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Collana Eclissi, n. 6
collana diretta da Luigi Acerbi
isbn 978-88-95733-15-9
Copyright © 2009 Riccardo Coltri
Copyright © 2009 Edizioni XII (Edizione)
Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi
B uona lettura !
collana
Eclissi
Riccardo Coltri
La corsa selvatica
La corsa selvatica
1.
C’era ben poco da dire sul campo, quando loro non correvano.
Alcune case, due stalle nella parte alta della contrada, un fie-
nile. Solo avvicinandosi e guardando meglio, solo abbassando lo
sguardo sul terreno si poteva capire cos’accadesse in quei giorni.
Assi danneggiate erano sparse poco distante da un arco di
pietra. Sul suolo anche chiodi divelti. Mani rosse avevano cerca-
to di aggrapparsi alle mura; c’era sangue anche sul legno spezza-
to e le tracce raggiungevano la mulattiera delimitata, a sinistra,
da un muretto muschioso.
Zamin si fermò e sistemò meglio lo zaino sulla spalla sinistra,
facendo tintinnare contro una cinghia la piccola tazza appesa a
una catenina. Portò una mano all’indietro, sfiorando con le dita
il fucile ad ago Dreyse, dal calcio intarsiato con simboli.
Riprese a camminare, tirando le briglie del cavallo, che sbuf-
fò. Guardando le case, considerò che la geometria del borgo
sarebbe stata confusa anche se osservata dall’alto: un complesso
diroccato dove, come denti rotti, emergevano muraglie che si
intersecavano, volte ricoperte di edera che fungevano da sipa-
ri per strade che, incerte, potevano congiungersi con il cuore
dell’abitato. O, nella confusione urbanistica, andare a finire nel
prato circostante.
Avvicinandosi di più si poteva notare che all’esterno tutto era
chiuso da rudimentali barriere. All’interno del borgo invece le
mura erano il più possibile illuminate, anche se il cielo non era
ancora buio. Superato l’arco si intravedeva, dietro un edificio,
una bassa torre di legno che sembrava di recente costruzione.
Si era aspettato un simile spettacolo. Sapeva che ormai lassù
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ci vivevano in pochi e la contrada negli ultimi tempi era diven-
tata un labirinto di mura e steccati, assi inchiodate alle porte e
alle finestre, portali che sbarravano l’accesso alle vie, crocifissi e
scongiuri incisi nel legno. Il luogo non aveva nemmeno un vero
nome: campo, dicevano tutti da sempre, e le abitazioni sorge-
vano attorno a quella che era chiamata la bottega delle acque,
originariamente un’osteria, poi un ritrovo con più funzioni. Una
sorta di casa del popolo, e si trattava di un popolo povero, sem-
plice. Impaurito, in quei giorni.
All’entrata del borgo c’era una barricata di assi e ferro. Di
guardia ai due lati, uomini con le armi puntate. Al di là era sta-
to necessario costruire un robusto portale, era rischiarato da
torce. Anche quel legno era graffiato, scheggiato e inscurito da
macchie di sangue. Un visitatore che si fosse avvicinato avrebbe
potuto credere di trovarsi all’entrata di un castello. E in fin dei
conti, non era un vero e proprio assedio ciò che gli abitanti del
campo stavano affrontando in quel periodo?
Guardando gli uomini, Zamin sorrise sotto il cappuccio nero
e alzò una mano, annuendo.
Ma, pensava.
Ma la forte sensazione era che nei tempi passati il luogo si
presentasse assai diverso. Che in mezzo alle misere case e ai fie-
nili e alle stalle, alle recenti fortificazioni e al poco altro che oggi
si poteva dire, si nascondesse molto bene una reggia in rovina.
La disposizione delle case, la loro bellezza nonostante l’aspetto
in quei giorni severo, militare, sotto un cielo che era un insieme
di vapori scuri: c’erano davvero stati tempi migliori?
Lontano si poteva vedere la distesa scura del lago.
Gli uomini di guardia non abbassarono le armi.
«…ate di là».
Gli stavano urlando qualcosa. Zamin si voltò verso un punto
del terreno dove c’erano due rami disposti in croce.
Guardò gli uomini: facevano segnali.
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Annuì, si scostò, tirando le briglie del cavallo. Ebbe cura di
continuare a camminare senza passare troppo vicino ai due rami.
Uno dei quali, notò, era legato a una fune.
«Ssst», ordinò al cavallo, accarezzandolo, e seguì con lo sguar-
do dove andasse a finire la corda: non riuscì a capirlo, ma dove-
va far scattare qualche tipo di trappola. Probabilmente l’idea era
che la corda venisse toccata da chi o qualunque cosa giungesse
di corsa.
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Tanti, rifletté Zamin, ritrovandosi in cima alla salita. Si fermò,
lanciò uno sguardo al camposanto lontano. «Da quanto tempo
capita?»
«Saran quattro mesi. Che vengono spesso».
«Significa che arrivavano anche prima?»
«Sì. Volete che vi porti il bagaglio?»
«No, grazie».
«Nell’ultima settimana son venuti tre volte e li abbiamo visti
anche di giorno. La corsa selvatica, la chiamano».
«Lo so. Cosa c’era qui, un tempo?»
L’uomo parve non aver compreso la domanda. Poi chiese,
indicando il terreno: «Qui?»
Zamin annuì. Prima di ottenere la risposta, dichiarò: «In que-
sto luogo una volta c’era qualche cosa. Ma non case».
L’uomo si strinse nelle spalle.
«Non lo sapete?»
«Neanche i vecchi lo ricordano. Un avamposto, forse. Quando
c’erano gli austriaci».
Zamin pensò che sì, forse. Ma prima ancora doveva esserci
stato qualcos’altro, un insediamento molto più antico di un forti-
no. Guardò ancora le mura. Però era come se i suoi resti fossero
stati cancellati, sovrastati dalle abitazioni più recenti… mangiati
da altra pietra.
Il termine “mangiato” gli sembrò appropriato.
«Lavorate per il Munari?» chiese Zamin.
«Sì. È alla bottega. Nessuno sta più a casa quando viene buio,
ormai ci riuniamo tutti là. C’è anche il prete».
Zamin annuì di nuovo. Era come essere salito fin lassù per
assistere alla veglia funebre di un’intera contrada. E in effetti era
un po’ così, visto che negli ultimi tempi al campo erano morte
delle persone.
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La corsa selvatica, la chiamavano. E a poco servivano le bar-
ricate, i fucili, le trappole segnalate da rami incrociati o il riunir-
si tutti nello stesso luogo, attendendo che finisse. Erano grossi
cani neri, forse tanti quanti poteva contenerne la contrada stes-
sa. La loro furia era così rapida, devastante e inaspettata, che il
più delle volte, per chi assisteva alla loro comparsa, erano solo
ombre, figure più scure del buio. I primi tempi uscivano dalle
isolate case diroccate a settentrione, dicevano, e dai campi e dai
prati ghiacciati. Stando alle testimonianze percorrevano sem-
pre lo stesso tragitto. Da che quelle rovine erano state bruciate
dalla gente, un avvistamento si era verificato una volta anche a
Cambrigàr, ma si erano tenuti lontani dalle abitazioni. Una volta
erano passati per il monte Coàl Santo e un’altra erano stati visti,
sempre da lontano, nei pressi di Fazor. Ma nessuno sapeva se
fosse vero, e in ogni caso la certezza era che negli ultimi tempi
uscivano sempre dai boschi sopra il campo, per poi arrivare alle
case, dove la loro furia scoppiava e sembrava perfino moltipli-
carsi, diventando orrore puro. Poi il branco se ne andava, spa-
riva: le bestie approfittavano di pertugi, del buio, del fitto degli
alberi, della paura degli abitanti.
Perché?
Non era sembrato importante il perché, fino a quel momen-
to. E a quanto pareva il fenomeno non si manifestava solo al
campo, ma anche in altri luoghi. Si vociferava di certi cani fero-
ci ― i lòi, erano detti ― anche sulle montagne a est, sulle Sine,
e per motivi ancora poco chiari si temeva un contagio portato
dagli animali stessi. Tuttavia era solo al campo che la corsa si
riuniva. Era solo là che diventava una cosa sola e, tutta insieme,
aggrediva.
Dopo che le suppliche degli abitanti per un intervento della
pianura si erano più volte perdute fra le scartoffie, dopo che
uomini erano morti, dopo che alcuni avevano perfino parlato
non di cani, ma di lupi mannari, e intanto molti abitanti avevano
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preferito andarsene dal borgo, si era deciso di cercare qualcuno
che ― Zamin accarezzò l’amuleto sotto la camicia ― salisse a
dare un’occhiata. Qualcuno che s’intendesse di certi fatti.
Mentre camminava, sistemò meglio sulla spalla il fucile.
«Munari è all’osteria?» domandò all’uomo che lo stava accom-
pagnando.
«Sì», rispose lui. «Alla bottega».
«Quelle bestie: voi le avete viste bene?»
L’uomo sospirò. «Ho visto… ombre, signore. Cose nel buio.
E denti».
Proseguirono in silenzio fino alla porta.
Ombre e denti, pensò Zamin.
L’uomo si fermò. Sollevò il grosso anello di ferro e lo sbatté
due volte sul legno.
«Oh?» chiamò. «Son io. C’è uno della città, qui».
2.
Zamin avanzò due passi e alzò gli occhi.
Nell’ampia stanza illuminata da lucerne non c’erano solo
Munari ― di certo l’uomo al centro, davanti a tutti, la barba ros-
siccia corta e curata, la fronte un po’ stempiata ― e il prete, ma
numerosi altri. Forse, fatta eccezione per i guardiani all’esterno,
c’era l’intera contrada, bambini inclusi. Zamin non seppe conta-
re quanta gente ci fosse, ma di certo erano poche decine. Forse
davvero solo trenta. Non c’era posto per tutti e alcuni assiste-
vano assiepati sulla soglia dell’altra sala, in fondo a sinistra. Lo
fissavano incuriositi, o forse con timore reverenziale: dovevano
aver sentito ciò che si diceva di lui in pianura, le sedute spiritiche
a cui aveva partecipato, le sue capacità medianiche. Soprattutto
il modo in cui Zamin toccava, rivoltava, frugava i cadaveri senza
mai contrarre le malattie che li aveva uccisi. Una volta è morto,
ma è tornato dall’aldilà, dicevano di lui. È lo stregone che il mi-
nistro Depretis, anzi no, il re in persona, ha voluto conoscere.
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Queste ultime cose non erano vere.
Sempre in fondo, sulla destra, cominciava una rampa di scale
di legno: la bottega delle acque un tempo forniva anche allog-
gio.
Il prete aveva un cappello a larghe tese, era giovane e mol-
to magro. Vicino a lui, un uomo di mezza età, piuttosto alto e
grosso, le basette castane lasciate libere di estendersi ai lati della
faccia, fino a raggiungere il mento. Forse il medico di cui gli
avevano parlato, Ederle.
Bartolomeo Munari indossava vesti semplici. Non era il padro-
ne della contrada ma Zamin sapeva che per tutti era come se…
«Siete Zamin. Vero?» chiese Munari.
… lo fosse. No: era più esatto affermare che tutti avevano
scelto lui come guida. Come padre. Zamin calò il cappuccio, ma
tenne in testa il berretto con visiera. Annuì, distratto.
«Sapevo che prima o poi sareste arrivato. Ma non sapevo che
avrebbero mandato solo voi».
«Qui. Sì».
Munari allargò le braccia, lasciandole ricadere ai fianchi. Un
gesto che poté sembrare scortese. «E siete venuto fin quassù da
solo. Senza scorta».
«A cavallo».
Mormorio degli abitanti.
«Siete stato molto fortunato», dichiarò Munari.
Zamin lo guardò. Munari aveva l’aspetto di un brav’uomo:
un padre di famiglia spaventato. Un uomo che in realtà non era
sposato e non aveva figli… ma nel corso degli anni aveva lavora-
to tanto, per se stesso e per la sua gente, facendo crescere la con-
trada, sfamandola, istruendola. Zamin sapeva che in pianura era
stato un maestro di scuola. «Dovrete accontentarvi», replicò.
«Non ho nulla contro di voi, signore», Munari parlava con
tono gentile. «Ma ci serviva aiuto. Occorrevano medicine e altri
uomini armati. I pochi che son giunti finora, li abbiamo cercati
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noi e ora non possiamo più occuparci nemmeno di quello, come
sapete. Non ci lasciano uscire dalla contrada».
Zamin tolse lo zaino dalle spalle, lo appoggiò sul pavimen-
to. Estrasse una sacca. «Dentro ci son medicine, so che avevate
chiesto in particolar modo queste. Son tutte quelle che mi è
stato possibile portare quassù. Se ci sarà certezza di passare per
la strada con un carro, nei prossimi giorni arriveranno altri me-
dicinali. E viveri». Zamin sospirò. «E altri agenti stanno arrivan-
do dalle Sine. E soldati dalla città, anche, forse. In seguito. Ma
speriamo di risolvere tutto molto prima. Signor Munari. Vorrei
chiedervi del vino caldo».
Munari era restato a fissarlo. Mentre un uomo andava a rac-
cogliere i medicinali, rivolse un cenno a una donna. «Grazie»,
mormorò poi a Zamin.
L’agente fermò la donna: «Aspettate». Nel silenzio, sganciò
la piccola tazza che pendeva dalla catenina attaccata allo zaino e
gliela consegnò. «Per favore», aggiunse.
«Eh?»
«Versate il vino qui dentro».
Lei cercò il consenso negli occhi di Munari, che assentì.
«Vi ringrazio», disse Zamin.
La donna prese la tazza. Ancora con gli occhi sgranati, si vol-
tò e si avviò verso una porta.
Munari indicò il prete. «Signor Zamin: padre Teffali».
Zamin fece due passi e strinse la mano al prete, che annuì una
volta, le sopracciglia abbassate.
«Il signor chirurgo, Ederle», spiegò poi Munari, indicandolo.
Appunto, pensò Zamin, stringendo la mano anche a lui. Un
medico di campagna, poco più che un tiraossi.
Silenzio.
Zamin mosse le labbra.
«Sapete…» lo anticipò Munari, «tutto ciò che occorre sapere?»
«So».
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«I vostri superiori hanno…»
«Io lavoro per me».
Bartolomeo Munari alzò le sopracciglia.
«Certi signori», iniziò Zamin, «sperano che ritorni con una
spiegazione. Una…».
«Non… Oh, perdonate».
«Una spiegazione. Sperano che io ritorni con una spiegazione
logica. Ma lavoro per me. Non ho superiori».
«Certo. Certo».
«Voglio verificare. E, certo, anch’io desidero curare questa…»
Zamin mosse la mano con un gesto vago. Infezione, stava per
dire.
«È una maledizione», commentò qualcuno nella sala, costrin-
gendo Munari a voltarsi verso di lui. Ad aprire la bocca con il
desiderio di replicare. A tornare a guardare Zamin. Ad abbassa-
re la testa, serrando le labbra.
Zamin replicò: «Le ipotesi del complotto, del sabotaggio,
perfino del macabro scherzo, devono restare fra le possibilità.
Anche se non credo», i suoi occhi di nuovo su Munari, «che sia
importante spiegare cos’accade».
Munari lo fissò, forse attendendo altre parole.
«Non è importante», ribadì Zamin. «Io voglio, come voi,
mandar via i cani. Voglio che non arrivino più, altrimenti che
vengano uccisi».
Le labbra di Munari tremarono. L’uomo sembrò prendere
fiato, quindi decidersi a porre la domanda: «Siamo in quarante-
na. Vero? In pianura credono ci sia qualche cosa d’infetto che
arriva dai boschi».
«Non siete in quarantena», mentì Zamin.
«Vi prego di dirmelo se… L’unico accesso alla contrada è
stato bloccato, un motivo ci dev’essere».
«Munari. Vorrei subito conoscere alcuni fatti».
Munari chiuse la bocca.
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«Voi li avete visti da vicino?»
Un sospiro. «Li ho sentiti. Li abbiamo sentiti e sì, visti. Da
lontano, nel buio. Tutti noi qui li abbiamo visti, ma sono veloci.
Neri». Munari esitò. «Grossi cani neri. Son quassù da tempo,
ma è solo in questi ultimi giorni che… il loro numero sembra
aumentato». Munari scosse la testa. «Che…»
«Due uomini son morti, mi han detto».
«I morti son tre. Un uomo, un bambino e una donna. Una
ragazza: Cristina Dal Prà. È morta che son due giorni. Alcuni di
noi erano fuori dall’edificio, i cani sono arrivati all’improvviso.
Siamo rimasti in pochi, ormai, qui. Molti, che avevano parenti
altrove, hanno preferito andarsene mesi fa. Ora invece noi non
possiamo andarcene. Questo non ha senso: non c’è alcun con-
tagio, qui. Il pericolo arriva dagli alberi».
Zamin si voltò verso il medico. «Dov’è quella Cristina Dal
Prà?» chiese.
Fu Munari a rispondere. «L’abbiamo sepolta, signor Zamin».
L’uomo lo disse con la solita voce bassa, mesta, ma anche con
un tono di sfida. «Ieri. Cos’altro potevamo fare? È passato del
tempo che abbiamo chiesto aiuto. Solo adesso che ci sono i
morti mandano qualcuno. E uno solo».
«Qualcuno si è recato al cimitero negli ultimi giorni?»
«No. L’ultima loro venuta è stata… molto violenta. Nessuno
di noi è più uscito da qui. L’ho impedito. D’allora in poi uscia-
mo solo con un fucile, per dare il cambio a una delle guardie.
Chiunque esce viene accompagnato da uomini armati e i fuochi
ardono nella contrada a ogni ora».
«I cani aggrediscono solo di notte?»
Munari si leccò le labbra. «Nell’ultima settimana sono stati
avvistati anche di giorno».
«Quanti anni aveva la ragazza, l’ultima assalita?»
«Sedici». Munari anticipò la seguente domanda: «Non abbia-
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mo visto altro che una povera ragazza morta. I cani non porta-
no una malattia. Uccidono e basta».
E va bene, pensò Zamin, e decise di arrivare al punto: «Si parla
di croci e altri simboli incisi sui muri della contrada. Salendo, li
ho visti anch’io. E si parla d’un uomo ch’è morto e poi ha ria-
perto gli occhi. In mezzo a ciò che accade oggi ci sono anche
vecchi racconti. È per questo che si vuol capire cosa sta acca-
dendo qui».
«Le croci sono sui muri da sempre. Anche gli altri simboli
sono stati incisi tanto tempo fa».
«Cosa sono?»
«Non lo so. Nessuno qui lo sa. Potrebbero anche non essere
niente. Ed è accaduto che, sì, il giovane ch’è morto ha riaper-
to gli occhi, spaventando tutti, ma è rimasto morto. Come vi
avranno detto».
«Gli indumenti e gli oggetti personali dei tre deceduti dove
sono?
«Che volete dire?»
«Son stati bruciati?»
Munari sorrise, nervoso.
«No. Non ne abbiamo trovato motivo».
«Chi è stato il primo a morire?» chiese Zamin. Si chinò verso
il proprio zaino.
Fu il medico Ederle a rispondere. «Zuliano Mocenigo. D’anni
ventidue. I morti son sepolti vicini, in un punto del cimitero».
«Distanti dalle altre tombe?»
«Sì…»
Zamin estrasse un libercolo. Precauzioni, pensò. Forse, d’istinto.
Non son sicuri di sapere cos’hanno sepolto.
Estrasse anche una boccetta d’inchiostro, un pennino. Nella
sala silenziosa, camminò in direzione di un tavolo. Appoggiò
tutto sopra.
Scrisse:
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campo
Esitò.
3.
Oltre a Ederle, che reggeva una lanterna, i due in testa che lo
accompagnavano si chiamavano Dolfin ― l’uomo che lo ave-
va accolto all’entrata del villaggio ― e Ziviani. Ad aiutare erano
giunti altri, tutti avevano armi da fuoco e lame. I coltelli sferra-
gliavano appesi alle loro vesti. Ognuno teneva sulla spalla una
pala.
Uomini con fucili, frattanto, si disponevano attorno alle mura
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del cimitero. Come voluto da Zamin, la sorveglianza all’entrata
del villaggio veniva rafforzata.
Faceva freddo, verso la metà del mese aveva nevicato anche
da quelle parti, vicino al lago. Continuava a nevicare sulle mon-
tagne a est, invece, più in su, sulle Sine, dove alcuni ipotizzavano
che la corsa selvatica avesse avuto inizio. Medium, stregoni e
altri soldati inviati dall’Ufficio Informazioni del Regio Esercito
stavano indagando là da alcuni giorni.
D’un tratto la faccenda dei cani che terrorizzavano una
contradina di campagna nella quale erano rimaste circa tren-
ta anime, in una sperduta provincia del Regno al confine con
il Tirolo, aveva catturato l’attenzione, perlomeno di una certa
branca dell’esercito: succedeva tutto troppo vicino al confine e,
per quel che si sapeva, quei cani non c’erano. A parte gli abitanti
del campo, nessuno li aveva mai visti.
Il cancello di ferro battuto venne aperto da Ederle, che lo
tenne spalancato per concedere il passaggio agli altri. Zamin si
inoltrò fra i viali di un cimitero modesto, circondato da basse
mura di pietra. Al di là della recinzione c’erano alberi, al di là
ancora altre barricate. Oltre, il buio, e il profilo dei monti sotto
un cielo di nubi.
Nel camposanto c’erano così poche pietre tombali e lapidi,
che sulle prime il luogo si sarebbe potuto scambiare per una col-
linetta come altre. I rialzi del terreno, dove sorgevano le sepoltu-
re più antiche, erano anonimi tumuli ricoperti di nevischio.
«Di là», fece l’uomo di nome Ziviani. Si guardava intorno.
Tre tombe, notò Zamin da lontano. Allineate come se una stra-
na morte avesse imparentato chi stava sepolto là sotto. Due gio-
vani e un bambino: non c’erano stati legami di parentela fra loro,
ma sarebbe potuta essere una piccola famiglia.
Gli uomini sistemarono delle lanterne per illuminare la zona
degli scavi.
In fondo al cimitero, una cappelletta per le messe.
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Zamin si avvicinò alla lanterna retta dal medico, controllò sul
proprio libercolo, leccò l’indice e sfogliò le pagine con gli appunti
più recenti. «Mocenigo», lesse. «Il primo. Dov’è la tomba?»
«Mostratela», ordinò il medico ai due uomini in testa.
«È questa, signore», rispose Dolfin, indicando la prima sepol-
tura a sinistra.
Zamin annuì. Alzò la testa e guardò per un momento le nubi
nere.
Mentre gli uomini della contrada cominciavano a scavare, aprì
lo zaino ed estrasse i guanti, che infilò in tasca. Sbatté inavverti-
tamente il piede sullo zaino, provocando un rumore metallico.
«Potete dirmi», domandò Ederle, un’occhiata fugace sullo
zaino, «che intenzioni avete?»
«Voglio vederli».
«Disseppellirli, per qual motivo? Non li vorrete vedere tutti
e tre».
«Cerco tracce. Se vederli tutti, deciderò poi».
«Volevo solo… Allora è vero ciò che si dice. Che il rischio
è un contagio e che la contrada è in quarantena. Perché non lo
dite?»
«Venite con me. Fatemi luce».
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psm, per sua memoria.
resurrectis.
Date di nascita e di morte.
«Questa contrada ormai da tempo sembra maledetta», disse
Ederle. «Forse lo era da prima dell’arrivo dei cani neri. Se non
c’entrano loro, son altre disgrazie e miserie. Sembra d’essere in
una prigione».
«Le prigioni sono un’altra cosa».
«I sostentamenti prima o poi finiranno, se non arrivano aiuti.
Abbiamo scorte, ma non infinite. Questa storia della quarante-
na… non ditemi ancora che non c’è una quarantena, so bene
che c’è… fa paura. Non sappiamo nemmeno da quanto tempo
va avanti. Con la neve nessuno di noi era andato giù, negli ultimi
tempi. Mi chiedo come avete fatto voi a venire fin quassù. I cani
neri sono visti anche di giorno».
Zamin si fermò. Non vedeva niente nel cimitero. Niente d’in-
teressante, orme, tracce. Fece un cenno e tornò alle tre tombe.
Udì il medico, alle sue spalle, che sospirava.
Solo ora notò l’epitaffio su una delle lapidi e si avvicinò.
Diceva: corona senum filii filiorum et gloria filiorum patres eo-
rum.
Si accigliò. I figli dei figli sono l’orgoglio dei vecchi e… ?
Gloria dei figli sono i propri padri? No, non era così…
Continuando a pensarci, estrasse di nuovo dallo zaino la boc-
cetta d’inchiostro, che appoggiò per terra. In piedi, voltò la pa-
gina del libercolo e scrisse altri appunti.
cimitero
Esitò.
30
Caccia Selvaggia
di Dario Spada
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leggende presenti in tutta Europa, anche in Italia, e che a loro
volta derivano dal mito, ben più antico, della Caccia Selvaggia. A
questa immagine di belve demoniache che correvano nella not-
te ho provato a mescolare diverse cose. Anzitutto ho preferito
un'epoca non medievale. Poi mi sono chiesto cosa sarebbe acca-
duto se qualcuno o più di qualcuno avesse provato a contrasta-
re certe maledizioni, allora sulle prime mi sono immaginato un
personaggio simile al Pifferaio di Hamelin. Ma visto che la mia
non è una fiaba, e la magia all’interno del libro c’è, ma è utiliz-
zata in modo particolare, ho armato il personaggio in questione
di un più utile fucile, oltre che di certe conoscenze esoteriche.
Quindi ho pensato ad altri strani individui, indagatori che sa-
rebbero potuti assomigliare a dei “Men in black” ottocenteschi,
italiani. Non è tutto qui, ma sono partito più o meno da queste
cose.
Dico che è una struttura strana, è vero. L'idea alla base mi piace-
va e ci ho provato. Di solito, ovviamente, c'è la costruzione dello
scheletro della storia, poi la prima stesura, insomma, le solite
cose che fanno tutti quelli che scrivono. In questo caso, tuttavia,
sono andato un po' di più a istinto.
Questo non lo so, per ora preferisco non fare programmi troppo
in là nel tempo. Sono molto contento che Zeferina, in generale,
abbia incuriosito e sia piaciuta. Ci sarebbero tante altre cose da
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dire su quel personaggio, ma vedremo. Per ora ci sono due versio-
ni diverse fra loro e Fine, un racconto spin-off pubblicato l'anno
scorso sulla rivista Inchiostro. Una piccola saga, insomma.
42
I cani infernali
di Riccardo Coltri
44
L’uomo-cane del duomo di Verona
di Daniele Bonfanti
46
Se ti è piaciuta questa demo trovi
La corsa selvatica
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Indice della demo
7 La corsa selvatica
31 Caccia Selvaggia
di Dario Spada
43 I cani infernali
di Riccardo Coltri
25 Soglia
35 Nidificazione
43 Polvere