nelle vene. Ho capito subito, mi sono ricordato il
33
nonno: era la Katertempora!1 Mi sono gettato sul lato della strada
e sono mezzo affondato nella neve senza badare a nulla, sono
sprofondato per mia fortuna in quel pastone bianco e soffice.
Dico per mia fortuna perché se incontri la Berta2 e ti metti a
guardarla quella ti punisce con un colpo d’ascia e ti lascia secco
per via della curiosità. Ma come fai a resistere? Un po’ è l’istinto
che ti spinge a curiosare o almeno a sbirciare quello che succede,
è anche l’istinto di sopravvivenza di fronte a un pericolo scono-
sciuto. Così ero lì mezzo sepolto nella neve, avevo una gamba
fuori e ho gettato uno sguardo furtivo prima di sprofondarmi
con la testa. Col senno di poi ti dico: meglio non l’avessi fatto,
era meglio restarsene lì immobili nella neve. Quel poco che ho
visto mi resterà inciso nella mente come la frustata che l’oca
zoppa mi ha dato bruciandomi la carne e marchiandomi a fuo-
co».
Si ferma improvvisamente notando il mio stupore.
«Non ci credi eh? Allora guarda qui, guarda questa» – e alzan-
dosi in piedi solleva il pantalone fin sul ginocchio. Una grossa
cicatrice rossa e profonda come un marchio indelebile gli cor-
re dalla caviglia su per tutto il muscolo fin sotto il ginocchio e
rabbrividisco al pensare di come deve essere stata dolorosa la
ferita.
1 La Katertempora è la Caccia Selvaggia conosciuta nel Tirolo. Prende il
nome dalle quattro tempora calendariali ed è un “punto di congiunzione” tra
i due mondi – il nostro e quello dell’aldilà – che si manifesta in determina-
te circostanze, particolarmente nelle dodici notti sante dell’anno, quelle che
vanno da Natale all’Epifania durante il ciclo del Solstizio d’Inverno.

2 Berta è parola italianizzata di Perchta – che significa La Splendente – dea


del pantheon germanico, assimilabile alla dea Holda della tradizione scandi-
nava. È ritenuta la Signora delle Bestie e si mostra alla guida della torma di
cacciatori selvaggi che nelle dodici notti sante dell’anno scendono sulla terra
a visitare i vivi. A volte si mostra come una giovane fanciulla tutta vestita di
bianco mentre in altri casi è simile a una vecchia megera e per questo motivo
in certe regioni dell’Italia è paragonata alla nostra Befana.
34
«Ma», continua, «non è questo quello che mi ha fatto più
male, che Dio mi perdoni, è quel poco che ho visto che mi ha
cambiato la vita. Non c’era solo l’oca zoppa che sogghignava
beffarda ma quei visi di morti, quelle orbite vuote e scarnificate
che galleggiavano nel buio, in mezzo a una torma di cani ululan-
ti… e i fiori, grandi, enormi fiori esotici che non avevo mai visto
prima d’allora, fiori che in quel posto erano proprio fuori luogo,
una cosa che non ti saresti mai e poi mai aspettato di vedere lì in
mezzo alle montagne. Poi è arrivata, secca, la frustata… e sono
svenuto per il dolore nella neve. Quando mi sono ripreso non
c’era più nulla, solo i fiocchi di neve che mi volavano attorno, mi
sentivo mezzo congelato e la gamba che bruciava… Ho faticato
non poco a rientrare a casa, mi voltavo continuamente nel timo-
re di sentire ancora l’orda arrivare, ma alla fine, grazie al cielo,
sono riuscito a raggiungere il maso. E questo è tutto. Mi hanno
detto che per togliere l’incantesimo e far guarire la ferita devo
ritornare sullo stesso luogo nella stessa data e chiedere perdono
alla Berta, ma questo non lo farò mai e poi mai, ne morirei di
spavento, non me la sento proprio. Però questa maledetta ferita
quando arriva il giorno dell’anno in cui mi è stata fatta, quel
maledetto 30 di dicembre, incomincia a bruciare e fa un male
cane. Ma quello che mi fa più male è qui, nella testa, quello non
mi passa mai».
Bepi ha finito di raccontare. Mio cugino ha sentito la storia
e mi guarda divertito, forse non crede a una parola, forse Bepi
quella sera era sbronzo completo e quella ferita se la è procurata
chissà come… o magari è una storia che ha già sentito tante
volte e ormai non ci fa più caso.
Guardo in alto verso le vette immacolate e socchiudo gli oc-
chi al riverbero del sole, ci sono lembi di nuvole bianche nel
cielo terso che passano veloci, ma già la nebbia s’è alzata sui
valloni e presto scenderà sul pascolo e penso a come dev’essere
quel posto la sera dopo il tramonto, quando calano le tenebre
35
e il vento prende a ululare scendendo veloce dalle cime, lassù
lontano dal mondo amico e abitato, in perfetta solitudine.
Rabbrividisco. Mi scuoto improvvisamente dai miei pensieri,
impellente il desiderio di scendere a valle.3

3 La testimonianza è stata raccolta negli anni Settanta del secolo scorso in


una malga alpina dell’alta val Camonica ai confini con il Trentino; purtroppo
il testimone, Bepi (si tratta di un nome di fantasia), non ha voluto farsi foto-
grafare e neppure ha voluto che fotografassi la cicatrice che porta ben visibile
sulla gamba. Bepi è scomparso poco prima dell’anno Duemila.
36
Intervista a Riccardo Coltri
di Matteo Poropat

Ciao Riccardo e benvenuto. Iniziamo con una breve do-


manda personale: ci dai uno spaccato della tua vita fino a
ora?

Apperò, subito una domandina così :). Be’, ho 36 anni, vivo


in provincia di Verona e per quanto riguarda la letteratura ho
cominciato a scrivere una quindicina d'anni fa circa. Ho fatto
parte di alcune riviste per un po' di tempo, dopodiché, negli
ultimi anni, mi sono dedicato solo a scrivere romanzi. Di solito
ambiento le mie storie in Italia, soprattutto nella mia provincia,
con un occhio di riguardo ai boschi della Lessinia, tra il Veneto
e il Trentino. Non per campanilismo o stupidaggini di questo
tipo, ma perché mi riesce istintivo così: utilizzo quel territorio
come “contenitore” di storie e fatti strani, si tratti di alieni scesi
dal cielo o esseri appartenenti a varie mitologie. Il mio primo ro-
manzo si intitolava Non c'è mondo, horror ispirato al Giulietta
e Romeo di Shakespeare (il titolo stesso è una frase di Romeo
nella commedia). Poi è arrivata la raccolta di racconti Cerchio
settimo, il fantasy Zeferina e quest'ultimo libro, La corsa selva-
tica.

Ammetto di non aver ancora messo le mani su Zeferina, il


tuo romanzo fantasy, ma sto rimediando in questi giorni.
Per ora mi concentrerò su La corsa selvatica, uscito nel
2009 per Edizioni XII. Da dove nasce l’idea di questo ro-
manzo?

Le fonti di ispirazione sono state diverse, ma tutto ha avuto


inizio da che ho letto alcune leggende medievali sui cani neri ―

37
leggende presenti in tutta Europa, anche in Italia, e che a loro
volta derivano dal mito, ben più antico, della Caccia Selvaggia. A
questa immagine di belve demoniache che correvano nella not-
te ho provato a mescolare diverse cose. Anzitutto ho preferito
un'epoca non medievale. Poi mi sono chiesto cosa sarebbe acca-
duto se qualcuno o più di qualcuno avesse provato a contrasta-
re certe maledizioni, allora sulle prime mi sono immaginato un
personaggio simile al Pifferaio di Hamelin. Ma visto che la mia
non è una fiaba, e la magia all’interno del libro c’è, ma è utiliz-
zata in modo particolare, ho armato il personaggio in questione
di un più utile fucile, oltre che di certe conoscenze esoteriche.
Quindi ho pensato ad altri strani individui, indagatori che sa-
rebbero potuti assomigliare a dei “Men in black” ottocenteschi,
italiani. Non è tutto qui, ma sono partito più o meno da queste
cose.

Nello sviluppare la storia hai deciso di frammentare la


prima parte raccontando le vicende di personaggi diversi,
che in alcuni casi si intrecciano, per poi scendere verso
il finale, dominato invece da un unico protagonista. Cosa
puoi dirci di questa scelta strutturale?

Dico che è una struttura strana, è vero. L'idea alla base mi piace-
va e ci ho provato. Di solito, ovviamente, c'è la costruzione dello
scheletro della storia, poi la prima stesura, insomma, le solite
cose che fanno tutti quelli che scrivono. In questo caso, tuttavia,
sono andato un po' di più a istinto.

Come divideresti in percentuale il tempo speso per questo


libro, tra documentazione, progettazione e scrittura?

Difficile dare percentuali, comunque direi per la Corsa è andata


così: circa 40% per documentazione e progettazione, il resto del
tempo l'ho impiegato a mettere per iscritto il tutto.
38
Per le storie dei riti e delle leggende legate alla corsa selva-
tica sei stato aiutato da qualche esperto del settore?

Per la maggior parte ho fatto da solo, documentandomi in giro.


Mi sono stati d'aiuto i libri del saggista Dario Spada, tra l'altro
autore di un’appendice a fine libro, e ho raccolto altro materiale
qua e là. La corsa selvatica però, oltre che leggende e creature
fantastiche, descrive anche alcuni luoghi precisi, reali, e in alcuni
casi ho avuto informazioni da un amico, Filippo Tapparelli, un
appassionato di folclore e esperto di armi. Mi ha indicato la
strada per arrivare in certi luoghi di montagna che si vedono
negli episodi iniziali del libro e mi ha spiegato come descrivere
il funzionamento di un fucile ottocentesco.

La cura dei dettagli e la capacità di costruire immagini so-


lide sono alcuni dei punti di forza del tuo modo di scrivere.
Leggendo La corsa selvatica ho provato freddo in quelle
case immerse nella neve, ho visto cosa indossavano i per-
sonaggi, così come le vecchie armi che usavano. Hai avuto
qualche contatto diretto con le realtà di cui racconti? Ov-
viamente non parlo della corsa selvatica (lo spero per te,
almeno!) ma di oggetti come quelli conservati nei musei
italiani e magari di qualche location in particolare, sfrutta-
ta poi per le descrizioni.

Come detto nella precedente risposta, tutte le location della


Corsa sono reali e, visto che alcuni luoghi li conoscevo e altri
no, prima di descriverli tutti ho voluto vederli. Quindi ho im-
maginato come avrebbe fatto un personaggio ad arrivare fino a
un certo luogo, nel periodo storico in cui è ambientato il libro.
Cos’avrebbe visto mentre camminava e che sensazioni avrebbe
avuto. Lo stesso era accaduto con il fantasy Zeferina, che rein-
terpreta i miti di tutta Italia, sconfinando nelle varie zone del
Mediterraneo o dell'arco alpino, ma ha uno scenario preciso.
39
Tra magie antiche, borghi abbandonati, sovrani che torna-
no e corone di pietra più volte ho avvertito un legame con
le storie di un autore americano molto apprezzato e che
ha fatto delle leggende europee il terreno fertile per le sue
storie. Parlo di Mike Mignola e della sua creatura più nota,
Hellboy. Sapendo che hai anche esperienze nel campo del
disegno volevo chiederti se lo conosci e che rapporto hai,
eventualmente, con il suo lavoro.

La mia esperienza nel campo del disegno è in realtà pochissima


cosa, solo una vecchia passione che ormai ho abbandonato... E,
confesso, non ho letto i lavori di Mike Mignola (conosco solo
la trasposizione cinematografica di Hellboy). A questo punto,
rimedierò!

Restando in argomento: recentemente, il produttore Mike


De Luca ha affermato di voler ambientare il reboot del film
Ghost Rider in Europa, per sfruttare la sua ricchezza di
background mitologico. Secondo te perché invece la ten-
denza degli italiani (scrittori ma anche cineasti) è di evitare
generalmente queste realtà, molto più vicine? Conosciamo
così poco dei posti dove viviamo?

Sì, li conosciamo poco. Sono numerosi, tante volte sono luoghi


nascosti e spesso, purtroppo, sono anche trattati male. Quando
va bene, sono semplicemente snobbati. L'ambientazione tutta-
via è un discorso di gusti personali: una scelta. Personalmente
non ho niente contro chi ambienta fantasy in mondi irreali (ci
mancherebbe. Il fantasy nasce proprio così, casomai lo “strano”
sono io), o chi sceglie come scenario, che so, l’Inghilterra o gli
Stati Uniti. Semplicemente, può essere interessante sapere che,
volendo, tante cose ci sono anche qui e che non c’è niente di
male se si inseriscono in un fantasy o in un horror.
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Tu hai mai avuto la tentazione di cambiare radicalmente
ambientazione per le tue storie, spostandoti dall’Italia?

Sì, certo. In passato ho ambientato alcune storie anche altrove,


a seconda di cosa mi serviva in quel momento. È che forse con
il tempo sono diventato un po’ “kinghiano”: mi riesce più facile
ambientare le storie nel territorio dove vivo, si tratti di horror, di
fantascienza, di fantasy. Forse, sempre per una questione di gusti
personali, mi diverto anche di più. È forte andare a visitare alcuni
luoghi, toccare pietre antiche e chiedersi “cosa sarebbe successo
se”.

La corsa selvatica è un romanzo breve, ma riesce a essere


fortemente visivo. Ripenso alle fusioni di esseri viventi, che
mi han dato i brividi per il loro essere così vivide e, passami
il termine, casalinghe, senza raggi di luce ed effetti speciali
ma fatte di fili e tenaglie, carne e sangue. Cosa penseresti
di un adattamento cinematografico del tuo romanzo?

Tutto il bene possibile, ovviamente... Tra l'altro siamo abbastanza


sul low fantasy, quindi costerebbe anche poco (autopromozione
mode/off). Scherzi a parte, l'obiettivo era proprio quello: prova-
re a rielaborare il folclore per renderlo il più possibile vicino alla
realtà, anche se ovviamente La corsa selvatica resta una storia
impossibile, stregonesca. Se poi un giorno qualcuno ci farà un
film: eh. Di sicuro non direi di no.

In interviste precedenti hai detto qualcosa su un tuo pos-


sibile ritorno al mondo di Zeferina. È una strada che per-
correrai?

Questo non lo so, per ora preferisco non fare programmi troppo
in là nel tempo. Sono molto contento che Zeferina, in generale,
abbia incuriosito e sia piaciuta. Ci sarebbero tante altre cose da
41
dire su quel personaggio, ma vedremo. Per ora ci sono due versio-
ni diverse fra loro e Fine, un racconto spin-off pubblicato l'anno
scorso sulla rivista Inchiostro. Una piccola saga, insomma.

Per La corsa selvatica pensi ci possa essere un seguito,


soprattutto visto il (terrificante) finale?

Scrivere La corsa selvatica è stato molto divertente, ma idem


come sopra, più o meno: per un sequel, deciderò. Se accadrà,
vedrò in che modo si potrà fare e come strutturare il libro.

Intervista pubblicata sul blog Shamanic Journey il 25 gennaio 2010:


http://shamanic-journey.blogspot.com/2010/01/intervista-riccardo-coltri.html

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I cani infernali
di Riccardo Coltri

I cacciatori fatati: superstizione comune a molti popoli euro-


pei, conosciuta fin dall'epoca delle grandi civiltà mediterranee. Si
ricordano per esempio Zagreo, il cretese “Grande Cacciatore”,
o Dioniso che viaggiava con sileni ebbri e belve. La radice più
celebre del mito, che si è poi diffusa nel resto d'Europa, la si può
tuttavia trovare nella mitologia nordico-scandinava: durante le
notti sacre, Odino padre del tutto cavalcava nei cieli in sella a
Sleipnir dalle otto zampe, seguito dalle anime dei guerrieri morti
in battaglia, e da corvi, lupi, segugi.
La caccia di esseri fantastici è giunta quindi nelle isole bri-
tanniche, dove a volte come leader si ricordavano Re Artù o il
corsaro Francis Drake; in Francia il capobranco era invece Carlo
Magno, ma leggende si trovano in numerose altre zone d’Euro-
pa, compresa l'Italia.

Da apparizione eroica e venerata dagli uomini, con il Medioevo


e l'arrivo del Cristianesimo la caccia fatata subisce una demoniz-
zazione e diventa una leggenda oscura. Per degradarla e renderla
più spaventosa, le si dà una forma solo animalesca: non è più
composta da guerrieri ed eroi, ma da bestie, perlopiù nere e che
corrono nel buio, a volte guidate da un demone.
Una delle testimonianze più antiche della caccia indemoniata
risale al 856 d.C., in Prussia, nella chiesa di Trier, dal cui pavi-
mento emerse un grosso cane nero con gli occhi fiammeggianti,
che corse avanti e indietro vicino all’altare. Si parla dell’avveni-
mento nell'Annales francorum regum.
Le apparizioni in epoca medievale, a volte violente, ma il più
delle volte “solo” terrificanti o che addirittura portavano sfor-
tuna, spesso si sono verificate all'interno di chiese, nei pressi di
43
terreni sacri oppure in luoghi dove in passato erano avvenuti
omicidi o suicidi. Secondo la tradizione, per liberarsi dai cani
infernali spesso bastava inginocchiarsi e pregare.
In certi casi il mito venne totalmente cristianizzato: in Spagna
per esempio si cominciò a parlare della Santa Compaña, compo-
sta da anime che vagavano per la Galizia e arruolavano coloro
che incontravano. In Italia, fra le numerose storie, nacque una
leggenda simile, dove i cani neri erano in realtà le anime degli
uomini che la domenica, invece di andare a messa, andavano a
cacciare nei boschi.
Apparizioni di cani di colore nero e con occhi rossi come
fuoco si sono verificate nel corso dei secoli anche in Francia,
Germania, Austria, Polonia, Stati Uniti, Canada, Inghilterra,
Galles, Scozia, Irlanda (solo nelle isole britanniche esistono al-
meno duecento storie), Scandinavia, Croazia e in altri luoghi.

In Italia la Caccia Selvaggia è ricordata soprattutto al Nord.


In Veneto, nel bellunese, il branco di cani neri infernali era chia-
mato proprio la “Catha Selvarega”. Con un nome simile era co-
nosciuta anche in alcuni luoghi della Lombardia.
Si ricordano inoltre i Canett, i Cagnolini di Altrech, il Corteo
della Berta (da “Perchta”, strega dei miti alpini pre-cristiani), i
Cagnolitt, i Baièti, la Caccia Morta, la Caccia del Diavolo e altre
leggende. Fra i leader della Caccia: Beatrìc (storpiatura del nome
Dietrich von Bern, Teodorico da Verona, già presente in diverse
saghe germaniche) e Ce-de-lu (“capo dei lupi”).

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L’uomo-cane del duomo di Verona
di Daniele Bonfanti

L’immagine a sinistra credo l’abbiate riconosciuta: è l’illustra-


zione di Diramazioni per la cover de La corsa selvatica. Ma quel-
lo a destra cos’è?
Si tratta di un bassorilievo presso la chiesa di Santa Maria
Matricolare (Verona), conosciuta ai più come “il duomo”.
La fotografia è stata recuperata e segnalata a Riccardo ― che
l’ha poi inviata a me ― da Maddalena Gemma (e guardacaso
“Maddalena”, nome magico a sua volta, è una dei protagonisti
del romanzo), designer e digital artist veronese che ringraziamo
moltissimo.
Non credo ci sia bisogno di particolari commenti, l’immagine
parla da sé.
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Ho quindi chiesto un commento a Diramazioni, per capi-
re anche se per caso il bassorilievo sul duomo fosse servito da
ispirazione per la cover. Ma sono rimasti sorpresi quanto noi:
non lo conoscevano. E aggiungono qualche nota sulla realizza-
zione:

Per la copertina de La corsa selvatica ci siamo basati sul momento


in cui, nel racconto, vengono riesumati alcuni corpi dal cimitero per
essere analizzati, e questi presentano strane caratteristiche. Abbiamo
voluto raffigurare il corpo in una posizione non molto naturale, sia
perchè questa nel racconto è stata una sepoltura frettolosa, sia perchè
il corpo ha subito una deformazione. L’autore del libro ci ha poi sug-
gerito di aggiungere un libro nelle mani di questo personaggio per
suggerire ulteriormente l’ambito misterioso e simbolico.
Fatto ciò il risultato è venuto spontaneamente simile nella posi-
zione a quelle raffigurazioni o bassorilievi medievali in cui alcuni
personaggi reggono dei libri aperti o altri simboli arcani, in modo
tale da sembrare custodi di qualche sapere o conoscenza.

Il resto delle considerazioni a voi.


Ma lo sapete: le coincidenze non esistono.

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La corsa selvatica

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Indice della demo

7 La corsa selvatica

31 Caccia Selvaggia
di Dario Spada

37 Intervista a Riccardo Coltri


di Matteo Poropat

43 I cani infernali
di Riccardo Coltri

45 L’uomo-cane del duomo di Verona


di Daniele Bonfanti
Indice del libro integrale

25 Soglia
35 Nidificazione
43 Polvere

65 Il resto del buio


85 La pelle della bestia
95 Caccia

103 La corsa selvatica

179 Appendice: Caccia Selvaggia, di Dario Spada


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Si deve imparare a vedere nell’ombra dell’Immaginario,
poiché il debole sole della Realtà non sorge tutti i giorni
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Abattoir
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Ritorno a Bassavilla
di Danilo Arona
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di Nicola Lombardi
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